È NATO A BARI-CARBONARA NEL1973, DOVE RISIEDE. SI OCCUPA DI CONSERVAZIONE DELLA NATURA, DEL PAESAGGIO E DELLA BIODIVERSITÀ, IN SEGUITO AL CONSEGUIMENTO DI UNA LAUREA IN SCIENZE FORESTALI E DI UN DOTTORATO DI RICERCA IN STUDIO E PROGETTAZIONE DEL PAESAGGIO. È AUTORE DI NUMEROSE PUBBLICAZIONI SCIENTIFICHE, SAGGI, TRA CUI PATRIARCHI VERDI DELLA CONCA DI BARI (CLAUDIO GRENZI EDITORE, 2016) E L’ULTIMO PARADISO - NATURA E PAESAGGIO DEL TORRENTE PICONE (ARACNE EDITRICE, 2017), NONCHÉ DI ARTICOLI PUBBLICATI SU TESTATE ONLINE E TESTATE NAZIONALI. TRA I CONTRIBUTI IN LIBRI EDITI SI SEGNALA LA REALIZZAZIONE DELLE SCHEDE DELLA REGIONE BASILICATA IN ITALIAN HISTORICAL RURAL LANDSCAPE (A CURA DI M. AGNOLETTI, ED. SPRINGER), DA CUI SONO STATI RICAVATI I QUATTRO PAESAGGI RURALI D’INTERESSE STORICO ATTUALMENTE CENSITI PER IL TERRITORIO LUCANO. HA PUBBLICATO I TESTI DI NARRATIVA IL LIMONIO DI PUNTA ROSSA (EDIZIONI CREATIVA), LA NOSTRA SPIAGGIA (EDIZIONI CREATIVA), SPALLA DI MURGIA (EDIZIONI CREATIVA). IL SUO RACCONTO UN RICORDO PER TORNARE A VIVERE HA OTTENUTO LA MENZIONE D’ONORE NELL’AMBITO DEL PREMIO LETTERARIO VITULIVARIA (2017), E LA BREVE COMPOSIZIONE SULL’AURELIA A TESTA IN GIÙ (ISPIRATO A UN CELEBRE BRANO DI PINO DANIELE) SI È CLASSIFICATA AL SECONDO POSTO NELLA SEZIONE PROSA DEL CONCORSO LETTERARIO IL ROVO (2017). NEL 2020 È USCITO UN’INCREDIBILE ESTATE. DON’T GIVE UP (ALTRIMEDIA EDIZIONI).
Un inguaribile romantico, un amante della natura, un idealista… Sono questi alcuni dei protagonisti della raccolta di racconti di Rocco Carella Vademecum per credere ancora, piccoli scorci di un’umanità gentile, ancora non sopraffatta dalla frenesia di oggi. I sentimenti e i valori accompagnano storie delicate che si svolgono prevalentemente in Puglia, terra dell’autore. Quello di Carella è uno sguardo libero da condizionamenti che cerca di trovare un senso ai chiaroscuri della società contemporanea.
ISBN
ROCCO CARELLA VADEMECUM PER CREDERE ANCORA
ROCCO CARELLA
978-88-6960-135-4
9 788869 601354
€ 16,00
ROCCO CARELLA
VADEMECUM PER CREDERE ANCORA E ALTRI RACCONTI
VADEMECUM PER CREDERE ANCORA HO COMPRESO ALLORA CHE IL VERO CARISMA È QUELLO CHE PUOI TROVARE IN DUE GIOVANI ITALIANI, ENTRAMBI PRECARI, CON DEI LAVORI DI MERDA, SEMPRE PIÙ VESSATI, CHE PROVANO A TIRARE AVANTI CON ONESTÀ, SENZA SCENDERE A COMPROMESSI, PAGANDO LE TASSE FINO ALL’ULTIMO CENTESIMO, E MAGARI ANCHE PROVANDO A FARE UN FIGLIO, IN UN PAESE SEMPRE PIÙ VOCATO ALLA DISCRIMINAZIONE E A UN RITORNO NEANCHE TANTO CELATO ALLE CASTE. HO CAPITO COSÌ CHE IL VERO CARISMA LO TROVI NELLE PERSONE, NON NEI PERSONAGGI E FANTOCCI DI UNA QUALSIVOGLIA FAZIONE. HO CAPITO COSÌ CHE LE VERE BATTAGLIE SONO SOLO QUELLE CHE FAI QUANDO DEVI ANDARE AVANTI DA SOLO E NESSUNO TI PARA IL CULO, QUANDO MAGARI, GIÀ ALLO STREMO DELLE FORZE, TROVI ANCORA LA FORZA PER NON VENDERTI, PER NON RINUNCIARE ALLA TUA DIGNITÀ, ALL’ONESTÀ, ALLA LEALTÀ, AL TUO PENSIERO.
La baia di Punta Rossa Dietro quel costone aspro e imponente che segnava la fine della catena costiera settentrionale si stagliava la baia di Punta Rossa. Una spiaggia con una sabbia così bianca e fine non esisteva in tutto il Mediterraneo. Ne avevo visitate di baie, qua e là in giro per il Mare Nostrum, ero stato a Lefkada in quella spiaggia difficile da raggiungere che è ritenuta la più bella di tutta la Grecia, in Sicilia nei suoi arcipelaghi e in quella caletta a Pantelleria dove si trova quello specchio d’acqua sospeso tra le rocce laviche e i dammusi, in quell’arenile dell’Elba con quel nome impronunciabile, sulle spiagge più inaccessibili dell’Ile de Beuté, sulla costa provenzale, in Spagna, dove amavo tornare in quel luogo della Comunidad Valenciana regno di acquitrini e immensi stagni retrodunali, in quella baia nascosta dal verde dei pini d’Aleppo in Croazia, in Montenegro nella parte più impervia di quell’insolito fiordo mediterraneo, in Turchia su quella spiaggia resa ancor più celebre dalla presenza di un relitto lì arenatosi, e poi ancora in Nord Africa… Ma nessuno di questi luoghi, di pur straordinaria bellezza, reggeva il confronto con Punta Rossa. Gli abitanti più anziani andavano fieri nel raccontare un aneddoto che testimoniava chiaramente la bellezza fuori dal comune di quel luogo. Si narrava infatti che, alcuni secoli or sono, sbarcarono nella baia, appena prima dell’alba, pirati venuti dall’Oriente per fare razzia e saccheggiare Punta Rossa ma al sorgere del sole, dinanzi alla bellezza disarmante di quell’ameno luogo, non potettero che desistere dall’impresa, rimanendo come folgorati al cospetto di tale meraviglia. Oltre alla bellezza della sua costa, le acque di questo recondito angolo del Mediterraneo erano caratterizzate da un’insolita tonalità di blu, prossima al turchese, dovuta a una magica alchimia determinata dalla presenza di risorgive, di rare alghe marine e di quella roccia particolarmente friabile che aveva generato l’incantevole arenile. 7
Tutta questa bellezza trovava poi la sua consacrazione al calar del sole: per cause di natura geologica e tettonica, il costone che segnava a nord l’inizio della baia non era composto esclusivamente di carbonato di calcio e così, al tramonto, quell’aspro blocco di roccia si tingeva di un rosso caldo e vivo che toglieva il fiato sempre, anche dopo averlo visto un’infinità di volte. Quell’insolito e affascinante fenomeno naturale, che aveva dato il nome alla baia e al paesino, era un qualcosa di davvero unico. Mi era capitato di contemplare una cosa simile solo in alcune catene dolomitiche, ma vedere tutto ciò contornato da una spiaggia bianca di sabbia finissima che continuava in un mare turchese rendeva quel luogo, oltre che stupendo, magico. Sembrava che in quella sperduta baia si concentrassero tutta la bellezza e l’armonia, e che non ci fosse posto per le brutture che angustiano il nostro vecchio mondo. Come se non bastasse, l’intera baia dal costone a nord sino al paesino di Punta Rossa, che sorgeva al margine meridionale dell’insenatura, era avvolta da una folta e lussureggiante foresta sempreverde. Qui crescevano rigogliosi il leccio, il viburno, l’alaterno, la fillirea, la salsapariglia, la cornetta dondolina, lo sparzio villoso, il cisto rosso e il cisto di Montpellier, e si raccontava che la foresta conservasse delle specie di flora rarissime presenti solo qui, e in nessun’altra parte del Mediterraneo. Punta Rossa era un paesino di circa settecento anime, perlopiù anziani. I giovani erano quasi tutti partiti, a eccezione di qualche ragazzo che aveva deciso di continuare la tradizione dei propri padri e diventare pescatore, non cedendo così alle lusinghe e al fascino della moderna società, con le luccicanti città e metropoli che erano dall’altra parte del mare, a poche ore di navigazione, ma che sembravano così lontane da questo angolo segreto di Mediterraneo. Era un tipico paesino di pescatori con il suo caratteristico porticciolo, le sue viuzze tortuose e accidentate, le sue case basse in bianco di calce, con la sua gente dal carattere e dal temperamento tipicamente mediterraneo. Gli abitanti di Punta Rossa, in particolare quelli più avanti con l’età, erano soliti adoperare oltre che la lingua del posto, un vecchio dialetto slavo. Intorno alla metà del 1700, in seguito a una grave carestia che colpì la Dalmazia, spinti dalla fame e dalla disperazione, alcune decine di migranti a bordo di piccole imbarcazioni rag8
giunsero la baia di Punta Rossa dove riuscirono a trarsi in salvo. Questa presenza slava si osservava chiaramente talvolta in alcuni degli abitanti di Punta Rossa, i quali presentavano lineamenti marcati a cui si abbinavano fisici imponenti e statuari, tipici della gente dei Balcani. Nelle donne era più facile scorgere la differenza tra le due stirpi. La bellezza mediterranea e la bellezza slava sono due cose ben distinte, e pur non sapendo scegliere obiettivamente tra le due, almeno posso con certezza affermare di essere in grado di distinguere una donna slava da una donna mediterranea. Alcune donne e ragazze di Punta Rossa avevano gambe lunghissime e un portamento elegante, pelle diafana, capelli biondi o castano chiaro, occhi chiarissimi, rappresentando così la più evidente testimonianza di quanto accadde in quel luogo poco meno di trecento anni prima. Una mescolanza che si notava anche nella cucina, e poco sorprendeva allora come il piatto tipico di Punta Rossa fosse l’anguilla marinata accompagnata da prosciutto crudo e formaggio di pecora. Pescatori di frodo Come arrivai a Punta Rossa fu solo frutto di una serie di coincidenze. In quel periodo volevo scappare via, lontano – dalla mia vita, dai miei fallimenti, da tutto. Dai ricordi che per anni avevo pensato di soffocare e che, di colpo, erano tornati a galla più vivi che mai. Non volevo riscattare nulla, non volevo rinnegare nulla, anzi volevo per la prima volta nella mia vita non far più tutto questo. Avevo capito, ormai adulto, che la mia vita era stata un tentativo, infantile e ridicolo, di riempire dei vuoti che erano andati amplificandosi dentro di me, non seguendo ciò che davvero mi faceva sentire vivo. Una volta compreso ciò, un senso continuo di oppressione iniziò a stritolarmi in una morsa da cui non riuscivo più a liberarmi. Ero in balia delle onde, mi sentivo perso e solo; lo ero sempre stato, ma ora finalmente me ne rendevo conto. Tutti i miei alibi si erano dissolti e le mie illusioni crollate, e allora ogni cosa era diventata più difficile. In quel periodo buio presi a frequentare un baretto alla fine del lungomare, un postaccio pieno di pescatori di frodo, contrabbandieri, avanzi di galera e derelitti di ogni sorta. Solo là mi sentivo bene. In fondo non ero poi tanto diverso dai ceffi che lo frequentavano, ero 9
anch’io un fallito, ma almeno là non ero costretto a fingere di stare bene, di essere vincente e contento della mia vita. Un pomeriggio, mentre ero seduto al mio solito tavolino con l’immancabile bicchiere del mio solito distillato preferito, udii due loschi individui, che avevano l’aria di essere dei pescatori di frodo, parlare con toni entusiastici di un fantomatico posto di cui ignoravo l’esistenza: Punta Rossa. Il contenuto di quella conversazione, e l’enfasi mostrata da quei due balordi nel raccontare il tutto, m’incuriosì terribilmente. Senza dare nell’occhio, fingendo di concentrarmi sul mio bicchiere, prestai molta attenzione a quello che dicevano. Parlavano di una baia bellissima dalle acque blu, di una tonalità mai vista, di una sabbia chiarissima e di una roccia che si tingeva di rosso al tramonto. Non ebbi dubbi, quello era il mio posto. Se davvero esisteva un posto così, avrei fatto di tutto per raggiungerlo. Per un mese e oltre non dormii se non qualche ora scarsa, ero turbato da un cambiamento che avrei voluto fare da troppo tempo. Durante quelle notti, mi giravo e rigiravo inquieto nel mio letto che da qualche anno oramai non condividevo più con mia moglie, pensando a quando partire, a come fare, tentando d’immaginare Punta Rossa, e soprattutto la mia nuova vita. Mia moglie Francesca, mia moglie, era una donna molto bella ed elegante. Apparteneva a una delle famiglie più in vista della città. Me ne innamorai – almeno così credetti – rapito dal suo fascino, dalla sua bellezza, dalla sua eloquenza, dalla sua cultura. Giovanissima, era diventata professore ordinario ed era apprezzata e stimata da tutti, in particolare dalla gente che conta. Non so bene cosa la fece innamorare di me all’epoca ma vent’anni fa, quando ne avevo trenta, molte ragazze mi correvano dietro e mi consideravano un buon partito, un uomo da sposare. Dopo un anno – dopo avermi introdotto nei giri della città bene, della gente che conta – ci sposammo in giugno in quella chiesetta vicino al porticciolo di quel piccolo borgo di pescatori, sorto a contorno della vecchia torre di avvistamento a sud della città. Francesca avrebbe desiderato sposarsi nella basilica della città vecchia, come generalmente toccava all’élite urbana, ma io sentivo di dovermi spo10
sare là, in quel luogo dove, da ragazzo, con i miei amici della giovinezza ho trascorso molto più tempo che non sui libri. Forse, fu quella l’ultima volta che riuscii a fare quello che davvero sentivo di voler fare. Una volta sposato non provai più nemmeno a far affiorare i miei desideri più profondi ed entrai come in una sorta di torpore anestetizzante. Tutto sommato i primi anni di matrimonio passarono indenni, in certi momenti addirittura convincendomi di stare bene. Ma ben presto iniziai a odiare il mondo borghese di Francesca, così stereotipato e conformato, stucchevole e narcisista. Un mondo nel quale lei invece sguazzava felice, e dove alimentava le sue smanie di potere e la sua smisurata boria. Man mano capii che avevo sbagliato tutto, avevo gettato la mia vita inseguendo un’idea di benessere e di status sociale, pagando però un prezzo troppo alto. Avevo perso i miei sogni e con essi la parte migliore di me, quella che da ragazzo mi faceva sentire vero, vivo fino in fondo. Quel mondo ovattato e prevedibile, in cui m’ero andato a cacciare da solo, aveva inibito e distrutto ogni mia passione e pulsione all’altare di lustrini, noiosissime serate mondane, convegni a cui partecipava sempre la stessa gente, aperitivi, vacanze forzate ed esagerate necessarie per farsi belli al ritorno a settembre, e poter così confermare per un altro anno la presenza nei “giri giusti”. Un mondo fatto di donne bellissime e seducenti, apparentemente donne modello, spesso in realtà delle gran bagasce, di uomini non intelligenti, né particolarmente belli o interessanti ma in compenso scaltri, e molto, molto ricchi e potenti. Come ero finito in quel dannato tunnel senza fondo? Dove era finito quello slancio che tutti mi riconoscevano da ragazzo? E dov’era l’amore, che era stato il volano della mia esistenza nella mia gioventù? Non potevo continuare così. Dovevo scappare. Sì, ma dove? Finalmente lo scoprii grazie a quei due tipacci, a quei pescatori di frodo. La cena prima della partenza Quella sera attesi Francesca per la cena come facevo sempre, dato che non rientrava mai prima delle nove per i suoi innumerevoli impe11
gni, “più o meno” lavorativi. Avevo cucinato io, come ormai ero solito fare da quando Francesca aveva cacciato in malo modo l’ultima filippina, dandole della ladra. Lei non era in grado di cuocere neanche due uova al tegamino, e comunque a me non dispiaceva stare ai fornelli, cosa che era motivo di ilarità nel giro degli amici di Francesca. Poco dopo le nove, Francesca arrivò e riprodusse da copione quell’odioso rituale di convenevoli. «Come stai caro?» «Bene, e tu? Com’è andato il lavoro?» «Benissimo. E a te caro?» «Bene.» Dopo aver recitato ancora una volta quella assurda farsa di normalità, consumammo la nostra cena, come al solito in silenzio e senza guardarci neanche una volta, per fortuna accompagnati da un ottimo Primitivo, nel quale trovavo soccorso a quell’asfissia opprimente. Dopo aver visto un po’ di TV, Francesca completò il suo rituale indossando la sua sontuosa vestaglia e quelle pantofole piene di piumette, che a dir poco detestavo, e si recò nella sua stanza senza neanche dirmi buonanotte. Da circa due anni non facevamo più l’amore, ma a lei stava bene così, a lei interessava solamente che io continuassi a interpretare il mio ruolo davanti ai suoi amici, nei giri della città che conta. Lei, la santa, nel frattempo si era fatta un amante: aveva avuto il coraggio di mettersi con quel viscido del rettore della sua facoltà, Remo Pidocchi, un uomo volgare e rozzo che non ho mai capito come avesse potuto rivestire una tale carica. Il Pidocchi era un signore – si fa per dire – sulla sessantina, tarchiato e piuttosto basso, con un collo taurino e pochi capelli, aveva anche un orribile riporto, che nelle giornate ventose sventolava sul capo a mo’ di bandiera. Era avido, viscido e sembrava un porco – con tutto il rispetto dovuto per la specie Sus scrofa domesticus –, un po’ per la sua fisicità un po’ per i concetti che esprimeva. Era noto, nonché evidente in modo imbarazzante, che fosse molto “sensibile” al fascino femminile, e si diceva anche fosse un assiduo frequentatore di escort di alto bordo. Gli piaceva pagare le donne, in tal modo si convinceva che tutto avesse un prezzo e che poteva comprare e avere qualsiasi cosa. Per me era solo un mezzo maniaco, sfigato, ma nel suo giro, nei giri della città che conta, era visto come 12
un vincente. Io invece non riuscivo che a provare nei suoi confronti un misto di schifo, fastidio, pena, insomma non volevo avere nulla da spartire con Remo Pidocchi, e nonostante ciò, il fatto che mia moglie andasse con quell’essere ignobile non mi disturbava per niente. Mi ero innamorato, o meglio avevo creduto d’innamorarmi, oltre che della sua eleganza e bellezza, soprattutto della sua gentilezza, della sua apparente dolcezza, ma poi avevo imparato a capire che tutto questo era solo forma, non era sostanza, non era la sua vera essenza. Queste erano le armi che Francesca aveva affinato nel tempo per ottenere ciò che voleva, e allora era brava ad apparire ciò che non era pur di raggiungere quello che aveva in mente, riuscendo sempre nel suo intento. Quando lo capii era troppo tardi, la frittata era fatta, e io oramai rinchiuso in quella gabbia di perbenismo, facciata, benessere apparente. Cosa avrei dato per tornare ai tempi delle battute di pesca con i miei amici un po’ malandrini della giovinezza, delle partite di pallone improvvisate su piazzette ricoperte di asfalto, dove due blocchi di tufo delimitavano la porta e, se cascavi per terra, le cicatrici sulle ginocchia ci mettevano un anno per rimarginarsi. Ma quei tempi erano ormai andati, irrimediabilmente, e io non ero più lo stesso di allora. Lina In quel periodo buio e terribile della mia vita avevo preso insistentemente a ripensare a Lina, una ragazza che avevo incontrato molti anni prima, il mio primo amore, il mio unico amore. Lina era figlia di un grosso armatore di Lubecca e di una signora scandinava originaria di un piccolo paesino di pescatori in un qualche sperduto fiordo norvegese. I suoi genitori si erano separati quando era appena adolescente, e lei aveva scelto di vivere col padre, sul suo grosso e moderno peschereccio d’altura, sia perché litigava sempre con la madre – per il troppo bene diceva lei – sia per seguire il suo grande amore, il mare. Nell’inverno del 1977, la Waterfront, l’imbarcazione del papà di Lina, ebbe seri problemi di manutenzione e fu costretta a fermarsi mentre risaliva la costa adriatica; per tale motivo quel peschereccio d’altura, fabbricato nei cantieri di quella che fu la regina della Lega 13
Anseatica, stazionò per tutto l’inverno nella grossa area portuale della mia città, che è poi uno dei porti più importanti di quel tratto di Mediterraneo. All’epoca avevo ventidue anni, ero un giovane ricco di sogni e di passioni. Ricordo benissimo il momento in cui vidi Lina per la prima volta: stavo camminando sul lungomare quando, voltandomi verso il vecchio castello normanno, vanto della nostra città, davanti agli uffici della Capitaneria di fronte all’ingresso del porto, vidi una creatura stupenda. Avvertii subito un tuffo al cuore e mi sembrò di morire al punto che, come paralizzato dall’emozione, rimasi diversi istanti in contemplazione nell’ammirare tale splendore. Non avevo mai provato nulla di simile prima, ero stato già con delle ragazze, alcune belle e dolci ma, alla fine, quello con l’altro sesso era stato per me più che altro un gioco fino ad allora. Lina aveva lunghi capelli lisci e morbidi, di un biondo più lucente dell’oro, era alta e dotata di una figura slanciata ed elegante, ma di un’eleganza naturale non artefatta. Era bellissima, era tutto. Ricordo ancora nitidamente com’era vestita quel giorno: aveva un paio di jeans chiari, piuttosto consunti, e un giubbetto verde mare, tonalità che in alcune condizioni di luce assumeva l’iride dei suoi occhi. Sembrava una principessa di qualche remoto regno del Nord, in grado di sprigionare una luce tutt’attorno. In quel momento, nell’ammirare i suoi capelli, che fluttuavano leggeri e luminosi sotto la spinta della brezza di maestrale proveniente dall’imboccatura del porto, compresi per la prima volta davvero il senso della parola libertà. Da allora, ogni giorno ero lì, davanti agli uffici della Capitaneria. Vi trascorrevo l’intera mattinata e vi tornavo anche nel pomeriggio, nella speranza che la misteriosa ragazza si materializzasse e che non fosse stato solo un sogno. Ma nulla. Dopo due settimane di posta serrata, quando avevo quasi perso le speranze, mentre stazionavo nell’edicola di fianco agli uffici della Capitaneria, che avevo eletto a punto ideale di osservazione, sentii alle mie spalle una voce femminile che, con accento straniero, in un italiano appena abbozzato misto all’inglese, chiedeva un quotidiano. Mi voltai di colpo e il mio sogno era lì, in carne e ossa davanti a me, più bella che mai, radiosa e leggera come una farfalla appena uscita dal bozzolo. Sapeva di primavera, di fresco, di tutte le cose più belle e vere che c’erano nel mondo. Ci fissammo negli occhi per un 14
attimo che mi sembrò eterno. Non appartenevo più a questo mondo, mentre lei mi guardava con uno sguardo fatto di dolcezza, voglia di vivere e voglia di scoperta. Nel frattempo il giornalaio, che non aveva inteso bene la richiesta, chiese a Lina con fare piuttosto brusco cosa volesse, facendomi tornare in questo mondo. Colsi la palla al balzo e, sfoggiando il mio inglese, le dissi sorridendo: «I will ask him to give you the newspaper, but you will pay!»1 Lina apprezzò il mio gesto e la battuta, e mi rispose: «Okay!», sorridendomi a sua volta. Ero già completamente cotto. Non avevo mai visto nessuno sorridere in un modo così armonioso, quel sorriso sembrava voler affermare che in lei ci fosse solo amore e nessuna traccia di meschinità, e poi ebbi poi la fortuna di constatare come tutto questo rispondesse al vero. Comprammo il giornale e mi presentai, lei ricambiò la presentazione spiegandomi come si trovasse lì, e che sarebbe rimasta almeno fino all’estate, data l’entità del danno subito dalla Waterfront. Era una splendida giornata di fine dicembre, il maestrale sferzava il lungomare e i nostri volti. Non ero mai stato così felice come allora, non mi ero mai sentito così vivo prima di allora. Lina aveva vent’anni e mi disse essere originaria di un paesino di pescatori della Norvegia settentrionale, dove ancora viveva la madre. Mi chiese tante cose, della mia vita, ma in un modo dolce e con una curiosità spontanea, pulita, che sapeva solo di affetto e vero interesse, e che mai avevo incontrato prima negli esseri umani da me frequentati. Era attenta quando le parlavo, e sembrava felice e partecipe mentre io stentavo a credere in tutto ciò: non mi sembrava possibile che quel sogno bellissimo stesse capitando proprio a me. Feci un pezzo di strada insieme a lei e mi sembrò di volare, non so quanto camminammo né dove fossimo diretti. Parlammo di tante cose, di argomenti tra i più disparati, ed esternai i miei pensieri come mai avevo fatto prima, al punto talvolta di provare una sorta di meraviglia per quello che riuscivo a dire. Del resto, avevo sempre tenuto ogni cosa dentro di me, filtrando il mio pensiero come attraverso un setaccio che dava forma a una serie infinita di imposizioni esterne. Ora, grazie a Lina, il mio vero io, quel-
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«Gli chiederò di darti il quotidiano, però paghi te!»
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lo che non riuscivo mai a tirare fuori, era venuto a galla. Mi sentivo leggero e appagato, realizzato, fiero, mi sentivo più grande. A un tratto, Lina si fermò e, guardandomi con uno sguardo pieno di dolcezza, disse: «Now I have to go!»2 Ero incantato, sentivo già di amarla, non riuscivo a dire niente, il cuore mi batteva troppo forte… Dopo una breve pausa, accarezzandomi il viso aggiunse: «I saw that you were looking at me when I was near the harbor office. You are beautiful and your soul is still more... you deserve the best from life».3 Non capivo più nulla, le piacevo e per di più quell’angelo mi diceva delle parole così dolci e in un modo così gratuito, andando a toccare la parte più intima e segreta di me, quella che tenevo sempre ben nascosta perché troppo fragile. Nessuno mai mi aveva parlato così, nessuno mai mi aveva guardato così, nessuno mai mi aveva fatto sentire così, non avevo mai provato nulla di così bello. Lina mi salutò e prese ad allontanarsi verso l’entrata del porto. Non riuscii neanche a dirle grazie per quello che stava tentando di fare, salvare la mia vita. Lina, in pochi attimi, non so come fosse stato possibile, aveva capito tutto di me, aveva colto le mie cose belle ma anche la mia fragilità, la mia arrendevolezza. Aveva intuito che la mia felicità apparente era solo una maschera, aveva compreso che sarei stato felice, davvero, solo quando avrei imparato finalmente a non vergognarmi della parte di me che tenevo nascosta. Il giorno dopo ero davanti all’edicola, vicino la Capitaneria, sapevo che Lina sarebbe tornata, anche se non mi aveva detto nulla a riguardo, e finalmente arrivò. Appena giunse non le dissi niente, la guardai profondamente e le presi la mano, lei me la strinse forte. Ci baciammo perdutamente davanti agli occhi increduli di Nicola, l’edicolante, che suo malgrado era stato costretto alla mia presenza in quei giorni di attesa, durante i quali non credo avesse maturato una grossa considerazione di me.
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«Ora devo andare!»
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«Ho visto che mi stavi guardando quando ero vicina alla Capitaneria. Sei bello e la tua anima lo è ancora di più... ti meriti il meglio dalla vita.»
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