La comunità competente

Page 1

..."se si vuole conservare l’identità e mantenere in vita le piccole comunità, occorre aiutare i cittadini ad esprimersi, a rinforzare il proprio sé".

la comunità competente un puzzle ricomposto

anna d’andretta

Annamaria D’Andretta nasce a Venosa (Potenza) il 25/04/1961, dove ha conseguito la maturità classica e il diploma di assistente sociale. S'avvia nel mondo del lavoro presso la Regione Basilicata, come centralinista telefonico non vedente, si trasferisce a Potenza. Si introduce nel mondo associativo dell’Unione Italiana dei Ciechi e contribuisce alla nascita dell’associazione “Comitato ’80 contro l’emarginazione”. Consegue la laurea in Lettere e il diploma di Mediazione Familiare. Dal 2001 svolge l’attività di assistente sociale presso alcuni comuni della collina materana. Attualmente è inserita presso il Dipartimento Salute, Sicurezza e Solidarietà Sociale, Servizi alla persona e alla comunità. Collabora occasionalmente con il CSV Basilicata e coltiva la sua passione per la scrittura. Vive la sua limitazione visiva con una certa disinvoltura; cosa che le ha dato pro e contro.

la comunità competente - un puzzle ricomposto

anna d’andretta

ISBN

8

i saggisti


INTRODUZIONE L’esperienza in qualità di assistente sociale in alcuni paesi della collina materana (Accettura con il sindaco Di Milta, Aliano e in particolare Cirigliano, Gorgoglione e Craco) mi ha portato a riflettere sulla vita sociale dei cittadini. In queste piccole comunità, la vita fluisce seguendo il ritmo dei bisogni naturali, e gli eventi e gli avvenimenti sono vissuti quasi come imposti, essi non sono come il risultato di azioni, comportamenti e relazioni. È una vita segnata dalla semplicità, dove bisogna sapersi accontentare, mentre lo sguardo è però rivolto all’altrui persona. I giovani, in questi contesti, avvertono l’assenza di luoghi di incontro e di spazi idonei alle loro esigenze e, soprattutto, di lavoro: quelli più acculturati tentano la fuga, mentre gli altri si adagiano tra i bar e la strada. La sofferenza e il disagio caratterizzano moltissime famiglie, ma la richiesta d’aiuto difficilmente viene esplicitata. Vivere la sofferenza, le rinunce e le negazioni è quasi naturale; vivere e ricercare l’agio è quasi una condizione straordinaria o di pochi. Tutti si conoscono e si riconoscono, quasi tutti si incontrano e si scambiano un saluto, ma le relazioni vere sono circoscritte alla famiglia, nella quale tutto può accadere (violenza, abusi e condivisioni) mentre i vicini ascoltano, ma non “aiutano”. Dal racconto degli anziani risulta invece che un tempo vi era mutuo aiuto, collaborazione spontanea e autentica, amore verso l’altro, sostegno reciproco non solo tra i membri della famiglia ma anche nei confronti dei vicini, dei conoscenti e di chi ne aveva bisogno; l’accoglienza dell’altrui persona era dedicata anche a chi proveniva da fuori, da altri luoghi. Queste piccole comunità sono collocate prevalentemente tra boschi e monti, dove natura e cultura si fondono e a volte si confondono. Come i boschi assicurano stabilità al nostro suolo molto franoso, fra l’altro 3


anche per la ricchezza di acqua, così le persone che vivono in queste realtà ricercano la stabilità che le ha sempre caratterizzate. I boschi rappresentano inoltre il luogo in cui è possibile perdersi e disperdersi a causa dei percorsi tortuosi e della fitta vegetazione, proprio come è difficile per un esterno cogliere e leggere i segni, i simboli e i significati delle dinamiche interpersonali. Eppure chi giunge ne è attratto e viene ben accolto fino a quando questi non prova a pensare di modificare lo status quo. Questo ci fa pensare alla paura dello sconosciuto e all’insicurezza del nuovo: si preferisce conservare la sofferenza e il disagio. Ma non sperimentare altro. I boschi invece sono capaci di denunciare la sofferenza attraverso la morte delle piante e la scomparsa degli animali che li vivono abitualmente; d’esprimere la loro fantasia attraverso l’“incomprensibile” nascita di fiori e piante; di realizzare scenari incantati attraverso l’emanazione di profumi tipici e l’effetto ottico che creano. Nonostante semplicità, umiltà ed essenzialità connotano tuttora i cittadini delle piccole comunità, questi sono sempre condizionati dal pensiero collettivo che rappresenta il punto debole, l’azione frenante allo sviluppo del pensiero creativo e responsabile e alla libertà di chiedere aiuto. Scoprire la trasformazione subita, mi ha notevolmente sorpresa e incuriosita, al punto da spingermi a cercare di ritrovare le vere caratteristiche di noi lucani e a far riemergere le risorse e le potenzialità interne alle piccole comunità. Se si vuole conservare l’identità e mantenere in vita le piccole comunità, occorre aiutare i cittadini ad esprimersi, a rinforzare il proprio sé, a ricercare risposte ai propri bisogni e a rispettare le proprie aspettative. Le persone necessitano, con la loro volontà e motivazione, di operare responsabilmente la trasformazione delle comunità di appartenenza in competenti. I cittadini diventano così attori dello sviluppo sostenibile (ambientale, sociale ed economico) delle proprie comunità. D’altronde solo nelle piccole comunità è possibile sperimentare, verificandone gli effetti, la promozione della cittadinanza attiva, ovvero la partecipazione diretta, il senso di coesione, l’appartenenza: il sentirsi parte integrante di… Tutto ciò vuol dire restituire ai cittadini le proprie comunità: ai bambini la sicurezza di giocare all’aperto, ai giovani spazi e luoghi idonei restituendo loro il sorriso, agli adulti il piacere di veder crescere le re4


lazioni interpersonali e intergenerazionali, agli anziani il superamento della solitudine attraverso il raccontare “c’era una volta” ai bambini. Questo piccolo saggio non ha alcuna pretesa di esaustività. E’ un lavoro che, per scelta, non si è avvalso di una bibliografia molto estesa, perché si è voluto privilegiare una scrittura che fosse la sintesi del conoscere, del sentire e dell’esperienza diretta sul territorio. L’obiettivo è solo quello di promuovere una riflessione sull’importanza della partecipazione e della collaborazione per rivitalizzare le piccole comunità. Il saggio affronta il disagio familiare e quello sociale proprio per evidenziare che il malessere è “intra” e interpersonale e che, perpetuare in questa diffusione, vuol dire negare che ciascun uomo, anche quello della preistoria, ha cercato di vivere e condividere, ma il potere degli uomini non è quello di “viver come bruti, ma di seguire virtude e conoscenza”. Un particolare ringraziamento è rivolto ai Comuni, che, con la loro disponibilità e affettuosità, mi hanno consentito di sperimentare un lavoro creativo facendomi vivere la mia limitazione delle attività come una specificità del mio essere. Grazie, inoltre, a Marcella e a Pasquina.

5


CAPITOLO 1 Il disagio 1. La Diversità: normalità o disagio? Hilmann afferma che “il culto della diversità è parte della nostra eredità occidentale, ed è anche una componente della nostra natura animale”. Eppure la nostra società non riconosce questa eredità, infatti ritiene la diversità qualcosa di cui occuparsi solo per aiutare chi la vive, qualcosa da tenere a distanza perchè troppo impegnativa, qualcosa da evitare per non rischiare di essere etichettati come diversi. Questa, infatti, non è utilizzata per distinguere le specificità, ma per connotarle negativamente, infatti le distinzioni, sempre per Hilmann, “sono una trappola mentale, un inganno”. La diversità, oggi, attrae e allontana, incuriosisce e spaventa, promuove ricerche, ma non offre aiuti concreti. Nonostante questa evidente contraddittorietà, i “diversi” aumentano e ciò dovrebbe invitare a delle riflessioni più scientifiche e meno spontaneistiche, se è vero che si vogliono trovare soluzioni. La diversità diventa così l’equivalente del disagio, della sofferenza, di chi vive fuori dai ritmi imposti o dalle opportunità immediate. Chi è il diverso? Come vive questa diversità? Diversi sono ormai tantissime persone, quelli che presentano limitazioni delle attività, che non hanno conseguito un titolo di studio elevato, che non vivono condizioni economiche e/o sociali adeguate. Non sono forse quelli che vivono fuori dallo standard pubblicizzato? Il diverso è dunque colui che rischia di farsi ingabbiare per sue specifiche situazioni, ma può essere anche colui che non vuole farsi inglobare dal pensiero collettivo rimanendone escluso. La nostra società globale non vuole distanziarsi dalla cosiddetta normalità standardizzata, per paura di perdere il controllo, in quanto una qualsiasi diversità soggettiva e/o oggettiva impone l’utilizzo di 11


un pensiero riflessivo che si discosta da quello “anonimo”, dei “luoghi comuni”. La cosiddetta norma contemporanea vuole individui e non persone, tutti capaci di vivere ritmi frenetici e nevrotici, nonché in grado d’avere straordinarie capacità di apprendimento a scuola e nel lavoro. Si chiede dunque all’uomo di meccanizzare le azioni e computerizzare le scelte, proprio per ridurre le distanze tra le diverse capacità. Quest’uomo dovrebbe diventare o possedere qualità non umane, ma proprie dei computers, non vivere emozioni, ma essere in grado di fare solo connessioni meccaniche per non sprecare energie. La società attuale ha promosso, volontariamente o involontariamente, incertezza, insicurezza e precarietà, rendendo l’uomo incapace di gestire qualunque specificità, dal momento che questi è costretto a nascondere la sua autenticità per apparire come gli altri. È diventato una persona che ha evidenti difficoltà ad integrarsi, si “consola” attraverso l’idea d’essere un cittadino globale, si avvale della sua presunta libertà per frustrare l’immaginazione e per tollerare l’impotenza, pur se rimasto completamente solo. I diversi, così denominati, rappresentano invece la vera anima della società, coloro che hanno e manifestano un’indole, che, se rispettata e guidata, può condurre all’individuazione e non all’omologazione. Ogni persona ha una propria indole e vive le esperienze autonomamente, anche in base ai propri vissuti, e ciò può essere la vera forza per riappropriarsi di sé e non di ciò che gli altri vogliono e tendono di imporre. Occorre una vera rivisitazione del pensiero per ritenere la diversità come normalità e non come fonte di malessere, dunque di disagio che, in quanto fenomeno molto diffuso nella nostra società, è quasi impossibile tentare di delimitarlo. Il disagio è una condizione, uno stato d’animo che investe chiunque, anche se in forme e per tempi diversi. Esso non comprende solo situazioni estreme, oggettivamente osservabili, ma anche condizioni temporanee che comunque producono sofferenza. Disagio e agio sono i due poli opposti che spesso viviamo senza alcuna consapevolezza. Possono alternarsi o addirittura sovrapporsi, eppure denotano due condizioni completamente diverse. La condizione o lo stato di disagio presuppone la carenza di qualcosa o qualcuno, l’assenza di comodità, la sensazione di inadeguatezza. Sono vissuti che producono frustrazioni e repressioni, sentimenti che investono la sfe12


ra emotiva, relazionale e sociale e caratterizzano, frequentemente, in modo negativo la qualità della vita. Non è forse il disagio un sinonimo di “mal-essere”? L’antitesi del disagio è l’agio. Vivere in una condizione di agio vuol dire poter fruire delle opportunità, sapere di avere delle possibilità, dunque vivere in comodità. La condizione di agio è proprio quella di benessere. Chi vive il “ben-essere” è una persona che ha un lavoro, che vive l’amore (si sente amata e ama), che ha degli interessi personali ed è capace di divertirsi (di cogliere il momento del piacere), che è capace d’usare il pensiero creativo, ovvero divergente, che è in grado di trascendere, superando il pensiero “collettivo” volgendo verso quello “responsabile”, o almeno meta-cognitivo. Le forme di disagio sono molteplici e, il più delle volte, visibili (disagio psichico, fisico, sociale), ma le cause sono quasi sempre sconosciute, attengono all’ignoto. Queste riguardano la sfera psichica e familiare, dunque l’area interna, latente, della persona, mentre quella sociale, l’area esterna, manifesta, va spesso a rinforzare preesistenti vissuti di fragilità o di negatività. Non sempre si ha la consapevolezza della condizione di disagio che si vive, quindi non si riconosce ciò di cui si ha bisogno. Ammettere il proprio disagio richiede la conoscenza dei propri limiti, la necessità dell’altro. Chi vive una condizione di disagio viene associato al “diverso”, sia per comodità, sia perché inevitabilmente si discosta dalla cosiddetta “normalità”. Le differenti forme di disagio richiedono interventi e aiuti proporzionali all’entità del danno e, se per alcune di queste, è possibile individuare strategie risolutive, per altre, invece, occorre guidare le persone verso l’accettazione e la gestione delle proprie limitazioni. Si può dunque garantire una riduzione del danno ad una persona con disagio permanente sostenendola nella gestione. Una metafora che rappresenta come l’apparenza e il benessere quantitativo proposti dalla società odierna siano infruttuosi è data dal finale d’una delle ballate del celebre cantante F. De André, “Via del Campo”: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”, in cui si valorizza ciò che appartiene alla cultura della povertà a svantaggio della cultura dell’immagine e del potere. Il finale esprime chiaramente come la cultura del disagio sia in grado di generare comunque bellezza, colori, profumi e forme: i fiori. Il diamante è una delle pietre 13


preziose più belle, più vistose, luminose, ma anche la più costosa; non è accessibile a tutti e perciò chi la possiede ne è orgoglioso e talvolta la ostenta. Nonostante le sue qualità eccezionali il diamante è improduttivo, è lì a farsi ammirare, contemplare, desiderare, ma è anche freddo e appuntito. Il freddo, come è noto, non può che irrigidire e non crear nulla, e la sua punta, inoltre, non può che tagliare… Il letame è un concime naturale che viene utilizzato proprio per fertilizzare il terreno, pur non essendo profumato diffonde il profumo, è fonte di vita e quindi di piacere: fa nascere i fiori. Al letame, con una forzatura, si possono paragonare i cosiddetti diversi; mentre ai diamanti, i presunti detentori del potere e del sapere. Il paragone è dettato dall’aver preso coscienza che il cosiddetto diverso non deve rincorrere l’efficientismo rivendicato dai detentori del potere. Questi tendono, per comodità, a rinnegare le differenze umane, proponendo l’omologazione. È altresì dettato dall’aver capito che il mero sapere non è conoscenza, ma possedimento e uso delle teorie. “Coscienza e conoscenza”, c’insegna Sartre, “producono sofferenza”, e il letame, infatti, non è gradevole né alla vista né all’olfatto né al tatto… Eppure chi indossa il diamante ama i fiori e spesso li porta insieme dimenticando la loro origine. 2. Le politiche sociali: tra carenze e risorse Il dilagare delle forme di disagio, così come precedentemente riportato, fra l’altro anche nella nostra regione, induce a riflettere sulle politiche sociali che si attivano per affrontare tale condizione. Abitualmente, al di là delle teorie, la pratica del servizio sociale è rivolta a individuare le carenze, i deficit e i problemi. Eppure, ormai si parla di diritti umani e sociali che dovrebbero concretizzarsi nel riconoscere l’altro o gli altri quali soggetti attivi propositivi e con diritti da rispettare e soprattutto da assicurare. In realtà chi vive il disagio è considerato come colui che deve fruire di interventi finalizzati a compensare la carenza, ma le vere politiche sociali vedono l’altro come colui che partecipa alla relazione attivamente e, attraverso la narrazione di sé, consente all’operatore professionale d’individuare le risorse e gli aspetti positivi. Il ribaltamento della lettura dell’altro o degli altri consente di analizzare e considerare i punti di forza e le potenzialità, il più delle volte occultate, in modo da costruire una relazione funzionale. La valorizzazione di questi aspetti mette colui che vive una condizione di disagio di fronte alla comprensione di “chi è”, “che cosa può”, “dove 14


può”, “quando può”, “come può” per tendere verso interventi centrati sulla soluzione. Attraverso interventi positivi ed efficaci che mirino a confermare la persona o le persone, il deficit o le carenze vengono affrontati in una logica sistemica dove la circolarità delle azioni positive con quelle negative porta ad affrontare globalmente e unitariamente la vita delle persone. Non è possibile continuare a perseverare nella ricerca di ciò che manca e di ciò che non si può, né si può pensare che i problemi sociali vadano affrontati con atti amministrativi o informatici. È la persona con la sua individualità e specificità, il gruppo con i suoi vissuti comunitari che devono diventare la centralità degli interventi e soprattutto la contingenza delle azioni deve rispondere all’individualità e alla singola comunità. Per operare nel rispetto della totalità dei diritti, nella nostra regione occorre non solo legiferare, ma innanzitutto promuovere la cultura della sussidiarietà e dell’empowerment. Ciò vuol dire assicurare da una parte qualificazione e “professionalizzazione” degli operatori dall’altra, sviluppo delle politiche sociali attive mediante il coinvolgimento delle comunità locali comprese quelle più piccole. È una vera “rivoluzione” quella che si necessita: gli operatori devono imparare a qualificare gli interventi, a relazionarsi costruttivamente con i fruitori del servizio, a potenziare le comunità lavorando in rete; gli amministratori devono garantire sicurezza e stabilità, e prevedere politiche concrete volte al confronto e alla critica riflessiva. Il riconoscimento dell’altro quale entità reale, indipendentemente dalle condizioni e dai luoghi in cui vive, induce l’operatore a guidarlo verso l’autonomia aiutandolo a costruire il proprio progetto di vita per consentire la sua collocazione nell’attuale e problematica società. La crescita e lo sviluppo dell’altro favorisce inevitabilmente lo stesso processo alla comunità di appartenenza. Il progetto di vita di ciascuna persona, indipendentemente dalle condizioni di salute (bio-psico-sociali) s’interseca con quello comunitario proprio perché l’individuo ha un’identità personale e sociale. Esso si avvia con la nascita e si evolve nell’intero arco di vita: è un processo in cui attori diversi (famiglia, scuola, enti locali, mondo sanitario, terzo settore…) interagiscono e s’influenzano. Tutti gli attori si occupano direttamente o indirettamente d’alcuni momenti che caratterizzano e definiscono il progetto di vita: educazio15


ne, istruzione, socializzazione e lavoro. Ogni persona, nel suo ciclo di vita, vive o dovrebbe vivere questi quattro momenti; è proprio questo ciò che devono assicurare le politiche sociali.

16


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.