La risacca

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Per Carniti, di fronte al dramma della disoccupazione, che sta assumendo numeri e toni di drammatica evidenza, questo finto agitarsi di facciata (magari anche animato dalla buona volontà), che non riguarda solo politici, ma anche studiosi e responsabili delle aziende, è traducibile in una parola: la risacca. Ossia quel ritorno delle onde su se stesse che sembra movimento, ma che in realtà non produce alcuna trasformazione. La “questione lavoro”, invece, ormai centrale nel nostro Paese e in tutto l’Occidente, ha bisogno di coraggio, innovazione, intelligenza, capacità di analisi dell’esistente e di quanto va emergendo. Un libro che non ha la pretesa di funzionare da compendio di tutto il dibattito esistente sul tema: parte dalla storia, ma per porre basi solide al ragionamento; segue un’analisi sui numeri e sui fenomeni internazionali, per allargare l’orizzonte; porta a compimento le proposte più coraggiose e decisive (la redistribuzione dell’orario); per finire con un’analisi sul senso e il valore del lavoro oggi.

... Questo libro e una sorta di ricapitolazione delle pluridecennali riflessioni di Carniti sul lavoro. Parte da, lontano, per ripercorrere a volo d uccello una storia del lavoro (in occidente) per arrivare alle trasformazioni e ai dilemmi contemporanei, che investono non solo la disponibilita di lavoro (remunerato), ma modi e relazioni in cui essa si da. C e tutto il Carniti che ho imparato a conoscere negli anni, con il suo pessimismo realistico e il suo indomito idealismo che un cambiamento sia possibile e che non occorra mai smettere di tentare... dalla prefazione di chiara saraceno

PIERRE CARNITI la risacca

PIERRE CARNITI

LA RISACCA il lavoro senza lavoro prefazione di

chiara saraceno

tempiModerni

Pierre Carniti (Castelleone, CR, 25 settembre 1936) è stato uno dei massimi dirigenti sindacali negli anni complicati di una conflittualità sociale accompagnata dalla prima deriva dei conti pubblici in Italia (anni Ottanta). Era segretario generale della Cisl (1979-1985) quando si raggiunse il famoso accordo sulla revisione della scala mobile. Idealista e pragmatico, coraggioso e realista, capace di unire l’analisi e la proposta, Carniti ha proposto questa sua qualità di sintesi anche nell’attività politica, da parlamentare europeo prima (1989-99), e, poi, da presidente della Commissione d’Indagine sulla povertà e da fondatore del movimento politico dei Cristiano sociali (movimento che ha contribuito prima alla nascita dei Democratici di Sinistra e poi del Partito Democratico). Nella stessa collana, “Dove stiamo andando? Democrazia e lavoro nell’età dell’incertezza”, curato sempre da Vittorio Sammarco e prefato da Gad Lerner.


PIERRE CARNITI

LA RISACCA il lavoro senza lavoro


I ricavi della diffusione di questo volume contribuiranno a sostenere Dignità del Lavoro (www.dignitadellavoro.it), una cooperativa sociale impegnata in Calabria nell’avvio di iniziative produttive finalizzate a restituire, attraverso il lavoro, dignità alle persone messe ai margini, contribuendo, così, a coltivare germogli di una società più giusta.

Editing: Vittorio Sammarco ISBN: 978-88-96171-73-8 © Altrimedia Edizioni è un marchio di Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria Via Ugo La Malfa, 47 - 75100 Matera Tel. 0835 1971591 Fax 0835 1971594 www.diotimagroup.it Copertina: Enzo Epifania / Virare www.altrimediaedizioni.com info@altrimediaedizioni.com


Se gli uomini hanno la capacitĂ di inventare nuove macchine che tolgono lavoro ad altri uomini, hanno anche la capacitĂ di rimetterli al lavoro J. F. Kennedy



Prefazione Chiara Saraceno Il lavoro non è solo fonte di reddito. È anche fonte di dignità, di occasione di scambio interpersonale e sociale, perciò anche ambito di costruzione di senso per sé e per/con altri. In questa riflessione sul lavoro in un’epoca in cui esso è sempre più scarso rispetto al numero di individui che vorrebbero accedervi, Pierre Carniti ripropone una concezione forte di lavoro, come attività umana completa. Da questa concezione si dovrebbe ripartire per ripensare il lavoro, il modo in cui vi si accede, entro quali rapporti e forme di riconoscimento. Carniti non si fa, e non consente, illusioni sulla possibilità che qualche miracolosa ripresa economica possa non solo creare nuova occupazione, ma contrastarne l’emorragia. Anche l’aumento della produttività, che per altro richiederebbe una diversa organizzazione del lavoro e della tecnologia, piuttosto che un aumento dell’orario di lavoro contestuale ad una moderazione salariale, come sembra invece suggerire troppe volte il dibattito italiano, non sarebbe risolutivo, al contrario, richiederebbe un minore numero di addetti per produrre gli stessi beni. Le attese e le pressioni dei paesi che un tempo venivano definiti del terzo mondo e delle loro popolazioni non offrono solo sterminati mercati per i prodotti occidentali. Entrano in competizione sia sul piano del lavoro che dei prodotti (come insegna non da ultimo la vicenda del farmaco anticancro prodotto a basso prezzo in India). Soprattutto un paese come l’Italia, che aveva (quasi) realizzato il pieno impiego (maschile) con un sistema di produzione largamente basato sull’elevata intensità di lavoro a bassa qualifica, non può competere con quei paesi, anche se continua ad importarne 5


parte della forza lavoro eccedente (mentre esporta parte della propria forza lavoro più qualificata). Ma anche paesi più competitivi per quanto attiene la qualità del prodotto non possono pensare di mantenere i livelli di occupazione negli stessi termini di un tempo. I paesi sviluppati hanno goduto per circa un secolo di condizioni incredibilmente vantaggiose, che hanno difeso in vario modo, più o meno violento, ma sempre in relazioni asimmetriche con i paesi meno sviluppati. Queste condizioni di vantaggio sono progressivamente venute meno, anche se con effetti di intensità diversa nei vari paesi. La crescente finanziarizzazione dell’economia e la sua progressiva deterritorializzazione hanno fatto il resto. Lo squilibrio tra domanda e offerta di lavoro a livello locale-nazionale in teoria potrebbe essere corretto dai mutamenti demografici, che vedono coorti successive di potenziali lavoratori sempre più ridotte per effetto della riduzione della fecondità. Ma mutamenti demografici, nel fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, sembrano aggiungere un nuovo problema, più che risolvere il primo, nella misura in cui la sostenibilità dei sistemi pensionistici richiede da un lato che sempre più persone (quindi anche la maggior parte o tutte le donne) siano nel mercato del lavoro per un periodo sempre più lungo. Il paradosso di sistemi che innalzano l’età pensionistica proprio quando esplode il fenomeno della disoccupazione giovanile rappresenta emblematicamente questo duplice squilibrio: tra domanda e offerta di lavoro e tra lavoratori/contributori e pensionati. Carniti osserva giustamente che la scarsità del lavoro e la competizione dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo – come migranti ma anche come lavoratori a basso prezzo nei loro paesi di origine – nel discorso pubblico e nelle pratiche è affrontato quasi esclusivamente come se si trattasse di una questione di offerta, e non di domanda. Tutte le soluzioni sono cercate dal lato dell’offerta, con richieste, appunto, di moderazione salariale e di disponibilità alla flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro (ovvero con la disponibilità ad accettare periodi più o meno frequenti e lunghi di disoccupazione). Ciò a sua volta comporta un disinvestimento nel lavoro come attività piena di senso e di qualità umana e professionale, oltre che relazionale. In questo senso, non solo la prestazione lavorativa di6


viene solo merce, lo diviene anche il lavoratore, totalmente fungibile. Questa tendenza è solo debolmente contrastata dal parallelo discorso sull’investimento in capitale umano, la formazione continua e così via. Perché le aziende non investono in qualcuno che considerano totalmente fungibile e la cui presenza considerano transitoria. Tutte le ricerche internazionali mostrano come le occasioni formative offerte dalle aziende vadano al core dei dipendenti, ai più qualificati e stabili, lasciando ai margini i meno qualificati e i temporanei, aumentando con ciò le disuguaglianze tra lavoratori. Che fare allora per restituire al lavoro la sua qualità di attività umana completa, costruttiva di senso e relazioni e renderlo accessibile a tutti? La proposta di Carniti è un apparente uovo di Colombo fatto di tre elementi: un re-investimento nell’industria che privilegi i settori tecnologicamente innovativi; una redistribuzione del lavoro (remunerato) tramite diverse forme di riduzione di orario e una ricomposizione del lavoro come attività dotata di senso e ad alta intensità relazionale: una economia solidale che parta dalla esperienza cooperativa, ma anche dalla tradizione italiana delle piccole imprese. Anche se non viene detto esplicitamente, ciò comporterebbe anche un diverso atteggiamento verso il reddito e verso il consumo e forse, in parte anche verso il welfare. Ci sarebbe, infatti, più autoproduzione (individuale e comunitaria) di beni e servizi, quindi anche un po’ meno mercato e forse un po’ meno stato. Soprattutto, verrebbe parzialmente ricomposta la frattura tra produzione di beni di mercato e la produzione di beni comuni. È una riflessione che si colloca a pieno diritto nel ricco filone della cosiddetta “altra economia” (anche se Carniti preferisce parlare di “nuova configurazione) e che può contare su esperienze locali che meriterebbero di essere meglio studiate. Tanto più che le ricette più tradizionali non stanno funzionando, al contrario. Questo libro è una sorta di ricapitolazione delle pluridecennali riflessioni di Carniti sul lavoro. Parte da lontano, dalla riflessione sul lavoro come attività eminentemente umana di conoscenza e trasformazione del mondo operata dai filosofi, per ripercorrere a volo d’uccello una storia del lavoro (in occidente) per arrivare alle trasformazioni e ai dilemmi contemporanei, che investono non solo la dispo7


nibilità di lavoro (remunerato) ma i modi e relazioni in cui essa si dà. C’è tutto il Carniti che ho imparato a conoscere negli anni, con il suo pessimismo realistico e il suo indomito idealismo che un cambiamento sia possibile e che non occorra mai smettere di tentare. Sono le caratteristiche che gli permettono di provare a pensare al di là dell’esistente, incluse alcune consolidate categorie che pure ha maneggiato con maestria nella sua vicenda di sindacalista per molti versi eccentrico (nel senso di spiazzante, fuori dagli schemi). Questa audacia intellettuale non lo protegge del tutto da qualche rischio, non tanto di genericità (questo libro non intende fornire ricette dettagliate, ma un possibile mutamento di prospettiva nel cercarle), ma di eccessiva semplificazione. Vi è anche qualche importante dimenticanza. Ad esempio, non è solo con l’emergere del capitalismo e del suo mercato che il lavoro è diventato merce. Anche tra i “costruttori di cattedrali” di cui parla nella sua lunga galoppata attraverso le trasformazioni del lavoro e del suo significato, c’erano manovali sfruttati che vivevano alla giornata e non arrivavano mai al lavoro specializzato. I bambini operai dei secoli scorsi in Europa non erano meno sfruttati dei bambini operai contemporanei in India. Il lavoro (e i lavoratori) come merce, spesso di pochissimo valore, non è un’invenzione del capitalismo. Viceversa, con il capitalismo si sono anche sviluppati alcuni antidoti agli eccessi dello sfruttamento, come sa bene un vecchio sindacalista come Carniti: le organizzazioni dei lavoratori, i contratti, i sistemi di protezione sociale. D’altra parte, l’estensione e l’istituzionalizzazione del lavoro remunerato anche come merce ha fatto sparire dallo sguardo di chi organizza, studia, parla di lavoro, il lavoro (e le lavoratrici) non remunerato: come lavoro nel senso pieno di produrre sia valore economico sia relazioni e mondi di senso da un lato, come lavoro sfruttato, utilizzato senza riconoscimento non solo dalla società, ma dagli stessi “datori di lavoro”, i famigliari che ne fruiscono, dall’altro. In effetti, il lavoro non pagato, in primis quello famigliare, è il grande assente da questa analisi sul lavoro che non vuole essere solo un’analisi sulla occupazione. È assente come lavoro che c’è accanto a quello remunerato (e lo facilita per chi ne è beneficiario) e che, per il modo in cui è allocato, produce disuguaglianze tra uomini e donne. È assente quindi anche come lavoro che potrebbe essere ridistribu8


ito: tra uomini e donne, tra pagato e non pagato. Eppure, è il tipo di lavoro, pagato o meno, in cui il contenuto relazionale e la costruzione di senso sono più evidenti. Inoltre, il settore dei servizi alla persona è uno dei pochi in crescita in tutti i paesi sviluppati. Se si vuole ricomporre e insieme ridistribuire il lavoro non si può prescindere da una riflessione sul lavoro non pagato: quello che viene fatto, i bisogni che soddisfa, le relazioni in cui avviene. Anche perché la riduzione del lavoro remunerato a pura merce e dei lavoratori a pure merci fungibili e in competizione tra loro, più che consentire una redistribuzione più equa del lavoro non pagato sta sempre più erodendo lo spazio per soddisfare i bisogni cui si riferisce.

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Il lavoro è di due tipi: il primo, alterare la posizione della materia rispetto ad altra materia sulla (o nei pressi della) superficie terrestre; il secondo, dire ad altri di farlo. Il primo tipo è spiacevole e mal pagato; il secondo è gradevole e altamente retribuito Bertrand Russel



Per incominciare Possibile che malgrado la montagna di libri, di saggi, di articoli, possibile che dopo innumerevoli seminari, tavole rotonde, convegni, forum, sia necessario parlare ancora di lavoro? Per quanto stupefacente, sembrerebbe proprio di sì. Perché, nonostante le tante cose dette e scritte in materia, è sempre più evidente che da questa crisi non uscirà una società con qualche frattura facilmente ricomponibile dai volonterosi ortopedici di turno, con qualche piccola ferita, con qualche ammaccatura. Cioè inconvenienti più o meno impegnativi, ma tutto sommato curabili. Uscirà invece una società completamente diversa. Con problemi del tutto inediti. E, se non si dovesse incominciare a discuterne, ci coglierà completamente impreparati. Con il rischio di dover pagare costi umani e sociali del tutto esorbitanti. Il primo errore da evitare è quello di considerare la “crisi economica” e la “crisi del lavoro” elementi che si tengono, sovrapponibili, di un medesimo fenomeno. In realtà: Pil, investimenti, produzione, tasso di crescita, reddito, spread, esportazioni, importazioni, eccetera, sono tutti ingredienti che determinano modifiche sulla dinamica oscillante dell’economia, ma solo in parte e in modo mediato, indiretto, hanno effetti (commisurati e proporzionali) sulla quantità e qualità del lavoro. Può, infatti, crescere il reddito, ma non il lavoro. Può diminuire lo spread, ma non aumentare i posti di lavoro. E così via. A sua volta la crisi del lavoro che ora si presenta, con il volto arcigno di una diminuzione sia della quantità che di un peggioramento della sua qualità, ha riflessi solo indiretti sull’economia. Mentre ha conseguenze dirette sulle persone, le famiglie, la coesione sociale e quindi sulla struttura e l’organizzazione della società. Tant’è vero che nel corso di tutta la storia dell’umanità (praticamente dal neo13


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litico a oggi) la società è stata costantemente trasformata dal ruolo che il lavoro ha esercitato sui suoi progressi materiali, sul suo sistema di valori e, dunque, sul modo con il quale essa ha cercato, di volta in volta, di adattarsi e di riorganizzarsi. Per altro, la ragione in base alla quale il lavoro ha avuto e ha una funzione preminente nella vicenda umana come nella sua organizzazione sociale, è abbastanza semplice. Senza andare troppo indietro nel tempo, basterà ricordare che, anche solo negli ultimi due secoli, le cose relative al lavoro sono state in costante, persistente evoluzione. È, infatti, continuamente e rapidamente cambiata la concezione del lavoro; è cambiata la cultura del lavoro; è cambiato il rapporto tra l’uomo e il lavoro; è cambiata l’organizzazione del lavoro; è cambiata l’etica del lavoro. Insomma tutti i principali caratteri del lavoro hanno subito una grande metamorfosi. Malgrado ciò, per le persone, il lavoro è stato (e continua a essere) elemento imprescindibile. Non solo come fonte di reddito, ma anche di identità, di riconoscimento e appartenenza sociale. Infatti, continuiamo a “essere” anche in rapporto a ciò che “facciamo”. Per questo la mancanza di lavoro, la disoccupazione, determinano una ferita grave sia alle persone che al corpo sociale. Intendiamoci. Essere senza lavoro nella società contemporanea non vuol dire necessariamente non fare nulla, morire di fame. Anche se, purtroppo, dopo anni di recessione il numero dei poveri e dei poverissimi è enormemente aumentato. Tuttavia significa sempre finire ai margini, essere esclusi, sentirsi rifiutati. Per questo il lavoro non può essere considerato uno dei tanti indicatori, un complemento funzionale per interpretare l’andamento dell’economia. È, al contrario, l’asse portante che può tenere assieme, o fare finire alla deriva, una società. Per cercare di capire meglio i termini del problema, forse è opportuno partire dalla domanda: perché l’uomo lavora, o è stato costretto a lavorare? Secondo una vulgata diffusa l’età d’oro dell’umanità sarebbe da collocare alla sua origine. Cioè nel suo passato remoto. Sulla base di questa narrazione, all’inizio, infatti, tutto sarebbe stato dato gratuitamente all’uomo. Invece ai giorni nostri tutto si sarebbe trasformato, al contrario, in dura fatica. Come sempre, accompagnata da crescenti difficoltà e incertezze. Le cose però non 14


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stanno propriamente nei termini del racconto che viene riproposto. Per rendersene conto, basta riflettere su un solo piccolo aspetto. Ogni giorno (non è mai del tutto chiaro se per necessità informative, o pubblicitarie) i media esaltano i vantaggi dei cosiddetti “prodotti naturali”. Probabilmente anche per tale motivo, molti sono indotti a pensare che la vita di un tempo (anche soltanto di un secolo o due fa) fosse più sana di quella attuale. In realtà la natura si è sempre dimostrata un’implacabile matrigna per l’umanità. Pensiamo, per esempio, che il latte cosiddetto “naturale” (ottenuto cioè da vacche allevate in modo “naturale”), se non “trattato” può dare la tubercolosi. Oppure, ricordiamo che la vita di altri tempi, ritenuta sana dall’opinione corrente, sotto il profilo della mortalità (in particolare della mortalità infantile) produceva risultati spaventosi. Alla metà del settecento, infatti, un bambino su tre moriva quando non aveva ancora raggiunto il primo anno di vita. Dei due rimasti, in Italia, ma anche in Inghilterra e Francia, raramente uno riusciva a superare i 25 anni di età. Il che significa che a un’umanità ancora priva di adeguati mezzi di lavoro e mancante della scienza e della tecnica oggi disponibili, la terra consentiva soltanto una vita limitata e vegetativa. Bisogna quindi apertamente riconoscere che le attuali condizioni di vita e gli attuali consumi, sono stati resi possibili solo dall’intervento dell’ingegno e del lavoro umano. Tant’è vero che anche i prodotti di uso quotidiano, di solito ritenuti più “naturali”, come i cereali, le patate, la verdura e la frutta, sono invece il risultato di una trasformazione. Realizzata attraverso un duro, lento, costante lavoro di selezione e di modificazione di alcune graminacee. Per fare un esempio, il nostro grano odierno è così poco “naturale”, che se gli uomini dovessero scomparire dalla faccia della terra, sparirebbe anche esso nel giro di soli 50 anni. Stessa fine farebbero tutti gli altri cereali, gli alberi da frutta, le verdure, i rosai, eccetera. Che dire poi dei manufatti creati dall’uomo? Se non che sono semplicemente la dimostrazione che l’uomo è un essere vivente i cui bisogni non sono affatto in totale accordo con il mondo nel quale vive. Quindi, per armonizzare le sue “esigenze” con la natura, l’uomo non può prescindere da una continua lotta che gli consenta di trasformarla. Ha perciò bisogno soprattutto di lavoro. Per questo lavo15


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riamo. Per questo il lavoro è sempre esistito e continuerà a esistere. Anche se naturalmente, con il passare del tempo, potrà essere svolto con modalità e durata del tutto diverse rispetto al passato. In epoca precedente la nostra, per l’esattezza all’inizio del secolo scorso, si credeva che l’industrializzazione e la tecnologia, che avevano portato con sé una nuova organizzazione del lavoro, avrebbero reso più facile (oltre che economicamente più sicura) la vita di tutti. Meccanizzazione, catene di montaggio e più progredite macchine agricole, avrebbero assicurato un posto e uno stipendio a tutti. Per di più esigendo meno sforzo e concedendo più tempo per sé stessi, rispetto alle generazioni che erano vissute prima. Gli economisti, che sono spesso portati a vedere il futuro attraverso gli occhiali rosa, affermavano che i consumi sarebbero aumentati e nessuno si sarebbe più dovuto sentire schiavo del lavoro. Come sappiamo purtroppo le cose non sono andate esattamente così. Oggi, infatti, a distanza di un secolo, quel modello appare del tutto evaporato e comunque definitivamente inceppato. Negli ultimi anni i consumi, invece di continuare ad aumentare, hanno incominciato a diminuire. Chi lavora, invece di riuscire a ridurre le ore di impegno le vede accrescere. Chi ha un lavoro teme di poterlo perdere. Mentre chi non lo ha, ha anche sempre minori possibilità di riuscire a trovarlo. Così, in una società schizofrenica, gli impegni di lavoro, per chi riesce ad averlo, sono diventati una delle principali cause di insonnia, stress, rotture famigliari. Mentre chi ne è rimasto fuori, o è stato buttato fuori, si ritrova in un’insopportabile situazione di marginalizzazione, di “esubero”, di esclusione sociale. Il lavoro per tutti e il “posto fisso”, che erano state tra le grandi conquiste del ‘900, sono di fatto largamente finiti. E difficilmente torneranno. Per altro, proprio a causa dell’attuale gravissima “crisi” del lavoro i sociologi ritengono che, poche altre generazioni siano state altrettanto pessimiste come quell’attuale sul loro futuro. Naturalmente i fattori di insicurezza che derivano e si riflettono alla situazione del lavoro sono molteplici. Non ultimo pesa il fatto che la popolazione attiva mondiale è rapidamente aumentata. È, infatti, passata da 1 miliardo e 200 milioni del 1950, ai circa 3,5 miliardi del 2010. Il risultato è che nel mondo è cresciuta enormemente l’offerta di lavoro, senza che di altrettanto si sviluppasse la do16


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manda. Lo squilibrio è stato poi reso ancora più grave da una “globalizzazione” incontrollata e incontrollabile. Intesa cioè soprattutto come competizione tra aree dove il lavoro aveva conquistato maggiori tutele e migliori salari e quelle invece che ne sono ancora prive. Da qui il fenomeno particolarmente accentuato degli ultimi decenni consistente nella delocalizzazione delle attività produttive dai paesi più avanzati a quelli in via di sviluppo. Con l’ovvio, conseguente peggioramento della condizione del lavoro nei paesi occidentali e un generale aumento della loro insicurezza sociale. Stando così le cose una domanda nasce spontanea: si può fare qualcosa per cambiare il corso degli avvenimenti? Per cercare di rispondere occorre tenere presente che la questione del lavoro si compone di due aspetti, collegati ma nello stesso tempo anche sufficientemente distinti. Il primo riguarda la sua dimensione quantitativa, il secondo quella qualitativa. La risposta al primo aspetto dalle istituzioni pubbliche viene normalmente affidata a riti propiziatori nei quali sono invocati: la crescita, la ripresa, il rilancio dell’economia. Rituale al quale si dedicano (con maggiore o minore convinzione), tutte le istituzioni nazionali e internazionali. Ma a parte la concreta realizzabilità, occorre sapere che queste ipotesi, per non dire semplici auspici (non fosse altro perché l’economia finanziaria sovrasta di 8/10 volte l’economia reale), non sono comunque in grado di risolvere né i termini quantitativi e ancor meno qualitativi del problema. Siamo dunque a una stretta. In quanto a una serissima difficoltà congiunturale (le conseguenze di un’economia finanziaria di rapina) si aggiungono importanti cambiamenti strutturali. Troppo a lungo trascurati. Una delle ragioni che dovrebbe spingere anche a mettere mano agli orari, in funzione di una diversa ripartizione del lavoro. Il motivo per adottare una strategia di questo tipo dovrebbe risultare del tutto comprensibile. E comunque è piuttosto semplice. Poiché il lavoro disponibile non è assolutamente sufficiente ad assorbire l’offerta, occorre ridurre gli orari e ridistribuire meglio il lavoro che c’è tra tutti coloro che vogliono lavorare. Per altro, a beneficio dei più timorosi, occorre ricordare che non si tratta affatto di una scelta sconvolgente, destabilizzante, rivoluzionaria. In quanto essa è già stata ampiamente seguita (sia pure con alti e bassi) per oltre un secolo e mezzo. 17


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Al riguardo basterà ricordare che, nel 1850, il numero delle ore di lavoro settimanali svolte in Europa era pari a 72. Cioè 12 ore al giorno, per 6 giorni la settimana. Nel 1900 erano scese a 64,5. Nel 1910 a 60. Negli anni successi alla crisi del ’29 sono state ridotte a 45. Infine tra il 1960 e il 1970 ulteriormente ridotte a 40. Vale a dire 8 ore al giorno per cinque giorni la settimana. Quindi, la domanda sensata da farsi è molto semplice: nella situazione in cui siamo precipitati (e che ha messo in angoscia milioni di famiglie), c’è qualcosa di misterioso, oscuro, che impedisca di riprendere questo cammino? Senza indulgere in semplificazioni e sottovalutazioni, l’unica risposta realistica è: sostanzialmente nulla. Se non purtroppo la mancanza di volontà, sommata alla pigrizia culturale e al conservatorismo dell’establishment politico e sociale. Conservatorismo che andrebbe meglio contrastato. Almeno per evitare che la disperazione, conseguente la mancanza di lavoro, possa trasformarsi in protesta. La protesta in ribellione e la ribellione in rivolta. Come sempre accade in questi casi, dagli esiti assolutamente imprevedibili. All’aspetto quantitativo, in aggravamento, si somma poi il venire meno della dimensione qualitativa del lavoro. Pure questo problema non è esploso improvvisamente. Infatti, già a cavallo tra anni ‘70 e ’80, diversi studi avevano incominciato a mettere in risalto un aumento dell’insoddisfazione da parte dei lavoratori, per: attività troppo ripetitive, scarsi riconoscimenti, insufficiente autonomia. Era solo un primo sintomo che le cose non stavano andando per il verso giusto. Poco più tardi, questi e altri inconvenienti, avrebbero assecondato anche l’esplosione del fenomeno asiatico (soprattutto cinese), dove tante imprese occidentali hanno incominciato a trasferirsi. Risultato: centinaia di migliaia di lavoratori europei e americani (non solo operai, ma anche quadri intermedi e persino dirigenti) si sono ritrovati di colpo “eccedenti”, in “esubero”. Incapaci (e a volte inadeguati) a conformarsi, a riciclarsi in mestieri nuovi. Ma anche semplicemente a cambiare abitudini. Cosa non sempre facilissima. Tenuto conto dell’influenza e il peso che esse concretamente hanno nell’organizzazione della vita di ciascuno. L’informatica e internet hanno poi definitivamente chiuso il cerchio. Con le nuove tecnologie il lavoro è finito anche a casa, in spiag18


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gia, in viaggio. A tutte le ore. L’esito deplorevole di questo sviluppo è stato che quanti, bene o male, hanno conservato un lavoro (ma temono di perderlo) sono impegnati ben oltre le 45 ore settimanali. In alcuni casi superano, infatti, le 60/80 ore. Cioè peggio di 150 anni fa. Al punto che, in numerose situazioni, oggi tende sempre più a venire meno la distinzione tra lavoro e vita privata. Tanto più che la posta elettronica e il cellulare riescono a raggiungere chiunque, ovunque. Una volta invece l’operaio metalmeccanico finiva il proprio lavoro quando si toglieva la tuta. Al contrario, per molti ora diventa sempre più difficile tracciare una linea netta di separazione fra: lavoro, tempo personale e vita sociale. Questo sviluppo (se tale vogliamo chiamarlo) ha una duplice conseguenza negativa. La prima concerne il lavoro stesso, la sua qualità e la sua produttività. La seconda riguarda invece le ricadute sociali. Non solo perché a un numero sempre più ridotto di persone costrette a lavorare troppo corrisponde un numero crescente che non riesce a lavorare affatto. Ma soprattutto perché questa dissociazione cambia (e in peggio) le relazioni sociali. Come la natura della stessa società nella quale viviamo. Per quanto riguarda il primo aspetto c’è da dire che, da quando siamo entrati nell’era della tecnica, è prevalso il convincimento che i criteri di valutazione delle prestazioni avrebbero dovuto essere l’efficienza e la produttività. Con l’aggiunta, per i lavori più “creativi”, della capacità di realizzare nuove iniziative e la rapidità di decidere e agire. Il discrimine quindi è sempre stato ritenuto l’utilizzo “ottimale” del tempo. Che, con la diffusione di massa dell’informatica, non ha praticamente più conosciuto interruzioni. Al punto che molti, di fatto, non hanno più avuto soste. Lavorano sempre perché temono altrimenti che il loro ruolo, il loro apprezzamento e la loro identità personale (incluso il riconoscimento sociale), finiscano per essere messi in discussione. C’è da dire però: zelo mal riposto e, forse, persino inutile. Infatti, una serie di nuovi studi e ricerche (soprattutto americane) hanno lanciato un contro-modello. Appunto l’esatto contrario delle regole che per decenni sono state imposte a centinaia di migliaia di lavoratori dei paesi occidentali. Spasmodicamente costretti a una competizione logorante. Tony Schwartz, guru di organizza19


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zione aziendale e, proprio per questa funzione, consulente di grandi gruppi americani come Apple, Google, Coca-Cola, Ford, Sony, e altri, sostiene (in: Non si può lavorare così) che per ottenere risultati migliori, anche in termini di produttività, bisogna assolutamente abbandonare il modello di lavoro logorante, stacanovista, ricattatorio, adottato dalle imprese negli ultimi decenni. Partendo dall’assunto che, in particolare le grandi imprese, abbiano soprattutto bisogno di fantasia, di capacità di lavorare in squadra, di attenzione al cliente, Schwartz afferma che tali esigenze non sono assolutamente conciliabili con lo sfinimento psico-fisico, provocato da orari estenuanti, dal sacrificio del sonno, da un affievolimento dei rapporti famigliari. Egli raccomanda, perciò, il “rinnovamento strategico” delle risorse umane, basato su accorgimenti semplici. Alcuni dei quali non nuovissimi. Ma finiti in disuso e poi passati di moda qualche decennio fa. Tra le altre cose esorta, infatti, a fare sempre la siesta, a riposare nel week end, a programmare vacanze lunghe, a stare di più con la famiglia. In sostanza esattamente il contrario di quanto è accaduto e accade ancora in gran parte dei luoghi di lavoro. Dove continua a prevalere una dottrina obsoleta, che considera il riposo come ozio. Come uno spreco di tempo. E questo spiega perché, per esempio, un terzo dei lavoratori dipendenti americani consuma il pranzo sulla scrivania dell’ufficio, per non “perdere tempo”. Mentre ben un cinquanta per cento si porta lavori da finire a casa, o durante le vacanze. Ma, sostiene Schwartz, non sono questi i dipendenti veramente produttivi. Soprattutto non è questo il modo migliore e più efficiente di lavorare. Il fatto interessante è che la conversione al nuovo modello si sta affermando abbastanza rapidamente. In proposito Federico Rampini riferisce che una ricerca di Harvard ha lanciato l’allarme sul deficit di sonno. Deficit che costerebbe 63 miliardi di dollari all’anno all’economia americana. Solo in produttività perduta. A loro volta all’University of California hanno dimostrato che spezzare la giornata lavorativa con una siesta dai 60 ai 90 minuti, genera dei miglioramenti notevoli nella memoria. Tanto quanto otto ore di sonno notturno. Infine la società di revisione dei bilanci Ernst & Young, in uno studio interno sui propri dipendenti, ha scoperto che per ogni vacanza aggiuntiva la produttività migliora dell’8 per cento. 20


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Cosa dire di queste nuove tendenze? Potrebbero essere semplicemente nuove mode passeggere. Tuttavia qualcosa fa supporre che ci sia anche altro. Infatti, nella società contemporanea ogni aumento di libertà (derivante dalla disponibilità di un lavoro, come da un consistente miglioramento dei modi di lavorare) può esser contrabbandato, letto e percepito come una diminuzione di sicurezza. Ma anche viceversa. Entrambe le letture sono presenti nel dibattito pubblico. Quale delle due posizioni riesca ad affermarsi, dipende da fattori che non hanno niente a che fare con l’eleganza degli argomenti adottati a favore della conservazione (prevalenti nelle élite economiche e politiche), o a sostegno del cambiamento. In particolare da parte di coloro che sono costretti a confrontarsi con la scomparsa del lavoro, o indotti a un lavoro sempre meno gratificante e a misura d’uomo. È per altro probabile che, dato un certo equilibrio tra liberta e sicurezza, e tenuto conto della diversa distribuzione del potere, la propensione al cambiamento, per opporre una società più vivibile a una sempre più ineguale (anche nelle opportunità), potrebbe essere accresciuto solo se venissero create le condizioni perché la scelta possa essere fatta da tutti in condizioni di uguale libertà. Tanto più che le prospettive, inizialmente offerte come un aumento di libertà, non sarebbero quasi mai viste come un buon affare, se quell’aumento risultasse da un atto non effettivamente libero. Se cioè fosse imposto senza un reale coinvolgimento e una partecipazione vera delle persone implicate. D’altra parte, l’esperienza storica conferma ampiamente questa regola. Quando, infatti, le persone si ritraggono impaurite rispetto all’ipotetico miglioramento delle loro condizioni di vita e dei rapporti sociali che regolano il gioco della loro esistenza, di solito lo fanno non perché ostili ai cambiamenti, ma soprattutto perché non si è voluto o non si è stati capaci di coinvolgerle concretamente. Oltre tutto occorre tenere conto che un grado maggiore di libertà non è sempre percepita, dalle vittime dei soprusi e dei danni collaterali (a cominciare nel nostro caso da quelli indotti da una “globalizzazione” completamente incontrollata), come una cura risolutiva dei loro guai. Che essi, essendo costretti a farci i conti tutti i giorni, vivono soprattutto per le conseguenze che producono. A partire appunto dal dramma della mancanza di lavoro, oppure di un lavo21


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ro sempre più privo di “senso”; dall’insicurezza sociale che ne deriva; dall’azzeramento e dallo smantellamento forzoso delle loro abitudini di vita, dai loro rapporti famigliari e dalle reti fatte di rapporti umani e di impegni reciproci. Sui quali erano soliti contare, ma che con la “crisi del lavoro” e del modello sociale messo radicalmente in discussione, sono dolorosamente venuti meno. Ci stiamo quindi inoltrando in una “terra incognita”. Di una cosa si può essere certi: sarà difficile riuscire ad aprirsi una strada continuando a “guardare con fiducia al passato”. P. C. Febbraio 2013

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Anche in quest’epoca nostra in cui la sofferenza delle masse è formidabile e i problemi sociali sono straordinariamente complicati può esserci una gioia di vivere, sol che noi vogliamo vedere in ogni problema che il nostro tempo ci pone un compito a noi affidato. Come può ogni singolo individuo venire a capo di questo compito? Ciò dipende dalla sua capacità personale e dalla sfera di azione a lui affidata. Ma chiunque di noi voglia comprendere, può raggiungere la più alta felicità che l’uomo possa conoscere: quella di lavorare per la felicità altrui H. De Man



1 I mutamenti nella concezione del lavoro C’è una “storia” del lavoro e una storia della “concezione” del lavoro. Sebbene il primo aspetto abbia impegnato soprattutto gli storici e il secondo i filosofi, c’è da dire che anche quando ci si riferisce alla concezione ci si muove sempre sul terreno storico. Non fosse altro perché, nel corso dei secoli sono state proprio l’idea, il concetto di lavoro che hanno prodotto una continua trasformazione nella “civiltà” del lavoro e con essa della società. Nasce, infatti, da questa correlazione il dato di fatto in base al quale lo stesso “concetto” di lavoro segue un andamento storicamente mutevole. C’è poi da tenere presente una differenza tra il “fatto” del lavoro, che è millenario e il “termine” del lavoro che è invece relativamente più recente. Il primo richiede una qualche definizione del lavoro. Esso è costituito da tutte le attività umane necessarie alla sopravvivenza. Cioè alla conservazione della specie in un ambiente che, senza queste attività, risulterebbe del tutto inospitale per l’uomo. Sulla terra non sarebbe stata possibile la vita senza lavoro. Questo è vero per gli uomini come per gli animali. Anche le specie più elementari sono obbligate a “lavorare” per sopravvivere. Devono ricercare il loro nutrimento. Sceglierlo in mezzo a una quantità di materiali ed esseri in larga parte inutili, o dannose. L’uomo non si limita però a consumare cibo. Infatti, è l’unico tra gli animali caratterizzato da una molteplicità di bisogni che esigono una continua appropriazione ed espropriazione della natura. Inoltre, con il passare del tempo gli uomini sono diventati sempre più esigenti rispetto a ciò che considerano le loro necessità. Perciò, più è passato il tempo, più hanno cercato di accedere a condizioni 25


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di vita meno elementari. Progressivamente più vantaggiose e soddisfacenti. Gli uomini dunque sono oggi capaci di assicurarsi, non solo la sopravvivenza, ma anche la capacità di produrre e acquistare beni che i nostri antenati avrebbero considerato del tutto inutili e superflui. Il “termine” lavoro deriva invece da parole che significano “difficoltà, pena, sofferenza”. Gradualmente, una parola che nelle lingue indo-europee derivava da termini che significano appunto difficoltà, è diventata l’espressione oggi usuale per indicare lo sforzo compiuto per la produzione di tutti i beni e servizi. Che questa accezione sia così relativamente recente è un fatto indicativo. Derivante essenzialmente da due circostanze. In primo luogo i nostri antenati non distinguevano ciò che noi oggi chiamiamo lavoro dal non-lavoro. Non esisteva, infatti, un impiego del tempo, non esistevano orari. Non avevano alcuna idea della durata del tempo. Tant’è vero che non sapevano mai esattamente la loro età. Ma, cosa ancora più importante ai nostri antenati, non veniva nemmeno in testa l’idea di distinguere tra lo sforzo destinato alla produzione del cibo, da ogni altro sforzo. Ripartire la vita tra lavoro, pasti, sonno, festa, eccetera, sarebbe sembrato loro, non soltanto inutile, ma persino arbitrario e nocivo. Per esempio il gioco, progenitore del tempo libero, era anche un modo per iniziarsi all’azione per addestrarsi a padroneggiarla. Il gioco serviva e serve, infatti, a misurarsi gli uni con gli altri. È un’integrazione della vita che nell’antichità era molto più spontanea che ai giorni nostri. E continuando anche in età avanzata, per coloro che ci arrivavano, era indissolubilmente intrecciato con tutti gli altri atti della vita. Compresi quegli sforzi che noi oggi chiamiamo lavoro. In sostanza il termine lavoro ha un duplice significato. Con il primo ci riferiamo a ogni attività (manuale o spirituale) con la quale l’uomo ha prodotto un risultato utile. Ai primordi si è trattato, innanzi tutto, di operosità volta a cercare soluzioni nella lotta per la sopravvivenza, come trovare cibo, costruire un riparo, proteggersi dal freddo, difendersi dai pericoli. Invece nel corso dei secoli il lavoro ha progressivamente assunto una connotazione sempre più complessa. Che per l’uomo ha corrisposto ed esaltato la sua specifica natura di sapiens, oltre che faber. 26


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Il secondo ha invece a che fare più con la semantica. In particolare i termini di cui si sono servite le lingue classiche (il greco, ma in particolare, il latino), così come successivamente quelle moderne da esse derivate, per esprimere il concetto di lavoro. Al riguardo l’aspetto che merita di essere sottolineato è che tutti i vocaboli utilizzati enfatizzano generalmente la dimensione della “pena”, della “sofferenza imposta”, del “peso della fatica”, come necessità per riuscire strappare alla natura i mezzi per il sostentamento. In latino il termine è labor (scivolare, cadere) per indicare appunto chi vacilla sotto un peso. Il che vale anche per i derivati labour in inglese e lavoro in italiano. Laborare è legato all’idea di un lavoro duro e penoso. Vuol, infatti, dire faticare, ma anche lottare. I termini: francese travail e spagnolo trabajo sono legati al latino trabs: enorme peso da portare. Infine il tedesco arbeit è stato collegato ad armut, che nella stessa lingua significa povertà. In sostanza, quindi, dai popoli mediterranei ed europei il lavoro è stato sostanzialmente interpretato e descritto come pena. Quindi castigo, punizione, espiazione. Questa nozione del lavoro non è estranea al sentire religioso, tanto ebraico che cristiano. In effetti, il Dio descritto dalla Bibbia è un lavoratore che crea il mondo in sei giorni e si riposa solo al settimo. Per questo, a sua volta, l’uomo creato e posto nel “giardino”, vi deve lavorare per custodirlo e farlo produrre. (“Lo pose nel giardino dell’Eden, perché lo coltivasse, lo custodisse.” Genesi 2, 15). Tuttavia, nella cultura abramitica e cristiana, la pena del lavoro non è originaria ma conseguenza del peccato. (“Con il sudore del tuo volto mangerai il pane.” Genesi 3, 19). In sostanza, collegando lavoro e peccato, la Bibbia attribuisce al lavoro un carattere non evitabile. Il lavoro, infatti, è insieme: una fatica necessaria in quanto produttrice di bene e contemporaneamente una via di purificazione a cui l’uomo non può sottrarsi. Al punto che, nella seconda lettera ai Tessalonicesi, San Paolo non esita ad ammonire gli oziosi con parole particolarmente dure: “se uno non vuole lavorare, neppure mangi”. Il lavoro nel mondo greco Alcuni secoli prima che San Paolo iniziasse la sua predicazione, nel mondo Greco antico avevano tuttavia maturato un’opinione assai diversa dalla sua in materia di lavoro. Non a caso, infatti, l’idea 27


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di libertà e di raffinatezza era strettamente legata all’affrancamento dell’individuo dalla fatica del lavoro manuale. Considerato compito esclusivo degli schiavi. I due più importanti filosofi greci del quarto secolo a.c., Platone e Aristotele, pur divisi su tante cose, sono invece uniti nel ritenere che l’uomo, per realizzarsi, debba dedicarsi soprattutto alla riflessione e alla meditazione. Il primo (nella sua opera più importante, Repubblica) espone una rigida suddivisione della società, che non ammette gli schiavi ed esclude i lavoratori dal governo dello Stato. Il secondo individua nel lavoro qualcosa che avvilisce l’intelligenza, mentre “c’è bisogno di ozio per sviluppare le virtù e le attività politiche”. Come Platone sostiene conseguentemente la piena necessità, ma anche la totale legittimità della schiavitù. Infatti, secondo Aristotele la schiavitù è indispensabile in quanto rende possibile l’effettuazione di tutti quei lavori di fatica che sono “indegni” dell’uomo libero. Essendo lo schiavo “servo per natura”, ritiene assolutamente giusta la schiavitù. Anche per la buona ragione che gli schiavi non sarebbero in grado di realizzarsi da sé stessi. Naturalmente Aristotele non è nemmeno sfiorato dal dubbio che questa incapacità non sia la causa, ma l’effetto della condizione servile. Va detto comunque che le sue considerazioni riflettono una persuasione (socialmente razzista, la definiremmo oggi), largamente diffusa nel mondo greco. Al quale non faceva certo difetto nemmeno il razzismo etnico. Infatti, riteneva che, sia i barbari occidentali, dotati di forza fisica ma privi di intelligenza, che gli asiatici (particolarmente i persiani), dotati di intelligenza ma privi di coraggio, fossero nettamente inferiori ai greci. Capaci invece di unire contemporaneamente forza e intelligenza. Quindi “secondo natura” più adatti a governarsi e autodisciplinarsi. Non sorprende dunque che per Aristotele lo schiavo sia semplicemente un “oggetto di proprietà”. In quanto “non appartiene a sé stesso, ma a un altro”. E affinché non rimangano dubbi chiarisce: “Il termine ‘oggetto di proprietà’ si usa allo stesso modo che il termine ‘parte’. La parte, infatti, non è solo parte di un’altra cosa, ma appartiene interamente a un’altra cosa; così pure l’oggetto di proprietà. Tuttavia, mentre il padrone è il solo padrone dello schiavo e non appartiene allo schiavo, lo schiavo non è solo schiavo del padrone ma appartiene interamente a lui”. 28


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Nella civiltà greca domina quindi il pensiero che considera il lavoro manuale un’attività costrittiva, indegna dell’uomo libero. Questo, sia per ragioni connesse alla struttura sociale perseguita, ma anche per il motivo banale e pratico, come dice Senofonte, che “il lavoro requisisce tutto il tempo libero e non lascia perciò tempo alcuno per la politica e per gli amici”. Rispetto all’opinione prevalente, non mancano tuttavia voci dissonanti. La più autorevole è quella di Socrate che dà una valutazione sostanzialmente positiva del lavoro, sia manuale che intellettuale. Egli sostiene, infatti, la necessità di coniugare l’attività manuale con quella intellettuale, come modalità per conseguire la saggezza e la giustizia. Esprime perciò la convinzione che la libertà non è pigrizia e ozio ma impegno a produrre cose utili per la famiglia e la comunità. In proposito, secondo quanto riferisce Senofonte, Socrate domanda ad Aristarco: “ Hai mai sentito dire che la pigrizia e la trascuratezza siano utili all’uomo per apprendere ciò che deve sapere, ricordare ciò che ha appreso, avere salute e forza nel corpo e acquisire e conservare le cose utili della vita? O credi che il lavorare e il preoccuparsi non servano a nulla?”. A difesa del lavoro, considerato uno strumento indispensabile al miglioramento della vita, si schiera anche Esiodo. Alla guerra e allo spirito di avventura dell’epica omerica (fondamenti della cultura greca antica) Esiodo contrappone, infatti, la pace, l’onestà, la giustizia e l’amore per il lavoro. Che considera componente essenziale per l’esistenza umana. Tale da rivestire un valore sacro in quanto “imposto dagli dei”. Peraltro, esso è anche l’unico mezzo di cui l’uomo può disporre per riscattarsi dalla sua condizione di dipendenza, di limitatezza, di soggezione alla natura e, dunque, agli dei. Resta il fatto che, sia pure con eccezioni importanti, la tendenza dominante nella Grecia antica rimane quella di un sostanziale disprezzo del lavoro, considerato attività servile. Non a caso per altro, il solo dio che lavora manualmente, Efesto è zoppo e deforme. Nella civiltà greca, infatti, il primato è sempre riconosciuto alla bellezza e alla riflessione, le quali non hanno nulla da spartire con il lavoro. Del resto la superiorità dell’uomo sull’animale viene ricondotta alla sua intelligenza. Tant’è vero che ad Anassagora, il quale sostiene che l’uomo è l’animale più intelligente in quanto ha 29


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le mani, Aristotele non manca di obiettare che l’uomo ha ottenuto le mani solo perché è il più intelligente tra gli animali. … e in quello romano Anche la civiltà romana, che pure ci ha lasciato grandiosi monumenti per celebrare il lavoro e non di rado ha esaltato il progresso che esso ha reso possibile, ha onorato soprattutto il non-lavoro. Per i romani, infatti, il termine otium esprime un significato positivo, mentre il negotium (vale a dire il lavoro) assume generalmente un’intonazione negativa. Non per tutti ovviamente. Ma soprattutto per quanti non hanno la necessità di sottostare alla pena del lavoro manuale. Nelle Georgiche, tuttavia, Virgilio pur definendolo improbus presenta il lavoro come un dono che Giove ha messo a disposizione dell’uomo affinché, spinto dalla necessità, acuisca il suo ingegno, promuovendo le diverse attività e perseguendo così il progresso. (“Tutto vince il lavoro assiduo e la necessità sprona nei momenti difficili”, Georgiche, libro I). A giudizio della maggioranza dei suoi interpreti, in questo mito Virgilio fonde le due opposte concezioni del lavoro: quelle del greco Esiodo e del latino Lucrezio. Dal primo, infatti, riprende e approfondisce il valore sacrale del lavoro. Escludendo però il carattere punitivo, delineato invece dal poeta greco. Del secondo conserva invece il valore positivo, ma ne elimina i tratti laici e razionalistici (oggi diremmo secolarizzati). In base ai quali erano stati la fatica e l’ingegno umani, vale a dire gli uomini senza alcuna intermediazione degli dei, a permettere il passaggio dall’età primitiva all’età civile. Anche Cicerone elogia il lavoro. Non tutto però. Perché è sempre necessario distinguere tra le attività “nobili” e quelle “ignobili”. In questo senso, nel De Officiis (dopo aver esaltato particolarmente le attività agricole, scrive: “Delle professioni (artificia) e delle industrie (quaestus) diciamo finalmente quali di esse siano da ritenersi nobili (liberales), quali ignobili (sordidi)… Si disapprovano tutte quelle forme di guadagno che incorrono nell’odio della gente. Come: esattori e usurai. Inoltre ignobili e spregevoli sono i guadagni di tutti i mercenari che vendono, non il lavoro mentale (operae), ma il lavoro manuale (artes). Infatti, per essi la mercede stessa 30


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è la sanzione della servitù (ipsa merces auctoramentum servitutis). Spregevoli devono anche ritenersi quelli che presso i grandi mercanti acquistano cose da rivendere immediatamente. Nulla guadagnerebbero se non mentissero. E non c’è nulla di più turpe che mentire. Anche tutti gli artigiani (opifices) esercitano un mestiere vile (sordida ars), perché niente di nobile ci può essere in un’officina. Tanto meno sono apprezzabili quei mestieri che servono alla voluttà…”. In definitiva, per Cicerone sono molto di più i lavori da disprezzare rispetto a quelli da salvare. A sua volta Lucrezio celebra, in una breve ma intensa storia, la fatica dell’uomo. È una narrazione nella quale (a differenza di altri pensatori) non entra solo la lotta con la natura, ma anche e soprattutto la cultura. Come fattore di acquisizione lenta e progressiva di civiltà da parte dell’uomo. Nel De rerum natura scrive: “Il bisogno e a un tempo lo sforzo del vigile ingegno che a gradi procede ci insegnò a navigare, ad arare la terra, a fare le case, le mura, le armi, le leggi, le strade, le vesti e altri simili cose e tutto quanto allieta e conforta la vita: i carmi, i dipinti, le statue. Il tempo così, a poco a poco, discopre ogni cosa…”. Insomma, poco a poco, l’uomo scopre le arti e, attraverso di esse, egli conquista “in piena autonomia” la sua cultura. Perciò nella visione epicurea del mondo di Lucrezio, il lavoro non è la conseguenza del peccato e della necessità di espiazione. L’etica cristiana del lavoro A sua volta, il pensiero religioso ha avuto una grande influenza (nel corso dei secoli) sulla concezione del lavoro. E dunque sul modo con cui si è andata organizzando la società. In proposito va osservato che, né l’ebraismo, né il cristianesimo (fondato dal figlio di un falegname) esprimono distacco e lontananza dal lavoro. Al contrario, lo considerano necessario, utile e moralmente valido. Anche se sempre posposto alla preghiera e alla contemplazione. Ma questo non è considerato un problema. Perché, come insegna la Bibbia, la vita contemplativa non esclude affatto la vita attiva. Al contrario, la garantisce e la orienta. Questo stesso approccio è ripreso e sviluppato da Sant’Agostino. Il filosofo dell’interiorità e della Civitas Dei. Secondo Sant’Agostino la “città di Dio” è opposta alla città terrestre in quanto all’una presie31


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de l’amore di Dio, all’altra lo smodato amore che l’uomo riserva a sé stesso. Tuttavia, quale che sia l’opposizione tra le due città, Sant’Agostino prende atto che l’uomo vive anche e soprattutto nel mondo terreno. Avendo ben presente questa condizione egli chiede perciò all’uomo di non dimenticarsi mai di essere, prima di tutto, un “operaio di Dio” (operarius Dei). Perché solo così il lavoro non sarà soltanto un mezzo per guadagnare il salario, ma diventerà il requisito per poter godere in una patria che è la stessa Civitas Dei. Certo, il lavoro può costituire anche poena. Ma se è fructuosos e convogliato al fine della salvezza dell’anima. Perché questo si realizzi, deve però essere sottoposto alla legge morale della giustizia e della carità. Al riguardo Sant’Agostino scrive: “Una cosa è lavorare manualmente con animo sgombro come l’operaio (opifex), ove non sia fraudolento, avaro e avido di possedere in proprio; un’altra cosa è tenere l’animo occupato dall’affanno di accumulare soldi senza lavoro manuale, come fanno gli affaristi (negotiatores) o gli amministratori (procuratores) e gli imprenditori (conductores) che si danno affannosamente da fare, ma non lavorano manualmente e perciò ingombrano il proprio animo dal tormentoso desiderio di possedere”. Per Sant’Agostino quindi il lavoro manuale è da preferire rispetto alle attività più lucrose ma improduttive. Che, per altro, a differenza del lavoro fatto con le braccia, non permettono nemmeno di conservare l’animo libero. Dunque il lavoro manuale costituisce un merito in vista della salvezza dell’anima e presso Dio. Un merito maggiore anche rispetto a qualsiasi inno rivolto al Signore. A partire da questa enunciazione si delinea un’interpretazione non ascetica dell’etica cristiana del lavoro. In definitiva Sant’Agostino ritiene che la città di Dio non sia separabile dalla città terrestre. Perciò la vita contemplativa deve essere complementare alla vita attiva. È evidente che su queste basi viene modificata significativamente l’impostazione dell’ebraismo e del cristianesimo delle origini, i quali invece posponevano l’attività lavorativa a quella ascetica. Mezzo secolo dopo Agostino, San Benedetto da Norcia (fondatore del monachesimo), con il suo ora et labora introdurrà ulteriori innovazioni ai termini, sia teorici che pratici, del problema del lavoro. L’assunto è che il lavoro costituisce semplicemente un mezzo, mai un fine dell’esistenza. Si lavora per vivere, non si vive per lavo32


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rare. Perciò San Benedetto prescrive, in quanto coessenziali, il lavoro manuale, come quello intellettuale. Preghiera e lavoro, inoltre, sono attività entrambe necessarie. Ma non sono sullo stesso piano. Considerata la superiorità indiscutibile della prima sulla seconda. Per capire la svolta, relativamente alla concezione del lavoro, introdotta dal monachesimo occorre tenere presente che nell’organizzazione conventuale si sviluppa un’economia autarchica. La regola dunque è che si deve produrre tutto il necessario per la propria sopravvivenza. Le attività dei monaci vanno perciò dal lavoro nei campi e negli orti, all’artigianato. Tuttavia non per tutti. Inizialmente, infatti, le mansioni più pesanti venivano svolte in gran parte dai contadini liberi, dai servi e dai frati laici, mentre l’artigianato veniva esercitato dai monaci. Indipendentemente dalla discutibile distribuzione delle mansioni, a seconda della categoria sociale di provenienza, va sottolineato che, anche grazie alla minuziosa organizzazione del lavoro artigianale, il monachesimo ha potuto dare grande impulso allo sviluppo dell’arte e della cultura medioevale. Per altro è bene tenere presente che nei conventi medioevali gran parte dei monaci era di estrazione aristocratica. Quindi persone le quali, per la loro origine sociale, non avevano mai dovuto impugnare una zappa, uno scalpello, o una cazzuola. Malgrado questo “peccato originale”, entrano però in diretto contatto con le costruzioni, le arti figurative, la ricopiatura dei libri. Tutte attività “rimarchevoli” che avranno un’importante ricaduta sulla diffusione del sapere e della cultura. Tanto in epoca medioevale, che in quelle successive. Sebbene in un quadro in via di evoluzione, il disprezzo per il lavoro manuale è tuttavia ancora molto diffuso e l’idea del “signore” resta a lungo legata a quella della vita oziosa. Ma diversamente da quanto accadeva nell’antichità, anche la vita laboriosa incomincia ad acquistare un valore positivo. Malgrado ciò è ancora difficile parlare di una nobilitazione della vita a opera del lavoro. Come avverrà nei secoli successivi. In seguito (nel tardo Medioevo) il teologo e filosofo San Tommaso, in rapporto alla questione del lavoro, si cimenta nel ridefinire contemporaneamente l’ideale e la prassi cristiana. Intendiamoci: quella fornita da San Tommaso non può essere considerata una trattazione adeguata e completa della complessa problematica relativa 33


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al lavoro. D’altra parte la civiltà contadina in cui ha vissuto presentava, ovviamente, problemi molto più semplici di quelli con i quali siamo invece alle prese nella società contemporanea. Tuttavia le sue considerazioni su questa attività umana (dal punto di vista teologico) raggiungono spesso una notevole profondità. Perché ne toccano gli aspetti più importanti. Infatti, definisce meglio il suo ambito. Ne chiarisce i fondamenti culturali sulla società. Ne descrive le funzioni basilari. Il punto di partenza per San Tommaso è che il lavoro costituisce un’attività personale regolata dalla ragione. Perciò, essendo l’uomo tutto spirito, di fatto è il soggetto uomo che lavora. In sostanza il riferimento è al solo homo per manum. Ma, rispetto a un concetto piuttosto riduttivo del lavoro che in larga misura era fino allora prevalso, San Tommaso vi fa rientrare quasi tutte le attività umane. Tanto quelle che comportano uno sforzo fisico, quanto quelle che richiedono invece soprattutto energia mentale. In ogni caso, secondo l’aquinate, l’esigenza del lavoro non è disgiungibile dalla natura umana. E poiché l’uomo è costituito di anima e di corpo, il suo agire ha sempre carattere psicofisico. Composto da pensiero e azione. In proposito scrive: “L’uomo è fatto di anima e di corpo. Dunque secondo l’ordinamento divino è necessario che esegua attività corporali e si applichi pure alle spirituali (…) Non rientra pertanto nella perfezione umana escludere qualunque opera corporale. Anzi, essendo le opere corporali indirizzate a quanto si richiede per la conservazione della vita, se uno le tralascia trascura la sua vita, che invece è tenuto a conservare. L’aspettare poi aiuto da Dio allorché ci si può aiutare con la propria azione, è da uomo sciocco che tenta Dio. (…) Quindi non si aspetti che Dio venga in aiuto quando si tralascia ogni azione propria con cui ci si possa aiutare. Perché questo ripugnerebbe all’ordinamento e alla bontà di Dio” (Summa contra Gentiles). Per di più, assieme alla funzione personale e personalizzante, il lavoro assume anche un rilevo sociale. Esso può, infatti, essere un mezzo per soccorrere coloro che a causa della malattia, della vecchiaia, o per altri motivi, non sono in grado di guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro. Oltre tutto: “Nessun uomo da solo è in grado di svolgere tutte le attività di cui la società ha bisogno”. 34


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San Tommaso non trascura nemmeno il problema del rapporto tra vita contemplativa e vita attiva (così cruciale ai suoi tempi) affermando che: “La contemplazione è quiete rispetto al mondo esterno; ma lo stesso contemplare è un moto dell’intelletto, nel senso che si chiama moto qualsiasi operazione”. Infine richiamando la Bibbia, l’aquinate considera la “vita contemplativa” preminente rispetto alla “vita attiva”. Sottolinea tuttavia che tra queste non c’è opposizione. In quanto la seconda ha la funzione di moderare e ordinare le passioni dell’anima. Ricordando San Paolo, il quale afferma: “portate gli uni i pesi degli altri e così adempirete perfettamente alla legge di Cristo”, San Tommaso sostiene che pure l’ingresso nel mondo, come l’impegno dello stesso religiosus, è richiesto proprio dal comando evangelico “ama il prossimo tuo”. Naturalmente il religiosus deve tenersi lontano dal commercio, che è proprio della “vita attiva”. Il commercio tuttavia non costituisce un male in sé. Infatti, aggiunge San Tommaso: “Niente impedisce di ordinare il guadagno a qualche fine necessario e onesto. In tal caso il commercio è lecito. Come quando uno ordina il modesto guadagno cercato nel commercio al sostentamento della propria famiglia, o a soccorrere i bisognosi. Oppure quando uno si dedica al commercio per l’utilità pubblica, cioè perché nella sua patria non manchino le cose necessarie; e ancora quando mira al guadagno, non come fine, ma come compenso del proprio lavoro” (Summa Theologica). I costruttori di cattedrali Comunque, il dibattito teologico-culturale sul lavoro non è mai separato (e separabile) dalla prassi. Così nel Medioevo, anche grazie all’aumento della ricchezza, esso incoraggia e accompagna la realizzazione di opere maestose come le cattedrali. Si tratta di costruzioni imponenti le quali per grandiosità e diffusione non trovano riscontro nelle civiltà precedenti. Al punto che uno storico francese, in un noto studio a proposito dei “Costruttori di Cattedrali”, scrive: “Nel corso di tre secoli, dal 1050 al 1350, la Francia ha estratto dalle sue cave milioni di tonnellate di pietre per edificare ottanta cattedrali, cinquecento chiese grandi e qualche decine di migliaia di chiese parrocchiali. Ha trasportato una più grande quantità di pietre la Francia in quei tre secoli che l’antico Egitto in qualsiasi periodo della sua 35


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storia. (…) Le fondamenta delle grandi cattedrali penetrano fino a non meno di dieci metri di profondità (è il livello medio di una stazione del metrò parigino) e formano in certi casi una massa di pietra non meno grande di quella visibile sopra la superficie”. Questa descrizione riesce a fornire solo una vaga idea di quale sia stata (in tutta Europa) l’entità del fenomeno della costruzione di cattedrali, delle basiliche, delle chiese vescovili in epoca medioevale. Un impegno talmente grandioso e gravoso da non poter ricadere tutto sulle risorse della Chiesa. La cattedrale come il duomo cittadino, sono, infatti, al centro delle città comunali di cui diventano simbolo, segni di ricchezza e di prestigio delle rispettive comunità. Spesso il vescovo non è che il promotore della costruzione, che però nasce e cresce per volontà dei cittadini, tanto agiati che comuni. Perché il legame tra il benessere delle città e dei suoi abitanti (ottenuto grazie al loro lavoro) e la magnificenza delle chiese debba risultare evidente anche ai forestieri. I quali riescono, in questo modo, a intuire e apprezzare la prosperità della comunità in cui sono arrivati. Quello della costruzione delle cattedrali, come delle grandi chiese vescovili, è un elemento importante per rendersi conto del ruolo preminente che l’architettura, le modalità di costruzione, l’innovazione tecnologica, il lavoro manuale, assumono nel Medioevo. Persino le differenze estetiche, assieme alle stesse modalità costruttive, esprimono diversi orientamenti culturali. In effetti, a partire dal XII secolo, nelle costruzioni sacre si distinguono due profonde differenze architettoniche e tecnico-strutturali, quelle tra Romanico e Gotico. Due stili che rappresentano, assieme alle straordinarie novità nelle tecniche costruttive, anche i mutamenti del quadro storico, sociale, religioso e ambientale. La cattedrale Romanica comunica, con la ritrovata sicurezza da parte dell’Europa dopo l’incubo dell’anno Mille: una religiosità austera; la nuova etica del lavoro; l’avvento del potere comunale; il coinvolgimento, nelle sue realizzazioni, delle corporazioni e dei ricchi mercanti. I quali faranno a gara a contribuire con opere sontuose al decoro della chiesa, offrendo vetrate, sculture, altari o oggetti di culto. La cattedrale Gotica manifesta invece: la costituzione di una borghesia ricca; la grande influenza degli ordini monastici (come i Cistercensi e i Templari); l’ideale religioso di un’elevazione spiritua36


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le la quale crede che nell’audacia delle opere architettoniche, nella bellezza e perfezione delle opere d’arte, sia contenuta l’annuncio e la speranza di una vita migliore. Non a caso, in un rituale dei lavori che, all’epoca, si svolgeva in “camera di apprendista” si dice in apertura: “Che la sapienza illumini il nostro lavoro. Che la Bellezza lo irradi e lo compia. Che la forza lo renda saldo. (…) Che la Luce della forza resti nei nostri cuori. Che la Luce della Bellezza resti nei nostri cuori. Che la Luce della sapienza resti nei nostri cuori”. All’etica cristiana si sovrappone qui la cultura massonica. Perché: Forza, Bellezza, Sapienza, sono le tre fondamentali virtù dell’Arte Reale che un Massone pazientemente impara nel suo cammino iniziatico, dal primo al terzo grado. L’arte nasce dalla speranza, guarda al futuro. È un progetto di convivenza verso una vita migliore, anche quando ci mette di fronte a situazioni negative. È per questo che il “Libero Muratore” costruisce il Tempio attraverso l’incessante ricerca della verità, pur sapendo di non poterla mai raggiungere. Nel tempo assiste alla distruzione del Tempio e alla sua ricostruzione, ma non desiste. Perché l’arte è la meta del suo lavoro, che svolge, appunto, con Sapienza, Bellezza e Forza. Il lavoro nel Rinascimento La concezione cristiana del lavoro viene ulteriormente messa in discussione e si indebolisce in epoca rinascimentale. Nella struttura sociale diminuisce, infatti, il prestigio e conseguentemente la capacità attrattiva del ruolo contemplativo, mentre prende sempre più consistenza quello per l’attività lavorativa e produttiva. La borghesia è portata dal suo crescente attivismo mercantilistico a scorgere nel lavoro più un fine che un mezzo. Senza negare il riferimento al cristianesimo, che sul piano formale permane, il Rinascimento estrinseca una visione incentrata sull’uomo come deus secundus. Il che riduce, nei fatti, il valore della vita contemplativa e speculativa e accentua quello della vita lavorativa. Naturalmente senza rinnegare il pensiero per l’azione, ma trovando nel primo il fondamento per la seconda. L’obiettivo è la realizzazione di un regnum dei che passi attraverso la costruzione di un regnum hominis. Di conseguenza, il modo migliore di servire Dio è quello di trasformare il mondo. 37


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Il pensiero rinascimentale dell’homo faber (Pico della Mirandola nell’Oratione de hominis dignitate) esprime, infatti, una nuova visione dell’uomo. Il convincimento che si fa strada è che egli sia in grado di cambiare il mondo e dargli nuova forma. Al riguardo Pico ritiene che attraverso la “virtù dell’autodisciplina del tempo” l’uomo può dare nuova forma all’esperienza. Questo grazie soprattutto all’accumulo di conoscenza acquisita nello sfidare il caos della natura. È facile capire che si tratta di una concezione in netto contrasto con la dottrina proposta della Chiesa. In quanto, sulla base dei dogmi religiosi, disciplinare il proprio tempo è certamente considerata una virtù, ma progettare il futuro è invece un grave peccato d’orgoglio. Tenuto conto che il solo modello possibile per gli uomini resta la vita dei santi. Per questo Pico, pur dichiarando di sottomettersi ai richiami della Chiesa, non manca di insistere sul fatto che il pensiero del “viaggio spirituale” non può essere separato dal “tempo storico”. In proposito rievoca la vicenda di Ulisse e ne prende spunto per riaffermare la sua visione del cristiano che si muove nella storia. Al riguardo non esita a sostenere che la sua teoria non mette in alcun modo in discussione la meta finale dell’uomo. Il quale appunto come Ulisse si mette per mare (viaggio spirituale) volendosi creare da sé (auto creazione). Il mare è perciò assunto a simbolo dell’io interiore in continuo mutamento. Resta il fatto che per Pico solo nella sintesi tra pensiero e azione si fonda la grandezza dell’uomo. Tale cioè da farlo uscire dalla sua medietas tramite una scelta, figlia del pensiero e del lavoro (De dignitate hominis), che lo innalza fino al cielo. In definitiva, solo sommando pensiero e azione l’uomo riesce a salvarsi. Si tratta di cambiamenti culturali di grandissima portata. Tali da favorire (nel XVI secolo) il sorgere e la diffusione del “capitalismo”. Si assiste, infatti, a un numero crescente di persone impegnate a rifornire artigiani, soldati, agricoltori. Oppure a procurare i capitali, gli attrezzi, le materie prime, il denaro, prendendo in cambio per sé una parte del prodotto. La massa dei capitali messa in circolazione risulta così in continuo aumento. Si apre quindi una fase nuova della vita economica e sociale. Per la verità non si può dire che il fenomeno sia completamente inedito. Infatti, già nel XIII secolo il grande commercio con l’Oriente e con il Nord aveva prodotto significa38


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tive forme di “capitalismo”. Prendendo in particolare piede in città come Firenze, Venezia, Bruges, Liegi, Gand. In seguito si svilupperà ed estenderà anche in diverse altre. Ma dalla fine del 1400 assumerà una rapidità e una consistenza tali da giustificare pienamente (con riferimento al Rinascimento) la definizione di epoca della “Rivoluzione economica”. La categoria sociale protagonista di questa rivoluzione sarà soprattutto la borghesia capitalista. Per la quale l’esasperato individualismo, la volontà di dominio, il desiderio di ricchezza, il gusto per la vita agiata e lussuosa, costituiscono la molla per nuovi tipi di impresa economica. Nel dibattito culturale si è lungamente considerato lo “spirito capitalistico” una delle dirette conseguenze della Riforma protestante. La cosa non è priva di fondamento. Tenuto conto che la Chiesa cattolica (all’epoca) condannava come usura il prestito a interesse e che nel concilio lateranense V (nel 1515) aveva ulteriormente ribadito tutte le sue tradizionali posizioni in ordine all’attività economica. Non a caso nelle costituzioni conciliari si sosteneva, tra l’altro, che i beni economici potevano essere considerati legittimi solo e in quanto avessero prodotto i mezzi necessari per vivere dignitosamente. Dovevano dunque essere ricercati con moderazione. Secondo le costituzioni conciliari, infatti, colui che compra per trasformare e poi rivendere non è considerato un peccatore, mentre lo è chi compra solo per rivendere a scopo unicamente speculativo. Si deve inoltre vendere al giusto prezzo. Che è appunto quanto permette di soddisfare i bisogni vitali del produttore. Non è difficile capire che si trattava di idee le quali avrebbero potuto adattarsi e quindi trovare accoglienza in una società agricolo-artigianale. Molto meno (se non per nulla) in un nuovo sistema di produzione e di commercio. Quale quello che si andava affermando. Bisogna dire tuttavia che negli enunciati (oltre che nella prassi) della Chiesa non mancavano affatto le contraddizioni. In effetti, essa considerava legittimi gli investimenti di capitali solo nel caso che il creditore partecipasse alla direzione dell’impresa, o semplicemente ai suoi rischi. Autorizzando in tal modo l’accomandita. Permetteva inoltre la cessione di una somma di denaro in cambio di una rendita perpetua. Incoerenza non da poco con i principi enunciati. Perché, di fatto, si trattava di un prestito a interesse mascherato. 39


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Tutte questioni che verranno utilizzate anche per esasperare il conflitto religioso esploso in quegli anni. Si spiega perché Giovanni Calvino non esiterà a dichiarare lecito il prestito e a legittimare l’acquisizione e l’accumulo delle ricchezze. Inoltre Calvino rafforzerà l’etica del lavoro già abbozzata da Lutero. Per lui, infatti, il lavoro possiede un valore religioso. È una vocazione attraverso la quale nel mondo si realizza il piano divino. Sotto questo profilo andrebbe probabilmente riconsiderata la tesi, di cui siamo debitori a Max Weber. Tesi in base alla quale la Riforma calvinista avrebbe costituito la genesi dello spirito capitalistico. Il motivo di tale riconsiderazione appare abbastanza evidente. In quanto la borghesia capitalista, nell’esaltazione del lavoro, più che la realizzazione di un piano divino (come credeva invece Calvino), assai probabilmente vedeva ben interpretata la sua crescente aspirazione al potere politico e sociale. C’è da dire comunque, che mentre Weber faceva derivare il capitalismo dal calvinismo predestinazionista, altri autori lo hanno invece collegato allo spirito che ha pervaso il Rinascimento e all’influenza dell’ebraismo, per il ruolo da esso avuto nella notevole diffusione dello spirito mercantile. Detto per inciso, l’antisemitismo incomincia a manifestarsi proprio in quel periodo. Comunque, per quanto riguarda il lavoro, c’è da rilevare che con il calvinismo e la riforma luterana si afferma un’interpretazione ascetica. In quanto spoglia il lavoro del suo abito strumentale e lo innalza invece a valore pressoché assoluto. Di fatto nasce una nuova cultura e una nuova etica: quella del lavoro come testimonianza di un’ascesi verso il soprannaturale. Per altro, nell’esaltazione del lavoro come specchio di Dio, che fa coincidere professione e vocazione spirituale, trasformandola nel suo opposto (come prefigurato dalla logica capitalista) si ritroverà un’eco anche nella teoria di Marx (Il Capitale). Con essa Marx descrive la sostituzione dello schema tipico delle economie naturali di sussistenza (basate sul circuito: merce-denaro-merce) con quello delle economie capitalistiche di sviluppo, fondate invece sul rapporto circolare (denaro-merce-denaro). Nelle prime il lavoro può produrre un miglioramento della condizione umana e dunque può anche assumere un valore etico, religioso. Al contrario, nelle seconde il 40


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capitalismo non usa i frutti del lavoro per il progresso dell’umanità. Ma principalmente per nuovi investimenti, che si traducono in nuovo danaro e nuova ricchezza, per pochi. Tra utopia e scienza Tra cinquecento e seicento la concezione del lavoro subisce quindi una profonda trasformazione. Non a caso, del resto, prende forma anche un nuovo genere letterario: quello di “utopia”. Alcune delle opere filosofiche composte in questa epoca (come quelle di Tommaso Moro e di Campanella) cercano di rappresentare un modello di società pacifica e giusta, collocata in un luogo immaginario, e nella quale il lavoro costituisce un elemento imprescindibile. Con il loro racconto essi ci portano in un’utopia letteraria. Nella città ideale descritta da Moro (Utopia) viene riferito il fantomatico viaggio di Raffaele Itlodeo in una fittizia isola-regno. Nel regno di Utopia la proprietà privata è vietata per legge e la terra deve essere coltivata a turni di due anni, da ciascun cittadino. Nessuno escluso. Anche ne La città del sole di Tommaso Campanella non esistono beni privati, che indurrebbero all’egoismo e alla sopraffazione reciproca. Ispirandosi al modello platonico, gli abitanti della città hanno in comune sia i beni che le donne. Però, a differenza di Platone, Campanella non prevede la divisione in classi. Il lavoro pertanto è obbligatorio per tutti e senza distinzione tra attività manuali e intellettuali. Entrambi i pensatori utopisti teorizzano dunque un mondo in cui tutti lavorano, allo scopo di poter ridistribuire equamente quella che potrebbe essere definita come “sofferenza socialmente necessaria”. Nonostante il modello originario dell’utopia rimanga la Repubblica platonica, lo scopo dei nostri filosofi è però quello di proporre un regnum hominis. Dal quale i vizi e le colpe sono definitivamente cancellati. C’è da chiedersi come mai nel Medioevo non si sia affatto manifestata una fioritura analoga di letteratura utopica. La spiegazione è complessa. Tuttavia, ridotta all’osso, si può dire che questo bisogno venisse assorbito, come tutto il pensiero filosofico, dall’egemonia della dottrina cristiana in materia di lavoro. In tutti i secoli precedenti il Rinascimento, il pensiero cristiano è stato, infatti, orientato a riconoscere, nella storia dell’umanità, le tappe del diffondersi 41


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del regno di Dio e a ricercare nella realtà storica le tracce di un progetto divino. Cioè di un disegno salvifico. Con l’avvento della modernità, invece, la molla principale del pensiero utopico diviene una nuova concezione del lavoro. Al quale tutti gli “utopiani” sono tenuti e i supremi magistrati hanno il diritto di pretendere e il dovere di assicurare. Non è dunque un caso che nel seicento, secolo centrale della modernità, il lavoro divenga l’ideologia della nuova società. Ciò accade perché la scienza moderna si congiunge con la civiltà industriale. Uno dei precursori di questa fusione è stato certamente Francesco Bacone, che sarà, infatti, definito “filosofo della civiltà industriale”. Egli propone di sviluppare al massimo il lavoro dell’uomo per trasformare la natura. A suo giudizio i processi conoscitivi hanno un valore proprio in funzione del lavoro. Dato che, appunto, non è possibile trasformare la natura se non conoscendone le leggi. Proprio perché fiducioso nel progresso ottenuto con il lavoro, ma altrettanto convinto della necessità di realizzare sempre ulteriori passi in avanti, Bacone non esita ad affermare che “gli antichi siamo noi” e che il “sapere è potere”. Sulla stessa linea di celebrazione del lavoro si colloca John Locke, secondo il quale la proprietà del proprio lavoro è più importante della proprietà della terra. Perché la terra, senza il lavoro dell’uomo, non produce niente e quindi serve a poco. Non a caso, del resto, “Dei prodotti della terra utili alla vita dell’uomo i nove decimi sono il risultato del lavoro”. Perciò è il lavoro (e non altro) che determina la differenza di valore di ogni cosa. Anche Cartesio esalta il lavoro, che rende l’uomo “maestro e signore della natura”, per mezzo dell’attività guidata dalla scienza. Il suo Discours de la méthode (Discorso sul metodo) si propone come scopo, più che di creare una filosofia autonoma, di spronare l’attività degli scienziati “per orientare la ragione a cercare la verità nelle scienze”. Lo stesso celebre “cogito ergo sum” (penso quindi esisto), segna una netta distanza tra la spiritualità dell’anima e la meccanicità della natura, che l’uomo ha il compito di dominare e trasformare con il lavoro. Il senso del lavoro, il suo valore e i suoi strumenti, cambiano però ulteriormente e in modo radicale con la rivoluzione scientifica di 42


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Galileo. Rivoluzione che apre definitivamente la strada alla tecnica e al meccanicismo. Alla vecchia scienza medioevale e rinascimentale, vaga, approssimativa, non provabile, Galileo sostituisce le “sensate dimostrazioni” di una metodologia meccanica, ripetibile e dimostrabile della ricerca scientifica. Cessano quindi del tutto le credenze relative al cosmo e alla cosmologia. Viene meno la “fisica delle essenze” e prevale una concezione di dominio, in cui si afferma la volontà di conquista per mezzo del lavoro da parte del nuovo ceto sociale borghese. L’amore per la natura si trasforma quindi nell’aspirazione al suo domino da parte del lavoratore. Il punto da tenere ben presente è che da quel momento in avanti il lavoro dell’uomo moderno, il quale ha sostituito alla tradizione il progresso tecnico-scientifico, non avviene più in un mondo approssimativo, ma si colloca in un universo di sempre maggiore precisione. L’uomo, infatti, incomincia a cercare di dominare la realtà esterna con la meccanica e quella interna con la medicina. La sua quindi non è più sola saggezza teorica, ma anche crescente capacità manipolativa. Allo schema relativo alle attitudini e alla resistenza fisiologica del lavoro è sostituito lo schema meccanico. All’adattamento alla natura è sostituito lo sfruttamento della natura. Il lavoro tecnico non è più la semplice applicazione della scienza. Anzi, in non pochi casi, è invece la scienza a diventare semplice metodologia della tecnica. Così che la tecnica, seppure figlia della scienza, ne diviene, in una qualche misura, anche madre. L’illuminismo e la società industriale Della civiltà del lavoro l’illuminismo settecentesco costituirà l’ideologia e la sua grande costruzione culturale. Il più importante contributo verrà dall’Encyclopedie. La grande impresa di Diderot e d’Alambert. Nell’Encyclopedie, “dizionario ragionato delle scienze e delle arti e mestieri”, nonostante la molteplicità dei collaboratori, si ritrova uno spirito unitario industriel. Goethe lo sottolinea brillantemente scrivendo: “Quando sentivamo parlare degli enciclopedisti e aprivamo un volume di quell’opera enorme, era come se passassimo fra innumerevoli spole e telai in movimento di una grande fabbrica. Dove, per lo stridore e il fracasso, per tutto quel meccanismo che confonde occhi e sensi, per l’assoluta incomprensibilità di uno 43


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stabilimento della massima complessità, a considerare tutte le operazioni occorrenti per produrre un pezzo di stoffa, si prova alla fine un’impressione di pena per l’abito che ci portiamo addosso”. La considerazione di queste “operazioni occorrenti” comporta una vera e propria analisi scientifica dei processi lavorativi di manifattura. Per fare un solo piccolo ma illuminante esempio, a queste operazioni fa riferimento la voce epingle (spillo) dell’Enciclopedia. Al riguardo ritroviamo scritto: “Lo spillo è il più misero dei mezzi meccanici, il più comune, il meno prezioso e tuttavia uno di quelli che, forse, richiedono il maggior numero di operazioni combinate. Da ciò risulta evidente che l’arte, come la natura, manifesta i suoi prodigi nei piccoli oggetti e che l’industria è limitata nelle sue vedute quanto è ammirabile nelle sue risorse, perché uno spillo prima di entrare in commercio è sottoposto a diciotto diverse operazioni”. E dopo avere descritto la successione di queste operazioni, aggiunge: “Gli spilli vengono appuntati sulla carta. Se ne prende una manciata e si ordinano una decina alla volta. È necessario sistemare fino a 36 migliaia di spilli al giorno. Eppure quando si è in questo molto esperti si guadagnano solo tre soldi. Così questo lavoro rimane in mano ai bambini, che guadagnano sei liardi per le sei migliaia che sono capaci di sistemare in giorno”. A parte ogni considerazione sui termini della questione sociale indotti da un’industrializzazione incontrollata e predatoria, c’è da rilevare che il lavoro diviso diventa così meccanico e così semplice da permettere anche l’occupazione di un bambino. Verso questo bambino non è ancora diffusa e generalizzata quella pietà che incomincerà invece a trapelare solo da alcune pagine del Capitale di Marx, nelle quali il filosofo ed economista tedesco si sofferma con maggiore partecipazione sul lavoro dei bambini nelle miniere. Non si può quindi non sottolineare che l’entusiasmo illuministico per il progresso scientifico, nonostante le sue implicazioni positive, finisca spesso per distogliere i “ragionatori” (raisonneur) dalla considerazione sul lato disumano della civiltà industriale. In effetti, l’elogio della conoscenza, la cui essenza è la tecnica, finisce per trasformarsi in approdo acritico in molta parte della mentalità enciclopedistica. Quasi sempre, infatti, i drammi e le sofferenze che questa conoscenza si porta dietro restano relegati in secon44


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do piano. Ciò che conta, secondo il modo di ragionare dell’epoca, è l’assoluta convinzione che senza la conoscenza e la tecnica non ci sarebbe, né potrebbe mai esserci, civilisation. Civilizzazione che, a sua volta, è essa stessa diretta alla soddisfazione dei bisogni, tanto primari che superflui. Questo approccio non è certo casuale. Tant’è vero che l’Encyclopedie contiene una definizione del lavoro che, di fatto, rimanda al suo significato biblico. Vale a dire come “pena”. Il testo si esprime infatti in questi termini: “Lavoro. Occupazione giornaliera alla quale l’uomo è condannato dal suo bisogno e alla quale deve, nello stesso tempo, la sua salute, la sua sussistenza, la sua serenità, il suo buon senso, e la virtù. Forse”. Siamo quindi tranquillamente in presenza di un rovesciamento delle teorie che, nei secoli precedenti, avevano concepito il lavoro come mezzo di elevazione spirituale. Hegel e il lavoro come processo Rispetto alla realtà industriale quale si sta manifestando, Hegel è stato il primo filosofo ad andare in controtendenza. In effetti, egli ritiene il lavoro momento essenziale di quel processo che deve portare alla costituzione di un mondo “per l’uomo”. Il quale deve quindi riprendere la piena coscienza di sé. Il fondatore della filosofia idealista annette perciò al lavoro, comunemente inteso e soprattutto al lavoro manuale, il valore che non gli può non essere attribuito all’interno di una determinata visione del mondo. Valore che identifica lo spirito con un’attività teoreticamente modellata e incentrata sull’azione lavorativa propria della società industriale. Hegel è rimasto particolarmente colpito dalla lettura della “Ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Dove, assieme all’esaltazione del ruolo della “mano invisibile” del mercato per regolare la produzione e la distribuzione della ricchezza, si sostiene la necessità della divisione del lavoro. Sono però proprio le conseguenze negative della divisione del lavoro, prospettata invece come necessaria da Smith (per aumentare la produttività e dunque la ricchezza), che vengono sottolineate con grande fermezza critica negli scritti di Hegel. La sua opinione al riguardo può essere riassunta nella considerazione che il lavoro diviso, conseguito dall’organizzazione industriale, equivalga a un “lavoro morto”. In quanto è sostanzialmente un “lavoro-di-macchi45


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na”. Che spoglia dunque della sua umanità il lavoratore, condizionato e limitato nella sua attività dal vincolo derivante dalla meccanica. Questo è un punto fermo della riflessione hegeliana, che si ritroverà in tutti i suoi scritti. C’è da osservare, tuttavia, che questo aspetto critico importante non supera però la tendenza a guardare all’esistenza del lavoro piuttosto che alla sua essenza. In sostanza Hegel si limita a considerare il lavoro così come emerge dalla “cosiddetta economia politica”. La quale si riduce a valutare il lavoro semplicemente in relazione a determinati rapporti di produzione, borghesi o capitalistici e ai risultati che ne possono derivare. Comunque, malgrado l’idealismo di Hegel non tradisca un moralismo tale da sospingerlo alla nostalgia per l’epoca preindustriale, o bucolica, egli non tace mai sul bisogno di non far perdere al lavoro (anche quando è prostrato dalla durezza delle “esigenze” economiche) il ruolo che può e deve avere nella formazione dell’uomo. Sappiamo però che quando si guarda alle “esigenze produttive” (e, dunque, all’organizzazione del lavoro e dell’economia), il tema del lavoro come processo attraverso il quale l’uomo dà contemporaneamente forma all’oggetto e forma a sé stesso, passa inevitabilmente in secondo piano. È esattamente ciò che accadeva ai tempi di Hegel, come ai nostri. Proprio su questo aspetto insisterà particolarmente (nel secolo XIX) Karl Marx. Secondo il filosofo ed economista tedesco, infatti, l’uomo (e quindi il lavoratore) finisce per essere un non-uomo in una società divisa in classi. Potrà divenire uomo-totale solo quando riuscirà a liberare effettivamente il lavoro dalla sua soggezione. Come è noto, il totale immanentismo di Marx identifica uomo e lavoro. Pertanto a lavoro-alienato non può che corrispondere uomoalienato. Di conseguenza l’uomo-liberato coincide con il lavoro-liberato. Una liberazione però che per Marx non passa attraverso il pensiero, ma attraverso la prassi. Il compito del filosofo pertanto più che quello di conoscere il mondo, è di contribuire a trasformarlo. Da qui la sua esortazione (Manifesto) per la costruzione del socialismo. Resta il fatto che per Marx il lavoro è l’attività attraverso la quale l’uomo modifica la materia in modo da poterla utilizzare per i suoi scopi, o per poter appropriarsi della natura. In questa sua concezio46


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ne, quindi, non vi è posto per le “confusioni” (attribuite a pensatori precedenti) tra lavoro dell’uomo e attività di alcune specie animali (come le api, i castori, eccetera) pur dirette a trasformare in qualche modo materiali naturali e a soddisfare le proprie esigenze primarie. Per Marx, infatti, queste attività sono caratterizzate dall’invariabilità del bisogno e dei modi per provvedervi. Invariabilità fissata da un meccanismo biologico particolare per ogni specie. L’uomo, invece, modifica la natura in funzione di necessità che sono ampiamente mutate nel corso della storia. Seguendo criteri basati sulla conoscenza delle leggi e delle proprietà della materia. L’uomo si avvale, infatti, nella sua opera sulla natura, di strumenti che sono già il prodotto della trasformazione di qualche cosa che si è trovato in natura. Il ramo o la pietra raccolti dall’uomo primitivo, nel mondo circostante, sono certamente elementi naturali. Ma solo l’osservazione e l’esperienza potevano trasformarli in strumenti. Ossia in oggetti di per sé incapaci di soddisfare i bisogni umani ma utilizzabili per ottenere quanto poteva soddisfarli. Per quanto riguarda in particolare il lavoro subordinato, la concezione di Marx è molto netta e può essere riassunta in questi termini: l’uomo vende la sua forza-lavoro senza altro scopo reale che la sopravvivenza. Infatti, la sua vita non si svolge nel tempo di lavoro, ma fuori da questo. Perché il suo lavoro è appunto alienato. Il lavoro tra otto e novecento Più tardi la critica all’alienazione prodotta dal lavoro in generale, ma soprattutto dal lavoro subordinato, costituirà motivo di impegno di diversi pensatori. Tra gli altri: Heidegger, Junger, Spengler, Weil, Nietzsche. In particolare, Friedrich Nietzsche sottolinea che lo “spirito libero” ha come obiettivo la conoscenza. Egli disprezza pertanto l’eccessivo attivismo dell’uomo contemporaneo che non ha tempo, né sente il bisogno di riflettere e cercare una piena realizzazione di sé. Nietzsche vede quindi nella macchina un pericolo sociale e politico. Perché pur essendo il prodotto di elevate energie mentali, attiva energie inferiori e di carattere elementare, che non richiedono il coinvolgimento intellettuale di chi vi è addetto. Essa inoltre umilia l’operaio togliendogli la soddisfazione del proprio lavoro, negandogli l’orgoglio per il suo mestiere e annullandone l’individualità. Se47


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condo Nietzsche, però, lo strumento per correggere questa situazione non può essere il socialismo di impronta marxista. Che egli rifiuta in ogni suo aspetto. In quanto lo considera utopico nei principi e tirannico negli obiettivi. Saranno soprattutto i protagonisti del positivismo, come per esempio Comte e Spencer, a fornire una vera e propria ideologia della società del lavoro, attraverso un discorso allo stesso tempo scientifico, morale e sociale. Partendo da premesse analoghe, Emile Durkheim collegherà i concetti di “lavoro sociale” e di “solidarietà”, nel tentativo di riorganizzare organicamente, sulla base delle corporazioni professionali, la società prodotta dalla rivoluzione industriale. Società nella quale le norme cessano di essere considerate vincolanti come valori, per diventare soltanto utilitarie. A sua volta Arthur Schopenhauer (nella sua opera fondamentale Il mondo come volontà e rappresentazione) considera la volontà all’origine del mondo e responsabile, in quanto suscitatrice di un’interminabile catena di bisogni, desideri, dell’eterno senso di insoddisfazione che caratterizza ogni essere. Risvolto etico di tale concezione è l’invito per l’uomo a sottrarsi alla forza tirannica della volontà. Innanzi tutto nutrendo verso gli altri uomini un sentimento di pietà a causa del riconoscimento della comune condizione di asservimento. Egli respinge perciò l’identificazione del “mondo per noi” e del “mondo in sé”. Perché non crede affatto nella “libertà irretita nella servitù” di Hegel. In particolare lo preoccupa l’assenza di libertà che ritrova nella condizione operaia. Tanto più in un’epoca nella quale i lavoratori incominciano a prendere coscienza della loro condizione di classe. È, infatti, proprio nel formarsi del proletariato industriale, che Schopenhauer vede la genesi storica di una “moderna schiavitù”. Tuttavia egli manifesta una certa ingenuità nel rintracciare le radici del male unicamente nel lusso. Tra i diversi pensatori che nel XX secolo hanno contribuito a reinterpretare la concezione del lavoro merita di essere rimarcato il contributo di Antonio Gramsci. In particolare per quanto riguarda gli aspetti relativi ai mutamenti dell’organizzazione del lavoro (indiscutibilmente cospicui nella prima metà del secolo scorso, basti pensare al fordismo e al taylorismo) e alle loro conseguenze sul lavoro e sui lavoratori. Nei Quaderni dal carcere scrive, tra l’altro, alcu48


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ne pagine su Americanismo e fordismo. Pagine nelle quali, considerando la diversità dello sviluppo del capitalismo in America e in Europa (e particolarmente in Italia) evidenzia, anche alla luce dell’auspicata “lotta di classe”, il “cinismo brutale” e l’assoluta insensibilità dei capitalisti italiani ai problemi della “umanizzazione” del lavoro. Sia con riferimento al controllo autoritario sui lavoratori, che all’organizzazione del lavoro di stampo taylorista. A proposito del primo aspetto scrive: “L’industriale americano si preoccupa di mantenere la continuità dell’efficienza fisica del lavoratore, della sua efficienza muscolare-nervosa. È suo interesse avere una maestranza stabile, un complesso affiatato permanentemente, perché anche il complesso umano (il lavoratore collettivo) di un’azienda è una macchina che non deve essere troppo spesso smontata e rimontata nei suoi pezzi singoli senza perdite ingenti. Il così detto alto salario è un elemento dipendente da questa necessità. Esso è lo strumento per selezionare una maestranza adatta al sistema di produzione e di lavoro e per mantenerla stabilmente. Ma l’alto salario è a due tagli: occorre che il lavoratore spenda “razionalmente” i quattrini più abbondanti, per mantenere, rinnovare e possibilmente accrescere la sua efficienza muscolare-nervosa, non per distruggerla o intaccarla. Ed ecco la lotta contro l’alcol, l’agente più pericoloso di distruzione delle forze di lavoro, che diventa funzione di Stato. (Ricordiamoci che queste righe sono state scritte durante il “proibizionismo”). È possibile che anche altre lotte “puritane” divengano funzione di Stato, se l’iniziativa privata degli industriali si dimostra insufficiente o si scatena una crisi di moralità troppo profonda ed estesa nelle masse lavoratrici, ciò che potrebbe avvenire in conseguenza di una crisi lunga ed estesa di disoccupazione”. Con riferimento invece alle professioni intellettuali, in relazione all’organizzazione del lavoro caratterizzata dal taylorismo e dal fordismo (cioè dalla parcellizzazione e dalla ripetitività del lavoro) Gramsci osserva: “A proposito del distacco che il taylorismo determinerebbe tra lavoro manuale e il ‘contenuto umano’ del lavoro si possono fare utili osservazioni sul passato, e proprio a riguardo di quelle professioni che sono ritenute tra le più ‘intellettuali’. Le professioni cioè legate alla riproduzione degli scritti per la pubblicazione o per altra forma di diffusione e trasmissione. 49


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Gli amanuensi di prima dell’invenzione della stampa e poi i compositori a mano, i linotipisti, gli stenografi, i dattilografi. Se si riflette si vede che in questi mestieri il processo di adattamento alla meccanizzazione è più difficile che negli altri. Perché? Perché è difficile raggiungere la massima qualifica professionale, che domanda da parte dell’operaio di “dimenticare” o non riflettere al contenuto intellettuale dello scritto che riproduce, per fissare la sua attenzione solo, o alla forma calligrafica delle singole lettere se amanuense, o per scomporre le frasi in parole “astratte” e queste in lettere-caratteri e poi rapidamente scegliere i pezzi di piombo nelle caselle, per comporre non più solo le singole parole ma gruppi di parole, nel contesto di un discorso, meccanicamente aggruppandoli in sigle stenografiche, per ottenere la rapidità del dattilografo, ecc. L’interesse del lavoratore per il contenuto intellettuale del testo si misura dai suoi errori, cioè è una deficienza professionale: la sua qualifica è proprio commisurata al suo disinteressamento intellettuale. Vale a dire dal suo ‘meccanizzarsi’. Il copista medioevale che si interessava al testo, mutava (invece) l’ortografia, la morfologia, la sintassi del testo ricopiato, tralasciava periodi interi che non comprendeva, per la sua scarsa cultura. Il corso dei pensieri suscitati in lui dall’interesse per il testo lo portava a interpolare glosse e avvertenze. Se il suo dialetto e la sua lingua erano diversi da quelli del testo, egli introduceva sfumature alloglottiche. In definitiva si può dire che era un cattivo amanuense perché in realtà ‘rifaceva’ il testo”. Per altro, nel XX secolo, con l’industrializzazione del lavoro tipografico e la sua nuova organizzazione produttiva, quel coinvolgimento (e la discrezionalità) del lavoratore che poteva realizzarsi nei secoli precedenti non è stato più possibile. Il lavoro, infatti, si è radicalmente trasformato. Diventando, al tempo stesso, sempre più parcellizzato e sempre più meccanizzato. Si può aggiungere, per capire la straordinaria rapidità del cambiamento produttivo (e dunque del lavoro), che all’inizio del nuovo millennio la realtà descritta da Gramsci è ormai definitivamente scomparsa. Perché l’avvento del computer ha cambiato radicalmente l’industria tipografica, la sua organizzazione del lavoro e in generale l’elettronica ha rivoluzionato il modo di produrre. 50


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La Chiesa e il lavoro Alla fine del XIX secolo e nel corso del XX, anche la Chiesa interviene ripetutamente sulla concezione del lavoro. Con particolare attenzione alle sue ricadute sociali. Nel 1979, parlando a cinquantamila operai a Pomezia, papa Giovanni Paolo II dice tra l’altro: “Non l’uomo è fatto per il lavoro, ma il lavoro per l’uomo”. In questo modo papa Wojtyla (già operaio in una cava di pietra) esprime chiaramente il nuovo atteggiamento della Chiesa nei confronti del lavoro e del significato che deve avere nella vita degli uomini. Le prese di posizione della Chiesa cattolica in merito alla questione del lavoro risalgono però almeno alla prima Enciclica sociale. La Rerum Novarum (1891) di Leone XIII. In essa la questione del lavoro viene affrontata soprattutto in relazione alle sue conseguenze sociali. In proposito si afferma: “L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva passare naturalmente dall’ordine politico all’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni e operai; l’essersi in poche mani accumulata la ricchezza e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratici più vivo e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta di peggiori costumi hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, (…) tanto che oggi non v’ha questione che maggiormente interessi il mondo”. La soluzione cattolica prospettata nella Rerum Novarum (che si oppone nettamente a quella socialista) è di tipo realistico. Senza quindi illusioni utopistiche. Tanto più che, con riferimento alla concezione biblica del lavoro, viene riconosciuta la necessaria sofferenza degli uomini nel mondo degli uomini. Ritenuto, pur sempre, il mondo della caduta. Non a caso l’Enciclica, rifacendosi alla teologia del lavoro propria dell’ebraismo e del cristianesimo delle origini, sottolinea che: “Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo di “innocenza” non sarebbe rimasto inoperoso. Se non che quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’anima lo impose poi, a 51


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espiazione del peccato, ma senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: ‘Sia maledetta la terra del tuo lavoro; tu mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita’ (Genesi)… Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo … La cosa migliore è guardar le cose umane quali sono, e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali”. In sostanza la chiesa cattolica ribadisce che “il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione”. Per cui il lavoro nell’uomo assume un carattere “personale”, in quanto “la forza attiva è inerente alla persona e del tutto propria di chi la esercita e al cui vantaggio fu data”. Esso si presenta quindi come “necessario” in quanto “il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura”. A questo punto si apre però il problema della giustizia sociale e del conflitto tra padroni e operai che la Rerum Novarum risolve in questi termini: “Ora, se si guarda solo all’aspetto della personalità, non c’è dubbio che l’operaio può pattuire una mercede inferiore al giusto. Poiché egli offre volontariamente l’opera così può, volendo, contentarsi di un tenue salario, o rinunciarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la ‘personalità’ si considera la ‘necessità’. Due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è un dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce come conseguenza il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto, e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale, s’intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità, o per timore del peggio, accetta patti più duri, i quali perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta”. 52


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Nei decenni successivi il principio etico di porre “la coscienza del dovere al di sopra di ogni altra cosa” ispira anche quello che può essere definito “socialismo cristiano”. Alternativo al socialismo di estrazione marxista e non solo marxista. Esso costituisce il riferimento di un’altra importante Enciclica sociale: la Quadragesimo anno (1931). Promulgata da Pio XI nel quarantesimo anniversario della Rerum Novarum. Partendo appunto dalla Rerum Novarum viene riaperta la questione operaia che nel nuovo secolo ha assunto aspetti sempre più raccapriccianti, per la crescita di una “immensa moltitudine di operai oppressi da una rovinosa penuria”. Nella nuova situazione economica e sociale la Chiesa cattolica non intende chiudere gli occhi di fronte: ai “tempi moderni”; alle “nuove necessità”; alla “mutata condizione delle cose”. Per altro sul proscenio compaiono due nuovi fenomeni: quello del capitalismo monopolistico e quello del comunismo che si è instaurato in Unione Sovietica. A proposito del primo la Quadragesimo anno esprime una critica netta. Essa condanna, infatti, le “ingiuste rivendicazioni del capitale”, in quanto: “Per lungo tempo certamente il capitale troppo aggiudicò a sé stesso. Quanto veniva prodotto e i frutti che se ne ricavavano ogni cosa il capitale prendeva per sé, lasciando appena all’operaio tanto che bastasse a ristorare le forze e a riprodurre. Giacché andavano dicendo che per una legge economica affatto ineluttabile, tutta la somma del capitale apparteneva ai ricchi, e per la stessa legge gli operai dovevano rimanere in perpetuo nella condizione di proletari, costretti cioè a un tenore di vita precario e meschino. È bensì vero che con questi principi dei liberali, che volgarmente si denominano di Manchester, l’azione politica non si accordava né sempre né dappertutto. Pure non si può negare che gli istituti economico-sociali avevano mostrato di piegare verso quei principi con vero e costante sforzo. Ora, che queste false opinioni, questi fallaci supposti siano stati fortemente combattuti, e non solo da coloro che per essi venivano privati del naturale diritto di procurarsi una migliore condizione di vita, nessuno vi sarà che se ne meravigli”. Contrapposta al liberismo economico, la Chiesa mette fortemente in guardia anche dal “socialismo” rivoluzionario e dalle “ingiuste 53


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rivendicazioni del lavoro”. In proposito lamentando che “...agli operai angariati, si accostarono i cosiddetti intellettuali, contrapponendo a una legge immaginaria un principio morale parimenti immaginario. Che cioè quanto si produce e si percepisce di reddito, trattone quel tanto che basti a risarcire e riprodurre il capitale, si deve di diritto all’operaio. Questo errore, quanto è più lusinghevole di quelli di vari socialisti, i quali affermano che tutto ciò che serve alla produzione si ha da trasfondere allo Stato, o come dicono ‘socializzare’, tanto è più pericoloso e più atto a ingannare gli incauti. Blando veleno che fu avidamente sorbito da molti, che un aperto socialismo non aveva mai potuto trarre in inganno”. L’Enciclica sociale di Pio XI si contrappone dunque tanto alla dottrina del liberismo economico a cui si ispira il padronato, che a quella socialista verso la quale è orientata buona parte del mondo del lavoro. In particolare con riferimento al socialismo la Quadragesimo anno afferma che non si può essere “buon cattolico a un tempo e vero socialista” in quanto il cattolicesimo si fonda sul principio della trascendenza ed è meno incline al compromesso, mentre il socialismo è legato al principio dell’immanenza su cui si fonda il materialismo storico. Inoltre, le ragioni della contrapposizione sono di ordine socio-economico: il cattolicesimo rigetta la “lotta di classe” in quanto la garanzia del “bene comune” è data anche dalla giusta mercede richiesta, che però deve tenere conto anche dello stato dell’azienda e dell’imprenditore. È ingiusto chiedere esagerati salari, quando l’azienda non li può sopportare senza la rovina propria e la “conseguente calamità degli operai”. Il tema del “bene comune” è ripreso e approfondito nel radiomessaggio di Pio XII (1941) e nella Mater et Magistra di Giovanni XXIII (1961). In questa Enciclica si insiste sulla necessità di creare strutture produttive, nelle quali la dignità dell’uomo, nonché la salute morale e fisica del lavoratore vengano pienamente salvaguardate. Occorre inoltre creare condizioni di lavoro più a misura d’uomo e bisogna concepire e vivere il lavoro “oltre che come fonte di reddito, anche come adempimento di un dovere e prestazione di un servizio. Ciò comporta pure che i lavoratori possano far sentire la loro voce e addurre il loro apporto all’efficiente funzionamento dell’impresa e al suo sviluppo”. 54


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Tuttavia, dalle preoccupazioni soprattutto sociali, la Chiesa concentra la sua attenzione principalmente sulla natura che va assumendo il lavoro e il suo significato per le persone. Sottolinea, dunque, con sempre maggiore insistenza che la concezione del lavoro e il modo con cui si esplica non è separata (e non è separabile) dalla condizione dell’uomo. Così nell’Enciclica Redemptor hominis di Giovanni Paolo II (1979) si esprime la più profonda consapevolezza per il tremendo dramma dell’alienazione del lavoro umano. Vengono quindi segnalati i notevoli rischi che corre l’homo faber, sia sul piano ecologico che su quello consumistico. Viene inoltre posto in netto rilievo la necessità per l’uomo di poter conseguire, attraverso il lavoro, un modo di essere più che un modo di avere. In sostanza è con la Redemptor hominis che la Chiesa si apre a una considerazione nuova. Infatti, ponendo l’accento sulla natura umana essa sostiene che non può essere annullata dalla logica produttivistica dell’avere. L’uomo deve perciò soprattutto impegnarsi a essere. Ribellandosi, di conseguenza, al processo di alienazione che l’evoluzione tecnologica della produzione e l’organizzazione del lavoro tendono a imporre. In sostanza dalle posizioni più recenti della Chiesa (ampiamente riprese e integrate anche dalla teologia del lavoro) si deduce che l’uomo lavora perché il “lavoro è fatto per l’uomo”: se non fosse faber l’uomo non esisterebbe neppure. Contemporaneamente si esige però che il lavoro non mortifichi la stessa esistenza dell’uomo, fino a spegnerla nell’alienazione e fino a minacciarla con i prodotti del suo stesso lavoro. Concezioni opposte Come si è potuto notare in questo rapido excursus, la concezione tradizionale e la concezione contemporanea del lavoro sono radicalmente diverse e sono il prodotto di una lunga incessante evoluzione sia culturale che della prassi. Bisogna dire tuttavia che comparando l’idea più antica con quella più recente non si può non rilevare che entrambe fanno riferimento al lavoro come attività necessaria alla vita. Cioè alla sopravvivenza e all’esistenza. Si può dunque dire che lo scopo resta il medesimo. I mezzi sono però concepiti in modo del tutto differente. Il lavoro tradizionale, infatti, era soprattutto una “preghiera”, un atto rituale. Il processo fisico non era altro che il ten55


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tativo di modificazione di una realtà concepita come “soprannaturale”. Perciò il lavoro anche se molto più faticoso, era meglio accettato. Perché vissuto come un’adesione spirituale dell’ordine del mondo. Il lavoro contemporaneo invece è essenzialmente una tecnica, un atteggiamento abituale, senz’altro effetto che quello di modificare la realtà fisica naturale. Quindi del tutto privo di riflessi sul “soprannaturale”. Nel mondo antico, per altro, anche la nozione di giustizia era assolutamente diversa da quella contemporanea. Essere giusti equivaleva, infatti, dare a ciascuno la sua posizione, l’autorità e la funzione che gli spettava nell’ordine sociale. Il re e l’imperatore erano riconosciuti come tali, il capofamiglia come pater familias, il cittadino come civis, il legionario come miles, lo schiavo come servus, e tutti facevano ciò che la propria posizione nell’ordine sociale gli imponeva di fare. Oggi, privati dal sacro che i nostri antenati collegavano alla natura, il lavoro è un fatto meccanico in un mondo che deve sapere badare a sé stesso, per fare fronte a sempre nuovi bisogni. Si tratta di un punto sul quale è opportuno riflettere. Perché, quanto meno, aiuta a capire un aspetto relativo alla novità dei problemi del lavoro nel mondo contemporaneo. Soprattutto a tenere conto che, considerandoli solo dal punto di vista della tecnica, dell’efficienza economica, equivarrebbe esporsi a errori gravidi di pericolose conseguenze. Perché l’uomo vive “mentre” lavora e sarebbe vano sperare in un’umanità che possa sopravvivere in quanto tale, se la ricerca di soli obiettivi economici a breve e medio termine mutilasse l’uomo del “senso” del lavoro, della sua dignità, del suo riconoscimento economico e sociale. In sostanza della sua vita. È questa la ragione che, proprio al fine di poter considerare l’evoluzione, il mutamento che (nel corso dei secoli) ha coinvolto la “concezione del lavoro”, ha indotto a prendere in considerazione, assieme agli aspetti relativi all’etica religiosa, soprattutto le posizioni dei principali pensatori e filosofi. Mai invece quelle degli economisti. Naturalmente non si è trattato di una distrazione, di una dimenticanza. La ragione dell’esclusione ha, infatti, una precisa spiegazione. L’economia, che per altro è una scienza relativamente giovane (quanto meno rispetto alla filosofia), più che alla “concezione” del lavoro, è sempre stata interessata soprattutto alla sua dinamica quantitativa. Aspetto ovviamente importante per la vita degli uo56


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mini e per la situazione economico-sociale di una comunità. Certamente meno però per quanto riguarda il “significato” del lavoro per l’identità delle persone. Per il rilievo che esso ha assunto e ha sull’esistenza di ciascuno, sui suoi progetti di vita, sui suoi rapporti con il resto della comunità. Questione che, si capisce bene, non può essere riducibile in cifre. Ma che, nonostante gli enormi cambiamenti che si sono susseguiti e continueranno anche negli anni a venire, rimane cruciale per capire che mondo si intenda, di volta in volta, costruire. Si tratta quindi di una questione sulla quale ci si deve porre seri interrogativi. Tanto più in una situazione, come quella attuale, in cui alla perdita di “senso” del lavoro si somma una crescente rarefazione dello stesso lavoro. Al punto di alimentare il timore che la “società del lavoro” possa addirittura rimanere deprivata del lavoro. Se non per tutti, quanto meno per un numero crescente di persone. Con conseguenze che, forse, non sono ancora state ben considerate. Anche perché, come sottolinea efficacemente Lorenzo Caselli (Una vita buona nell’economia e nella società), non andrebbe mai dimenticato che “dietro i numeri contenuti nelle statistiche sull’occupazione e sul lavoro stanno delle persone e delle famiglie con bisogni, esigenze, paure e speranze”. Non si tratta di una constatazione ovvia, banale. Perché proprio per come vengono affrontati i problemi dell’economia di solito i “processi” finiscono per fare premio sui “soggetti”. “Ma i processi senza soggetto rischiano di diventare processi senza etica”. A chi obietta che l’economia è una scienza e quindi, in quanto tale, non può essere influenzata da “sentimenti morali”, non si può che rispondere con la constatazione che l’economia (come tutte le altre dottrine o discipline umanistiche) non si fonda su verità “assolute”, perenni, ma su interpretazioni. Non a caso abbiamo conosciuto e continuiamo a conoscere teorie economiche diverse e tra di loro alternative. Questo implica che se il lavoro deve essere considerato, come in effetti è ed è sempre stato, un fattore cruciale nella vita delle persone, in quanto costituisce insieme elemento di sostegno materiale e di ricerca di senso, se ne deve dedurre che “crescita e lavoro” non possono essere assunti in modo disgiunto. Come purtroppo negli ultimi tempi si è invece fatto in Europa. E non solo. In quan57


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to, come sostiene giustamente Caselli, il lavoro non viene “dopo” la crescita, come portato e conseguenza della stessa. Al contrario ne è il presupposto. Almeno al pari di altri fattori come: “l’innovazione, la qualità, la creatività che proprio nelle persone trovano il loro radicamento e la possibilità di piena esplicazione”. Il che significa che il lavoro non può e non deve mai essere disgiunto dal significato che esso ha per le persone e la loro vita.

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Esiste poi il coraggio necessario per resistere alle difficoltà che ci logorano. Noi sappiamo che qualsiasi mestiere facciamo, qualsiasi compito svolgiamo, ogni giorno incontreremo continuamente opposizioni, ostacoli da superare. E in certi casi le difficoltà sono così grandi da farti pensare che forse sia meglio lasciar perdere, ritirarsi. Ti assalgono allora una immensa fatica e il senso dell’inutilità di ogni cosa. [….] Lo scoramento è una terribile tentazione F. Alberoni



2 Globali e locali Le previsioni econometriche assomigliano a quelle meteorologiche. Verso la metà di gennaio 2013 Roma era in stato di allerta: erano state previste nevicate. La protezione civile e l’amministrazione comunale si sono date da fare e hanno predisposto un numero adeguato di camion spazzaneve. In modo da poter ripulire tempestivamente le strade e consentire almeno la circolazione. Naturalmente di neve non si è visto un solo fiocco. Anzi, si può dire che la giornata, tenuto conto della stagione, sia stata discreta. Dimostrando la medesima capacità di previsione dei metereologi, all’incirca un anno prima (febbraio 2012), la Commissione europea annunciava fiduciosa che, nonostante la crescita risultasse in affanno, riusciva a vedere segnali di consolidamento dell’economia europea. Perché le tensioni sui mercati finanziari si stavano allentando. Si poteva quindi procedere alla stabilizzazione economico-finanziaria, allo stimolo alla crescita, alla creazione di posti di lavoro. Le cose hanno avuto purtroppo un andamento completamente diverso rispetto ai presagi della Commissione europea. Particolarmente per quanto riguarda l’occupazione. Si è avuto così conferma dell’antica saggezza secondo la quale prevedere è sempre molto difficile; specialmente quando si tratta del futuro. Intanto, tra un pronostico e un auspicio, l’Unione europea che nel 2001 aveva un tasso medio di disoccupazione pari all’8,4 per cento, dieci anni dopo ne aveva un quarto in più (arrivando al 10,5 per cento) e nel 2012 ne ha aggiunto un ulteriore dieci per cento (raggiungendo l’11,55 per cento). Rispetto al resto d’Europa, la situazione del lavoro in Italia è ancora più critica. A ottobre 2012 i disoccupati ufficiali sono, infatti, 61


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arrivati a 2 milioni 870 mila. Il numero più alto dal 1992. Siamo perciò tornati indietro a vent’anni prima. Nel frattempo la disoccupazione giovanile ha superato ogni soglia di tollerabilità. Per avere un quadro davvero realistico sarà bene non ignorare che i dati sulla disoccupazione italiana vanno presi con le pinze. In quanto non sono particolarmente rappresentativi della realtà. Al punto che alle nostre statistiche sul lavoro potrebbe essere applicato lo scetticismo di Disraeli. Secondo il quale esisterebbero solo tre tipi di menzogne: le bugie, le bugie gravi e le statistiche. Ma cosa ha di anomalo, di inattendibile, il dato italiano sulla disoccupazione? Il motivo è presto detto. Intanto, non certo per incompetenza tecnica dell’ente predisposto a calcolarla che è assolutamente fuori discussione, il semplice fatto che al numero ufficiale dei disoccupati si devono sommare gli scoraggiati (che nessuno sa nemmeno bene quanti siano) e i cassaintegrati. Poi basterebbe dare un’occhiata sia al tasso di attività generale, che alla percentuale del lavoro autonomo (circa quattro volte superiore la media europea), per rendersi immediatamente conto che i numeri non tornano. In ogni caso, seppure non sia una consolazione, bisogna dire che le cose, per quanto riguarda lo stato di salute del lavoro, vanno tutt’altro che bene anche a livello mondiale. Infatti, secondo l’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) il contagio della crisi, prima americana e poi europea, si è diffuso in tutto il mondo, con effetti fortemente negativi sulla dinamica della crescita e dell’occupazione in generale. Al riguardo, l’Organizzazione nel suo rapporto sostiene che: “il rallentamento dell’attività economica e della crescita dell’occupazione nei Paesi che erano inizialmente sfuggiti alla seconda ondata della crisi, costituisce una forma di contagio della debole crescita delle economie avanzate. In particolare essi sono alla base della recessione europea”. In effetti, l’epicentro della crisi si è manifestato soprattutto nelle economie avanzate e particolarmente in Europa, dove si è concentrata circa la metà dei 28 milioni di nuovi disoccupati che si sono aggiunti a quelli preesistenti a livello mondiale. Che così ora hanno superato i 200 milioni. Anche qui parliamo di cifre ufficiali. Quelle reali naturalmente sono assai peggio. Perché se a quanti sono conteggiati come disoccupati, in quanto non hanno alcun lavoro, venisse 62


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sommato anche il numero di coloro che non possono contare su un “lavoro dignitoso” e una retribuzione di almeno due dollari al giorno, il numero di 200 milioni lieviterebbe immediatamente oltre i 2 miliardi. La globalizzazione Sulle cause di questo peggioramento economico, con devastanti conseguenze sociali ormai sotto gli occhi di tutti, esiste una sterminata letteratura. Qui non serve farne un riepilogo. Ciò che ai nostri fini interessa è considerare soprattutto le cause relative all’aggravamento della crisi occupazionale delle società avanzate e in particolare dell’Europa. Principalmente prendendo in considerazione gli elementi di analisi dei quali ci si occupa solo occasionalmente e che i media riprendono soltanto quando appaiono suscettibili di promettenti sviluppi polemici. In proposito la prima cosa da fare è provare a mettere un po’ d’ordine. Marx riteneva che la storia seguisse fasi precise e che il capitalismo non fosse altro che una semplice tappa della storia dell’umanità. Oggi, invece, è sufficientemente chiaro che il capitalismo ha una sua storia, in qualche modo autonoma, e una capacità di adattamento all’evolversi della situazione, persino inimmaginabile. Infatti, si è trovato a suo agio benissimo nel XX secolo. Addirittura meglio che nel XIX e ancora di più con riferimento ai secoli precedenti. La specificità del capitalismo del XX secolo, comunque, è caratterizzata dal fatto che si è radicato soprattutto intorno alla grande azienda industriale. Lì, ripercorrendo una strada già battuta dalla società medioevale, anche se naturalmente con modalità del tutto diverse, la “società industriale” del XX secolo ha tentato di tenere assieme produzione e protezione, suggellando in tal modo una tendenziale unità tra questione economica e questione sociale. Unione che si è andata progressivamente sfarinando con la conclusione del XX secolo. Il dato di fatto da tenere presente è che di quella “società industriale” (con la quale siamo stati alle prese fino a qualche decennio fa) il capitalismo del XXI secolo ha organizzato deliberatamente la distruzione. Sia perché ha considerato la protezione sociale un compito del tutto estraneo alle proprie responsabilità, ma soprat63


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tutto perché ha progressivamente dissociato le diverse fasi dell’attività produttiva le une delle altre. Non stupisce quindi più di tanto che nella dialettica politica ed economica vengano continuamente sollecitate misure tendenti a incoraggiare cure dimagranti per il sistema di protezione sociale e nello stesso tempo provvedimenti per favorire le delocalizzazioni, le esternalizzazioni, i subappalti, per le funzioni ritenute complementari al cuore dell’attività produttiva. Mentre per compiti ausiliari come pulizie, mensa, sorveglianza, o altri, viene assecondato l’utilizzo di società esterne, o di manodopera in affitto. Volendo avere un’idea un po’ più completa dei mutamenti in atto, c’è da aggiungere che la rivoluzione finanziaria degli anni Ottanta ha prodotto una profondissima trasformazione dell’impresa, per come era concepita anche solo il secolo scorso. Tanto in rapporto ai principi dell’organizzazione aziendale, che, e forse in misura persino maggiore, alle sue strategie. Infatti, ora l’opinione prevalente e più accreditata nel mondo economico-finanziario è che “i soldi si fanno solo con i soldi”. Vale a dire con le operazioni finanziarie, più che con la produzione di merci e beni. Tanto più tenuto conto che i prodotti possono essere importati, a minor costo, da paesi nei quali i salari sono più bassi e le condizioni di lavoro meno tutelate. Siamo quindi giunti a un rivolgimento copernicano dei fondamenti sui quali, a partire dalla fine dell’800, le organizzazioni del lavoro avevano cercato di costruire il sistema di tutele per il lavoro dipendente. Ormai, infatti, per quanto possa apparire assurdo, è sui salariati che ricadono i rischi del mercato e della globalizzazione, mentre gli azionisti riescono a premunirsene. Siamo così arrivati alla fine di quella solidarietà che, seppure a prezzo di lotte e tanti contrasti, per tre quarti del secolo XX aveva costituito l’essenza stessa della grande azienda industriale. La quale era chiamata appunto a cercare di assicurare produzione e protezione. Attenzione, però: con riferimento a questa nuova realtà, parlare di “società postindustriale” non è sufficiente. E forse addirittura fuorviante. Perché si descrive il mondo per ciò che non è più, ma non ancora per quello che è diventato. Se, infatti, facciamo riferimento alla situazione attuale (e utilizziamo la classificazione canonica: primario, secondario, terziario), certamente possiamo parlare 64


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di passaggio dalla società industriale a quella dei “servizi”. Tuttavia occorre tenere presente che, proprio prefigurando l’approdo alla società dei servizi, qualche decennio fa i più entusiasti futurologi non avevano dubbi che essa avrebbe corrisposto a un mondo totalmente nuovo. Ma, ed è quello che conta, soprattutto migliore. Mondo nel quale l’uomo sarebbe stato finalmente liberato dalla necessità di lavorare la terra (come nelle società agricole) e i manufatti (in quelle industriali). Perché con la comparsa della “società dei servizi”, la materia lavorata dall’uomo avrebbe potuto diventare l’uomo stesso. Tuttavia, se analizziamo le cose all’inizio del nuovo millennio, ci accorgiamo che ci siamo piuttosto “liberati” dal lavoro. Nel senso che sono scomparsi una gran quantità di “posti di lavoro” e altri continueranno a squagliarsi. Ora, indipendentemente dal fatto che si usino o no occhiali rosa per guardare il presente e il futuro, non c’è alcun dubbio che l’impiego sia fortemente diminuito nell’industria e cresciuto nei servizi. Così come del resto, un secolo prima, dall’agricoltura esso si era riversato nell’industria. Ma soprattutto non c’è dubbio che questa tendenza sia destinata a continuare. Del resto basta guardare i dati italiani per capire come stanno andando le cose. Dati per altro indicativi di una tendenza comune a tutti i paesi sviluppati. Ebbene, da noi nel 2011, si è registrato questo andamento: il 3,7 per cento lavora nell’agricoltura, il 28,5 nell’industria e ben il 67,8 per cento nei servizi. C’è da aggiungere, per altro, che secondo alcuni analisti la cifra, già di per sé bassa di addetti all’industria, sopravaluterebbe la realtà. In quanto nell’ambito del settore industriale, più che i compiti della fabbricazione, sono quelli dell’ideazione e della commercializzazione che hanno assunto un ruolo preminente. Nel senso che anche l’industria stessa si è terziarizzata e perciò il numero di operai chiamato a svolgere mansioni strettamente e tipicamente industriali, cioè quelle destinate alla fabbricazione di un prodotto (a mano, con l’aiuto di macchine utensili, o di robot) in realtà costituirebbe una porzione sempre più piccola rispetto a quella evidenziata dalle statistiche industriali. È bene tuttavia evitare un fraintendimento. Un malinteso che rischierebbe di portarci fuori strada. L’economia terziarizzata non si è affatto liberata dal mondo degli oggetti. Anche se essi vengono pro65


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dotti in misura sempre minore nelle aree di antica industrializzazione e sempre di più nei così detti paesi in via di sviluppo. Alcuni dei quali, proprio per questo, da anni sono riusciti a conseguire tassi di crescita economica particolarmente elevata. L’elemento incontrovertibile però è che, anche all’interno dell’universo terziarizzato, gli operai della fabbrica sono diventati minoritari e, in non pochi casi, il loro ruolo preminente (più che alla produzione) è sempre più collegato alla riparazione e alla manutenzione. Inutile dire che contemporaneamente pure la funzione degli impiegati è profondamente cambiata. Se, infatti, fino a venti o trenta anni fa la maggioranza di loro era addetta a impieghi amministrativi, oggi è invece utilizzata prevalentemente nell’attività commerciale e nei servizi. Proprio in considerazione di queste e di numerose altre trasformazioni che hanno investito il sistema produttivo, negli anni Novanta si è imposta una nuova etichetta, un nuovo concetto, con cui si è inteso definire il mutamento in atto. Si è, infatti, parlato, sempre più spesso, di new economy. Con questa formula si è voluto indicare una modifica radicale, non solo rispetto alle modalità produttive, ma anche al paradigma economico. Quanto meno nei termini classici che erano stati prospettati da Adam Smith, o Karl Marx. Per capire di cosa stiamo parlando può essere utile il riferimento a Smith. Come sappiamo l’opinione di Smith era che, se per dare la caccia a un daino il tempo impiegato risultava doppio rispetto a quello necessario per cacciare un castoro, il primo dei due animali, in media, sarebbe necessariamente costato due volte più del secondo. Il rovesciamento del paradigma consiste nel fatto che lo schema della new economy ha una struttura dei costi totalmente diversa. Infatti, essa comporta soprattutto costi di ideazione e solo marginalmente di fabbricazione. Nella new economy, in effetti, a essere onerosa è la prima unità del bene che viene prodotto, mentre la seconda e quelle successive hanno un costo pressoché irrilevante. In proposito, utilizzando il linguaggio di Marx, si potrebbe dire che nella new economy la fonte del plusvalore non è rintracciabile nel lavoro compiuto per produrre la merce, ma in quello necessario a concepirla. Intendiamoci bene: questo aspetto non riguarda semplicemente il settore dell’elettronica e dell’informatica, delle quali ogni giorno 66


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ci vengono disvelati i prodigi. Si tratta di un elemento che riguarda anche le produzioni più tradizionali. Come il settore automobilistico, per fare un solo esempio. In proposito un aneddoto emblematico viene attribuito al direttore della Wolkswagen in Brasile. Con un certo compiacimento egli avrebbe sostenuto che la sua azienda era riuscita a delocalizzare all’esterno, in varie parti del mondo, la quantità maggiore della sua produzione, riservandosi di realizzare solo ciò che sapeva fare meglio: collocare la sigla VW sul cofano dell’automobile. L’aneddoto si risolve in una boutade, destinata sicuramente a rimanere tale. Tuttavia esso è indicativo del fatto (reale) che, nell’epoca della globalizzazione, le aziende sono sempre più sospinte a focalizzarsi su attività di portata planetaria. Tali cioè da poter interessare la maggiore quantità di clienti in giro per il mondo. Concentrandosi essenzialmente sul lavoro di ideazione e progettazione. Perciò, si potrebbe dire che le grandi aziende industriali sono sempre meno impegnate a realizzare prodotti e sempre più invece a produrre consumatori. Sotto questo profilo quindi, le attività immateriali, quelle nelle quali il costo si esaurisce fondamentalmente con la prima unità (a incominciare dalla promozione del marchio), sono molto più interessanti (e remunerative) della produzione in senso stretto dei beni che ne risultano, che possono essere realizzati ovunque. Per cercare di capire quello che sta succedendo, occorre quindi tenere presente che la globalizzazione non ha solo distrutto il vecchio sistema produttivo e la società industriale, ma ha anche radicalmente destrutturato il vecchio modo di produrre e con esso i precedenti equilibri politici e sociali. Il che, detto per inciso, accresce l’insicurezza del lavoro. Tanto a livello locale che globale. Con conseguenti nuove sfide e nuovi rischi, ai quali ci siamo finora dimostrati poco preparati a fare fronte. Proviamo a riflettere su un solo aspetto. La Terra ha attualmente poco più di 7 miliardi abitanti. Che risulterebbero: 550 milioni di ricchi, 3 miliardi e 500 milioni che (bene o male) riescono a vivere del proprio lavoro, 2 miliardi e 350 milioni di lavoratori poveri (che guadagnano cioè meno di due dollari al giorno), 600 milioni (equivalenti grosso modo ai cittadini dell’Unione Europea) in condizioni di “povertà estrema”. Esposti quindi al rischio quotidiano di sopravvivenza. Stando alle previsioni degli specialisti (e assumendo67


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le per buone), nel 2050 il pianeta dovrebbe essere abitato da 9 miliardi di persone. Dopo quella data il numero degli abitanti della terra dovrebbe cominciare a declinare. In ogni caso, nel 2050 si conterebbero: 1 miliardo e mezzo di ricchi, quattro miliardi di persone in condizioni dignitose, due miliardi e mezzo in povertà relativa, 1 miliardo in condizioni di povertà estrema. Il che significa che, se si lasciassero andare le cose secondo il loro verso, nel 2050 il mondo vedrà moltiplicati i suoi problemi e le sue difficoltà attuali. Gli squilibri ipotizzati, inoltre, porranno alle autorità politiche regionali e mondiali problemi enormi e urgenti. Tra le altre cose la terra non appare compatibile con un’estensione: in Cina, India, in Africa, nelle parti del Sud America a tutt’oggi ferme a un grado modesto di sviluppo, delle attuali modalità di consumo di energia, di consumo dell’acqua e di consumo ecologico, realizzato dai paesi ricchi. Perciò la domanda inevitabile è: chi e come riuscirà a governare questi problemi? Per avere un’idea delle difficoltà alle quali stiamo andando spensieratamente incontro, occorre aggiungere che sul piano politico è inevitabile immaginare il costituirsi di una strutturazione multipolare del mondo. Oltre agli Stati Uniti e all’Europa ci sono, infatti, altri candidati all’egemonia regionale: sicuramente la Cina e l’India. A esse si aggiungeranno presumibilmente i popoli che vorranno giocare la partita: in Africa, in Medio Oriente, in America Latina. Stando così le cose è evidente che l’Occidente non potrà mantenere a lungo il monopolio della prosperità. Perciò il mondo che verrà potrebbe somigliare, almeno in parte, all’Europa del XIX secolo. Nella quale la concorrenza francese e tedesca per superare l’Inghilterra ha finito per preparare il terreno alle catastrofi del XX secolo. Non occorre essere storici, né scienziati della politica per capire che i rischi di un mondo multipolare, necessariamente instabile, potranno essere evitati soltanto creando un ordine multilaterale. Economicamente e socialmente più giusto. Nel quale anche il lavoro dovrà essere distribuito in modo più equo e più giustamente tutelato a livello mondiale. Disoccupazione ed emigrazione In attesa che le prospettive possano migliorare, dobbiamo intanto misurarci con la tendenza in atto in tutto il mondo all’inesorabile 68


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aumento della disoccupazione. E con un ritmo particolarmente aggressivo (sconosciuto fino a un quinquennio fa) nella maggior parte dei paesi europei. Perché aumenta la disoccupazione? È un destino o soltanto il risultato di una rassegnazione? Gli economisti (e i politici) spiegano l’aumento del numero dei senza lavoro prevalentemente con il perdurare della crisi, il ciclo economico negativo, gli squilibri economici e finanziari dei vari paesi. A cominciare magari dal costo del servizio sul debito per i paesi più indebitati. Tra i quali, come si sa, c’è l’Italia. Intendiamoci, sono tutte cose che hanno un qualche fondamento, ma che si concentrano però più su elementi congiunturali che sulle cause più di fondo relative alla “distruzione del lavoro” e alla crescita della disoccupazione. In effetti, anche quando alcuni di loro parlano di “riforme strutturali” (nel caso italiano si pensi, per esempio, al tormentone che ha dominato il 2012 con la riforma del “mercato del lavoro” o delle “pensioni”), in realtà l’obiettivo specifico è sempre un aggiustamento, più o meno equo, più o meno appropriato, ma ogni volta relativo a dinamiche di breve periodo. Quindi riguarda sempre i movimenti di superficie, mai quelli di profondità. In sostanza le dispute sulle “riforme strutturali” (anche quando raccomandate da istituzioni internazionali) prescindono totalmente dai fattori che sono alla base dei cambiamenti e dalle trasformazioni che hanno sconvolto le società contemporanee. Con conseguenze rilevanti anche sull’organizzazione sociale e il lavoro. Tenendo presente questa avvertenza si può tornare al quesito sul perché la disoccupazione sta aumentando. In proposito possono essere date, innanzi tutto, un paio di spiegazioni semplici. Persino banali. Tanto banali che di solito non vengono assolutamente evocate nel dibattito sulla disoccupazione e sulle sue dinamiche. La prima ragione è rintracciabile nell’aumento della popolazione. Sia a livello nazionale, che mondiale. Perché vuol dire che è corrispondentemente aumentata anche l’offerta di lavoro. Alla quale purtroppo non ha corrisposto un parallelo incremento della domanda. E qui si determina un primo cortocircuito. La seconda è che, malgrado sia cresciuta la ricchezza (purtroppo non in l’Italia, almeno nell’ultimo quinquennio) e quindi i consumi, 69


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grazie al progresso tecnologico e alle innovazioni organizzative, oggi è possibile produrre sempre più merci e più beni con sempre meno occupati. Proprio questa constatazione dovrebbe spingere gli addetti ai lavori (parti sociali e governi) ad affrontare con il necessario realismo il problema della redistribuzione del lavoro disponibile. Nel senso di prendere atto che poiché il lavoro diminuisce, mentre al contrario aumenta il numero di coloro che vorrebbero lavorare, non c’è che un mezzo per assicurare il lavoro a tutti: ripartirlo meglio. Soluzione finora rimasta estranea alle politiche del lavoro prospettate dai governi e dalle istituzioni internazionali. Ci si potrebbe naturalmente chiedere il perché, ma probabilmente diventerebbe una pura perdita di tempo. Il risultato comunque parla da solo: le politiche finora perseguite, alla disoccupazione non hanno fatto nemmeno il solletico. Agli aspetti appena richiamati vanno aggiunti i mutamenti relativi ai flussi delle migrazioni a livello mondiale. Questione che normalmente non viene considerata per le sue cause e i suoi effetti, ma strumentalizzata (soprattutto da una certa parte politica) solo perché agitare la paura del diverso, alimentare le preoccupazioni per la sicurezza e altre cose di questa natura, sembra portino voti. Sono quindi del tutto trascurati (salvo che da pochi appassionati) la funzione che le migrazioni hanno avuto e hanno sulla distribuzione della ricchezza e sull’andamento dell’occupazione a livello mondiale. Per quanto riguarda l’Italia la prima cosa da rilevare, a questo proposito, è che nel giro di mezzo secolo si è registrata una metamorfosi spettacolare. Si badi: niente di così sconvolgente da non poter essere gestito. Del resto, anche gran parte del mondo è radicalmente cambiata in pochi decenni, senza che questo sviluppo obblighi all’impotenza e alla paralisi. Basterebbe, infatti, prendere in considerazione il parallelismo, proposto da alcuni storici, tra la globalizzazione dell’800 e quella del ‘900. Seguendo tale riferimento la prima analogia che balza agli occhi concerne la somiglianza tra le “grandi potenze” del XIX e quelle del XX secolo. La Gran Bretagna di ieri (che era appunto una grande potenza) dominava il mondo in modo non troppo dissimile dall’America oggi. Entrambe potenze mercantili (l’una e l’altra, seppure in epoche diverse, sorrette da un consistente potere militare e politico) hanno cercato di promuovere 70


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il “libero scambio commerciale” dovunque siano riuscite ad avere il sopravvento. La Gran Bretagna, pur essendo all’epoca una potenza marittima e coloniale, tuttavia non era unicamente interessata a imporre la sua forza politica e militare all’estero. Concepiva, infatti, il proprio dominio su altre terre (a cominciare naturalmente da quelle colonizzate) soprattutto come capacità di assecondare i propri interessi economici. Ovviamente questo non le impediva affatto di tenere d’occhio l’equilibrio tra i diversi attori su scala internazionale. Ma in Cina, come in India, la sua prima preoccupazione era quella di favorire gli industriali inglesi. Cioè di aprire loro un mercato e proprio a tale scopo ha insediato in quei paesi basi militari e commerciali, con personale inviato dalla madre patria. Una seconda analogia, per certi versi persino più significativa tra la globalizzazione di ieri e quella di oggi, è che entrambe sono state provocate e rese possibili da una rivoluzione delle tecniche di trasporto e di comunicazione. Oggi siamo abituati a pensare che la rivoluzione di Internet, la quale con un clic permette di collegare le persone (attraverso i loro computer) in ogni parte del pianeta, sia la cifra del mondo contemporaneo. Si deve tuttavia riconoscere che, come sostiene Daniel Cohen, la prima innovazione in questo campo ha le sue radici proprio nel secolo XIX. (Tre lezioni sulla società postindustriale). Per rendersene conto basta tenere presente che nel secolo XVI o nel XVII, per recarsi da un villaggio a un altro, spesso non c’era altro modo se non quello di andare a piedi. Quindi erano necessari giorni e se il viaggio era particolarmente lungo potevano servire settimane. Invece, con l’invenzione del telegrafo e l’impiego di cavi terresti e sottomarini, un’informazione (nel XIX secolo) poteva impiegare meno di ventiquattro ore per collegare Londra e Bombay. A questo mutamento radicale nello scambiare informazioni, si è aggiunta un’analoga innovazione nei mezzi di trasporto. Vale a dire: la ferrovia e la nave a vapore, che permettevano a merci e persone di accompagnare, con la stessa tempestività, il flusso delle informazioni. A sua volta divenuto appunto molto più rapido che in passato. Inoltre, con la nave frigorifera dell’ultimo quarto del XIX secolo, diventava possibile persino importare in Europa il vitello argentino congelato, o il burro neozelandese. 71


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Il dato che qui preme però sottolineare, è che gli straordinari cambiamenti nelle comunicazioni e nei trasporti, che hanno caratterizzato la globalizzazione di ieri, hanno accompagnato una parallela espansione delle grandi migrazioni internazionali. Migrazioni che hanno avuto effetti profondi sui livelli e sulle dinamiche dell’occupazione. In tutti i paesi europei ed extraeuropei, ma particolarmente in Italia. Per farci un’idea teniamo presente che oggi viviamo in un mondo nel quale la mobilità dei singoli appare straordinaria. Tuttavia, nel 1913, da un certo punto di vista e per quanto possa apparire incredibile, era persino superiore. Infatti, il 10 per cento della popolazione mondiale allora era costituito da migranti, intesi nel loro semplice significato statistico. Cioè persone che risiedono in un paese diverso da quello nel quale sono nati. Teniamo conto, inoltre, che allora solo pochissimi si muovevano da un paese all’altro per spirito di avventura, curiosità, turismo. Quasi tutti invece per ragioni di lavoro. Oggi la cifra corrispondente alla mobilità globale è pari solo al 3 per cento della popolazione mondiale. Cifra certamente notevole (in valori assoluti), ma pur sempre tre volte inferiore (in percentuale) a quella del secolo scorso. In questo quadro il caso dell’Italia risulta particolarmente significativo. L’emigrazione è stata, infatti, un elemento fondante della nostra storia contemporanea e, sia pure con costi umani e sociali pesantissimi, anche una valvola di sfogo all’endemico problema della disoccupazione. L’emigrazione, infatti, si è protratta per quasi un secolo (dal 1876 al 1970), ha coinvolto milioni di persone di diversa provenienza geografica, è stata molto variegata circa i paesi di destinazione. Essa può essere sostanzialmente suddivisa in quattro distinte fasi. La prima (1876-1900) è stata il prodotto della grande crisi agraria degli anni Settanta dell’Ottocento. Ha interessato oltre cinque milioni di persone ed è stata in gran parte individuale e maschile. Questi emigranti, che per lo più partivano dal Nord Italia, si sono diretti prevalentemente verso i paesi europei e l’America Latina. La seconda fase (1900–1914) ha coinciso con lo sviluppo industriale dell’età giolittiana e con il conseguente abbandono delle campagne. L’emigrazione di questo periodo è stata per la maggior par72


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te extraeuropea e per il 70 per cento costituita da soli uomini che lasciano le regioni meridionali. A sua volta quella diretta verso Francia, Svizzera e Germania (dove occorreva manodopera per le miniere, l’edilizia, la costruzione di strade e ferrovie) ha coinvolto intere famiglie ed è stata anch’essa di lungo periodo. Proprio in questi anni Giolitti vara una legge generale per favorire l’emigrazione e nello stesso tempo per tentare di tagliare le unghie allo sfruttamento degli emigranti da parte degli intermediari e gli speculatori. Nella terza fase, tra le due guerre, si registra invece un rallentamento del fenomeno migratorio. Dovuto sia alle misure restrittive prese dai “paesi ospiti”, che alla politica antimigratoria del fascismo, ansioso di riuscire a mettere in campo “venti milioni di baionette”. A sua volta la quarta fase (1946-1970) è caratterizzata da una forte emigrazione interna verso i centri industriali del Nord, in piena espansione economica e produttiva. Per quanto riguarda invece gli espatri, i paesi di destinazione sono soprattutto gli Stati Uniti, l’Australia, il Brasile, l’Argentina (che aveva varato una legislazione speciale per favorire l’immigrazione). Inoltre, per quanto riguarda l’Europa, alle tradizionali mete dell’emigrazione italiana si aggiunge il Belgio, che richiede manodopera per il settore minerario. In questo periodo, almeno in parte, l’emigrazione verso i paesi europei è a carattere stagionale. Si è trattato, dunque, di un imponente sommovimento con rilevanti effetti sulla realtà economico e sociale. C’è da dire, in particolare, che le rimesse degli emigranti hanno potuto contribuire ad alleviare la condizione di povertà delle zone di provenienza. Si può aggiungere che l’emigrazione ha anche contribuito a ridurre l’analfabetismo e a modificare la mentalità e lo stile di vita di quanti tornavano ai loro paesi di origine. In questo contesto le donne, a loro volta, assumendo nuove responsabilità circa la gestione dell’economia famigliare, hanno potuto intraprendere un faticoso (ma progressivo) cammino di emancipazione. In ogni caso il dato di fatto da tenere presente è che l’emigrazione italiana, nella quale sono state coinvolte ben 27 milioni di persone (naturalmente a prezzo di gravi traumi, disagi e sofferenze inenarrabili), ha costituito anche un’enorme valvola di sfogo per alleviare il problema della disoccupazione. Ora, indipendentemente da 73


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ogni giudizio di valore, il punto da avere chiaro è che tutto questo è venuto meno. Non perché sul piano mondiale sia scomparsa l’emigrazione, ma perché sono radicalmente cambiati i flussi e soprattutto i paesi di provenienza. Intanto c’è da dire che, con la fine del colonialismo, i paesi coloniali europei (che in passato incoraggiavano una parte della rispettiva popolazione a trasferirsi nei paesi da essi colonizzati) non hanno più la stessa necessità di sostituirla con immigrati, per assicurare a casa propria produzione e ricchezza. A loro volta i paesi extraeuropei, che per gran parte del secolo scorso lamentavano un deficit demografico in rapporto all’estensione del rispettivo territorio (tant’è vero che alcuni hanno attuato una politica di incentivazione dell’immigrazione), si ritrovano ora in una situazione opposta. Il caso più clamoroso è quello dell’Argentina. Siamo perciò in presenza di un cambiamento considerevole, con conseguenze rilevanti anche sulle dinamiche occupazionali nei diversi paesi. Sicuramente in Italia. A tutto questo si devono aggiungere i grandi sommovimenti che, negli ultimi decenni, hanno sconvolto l’economia mondiale. Gli storici dell’economia collocano, infatti, alla metà degli anni Settanta la fine dei cosiddetti “trenta gloriosi”. Vale a dire il trentennio di forte espansione, in tutti i paesi occidentali, seguito alla fine della seconda guerra mondiale. In ogni caso, il termine di quel lungo ciclo espansivo conclude il periodo che, nell’immaginario collettivo, sembrava contrassegnato dalla serenità di fronte ai rischi della vita. È stato proprio da allora, infatti, che il tema dell’insicurezza ha incominciato a emergere improvvisamente nella coscienza pubblica. Quasi dal nulla. Balzando rapidamente al centro del dibattito. Perché la deregolazione dei movimenti globali di capitali e del mercato del lavoro, appena iniziata, ha avuto come effetti immediati: una disoccupazione prolungata (spesso cronica e senza prospettive); la debolezza e in alcuni paesi l’assenza di contratti di lavoro; posti di lavoro prevalentemente a tempo determinato, o comunque soggetti a tagli; orari di lavoro flessibili e salari incerti. Quindi, dopo qualche decennio di quella che retrospettivamente doveva apparire come una fase di idilliaca sicurezza, il “nuovo ordine” mondiale (o meglio l’improvviso caos, per dirla con Bauman) si presenta mettendo radicalmente in discussione la posizione di co74


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loro che “non hanno altro capitale che il proprio lavoro”. Tanto più che l’esclusione, specie nei paesi più avanzati, ha smesso di essere avvertita come incidente momentaneo e diviene condizione duratura, o addirittura permanente. Anche le autorità politiche concorrono a rafforzare tale sensazione modificando in modo allarmante il lessico impiegato nelle loro dichiarazioni programmatiche. Si passa, infatti, dal proposito solenne di eliminare e prevenire l’esclusione, a un più limitato “contenimento” o alle ipotetiche “possibili misure di sostegno” degli esclusi. Contemporaneamente, nell’ultimo ventennio del secolo scorso, anche i flussi migratori riprendono. Cambiano però i paesi di partenza e quelli di destinazione. In questo periodo gli immigrati provengono soprattutto dai paesi dell’est europeo (dopo la caduta del blocco sovietico), come da quelle parti del mondo dove le persone cercano di fuggire dalla guerra e dalla miseria. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza dei nuovi flussi possono essere utilizzate le statistiche della Banca Mondiale. Esse ci dicono che nel 2012 il totale delle “rimesse degli immigrati” (cioè il denaro che gli stranieri rimandano in patria dall’estero) è stato di 500 miliardi di dollari. Circa 400 miliardi di euro. Questo volume è triplicato rispetto all’ultimo decennio e oggi è tre volte più grande del totale degli aiuti economici dato dal mondo sviluppato ai paesi in via di sviluppo. Per capire meglio le cifre in ballo si può rilevare che se le rimesse degli immigrati fossero il prodotto interno lordo di un singolo paese si tratterebbe della ventiduesima economia mondiale. Per intenderci, maggiore di quella Argentina. Naturalmente il fenomeno migratorio è sempre esistito e continuerà a esistere. Ne sa appunto qualcosa l’Italia. Che, come ricordato, per un secolo ha fatto partire milioni di emigranti verso il resto d’Europa, gli Stati Uniti, l’America del Sud e oggi deve invece affrontare una situazione che si presenta in termini capovolti. Infatti, dall’Italia non partono più milioni di operai e di lavoratori non qualificati, ma semmai alcune decine di migliaia di laureati, ricercatori e specialisti. Che quindi la impoveriscono. Perché dopo avere sostenuto i costi della loro formazione universitaria se ne priva a beneficio di altri paesi. Inoltre, con i suoi circa sei milioni di immigrati è il secondo paese europeo, dopo la Francia (con 7,3 miliardi rispetto ai 75


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9,6), per quanto riguarda le rimesse inviate dagli immigrati nei paesi di provenienza. A un livello molto più basso si colloca invece la Germania, che non supera i 2,9 miliardi. Queste cifre dovrebbero aiutare a riflettere almeno su un punto: nonostante la nostra rilevante disoccupazione interna il flusso di lavoratori a basso costo proveniente dall’estero è costante. Come mai? Una delle spiegazioni possibili è che esso corrisponde essenzialmente a una domanda insoddisfatta di lavori domestici (molto spesso a ore), di assistenza alle persone (specie anziani), oppure per lavori pesanti. Quasi sempre malamente retribuiti, scarsamente protetti e non di rado effettuati in nero. Sempre comunque con scarso o nessun riconoscimento della dignità delle persone chiamate a svolgerli e della loro rilevanza economica e sociale. In definitiva capita da noi quanto succedeva, mezzo secolo fa, nelle miniere del Belgio o nella siderurgia tedesca, dove i nativi riservavano agli italiani i lavori più duri e pericolosi. Appare dunque evidente che da questo stato di cose si riuscirà a uscire solo quando si incomincerà ad assicurare davvero al lavoro, indipendentemente da chi lo svolge, un più concreto riconoscimento dei suoi diritti e della sua tutela. Il che, detto per inciso, dovrebbe indurre anche le istituzioni internazionali a fronteggiare le conseguenze negative della globalizzazione incoraggiando un allineamento verso l’alto, invece che verso il basso (come oggi purtroppo avviene) dei salari, delle tutele e dei diritti del lavoro. Flessibilizzare Un secondo aspetto che di norma viene strumentalmente tirato in ballo quando si cerca di spiegare il differenziale di occupazione anche tra i paesi di una stessa area (è il caso dell’Italia rispetto ad altri paesi europei) e il modo per ridurlo, o meglio ancora eliminarlo, è la cosiddetta “flessibilità del mercato del lavoro”. L’assunto di tale dottrina è che, poiché con la globalizzazione il capitale si muove a scala planetaria mentre il lavoro rimane legato al territorio, per cercare di correggere gli squilibri che questa asimmetria determina, non ci sarebbe che un modo: “flessibilizzare” il lavoro. Ridotta all’osso per le élite economiche e per i decisori politici, questa sarebbe, infatti, la sola condizione che permetterebbe di “creare le condizioni favorevoli per la fiducia degli investitori” e aumen76


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tare quindi l’occupazione. Perciò, senza giri di parole, o particolari argomentazioni, come quando si parla di cose che al solo dirle risultano evidenti a tutti, l’élite del potere sostiene che per fare in modo che gli investitori abbiano fiducia, per incoraggiarli a investire, è assolutamente necessario “controllare in maniera più rigida la spesa pubblica; diminuire la pressione fiscale; riformare il sistema di protezione sociale; soprattutto ‘smantellare’ la rigidità del mercato del lavoro”. Insomma: il vero ostacolo a una maggiore occupazione sarebbe rintracciabile in un mercato del lavoro troppo rigido. Che perciò andrebbe reso più “flessibile”. Il che, in buona sostanza, significa: più arrendevole e sottomesso, facile da plasmare a seconda delle situazioni, che quindi non opponga alcuna resistenza ai tagli e alle forme di utilizzo ritenute necessarie. Ma cosa significa lavoro “flessibile”? Secondo la concezione appena richiamata vuol dire che gli investitori possono non considerarla una variabile nella combinazione dei fattori produttivi. Certi che saranno solo le loro decisioni e solamente quelle a determinarne il comportamento. Al riguardo Zigmunt Bauman (Dentro la globalizzazione) sostiene che “Come molti valori che stanno in prima linea, l’idea di ‘flessibilità’ nasconde la propria natura di relazione sociale”. Si tratta, infatti, di un’idea che, per diventare attendibile, richiederebbe una redistribuzione di potere. Mentre al contrario, per come è formulata, contiene in sé l’intenzione di espropriare della capacità di resistenza (e di decisione) coloro la cui “rigidità” si vorrebbe sopraffare. Secondo questo modo di vedere le cose, insomma, “il lavoro perderebbe la sua “rigidità” solo se cessasse di costituire un’incognita nei calcoli degli investitori. Se perdesse quindi il potere di essere davvero “flessibile”, chiedendo però in cambio (in un sistema di relazioni, se non proprio paritario, almeno rispettoso dei diversi interessi e del diverso ruolo delle parti) parallele contropartite al capitale. Cosa che, in sostanza, significa rifiuto di subire acriticamente schemi fissi. Che vuol dire cercare di reagire, o porre limiti, all’assoluta libertà di manovra, alla “incontrollata” mobilità degli ‘investitori’. È del tutto evidente che se la “flessibilità” venisse concepita come un principio di “relazione sociale”, o un “principio universale di salute economica”, andrebbe applicato non solo dal lato dell’offerta di 77


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lavoro, ma anche dal lato della domanda. Purtroppo, come sappiamo le cose non stanno in questi termini. Per la domanda di lavoro, infatti, “flessibilità” vuol dire libertà di muoversi a livello planetario, fuori da ogni regola e da ogni controllo, ovunque si intravedano pascoli più verdi. Mentre all’offerta rimane solo il compito di “spazzare” i rifiuti rimasti sul territorio, dopo che è stato smobilitato l’ultimo accampamento. E soprattutto non rimane altra incombenza che rendersi disponibile a far “quadrare” le convenienze economiche del capitale. Per altro sulla base di parametri di cui è tenuta completamente all’oscuro. È quindi evidente che la flessibilità dal lato della domanda (cioè degli investitori) ricade come un destino duro, crudele, ineluttabile, su tutti coloro che si ritrovano sul versante dell’offerta. Per di più il lavoro va e viene. Scompare subito dopo essere apparso. Viene spezzettato e sottratto senza preavviso. Mentre le regole del gioco, per le assunzioni e i licenziamenti, appunto in omaggio alla “flessibilità” cambiano continuamente e chi ha o cerca un lavoro (perché lo ha perso o non è in grado di trovarlo) non è in condizione di fare nulla per influire o modificare questo processo. Quindi per rispondere agli standard di “flessibilità” imposti da quanti fanno e disfano le regole (per diventare cioè “flessibili” agli occhi degli investitori), la condizione di quanti offrono lavoro non riesce a sottrarsi alla “rigidità” imposta dal capitale. Per loro quindi finisce per essere ristretta al limite del possibile la libertà di scegliere, di accettare o rifiutare. In definitiva quella di cercare di far valere anche regole del gioco proprie. O, per lo meno, di riuscire a farle discutere. L’asimmetria tra le due parti è messa in luce proprio dalla diversa misura con cui esse possono fare dei calcoli e delle previsioni sulle rispettive prospettive. È evidente che la parte in condizione di scegliere e di decidere può introdurre crescenti e intollerabili fattori di incertezza nella situazione dell’altra. Senza che quest’ultima, condannata a una condizione crescente di subalternità e sottomissione, sia in grado di modificare il corso delle cose. Inutile dire che si tratta di un aspetto tanto serio, quanto pericolosamente eluso. Perché rischia di rendere i conflitti potenzialmente più acuti e le soluzioni sempre più difficili. Con un ulteriore rischioso aumento dell’insicurezza: politica, sociale ed economica. 78


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In questo quadro generale dominato dall’alea di temerarie contrapposizioni, anche l’Italia non ha fatto mancare il proprio fervore di discussioni, di proposte e decisioni finalizzate a una maggiore “flessibilità” del mercato del lavoro. A tale riguardo, sebbene l’establishment non abbia mai fatto mistero di ritenere indispensabile una più estesa “flessibilità del lavoro” (sia in entrata che in uscita), è sulle forme del rapporto di lavoro e dunque sulle tipologie contrattuali che si è concentrato il confronto degli ultimi anni. Ne è derivata una proliferazione di contratti a termine, atipici, intermittenti, interinali, di falso lavoro autonomo, che hanno enormemente aumentato l’area dell’insicurezza e del precariato. Oltre tutto, contrariamente alle aspettative di quanti ritenevano che un mercato del lavoro più “flessibile” avrebbe comportato un significativo aumento dell’occupazione complessiva, il risultato paradossale è stato invece l’opposto. E, infatti, l’occupazione è diminuita. Intendiamoci: non è che la diminuzione sia tutta da addebitare esclusivamente alle modifiche che hanno reso possibile l’incredibile molteplicità di forme di rapporto di lavoro. Le cause dell’aumento della disoccupazione italiana hanno a che fare con elementi diversi che riguardano, tra l’altro: la struttura produttiva; l’insufficienza degli investimenti; la scarsa dotazione di infrastrutture; il cattivo funzionamento della giustizia (soprattutto civile); le inefficienze burocratiche; il differenziale di produttività globale; eccetera. Resta comunque il fatto che il tema della “flessibilità del lavoro”, agitato nel dibattito pubblico e in quello di tanti accademici come un rimedio decisivo contro la disoccupazione, alla prova dei fatti si è rivelato un semplice “placebo”. Che ha accresciuto i problemi sociali, senza migliorare la situazione produttiva e occupazionale del Paese. Non è il caso di perdersi in un’analisi dettagliata delle singole misure che sono state introdotte nell’ordinamento, accreditandole come un possibile toccasana, basterà dire che l’esito negativo della terapia è stato l’inevitabile risultato di una diagnosi completamente sbagliata. Nel senso che, al dunque, la disoccupazione non può non essere ricondotta soprattutto a un’insufficiente domanda di lavoro. È quindi difficile, per non dire impossibile, che possa essere curata intervenendo prevalentemente dal lato dell’offerta. Si può fare un esem79


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pio banale, ma anche comprensibile. Se una persona lamenta gravi problemi alla vista, ma il medico si ostina a prescrivergli una cura per l’udito, è piuttosto improbabile che riesca a risolvere il suo guaio. Ed è altrettanto difficile che riesca a migliorare la sua condizione generale. Purtroppo è questo ciò che, in larga misura, è stato fatto in Italia negli ultimi anni. In effetti, i pasticci fatti sul versante dell’offerta avevano poco o nulla a che fare con la lotta alla disoccupazione che richiedono, come detto, soprattutto interventi sul versante della domanda. Le modifiche apportate al mercato del lavoro si sono perciò risolte nel proposito di smantellare l’abitudine, o l’aspirazione, a un lavoro permanente, continuo, regolare. Del resto, che altro può significare l’invocazione a un lavoro flessibile? Al di là di ogni retorica vuol dire spingere i lavoratori a dimenticare presto quanto avevano imparato nel corso della loro esperienza. Il che è esattamente il contrario di quanto l’etica del lavoro, nella fase epica della società industriale, aveva insistentemente predicato. Quindi il lavoro può diventare davvero “flessibile” solo se i lavoratori di oggi e di domani, perderanno rapidamente le abitudini e le conoscenze accumulate nel loro lungo addestramento quotidiano. Se perderanno anche l’aspirazione alla continuità del lavoro. Se perderanno, inoltre, la “smania” per il posto fisso. Se perderanno, infine, lo stesso desiderio di mantenere i rapporti tra colleghi. Diciamolo chiaramente: tutti comportamenti ipotizzabili solo in quanto si asterranno dallo sviluppare capacità professionali inerenti al loro attuale lavoro (o ne vengono impediti) e rinunceranno ad alimentare morbose fantasie sui diritti e le responsabilità di un lavoro inteso come proprio. Al riguardo un episodio riferito dalla stampa internazionale può essere illuminante. Quindici anni fa (1997), nella loro riunione annuale tenuta a Hong Kong, i dirigenti del Fondo Monetario e della Banca Mondiale hanno criticato severamente le politiche adottate allora in Germania e in Francia per creare maggiore occupazione. Perché considerate contrarie alla linea della “flessibilità del mercato del lavoro”. Secondo i partecipanti alla riunione questa richiede, infatti, l’abrogazione: delle norme che proteggono il lavoro; delle retribuzioni che gli siano troppo favorevoli; delle “distorsioni” che si 80


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frappongano alla più dura competitività. Soprattutto impone di vincere le resistenze che la manodopera occupata esercita per contrastare la perdita di “privilegi” da essa acquisiti. Ossia di qualsiasi fattore che possa favorire la stabilità dell’impiego e la protezione del posto di lavoro e del relativo reddito. In altre parole ciò che veniva preteso erano nuove condizioni che favorissero abitudini e atteggiamenti del tutto opposti a quelli che l’etica del lavoro aveva prefigurato per gran parte del secolo scorso. Ai lavoratori, infatti, è sempre più richiesto di abbandonare l’impegno, duramente appreso, a lavorare e il proprio attaccamento emotivo, faticosamente conquistato, al posto di lavoro. Il che significa sbarazzarsi anche di ogni coinvolgimento personale sul futuro dell’impresa con la quale si identificano. Un’eco di queste teorie e un tentativo di applicazione pratica si è registrata anche in Italia, con la stucchevole e reiterata polemica tendente a contrapporre “precari” e “garantiti”. Quest’ultimi talmente garantiti che, solo nel 2012, cinquecentomila di loro hanno perso il posto di lavoro. Ed essendo in larga maggioranza in età avanzata, purtroppo avranno pochissime o nessuna possibilità di ritrovarlo. L’aspetto più disdicevole, per altro, e che più indispone di questa polemica è che essa è stata alimentata soprattutto da accademici. Per i quali sono deplorevolmente noti i metodi di selezione “all’italiana”. Vale a dire con concorsi vinti soprattutto da figli, nipoti, cugini, cognati, famigli, amanti e portaborse. Spesso in possesso di curriculum e pubblicazioni scarse o addirittura ridicole. I quali, tuttavia, una volta arrivati in cattedra, hanno fatto e fanno della stabilità del loro posto, indipendentemente da ogni produzione scientifica e della qualità didattica, un fattore irrinunciabile della propria stabilità economica, della propria sicurezza e del proprio prestigio sociale. In ogni caso, il fatto incontrovertibile è che gli intereventi sulle modalità di funzionamento del mercato del lavoro, motivati dal proposito di fare tornare al lavoro quanti l’hanno perso o non riescono a trovarlo, possono essere ritenuti più o meno efficaci, più o meno ragionevoli, ma possono assumere un senso solo se c’è disponibilità di lavoro. In effetti, quindi, possono acquisire un significato solo se si interviene anche dal lato della domanda. Purtroppo oggi la prima 81


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condizione non si verifica quasi mai e l’assenza della seconda è addirittura plateale. Non a caso, mentre una volta il capitale (soprattutto per le grandi aziende manifatturiere) era impaziente di assorbire quantità sempre crescenti di lavoro, ora è soprattutto impegnato in processi di ristrutturazione e di riduzione del personale. Tant’è vero che la Borsa premia in particolare le imprese che tagliano i posti di lavoro e riducono i dipendenti. In queste contesto è evidente che la vita, particolarmente dei giovani, si trasforma in una vita senza prospettive. Ma è anche la società che ne deriva a smarrire ogni possibilità di tenuta. D’altra parte, una volta che la concorrenza sostituisce la solidarietà tra gli stessi lavoratori, gli individui si trovano abbandonati, alle prese solo con le loro risorse pietosamente scarse e palesemente inadeguate. Fino al punto che il deteriorarsi e il disgregarsi dei legami collettivi e comunitari li rende, senza chiedergli alcun consenso, individui de iure. Ma diseguaglianze crescenti e irriducibili impediscono loro di diventare pure cittadini di fatto. È un problema sul quale sarebbe il caso di incominciare a interrogarsi. Produttività e capitale umano Come ha bene sottolineato Luciano Pero (La risorsa del capitale umano) il sistema produttivo italiano si ritrova in una situazione preoccupante a causa di due diversi fattori che si sono sommati. Da un lato deve fare i conti con alcune malattie croniche di lungo periodo che riguardano l’ambiente esterno come: la scarsa attrazione del capitale per gli investimenti produttivi a causa della sua maggiore propensione alla rendita; l’insufficiente liberalizzazione dei servizi; la burocrazia; il costo elevato del’energia; la criminalità e la corruzione, eccetera. Dall’altro con fattori interni che hanno reso difficile l’espansione dell’apparato produttivo. Come la polverizzazione della struttura produttiva, con la scomparsa delle grandi aziende e la diffusione di quelle di piccola e media dimensione, a scarsa innovazione di prodotto e di processo, che, di fatto, le condanna a essere semplicemente “terziste”, cioè a lavorare per conto terzi. “Su questi malanni cronici - osserva Pero – si è abbattuta la crisi economica e finanziaria con due micidiali colpi” che hanno messo a dura prova i bilanci di 82


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molte aziende. Il primo è la riduzione del fatturato (più diffusa nelle imprese che non esportano). Il secondo è l’aumento del carico fiscale reso necessario per cercare di rimettere in linea di galleggiamento i conti pubblici. In tale contesto governo e parti sociali (non tutte), persuase che un aspetto decisivo del declino italiano debba essere rintracciato nella minore produttività media generale dell’Italia rispetto agli altri paesi europei, nel novembre 2012 hanno firmato un accordo sulla produttività. Considerandola misura ineludibile per migliorare la competitività del sistema produttivo. L’intenzione è stata sicuramente lodevole. Bisogna dire, tuttavia, che la confusione nei contenuti ha sovrastato l’intenzione. Intanto si sarebbe dovuto chiarire qualche ragione in ordine allo scostamento della produttività media italiana da quella europea. Magari prendendo atto, tra l’altro, che nel nostro caso ci sono anche problemi di misurazione. Che riguardano sia il numeratore (evasione fiscale, lavoro nero, …), che il denominatore. Con riferimento a quest’ultimo non si può, infatti, non tenere conto che da noi l’esistenza di un numero spropositato di lavoratori autonomi nasconde il fatto che spesso un barista, un ferramenta, o un giornalaio (per ragioni contributive e fiscali) fa risultare occupati, oltre a sé stesso, anche la moglie, il figlio, la mamma e così via. Che, in realtà, occupati non lo sono affatto. Anche trascurando queste approssimazioni c’è da dire che pure le misure ipotizzate nel documento per “la crescita della produttività e della competitività in Italia” risultano approssimative, generiche e indefinite. Tant’è vero che in sostanza l’effettiva determinazione delle misure stesse, o delle azioni necessarie, viene rinviata ai contratti collettivi di secondo livello. In effetti, l’accordo più che alla produttività appare finalizzato a regolare diversamente la struttura della contrattazione. Incoraggiando uno svuotamento della contrattazione nazionale a favore della contrattazione di secondo livello. Operazione più che audace, rischiosa. Considerando appunto la frammentazione del sistema produttivo italiano. In ogni caso, dall’impianto generale dell’accordo emerge, come sottolinea Sebastiano Fadda (Commento all’accordo sulla produttività), una triplice confusione. La prima è quella tra concetto di produttività e concetto di competitività. La produttività (rapporto 83


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tra quantità prodotta e mezzi impiegati) è certamente un elemento della competitività. “Ma ci sono altre componenti che, a parità di produttività, incidono sulla competitività. Per esempio: la tassazione, il costo dell’energia, le infrastrutture logistiche, il marketing, e così via. Da questa confusione discende una certa idea (ricorrente nell’accordo) che sia possibile recuperare competitività anche con mezzi del tutto diversi dalla produttività. Per esempio: una riduzione del salario, o un aumento delle ore lavorate. La seconda confusione è quella tra funzione distributiva e funzione incentivante del salario legato alla produttività. Perché mentre la prima richiama il principio generale di partecipazione agli utili (che però il testo non specifica), la seconda si basa invece sull’idea che legare l’aumento dei salari all’aumento della produttività accresca i risultati dell’impresa. In quanto i lavoratori sarebbero incentivati ad accrescere il loro impegno lavorativo. “Ma - osserva Fadda – mentre tale legame può garantire la prima funzione, non per ciò stesso garantisce necessariamente la seconda”. A parte la considerazione che l’impegno dei lavoratori non è sufficiente a risolvere il problema della produttività, c’è persino il rischio che questo legame si trasformi in un disincentivo per le imprese a investire in innovazione tecnologica e organizzativa. La terza confusione è quella tra salari nominali e salari reali. Mentre nell’accordo del gennaio 2009 veniva chiaramente attribuito alla contrattazione di primo livello il compito di mantenere stabili i salari reali, nell’accordo sulla produttività si dice invece che la dinamica delle retribuzioni va resa coerente “con le tendenze generali del’economia, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e degli andamenti specifici del settore”. Detto in maniera più comprensibile, meno criptica, significa che poiché non si può svalutare la moneta si deve svalutare il salario. A queste considerazioni Luciano Pero aggiunge due osservazioni che non andrebbero ignorate. La prima riguarda il coinvolgimento diretto, esplicito e motivato di milioni di lavoratori per affrontare il problema chiave dell’innovazione e del cambiamento. Prevedendo norme, accordi e procedure per garantire il loro effettivo coinvolgimento. Anche incentivando le ore dedicate alla discussione, o a una formazione obbligatoria continua. 84


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L’altra riguarda il cosiddetto “demansionamento” dei lavoratori. Questo termine orrendo non è esplicitamente utilizzato nell’accordo, ma la sostanza è ben presente. Secondo Pero il demansionamento, come lo straordinario (altra misura incoraggiata), fanno a pugni con la produttività. Per diverse ragioni. Non ultima quella che “la produttività (nei complessi e moderni sistemi produttivi) richiede più conoscenze, più cooperazione tra le persone, più polivalenza e più capacità di condividere informazioni ed esperienze”. Se dunque l’obiettivo è quello di migliorare l’efficienza produttiva, il demansionamento porta al risultato opposto. “Perché è il contrario della polivalenza e della diffusione della conoscenza. Perché stabilisce che una persona, con il suo bagaglio di conoscenze, deve essere lobotomizzata”, professionalmente e socialmente. Facendola passare a una postazione di lavoro meno qualificata e facendogli dimenticare molte cose che aveva imparato. Ma in che modo, si domanda Pero, umiliandola e offendendo la sua personalità si può pensare di migliorare la situazione produttiva di un’azienda? Il fatto è che anche questo accordo, come tante altre misure, si basa sulla convinzione (meglio sarebbe dire sull’illusione) che la competitività richieda inesorabilmente una svalutazione del lavoro. Spingendo quindi a un allineamento verso il basso dei salari e delle condizioni di lavoro con i paesi nei quali il lavoro è meno pagato e meno tutelato. Per scongiurare questo pericolo occorrono quindi idee un po’ più solide, meno pasticciate e probabilmente anche meno velleitarie e smisurate, rispetto a quelle contenute nel testo del novembre 2012. L’accordo, infatti, è talmente spropositato da essere intitolato, con un evidente eccesso di ambizione: “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia”. In effetti, un semplice confronto con il documento governativo francese dello stesso periodo, anch’esso non sottoscritto da tutte le organizzazioni sindacali ma comunque molto più circoscritto (Pacte pour la compétitivité de l’industrie francaise), consente di rendersi conto del carattere dispersivo e per molti versi evanescente dell’accordo italiano. Se ci si fosse anche nel nostro caso limitati all’industria, sarebbe probabilmente stato possibile accorgersi che, nonostante i tanti problemi, la produttività e la competitività dell’indu85


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stria italiana riescono a reggere. Tant’è vero che nel 2012 le esportazioni sono aumentate. Anzi, in Europa siamo il secondo paese esportatore, dopo la Germania. Anche con riferimento a questa vicenda, ci imbattiamo dunque nell’elemento al quale si è già fatto cenno. Che cioè, indipendentemente dalle ragioni invocate dalle élite economiche e politiche per conseguire maggiore efficienza, la pressione per abbattere ogni barriera alla “globalizzazione”, al libero movimento del capitale, delle merci, delle informazioni redditizie, va di pari passo con la spinta a scavare nuovi fossati per controllare e condizionare quanti sono invece inesorabilmente legati al territorio. Nei fatti quindi, l’integrazione e l’esclusione, la globalizzazione e la territorializzazione, sono due processi complementari. Anzi sono due facce della stessa medaglia. Si tratta, infatti, di uno sviluppo che sta ridistribuendo su scala mondiale sovranità, potere e libertà d’azione. Fenomeno reso possibile anche da un salto radicale, come ricordato, della tecnologia e della velocità di informazione. In questo quadro i cosiddetti processi di “globalizzazione” finiscono soprattutto per ridistribuire privilegi e privazioni di diritti, ricchezza e povertà, risorse e impotenza, potere e mancanza di potere, libertà e vincoli. Oggi tutto questo si svolge sotto i nostri occhi, nelle grandi come nelle piccole cose, in un processo globale di stratificazione che determina una nuova gerarchia socio-culturale, non solo su scala mondiale, ma anche locale. Alla quale purtroppo il lavoro (in contrazione) è spinto ad adeguarsi. Requiem per l’eguaglianza? La crisi economica, come una perversa macchina del tempo, ha riportato l’Italia indietro di ventisette anni. Nel 2013, infatti, il reddito reale disponibile di ogni italiano sarà inferiore ai 17 mila euro, all’incirca lo stesso livello del 1986. È solo l’ultima tappa di una discesa che nel 2012 ha visto il reddito pro capite peggiorare del 4,8 per cento. Tant’è vero che già nel 2011 le persone in condizione di “povertà relativa” erano tantissime: 8,2 milioni, dei quali 3,4 milioni in situazione di “povertà estrema”. Vale a dire: senza casa, senza reddito, senza tutto. Inoltre, nel 2011, in Italia solo poco più del 60 per cento della popolazione tra i 20 e i 64 anni aveva un lavoro. 86


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Solamente Ungheria e Grecia erano riusciti a fare peggio. Il tasso di inattività è arrivato quasi al 40 per cento. In Europa il più alto dopo Malta. Tutto questo si è ovviamente ripercosso sui consumi e quindi sulle prospettive di occupazione. Nel frattempo però non per tutti le cose sono andate così male. Perché i 550 milioni di ricchi sono diventati ancora più ricchi. Nel senso che si sono accaparrati una porzione maggiore del reddito nazionale. E mentre le pensioni vengono tosate, perché diversamente, si è detto, sarebbe saltato l’equilibrio economico finanziario dei conti pubblici e i salari sono ridotti per consentire all’apparato produttivo di rimanere competitivo, la retribuzione dei manager e degli amministratori sono invece aumentate. Insomma la crisi, a differenza dei terremoti che producono crepe e lesioni prevalentemente ai piani alti, ha fatto danni soprattutto ai piani bassi. Per dirne una, crisi o non crisi, il posto in un consiglio di amministrazione di una grande azienda in Italia, vale circa 600 mila euro all’anno. Il doppio della Germania e della Francia. Il triplo della media europea. Eppure, salvo l’esibizione e la deplorazione di uno stile di vita ostentato e volgare da parte di certi ricchi, non sempre appare sufficientemente evidente la percezione degli spostamenti tettonici che si sono registrati e si registrano nella distribuzione della ricchezza. L’impressione ricavata è che non siano moltissime le persone consapevoli di quanto sia realmente aumentata la distanza tra i ricchissimi e tutti gli altri, in un arco di tempo relativamente breve. E questa dinamica ha prodotto consistenti danni sulla stessa crescita e sull’occupazione. L’aspetto singolare è che anche il solo fatto di affrontare l’argomento espone spesso all’accusa di “pauperismo”, di “odio per i ricchi”, di nostalgia “per la lotta di classe” e altre sciocchezze del genere. Mentre, salvo qualche volonteroso (anche tra gli stessi accademici), sono davvero poche le persone che si mostrano coscienti delle gravi conseguenze (prodotte dall’aumento di questa distanza) sul piano economico, sociale e politico. Eppure non è possibile comprendere quello che sta accadendo in Italia, come nella maggior parte dei paesi sviluppati, senza tenere conto dell’estensione, delle cause e delle conseguenze del massiccio aumento delle disparità. Che anche grazie al dominio della dot87


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trina liberista è andato prendendo consistenza negli ultimi trent’anni. Con una stupefacente concentrazione di ricchezza in un numero limitato di mani. L’accaparramento del reddito al vertice della piramide sociale non è quindi l’ultima delle ragioni per le quali, in Italia, c’è meno occupazione e più povertà rispetto ai principali paesi europei. Intendiamoci bene, non si tratta di una sregolatezza elusivamente italiana. Infatti, anche altrove questa tendenza ha fatto proseliti. In America, per esempio, il trattamento ottenuto da Jack Wilch (mitico amministratore delegato della General Electric), in occasione della fine del suo rapporto con l’azienda, ha contribuito ad accendere i riflettori sui privilegi delle élites. Di solito tenuti accuratamente al riparo dalla curiosità del pubblico. È così venuto fuori che al momento di ritirarsi Welch ha ottenuto, assieme a una generosissima buona uscita, l’uso a vita di un appartamento di Manhattan (incluso cibo, vino e servizio lavanderia), libero accesso al jet della società e tutta una serie di benefici in natura del valore di almeno due milioni all’anno. Si tratta di privilegi scandalosi (infatti in America c’è stata una sdegnata reazione sociale) che rivelano fino a che punto i dirigenti di una grande società si aspettino di essere trattati come gli aristocratici dell’ancien regime. Per altro c’è da osservare che questi benefici accessori non devono avere presumibilmente avuto una decisiva influenza sulle condizioni di vita di Welch. Tenuto conto che nel 2000 (suo ultimo anno alla guida della General Electric) era stato retribuito con ben 123 milioni di dollari. Anche in Italia mentre le retribuzioni della generalità dei lavoratori sono in diminuzione, per i top manager continua a esserci un occhio di riguardo. Per dirne una, pochissimi anni fa all’amministrazione delegato di una delle importanti banche è stata riconosciuta una buona uscita di 40 milioni di Euro. Cioè l’equivalente del salario annuo di 1600 operai. Per rendersi conto di come sia cambiata la sensibilità sociale in fatto di disparità, basterà ricordare la regola stabilita, nei primi decenni del dopoguerra, da Rockfeller per la remunerazione dei dirigenti. Secondo quella regola, infatti, un dirigente non avrebbe mai dovuto guadagnare un salario superiore a quaranta volte quello di un operaio. Negli stessi anni il presiden88


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te del sindacato dell’automobile (Walter Reuther) polemizzava duramente con l’amministratore delegato della General Motors perché questi percepiva una retribuzione superiore a trenta volte quella media di un operaio. Nella contesa Reuther lo criticava aspramente sostenendo che “non poteva esistere in natura” un uomo che valesse quanto altri trenta. Oggi, invece, quasi si trattasse appunto di un fatto naturale, il compenso per gli alti dirigenti (al di qua e al di là dell’Atlantico) è arrivato a un migliaio di volte quello percepito dagli operai. In certi casi addirittura di più. I più disinvolti (tra gli economisti) tendono a giustificare questo fenomeno scandaloso sostenendo che è il prodotto del mercato. I trattamenti indecenti a favore di pochi sarebbero il prodotto della “mano invisibile del mercato”. In realtà la ragione chiave per cui gli alti dirigenti vengono pagati così tanto è che, per gran parte, sono loro stessi a designare i membri del consiglio di amministrazione delle società che stabiliscono la loro retribuzione. Per il semplice fatto che controllano molte delle nomine, degli incarichi e dei privilegi sui quali contano gli stessi membri del consiglio di amministrazione. Si può dire pertanto che non è affatto la “mano invisibile del mercato” a determinare quegli astronomici compensi per i direttori generali, gli amministratori delegati, i presidenti. È piuttosto la stretta di mano “invisibile” nel Consiglio di amministrazione. Negli ultimi decenni, tra quanti si sono prima resi conto e poi (flebilmente) hanno denunciato che stava avvenendo qualcosa di anomalo che rischiava di portare su una china pericolosa, sono state formulate tre ipotesi principali sulle possibili cause del fenomeno. La prima è la congettura della “globalizzazione”, che avrebbe legato il cambiamento della distribuzione del reddito e, dunque, l’aumento delle disparità, alla crescita del commercio mondiale. Specialmente in seguito all’ampliamento delle importazioni di prodotti finiti dai paesi in via di sviluppo. Il messaggio alla base di questa interpretazione è che le tute blu specializzate, le quali fino alla metà degli anni settanta spesso riuscivano a guadagnare quanto i quadri intermedi, stavano inesorabilmente perdendo terreno di fronte alla concorrenza dei lavoratori asiatici pagati poco. A cominciare dalla Cina e dall’India. Come risultato si sarebbe quindi verificato il calo 89


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degli stipendi dei lavoratori normali e pertanto una quota maggiore poteva essere accaparrata da chi si trovava al vertice della piramide. Una seconda supposizione è quella relativa al “cambiamento tecnologico” e all’abilità organizzativa. Essa collega la ragione delle crescenti diseguaglianze non al commercio estero, ma al rinnovamento interno. Secondo questa spiegazione la distribuzione del reddito avrebbe finito per favorire sempre meno i “muscoli” e sempre più invece le abilità di coordinamento e di comando. Infine c’è l’ipotesi delle “grandi star”. Secondo questa interpretazione le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione spesso trasformano la competizione in un torneo il cui vincitore riceve una ricca ricompensa, mentre gli altri classificati (i comprimari) ottengono le briciole. Insomma anche nelle imprese avverrebbe quanto succede per le stelle dello spettacolo, dove la grande star è pagata molto e le “comparse” invece si devono accontentare di poco o nulla. Gli elementi di cui disponiamo ci dicono però che nessuna di queste spiegazioni risulta credibile. La globalizzazione può, infatti, spiegare parte della relativa riduzione del salario operaio, ma non può dare conto dell’aumento del 2.500 per cento delle entrate di un amministratore delegato, rispetto a quanto avveniva ai tempi di Rochfeller. Quando oltre tutto l’economia andava meglio. La tecnologia può motivare perché l’incentivo all’istruzione universitaria sia aumentato. Seppure, nell’ultimo anno, in Italia gli iscritti all’università siano invece diminuiti. Ma comunque non spiega assolutamente il regresso dei redditi per la grandissima maggioranza che sta in basso e l’aumento vertiginoso per i pochi che stanno in alto. La teoria delle “grandi stelle” può andare bene per i “divi” del cinema, della televisione, del calcio, ma non per le migliaia di persone che sono diventate spaventosamente ricche senza avere alcun bisogno di passare per la televisione, il cinema, o i campi di calcio. La spiegazione quindi non può che essere diversa. La più plausibile ci rinvia al successo ottenuto dalle teorie liberiste nell’ultimo trentennio. Teorie che non hanno mai fatto mistero di considerare l’aumento delle diseguaglianze non solo un indicatore del successo personale, ma soprattutto un bene per l’economia in generale e quindi, in definitiva, per l’intera società. 90


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A confutazione di queste dottrine è il caso di ricordare che durante la seconda guerra mondiale Franklin Roosvelt usò il controllo governativo sui salari per ridurre le distanze. Assicurando in tal modo la coesione sociale indispensabile durante il conflitto. C’è da aggiungere tuttavia che la società tendenzialmente egualitaria emersa dalla guerra ha resistito per altri trent’anni. Proprio i trent’anni che hanno coinciso, in tutti i paesi occidentali, con la più forte crescita economica e dell’occupazione che sia mai stata registrata in tutto il novecento. In sostanza il New Deal (nel corso del quale sono state appunto varate norme per assicurare una relativa parità retributiva) ha permesso la fuoriuscita dalla grande crisi del ’29 e ha avuto un impatto profondo sull’economia e sull’intera società americana. Perfino più profondo e duraturo di quanto i suoi più ardenti sostenitori avessero ipotizzato. Tant’è vero che il suo impatto si è protratto per alcuni decenni sulle politiche del dopo guerra. E non solo in America. Purtroppo, a partire dalla metà degli anni settanta, quelle norme e la cultura che le aveva prodotte cominciarono a essere messe in discussione e progressivamente a cadere in disuso. E lo hanno fatto con velocità crescente, fino ad arrivare al punto in cui ci siamo ritrovati oggi. Si può dunque trarre qualche conclusione da quella esperienza? Sicuramente sì. Pur sapendo che la storia non si ripete mai con le stesse modalità del passato, una deduzione, certamente fondata, dovrebbe condurre alla presa di coscienza che la battaglia contro la disoccupazione difficilmente potrà conseguire dei risultati concreti se non sarà accompagnata anche da una parallela e concreta lotta alle diseguaglianze di reddito, di diritti, di opportunità.

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Il lavoro, come tutte le altre cose che si acquistano e si vendono, e la cui quantità si può aumentare o diminuire, ha il suo prezzo naturale e il suo prezzo di mercato. Il prezzo naturale del lavoro è quel prezzo che è necessario per permettere ai lavoratori [….] di mantenersi in vita e di perpetuare la loro razza, senza aumento né diminuzione David Ricardo



3 Il lavoro è finito? Come ogni anno, nell’ultima settimana di gennaio del 2013 a Davos, rinomata cittadina di soggiorno e sport invernali nel cantone dei Grigioni in Svizzera, si è svolto il Forum economico mondiale. Dopo il quinto anno consecutivo di crisi, banchieri, finanzieri, manager, un discreto numero di economisti e una più modesta pattuglia di politici, si sono incontrati per discutere delle prospettive. A giudizio della maggior parte dei partecipanti la crisi si può ritenere sostanzialmente passata, anche se ancora non del tutto finita. Qualora la valutazione non si dovesse rivelare completamente sballata, oggi dunque il problema consisterebbe nel come fare ripartire la macchina. Purtroppo i numerosi presenti non sono stati in grado di fare scoccare la scintilla capace di accendere la luce. Hanno invece soprattutto ragionato su come “gestire la fase conclusiva” della crisi e in questo quadro come attenuare l’austerità e allungare i tempi del risanamento. Ma la ricetta per rilanciare seriamente l’economia e riassorbire i milioni di senza lavoro non l’ha tirata fuori nessuno. I cronisti accreditati si sono, infatti, limitati a dire che tra i partecipanti al Forum non aleggiava la paura di un nuovo trauma finanziario globale, per altro non escluso, ma dai più non ritenuto molto probabile. Ciò che invece si aggirava nei saloni del Forum era il fantasma della quiete dopo la bufera, che potrebbe preannunciare una nuova tormenta. Questa volta non soltanto nelle banche e nelle borse, ma nelle piazze. D’altra parte l’attenuazione del rigore e dell’austerità, ormai raccomandata persino dal Fondo Monetario Internazionale, è dettata 95


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dalla stessa preoccupazione. In sostanza dalla tenuta sociale di fronte a un periodo lungo di stagnazione, di un ulteriore impoverimento delle famiglie, di una perdita di altri posti di lavoro, di un ulteriore aumento delle diseguaglianze. Tuttavia siamo già arrivati al punto che gli aggiustamenti proposti dai tecnici non sono più in grado da far fare nessun passo avanti. Ci vorrebbero quindi nuove e più coraggiose soluzioni politiche. Basate su nuove idee, compresa una nuova visione del mondo. Più che per ciò che è oggi, per ciò che potrebbe essere. Purtroppo queste nuove idee non sono emerse. Tra i membri dell’establishment, ha cominciato a materializzarsi il fantasma del letargo. Accompagnato, tra i più consapevoli, dal timore di un successivo risveglio tutt’altro che indolore. Perché le società sono sul punto di rompersi. Siamo quindi arrivati a una stretta. L’élite del potere aveva, infatti, costruito un modello di sviluppo edificato sulla finanza e sui debiti. Esattamente quello che ci ha fatto precipitare nel pozzo della crisi. Il fatto è che ora, mentre secondo gli aruspici la crisi starebbe passando e quel modello non risulta più riproponibile, i gruppi dominanti si sono improvvisamente accorti di non averne uno di scorta. Così a Davos ci si è limitati a dire che il 2013 sarà un anno di transizione, verso dove nessuno lo sa. Per altro la stessa cosa era già stata detta nel 2012. In un contesto del genere, quello che realisticamente ci si può aspettare per i prossimi anni, se va bene, è una lenta ripresa fatta di decimali di crescita. Intendiamoci, sempre meglio della recessione. Ma che non basteranno certo a riassorbire la disoccupazione e a stabilizzare l’Europa. Tuttavia, anche se la crescita dovesse essere maggiore (e purtroppo non lo sarà), il lavoro che verrà creato sarà soprattutto quello non sostituibile dagli automatismi e dalle macchine. O quello necessario per assicurare alcuni servizi, a cominciare dall’assistenza alle persone. Per una parte non grandissima, quindi, si tratterrà di lavoro parzialmente creativo. Per la parte maggiore, invece, di lavoro per addetti ai servizi. Soprattutto a basso costo. Naturalmente, considerata la mancanza di lavoro, non possiamo permetterci di essere snob, o sdegnosi. Dunque ben venga tutto il lavoro che si riuscirà a creare. Come l’impegno a fare di tutto perché se ne possa creare la maggiore quantità possibile. Ma sappiamo 96


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già che, anche nella più rosea delle ipotesi, esso non sarà sufficiente a eliminare la disoccupazione. Perciò, se si vuole una società stabile e una crescita sostenibile, bisognerà affrontare assieme il problema della redistribuzione del lavoro, in maniera moderna e complessiva. Di questo, però, nell’agenda dei potenti riuniti a Davos non c’era traccia. L’ossessione per la “sicurezza” Le ragioni per cui il tema viene scansato sono diverse. La prima è che le imprese non hanno una particolare ragione per spingere a una drastica diminuzione della disoccupazione. In quanto temono che potrebbe innescare una spinta salariale e una rivendicazione di maggiori tutele. La seconda è che pure una parte di lavoro dipendente considera il proprio lavoro sufficientemente stabile e sicuro. Perciò è diffidente nei confronti di ipotesi redistributive, temendo che possano intaccare il proprio reddito e le proprie condizioni di vita. Infine la terza è che, al di là delle dichiarazioni giustamente allarmate, nemmeno buona parte della società e del ceto politico considerano la disoccupazione una priorità effettiva e non puramente verbale. Così che, per quanto possa essere ritenuto deplorevole, la disoccupazione si trasforma, nei fatti, essenzialmente in un problema dei disoccupati. Cioè di chi ha perso il lavoro, o non riesce a trovarlo. Per di più l’insicurezza di milioni di persone e di famiglie derivante dalla perdita o dalla mancanza di lavoro viene sovrastata dalla parallela richiesta di altri milioni di cittadini che reclamano una maggiore sicurezza personale. Soprattutto patrimoniale. Oltre tutto occorre rilevare che c’è una differenza sostanziale tra le due situazioni. La prima, vale a dire la disoccupazione, viene, infatti, considerata una responsabilità e un’incombenza del “mercato”. Nei confronti del quale la politica si considera impotente. La seconda (cioè la sicurezza dei cittadini) viene invece ritenuta un indiscutibile compito dello Stato e dunque della politica. Ora, poiché nessuno è mai stato chiamato a votare per il “mercato”, mentre tutti sono possibili elettori quando si deve fare un nuovo governo, è almeno in parte spiegabile perché i governi dedichino tanto zelo, tante energie, tante risorse, alla “sicurezza”, all’incolumità dei loro cittadini e dei loro beni. 97


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In proposito, osserva Zygmunt Bauman (L’Europa è un’avventura): “È soprattutto in Europa e nelle sue derivazioni, ramificazioni e sedimentazioni in altri continenti che la dipendenza dalla paura e l’ossessione della sicurezza hanno fatto la carriera più spettacolare negli ultimi anni”. In una certa misura questo fatto appare inesplicabile. Per la buona ragione, come sostengono antropologi e storici, che per lo meno nei paesi sviluppati viviamo senza dubbio nelle società più sicure mai esistite. Eppure, contrariamente all’evidenza, afferma sempre Bauman “è il nostro ‘noi’ coccolato e viziato a sentirsi, rispetto alla maggior parte delle società della storia, più esposto alle minacce, più insicuro e spaventato, più incline al panico e molto più interessato a tutto ciò che possa essere messo in relazione con la sicurezza e l’incolumità”. Come sappiamo la sofferenza umana viene di norma ricondotta a tre fattori: la soggiogante forza della natura; la nostra fragilità fisica; il cattivo funzionamento e l’inadeguatezza delle istituzioni alle quali è affidato il compito di regolare le reciproche relazioni tra le persone nella famiglia, nella società, nello Stato. Stando così le cose è facile capire che abbiamo poche o nessuna possibilità di superare i limiti ai quali ci mettono di fronte le prime due cause. Del tutto diversa, invece, la situazione per quanto riguarda la terza. Perché qualsiasi cosa fatta dagli uomini, in teoria, può essere modificata dagli uomini. In questo non c’è un limite e comunque non c’è limite che l’impegno umano non possa superare. Per tutti, o quasi, può essere difficile riuscire a capire perché mai le istituzioni che gli uomini stessi hanno creato non possano rappresentare una protezione e un beneficio per tutti. Ora, se la protezione di cui godiamo resta al di sotto di quanto ritenuto ideale, se le istituzioni non funzionano come dovrebbero e come, a nostro giudizio, potrebbero, saremo indotti a sospettare l’esistenza di trame, o anche soltanto dalla pressione ad assecondare la stratificazione della società in “caste”. Quindi la sensazione di insicurezza si trasforma rapidamente nella convinzione e nella pretesa che, con la giusta determinazione e un impegno adeguato, sarebbe possibile arrivare a una sicurezza pienamente soddisfacente. Perciò, se non ci si arriva, l’unica spiegazione possibile viene ricercata e ricondotta all’inettitudine e all’ignavia della classe politica. 98


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Ma da cosa nasce il diffuso sentimento di insicurezza che caratterizza la società contemporanea? Ci sono motivi, continuamente proposti dalla cronaca quotidiana, che la versione moderna dell’insicurezza sia, in gran parte, contraddistinta dalla diffidenza e dal sospetto nei confronti del prossimo e delle sue intenzioni. Secondo alcuni questo atteggiamento è da imputare all’individualizzazione della società attuale. La quale, avendo rimosso il fitto tessuto di associazioni, di comunità, di corporazioni, che un tempo definivano le regole di protezione e vigilavano sulla loro applicazione, ha finito per lasciare le persone in balia di sé stesse. Come per tante altre trasformazioni, anche in questo campo, l’Europa ha dovuto affrontare per prima le conseguenze, per lo più negative, del cambiamento. La duplice novità che ha influenzato la dinamica avversa con la quale ci ritroviamo alle prese riguarda due aspetti correlati. Il primo ha a che fare con l’iperesaltazione dell’individuo. Sempre più slegato dai vincoli di una fitta rete di legami sociali. Il secondo è la conseguenza del primo. Nel senso che ha fatto emergere una fragilità e una vulnerabilità senza precedenti delle persone, private dalla protezione e dalla sicurezza che un tempo le erano, di fatto, offerti, appunto dalla folta trama di connessioni sociali. All’inizio il primo fenomeno è stato vissuto dalle persone come la conquista di nuovi emozionanti spazi per realizzare e migliorare sé stessi. Il secondo, al contrario, ha costretto la maggior parte degli individui a prendere atto che, per lo più, tali spazi erano in realtà inaccessibili. Anche per questo, da sempre, lo Stato moderno ha cercato di affrontare in qualche modo il gravoso compito di gestire la paura. A questo fine ha tentato di tessere e ritessere la rete protettiva lacerata continuamente dalla velocità dei cambiamenti economici e sociali. Al riguardo possono essere richiamati due esempi. Sono del primo tipo le istituzioni e le prestazioni del welfare, nonché i servizi gestiti e promossi dallo Stato come l’assistenza sanitaria, l’istruzione, la previdenza, o anche la legislazione sulle fabbriche per favorire diritti e obblighi reciproci delle parti in relazione alla facoltà di stipulare contratti di lavoro. Nel caso italiano, per quanto riguarda quest’ultima prospettiva, lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” ha costituito una dimostrazione significativa. 99


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Per quanto riguarda invece il secondo tipo, il principale esempio è la solidarietà di fabbrica: sindacale e professionale. Solidarietà che ha potuto attecchire e prosperare “naturalmente” nel contesto relativamente stabile della “fabbrica fordista”. Largamente rappresentativa dell’ambiente nel quale, per gran parte del secolo scorso, era concentrata la maggioranza dei soggetti “privi di altro capitale che non fosse il proprio lavoro”. La grande fabbrica industriale è stata quindi il luogo del conflitto, non di rado aspro e duro e mai definitivamente sopito. Per la buona ragione che l’impegno continuo, a lungo termine, la reciproca dipendenza, rendeva lo scontro un sacrificio, ma allo stesso tempo un comportamento ragionevole e razionale. In quanto investimento sociale giustificato: di fiducia, di negoziato, di compromesso, di continua ricerca di una modalità consensuale di convivenza. Il dissolversi di quella situazione ha prodotto la fine di tante delle modalità con le quali si era cercato di gestire alcuni elementi dell’insicurezza e della paura. Ora, purtroppo, quanto è rimasto in piedi delle vecchie protezioni tende a essere progressivamente indebolito, smantellato e, in alcuni casi, definitivamente liquidato. Come si diceva, l’Europa è stata la prima a subire questa involuzione e a vivere l’intero spettro delle sue conseguenze. Adesso è alle prese con un’ulteriore fase di deregolamentazione. Spesso, più che per propria scelta, perché schiacciata dalla pressione delle forze della “globalizzazione”. Forze che non è in grado di controllare e nemmeno arginare. Non stupisce quindi che quanto più riescono a sopravvivere isole di tutela “dalla culla alla bara”, ormai sotto attacco ovunque, tanto più riescono a fare proseliti le posizioni xenofobe. Non a caso, i pochissimi paesi (soprattutto scandinavi) che resistono all’idea di abbandonare le tutele sociali opponendosi alle sempre più numerose pressioni per ridurre e sopprimere tali prestazioni, si considerano fortezze assediate dal nemico. Essi guardano perciò allo Stato Sociale come a un bene da difendere con le unghie e con i denti da intrusi (Commissione europea, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale) che chiedono invece di depredarlo. Quanto meno annacquarlo e comunque sottoporlo a cura dimagrante. In questo quadro è evidente che la xenofobia, il risentimento verso i “forestieri”, gli altri, sono il riflesso pericoloso e perverso dell’il100


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lusione di riuscire a salvare quello che resta di una sempre più impalpabile solidarietà locale. Oltre tutto il quadro è completamente cambiato. Un tempo, infatti, le “classi pericolose” erano essenzialmente costituite dalla popolazione in esubero. Temporaneamente esclusa e non ancora reintegrata, che il progresso economico accelerato privava di una “funzione utile”. È, più o meno, quanto è capitato in Italia ai milioni di braccianti che, negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, hanno dovuto lasciare l’agricoltura con la sola speranza di poter essere reimpiegati nell’industria, pur non disponendo sempre di una qualificazione adeguata. Ma a differenza di quanto avvenne allora, oggi le nuove classi “pericolose” sono composte da persone ritenute non idonee al reintegro e pertanto considerate inassimilabili. Tanto più che le persone coinvolte non sono ritenute semplicemente troppe, ma smisuratamente sovrabbondanti. Perciò, diversamente da quanto avvenuto in passato, queste classi e queste persone sono escluse in modo permanente. La cosa che impressiona dunque è che l’esclusione odierna non è il prodotto di una sventura momentanea e, seppure con difficoltà, superabile. Ha invece il carattere e il senso dell’irreparabilità. I ponti bruciati difficilmente saranno ricostruiti. Quindi l’irrevocabilità dello sfratto sociale e la mancanza di strumenti come possibilità di appellarsi contro la sentenza di allontanamento, trasformano gli odierni esclusi in classi “pericolose”. Con conseguenze sociali e politiche, per altro, che nessuno è in grado di prevedere. L’irreparabilità dell’esclusione è conseguenza diretta (e sottovalutata) dello Stato Sociale, come trama di istituzioni consolidate e, cosa persino più significativa, come ideale, visione, progetto. L’indebolimento, il declino, la riduzione di quelle istituzioni, per molti preannunciano perciò una parallela scomparsa delle opportunità di risalita nella scala sociale. Non a caso il ritrovarsi senza lavoro è avvertito sempre più come una caduta in uno stato di “esubero”, di ridondanza. Ci si sente respinti, bollati come superflui, inutili, inoccupabili, destinati a rimanere (per usare un eufemismo) “economicamente inattivi”. Essere senza lavoro comporta quindi che si è scartabili (anzi, forse si è già stati scartati) e finiti tra gli avanzi del “progresso economico. Cioè di quel cambiamento che permette di pro101


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durre la stessa quantità di beni e servizi e ottenere gli stessi risultati economici, se non migliori, con meno lavoratori impiegati e a “costi del lavoro” inferiori a prima. Ciò che contribuisce, quindi, ad alimentare le insicurezze, le paure e la reazione, anche di coloro che non si trovano nella medesima condizione, è che non ci sono più sbocchi per eliminare i “ridondanti”. Per secoli, come si è ricordato, diversi paesi europei, alcuni dei quali in via di modernizzazione, hanno scaricato fuori dai propri confini la popolazione in eccesso. Resa superflua dalla sua situazione economica. Ricercando e trovando, per quella via, soluzioni ‘globali’ a problemi sociali ‘locali’. Oggi però, mentre la produzione di ‘scorie umane’ prosegue inesorabile in gran parte dell’Europa sviluppata, l’industria di smaltimento dei rifiuti attraversa una grave crisi. Le discariche fuori dai paesi più sviluppati ormai sono diventate poche e si stanno riducendo velocemente. Luoghi un tempo considerati vuoti o sottopopolati hanno, a loro volta, incominciato a produrre un surplus di popolazione. Non sorprende quindi che in questi paesi, soprattutto in quelli africani e mediorientali, ai giovani “ridondanti” venga data un’uniforme militare con l’ordine di fare arretrare anche con la forza qualche popolo vicino. Mentre altri adolescenti vengono spediti (su barconi stracarichi) in paesi remoti, con la direttiva di aiutare i famigliari rimasti a casa. Inviando loro parte del denaro che si presume guadagneranno dove sono andati e che invece non avrebbero guadagnato se fossero rimasti nel loro territorio. Data l’assenza di alternative, sulla ‘classe inferiore’ e sull’aumento della detenzione (in rapida crescita in tutti i cosiddetti paesi sviluppati) ricade quindi sempre di più l’onere di assorbire le “scorie umane” prodotte localmente. Tenuto conto che il resto del mondo non è in grado di smaltirle accogliendole. Risultato: i territori che oggi finiscono nell’ingranaggio della modernizzazione non hanno più l’opportunità di scaricare in aree distanti del pianeta l’eccesso di popolazione prodotto localmente. Cosa che aveva invece rappresentato una valvola di sicurezza per un’Europa in via di modernizzazione. Almeno fin tanto che l’economia moderna è rimasto un privilegio squisitamente europeo. Mentre ora i paesi che un tempo esportavano i loro massicci surplus di mano d’opera non sono assoluta102


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mente disposti ad aprire le frontiere all’importazione di quella proveniente dai territori un tempo conquistati. Intendiamoci bene: chi più chi meno, tutti i paesi sviluppati hanno ancora bisogno di un afflusso di forza lavoro a buon mercato per eseguire lavori improbi, faticosi, rischiosi e malpagati. Ed è solo per questo che le porte di ingresso non vengono chiuse completamente. Al riguardo può essere sufficiente un solo esempio. Nel 2004 il ministro dell’interno della Gran Bretagna, ha dichiarato al The Guardian che “abbiamo bisogno di un’immigrazione economica, legale e gestita”, aggiungendo subito dopo: “cioè del genere che necessita alla nostra economia”. E perché a nessuno potesse venire in mente che stava obbedendo a motivazioni di tipo umanitario chiariva che “i diritti umani universali” non avrebbero avuto voce in capitolo nel trattamento di quei diseredati. In quanto i requisiti della “nostra economia” sono e dovranno rimanere l’unico criterio per le decisioni che sarebbero state adottate in materia. E perché non ci fossero dubbi si è affrettato a precisare che i “benefici dello Stato sociale” non verranno estesi ai nuovi immigrati e che il numero di domande d’asilo sarebbe stato ridotto ulteriormente, grazie al trattamento più rigido che sarebbe stato applicato ai richiedenti asilo. I quali, in grandissima maggioranza, sarebbero stati considerati indesiderati e perciò respinti. Predisponendo, nel frattempo, campi di detenzione e trasferimento coatto nei loro paesi d’origine. Oppure inviati in campi profughi in paesi terzi. Da un certo punto di vista quella dichiarazione, quel proclama ha rappresentato la morte e la sepoltura del diritto d’asilo. Vale a dire il diritto che era stato concordato e sottoscritto solennemente e universalmente nel 1951. In qualche modo la posizione appena ricordata è indicativa dei radicali mutamenti intervenuti nella politica europea. Non è il solo caso, però. Nello stesso periodo, infatti, il Parlamento olandese ha deciso di espellere 26 mila persone che avevano chiesto asilo, provenendo da paesi nei quali infuriava la guerra, come la Cecenia, l’Afghanistan, la Somalia. Quindi, per i rifugiati (come venivano chiamati fino a qualche anno fa), che oggi si sono trasformati in disperati, sta persino venendo meno il principio, che sembrava ormai essere diventato un’acquisizione universale, in base al quale “avendo 103


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ciascuno diritto alla vita, dovrà essere garantita l’incolumità di coloro la cui vita è in pericolo”. Questo capovolgimento di politiche, ma soprattutto di valori, è sintomatico del fatto che quando le democrazie attraversano un periodo di crisi (tanto economica, che di legittimità) l’insoddisfazione e la paura diffusa finiscono per concentrarsi sugli “altri”. Accusati di togliere alla gente il posto di lavoro, il pane di bocca, la sicurezza nelle strade e persino nelle proprie case, il denaro versato con le tasse. In periodi simili i vicini tendono perciò a diventare potenziali nemici e l’occasionale nazionalismo in alcuni paesi o il localismo (per esempio, nelle zone a forte presenza leghista in Italia) si trasforma nella xenofobia del “noi contro loro”. La storia ci dice che in tempi normali gli immigrati vengono denigrati e marginalizzati all’inizio, ma poi vengono assimilati e integrati. Come è appunto successo anche a milioni di italiani. Invece in tempi duri l’antipatia latente diventa risentimento che si trasforma non di rado in odio aperto. Bisogna dire purtroppo che la democrazia esprime spesso i pregiudizi della maggioranza. Non solo i sentimenti e le aspirazioni migliori. A questi atteggiamenti che montano nell’opinione pubblica, i governi tendono in prevalenza a rispondere con la restrizione dello spazio per i “ridondanti”. D’altra parte, in tutte le epoche lo stato di reclusione, nelle diverse forme di rigidità e durezza, è sempre stato lo strumento principale con il quale le “autorità” hanno pensato di affrontare le frange della popolazione ritenute meno assimilabili. Più difficili da controllare o comunque ritenute pronte a creare problemi. Nella Roma antica gli schiavi erano confinati nei loro quartieri, come i lebbrosi nel medioevo. I pazzi, gli zingari e gli ebrei, prima sono stati reclusi in ghetti e poi, nel periodo nazista, addirittura avviati a campi di concentramento e di sterminio. Nelle diverse epoche ognuno di questi gruppi, quando si muoveva al di fuori del quartiere assegnato, era obbligato a portare il marchio della propria appartenenza, in modo che chiunque sapesse che doveva stare in uno spazio diverso. Segregare qualcuno e confinarlo con la forza è dunque stato, nei secoli, un modo spregevole di reagire alla diversità. In particolare a quelle diversità che non si volevano accogliere all’interno della rete 104


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normale dei rapporti sociali. Isolare qualcuno nello spazio ha sempre significato soprattutto vietare o sospendere le comunicazioni con lui. Quindi perpetuare con la forza la sua condizione di escluso. L’esclusione, infatti, è proprio la funzione alla quale assolve l’atto di relegare qualcuno nello spazio. Relegarlo, estraniarlo, serve a ridurne e comprimerne la visibilità. Così che le qualità di un individuo e le circostanze della sua vita, che vengono normalmente messe in luce attraverso gli scambi quotidiani, è difficile che possano balzare alla vista quando tali scambi sono ridotti al minimo, o addirittura impediti. Per di più nelle condizioni di vita moderna la densità della popolazione tende a divenire considerevolmente maggiore del suo spessore morale e cresce in misura largamente superiore alla capacità di assorbire la familiarità tra le persone consentendo loro di tessere un’ampia rete di relazioni interpersonali. Anche da qui nasce la spinta a ridurre comportamenti devianti alla crescente richiesta e applicazione di norme giuridiche e di restrizione in carcere dei “disadattati”. Non si spiega diversamente la forte accelerazione del ricorso a pene detentive per nuovi e ampi settori della popolazione. I quali, per una qualche ragione (più o meno plausibile), vengono ritenuti una minaccia “all’ordine sociale”. Perciò escluderli con la forza dalla società, attraverso la detenzione, viene considerato un sistema efficace a neutralizzarne la minaccia. Soprattutto a tacitare la crescente ansietà e insicurezza di vasti settori dell’opinione pubblica. In questo contesto, il numero delle persone condannate alla reclusione è in continuo aumento. Varia naturalmente di paese in paese. Le diverse percentuali riflettono idiosincrasie particolari espressione delle tradizioni politico e culturali, come della diversa storia relativamente alla concezione e alla pratica penale. Il dato che particolarmente colpisce è che il rapido infoltirsi della schiera dei carcerati rappresenti un fenomeno particolarmente rilevante della parte del mondo “più sviluppata”. In questa non esaltante classifica gli Stati Uniti sono notoriamente in testa e, per quanto tallonati dalla Federazione Russa, stanno molto avanti rispetto ad altri Stati occidentali. In totale, infatti, più del 2 per cento della popolazione totale degli Stati Uniti è sottoposta al controllo del sistema penale. Il tas105


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so di crescita dei reclusi è impressionante. Nel 1979 c’erano 230 detenuti per centomila abitanti. Venti anni dopo erano saliti a 649. In alcuni distretti periferici di Washington, dove è concentrata la maggior parte della popolazione più povera, la metà dei maschi tra i 16 e i 35 anni è in attesa di giudizio in prigione, o agli arresti domiciliari, oppure in libertà vigilata. Quello degli Stati Uniti è per ora un caso unico, ma il fenomeno cresce a un ritmo elevato quasi dappertutto. Tant’è vero che anche in Norvegia, paese abbastanza restio a comminare pene detentive, la percentuale dei reclusi è salita da meno di 40 unità per centomila abitanti (nei primi anni settanta) alle 64 unità nel primo decennio del 2000. Nello stesso periodo in Olanda la percentuale è cresciuta da 30 a 86, sempre per centomila abitanti. In Inghilterra il rapporto ha raggiunto le 114 unità per ogni centomila residenti. Per certi versi il caso dell’Italia è persino più grave. Per lo meno con riferimento alla situazione dei detenuti. In quanto la popolazione carceraria ormai eccede di oltre un terzo il numero dei posti effettivamente disponibili nelle strutture carcerarie. Con una violazione clamorosa dell’articolo 27 della Costituzione, dove viene stabilito che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Cosa assolutamente impossibile da realizzare quando i detenuti non hanno alcun spazio per potersi muovere e quindi si ritrovano praticamente l’uno sull’altro. Con conseguenze vergognose sulla loro condizione umana e sulla loro stessa dignità. Questi indicatori da un lato dovrebbero invitare a riflettere sulla china imboccata, ma dall’altro confermano che nella (ipotetica) ricerca di una maggiore condizione di sicurezza si accumulano crescenti tensioni. E, di solito, dove si manifesta ansietà, spregiudicati investitori e intermediari riescono a intravedere non solo affari (costruzioni di nuove carceri, case protette in comprensori esclusivi, sorvegliati ventiquattro ore al giorno da telecamere, strade dello shopping video sorvegliate, eccetera), ma anche un ricco “mercato politico”. Fino al punto che, anche per un buon numero di politici, i problemi dell’insicurezza e dell’incertezza si trasformano in un calcolo per “offrire” mirabolanti quanto improbabili rassicurazioni su “legge e ordine”. 106


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In realtà, per quanto già detto, i governi possono promettere seriamente solo maggiore insicurezza. Infatti, quando offrono una più grande “flessibilità del lavoro”, offrono in ultima istanza una maggiore insicurezza. Un’insicurezza penosa e debilitante per un numero sempre maggiore di persone. Aggravata dal fatto che, soprattutto in questo campo, i governi sono scarsamente in grado di poter decidere autonomamente. Dovendo assecondare la pretesa delle “forze di mercato” di avere mano libera, nonostante la loro deplorevole imprevedibilità e volatilità. Per di più, avendo conquistato una condizione di extraterritorialità, le “forze di mercato” non hanno nessuna voglia di essere subordinate a governi inesorabilmente legati al “territorio”. Per questo una parte consistente di politici ritiene che fare qualcosa, o farsi vedere mentre si fa qualcosa contro la criminalità, i devianti, i diversi, vissuti come una minaccia alle condizioni di sicurezza dei cittadini, sia un buon investimento politico. Anche perché promette un importante potenziale elettorale. Tanto più in presenza di una continua diffusione della paura. In quanto le condizioni di sicurezza per la propria persona (una preoccupazione che l’insicurezza esistenziale e l’incertezza psicologica gonfiano e sovraccaricano di significati ben oltre la sua effettiva portata), di fatto stanno molto al di sopra di ogni altra preoccupazione. Finendo, di fatto, per farle diventare prioritarie rispetto a ogni altro motivo di ansietà. Il che, per quanto possa apparire paradossale, consente alla politica di tirare perfino un respiro di sollievo. In quanto solo una minoranza (anche se particolarmente arrabbiata e delusa) la incalzerà per affrontare questioni che, nei fatti, essa è abbastanza impotente ad affrontare e risolvere. Oppure la accuserà di restare colpevolmente inattiva, di non fare nulla, per alleviare i guai veri di tantissima gente. Giovane e meno giovane. A cominciare appunto da coloro che hanno perso il lavoro o non riescono a trovarlo. E assieme al lavoro hanno perso anche considerazione, stima, dignità sociale. Occorre prendere atto che alla promulgazione di questa “indulgenza generale” per la politica contribuiscono pure i media. Non passa giorno, infatti, che la televisione non metta sotto i nostri occhi fiction e notizie drammatiche, notizie tragiche raccontate e rappresentate in forma di fiction, sciagure ridotte a spettacolo, a finzione. 107


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Tutte rappresentazioni nelle quali vengono fatte scorrere storie nelle quali compaiono anche nuovi e più avanzati strumenti per rendere efficace l’azione delle forze dell’ordine. Narrazioni che hanno al centro repentini e drastici colpi inferti alla criminalità. Oppure storie di eroici poliziotti e di appartenenti alle forze dell’ordine, che rischiano la propria vita perché il resto di noi possa dormire tranquillo. A tutto questo, non importa se in chiave di racconto o di pubblicità subliminale, si aggiungono notizie sull’invenzione di nuove serrature, strumenti di protezione personale e patrimoniale a tecnologia avanzata, su allarmi antifurto satellitari per la casa e l’automobile, su dispositivi per immobilizzare i male intenzionati. Sarà probabilmente anche per questo che, nel mondo della finanza globale, ai governi di solito è attribuito un ruolo non molto più ampio di quello normalmente riconosciuto a questure e commissariati di polizia. Naturalmente ciò non scoraggia molti dal ritenere che la quantità e la qualità delle forze dell’ordine in servizio, per ripulire le strade da mendicanti, barboni molesti, drogati e borsaioli, e un uso più disinvolto del sistema di reclusione, abbiano un’influenza significativa sulla “fiducia degli investitori”. Quindi sui tassi di crescita come sull’aumento dell’occupazione. Sia chiaro: la legalità è certamente un valore imprescindibile per qualsiasi paese. E lo è tanto più per l’Italia dove la “criminalità organizzata” è in grado di condizionare e controllare quote importanti dell’economia. Resta il fatto che la maggiore sensazione di insicurezza si accentra sulle paure derivanti dal pericolo percepito intorno alla propria persona, ai propri familiari, ai propri beni. Paure che a loro volta nascono dalla figura ambivalente dell’intruso, dell’estraneo. Dai disadattati e malfidati nelle strade, dai tipi sospetti intorno a casa, che suscitano la stessa reazione. Del resto, i sistemi di allarme, i quartieri sorvegliati dagli stessi abitanti, i condomini circondati da muri di cinta, chiusi da cancelli e sorvegliati da videocamere, hanno tutti lo stesso scopo: tenere lontani gli estranei. In questo quadro i legislatori sono, magari non premeditatamente, spinti a operare una selezione. Seppure senza un’esplicita volontà discriminatoria, la loro preoccupazione finisce, infatti, per essere inevitabilmente orientata a preservare un certo, specifico, tipo di ordine. Non fosse altro per la buona ragione che è ritenuto più faci108


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le sanzionare con il codice penale le azioni che possono essere con più probabilità consumate da persone per le quali in quel tipo di ordine non c’è molto posto. E che, oltre tutto, godono di assai scarsa considerazione sociale. Vale a dire i più marginali, i più angariati, i più indifesi. Non è certo un caso che in Italia il governo (di destra) abbia ridotto le pene per la malversazione, la corruzione e abbia depenalizzato il falso in bilancio. O che, nell’agone internazionale, derubare intere nazioni delle loro risorse sia stato pudicamente derubricato a “promozione della libertà di commercio”. Così come privare intere famiglie e comunità del lavoro sia definito “razionalizzazione” o “ristrutturazione”. Come spesso succede la terminologia serve a mascherare un problema di sostanza. E il problema di sostanza consiste nel fatto che nessuno di questi due tipi di azioni sia mai stato ritenuto sanzionabile dalla comunità internazionale sul piano economico, politico e morale. Tanto meno giudicato punibile. Proprio questa diversità di giudizio contribuisce, quindi, almeno in parte, a spiegare perché nelle nostre società la “lotta alla disoccupazione” fa così fatica a passare da impegno verbale a priorità reale. Il lavoro si è squagliato Per restare al caso dell’Italia, negli ultimi cinque anni si sono persi circa 500 posti di lavoro al giorno. Per l’esattezza 480. Tanto è costata ai lavoratori italiani la recessione più grave del dopoguerra. Nell’aprile 2008, stando ai dati ufficiali, gli occupati erano 23 milioni e 541 mila. E già allora si diceva giustamente che il problema principale era di aumentare il numero delle persone a lavoro. Oltre tutto l’obiettivo di Lisbona (fissato dall’Unione europea) stabiliva per l’Italia il raggiungimento, entro il 2020, di un tasso di attività, per le persone tra i 20 e i 64 anni, del 69 per cento. Nel 2008 eravamo al 63 per cento. A dicembre 2012 purtroppo siamo scesi al 61 per cento. Secondo l’Istat, infatti, gli occupati si sono ridotti a 22 milioni e 723 mila. Vale a dire oltre 800 mila in meno rispetto a quattro anni e mezzo prima. Senza contare naturalmente gli scoraggiati e il miliardo di ore di cassa integrazione, nel solo 2012. Quindi l’obiettivo Europa 2020 si allontana sempre più. Anzi, secondo alcuni istituti di analisi, è praticamente impossibile da raggiungere. 109


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Basta, infatti, prendere a riferimento il tasso di variazione dell’occupazione previsto per il triennio 2013–2015 (nel Documento di Economia e Finanza, del governo Monti) che è solo lo 0,6 per cento, per rendersi conto che i livelli di occupazione precedenti l’inizio della crisi (accantonando quindi l’obiettivo “Lisbona” diventato nel frattempo un miraggio), potranno essere ripristinati solo nel 2025. In buona sostanza (secondo i calcoli dell’Ufficio studi della Confartigianato), come nel gioco dell’oca, occorreranno 18 anni per ritornare semplicemente alla casella di partenza, cioè al 2008. Insomma il primo a non credere in un rilancio a breve dell’occupazione è lo stesso “governo tecnico”, che pure non aveva affatto lesinato assicurazioni. Un altro aspetto peculiare della situazione italiana è che, negli ultimi 5 anni, la maggior parte dei posti di lavoro si sono persi tra gli occupati fino a 35 anni. Quasi il 20 per cento. “Esuberi” che si sono aggiunti ormai alla del tutto incontrollata tracimazione della disoccupazione giovanile. Non a caso già arrivata a superare la soglia incredibile (almeno fino a qualche anno fa) del 35 per cento. Siamo quindi arrivati a un momento nel quale le cifre della disoccupazione si “alzano in piedi”. E, oltre tutto, la situazione non appare affatto avviata a un rapido miglioramento. Lo stesso andamento della produzione, per altro, non può indurre all’ottimismo. Basterà ricordare che la produzione industriale ha fatto un “balzo” all’indietro di ben 22 anni. Infatti, l’indice che misura il volume della produzione, a dicembre 2012, è sceso a 82,9. Appunto un valore mai così basso dal 1990. Naturalmente non siamo l’unico paese europeo a ritrovarsi nei guai. Tra i messi peggio, come è noto, sono finiti soprattutto quelli mediterranei. La Grecia, per esempio, è in una condizione semplicemente spaventosa. Che potrebbe provocare sommovimenti dagli esiti imprevedibili. Ma anche la situazione della Spagna sta rapidamente virando al peggio. Per dare un’idea della dinamica economica e sociale spagnola in atto bastano poche cifre. I disoccupati che nel 2006 erano 1 milione 700 mila (circa l’8 per cento), nel 2010 erano già saliti a 4 milioni e 700 mila. Cioè a poco più del 20 per cento. Tre anni dopo, all’inizio del 2013, sono arrivati addirittura a 6 milioni. Quindi oltre il 26 per cento. Vale a dire che più di uno spagnolo su quattro, in età di lavoro, è senza occupazione. 110


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Si deve aggiungere che il 55 per cento dei giovani sotto i 29 anni è disoccupato, mentre in oltre il 10 per cento delle famiglie non c’è nessuno che abbia un lavoro. Non stupisce quindi che un terzo della popolazione sia costituito ormai da poveri, o poverissimi. E che dunque la situazione sociale si stia pericolosamente avvitando. Naturalmente per scongiurare il rischio di una possibile catastrofe occorre (come dicono a Bruxelles) che gli spagnoli sappiano riscoprire qualche loro “antica virtù”, ma contemporaneamente sarebbe pure necessario che Bruxelles sapesse a sua volta correggere la rotta della politica economica europea. Purtroppo non sembra questa l’intenzione. Almeno a giudicare dal bilancio per i prossimi sette anni varato dal Consiglio europeo. Appare quindi difficile attendersi un radicale capovolgimento delle politiche di “rigore” e “austerità” fin qui seguite dall’Europa. Con i risultati che purtroppo sono sotto gli occhi di tutti. Cosa si può fare allora? Rassegnarsi e aspettare che “passi la nottata” nell’attesa che il ciclo economico (magari per un congiungimento astrale favorevole) cambi? Oppure ci si può anche accontentare del fatto che tra gli analisti economici i più ottimisti siano convinti che la crisi abbia ormai toccato il fondo e quindi non potrà che verificarsi un “rimbalzo” tecnico, tale da consentire di iniziare la risalita. Magari assecondata e sostenuta da una parallela “ripresa” della crescita e dell’occupazione. Altri, più sensibili alla geopolitica, cominciano invece a intravedere i segni di un possibile cambiamento negli equilibri economici mondiali. Ritengono, infatti, che la novità maggiore, il “dono” di una più grande occupazione per i paesi occidentali, insomma una sostanziale inversione di tendenza rispetto a quanto accaduto nei decenni a cavallo tra XX e XXI secolo, potrebbe arrivare dall’oriente. Da dove per altro, secondo una narrazione abbastanza diffusa, i “Re magi” si sarebbero già messi in cammino. Novità dal misterioso Catai? In effetti, in oriente, e particolarmente nel misterioso e sempre sorprendente Catai di Marco Polo, diventato la Cina comunista di oggi, le cose dell’economia risultano in inatteso movimento. Nel 2012 per la prima volta, infatti, la popolazione cinese in età lavora111


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tiva è diminuita. Tre milioni e mezzo in meno rispetto al 2011. Una piccola scheggia che si è staccata in un punto fragile dalla “Grande Muraglia”? No. Perché il calo è indicativo di una tendenza di fondo. In effetti, secondo l’Istituto di statistica cinese, tra oggi e il 2025 la Cina perderà 10 milioni di lavoratori all’anno. Perciò, prima del 2030 gli occupati si ridurranno almeno di 200 milioni. Le industrie dovranno quindi sostituire ingrigiti battaglioni di meccanici con macchine automatiche e robot. Nel frattempo, però, il primo significativo avviso della scomparsa dell’operaio cinese, proprio nell’anno nel quale alcuni si aspettavano da Pechino una spinta alla ripresa dell’economia globale, fa suonare campanelli d’allarme in tutte le imprese che avevano delocalizzato nella “Grande Fabbrica del mondo” le funzioni produttive. Questa nuova dinamica non è il risultato di un’oscura macchinazione internazionale. Le persone, infatti, spariscono dagli organici aziendali semplicemente perché diventano vecchie. Oggi i cinesi anziani sono circa 200 milioni. In meno di vent’anni diventeranno 400 milioni. Quindi ci saranno sempre meno contadini e operai per pagare servizi, medicine e pensioni. Si tratta di considerazioni che conosciamo bene. Sono, infatti, in una certa misura l’eco e il prolungamento delle chiacchiere annoiate ripetute da decenni dalle gerontocrazie che occupano i parlamenti europei. Tuttavia, non si può non riconoscere che nella dimensione smisurata della Cina, se si perdono 200 milioni di operai per ritrovarsi con 400 milioni di anziani (pari a due terzi degli abitanti dell’intera Europa), l’impatto di questo nuovo equilibrio economico e sociale è in grado di riflettersi sul mondo intero. D’altra parte le trasformazioni in atto non svuotano solo i parcheggi delle grandi fabbriche e delle società interinali cinesi. Dentro le fabbriche le facce di chi protesta (per disporre, tra l’altro, del tempo necessario per andare in bagno) non sono più quelle di qualche decennio fa. Nel 1990 l’età media dell’operaio cinese era, infatti, di 24 anni. Nel 2000 era già salita a 37. Nel 2012 è arrivata a sfiorare i 49. Insomma 500 milioni di lavoratori sono invecchiati. 200 milioni di ragazzi hanno imboccato altre strade: la laurea o la scrivania. Oltre tutto, come avviene più o meno ovunque, i laureati migliori vanno all’estero. 112


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Inoltre la carenza di braccia pone per la prima volta, anche in Cina, il problema dei diritti e del costo del lavoro. È la ragione per cui nelle storiche regioni industriali, sempre più strette nella tenaglia tra carenza di manodopera, scioperi e aumenti di paga, si incomincia ad assistere alla fuga delle imprese. Il dato da tenere presente è che, attualmente, il salario operaio medio ha raggiunto i 300 euro al mese. In Vietnam resta sui 100 dollari. In Thailandia e nel sudest asiatico si scende a 80. In Bangladesh e Birmania si continua a lavorare per un dollaro al giorno. Quantità e costo del lavoro sono solo una delle valutazioni, e probabilmente nemmeno quella decisiva, che inducono le imprese a scegliere il luogo in cui produrre. Comunque, proprio avendo sott’occhio le differenze retributive, alcune imprese hanno cominciato a delocalizzare verso paesi nei quali il costo del lavoro continua a essere minore. Altre si accingono, invece, a tornare nei paesi dai quali erano partite. In ogni caso i “futurologi” preconizzano che, grazie ai cambiamenti demografici in atto e quelli che è possibile intuire, ci si starebbe avviando alla fine di quel gigantesco fenomeno che aveva portato a definire la Cina la “fabbrica del mondo”. Potrebbe quindi trattarsi di un autentico cambiamento di stagione per l’intera economia “globale”. Non a caso la stampa internazionale ha dato molto rilievo alla notizia che la Foxconn (la più grande fabbrica elettronica del paese, con un milione duecentomila dipendenti) avrebbe dato il via all’elezione di delegati sindacali nei comitati d’azienda. Notizia sicuramente importante. Tuttavia è bene rimanere cauti. Quello della Foxconn, infatti, non è il primo esperimento di questo tipo in Cina. I risultati però sono stati, almeno fino a ora, assolutamente insoddisfacenti. Certo la richiesta di contrattare migliori condizioni di lavoro e salariali, è forte e sta crescendo in tutto il Paese. Come, del resto, dimostra anche la recente ondata di scioperi spontanei. Tuttavia finora la risposta delle aziende e delle autorità politiche, a parte piccole concessioni, non è certo stata sconvolgente. Anche a causa della legge cinese (che nessuno ha finora pensato di abrogare) che non consente la costituzione di altri sindacati, alternativi a quello ufficiale. Molto rumore per nulla, allora? Probabilmente no. Perché la notizia può fare presagire un punto di svolta. E comunque non lo esclu113


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de. Vale a dire la nascita di una rappresentanza sindacale, non molto dissimile da quella conosciuta in Occidente, che, certo, può essere frustrata e congelata dal potere di Pechino, ma probabilmente alla lunga inevitabile. Anche in un sistema di “capitalismo comunista”. Se questo sviluppo si dovesse rivelare concreto sarà la conferma che nell’impero cinese sono iniziati cambiamenti profondi. Che potranno produrre effetti importanti in tutto il mondo, perché destinati a modificare la condizione dei lavoratori cinesi e, assieme a loro, quelli del resto del mondo. In effetti, se si dà credito a uno studio di due economisti del Fondo Monetario Internazionale, la Cina dovrebbe raggiungere nel giro di pochi anni il “punto di svolta”. Per di più ci sarebbe ben poco che possa fare per evitarlo. Si tratterebbe in sostanza del “punto” nel quale in un’economia il lavoro diventa scarso (fino a provocare un innalzamento repentino dei salari) e i profitti destinati a diminuire. Ebbene, secondo i calcoli dei due analisti, per la Cina il “punto di svolta” dovrebbe arrivare intorno al 2020. Ma se la sindacalizzazione dovesse prendere piede e se gli operai cinesi volessero lavorare meno ore di oggi, grazie anche agli aumenti di salario che riescono a ottenere, la svolta potrebbe arrivare prima. In ogni caso, tenuto conto che la carenza di manodopera ha incominciato a farsi sentire ed è destinata ad aumentare nel prossimo futuro, è in una situazione del genere che di solito inizia la sindacalizzazione dei lavoratori. Ora per quanto la Cina sia un fenomeno unico, non si vede il motivo (a parte la durezza della repressione) in base al quale i suoi lavoratori dovrebbero comportarsi diversamente da tutti gli altri che hanno cercato di farsi valere in una situazione di “piena occupazione”. Per altro l’aumento dei salari è in atto da tempo e ormai, almeno in una certa misura, ha provocato la fine del modello basato su bassi costi di produzione. Si tenga conto, inoltre, che i salari cinesi stanno crescendo a due cifre dal 2000. Le statistiche ufficiali dicono che dal 2009 a oggi sono lievitati del 43 per cento, mentre il costo per unità di prodotto (tenendo quindi conto anche della produttività) dal 2007 è aumentato del 22 per cento. Perciò il vantaggio competitivo dell’economia cinese, incontrastato per oltre due decenni, inizia a essere rimesso in discussione. Al punto che, come accennato, diverse imprese, americane ed europee, che aveva114


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no delocalizzato in Cina, stanno riportando a casa, o hanno progettato di farlo, le rispettive produzioni. Almeno finora il governo cinese, ogni volta che gli operai di una fabbrica davano segni di irrequietezza, cercava di tacitare l’insoddisfazione con aumenti salariali. Ma si capisce bene che, se dovesse prendere piede il diritto di voto finalizzato anche alla creazione di sindacati indipendenti dal partito comunista, le cose potrebbero prendere una piega del tutto diversa. In quel caso, infatti, i lavoratori occidentali potrebbero incominciare a preoccuparsi un po’ di meno dei posti di lavoro esportati in Cina. A sua volta Pechino sarà costretta a rivedere il proprio modello di sviluppo e a trovare soluzioni diverse da quella basata sulla manodopera, con pochi o nessun diritto e a buon mercato. Naturalmente non è detto che il complicato e ramificato sistema di potere che governa (meglio sarebbe dire controlla) il Paese, sia in grado o abbia voglia di farlo. In questo caso il rischio è che, anziché aprire nuove opportunità, l’alternativa a una “globalizzazione” che tanti problemi ha creato, possa diventare persino più caotica. Intanto in Italia… Nell’ultimo trimestre del 2012, nonostante la disoccupazione sia aumentata di 2 punti sull’anno precedente e la disoccupazione giovanile di ben 5, sono stati attivati 218 mila nuovi contratti di lavoro. Di questi, naturalmente, solo 31 mila a tempo indeterminato. Tuttavia si tratta pur sempre di posti di lavoro e in anni di “carestia” non si butta mai nulla. Eppure i giovani sono rimasti fuori, anzi lo sono restati più di prima. Potrebbe essere il segnale che si tratta di lavori vecchi. Anche per questo non si assumerebbero giovani, ma solo persone con maggiore esperienza. Il che spiegherebbe perché le classi di età più vicine alla pensione siano quelle meno toccate dall’aumento della disoccupazione. Per altro, sebbene le situazioni non siano univoche, si può pensare che trattandosi di “lavori vecchi” finiscono anche per essere pagati di meno. Probabilmente, però, la ragione è più banale. Facendoli svolgere a persone alle quali manca ancora solo qualche anno per maturare il diritto alla pensione, queste potrebbero essere più ricattabili e quindi più disponibili ad accettare meno diritti, meno tutele, meno 115


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salario. Anche solo per la speranza di poter scongiurare il pericolo di ritrovarsi senza lavoro e senza pensione. Come è successo agli “esodati”. Non mancano, però, coloro i quali ritengono che la ragione del nostro declino economico e occupazionale sia riconducibile soprattutto all’incapacità della classe dirigente italiana di fare i conti con quello che c’è, o ci potrebbe essere. Senza perdere, al contrario, inutilmente tempo ed energie dietro un mondo che non c’è più. Inseguendo modelli e comparti industriali del secolo scorso. In proposito viene sempre più spesso fatto osservare (non senza una qualche ragione) che importiamo energia e paghiamo per portare all’estero i nostri rifiuti, che altri trasformano in energia (con tecnologie sicure) diminuendo così la loro “bolletta” energetica. Questo è uno degli esempi di come finanziamo soprattutto il lavoro degli “altri”, mentre continua a venire meno quello in casa nostra. Quanta occupazione si potrebbe creare con la raccolta differenziata e una gestione efficiente del ciclo dei rifiuti? Oppure con una maggiore valorizzazione di tutta la filiera dell’economia verde? Si tratta certamente di esempi ragionevoli che potrebbero e dovrebbero spingere a un impegno più concreto. Tuttavia, non significano affatto (come alcuni sembrano credere) che ci possiamo spensieratamente sbarazzare dell’attività industriale. Considerandola ormai un’incongrua sopravvivenza del secolo scorso. Tra questi non c’è sicuramente Gallino. Che attribuisce, infatti, all’idea dissennata di abbandonare l’industria, pubblica e privata, la causa prima del nostro attuale regresso. Non a caso, fa notare, l’Italia è al penultimo posto in Europa per investimenti in ricerca e sviluppo. Tant’è vero che vi destina solo 1,2 per cento del Pil. Anche per questo abbiamo ormai perso quasi tutte le grandi imprese. In effetti, nell’elenco dei primi 500 gruppi al mondo le società italiane sono solo due: Eni e Finmeccanica (i cui amministratori sono, per altro, alle prese con guai giudiziari). In effetti, dopo la separazione dell’auto dal resto dell’attività del Lingotto, neanche la Fiat vi compare più. Per renderci conto di come siamo messi male basta prendere atto che nello stesso elenco la Germania ha una ventina di aziende, la Francia 16, la Gran Bretagna 13. L’Italia è superata persino dalla Svizzera, che ne conta 6. Si può certamente obiettare che 116


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non esiste una correlazione diretta tra grandi imprese e lavoro stabile e sicuro. Tuttavia è indiscutibile che senza grandi imprese non ci siano grandi investimenti. Di conseguenza c’è minore innovazione e, alla fine, anche meno lavoro qualificato. Questo spiega perché, secondo Gallino, la cultura del “piccolo è bello”, come l’idea altrettanto bizzarra che si possa tenere in piedi un sistema economico fondamentalmente basato sui servizi senza l’industria, siano stati due errori fondamentali. Che hanno portato l’Italia attuale a un decadimento della sua condizione economica e ad arrabattarsi con lavori sempre più precari. Difficile dargli torto. Basta, infatti, considerare che le imprese italiane hanno in media 4–5 dipendenti, mentre quelle tedesche arrivano a una cinquantina. E con pochissimi dipendenti non si ha la dimensione necessaria per trattare con le grandi aziende, che sono i principali committenti dell’economia europea. Così come non si riescono a fare i ricavi necessari per poter investire in ricerca e sviluppo. Ovviamente, oltre alla grande questione della politica industriale che pesa come un macigno, si potrebbe anche far risalire l’occupazione offrendo centinaia di migliaia di posti di lavoro se solo si decidesse di porre mano ai seri problemi infrastrutturali che assillano l’Italia. Per esempio: mettere in sicurezza le scuole, gli ospedali, i territori più a rischio, oppure ridurre le spese energetiche incentivando la ristrutturazione degli edifici. Secondo gli esperti solo quest’ultima azione potrebbe fare risparmiare il 40 per cento dei consumi energetici annui. Poi ci sarebbe da intervenire sul sistema dei trasporti. L’Italia è il paese con meno chilometri di metropolitana in Europa e con una rete di trasporto, soprattutto locale, del tutto inefficiente, che obbliga i pendolari a sopportarne le conseguenze. Nel frattempo servirebbe, naturalmente, anche una riqualificazione e una formazione professionale in grado di soddisfare la domanda di lavoro potenzialmente disponibile. Alla quale, non sempre corrisponde un’offerta appropriata. A questo proposito tre università (Cattolica di Milano, la Luiss di Roma, la Federico II di Napoli) hanno costituito un’organizzazione denominata “Italia orienta”. Il dossier predisposto da questo ente indica quali lavori serviranno dal 2012 al 2020. Sulla base della ricerca fatta e dei dati acquisiti, secondo “Italia orienta”, sono otto i settori nei quali la domanda su117


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pererà l’offerta. L’infermiere sarà la professione più richiesta. Oggi nel paese ci sono 391 mila infermieri e i più giovani sono laureati. Ma da qui al 2020 (con l’aumento del numero degli anziani) ne serviranno altri 266 mila. Fra i laureati (sebbene il dossier sottolinei che le lauree servono, ma non sono una condizione per trovare lavoro) hanno un presente e un futuro i chimici. Per loro, infatti, il primo contratto arriva mediamente due mesi dopo la laurea. Tira quindi la chimica, così come tirano le specializzazioni che vogliono portarci oltre la chimica. Ovvero tutti i lavori legati alla green economy. Nei prossimi quattro anni il settore dovrebbe, infatti, offrire 100 mila posti di lavoro. In questo campo sarebbero venti le figure più richieste. Tra queste: il promotore di risparmio energetico; il progettista di energie rinnovabili; il geometra e l’ingegnere ambientale; il certificatore energetico; l’eco-industrial designer; l’architetto paesaggista (l’unica figura di architetto che riesce a salvarsi); l’agronomo; il botanico. Lo studio di “Italia orienta” segnala anche una certa inversione di tendenza rispetto agli anni passati. In particolare il ritorno delle nuove generazioni all’agricoltura. Ora più qualificata e soprattutto ecocompatibile. Nell’ultimo semestre del 2012 c’è stato, infatti, un aumento del 2 per cento del numero delle aziende agricole guidate da giovani sotto i 30 anni ed è aumentato pure del’1,2 per cento del numero dei lavoratori dipendenti. Il dossier sostiene inoltre che la laurea in scienze motorie non è affatto inflazionata. Tant’è vero che a un anno dalla laurea “triennale” l’80 per cento riesce a trovare lavoro. Sono inoltre previste circa 110 mila assunzioni, in dodici mesi, tra i neolaureati in scienze economiche (per: contabilità, amministrazione, marketing). E se la laurea più richiesta è quella in ingegneria gestionale (94 per cento), l’albo nazionale degli informatici professionisti segnala carenze nel reperimento di project manager e web marketing. Sono pure richiesti qualche migliaio di interpreti, insegnanti di lingue, ma anche segretarie, psicologi e psicoterapeuti. Infine sono previste circa 150 mila assunzioni nel settore dell’artigianato (sarti, cuochi, mestieri nobilitati dalla nascita di nuove università ad hoc, ma anche panettieri, elettricisti, meccanici di auto, idraulici, eccetera). 118


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Insomma, sia pure ansimando, il mercato del lavoro continua a dare qualche piccolo segno di movimento. È quindi certamente importante che i giovani riescano a tenere d’occhio le tendenze in atto e orientare le loro scelte formative, universitarie o professionali, alla prevedibile evoluzione della domanda di lavoro. Tuttavia, sebbene si debba sempre tenere conto di quello che c’è e non si debba perciò disperdere nessuna possibilità, le occasioni di lavoro censite da “Italia orienta”, dal punto di vista quantitativo, sono poco più che pannicelli caldi. Del resto la crisi dei consumi interni o, detto in termini più chiari, il fatto che gli italiani siano stati costretti a tagliare le loro spese (dall’alimentazione, all’abbigliamento, al tempo libero), dipende dal fatto che ci sono troppi disoccupati, troppi cassaintegrati e che le retribuzioni di quelli che, bene o male, hanno conservato un lavoro sono basse. E sono basse proprio perché il numero dei disoccupati è ormai del tutto fuori controllo. Al punto che quel poco che si muove sul mercato del lavoro non è assolutamente in grado di colmare il divario tra offerta e domanda di lavoro. Che continua quindi a far registrare un saldo pesantemente passivo. Cambiare abitudini Una domanda è quindi inevitabile. Nonostante i vincoli internazionali ed europei è possibile fare di più per l’occupazione? Senza alcun dubbio. Nel caso dell’Italia possono essere ipotizzate, ad esempio, almeno quattro misure immediate che non richiedono mezzi particolari, ma per realizzare le quali basterebbe la volontà politica e delle parti sociali. La prima consiste nell’adeguamento degli orari di lavoro italiani alla media europea. Invece il tema dell’orario, protagonista della contrattazione collettiva (assieme alle retribuzioni) per gran parte della seconda metà del secolo scorso, sembra scomparso dall’orizzonte rivendicativo. Come è noto, le battaglie per un orario settimanale di 40 ore (su cinque giorni), obiettivo storico del movimento sindacale negli anni sessanta e settanta, avevano la loro ragione d’essere nel recupero dalla fatica; nella tutela della salute; nella rivendicazione di maggiore tempo libero per la famiglia, per l’informazione e la conoscenza, per la cultura. Con la fine della “fabbrica fordista”, con le recessioni, con la “globalizzazione”, la materia 119


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dell’orario è però, di fatto, sparita dall’agenda delle relazioni sociali. Il risultato è stato che, nel disinteresse pressoché generale, gli orari di lavoro italiani hanno scalato le classifiche dei paesi sviluppati. Se si prendono, infatti, i dati del 2011 (ultimi disponibili) si può constatare che le ore annue lavorate in media a persona l’Italia si colloca a 1774, gli Stati Uniti sono a 1704, il Regno Unito a 1625, la Francia a 1476, la Germania a 1406. La media dell’area euro è di 1571. Ebbene, se l’Italia s’impegnasse ad allinearsi alla zona euro l’occupazione complessiva potrebbe aumentare del 12 per cento. Il che significherebbe ridurre i disoccupati di alcune centinaia di migliaia. La seconda misura riguarda la crescita del part-time volontario. In sette anni, dal 2006 al 2012, il part-time è passato da poco più di tre milioni a circa quattro. In sette anni è quindi aumentato di un terzo. Purtroppo è anche sempre più femminile. Anni fa lo era per scelta, per potere conciliare lavoro e famiglia. Oggi lo è per necessità. In alcuni comparti, commercio, ristorazione, servizi alle famiglie e alle persone, si tratta di una vera e propria segregazione delle donne. Secondo il “Rapporto di monitoraggio del mercato del lavoro 2011” dell’Isfol, il risultato è una marginalizzazione delle donne, sia professionale, che economica. Nel 2010, infatti, il 64 per cento delle donne tra i 18 e i 29 anni (cioè giovani e giovanissime) dichiarava di avere ripiegato sul part-time perché non erano riuscite a trovare un posto a tempo pieno. In effetti, il part-time si è rivelato uno strumento elastico soprattutto per i tagli del personale. Così si va al lavoro anche solo per due o tre ore al giorno, o solo nel week end e per uno stipendio spesso ridicolo. Con la riforma del mercato del lavoro approvata nel 2012 è stata introdotta una novità. Alla firma del contratto, infatti, il lavoratore autorizza il datore di lavoro alla variazione del monte ore e alla collocazione oraria. Le ore possono aumentare, ma non diminuire. Il lavoratore ha, infatti, la possibilità di revocare l’autorizzazione, naturalmente a suo rischio e pericolo. In materia si può, dunque, fare di più e meglio. Per altro senza nemmeno la scomodità di dovere inventare nulla. Basterebbe, infatti, ispirarsi ai criteri e alle modalità seguite dai paesi del centro e nord Europa, dove il part-time ha una consistenza maggiore e meno discriminante rispetto all’Italia. Soprattutto riesce a fornire un con120


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tributo significativo alla diminuzione della disoccupazione. Tanto femminile che maschile. La terza disposizione riguarda la reintroduzione del “pensionamento flessibile”. Come a suo tempo ipotizzato dalle riforme Amato e Dini. Ma soprattutto come consentito dal passaggio al sistema previdenziale contributivo. Si potrà in tal modo rimediare all’assurdità di una riforma previdenziale (quella introdotta nel 2012) il cui risultato principale è stato soprattutto il blocco del turn-over e, dunque, delle possibilità di occupazione per i giovani. Il quarto provvedimento possibile, infine, consiste nell’attivazione di un “servizio civile obbligatorio” per tutti i giovani tra i 20 e 25 anni di ambo i sessi. Da svolgersi in attività socialmente utili e da effettuare presso organizzazioni senza scopo di lucro (come onlus, associazioni di volontariato, enti per l’assistenza e il sostegno alle persone in maggiori difficoltà,…). La durata del servizio potrebbe essere di 8-10 mesi e compensato con un contributo mensile di 5/600 euro. Un provvedimento di questa natura avrebbe il duplice vantaggio: abituare giovani privi di qualunque esperienza a familiarizzare con il lavoro e contemporaneamente sostituire alla cultura dell’individualismo e della competizione quella della solidarietà e della coesione sociale. Cambiamento di mentalità imprescindibile per uscire dai guai nei quali siamo finiti. Ciascuna di queste misure, che richiedono solo impegno e volontà politico-sociale, in quanto non contrastano con nessuno dei vincoli economici finanziari che siamo tenuti a rispettare, può essere studiata e portata a termine anche in tempi brevi. Non richiedono nemmeno l’unanimità dei consensi politici e sociali. Richiedono, infatti, soprattutto la consapevolezza di quanto il problema della disoccupazione incida non solo sulla condizione e le speranze delle nuove generazioni, ma sul futuro dell’intera società italiana. In proposito un aspetto da richiamare è che, in una parte almeno del dibattito pubblico, sembra abbastanza presente la coscienza della crisi seria che attraversa il lavoro. Purtroppo non c’è un corrispondente convincimento e, tanto meno, una convergenza sulle possibili soluzioni. Le opportunità prospettate, per la loro semplicità e praticabilità, potrebbero quindi costituire l’avvio di una necessaria discontinuità. Tuttavia bisogna sapere che, seppure importan121


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ti, in quanto possono dare un primo significativo colpo alla disoccupazione, esse non costituiscono la risposta definitiva alla sempre più grave questione della mancanza di lavoro. Per riuscire ad affrontare il problema alla radice occorre quindi andare oltre. A questo scopo non basta adeguare la tattica, è necessario cambiare strategia. Finora, purtroppo, nel dibattito pubblico come nelle sedi istituzionali non si sono visti i segnali di un indispensabile mutamento. Il lavoro è rimasto, infatti, l’oggetto di ripetuti inchini retorici, ma quasi mai di politiche concrete e coraggiose. Capaci cioè di produrre una vera discontinuità rispetto agli inconsistenti aggiustamenti perseguiti finora. Detto altrimenti: non si riesce ancora a vedere la brace sotto la cenere. Eppure i termini della questione appaiono sempre più chiari. Tuttavia di un fatto si dovrebbe essere assolutamente certi: il problema della disoccupazione non si risolverà lasciando andare le cose per il loro verso, giorno dopo giorno, chiudendo gli occhi. Non si riuscirà a risolverlo delegando la soluzione alla “mano invisibile del mercato”. Non si riuscirà a scioglierlo continuando a considerarlo un fenomeno ciclico, la cui curva sale e scende, come quella delle quotazioni di borsa. Non si riuscirà a guarirlo utilizzando cure a dosi omeopatiche. Che, per di più, in molti casi non hanno nessun rapporto di causa ed effetto con la malattia. La prima cosa da fare dunque è di prendere coscienza, come sottolinea Guy Aznar (Lavorare meno per lavorare tutti), che non si tratta di un fenomeno congiunturale, passeggero, che ci ha colti alla sprovvista. Esso è, infatti, soprattutto il segno di un mutamento di civiltà. Che investe non solo i paesi di più antica industrializzazione, ma anche quelli che più di recente si sono affacciati allo sviluppo. Per dirne uno, è il caso della Cina. Purtroppo non ci siamo accorti, alcuni scientemente altri inconsapevolmente, che la questione stava esplodendo. Anche perché essa è stata quasi sempre offuscata e sommersa da altre crisi che hanno preso il sopravvento: quella del petrolio, quella israeliano-palestinese, quella dell’est europeo dopo il crollo del comunismo, quella del terrorismo internazionale, quella dell’Afghanistan, quella finanziaria, quella dei paesi nord-africani, eccetera. Tuttavia, con queste come tante altre perturbazioni la questione del lavoro c’entra poco 122


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o nulla. Semmai si è sviluppata parallelamente, sotterraneamente. Quasi come una grande faglia intercontinentale in movimento. Che prepara un terremoto. Uno tsunami che finirà per inghiottire anche un’inutile montagna di discorsi, di riti, di miti, di istituzioni. In effetti, non si riuscirà a risolvere concretamente ed efficacemente il problema della disoccupazione senza mettere in campo anche un profondo mutamento culturale. Cioè un cambiamento pacifico della mentalità, tale da consentire una trasformazione radicale. Una rivoluzione pacifica che non comporterà né morti né feriti, ma soltanto piccoli affanni. Come richiede ogni fase di adattamento. Ogni cambiamento di abitudini. Non si riuscirà, quindi, a conseguire il risultato necessario senza qualche piccola sofferenza psicologica, senza sviluppare l’immaginazione, soprattutto senza una mobilitazione collettiva che faccia della soppressione della disoccupazione il grande obiettivo delle società moderne. Per riuscirci c’è più bisogno di determinazione che di denaro. E ne occorre veramente molta, perché si tratta di lottare contro forze potenti quali l’inerzia, la pigrizia, l’ignavia, l’indifferenza. La questione che si pone, dunque, non è tanto domandarsi se il problema sia risolvibile o meno, ma soprattutto se lo si vuole veramente. La cosa per certi versi incomprensibile, in realtà, è che la società è turbata dalla disoccupazione, scossa e sempre più preoccupata, ma al tempo stesso incapace di agire. Quasi tutti dicono che la situazione sia moralmente, politicamente, socialmente ed economicamente insostenibile. Ma i tabù che circondano il tema del lavoro producono solo rassegnazione e impotenza. Così si continua a seguire modelli canonici. Purtroppo con i risultati che si vedono. Allora che si deve fare? Aggiungere un’altra inutile legge di riforma del mercato del lavoro, come sono inclini a ritenere le autorità istituzionali? O non è invece il caso di incominciare ad affrontare il problema nei suoi termini veri? Un tempo, quando il lavoro stremava le persone, in siderurgia, nelle cave, sulle catene di montaggio con cadenze di trenta secondi, o anche meno, c’erano operai che chiedevano ai compagni: “possibile che non si riesca a inventare la macchina per abolire il lavoro?”. Ora le macchine per abolire il lavoro ci sono. Sono le macchine au123


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tomatiche, a controllo numerico, i robot. Sono le macchine informatiche, chimiche, biologiche, quelle per i sistemi di comunicazione. Insomma tutte quelle macchine che funzionano da sole, o quasi, per produrre ricchezza. E invece di rallegrarci per essere riusciti a sostituire gran parte del lavoro umano con una sorta di magia, ci dimostriamo incapaci di trarne le conseguenze. Per altro è opportuno tenere conto che, in fatto di magie, il futuro si preannuncia ancora più stupefacente di quanto non sia stato il recente passato. Con il preannuncio di prodigi tali che hanno fatto ricordare a Gianni Riotta un personaggio dei fumetti del Corriere dei Piccoli anni trenta: Cloruro de’ Alambicchi. Uno scienziato svitato che aveva inventato l’Arcivernice, cioè una sostanza che spalmata su qualunque disegno aveva il potere di trasformarlo in un oggetto reale. Ebbene, ora il sogno di de’ Alambicchi si sta avverando: la sua “arcivernice” si chiama, infatti additive manufacturing. Originale tecnica di lavoro che permette, via printer 3d (ossia stampanti tridimensionali), di creare prodotti a partire da un disegno, anche fatto a distanza. Sulla base di questa tecnica, una stampante 3d istruita a dovere da un designer software, può realizzare una bottiglia, una pentola, una vite, un giocattolo e persino un’arma da fuoco. La stampante segue il disegno e, strato dopo strato, produce l’oggetto. Stiamo parlando di un’invenzione futuribile? Assolutamente no. Non si tratta, infatti, di un’ipotesi avveniristica, perché è già una realtà. Per esempio, l’industria aereonautica delle turbine usa i printer 3d per produrre lamine, così sottili che con altri macchinari non sarebbe possibile realizzare. Oppure, per fare solo un altro esempio, sempre utilizzando la stampante 3d, è già stato realizzato un avveniristico progetto di base lunare. Quattro cupole collegate da una serie di tunnel. L’esempio viene citato perché, sebbene l’Italia non brilli affatto nel campo della ricerca e dell’innovazione, in questa operazione è invece largamente coinvolta. Uno dei capi progetto è, infatti, il responsabile della sezione tecnica dei materiali dell’Esa. Egli spiega che “il modello è stato fatto sovrapponendo, strato dopo strato, un materiale molto simile al suolo lunare: la regolite”. Quindi l’ipotesi fantastica, che è già in grado di diventare realtà, è che sarà sufficiente spedire sulla luna una stampante 3d per poter costruire, dalla terra, una base lunare. È la conferma che l’innovazione tecnolo124


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gica segue ritmi sempre più frenetici. Tuttavia, anche se noi non ce ne accorgiamo (o preferiamo non accorgerci), pure le conseguenze sull’occupazione sono e saranno altrettanto veloci. Questo si registra ormai pressoché in tutte le aree produttive. In vent’anni, per esempio, l’industria tedesca è riuscita ad aumentare la produzione del 15 per cento, nonostante i suoi addetti siano diminuiti di un quarto. In tutto il mondo la maggioranza delle pubblicazioni periodiche (anche di grandissima tradizione e divulgazione) vengono chiuse e sostituite con diffusioni on line che non richiedono stampa e impiego di tipografi. Persino in un settore tradizionale come l’agricoltura si è registrato lo stesso fenomeno, basti considerare che nel giro di due generazioni, in Europa, il numero di agricoltori e contadini si sia ridotto di quasi dieci volte. Non per questo manchiamo di prodotti agricoli. Grazie alla meccanizzazione e alla chimica, infatti, è stato possibile produrre sulla stessa superficie, in un tempo dieci volte minore, circa cinque volte di più. Si potrebbero fare altri esempi, ma quelli fatti sono sufficienti a spiegare perché, soprattutto le miniere, le fonderie, le grandi manifatture, le fabbriche siderurgiche, nella maggior parte dei casi e nel giro di pochi decenni, dove prima pullulavano migliaia di operai, si sono trasformate in luoghi di “archeologia industriale”. Poco male, sostengo i più ottimisti, “lavoreremo nei servizi”. Ma ormai anche gran parte del settore dei servizi è alle prese con consistenti cambiamenti. Perché pure loro incominciano a produrre da soli. Possiamo, infatti, prelevare il contante senza bisogno dell’impiegato di banca. Anche i messaggi sono recapitati, tramite posta elettronica, senza la necessità di postini. La stessa cosa succede per il commercio on line, dove è possibile raccogliere ordinazioni senza l’esigenza di disporre di commessi. Non si tratta di una catastrofe rispetto alla quale siamo impotenti e dunque non ci sarebbe altro da fare che rassegnarsi. Infatti, ciò che sta avvenendo è semplicemente il risultato di un rapporto molto semplice. In base al quale la produzione è la risultanza di una quantità di lavoro moltiplicata per il coefficiente della sua produttività. A produzione costante, se grazie alle innovazioni il coefficiente di produttività aumenta, il tempo di lavoro richiesto per realizzare un qualunque bene diminuisce. Naturalmente si può sempre spe125


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rare in una crescita impetuosa in grado di assorbire mano a mano la disoccupazione che si crea. Ma, anche a prescindere dal fatto che se si vuole fare in modo che la terra possa continuare a ospitare tutti i suoi abitanti la crescita deve a sua volta fare i conti con esigenze imprescindibili di “ecocompatibilità”, i pronostici sulla “crescita” sono tutt’altro che favorevoli. Perciò, tenuto conto che possiamo produrre sempre di più con sempre meno lavoro, sarebbe molto più saggio (non più facile, almeno fino a quando il sistema capitalista continuerà a sostenere imperterrito che l’unica soluzione possibile è affidarsi alla “crescita”), impegnarsi in una redistribuzione del lavoro disponibile. Diversamente la sola alternativa che rimarrà in campo sarà semplicemente quella di una continua diminuzione e svalutazione del lavoro. Se dunque si decide di assumere davvero il problema della disoccupazione come la questione cruciale che non può essere ulteriormente elusa, la strada maestra da imboccare è quella di una progressiva riduzione degli orari, in funzione di una diversa distribuzione del lavoro. Del resto è quanto è stato fatto, sia pure con soluzioni e modalità diverse, in altri paesi europei. Tra i quali la Francia e la Germania. La Francia con una soluzione strutturale. Infatti, nel 2000 ha ridotto la settimana lavorativa a 35 ore. Mentre la Germania ha scelto la via congiunturale. Mettendo a disposizione delle imprese medio-grandi in difficoltà, il Kurzarbeit (lavoro breve). Istituto che, un po’ semplicisticamente, può essere descritto come una via di mezzo tra la Cassa integrazione e i “contratti di solidarietà” italiani. Naturalmente, perché la riduzione degli orari e la ripartizione del lavoro possano risultare efficaci, le intese dovrebbero essere assunte almeno a livello settoriale. Dando vita ad accordi di una certa durata e periodicamente rinnovabili. In modo da riuscire a tenere conto delle dinamiche complessive e adottare gli aggiustamenti necessari. In proposito è il caso di sottolineare che i “contratti di solidarietà”, utilizzati da tempo in Italia per tamponare situazioni di crisi aziendali, non sono lo strumento più adatto per affrontare il problema della ripartizione del lavoro. Non solo per le ovvie differenze esistenti tra misure strutturali e misure congiunturali e tra strumenti di intervento macro e micro (cioè di ordine generale o limitati 126


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a casi aziendali), ma soprattutto per la loro diversa funzione. Infatti, i “contratti di solidarietà” costituiscono un aiuto vicendevole tra i lavoratori di una stessa azienda per impedire che alcuni loro compagni “perdano” il lavoro. Cosa sicuramente importante e meritevole. Ma le benemerenze che, in situazioni particolari, possono essere riconosciute a questo istituto non lo trasforma in uno strumento in grado “ridurre” la disoccupazione. Per la semplice ragione che, nei casi in cui i “contratti di solidarietà” vengono utilizzati possono dare un contributo a non fare ulteriormente aumentare la disoccupazione, ma non sono assolutamente in grado anche di “accrescere” il lavoro. Obiettivo che invece va affrontato, perché di questo c’è disperatamente bisogno. Ragione che dovrebbe appunto spingere a non eludere il tema della riduzione degli orari e una diversa ripartizione del lavoro disponibile. Naturalmente senza ignorare che si tratta di una strada in salita. E che dunque, per avere successo, la discussione dovrà essere promossa e sviluppata anche a livello europeo. Incombenza che, detto per inciso, permetterebbe alla CES (Confederazione Europea dei Sindacati), la quale finora ha faticato a farsi ascoltare e ancora di più a farsi valere, di assumere un ruolo non semplicemente decorativo. Contemporaneamente, però, nei diversi paesi si debbono creare le condizioni per una mobilitazione. Sapendo, tuttavia, che non ci può essere mobilitazione senza consapevolezza. Non ci può essere impegno individuale e collettivo senza informazione. Non ci si può mettere in cammino senza sapere perché, in che modo e verso dove. Per affrontare davvero la questione del lavoro che non c’è, occorre innanzi tutto superare l’atteggiamento fatalistico e rassegnato che porta a mugugnare e contemporaneamente a sorbire passivamente ogni sera (davanti alla televisione) le cifre della disoccupazione e dei drammi umani e sociali che produce. Bisogna, al contrario, incominciare a prendere coscienza che è arrivato il momento di reagire. Tenendo conto di un fatto assolutamente certo: che cioè non arriverà un Babbo Natale, più generoso di quello degli anni passati, che tirerà fuori dalla sua bisaccia la soluzione per il problema del lavoro che manca e che angoscia milioni di famiglie. Né arriverà una stella cometa per preannunciarci il sopraggiungere della “crescita”. 127


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Sappiamo bene che intorno alla crescita esiste un consenso molto ampio. Al punto che qualsiasi critica venga mossa alla crescita (in nome di qualunque principio) è sempre destinata a suscitare anatemi. Tuttavia dobbiamo mettere il cuore in pace. Perché, per come siamo messi, la soluzione non potrà arrivare dalla crescita, né dalla riduzione dei tassi di interesse, né dalla ripresa o dal rilancio. Tutte cose auspicabili, intendiamoci, ma sfortunatamente anche assai poco probabili. E, comunque, non in grado di risolvere il nostro problema. Per convincerci che occorre battere strade nuove, dobbiamo prendere atto che il mondo è cambiato e non sarà più quello di prima. Per affrontare davvero il problema del lavoro bisognerà finalmente incominciare a guardare in faccia la realtà. E la nuova realtà con cui siamo alle prese ci dice che la “grande trasformazione” permette di produrre sempre maggiore ricchezza con sempre meno lavoro. Per la semplice ragione che produrre ricchezza comporta sempre meno estrarre materia, trasportarla e trasformarla, con grandi sforzi, come avveniva per le generazioni che ci hanno preceduto. Oggi produrre ricchezza significa invece trasportare soprattutto informazione, alla velocità della luce. Senza alcun bisogno, o quasi, dell’intervento dell’uomo. Tant’è vero che produrre due volte di più non significa certo far lavorare 10 mila uomini invece di 5 mila, come erano costretti a fare gli antichi romani quando decidevano di costruire templi, anfiteatri o strade consolari. In tantissimi campi di attività per produrre di più oggi, infatti, è sufficiente schiacciare solamente il tasto di un robot, o di un computer. Tant’è vero che, proprio avendo sott’occhio le tendenze e i cambiamenti in atto, Ulrich Beck, noto sociologo tedesco, è arrivato alla conclusione che nel giro di più o meno dieci anni solo un europeo abile al lavoro su due potrà avere un’occupazione regolare, a tempo pieno. E anche per questa metà la sicurezza di lungo periodo del posto di lavoro non sarà assolutamente comparabile a quella che la tutela sindacale poteva assicurare alla generazione che ci ha preceduto. Il resto dei lavoratori si guadagnerà invece da vivere alla “brasiliana”. Inseguendo lavori occasionali, casuali, di breve durata, con scarsa o nessuna garanzia contrattuale, né il diritto alla liquidazione e nemmeno a una pensione che consenta la sopravvivenza. Se Ul128


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rich Beck ha ragione (e le sue previsioni sono ampiamente supportate da dati di fatto e dall’opinione degli esperti) siamo in presenza di due questioni che si tengono: la mancanza di lavoro e la crescente insicurezza economica e sociale. Questo esito è riconducibile al fatto che, come si è cercato di documentare, l’epoca dell’impresa ad alta intensità di lavoro è ormai chiusa. Almeno nella nostra parte del mondo. Persino il grande esercito di leva appartiene (in questo caso fortunatamente!) al passato. Quindi il dato di fatto indiscutibile è che, al giorno d’oggi, il progresso tecnologico nella produzione di beni e di merci comporta una riduzione del fabbisogno di manodopera. Anche l’investimento, infatti, significa sempre più una diminuzione dei posti di lavoro, mai un loro aumento. Non a caso, in tutto il mondo i mercati finanziari premiano prontamente le “cure dimagranti”, le “ristrutturazioni” e i “ridimensionamenti” aziendali, mentre, al contrario, reagiscono nervosamente agli aumenti del numero degli occupati. Questa è dunque la sfida con la quale ci si deve misurare. Per fare del lavoro il centro vero, effettivo, di una decisiva battaglia politico-culturale (anche in funzione di una sua più equa distribuzione), occorre decidere di imboccare coraggiosamente strade nuove rispetto a quelle improduttivamente seguite finora.

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Ăˆ troppo difficile pensare nobilmente quando si pensa soltanto a guadagnare da vivere Rousseau



4 Il senso del lavoro nella società contemporanea È sabato notte degli inizi di febbraio 2013, a Guarrato, un paese di 1.300 abitanti in provincia di Trapani, Giuseppe Burgarella, un edile senza lavoro da tre anni, si mette una corda al collo e si toglie la vita. Lascia un “pizzino” disperato, tra le pagine della Costituzione. Il libro che è il fondamento della Repubblica. Su quel biglietto Burgarella ha elencato tutti i morti “per disoccupazione” degli ultimi due anni. L’ultimo nome in fondo alla lista è il suo. A fianco dell’elenco due frasi secche: “Se non lavoro non ho dignità. Adesso mi tolgo dallo stato di disoccupazione”. Dopo tre anni di stop forzato, troppo giovane per la pensione e troppo vecchio per riuscire a trovare un altro lavoro, decide che può bastare. Quindi dopo tanto tempo alle prese con pensieri, preoccupazioni, accorate richieste di aiuto, rimaste tutte senza esito, pensa che non sia possibile continuare una vita che per lui ormai ha perso ogni significato. Il gesto disperatamente sfiduciato di Bagarella, simile a quello di centinaia d’altre persone, finite senza alcuna loro colpa nel “girone” degli emarginati, degli esclusi, dei deprivati della loro dignità, costituisce un atto di accusa non solo per la società, ma anche per le istituzioni della Repubblica. Del resto è sufficiente ricordare che l’articolo 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro…”. Il lavoro è quindi assunto come valore costituzionale fondante. Ma la Costituzione ne riconosce, ne tutela, ne indirizza anche il valore economico (in quanto il lavoro va inteso come mezzo di soddisfazione dei bisogni umani) negli articoli da 34 a 40; il valore sociale (cioè 133


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il lavoro come ambito nel quale contribuire al bene comune e ottenere un riconoscimento sociale) nell’articolo 4, che sancisce il diritto/dovere al lavoro; il valore personale (inteso come spazio per la valorizzazione del talento individuale e per la realizzazione personale) ancora nell’articolo 4, che tutela le scelte del lavoratore e la sua elevazione formativa e professionale. I padri costituenti hanno dunque posto il lavoro a fondamento del “nostro vivere civile”. A fondamento della “realizzazione personale di ciascuno”. A fondamento e come “fonte principale per la soddisfazione dei nostri bisogni”. Purtroppo questi principi hanno trovato e trovano un’eco modesta, persino inesistente, nelle politiche perseguite. E così l’articolo 1 della Costituzione assieme agli altri richiamati possono coesistere, per così dire “pacificamente”, con 3 milioni di disoccupati. Con 2 milioni e settecentomila giovani che non studiano e non lavorano. In maggioranza nemmeno conteggiati tra i disoccupati. Ma più pudicamente classificati “scoraggiati”. Con tre milioni di persone in condizioni di povertà assoluta e 8 milioni a rischio di finirci, malgrado ogni loro sforzo per cercare di mantenersi in precario bilico. Naturalmente nella discussione pubblica non sono mai mancati gli inchini afflitti e contriti verso il dilagare della disoccupazione. La qual cosa non ha però impedito affatto, a chi ha responsabilità politiche, di cavarsela poi a buon mercato. Magari con l’approvazione di qualche misura estemporanea, assolutamente inidonea a far fare anche solo qualche passo avanti verso la soluzione del problema. Limitandosi invece a recitare la litania, la formula assolutoria: “dobbiamo farlo per i giovani”; “è necessario per i nostri figli”; “la flessibilità del lavoro farà crescere l’occupazione”. Quante volte abbiamo sentito ripetere queste frasi da politici e governanti negli ultimi anni? Almeno tutte le volte che si voleva fare inghiottire qualche “riforma” peggiorativa: della previdenza, del mercato del lavoro, del welfare. Poiché, però, di queste “riforme” se ne sono fatte parecchie e alcune anche molto pesanti (basta pensare all’ultima “riforma delle pensioni”, che ha provocato gli “esodati” e ha anche applicato ai pensionati quella patrimoniale che, al contrario, si è sempre ritenuto controproducente mettere a carico dei più ricchi), si dovrebbe supporre che la situazione abbia incominciato a dare segni di mi134


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glioramento. Magari non in termini tali da rovesciare il “vecchio ordine”. Ma almeno con qualche segnale di inversione di tendenza rispetto all’andamento disastroso dell’occupazione negli ultimi anni. Al contrario la situazione del lavoro ha continuato a peggiorare. In una circostanza simile c’è da supporre che ogni persona ragionevole avrebbe incominciato a porsi qualche domanda. Quanto meno per cercare di capire se la strada imboccata portasse alla salvezza o alla perdizione. La cosa stupefacente invece è che le istituzioni europee e a cascata quelle nazionali non hanno mai dato l’impressione di essere nemmeno sfiorate dal dubbio che le politiche intraprese potessero peggiorare le cose invece di contribuire a migliorarle. E il peggioramento si è regolarmente verificato: sia sul versante delle dinamiche quantitative della disoccupazione, che sul “senso”, sul “significato” del lavoro per la vita delle persone. E, dunque, cosa comporti per loro il perderlo o non riuscire a trovarlo. Con la sua nota spregiudicatezza, Bernard Shaw sosteneva che “il peggiore peccato contro i nostri simili non è l’odio, ma l’indifferenza: e questa – aggiungeva - è l’essenza dell’inumanità”. Con ogni probabilità è il medesimo convincimento che deve avere portato Giuseppe Burgarella a ritenere che non ci fosse più nulla da fare per cambiare davvero la sua condizione. Opinione drammaticamente e verosimilmente condivisa dai tanti altri che hanno preso la sua stessa tragica decisione. Ormai convinti che di fronte al disinteresse, all’imperturbabilità generale, non restasse altra possibilità che farla finita. Questi drammatici episodi dovrebbero indurre a un’assunzione collettiva di responsabilità, ma anche ad avviare un’indifferibile riflessione. Essi sono il riflesso del fatto che in gran parte delle dottrine economiche e delle politiche dei governi, l’elemento decisivo del “senso” del lavoro per le persone ha scarso o nessun rilievo. Invece è proprio dal “senso” che non si può assolutamente prescindere per mettere concretamente in campo politiche finalizzate alla stessa riduzione della disoccupazione. La mancanza del lavoro, infatti, non è separabile anche dal suo “senso” sociale e umano. A questo riguardo la lezione di Simone Weil è sempre straordinariamente valida e attuale. In questa sede non è naturalmente pos135


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sibile ripercorrere il suo eccezionale itinerario umano e intellettuale. Basterà ricordare che il lavoro (e il significato che esso ha nella vita delle persone) è sempre stato il cuore della sua ricerca e di tutto il suo pensiero. Nel corso della sua vita, infatti, ha costantemente concepito il lavoro non solo a livello teorico, tecnico, organizzativo, ma anche come indispensabile esperienza personale e, dunque, concretamente umana. Rileggendo i suoi scritti non si può che restare colpiti da quanto siano tuttora feconde le riflessioni di questa giovane filosofa francese, morta a soli 34 anni. Sarà sufficiente ricordare che nel 1928, ancora molto giovane, Simone Weil avrebbe desiderato compiere un’esperienza di lavoro in un campo organizzato dal “servizio civile”. Questa attività, nata da una proposta dello svizzero Pierre Cérasole, era stata adottata da alcuni gruppi di giovani pacifisti allo scopo di sostituire l’apprendistato delle armi con il lavoro manuale utile, in luoghi disagiati, o presso popolazioni bisognose di aiuto. Non potendo essere accolta in un campo per svolgere un lavoro che, sulla base delle convinzioni dell’epoca, veniva considerato “da uomini”, è costretta a rinunciarvi e a rinviare la sua esperienza di un lavoro manuale. Tuttavia questo non le impedirà di continuare a riflettere sull’importanza e sul significato del lavoro in generale e di quello manuale in particolare. Nella propria ricerca, lavoro e contemplazione diventeranno i due poli costanti del suo pensiero, che la porteranno a considerare lavoro e spiritualità due segni interconnessi. La Weil ritiene, infatti, che la spiritualità sia all’origine dell’amore, mentre il lavoro all’origine del diritto, del rispetto e delle dignità della persona umana, della sua eguaglianza. E proprio per questo si dice convinta che la cooperazione tra gli uomini deve essere posta alla base della solidarietà e dell’amicizia, che nulla può sostituire. Cantare in un coro, per esempio, vuol dire non solo riconoscere i propri uguali, ma sperimentare il valore imprescindibile del sostegno dei propri simili. E il segno è divino. Ognuno sottostà ai segni. I segni hanno, infatti, un valore per noi, non per loro stessi. In questa prospettiva Simone Weil ritiene che il lavoro sia fondamentale perché permette di riconoscere il proprio simile e di sentirsene riconosciuto. Perciò solo i lavoratori formano un’autentica comuni136


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tà. E, proprio per questo, essa ritiene che il lavoro, persino più della religione o dell’amore, possa essere il vero fondamento della pace sociale. Questo convincimento, tuttavia, non le impedisce di riconoscere, senza infingimenti, la circostanza in base alla quale nel lavoro “è inevitabile che il corpo e l’anima soffrano”. Lei ritiene però che una maggiore autonomia del lavoratore, ma soprattutto la sua consapevolezza di essere produttore di “oggetti richiesti dai bisogni sociali”, dovrebbe comportare anche un “diritto limitato ma reale, a esserne fiero”. Ciò non le impedisce di individuare (sulla base della sua stessa esperienza personale) i caratteri traumatici di una condizione di fabbrica nella quale l’alienazione del lavoro è fortemente presente. Il che la spinge a denunciare con particolare forza tutti quegli elementi della struttura sociale che, a suo giudizio, fungono da narcotici. In quanto tendono a far dimenticare alla coscienza del lavoratore la sua condizione alienata. Alienazione che può essere contrastata solo rifiutando il diffondersi anche tra i lavoratori di un modello agonistico, emulativo e competitivo. Per altro sostenuto dalle dottrine economiche dominanti. Si dichiara perciò assolutamente convinta che, alla lunga, nessuna società possa funzionare, se si costituisse come un insieme di competitori e promotori di sé stessi. Guidati solo dall’ambizione e dalla ricerca del successo. Tanto più che a quanti sono attratti da tale modello, fanno da pendant coloro che compensano la propria incapacità a competere, o il rifiuto di una condotta agonistica, con l’indifferenza verso la solidarietà e la cooperazione con gli altri. E questo corto circuito non può che determinare conseguenze sociali devastanti. La visione di Simone Weil del lavoro, del suo significato, del contesto nel quale si colloca, a diverse decine d’anni di distanza, ha ancora qualcosa da dire anche noi? Non c’è alcun dubbio. Non fosse altro perché le sue analisi, le sue preoccupazioni, la sua esperienza personale della “condizione operaia”, negli ultimi tre decenni ci hanno messo a confronto con una realtà (e una deriva) per certi versi persino più allarmante. Infatti, le culture che sono risultate egemoni in questo periodo hanno aggravato il quadro generale. Basti pensare che con il cosiddetto “neoliberismo” è stata teorizzata e nei 137


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fatti affermata l’assenza di ogni responsabilità sociale per l’impresa. E i risultati si vedono. Stiamo, infatti, pagando un prezzo particolarmente esoso, in relazione sia alla diminuzione del lavoro, che al corrispondente aumento della sua insicurezza. D’altro canto come si poteva pensare che le cose sarebbero potuto andare diversamente? Considerato che l’assunzione del rischio individuale è stata innalzata al centro (o presunto tale) del modello economico occidentale e il profitto a breve termine è diventato l’unico metro di misura. Così il concetto di “uomo economico razionale” ha finito per essere sviluppato a partire da tale approccio prevalentemente dottrinario, fino ad assurgere a dogma del sistema. Da qui i guai economici combinati e la perdita di valori coesivi con una progressiva disgregazione della società. Cosa che non può non allarmare. Tanto più tenuto conto di un aspetto che non andrebbe minimizzato. Prima che la società moderna si secolarizzasse la religione riusciva ad assolvere il compito di dare un senso alla vita delle persone, ma contemporaneamente a esprimere principi morali e valori etici in grado di tenere unite le comunità. All’inizio del secolo scorso, alcuni sociologi avevano immaginato che, contestualmente al declino della religione come collante sociale, il suo ruolo tradizionale (come fonte di significato) sarebbe stato, a poco a poco, assunto dalle strutture capitalistiche. C’è da dire, tuttavia, che le teorie economiche egemoni (fatte proprie dalle stesse organizzazioni imprenditoriali), non hanno mai assolutamente preso in considerazione un tale problema, perché la loro preoccupazione preminente è sempre stata quella di esaltare e martellare il chiodo della “razionalità” derivante dall’individualismo economico, inteso come principio morale valido in sé. Quindi senza alcuna considerazione etica, del contesto sociale di riferimento e nemmeno delle conseguenze che ne derivavano. Tant’è vero che quando gli imprenditori e con loro i rappresentanti delle istituzioni pubbliche prescindono dalla necessità di dare uno scopo valido alla maggioranza delle persone, ritengono che quel vuoto possa e debba essere riempito esclusivamente dalla formula magica, o dal mantra dell’efficienza, della flessibilità, dell’adattabilità degli uomini e delle donne che lavorano alle sole esigenze produt138


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tive. Ottenendo l’unico risultato possibile: quello cioè di alimentare un ulteriore senso di estraneazione, alienazione, disadattamento e angoscia delle persone. A fronte di questo svuotamento morale, nel quale il problema della disoccupazione finisce per ridursi a problema dei disoccupati, la corsa al benessere materiale (di chi se lo può permettere) rimane l’unica fonte di senso. Da qui la caccia alle attività puramente finanziarie, ai profitti sempre più esorbitanti e a compensi abnormi per chi sta in cima alla scala sociale: delle strutture produttive, dei divi dello spettacolo e del football. Tutte cose che alimentano giusti motivi di scandalo e d’indignazione. Tanto più tenuto conto che l’aumento delle diseguaglianze avviene inesorabilmente a spese di chi sta in basso. Il lavoro come “fatto sociale” La situazione con cui siamo alle prese, dunque, è che troppo spesso la politica moderna non riesce a, o non si preoccupa di, mettere gli individui in condizione di dare un senso al proprio lavoro e quindi alla propria vita. Perché ciò possa diventare possibile sarebbe necessario il riferimento a valori e finalità in cui i lavoratori si possano identificare, e allo stesso tempo riescano a legittimare e affermare il loro legame con le comunità di appartenenza e con l’universo morale che le può tenere unite. Si capisce bene che quando il profitto, il valore per gli azionisti, i bonus per i dirigenti, sono anteposti a tutto il resto, la “creazione senso” per l’intera società diventa piuttosto improbabile. Per non dire del tutto impossibile. Ed è proprio a questo punto che siamo arrivati. Sarebbe quindi indispensabile una correzione di rotta. Possibilmente prima di scoprire disastrosamente che non sono rimasti più il tempo e lo spazio per effettuare manovre correttive. È ovvio che per modificare l’itinerario, assieme alle competenze e alla volontà, servirebbero delle carte nautiche. Quanto meno per riuscire a fare il punto e renderci conto dove ci ha portato la deriva. A questo fine il dato dal quale è indispensabile ripartire è che il lavoro resta il mezzo attraverso il quale l’uomo ottiene quanto gli serve per il sostentamento, ma anche per il suo sviluppo personale e sociale. Rimane, infatti, la fonte imprescindibile non solo dell’acquisizione 139


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dei mezzi materiali per le sue esigenze e per quelle della sua famiglia, ma anche per il riconoscimento della sua identità, del suo ruolo, del prestigio sociale che, suo tramite, gli viene riconosciuto dalla comunità. Il lavoro è anche l’attività attraverso la quale le persone si rendono utili agli altri e alla società. Quindi permettendo loro di assumere un posto e un ruolo nella vita sociale. Inoltre il lavoro è l’impegno che consente all’uomo di manifestare la propria capacità creativa, innovativa e realizzatrice di opere in grado di migliorare la condizione umana e di aprire nuove possibilità. Contemporaneamente è il modo attraverso il quale riesce a creare e costruire sé stesso. È infine un’attività con cui può imparare a conoscere il mondo, a sviluppare, misurare e impegnare le proprie forze. A rapportarsi con la natura e con gli altri uomini. Il lavoro è, quindi, una delle attività principali e dei mezzi attraverso i quali l’uomo può sviluppare le sue potenzialità. Attraverso esso può, infatti, prendere possesso della realtà e trasformarla secondo le proprie necessità e finalità. Può aprirsi al cammino della conoscenza. Può umanizzare il mondo e al tempo stesso accrescere la sua soggettività. Esso esprime perciò la capacità e la dignità dell’uomo. A condizione, naturalmente, che il lavoro sia “dignitoso” e sia disponibile per tutti coloro che vogliono lavorare. Ma proprio tenendo presente il significato che il lavoro ha, o dovrebbe avere, per la vita delle persone, diventa inevitabile chiedersi: è davvero in questi termini che vanno le cose? Non è necessario essere scettici o critici del sistema per rispondere: sicuramente no. Tanto più tenuto conto che, assieme ai tantissimi che ne sono esclusi, marginalizzati, considerati in “esubero”, spesso anche coloro che un lavoro ce l’hanno fanno fatica a riconoscervi gli elementi di “senso” e di valore indispensabili per consentire un’autentica realizzazione umana. Sebbene non per tutti, infatti, sicuramente per una larghissima maggioranza il lavoro salariato continua a comportare una condizione di estraneazione, di sottomissione. Nella maggioranza dei casi di totale subordinazione. Questo predominio del capitale sul lavoro, malgrado in passato abbia favorito la nascita di grandi imprese, oggi ha prodotto soprattutto una grandissima maggioranza di uomini e 140


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donne, insicuri, timorosi, insoddisfatti, frustrati, sofferenti e dunque, infelici. È abbastanza facile capire che questa condizione umana scaturisce dal modo e dalle circostanze con le quali l’uomo è costretto a confrontarsi con il problema del lavoro. Riconducibile, in estrema sintesi, tanto alla mancanza di lavoro, quanto alla sua crescente precarietà e all’insicurezza. Ma soprattutto al fatto che i lavoratori sono sempre più deprivati dei mezzi e delle possibilità d’intraprendere iniziative che permettano loro di sviluppare le proprie potenzialità. D’altra parte, quando il lavoro viene mutilato di una componente fondamentale della sua ragione d’essere e ridotto a un puro atto esecutivo, senza nessun comprensibile rapporto con il bene da produrre, o con le sue finalità, è inevitabile che chi lo svolge si senta semplicemente un ingranaggio strumentale, senza nessuna particolare importanza nella produzione. Tanto più che una volta espropriato di ogni possibilità di partecipazione alle decisioni il lavoratore vede anche impoverito il suo stesso processo conoscitivo. Che se, al contrario, venisse valorizzato porterebbe verosimilmente a risultati migliori, sia dal punto di vista produttivo che sociale. La dinamica dell’involuzione in atto risulta quindi sufficientemente chiara. In effetti, quando il lavoratore viene messo in condizione di ignorare i processi organizzativi e tecnologici a cui prende parte, limitandosi a eseguire operazioni delle quali non conosce la relazione con l’insieme dell’attività svolta nell’impresa, è inevitabile che si abbandoni a un sentimento di disinteresse, di indifferenza, di estraneità. Se a tutto questo si aggiunge la condizione di quanti sono costretti a rimanere inattivi, perché estromessi dal circuito produttivo, o perché non sono nemmeno riusciti a entrarci, il quadro sociale diventa indiscutibilmente ancora più allarmante. Questi uomini emarginati, insicuri e rassegnati (se non hanno sviluppato qualità ed energie di resistenza morale e culturale), anche quando non arrivano a gesti clamorosi e disperati, molto spesso si deprimono, si sviliscono, perdono ogni autostima. D’altra parte, ci si deve chiedere come può un uomo riuscire a rispettare sé stesso se nessuno è interessato a lui, alle sue capacità lavorative? A volte neppure a livelli scarsamente dignitosi, almeno per quanto riguarda le condizioni di lavoro e di salario? 141


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Non dovrebbe essere difficile capire che simili aspetti, se non vengono concretamente affrontati, sono inevitabilmente destinati ad aggravarsi. Nella distrazione e superficialità prevalente, siamo, infatti, entrati in una fase nella quale si sono manifestati due fenomeni di grande portata, legati ai processi di globalizzazione economica e sociale in atto. La precarizzazione del lavoro su scala mondiale da un lato e una radicale mutazione dei nessi fra lavoro e agire sociale dall’altro. Quindi, anche se non sempre e non tutti ce ne siamo accorti, siamo di fronte a una profonda trasformazione del “senso del lavoro”. Una metamorfosi che, per un numero crescente di persone (in particolare le nuove generazioni), ne muta alla base l’intenzionalità, il significato. In effetti, l’economico e il sociale evocano “due mondi”. Due livelli di realtà che si differenziano, ma nello stesso tempo s’intrecciano tra loro. Perciò difficoltà, complessità, trasformazioni, flussi e disagi che riguardano il lavoro possono essere compresi solo se si assume un approccio “relazionale” al lavoro. Approccio che ne può influenzare la quantità e la qualità. Non dimentichiamo che l’immagine del lavoro è quella del “fare”, in un insieme di relazioni economiche, sociali e istituzionali. Quindi solo una nuova visione del lavoro come “relazione sociale”, che includa anche un rapporto “altro” rispetto a quello del mercato capitalistico, può aiutarci a capirne il senso e le funzioni nella società del prossimo futuro. Incominciare a intendere il lavoro come “fatto”, come relazione sociale, è perciò indispensabile per quanti vogliono aprire orizzonti inediti. C’è, infatti, motivo di ritenere che in un futuro, in parte già presente, libertà e lavoro tenderanno a costituire un binomio inscindibile. La cui necessità è rappresentata dalla liberazione della persona umana da certe forme di lavoro alienante e mercificato. O anche soltanto strumentale e uniformato. Tutto ciò dovrebbe spingerci a pensare, più che a una libertà dal lavoro, su cui non sono mancate utopie (anche del recente passato), a una libertà del lavoro, tale da consentire di poterlo scegliere, definire e regolare autonomamente. O, insieme con altri, in modo autosostenibile e relazionale. In sostanza, siamo chiamati a riflettere e a impegnarci sulla necessità di definire un nuovo paradigma del lavoro. In epoche premoderne (come ricordato) il lavoro era soprattutto attività servile, 142


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relegata agli schiavi, ai servi. In epoca moderna è invece diventato prevalentemente attività salariata, svolta in grandi fabbriche, con uso di macchine, automatismi, catene di montaggio e da ultimo robot. Ora, nel tempo della “crisi del lavoro”, esso comincia, sia pure a fatica, a essere percepito, pensato e (quando possibile) realizzato come attività sociale. Fatta di reti e di relazioni integrate, basate su un’autonomia, un servizio e, in una certa misura, una libertà di scelta. Il passaggio cruciale verso questa auspicabile (e probabile) evoluzione avverrà quando non ci si limiterà più a produrre servizi di cura da destinare agli altri come merci a pagamento, regolate da accordi economici e/o politici. Ma soprattutto quando diventeranno la base di una possibile trasformazione sociale, tramite un’azione reciproca di soggetti che interagiranno come produttori-distributoriconsumatori. Questo appare un punto cardine del possibile sviluppo futuro, che presuppone però un sostanziale cambiamento della cultura e dello stesso concetto di lavoro. Assunto, appunto, non solo come “attività alle dipendenze”, ma sempre più anche in termini di relazione sociale. Una cosa è certa: quando si potrà affermare la nuova relazionalità del lavoro ne risulteranno esaltati non soltanto i significati simbolici, ma anche quelli morali e affettivi. E non mancheranno neppure importanti ripercussioni sulle dimensioni più materiali della vita. Per dirne una: questa evoluzione dovrà, tra l’altro, attivare una nuova cultura contrattuale. Nel senso che dovranno essere ipotizzati contratti di tipo relazionale, che implicheranno, verosimilmente, anche una modifica dei sistemi di sicurezza sociale, in modo da potere legare più strettamente i diritti-doveri di cittadinanza. Inutile dire che l’implementazione e la dinamica delle reti di produzionedistribuzione-consumo costituisce una sfida, oltre che un fenomeno complesso, che richiederà perciò un cambiamento di mentalità, di abitudini, di cultura. Tuttavia, se proviamo a immaginare la società del futuro, essa appare inevitabilmente destinata a sostituire, sia pure lentamente e gradualmente, il modello di lavoro-produzioneconsumo tipico della società industriale. A questo riguardo è bene sgombrare subito il campo da un possibile fraintendimento: la nuova prospettiva, il nuovo modello, non farà affatto venire meno il lavoro. Accrescerà, al contrario, progres143


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sivamente il lavoro comunitario, che potrà, grado a grado, liberare le persone dall’alienazione e dallo sfruttamento. Perché potrà essere integrato in attività lavorative fondate su azioni e relazioni sociali. Dove tutti gli altri appartenenti alla comunità diventeranno, nello stesso tempo, causa ed effetto del lavoro emergente. Sostenere quindi che il lavoro è un “fatto sociale” non vuol dire ovviamente ignorare che esso continuerà a implicare rilevanti dimensioni economiche, politiche, giuridiche. Tuttavia significa essere consapevoli che non è esclusivamente riconducibile ad alcuna di esse, in quanto, pur ritrovandosi in tutte queste dimensioni, le collega e le divide contemporaneamente. In ogni caso esso non può essere prerogativa esclusiva della sfera politica, di quella economica e nemmeno di quella giuridica. Per la buona ragione che il lavoro, in quanto “fatto sociale”, che perciò si costruisce e vive di società, sarà principalmente un fenomeno riconducibile alla “vita morale”. Cioè ai valori etici che tengono unita una comunità. Esso quindi costituirà soprattutto l’espressione di una dimensione complessa della vita sociale, considerata nel suo insieme. Essendo orientato tanto alla vita delle persone, che a quella della società valutata nella sua generalità. Per altro, considerato che l’ambito economico si basa sui mezzi di lavoro, quello politico sugli scopi e le intenzioni, quello sociale sulle regole e norme e infine quello culturale su valori e significati, dovrebbe essere abbastanza evidente che non è possibile ridurre il lavoro a una sola di queste dimensioni. Come invece è spesso accaduto, anche in tempi recenti. Al contrario, nella concezione relazionale, il lavoro non potrà che essere la sintesi, il risultato dell’interazione fra le quattro componenti. Per chiarire meglio il punto è opportuno considerare il lavoro anche sotto il profilo del “diritto umano”. A questo fine può essere di aiuto prendere in esame i principi contenuti in due differenti “Carte” dei diritti umani fondamentali. La prima è la Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’Onu (1948), dove si legge che ognuno ha diritto a un lavoro, a scegliere liberamente la propria occupazione, a condizioni di lavoro giuste e vantaggiose e a essere protetto dalla disoccupazione. La seconda è la carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2004) dove viene affermato che ogni persona ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta e accettata. 144


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A distanza di mezzo secolo, tra l’una e l’altra, si può notare nelle due esposizioni una differenza sostanziale. Il diritto a un lavoro liberamente scelto (Onu) e il diritto di lavorare liberamente (Ue). Il passaggio da una visione individuale definita da quell’ognuno a una visione della persona umana che vive e agisce nella società, e che la stessa genera e rigenera a sua volta, è fondamentale. A questo punto si pongono alcune domande essenziali. Dobbiamo considerare il lavoro un diritto come tutti gli altri diritti garantiti dallo Stato (salute, istruzione, protezione, …)? Oppure è un dovere-diritto morale che le istituzioni, la politica, le strutture economiche e sociali devono prevedere, sostenere e garantire? Seppure non inteso come un mero bene o merce di consumo (anche se reso sotto forma di servizi di utilità sociale), ma come fondamento sostanziale del vivere sociale e del suo intricato sistema di relazioni? Per cercare di dare una risposta a simili quesiti, occorre superare i limiti concettuali (ai quali siamo abituati) che vedono nel valore lavoro un diritto individuale astratto e generale. Al contrario si dovrebbe incominciare a vedere il diritto al lavoro come diritto nei confronti di beni che non fanno riferimento all’individuo astratto, ma alle relazioni sociali che si costituiscono e consistono di relazioni, proprio attraverso le quali l’individuo può effettivamente vivere come persona assieme agli altri. È evidente che in questa prospettiva su tutti, nessuno escluso (Stato, Istituzioni, mercato, parti sociali), ricade il dovere di ricercare e assicurare le condizioni che rendano possibile e valorizzino il lavoro. Quindi, invece di parlare di un “diritto (soggettivo) al lavoro”, inteso come un diritto astratto, dovrebbe essere dovere della società nel suo insieme assicurare (come per l’istruzione, la salute, le condizioni ambientali, la sicurezza personale, eccetera) il riconoscimento ai soggetti coinvolti di un valore sociale per tutte le relazioni che creano lavoro. Non limitandosi perciò a intervenire soltanto per regolarne gli effetti. Comprensibilmente in quest’ottica diventa arduo concepire l’esistenza di un “mercato del lavoro”, finalizzato a mercificare, cioè a vendere al migliore (o peggiore) offerente la “forza lavoro” di un essere umano. Essendo questo il presupposto, che ha portato agli abusi e ai drammi dell’epoca industriale e capitalistica, è, infatti, piuttosto 145


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difficile poter immaginare che la medesima concezione possa costituire la possibile soluzione del problema del futuro. Tanto più tenuto conto che, sia pure tra resistenze e contraddizioni, appare inevitabile che venga intrapreso un percorso di liberazione del lavoro. Cosa naturalmente non facile, non fosse altro perché incamminarsi lungo questa strada significa mettere in discussione consolidati rapporti di potere (ampi e complessi) che stanno alla base del “capitalismo industriale”. Sebbene debba risultare evidente la contraddizione, sufficientemente chiara sul piano intellettuale, che lo stesso sistema economico (capitalismo incluso) potrà reggersi solo se saprà mettere in campo ipotesi di più appropriate relazioni sociali e culturali. Nuove esperienze possibili Tuttavia siamo già in presenza di alcuni aspetti incoraggianti, che non andrebbero sottovalutati. Per quanto ancora molto minoritari, incominciano, infatti, a farsi strada esperienze e modalità concrete che prefigurano (o quanto meno lasciano intuire) lo sviluppo di un possibile nuovo modello relazionale, umano del lavoro. Si tratta di modelli che esprimono un’economia “altra”, rispetto a quella che ha dissipato risorse economiche e umane, aggravando solo i problemi. È possibile che la definizione di “economia altra” suoni impropria. Nel senso che, contribuendo a diffondere (non sempre deliberatamente) una nuova cultura sociale del lavoro, agendo nella società e costruendo contemporaneamente una nuova società, essa è in grado di creare e promuovere lavoro come bene relazionale, in un contesto glocale. Capace cioè di unire la dimensione globale a quella locale. Quindi più che di forme di economia “altra” si potrebbe parlare di configurazione “nuova”. Stiamo, infatti, riferendoci a forme scarsamente sperimentate, inedite o tuttora in abbozzo, di “lavoro associato”. Quindi sostanzialmente diverse dalle forme classiche, canoniche di “lavoro dipendente”. Vale a dire modalità di lavoro puramente subordinato e salariato. Resta naturalmente del tutto aperto il problema di valutare se queste forme innovative, che lasciano intravedere un nuovo modo d’intendere l’economia e il lavoro, riusciranno o no a fare concretamente avanzare un originale modello di “lavoro sociale”. Oppure se invece si limiteranno a sfruttare disposizioni e norme legislative (in costante 146


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produzione), per eludere un vero cambiamento continuando, al contrario, con il tran-tran di sempre. Circoscrivendo il cambiamento ad aggiustamenti omeopatici e dunque sostanzialmente elusivi. Un aspetto specifico da tenere ben presente e sul quale il dibattito pubblico insiste molto (spesso con toni giustamente accorati) è la dimensione assolutamente intollerabile raggiunta dalla disoccupazione giovanile. Colpisce però che, in queste discussioni, il riferimento alla dimensione quantitativa sovrasti fino a farlo scomparire il problema qualitativo. Non andrebbe invece ignorato che se le nuove generazioni sono in gran parte escluse dal lavoro, sono anche state contemporaneamente defraudate del “senso” (personale e sociale) del lavoro. Significato che non potrà verosimilmente essere recuperato proseguendo nel medesimo processo storico culturale imposto negli ultimi decenni dalle “dottrine” e dagli schemi ideologici dominati. Guardando le cose nella loro concretezza, tuttavia, si può sempre pensare (o illudersi) di non essere condannati a rimanere nella palude. Magari con un po’ di fantasia, un parallelismo storico potrebbe anche incoraggiare all’ottimismo. Come sappiamo la borghesia è nata dai “fuoriusciti” dall’assetto medioevale. Borghesi erano, infatti, coloro che venivano dai “borghi” per affrontare nuove iniziative, nuovi progetti, nuove intraprese. Ora, considerato il punto a cui sono arrivate le cose (e i danni fatti), potrebbe non essere arbitrario incominciare a sperare che ci saranno sempre più anche “fuoriusciti” dal capitalismo. Inteso nei suoi termini sostanziali, vale a dire come distacco dalle forme e modalità canoniche di organizzazione imprenditoriale. In sostanza l’auspicio è che possa crescere il numero delle persone consapevoli che non è possibile fare impresa senza contemporaneamente “fare società”, invece di continuare a consumarla o corromperla, riducendola elusivamente a una mercificazione dei rapporti di scambio tra le persone. Al riguardo sarebbe interessante una ricerca per accertare se, oltre ad alcuni casi noti, esistano e quanti siano i soggetti che operano nell’economia con criteri difformi da quelli tradizionali, giudicati fino a oggi sostanzialmente inderogabili. In ogni caso è indispensabile incominciare a pensare che, nonostante la diffusione di una visione relazionale della società e del la147


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voro comporti l’attraversamento di un passaggio stretto, occorre quanto meno iniziarne il cammino. Anche perché è il solo varco che permette di trascendere la dialettica consuetudinaria fra libertà del lavoro (lib) ed eguaglianza delle condizioni di lavoro (lab). Riuscendo in tal modo a dare maggiore rilievo e consistenza alle autonome solidarietà sociali che producono e distribuiscono lavoro. La speranza dunque è che dall’oscurità del profondo della crisi in cui l’Europa e l’Italia sono finite, riesca finalmente a prendere avvio un processo di lenta, ma costante, riscoperta della capacità dell’uomo di riacquistare le proprie forze di “fare” e di “essere”, di lavorare e d’intraprendere. L’esperienza ci dice però che questo processo non avverrà in maniera spontanea, animato da uomini coraggiosi e solitari. Quasi che possa bastare la reazione di uomini soli in grado di darsi la spinta necessaria a risalire una volta toccato il fondo. Ogni risalita può, infatti, iniziare e diventare reale solo con l’utilizzo di quella che in definitiva rappresenta la più potente delle forze: la solidarietà che libera e unisce le persone, creando legami di organizzazione e di comunità. Ma proprio perché la strada che conduce al lavoro come “fatto sociale”, all’economia di solidarietà, sarà presumibilmente lunga e accidentata, non andrebbe nemmeno trascurato lo sviluppo (e il miglioramento) di esperienze, in qualche misura già in atto. Ovviamente avendo ben presente anche alcune condizioni preliminari che ne possono favorire il contesto. La prima riguarda innanzi tutto la conservazione e l’ampliamento dell’attività industriale. Sia pure diversamente strutturata e organizzata. In particolare il suo sviluppo andrebbe assecondato e incentivato nei settori più innovativi e tecnologicamente più avanzati. Tenuto conto che un paese come l’Italia non sarebbe in grado di reggere se non potesse contare su una presenza qualificata, importante nel settore industriale. In secondo luogo non si può prescindere da un sistema bancario e creditizio efficiente, capace cioè di sostenere e favorire l’insieme degli investimenti per la crescita dell’attività produttiva e del lavoro. Cercare strade nuove Per rendere però possibile la costruzione di un’economia solidale occorre agire contemporaneamente anche in altre direzioni, tra di 148


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loro complementari. In proposito il primo obiettivo consiste nell’avvio del maggior numero possibile di start up, cioè di nuove microimprese, soprattutto nei settori più creativi e innovativi. La diffusione della banda larga, rendendola accessibile a tutti, potrebbe certamente facilitare l’avvio di nuove attività produttive, potenzialmente di successo. Soprattutto da parte di giovani creativi, ormai largamente (e finora purtroppo inutilmente) familiarizzati con l’informatica. Sempre sul piano delle microimprese occorre anche puntare su una rivalutazione del lavoro artigianale. Valorizzandone la funzione creativa, la fantasia, e persino il valore artistico che può assumere (o tornare ad assumere) il lavoro fatto con le mani. La seconda meta consiste nel recupero di credibilità, dignità e pienezza umana del lavoro attraverso nuove esperienze di “lavoro associato”. Vale a dire forme di organizzazione del lavoro autogestite. A questo proposito, malgrado non tutte le esperienze in materia svolte in passato abbiano prodotto risultati soddisfacenti, non andrebbero oscurate le ragioni che inducono a incoraggiare una scelta in tal senso. Per capire l’importanza e le potenzialità di questo tipo di soluzione (come altre di natura analoga) è utile tenere presente che nel corso dei secoli il processo di riduzione e divisione del lavoro ha seguito un preciso itinerario. Proviamo a immaginare. In origine c’è un’ipotetica comunità di lavoro (integrato) che produce per soddisfare sia i propri bisogni che per consentire la riproduzione della vita sociale. A partire da questa comunità di lavoro inizia progressivamente il processo di differenziazione. Una persona, o un gruppo, si appropriano della capacità di gestione e direzione assumendo il comando e il controllo delle decisioni. Un altro gruppo si specializza nella ricerca e nella gestione delle conoscenze, delle informazioni utili e del know how tecnologico. Alcuni si impadroniscono successivamente della terra e dei mezzi materiali di produzione. Altri ancora, infine, instaurano relazioni con comunità diverse da quella di appartenenza, si dedicano a commerciare con quest’ultime e concentrano i mezzi finanziari. A mano a mano che si produce questa divisione del lavoro (che non è affatto un modello del passato) la maggioranza dei lavoratori è costretta a forme di lavoro residuale. Che comportano l’impoveri149


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mento, materiale morale, degli uomini che si ritrovano in tale condizione. Contemporaneamente si disgregano i legami di comunità. Perché gli uomini, anche per i loro diversi ruoli e funzioni, incominciano ad assumere comportamenti competitivi, conflittuali. In una situazione simile la socialità tra essere umani, la larga maggioranza dei quali risulta deprivata di dignità e di funzioni, fatica ad affermarsi e diventare costitutiva di vere comunità. Cercare di invertire questo processo significa, dunque, procedere verso il recupero del “senso” del lavoro per le persone e delle forme che lo rendono possibile. Concretamente vuol dire fare in modo che al lavoratore sia riconosciuta la capacità di prendere decisioni, di sviluppare conoscenze relative al come fare le cose, ma anche al cosa fare. Appare ovvio che tutto questo si può verificare solo dall’incontro degli uomini nella solidarietà e nella comunità. Per questo l’obiettivo è fare in modo che le imprese vengano concepite come comunità di lavoro nelle quali il lavoro diviso si ricompone socialmente. Anche perché gli uomini si sviluppano e si arricchiscono a vicenda e possono riuscirci meglio quando non istaurano tra di loro rapporti competitivi, ma relazioni di reciprocità e di solidarietà. Quando questi rapporti si instaurano, tramite la collaborazione tra soggetti che possiedono capacità e mezzi diversi, il recupero dei contenuti del lavoro e la ricomposizione del lavoro sociale consentono il riacquisto anche delle competenze sviluppate tramite la specializzazione. Del resto l’integrazione del lavoro non prefigura il ritorno a una comunità semplice e indifferenziata delle origini. Perché si compie attraverso la costituzione di un soggetto comunitario, o sociale, al quale partecipano persone e gruppi che collaborano apportando ciascuno le proprie capacità ed esperienze al livello in cui le hanno sviluppate. In sostanza la ricomposizione del lavoro sociale non implica affatto l’esclusione della divisione tecnica delle competenze che possono essere in grado di assicurare risultati migliori. Una terza possibilità per lo sviluppo di un’economia solidale è quella della cooperazione. Esperienza storica consolidata e tuttora in significativa crescita. In Italia, infatti, secondo il rapporto Censis (2012) sulla cooperazione, l’attività cooperativa ha conosciuto un lento ma costante sviluppo negli ultimi 40 anni, proseguito anche nell’ultimo decennio. Malgrado la crisi economica si sia fatta sentire 150


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sempre di più, tra il 2001 e il 2011 il numero delle cooperative è passato da 70 mila a 80 mila. Le imprese cooperative hanno perciò mostrato una vitalità molto maggiore del sistema delle imprese nel loro complesso. Facendo registrare un incremento del 14,2 per cento e accrescendo il ruolo che tale segmento riveste nel sistema economico e produttivo del paese. Non a caso, tra il 2007 e il 2011, cioè negli anni in cui la crisi ha picchiato più duramente, l’occupazione è cresciuta dell’8 per cento nelle cooperative, mentre diminuiva di quasi il 2 per cento nell’intera economia. C’è da aggiungere inoltre che il sistema delle cooperative contribuisce per il 7,4 per cento all’occupazione di tutto il sistema produttivo italiano. I settori in cui la cooperazione riesce a fornire l’apporto più rilevante sono: il terziario sociale, la sanità e l’assistenza sociale, i trasporti e la logistica, il credito, l’agroalimentare, la grande distribuzione, i servizi di supporto alle imprese. C’è da dire infine che le cooperative presentano dimensioni più congrue rispetto alle imprese di tipo tradizionale, tant’è vero che nel 2011, contro una media italiana di 3,5 addetti per impresa, le cooperative ne contavano invece 17,3. Naturalmente quello delle cooperative è un arcipelago assai differenziato. Fatto di piccole, medie e grandi realtà, operanti nei diversi settori dell’economia del Paese e con una difforme distribuzione sul territorio. A quest’ultimo proposito, guardando i dati contenuti nella ricerca del Censis la cosa che balza agli occhi è una presenza molto più capillare al Sud rispetto al Nord. Grazie al rilevante ruolo che essa svolge in ambito agricolo e in parte edile. Tuttavia se si considera l’impatto occupazionale che la cooperazione ha sul territorio la situazione risulta ribaltata. Con una consistenza assai maggiore al Nord. Sulla base dei loro propositi e dei valori di riferimento, le cooperative si dichiarano attente e vincolate al rapporto con la società, il territorio, i consumatori, i propri soci, le proprie risorse umane, considerate elemento fondante della loro identità. Questa descrizione è però ritenuta non del tutto convincente da alcuni e nemmeno interamente condivisa da qualche altro critico. Anzi, c’è persino chi arriva a sostenere che, nel tempo, il modello cooperativo si sarebbe progressivamente snaturato, fino al punto che (soprattutto per 151


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certe realtà) si sarebbe di fatto trasformato da organizzazione formalmente cooperativistica, in una sostanzialmente di natura tipicamente imprenditoriale. Finendo così per sclerotizzarsi e falsare i presupposti solidaristici originari. Tra le accuse rivolte al movimento cooperativo la più ricorrente è che sarebbe anch’esso ormai legato a filo doppio al profitto-consumo. Avrebbe in sostanza abbracciato acriticamente le regole del mercato, finendo per trascinare con sé, in questa involuzione, anche buona parte del Terzo settore. Stando agli interventi più marcatamente censori, le cose sarebbero andate talmente avanti in questa direzione che ben pochi soci di cooperative (di produzione e lavoro s’intende) si sentono fino in fondo produttori/committenti del proprio lavoro. Mentre sempre più spesso finiscono per ritenersi semplici dipendenti di una struttura che non gli appartiene per niente, diretta da una nomenclatura gestionale che tira le fila, in modo non sostanzialmente dissimile da quello delle imprese private. Quale delle due posizioni sia quella che si pensa di potere condividere, resta il fatto che comunque, nella situazione di passaggio che stiamo vivendo, in causa sono le stesse possibilità e gli strumenti attraverso i quali fare acquisire un “senso sociale” al lavoro e la cooperazione può essere (o tornare a essere) certamente una delle possibilità più significative. Tanto più tenuto conto che il cambiamento rimane imprescindibile in quanto il lavoro sociale non più governato (e governabile) dal sistema politico amministrativo rappresenta, non di meno, una necessità non eludibile della società civile. La quale oltre tutto ogni giorno che passa si scopre più dinamica ma anche più caotica; più istintiva ma pure più incontrollabile; fonte di nuove potenziali risorse ma soprattutto di nuovi rischi. Ciò che irrompe sul fondo, dunque, è una realtà magmatica, informe, disordinata che continua a essere chiamata con il vecchio termine di “società civile”, ma alla quale non riusciamo più a dare un volto preciso, perché non più corrispondente a quanto in essa si esprime. Il problema, quindi, appartiene alla politica, alle organizzazioni sociali, alle persone, che insieme dovrebbero cercare di cogliere la nuova configurazione sociale emergente. La quale, per riuscire ad affermarsi, richiede una logica relazionale del lavoro. Appunto come 152


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diritto derivante dalla cittadinanza sociale, che va perciò incoraggiata e implementata. A questo proposito diventa urgente anche l’elaborazione di politiche del lavoro basate su una concezione relazionale e non puramente funzionalistica, come invece, in larghissima misura, è avvenuto finora. Assumere una concezione relazionale significa che le politiche del lavoro non derivano più il loro carattere politico dal fatto di venire emanate dallo Stato. Ovvero dal sistema politico amministrativo e impugnabili davanti alla magistratura. Ma dal fatto che esse corrispondono a un modo nuovo di percepire e fare lavoro nelle varie sfere sociali, che nascono e si propagano dalla società civile. Naturalmente il lavoro è una “relazione sociale” che ha sempre un valore economico, anche se questo non significa che debba essere esclusivo e solo monetario. Il lavoro, infatti, è relazione fra una risorsa (strumentale), un bene da produrre, un modo di produrre beni, un valore umano coinvolto. In definitiva (anche a prescindere dalle technicality tutte da definire) si tratta di concepire il lavoro come una possibilità reale di relazioni inedite nel campo della produzione, distribuzione e utilizzazione di beni e servizi. Considerato che è la sua connotazione relazionale che ne fa un’attività generativa e non puramente una cosa che si può comprare e vendere sul mercato. Nella nuova prospettiva il punto che bisogna avere chiaro è che il lavoro non si esaurisce, perciò non è soltanto agire economico, uno strumento di produzione di beni di consumo da monetizzare, ma appunto una relazione sociale che chiede di essere trattata come tale. Invece negli ultimi due secoli, dal capitalismo al marxismo, si è sempre visto il lavoro esclusivamente come fattore di produzione. Trascurando quindi una visione relazionale intrinseca del lavoro e della società stessa. Al punto che avere un lavoro, studiare per un lavoro, imparare un mestiere, eccetera, alla fine, lungo processi di globalizzazione sregolati e incontrollati, ha portato alla formula cinica del significato assunto dalla vita: “produci, consuma, muori”. Per tutti naturalmente la speranza dovrebbe essere un’altra. Considerato che se la società del futuro non vedrà sicuramente sparire il lavoro, avrà però, al tempo stesso, sempre più bisogno di energie e di capacità e di una crescente qualità umana, per fare fronte a bi153


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sogni sociali vecchi e nuovi da cui vengono ricavate le risorse di vita per gli stessi soggetti che svolgono tali attività. Pensando al futuro, non essendo possibile prefigurare nel dettaglio i meccanismi di funzionamento dell’organizzazione sociale di domani, andrebbero almeno evitate le discussioni inutili e fuorvianti di oggi. In mancanza di profeti, di oracoli, di sciamani riconosciuti, ci si deve limitare a considerare che quello prefigurato non è un circolo o un club nel quale saranno ammessi e potranno riunirsi solo visionari e sognatori. Tanto più che non esiste nemmeno alcuno abilitato a rilasciare o ritirare patenti. E comunque, se si vuole che funzioni davvero, il modello di “lavoro relazionale” deve essere aperto a tutti i contributi e a tutte le esperienze. Quindi chiunque, in qualunque momento, deve poter essere coinvolto per portare il suo impegno, il suo ingegno, la sua creatività, in un clima di convivialità e di condivisione. Il problema presente, per altro, non consiste affatto nel perdere tempo a immaginare un futuro ipotetico e per alcuni magari del tutto improbabile. Al contrario, ciò di cui c’è bisogno è un impegno concreto, di trasformazione graduale ma costante delle strutture e della cultura economica e sociale esistente. Al riguardo la ricerca e il dibattito possono già contare su apporti significativi. In proposito, il sociologo Ulrich Beck, in un recente articolo sostiene che “viviamo in un’epoca nella quale è accaduto qualcosa di inimmaginabile fino a poco tempo fa”. Ossia che i fondamenti del capitalismo globale in passato spacciati come “razionali”, ma adesso rivelatisi alquanto “irrazionali”, sono diventati sempre più problematici. Anche politicamente. Al punto che esistono ormai versioni radicalmente differenti del futuro dell’occidente, dove è in corso quasi una guerra fredda interna. Da un lato c’è, infatti, chi vuole un capitalismo “regolabile”, che cerca un compromesso con i movimenti sociali, aperto alle questioni ambientali e alla partecipazione dei lavoratori. Dall’altro c’è chi punta su un’autoregolazione “dell’ego-capitalismo globale” che non disdegna gli interventi militari nel tentativo di ricreare la coesione nazionale attraverso lo schema amico-nemico. Per uscire da questa trappola Ulrich Beck ritiene che l’unica strada possibile sia “una maggiore libertà, una maggiore sicurezza sociale, una maggiore democrazia”. Quindi si può aggiungere un modo “altro” di concepire il lavoro. 154


la risaccca. il lavoro senza lavoro

A sua volta, il capo della più importante agenzia britannica per la promozione e l’innovazione tecnologica, Geoff Mulgan, afferma che non si riuscirà ad andare da nessuna parte se gli obiettivi della società non incominceranno a essere valutati invece che in moneta anche per la loro capacità di sostenere vite piene, ricche di relazioni, di appagamento e di affetti. Non si tratta di un’illusione, di una fantasticheria, ammonisce Mulgan. Perché stiamo assistendo “al nascere di un’economia fondata più sulle relazioni che sui beni di scambio, sul fare più che sull’avere, sul mantenere più che sul produrre”. Mulgan raccomanda anche d’incentivare “quelle parti del capitalismo che a loro volta premiano la dimensione della vita di relazione”. Questo potrà avvenire grazie all’intervento della cultura, della politica, delle istituzioni, della società civile per raggiungere un equilibrio finalmente a misura d’uomo. Che non nascerà spontaneamente, perché presuppone un cambiamento di mentalità, di abitudini, di cultura, indispensabili per perseguire la dimensione libertaria della società e dello stesso capitalismo. Anche a costo di cambiargli le caratteristiche. Sono naturalmente abbozzi, strade da esplorare, ma l’obiettivo è chiaro. Il capitalismo in tutte le sue forme (continuamente mutate nel corso della propria storia) deve essere considerato semplicemente una modalità strumentale e specifica dell’organizzazione produttiva, non il padrone della società nel suo insieme, come invece è avvenuto negli ultimi decenni. Quindi gli eccessi, gli errori di cui si è reso responsabile e che hanno ferito e devitalizzato la società contemporanea, devono essere drasticamente combattuti e corretti. Il che significa che, per continuare a mantenere un ruolo, non potrà ulteriormente mettersi di traverso al perseguimento di un futuro costruito a partire da una società più consapevole, più partecipata, più giusta. Nella quale il lavoro riacquisti un “senso”.

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Riferimenti bibliografici

AA.VV., Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli 2001 Hanna Arendt, Vita attiva, la condizione umana, Bompiani 1998 Guy Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti, Bollati Boringhieri, 1994 Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione, Editori Laterza 2001 Zygmunt Bauman, L’Europa è un’avventura, Editori Laterza, 2012 Lorenzo Caselli, Una vita buona nell’economia e nella società, Edizioni Lavoro, Roma 2012 Daniel Cohen, Tre lezioni sulla società post-industriale, Garzanti 2007 Sebastiano Fadda, “Commento all’accordo sulla produttività”, Nota Isril on line, n. 4, 2013 Luciano Gallino, “L’Italia tra gli ultimi in Europa, siamo i maestri della precarietà”, intervista a Repubblica, 11 febbraio 3012 Antimo Negri, Filosofia del lavoro, Marzorati Editore, 1980-1981 Valerio Onida, La Costituzione, Il Mulino, 2000 Luciano Pero, La risorsa del capitale umano. Saggi e dibattiti, Mondoperaio 11/12, 2012 Federico Rampini, “Il relax ci fa ricchi”, La Repubblica, 15 febbraio 2013 Giovanni Reale (a cura di), Classici del pensiero occidentale, Garzanti 2009 Gianni Riotta, “La rivoluzione dell’economia digitale”, La Stampa, 13 gennaio 2013 Tony Schwartz, Non si può lavorare cosi!, Editore Rizzoli, 2011 Simone Weil, La condizione operaia, SE Editore, 2003 Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, 2000

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Il tasso di disoccupazione in Europa. Il tasso di occupazione. Il tasso di crescita. Eurostat, 2012 Le encicliche sociali (dalla Rerum novarum alla Centesimus anno), Edizioni Paoline 1996 Occupati e disoccupati. Rilevazione sulle forze del lavoro. Lavoro e retribuzioni nelle grandi imprese. Istat, 2012 Primo rapporto sulla cooperazione italiana, Censis, 2012.

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INDICE PREFAZIONE Chiara Saraceno

5

PER INCOMINCIARE

13

1. I MUTAMENTI NELLA CONCEZIONE DEL LAVORO

25

2. GLOBALI E LOCALI

61

3. IL LAVORO È FINITO?

95

4. IL SENSO DEL LAVORO NELLA SOCIETà CONTEMPORANEA

133

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Finito di stampare nel mese di giugno 2013 presso Cromografica Roma srl - Roma per conto di Altrimedia Edizioni


Per Carniti, di fronte al dramma della disoccupazione, che sta assumendo numeri e toni di drammatica evidenza, questo finto agitarsi di facciata (magari anche animato dalla buona volontà), che non riguarda solo politici, ma anche studiosi e responsabili delle aziende, è traducibile in una parola: la risacca. Ossia quel ritorno delle onde su se stesse che sembra movimento, ma che in realtà non produce alcuna trasformazione. La “questione lavoro”, invece, ormai centrale nel nostro Paese e in tutto l’Occidente, ha bisogno di coraggio, innovazione, intelligenza, capacità di analisi dell’esistente e di quanto va emergendo. Un libro che non ha la pretesa di funzionare da compendio di tutto il dibattito esistente sul tema: parte dalla storia, ma per porre basi solide al ragionamento; segue un’analisi sui numeri e sui fenomeni internazionali, per allargare l’orizzonte; porta a compimento le proposte più coraggiose e decisive (la redistribuzione dell’orario); per finire con un’analisi sul senso e il valore del lavoro oggi.

... Questo libro e una sorta di ricapitolazione delle pluridecennali riflessioni di Carniti sul lavoro. Parte da, lontano, per ripercorrere a volo d uccello una storia del lavoro (in occidente) per arrivare alle trasformazioni e ai dilemmi contemporanei, che investono non solo la disponibilita di lavoro (remunerato), ma modi e relazioni in cui essa si da. C e tutto il Carniti che ho imparato a conoscere negli anni, con il suo pessimismo realistico e il suo indomito idealismo che un cambiamento sia possibile e che non occorra mai smettere di tentare... dalla prefazione di chiara saraceno

PIERRE CARNITI la risacca

PIERRE CARNITI

LA RISACCA il lavoro senza lavoro prefazione di

chiara saraceno

tempiModerni

Pierre Carniti (Castelleone, CR, 25 settembre 1936) è stato uno dei massimi dirigenti sindacali negli anni complicati di una conflittualità sociale accompagnata dalla prima deriva dei conti pubblici in Italia (anni Ottanta). Era segretario generale della Cisl (1979-1985) quando si raggiunse il famoso accordo sulla revisione della scala mobile. Idealista e pragmatico, coraggioso e realista, capace di unire l’analisi e la proposta, Carniti ha proposto questa sua qualità di sintesi anche nell’attività politica, da parlamentare europeo prima (1989-99), e, poi, da presidente della Commissione d’Indagine sulla povertà e da fondatore del movimento politico dei Cristiano sociali (movimento che ha contribuito prima alla nascita dei Democratici di Sinistra e poi del Partito Democratico). Nella stessa collana, “Dove stiamo andando? Democrazia e lavoro nell’età dell’incertezza”, curato sempre da Vittorio Sammarco e prefato da Gad Lerner.


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