Tè verde

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LUCA IANNUZZIELLO

Luca Iannuzziello è nato a Matera il 5 giugno del 1986, e dal ’86 vive a Marconia (MT); dal 2004 si è trasferito a Parma per frequentare la Facoltà di Biotecnologie. Le sue passioni: la fotografia, la musica, la letteratura e i fumetti. Nell’anno 2007 si è iscritto all’Archivio Giovani Artisti di Parma. Sempre nel 2007 è arrivato terzo alla seconda edizione del premio Nazionale di letteratura “Città dei Sassi”, sezione narrativa. Iannuzziello fa parte del gruppo “Scrittori Sommersi”, composto da 25 aspiranti scrittori che alla fine del 2007 ha pubblicato la sua prima antologia, 25 Racconti Emersi.

... Misi la pentola sul fuoco. Accesi la fiamma e anche questa volta non s’accese al primo tentativo ma al secondo. Mi sedetti sulla solita sedia e aspettai l’acqua bollire...

A coloro che...

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€ 8,00 ISBN

88-86820-76-9

i narratori 9 788886 820769


Sorseggiavo il mio solito tè verde dinanzi la finestra, ascoltando le solite canzoni che si ripetevano da oramai tre anni. Uno dei miei soliti pomeriggi liberi, in pratica vuoti. Non era accaduto nulla di nuovo e stavo lì a fissare il cielo che si tingeva sempre più di rosso. Le ombre delle case s’allungavano e le luci all’interno venivano accese, quasi contemporaneamente. Io rimasi lì, mentre il tè fumante diveniva sempre più freddo. Sorseggiai nuovamente il tè, aspettando qualcosa da quel paesaggio che conoscevo meglio di qualsiasi altra persona. Tutto era sempre uguale. Sempre tutto così statico, immobile. Tombini, pali della luce, case e recinti. Sempre uguali nella loro noiosa esistenza. Le auto che tornavano a casa, assieme a coloro che trasportavano. Sempre la solita scena. La ventiquattrore che si apre, i fogli che si sparpagliano sul viale e il cane che corre verso il suo padrone. L’uomo che accoglie i suoi documenti mentre il cane gli sbava addosso. Che schifo...! Bisogna essere proprio dei cretini a non voler comperare una ventiquattrore nuova! Sorseggiai il tè, vedendo in cielo il solito aereo che passava. Persino le luci intermittenti parevano luccicare nello stesso momento degli altri giorni. Chiusi la finestra e appoggiai la tazza sulla scrivania. Mi stesi sul letto pensando a… proprio a nulla. Stavo lì, fermo nel mio solito silenzio, e solo il cuore, ogni tanto, si faceva sentire con il suo lieve battito. Guardavo il bianco del muro, come sempre. Pensai quasi d’addormentarmi, ma avrei prima dovuto cenare. M’alzai, andai verso il lavello, e insaponai i primi piatti. Persino l’acqua ha sempre lo stesso corso. La stessa schiuma, la stessa temperatura. Insaponavo i piatti ben sapendo che avrei nuovamente mangiato pasta al pomodoro. L’unica cosa che mi riusciva. Misi la pentola sul fuoco. Accesi la fiamma e anche questa volta non s’accese al primo tentativo ma ancora al secondo. Mi sedetti sulla solita sedia e aspettai l’acqua bollire. 3


Guardavo il grigiore della pentola, come al solito. Driin. Il campanello! Mi sarò sbagliato. Non ricevo mai visite a quest’ora. Driin. Era davvero il campanello. M’alzai dalla sedia. Mi sentivo agitato. Non era una cosa che accadeva di solito. Aprii la porta e dinanzi a me apparve una ragazza dai capelli corvini, aveva due grandi occhi castani e un viso dolce. “Ciao”. Il mio ciao fu molto diverso dal suo. “Sto cercando Valerio Mazzi, per caso abita qui?”. Quella ragazza cercava me. Eppure io non l’avevo mai vista. “Sono Io”, furono le sole due parole che la mia bocca volle dire. “Posso entrare?”, non risposi ma le feci un cenno d’assenso. La ragazza entrando guardò con aria circospetta la mia modestissima casa, pareva quasi che non le piacesse, aveva ragione, faceva veramente schifo. Ci accomodammo io sulla mia solita sedia e lei sul divano. “Non credo di conoscerti”. Lei non si curò molto del mio modo spicciolo nel parlare. “Sono Giulia”. Sorrise molto debolmente nel presentarsi, io non riuscii a ricambiare il sorriso. “Sono venuta per via di tua madre”. La ‘vecchia’ non si faceva sentire da almeno una anno, penso che l’ultima volta sia stata quando m’iscrissi per la terza volta all’università. Aspettavo che continuasse a parlare, mentre le miei orecchie aspettavano con ansia, il percepire di una qualsiasi sillaba; notai che Giulia stropicciava un piccolo pezzo di carta, forse un foglio o un fazzoletto. Le sue mani divenivano sempre più rapide nei gesti. Stava tremando. Non le chiesi il perché. “Non è facile da dire”. La sua voce stentava a venir fuori. I suoi occhi iniziarono a brillare. Diventavano sempre più rossi. Il pezzo di carta si era del tutto consumato. Alcuni pezzettini cadevano sul mio pavimento, non me ne curai, l’avrei spazzato via tra qualche settimana, forse. Dato che Giulia non riusciva a parlare tentai di dire io qualcosa. “Inizia, altrimenti faremo notte”. Il mio tono non le piacque, dato che i suoi occhi, seppure lucidi, parvero trafiggermi. “Tua madre è morta”. Quando ebbe finito di dire la frase scoppiò a piangere. Quella notizia non mi colpì per nulla. L’avevo immaginato, eppure, per un momento il mio cuore sussultò. La vecchia non la vedevo da 4


oramai tre anni, eppure qualcosa si stava muovendo, facendomi sentire male. Giulia prese una fazzoletto dalla tasca, e s’asciugò le lacrime. “Ieri, mentre era in auto, un camion l’ha travolta. È morta sul colpo”. Le sua parole venivano interrotte dal pianto. Io non riuscivo a dire niente. Mi sentivo spossato e spaventato. Il cuore si voleva far sentire, ma tentai di farlo tacere. “Domani si celebrano i funerali”, disse alzandosi dal divano. Io non dissi nulla. La guardai aprire la porta. Giulia si fermò, si volto mentre mi alzavo. “Nella chiesa vicino la tua casa”. Forse aspettava una mia risposta, un mio cenno, che non riuscii a dire. La vedevo con i miei occhi spenti. Lei scoppiò in un pianto soffocato. “Ci sarò”. Quelle parole partirono dal mio cuore non dalla mia testa. Chiusi la porta e continuai a prepararmi da mangiare. In treno. Il mio paese era a due ore di viaggio da Bologna. Non tornavo nel mio paese da due anni, da quando abbandonai gli ultimi miei amici; conoscenti forse è la parola esatta. Nel mio scompartimento, c’era un bambino che non finiva di saltare sul suo posto; la madre ogni tanto lo richiamava ma le sue parole avevano tutt’altro che un tono di severità, le servivano solo per farle passare del tempo. Di lato avevo un uomo anziano che non la finiva di fare strani versi con la bocca, forse aveva difficoltà nel respirare. Sapevo solo che mi dava un fastidio immenso. M’alzai e uscii dallo scompartimento, per andare al vagone ristorante. Un caffè. Si ho bisogno di un caffè. Nella carrozza c’erano due ragazze sedute che appena mi videro sorrisero, confabulando tra loro. Al bancone un uomo stava dando il resto, centesimo dopo centesimo. Non poteva avere un euro? No. La mia solita fortuna. Aspettavo il mio fatidico turno quando una delle due ragazze s’avvicinò. “Piacere Anna”. Aspettava che mi presentassi e che le stringessi la mano. Ma io volevo il caffè prima. “Valerio”. Il mio tono seccato la sorprese. “Sei uno studente”. Che pizza. Le solite domande. “Sì”. “Studi a Bologna?”. Avrei dovuto nuovamente rispondere. “Sì”. “Anche io e la mia amica. Lei è Monica”. “Piacere”. La voce non mi piaceva. “Valerio”. Anche lei si sorprese del mio tono di voce. “Cosa studi?”. Questa era una domanda difficile. Non ricordavo neanche quando era stato l’ultimo giorno in cui mi ero presentato in facoltà. 5


“Penso Fisica”. Tutte e due risero. La mia non era una battuta. “Come penso?”. La domanda di Anna mi dava alquanto fastidio. “Penso perché non ricordo”. Il mio tono brusco le fece spaventare. Senza dire altro mi voltai e ordinai un caffè. “Stai bene?”. Ancora insistevano nel fare domande. Pagai il caffè e mi diressi verso la mia carrozza senza dire nulla. Penso che mi stiano dando del pazzo. Buon per loro. Bevvi il caffè prima di risedermi. Per fortuna il vecchio non c’era più. La prossima fermata sarebbe stata quella mia. Alla stazione nessuno m’aspettava, e ne fui entusiasta. Mi avviai a piedi verso la chiesa. Non avevo portato nulla con me perché avevo deciso di ripartire quella sera stessa. Camminando vidi un ragazzo salutarmi. Non capii subito chi fosse. “Valerio! Da quanto tempo”. Era quel cretino di Gianni. “Ciao”. “Sempre di poche parole, eh?”. Stavo per riavviarmi quando mi fermò con la mano. “Mi spiace per tua madre...”. Non sapevo cosa dirgli. “Se hai bisogno di qualcosa, fammi sapere. Cancelliamo i vecchi rancori”. Figurarsi se gli avrei mai chiesto qualcosa. Proprio a lui poi! “Mi raccomando. Fatti sentire!” Contaci. Mi rimisi a camminare, sperando di non incontrare nessun altro. Qualcuno lassù mi voleva bene. Arrivai dinnanzi la chiesa senza aver avuto altri incontri spiacevoli. Il mio cuore sussultò. Di nuovo provavo dolore. Stupido cuore. Vai in vacanza per un po’. Fuori dalla chiesa c’erano alcuni miei parenti. Alcuni pensavo che fossero morti. Altri non li avevo mai visti. Dovetti dire decine e decine di “ciao” e altri sciocchi saluti. Volevo un caffè. Un altro. “Alla fine sei venuto davvero”. Giulia era davanti a me, aveva gli occhi lucidi. La sua voce tremava. Notai che il suo corpo pareva una foglia avvizzita che aspetta la sua fine. “Dove sono le tue cose?”. Ma cosa stava dicendo? “Non hai portato nessuna valigia o borsa?”. Dovetti muovere la testa per farle capire di no. “Capisco. Riparti questa sera stessa”. La prima frase sensata da quando sono arrivato, finalmente! “Vuoi entrare, forse vuoi vedere tua madre prima che…”. Scoppiò a piangere. Che noia. Era solo una stupida vecchia. Una stupida vecchia! Entrai nello stanzino dove era posta la bara. Il prete mi salutò, penso di averlo salutato con gli occhi. Penso. “Ti lasciamo soli”. E perché mai? Non capii il perché delle parole di Giulia. Quella bara nera era davanti a me. Mi avvicinai a passi lenti, il mio cuore cominciò ad agitarsi sempre più. Pareva un tamburo, il suo battere era assordante. Tentai di fermarlo. 6


Fallii. La bara era ancora aperta. Quando i miei occhi si posero su quel volto pulito, bianco come latte, il mio cuore parve quasi fermarsi. La mia testa si svuotò e i miei occhi divennero pesanti e rossi. Lacrime, grosse e fredde scesero sul mio viso e senza accorgermene, abbracciai quel corpo freddo. Lo stringevo con forza. Volevo vederla sorridere. Una parola nella mia testa iniziò a emergere. Le mie labbra si mossero da sole. “Mamma”. Non la chiamavo da più di sette anni in quel modo. La mia voce era un rantolo di dolore, quasi impercettibile. Mi accasciai a terra. Le mie gambe non sopportavano il mio peso. Mi sentivo senza forze, pareva che la vita in me volesse andare via. Il mio pianto divenne tanto forte che Giulia e il prete s’avvicinarono a me, assistendo al mio dolore, forse vollero consolarmi, forse... Forse tentarono di portarmi via, non ricordo bene. I miei parenti parevano tutti tristi. Li avrei voluti cacciare tutti quanti. Non vi voglio vedere! Andatevene via. Mi facevano le condoglianze, non li guardavo neanche negli occhi. C’era tanta gente, troppa per i miei gusti. Mia madre conosceva davvero tante persone. A quanto pare le volevano tutti bene. Sì, tutti tranne me. Continuai a piangere mentre quella processione continuava dinnanzi a me. Giulia non era tra quelli che dovevano ricevere le condoglianze, eppure lei forse, le meritava più di me. Io non ero stato un buon figlio. Non sei stato un figlio! Mi disse il mio cuore. La mia mente diceva che il cuore aveva torto. Non ascoltavo nessuno dei due. Vedevo solo quelle persone che mi passavano davanti, la maggior parte non li avevo mai visti. Voglio andarmene! Nessuna parte del mio corpo riusciva a muoversi o a rispondere. Dopo il funerale mi trovavo in casa. Nella mia vecchia stanza. Non ci credevo ancora. Avevo portato la bara sulle spalle all’uscita. Avevo pianto per tutto il tempo. Lo stavo ancora facendo. Le lacrime erano amare. Mi doleva tutto il corpo, sentivo un dolore troppo grande per me. Un dolore che non provavo da anni. No! Cosa ho fatto. Mi sentivo ancora peggio. Stringevo nelle mie mani un pullover rosa di mia madre. Era il suo preferito. Lo metteva sempre, in qualsiasi occasione, lo ricordavo bene. Lo avvicinai al viso. Sentivo l’odore di mia madre. I miei occhi liberarono nuove lacrime. Sempre più amare e pesanti. La porta si aprì ed entrò Giulia. Aveva gli occhi lucidi. “Conoscevo tua ma7


dre da due anni appena. Per questo non ci siamo mai visti”. La sua voce tremava. “Era una donna piena di vita. Sorrideva sempre, anche quando le cose si mettevano male. Aveva un gran cuore”. Quelle parole mi resero ancora più triste. Mi sentivo da schifo. “La conobbi il giorno in cui persi i miei genitori. Era al funerale”. Io la ascoltavo stringendo il pullover di mia madre sul mio petto. “Conosceva molto bene mia madre, anche se io non la avevo mai vista. Ricordo che mi abbracciò per tutto il tempo quella volta. Sentivo il suo cuore darmi fiducia e speranza”. La mamma era così. Amava dare amore, io lo ho rifiutato per molto, molto tempo. Ora non c’è rimedio! “Mi chiese di andare a vivere con lei. Io non avevo più nessuno”. Rimase in silenzio. “Sapevo che la cosa che mi aveva chiesto non era per pietà ma per amore. Accettai”. Si fermò. Stropicciava un altro pezzetto di carta nelle mani. “Fu molto buona con me. Mi ha sempre aiutato, in ogni occasione. Era gentile e tenera anche se quando doveva, sapeva come farsi rispettare”. I pezzetti di carta stropicciata iniziavano a cadere sul pavimento. “Dal mio canto, ho sempre tentato di aiutarla in qualsivoglia modo”. Inspirò profondamente, la capivo! Anche io mi sentivo come uno straccio in quel momento. Per me era qualcosa di nuovo, in parte. Non avrei mai immaginato di dovermi sentire male per mia madre. Eppure era così. “Mi sento male. Ho perso i miei genitori e la donna che ho tanto amato. Per me è stata come una madre. La mia seconda madre”. Quelle parole mi fecero sentire un verme. Io di mia madre non avevo mai parlato in quel modo. Giulia invece, pur non essendo sua figlia, pareva conoscerla e amarla più di me. “Valerio, rimani qui a dormire. Non lasciarmi sola in questa casa”. La sua preghiera doveva essere ascoltata. “Rimarrò”. Il suo volto si accese per qualche secondo. “Grazie.” Mi sentivo quasi... Come si dice? Ah sì, felice. “Dopotutto questa è la tua casa”. Lei fece una smorfia, forse era un sorriso. Io mi sentivo un po’ felice, molto poco. Qualcosa che non provavo da anni. Eppure lo stavo provando. Quella notte mi misi un vecchio pigiama che mi andava stretto. Riuscii a infilarmi soltanto i pantaloni, mi andavano cortissimi. Parevo un cretino. Lo sei! Il cuore aveva parlato senza permesso. Non lo ascoltai. Augurai la buona notte a Giulia e m’addormentai. Il mio sonno fu agitato. Sognai tante volte mia madre. E ogni volta capivo che avevo perso tanto. Non conoscevo bene mia madre e questo mi faceva male. L’avevo capito troppo, troppo tardi. 8


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