MAP - Magazine Alumni Politecnico di Milano #2

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MAP Magazine Alumni Polimi

Numero 2 _ Autunno 2017

La rivista degli architetti, designer e ingegneri del Politecnico di Milano

Facciamo sistema: lettera aperta del prorettore vicario Donatella Sciuto • L’aula storica e l’aula che farà la storia • Dossier: oggi il lavoro si trova così • L’innovazione secondo Verganti&Porcini • Guglielmo Fiocchi e le imprese da salvare • Le macchine volanti di Filippo Perini • Antonio Tomarchio, serial startupper da record • Paola Scarpa e i nativi digitali • Epica Perottina: storia del primo personal computer del mondo • La prima cittadella digitale italiana, il progetto di Marco Sagnelli • Davide Padoa e lo shopping center più grande d’Europa • L’ingegneria musicale di Marco Brunelli • Ricordi dal Politecnico


EDITORIALE MAP, la mappa del Politecnico di domani Quando abbiamo iniziato a parlare di MAP, più di un anno fa, ovviamente ci siamo chiesti se avesse ancora senso pubblicare una rivista cartacea. In questo mondo sempre più interconnesso, l’informazione viaggia con tempi molto più veloci di quelli che può offrire un semestrale. Come dice l’Alumna Paola Scarpa (pagina 46), tra 20 anni saremo tutti ‘‘digitali naturali’’, quindi perché investire tempo e risorse per tornare all’analogico? Eppure… eppure ci sembrava lo stesso una buona idea, quindi abbiamo deciso di provarci. È stata una scommessa sfidante ed entusiasmante. Facendolo, abbiamo imparato un modo nuovo di raccontare il Poli agli Alumni, abbiamo scoperto che la carta ci lascia più spazio per approfondire le storie e che sfogliarle è un grande piacere. Forse hanno proprio ragione gli Alumni Verganti e Porcini (pagina 26): a volte, il prodotto migliore non è il più efficiente, ma quello in grado di suscitare emozioni. Con questo numero di MAP, noi ci siamo emozionati fin dalla copertina, che ci ha permesso di giocare con un simbolo molto amato: il logo del POLI.

migliaia per prenotare il magazine, ci avete chiamati per avere chiarimenti e suggerimenti, non passa giorno in cui un Alumnus non bussi alla redazione per ritirare una copia per sé, una per la sorellaingegnere-che-vive-all’estero, una da spedire ai genitori politecnici anche loro, poi ci sono da leggere i numeri arretrati, e così via. E, se potevamo aspettarcelo da chi digitale non ci è nato, la grande sorpresa sono stati i giovani: persino gli studenti bussano all’ufficio Alumni, Piazza Leonardo da Vinci, 32, per leggere su MAP cosa fanno i “fratelli maggiori” dopo la laurea. E, cosa fanno, lo raccontiamo in questo numero che affronta i temi della tradizione e dell’innovazione, della memoria storica e del futuro, dal punto di vista degli Alumni che lo costruiscono.

“È un po’ come tornare al Poli”, ci scrive Anna, ingegnere civile di 33 anni di stanza a Parigi, dopo aver letto il #1. “Non sapevo che esistesse la Bovisa, che bella scoperta!”, aggiunge Antonio, architetto laureato nel 1957. “Sembra un Politecnico tutto nuovo, eppure è ancora lo stesso”, commenta un po’ nostalgicamente, un po’ orgogliosamente Andrea, ingegnere chimico classe ’73. Ci avete scritto in

Ci “leggiamo” tra 6 mesi!

Esattamente un anno fa, ad ottobre 2016, usciva il #0. Quello che state sfogliando è il #2, in 12 mesi siamo passati da 5.000 a 50.000 copie, e tutto questo grazie a voi che avete sostenuto e continuate a sostenere questo progetto. Stiamo già lavorando ai numeri 3 e 4.

Dott. Federico Colombo

Direttore Esecutivo AlumniPolimi Association Dirigente Area Sviluppo e Rapporti con le Imprese, Politecnico di Milano.

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Editoriale

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L’aula storica e l’aula che farà la storia

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Oggi il lavoro si trova così

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Il lavoro arriva subito per i giovani politecnici

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Io sono sempre qui, ma non mi laureo mai

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La macchina del futuro è già qui

Verganti & Porcini Alumni dal mondo delle idee

L’uomo che sente il polso dell’America con un’App

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Fra vent’anni saremo tutti digitali naturali

Epica Perottina: storia degli uomini che hanno costruito il primo personal computer

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Digital City: un sopraluogo nel futuro

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Missione: salvataggio imprese di una vita

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poli.news

Facciamo sistema

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Visita guidata nel centro commerciale più grande d’Europa

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Nei laboratori di ricerca della rete 5G: dove nasce la velocità del futuro

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MAP

Magazine Alumni Polimi La rivista degli architetti, designer, ingegneri del Politecnico di Milano

Direttore Responsabile Federico Colombo Direttore Esecutivo AlumniPolimi Association. Dirigente Area Sviluppo e Rapporti con le Imprese, Politecnico di Milano. Direttore della comunicazione Chiara Pesenti Dirigente Area Comunicazione e Relazioni Esterne – Politecnico di Milano Membri del Comitato Editoriale Ivan Ciceri Fundraising Manager, Politecnico di Milano. Luca Lorenzo Pagani Communication Manager AlumniPolimi Association, Politecnico di Milano. Irene Zreick Relations AlumniPolimi Association, Politecnico di Milano. ---------------------------------Caporedattore Valerio Millefoglie Collaboratori Giulia Cavaliere, Nicola Feninno, Davide Gritti, Chiara Longo, Gianni Miraglia, Cosimo Nesca, Vito Selis

Marco Brunelli, l’ingegnere liutaio che dà l’anima ai violini

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M2, la linea 1 dei giovani milanesi

Visita guidata

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Packstation:

l’indirizzo postale di chi è di casa al Politecnico

poli.last

82 Una volta qui erano tutte palme

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84 30 anni di Erasmus

Progetto grafico Stefano Bottura (www.betterdays.it)

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Impaginazione Anna Milani Illustrazione di copertina Cristina Spano Stampa La Pieve Poligrafica Editore Villa Verucchio S.r.l. Editore e Proprietario AlumniPolimi Association Politecnico di Milano Presidente Prof. Enrico Zio Delegato del Rettore per gli Alumni Delegato del Rettore per il Fundraising individuale P.zza Leonardo da Vinci, 32 20133 Milano T. +39.02 2399 3941 F. +39.02 2399 9207 alumni@polimi.it www.alumni.polimi.it PIVA 11797980155 CF 80108350150

Interviste di corsa alla Polimirun 2017

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Noi e loro: Designer vs. Architetti

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Lettere alla redazione

Bentornati Alumni


Donatella Sciuto Prorettore vicario del Politecnico di Milano

FACCIAMO SISTEMA Notizie dal Rettorato: lettera aperta di Donatella Sciuto, prorettore vicario del Politecnico di Milano e professore ordinario di Architettura dei Calcolatori e Sistemi Operativi

Donatella Sciuto si laurea a ventidue anni in Ingegneria Elettronica, nel 1984. Dopo la laurea, un dottorato negli Stati Uniti: “Ho scelto di tornare perché pensavo che ciò che avevo imparato potesse essere utile in Italia”. Dal 2010 coniuga l’impegno di prorettore con quello di docente: “Insegno sia alla laurea triennale che alla magistrale: questo mi consente di sperimentare i problemi di tutti i giorni e mi aiuta a mantenere il contatto con i ragazzi”. In questa lettera aperta parla agli Alumni per raccontare il futuro dell’Università e l’importanza di mantenere un legame con le proprie radici. Il ruolo dell’università I nostri studenti cambiano di anno in anno. Allo stesso modo, deve cambiare il nostro modo di insegnare. Tenendo sempre presente che il ruolo di un’istituzione universitaria come il Politecnico non si esaurisce nella trasmissione di

alcune – importantissime – conoscenze tecniche o teoriche. Per questa ragione non condivido il parere di chi immagina l’università del futuro totalmente online e virtuale. Credo nel valore di avere un luogo fisico in cui gli studenti debbano ritrovarsi, collaborare, scontrarsi per il posto. È un’esperienza di vita, fisica. È molto importante per il Politecnico mettere i ragazzi nella condizione di fare delle esperienze formative a 360° che li costringano a misurarsi con il mondo, con i propri limiti, con la diversità. I nostri studenti della magistrale, ad esempio, viaggiano molto, sia in Europa che nel resto del mondo. Serve ad acquisire competenze trasversali ed è una marcia in più nel confronto con il mondo del lavoro. In questo senso, l’obiettivo è aiutare anche i ragazzi della triennale ad ampliare i propri orizzonti: è più difficile, perché la triennale al Politecnico è estremamente impegnativa e gli studenti preferiscono concentrarsi sullo studio.

Il Politecnico di domani Un Ateneo al passo con i tempi, anzi, che li anticipi, deve confrontarsi con il

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mondo esterno, che cambia molto rapidamente. Come? Io, personalmente, non so cosa aspettarmi nel 2040. Tante cose stanno cambiando e lo fanno con una velocità maggiore rispetto agli ultimi trent’anni. “Come sarà il Poli nel futuro?” è una domanda da fare alla generazione che un domani guiderà il nostro Ateneo. E infatti abbiamo avviato un gruppo di lavoro che si chiama proprio “Polimi 2040”, costituito da un insieme di professori ordinari giovani il cui obiettivo è pensare a strategie a lungo termine per l’Ateneo dei prossimi 25 anni, guardando oltre il mandato rettorale. Abbiamo anche bisogno di un confronto con il mondo al di fuori delle mura accademiche, che viaggia a ritmi diversi da quelli di un’università. In questo compito, nostri alleati fondamentali sono gli Alumni. Un esempio è quello dell’advisory board del Rettore, composto da una decina di Alumni di grande esperienza, con una visione, che hanno saputo costruire qualcosa di eccellente nei rispettivi campi. Ci confrontiamo con loro per avere visioni di ampio respiro sulle evoluzioni del mondo industriale, tecnologico e culturale, che


Il filo rosso che collega i vari interventi e le strategie del Politecnico di Milano è quello della condivisione delle competenze e degli strumenti. Vogliamo fare sistema con istituzioni, altre università, con il mondo industriale, tecnologico e culturale. hanno effetti sul nostro modo di progettare l’Ateneo per la ricerca e per la didattica.

La ricerca scientifica in Italia e nel mondo Uno dei nostri obiettivi strategici più importanti è quello di migliorare le performance del Politecnico relativamente ai progetti di ricerca internazionali. Abbiamo grandissime potenzialità in questo senso. In passato eravamo carenti su alcuni aspetti formali e comunicativi che ci precludevano l’accesso a risorse internazionali. Dal 2010, quando con l’inizio del mio mandato di prorettore ho iniziato ad occuparmi di questi temi, abbiamo creato programmi di formazione specifici per i ricercatori con attenzione ai bandi per la ricerca di base, come i prestigiosi ERC grant. Li abbiamo aiutati nella preparazione dei curricula e supportati nello sviluppo di progetti competitivi con l’estero. Abbiamo collaborato con esperti esterni che aiutassero i ricercatori a gestire lo stress. Nel giro di cinque anni siamo diventati la prima università in Italia per numero di finanziamenti europei,

come i ‘‘Marie Curie’’. Anche sul fronte dei progetti di ricerca con le aziende siamo primi in Italia, e funzioniamo molto bene anche rispetto alla media europea. In futuro continueremo ad espandere il numero di ricercatori che si indirizzano versi i finanziamenti per la ricerca di base, ma vogliamo orientarci anche verso un nuovo obiettivo: affrontare le grandi sfide sociali, come quella legata all’invecchiamento della popolazione. Ad esempio, abbiamo già avviato dei tavoli di lavoro con i medici dell’Humanitas per identificare problematiche e soluzioni condivise: nel campo dell’ingegneria della salute il Politecnico potrebbe avere un impatto decisivo. Vorremmo fare altrettanto in altre aree: urbanizzazione, energia, clima, promuovendo l’interazione tra più discipline affinché i nostri ricercatori abbiano maggiore opportunità di collacollaborare con l’esterno.

L’importanza di fare sistema Il filo rosso che collega i vari interventi e le strategie del Politecnico di Milano è quello della condivisione delle competenze e degli strumenti. In altre pa-

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role, vogliamo fare sistema. Partendo da “casa”: cioè aiutando i nostri dipartimenti e le nostre scuole a comunicare meglio, a interagire di più, a mettere insieme idee e persone per raggiungere risultati che, se già oggi sono eccellenti, possono e devono diventare sempre migliori. Vogliamo fare sistema con le altre università per contribuire sempre di più a migliorare la vita delle persone con innovazioni utili a tutti, dal campo della tecnologia a quello del design dei servizi, dalla progettazione di nuove e più efficienti aree urbane alla salute e alla sanità. Sono obiettivi ambiziosi che richiedono competenze trasversali, per raggiungere i quali sono diventate imprescindibili la condivisione e la collaborazione tra i vari attori. E vogliamo fare sistema con e tra gli Alumni. Rappresentano innanzitutto l’immagine del Politecnico nel mondo esterno, il nostro “biglietto da visita”. La dimostrazione la vediamo ogni giorno nei ranking delle università internazionali: i laureati al Politecnico di Milano sono tra i professionisti più apprezzati dagli employer in tutto il mondo. Oggi il Politecnico conta su una rete di oltre 150 mila Alumni, in cui ciascuno può facilmente mettersi in contatto con gli altri per scambiare idee ed esperienze. Questa rete, nel suo complesso, supporta l’Ateneo attraverso diverse iniziative: gli Alumni sono coinvolti in attività di mentoring agli studenti, partecipano ai tavoli di discussione dei corsi di studio, coinvolgono le loro aziende lavorando con il Poli per individuare problemi e soluzioni condivise. Non trascurabile è anche il loro supporto economico, che permette di offrire ai nostri studenti di talento borse di studio competitive con i migliori atenei europei. L’aver fatto il Politecnico non si dimentica, gli Alumni che mi capita di incontrare rivendicano sempre con orgoglio questo senso di appartenenza. Da Alumna, docente e prorettore, condivido.

Oggi il Politecnico conta su una rete di oltre 150 mila Alumni, in cui ciascuno può facilmente mettersi in contatto con gli altri per scambiare idee ed esperienze. Questa rete, nel suo complesso, supporta l’Ateneo attraverso tavoli di discussione, coinvolgendo le aziende e lavorando con il Poli per individuare problemi e soluzioni condivise.


Buona lettura. Il magazine che stai sfogliando esiste grazie al sostegno economico degli Alumni Polimi.

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STIAMO LAVORANDO AL PROSSIMO NUMERO

N°0 - AUTUNNO 2016

N°1 - PRIMAVERA 2017

N°2 - AUTUNNO 2017

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N°3 - PRIMAVERA 2018


poli.news Storie, persone e idee da Piazza Leonardo da Vinci al mondo


La storica aula Natta, dedicata al premio Nobel per la chimica del 1963, Giulio Natta, professore ordinario di Chimica Industriale al Politecnico.


L’AULA STORICA E L’AULA CHE FARÀ LA STORIA Una si trova nella sede Leonardo e prende il nome da Giulio Natta, che dal 1938 al 1973 vi insegnò Chimica Industriale. L’altra si trova nella sede Bovisa, la prima lezione si è tenuta nel 2017 e propone un nuovo e moderno metodo didattico: la Flipped Classroom. Le abbiamo visitate entrambe per un viaggio tra passato e futuro

di Davide Gritti - foto di Cosimo Nesca

AULA NATTA (Campus Leonardo, Edificio 6) Si entra come di nascosto nella C.I.1 nell’Edificio 6, ovvero l’Aula “Giulio Natta” nel Dipartimento di Chimica, Materiali e Ingegneria Chimica “Giulio Natta”, un composto organico di legno, ardesia e storia politecnica. Da una piccola porta ci si trova al cospetto di una grande platea: tredici ripide file di grandi e solidi banchi in legno, una parete di lavagne quasi al soffitto, salgono e scendono e si moltiplicano, ma dopo anni e anni di lezione tengono traccia sempre e solo dell’ultima lezione svolta, in un ciclo di rinascita che ricorda i cicli degli studenti, generazioni di padri,

figli e nipoti che hanno studiato qui. Le finestre sono quasi completamente schermate da spesse tende, come se la luce del sole di Città Studi potesse rubare qualcosa dello spirito del tempo. La cattedra, nello stesso legno rossastro dei banchi, è quella da cui insegnò Chimica Industriale Giulio Natta, dal 1938 al 1973, mentre nei laboratori qui attorno sperimentava e scopriva la sintesi stereospecifica del polipropilene. Un’aula così grande in ogni elemento sembra essere stata costruita per studenti giganti. Quando entrano in visita, gli Alumni si fanno però pic-

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coli, esitano circospetti sulla soglia, mentre le mogli e i figli esplorano e si inerpicano lungo le scale, fino alla vetta, la finestra da cui si vede un albero ed il mondo intorno. I familiari vagano e gli ex studenti restano fermi nel ricordo di quello che è stato: qualcuno controlla negli angoli come quando si torna da una lunga vacanza, cercando un particolare fuori posto e trovando tutto nel solito ordine, altri cercano dei compagni di ricordo. Uno fa un giro rapido, riappropriandosi di uno spazio abbandonato, esce e con lo smartphone chiama subito un ami-


co, gli racconta stupito di come “nulla sia cambiato nella Natta, mentre il Politecnico è tutta un’altra cosa, una cosa nuova”. Inizia un elenco interminabile di corsi seguiti, “sembrano solo nomi ora - dice un Alumnus - ma al tempo erano lezioni, ore passate qui”: Chimica, Scienze delle Costruzioni, Teoria dell’Informazione e della Trasmissione. Ciascuno ricorda un mitico corso di un mitico anno, il proprio. Se si usassero i banchi come una carta-carbone si potrebbero ricalcare decine di migliaia di calligrafie, milioni di fogli di appunti, miliardi di formule. Un padre mostra al figlio le lavagne. Alcuni si riconoscono negli occhiali che portano, mostrandoseli reciprocamente: “prima di cominciare i corsi in queste aule non avevamo gli occhiali, qui abbiamo lasciato qualche diottria per prendere appunti dalle file più lontane, intravedendo numeri a distanza”. I

figli si appoggiano sui banchi a cui i genitori arrivavano trafelati da casa nelle mattine della loro giovinezza, lasciavano sciarpe, cappelli, guanti e qualsiasi altro indumento per tenere un posto prezioso in prima fila. Per una volta gli Alumni sempre in anticipo incontrano i compagni di corso sempre in ritardo, quelli che arrivavano a lezione iniziata e per evitare lo sguardo dell’insegnante e della platea restavano fuori. Un ingegnere elettrotecnico della classe ’87 racconta del corso più bello della storia: Meccanica Razionale tenuto da Amalia Ercoli-Finzi, il primo ingegnere aeronautico donna d’Italia, la “signora delle comete”. Esattamente allo scoccare dell’ora, senza quarto d’ora accademico, Amalia Finzi entrava, salutava e cominciava a scrivere le note dalla lavagna in basso a sinistra, spiegando con una voce limpida e pulita che saliva verso tutta la platea, come se

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parlasse e spiegasse a ciascuno dei duecento studenti, guidando i giovani nei segreti dei sistemi meccanici. Quando suonava la campana la professoressa fermava il gessetto, le ultime formule stavano nell’ultima lavagna in alto a destra. Ogni giorno una parete di formule, per una stagione, finché una delle ultime ore di uno degli ultimi giorni, dalla quattordicesima fila di panche, si rompe l’incantesimo: uno studente si alza e lancia un aeroplanino di carta, il primo del corso. La prima aeronautica d’Italia vede la planata e il rovinoso atterraggio e con uno sguardo indulgente perdona il lanciatore, non si sa se per il gesto goliardico o per gli errori costruttivi. Il corso è finito senza altri aeroplanini, quarant’anni dopo Amalia Ercoli-Finzi ha festeggiato al Politecnico i suoi 80 anni, il lanciatore forse gira nella Natta cercando il suo banco, la sua sciarpa, i suoi appunti.


AULA MEL

(Campus Bovisa, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali) Da un aeroplano di carta che sorvola l’Aula Natta ci spostiamo davanti a un vero e proprio aeroplano. Si trova sul campo verde del Campus Bovisa, come una vedetta è posto all’ingresso del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali. Qui ha preso forma la futuristica aula MEL. La sigla sta per: Management Engineering Lab, l’aula tecnologica, che ridisegna il modo di fare lezione. Flipped Classroom è il termine esatto per descrivere questo moderno approccio in cui la classe e l’insegnamento sono letteralmente capovolti: la cattedra non c’è, il professore c’è ma gira tra i banchi, i

banchi sono tavoli che non stanno mai fermi, hanno ruote e possono assemblarsi a seconda delle necessità; uniti danno vita ai lavori di gruppo, separati sono la base dello studio, dove gli studenti poggiano il laptop. Le pareti sono bianche ma non sempre. Si accendono, diventano sfondo per proiezioni che partono dai computer degli studenti o dall’iPad del professore. Qui si può scrivere sui muri con pennarelli whiteboard, cancellabili, non c’è un solo punto dove non ci si possa appuntare le cose, colonne comprese. A fine lezione tutto torna una lavagna bianca. Verde, rosso,

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arancione, sono i colori delle sedie, niente cavi, sono immaginari grazie al wi-fi. Dei pouf gravitano sopra alle pareti e quando scendono creano angoli di salotto. Soffitto e pavimento sono fonoassorbenti, si è come accolti in un mondo a parte, su precisa e chirurgica misura della lezione. E, a proposito, la prima lezione si è tenuta il 20 marzo 2017, a cura di Stefano Ronchi, Professor of Business Organization & Management and Supplier Relationship Management, che è tra gli artefici di quest’aula futuristica. “C’è un grande cambiamento rispetto a prima - racconta Ronchi -


La lezione non è più unidirezionale, il docente è in mezzo agli studenti e ha una vista a 360°. Questo incentiva gli studenti stessi a interagire di più. Non c’è più il docente vecchio stampo, distaccato, ti aggiri cercando di capire le loro difficoltà. Naturalmente questa modalità va bene per le attività interattive, l’insegnante diventa un tutor”. Non solo la classe è capovolta ma anche il metodo. “Lo studio teorico si anticipa a casa - continua a raccontare Ronchi - e in aula si affronta la parte pratica. Il contrario di ciò che accadeva quando io ero studente. Ricordo che la

prima aula in cui ho studiato aveva ancora la lavagna con il gesso e la lavagna luminosa con i lucidi. Era un metodo deduttivo. Ora è induttivo, ti butto su un problema e poi dalle sensazioni che mi rimandi ti riporto la teoria. Questo per offrire più libertà creativa. Oggi i ragazzi sono molto diversi, sono più impazienti, non sono più abituati ad ascoltare per ore”. Gli studenti però conservano ancora quel distacco professore-allievo del metodo tradizionale, e si muovono un po’ intimiditi nell’aula. Dalle finestre si vede l’aeroplano dei cieli passati e ci si ritrova fra due dimensioni, proiettati in quella del domani.

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Quando l’aula MEL sarà ampliata, ci sarà un secondo laboratorio e, chissà, si potranno seguire lezioni in videoconferenza dall’altra parte del mondo.

“Lo studio teorico si anticipa a casa e in aula si affronta la parte pratica. Il contrario di ciò che accadeva quando io ero studente”


Stefano Ronchi, Presidente del Corso di Laurea in Ingegneria Gestionale, nell’aula MEL. La sigla sta per Management Engineering Lab. In quest’aula iper-tecnologica si svolgono le lezioni con il nuovo approccio di “Flipped Classroom”.

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OGGI IL LAVORO SI TROVA COSÌ

16 maggio: al Campus Bovisa si inaugura l’Assessment Center, il nuovo ufficio di orientamento al lavoro dedicato agli studenti. Contemporaneamente è in corso il Career Day, una giornata che mette in contatto i giovani del Politecnico con le aziende. Perché oggi il lavoro si trova all’Università. di Chiara Longo

“I ragazzi sono molto più consapevoli e responsabili, sanno che in questo periodo si giocano il loro futuro e vogliono avere opportunità di crescita”

“Non dobbiamo più guardare a ciò che succede post-laurea ma a ciò che succede pre-laurea”, dice il rettore del Politecnico Ferruccio Resta, con in mano un paio di forbici. Serviranno a momenti per tagliare il nastro dell’Assessment Center, il nuovo ufficio di orientamento a disposizione degli studenti del Campus Bovisa che possono recarsi tutti i giorni, senza bisogno di prenotazione. Uno spazio per ricevere consulenza sul mondo del lavoro ed allenarsi ai colloqui aziendali. Qui infatti possono confrontarsi con un career advisor, lavorando insieme al proprio CV e incontrando veri e propri recruiter di aziende. All’ingresso di questo nuovo percorso dedicato al futuro degli studenti Ferruccio Resta indica il fondo del corridoio, lì dove una moltitudine di ragazzi e ragazze si aggira con in mano curriculum, penne e laptop. L’inaugurazione dell’Assessment Center si svolge nello stesso giorno del Career Day, la fiera del lavoro che mette in contatto studenti e laureati del Politecnico con le risorse umane delle aziende. “Oggi ci sono 114 imprese, con oltre mille posizioni disponibili, che incontrano i ragazzi - dice Ferruccio Resta nel discorso inaugurale - Abbiamo iniziato nel 2007 a gestire ciò che succede dopo la laurea e il Career Day continueremo a organizzarlo. Adesso però dobbiamo guardare al domani”. Il domani è il fiocco giallo sulla porta dell’Assessment Center.

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“I ragazzi sono molto più consapevoli e responsabili, sanno che in questo periodo si giocano il loro futuro e vogliono avere opportunità di crescita. Non hanno alcun problema a sentirsi dire che non sono ancora pronti per il mondo del lavoro, o a conoscere i propri punti di forza e di debolezza”, continua a spiegare il rettore. “Siamo un’università italiana che si misura in una partita internazionale”, è questa una delle ultime immagini del suo intervento, prima di passare la parola ad Antonio Copercini, Alumnus Polimi e oggi Supply Chain Officier di Barilla. L’azienda per la quale lavora ha voluto fortemente investire nell’Assessment Center, e il motivo lo spiega bene Copercini: “Il legame con le aziende non si fa dopo la laurea, nel momento del colloquio di lavoro. Si fa molto prima, negli anni antecedenti, presentando l’azienda e le attività, facendo scoprire ai ragazzi ciò che c’è dietro e che magari non conoscono. Barilla è nota per i suoi marchi e prodotti, ma immaginate l’apparato industriale che c’è dietro: opera in 100 paesi del mondo, ha più di tremila prodotti in vendita e un apparato tecnico importante di ingegneri con competenze gestionale. Abbiamo bisogno delle eccellenze dei ragazzi”. E i ragazzi sono molto ricettivi. Assistono all’inaugurazione, si muovono tra gli stand del Career Day, si prenotano agli incontri all’Assessment


L’Assessment Center, il nuovo spazio che offre agli studenti consulenza sul mondo del lavoro con un programma di incontri individuali, prove di colloquio e incontri con l’HR delle aziende.

Il taglio del nastro nel giorno dell’inaugurazione con il rettore Ferruccio Resta e l’Alumnus Antonio Copercini, oggi Chief Supply Chain Officer Barilla. Nella foto accanto i due, insieme a Stefano Ronchi, docente di ingegneria gestionale.

Il Career Day del Politecnico di Milano è la fiera del lavoro dedicata all’incontro tra studenti e laureati Polimi ed aziende, in prevalenza italiane di grandi dimensioni, che ricercano figure tecniche. Viene organizzato ogni anno dal Career Service di Ateneo nel mese di Maggio e nel 2017, arrivato alla sua 10^ edizione, ha segnato il record di presenze aziendali, ben 114, a conferma del grande interesse che continua a suscitare anno dopo anno. Durante la giornata studenti e laureati incontrano agli stand i referenti aziendali per trovare lavoro o solo informarsi sul futuro lavorativo.


In questa pagina: l’esterno della sede dell’Assessment Center al Campus Bovisa del Politecnico. Aperto tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, dalle 9:30 alle 13:00 e dalle 14:00 alle 17:30.

“Non dobbiamo più guardare a ciò che succede post laurea ma a ciò che succede pre laurea”

Center. Si mostrano più intraprendenti, hanno voglia di crescere e di confrontarsi subito, sono pronti a mettersi in gioco lavorando su di sé. Le aziende si rivolgono a loro attraverso gli slogan stampati sul programma della giornata del Career Day: Un mondo migliore inizia con te. Realizza il tuo potenziale. We Pioneer. Born Innovation. Ready for new Horizons? Disegniamo il mondo di domani. Libera il tuo talento. Fare slalom tra le file di studenti in questa giornata è come passeggiare tra i loro progetti. C’è chi punta a lavorare nell’animazione, in Pixar, e chi si vede in campo biomedico: “Per aiutare gli altri”. Un ragazzo, classe ’96, ha già il biglietto da visita. Sopra c’è segnato il suo sito. “Non sembra uno della sua età - racconta un recruiter - Ha già un futuro assicurato”. Qualcun altro sogna di lavorare in aeroporto e sogna anche il giorno in cui potrà chiamare il suo professore per dirgli che ce l’ha fatta. Intanto scattano i flash sugli smartphone e gli applausi quando il rettore Ferruccio Resta e Antonio Copercini tagliano il nastro dll’Assessment Center. Durante il brindisi Copercini rievoca i suoi inizi: “Ricordo che dovevo arrivare al Politecnico molto presto al mattino per prendere i posti in prima fila. Se eri in ultima non capivi nulla. Sono riuscito ad arrivare puntuale durante tutto il

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triennio, quaranta minuti di metropolitana e alle 7:30 ero a lezione”. Poi, racconta del suo percorso lavorativo, a cavallo tra passato e futuro: “Mi sono laureato nell’85 in ingegneria gestionale con 100 e lode. Quando sono stato segnalato in Barilla avevo già un contratto in mano con un’altra azienda. Avrei guadagnato di più ed avuto subito una posizione più certa, ma sono rimasto affascinato dai valori che esprimeva Barilla. Ho sempre pensato che rispetto all’offerta economica conta di più l’adesione ai valori dell’azienda perché quelli li porterai avanti per tutta la vita. All’epoca i ragazzi erano molto attenti invece al posto fisso, oggi vogliono capire quanto l’azienda crede in loro, quanto sono seguiti e formati. Quando avevo 37 anni e mi hanno offerto una posizione apicale ero spaventato e chiesi al mio capo: «Come fate a pensare che un giovane come me possa gestire questa complessità?». Lui mi rispose: «Se non sei capace di gestirla adesso non sarai mai più capace di gestirla nella tua vita»". A pochi passi dal nuovo Assessment Center del Carreer Service intanto, nell’edificio B27, il piano terra e il primo piano continuano a essere il luogo, la terra, di chi pensa alla strada che prenderà.


IL LAVORO ARRIVA SUBITO PER I GIOVANI POLITECNICI Un tempo, i laureati ricevevano lettere dalle aziende alla ricerca di talenti. Oggi le lettere non arrivano più, ma i giovani Alumni sono ancora corteggiati da imprese italiane e multinazionali in tutto il mondo. I più bravi vengono contattati e “prenotati” già prima della tesi: quasi quattro su dieci risultano già occupati in azienda il giorno della laurea.

QUANDO TROVANO LAVORO?

L’87,2 % dei laureati trova lavoro entro 6 mesi dalla laurea. Il 92,9% entro i 12 mesi.

Entro 6 mesi INGEGNERIA ARCHITETTURA DESIGN ATENEO

88,5%

84,1%

85,0%

87,2%

Entro 12 mesi INGEGNERIA ARCHITETTURA DESIGN ATENEO

96,7%

85,3%

88,2%

92,9%

QUANTO GUADAGNANO? (in Euro)

Un neoassunto alla prima esperienza guadagna in media 1451€ al mese. 1587

INGEGNERIA

1098 ARCHITETTURA

1338

1451

DESIGN

ATENEO

L’ultima indagine occupazionale (2016) sui laureati del Politecnico ad un anno dal conseguimento del titolo di studio è stata svolta dal Politecnico di Milano (Career Service, AlumniPolimi Association e Servizio Studi) in collaborazione con Demetra Ricerche. Le interviste si sono svolte sia in modalità on line che telefoniche e hanno raggiunto il 76,3% dei Laureati Magistrali italiani, il 52,7% dei Laureati magistrali stranieri e il 71% dei Laureati triennali.

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CHE TIPO DI CONTRATTO HANNO?

TIPOLOGIA DI ATTIVITÀ Dipendente

INDETERMINATO

Autonomo

INGEGNERIA 94,8% ARCHITETTURA 63,9% DESIGN 83,1% ATENEO 86,5%

DETERMINATO APPRENDISTATO STAGE ALTRO

10,4%

50,2%

4,9%

17,6%

ATENEO

16,9%

A 12 mesi dalla laurea il 50,2% degli Alumni ha un lavoro a tempo indeterminato. CHE TIPO DI AZIENDE SCELGONO? Piccola impresa: meno di 50 dipendenti, fatturato annuo non superiore a 7 milioni, o totale di bilancio annuo non superiore a 5 milioni di euro

Media impresa: meno di 250 dipendenti, fatturato annuo non superiore a 40 milioni di euro, o totale bilancio annuo non superiore a 27 milioni di euro

Grande impresa: con 250 o più dipendenti, o con meno di 250 effettivi ma con un fatturato superiore a 50 milioni di euro e un bilancio superiore ai 43 milioni di euro

40,5%

30,9 %

4,1 % 29,1 % 38,1 %

ATENEO

INGEGNERIA

83,8 %

12,1 %

14,9 %

ARCHITETTURA

DESIGN 25,0 %

28,6 %

32,8 %

Per vedere i dati occupazionali per ciascun corso di laurea si veda il sito del Career Service: http://cm.careerservice.polimi.it/dati-occupazionali/

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60,1 %


TOP 5 PAESI DI DESTINAZIONE

Il 10% degli Alumni lavora all’estero. Nazioni i cui sono presenti gli Alumni Top 5

QS WORLD UNIVERSITY RANKINGS 2017 QS World University Rankings by Subject è una delle classifiche internazionali di riferimento delle università. Nel 2017 riconferma per il terzo anno consecutivo il Politecnico di Milano come prima università italiana nell’area Engineering & Tecnology e 24° al mondo.

Ateneo in Italia (terzo anno consecutivo)

53°

Employer reputation (+10 posizioni rispetto al 2016)

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74°

migliore università in Europa (+11 posizioni rispetto al 2016)


IO SONO SEMPRE QUI, MA NON MI LAUREO MAI (Piazza Leonardo da Vinci)

Abbiamo incontrato Angelo Corbetta, l’uomo in papillon che dal bancone dello storico HARP PUB ha visto passare generazioni di studenti di Valerio Millefoglie - Foto Cosimo Nesca

Il Corbetta solleva lo sguardo verso l’alto e guarda il padre che veglia sopra di lui, nella foto incorniciata sulla parete dell’Harp Pub, piazza Leonardo da Vinci al numero 20. Il locale ha aperto nel 1976, e quell’epoca, qui dentro, non è mai passata. Il Corbetta ha sessantasei anni ed è l’uomo in papillon dietro la cassa, quello che

chiede “Cafferino?”, che passa dietro il bancone come un’apparizione e poi scende giù nella sala ristorante. Il padre Riccardo è un’icona illuminata dalla luce dell’abat-jour, qualche avventore lo scambia per il ritratto di un vecchio premio Nobel, un politico di cui si dovrebbe aver memoria, il Presidente della Repubblica 22 MAP Magazine Alumni Polimi

del Pub. Vicino a lui, ormeggiate ai muri, ci sono imbarcazioni d’epoca, un porto di dipinti fra cui spicca il panorama di Varsavia, soldati napoleonici, in una nicchia la statua di una donna si riflette nei tanti specchi con sopra i nomi di birre, stampe di pubblicità retrò del Bitter, il poster del liquore Baciami Subito, della ditta Vincenzo


Angelo Corbetta, proprietario dello storico Harp Pub inaugurato il 10 giugno 1976 in Piazza Leonardo da Vinci

Bizzi Imola. “La clientela qui ha sempre la stessa età”, racconta Angelo, “Va dai diciotto anni delle matricole ai venticinque anni dei laureandi. Finisce un ciclo e ne inizia un altro”. C’è una linea di confine immaginaria fra i tavoli e il bancone. Ai tavoli ci sono gli studenti, il bancone è il territorio di chi ha sessant’anni, ex studenti,

professori. Una targhetta placcata oro è attaccata proprio a una colonna del bancone e segna che quello è il posto dell’architetto Gatti; nel ’76 si era appena laureato e oggi, come ogni lunedì sera, ordina un Negroni. Nell’84 Gatti organizza la sua festa di matrimonio nello spazio adesso dedicato alla sala ristorante, in quel 23 MAP Magazine Alumni Polimi

tempo c’erano biliardini e ping-pong. Qualche anno dopo il matrimonio, nell’86, l’architetto ristruttura la sala: “Ho immaginato una situazione quasi da teatrino - racconta - divisa su due livelli”. Rimanendo in ambito matrimoniale, Luigi Dadda, ingegnere a cui si deve l’arrivo dell’informatica in Italia, è


stato testimone di nozze del Corbetta e di sua moglie Pina. E i nomi e i ricordi di chi ha frequentato questo posto si accavallano: luminari con la testa fra le nuvole che dopo aver mangiato il panino chiedevano: “Ma ho già mangiato il panino?”, oppure il ragazzo con i più begli occhi di Città Studi, secondo la definizione data da Pina. “Una volta c’era una tenda a dividere lo spazio fra il pub e la sala sottostante - dice il Corbetta - Un giorno vidi alcuni studenti che, camminando a passi felpati s’intrufolavano dietro la tenda. Poi scoprii che il professor Vittoriano Viganò gli aveva assegnato come esercitazione la

ristrutturazione del pub”. La premiazione dei progetti naturalmente fu organizzata al pub, qualcuno degli studenti aveva immaginato di trasformare in un grande blocco d’acciaio suddiviso su due piani. Invece da allora nulla è cambiato. “E nulla deve cambiare”, precisa il Corbetta che aggiunge, “Ogni tanto entra qualcuno, si guarda intorno e lo dice: «Non è cambiato niente». Ieri per esempio è passato un ex studente, non tornava qui da quarant’anni. L’ho riconosciuto, si è commosso e ha chiamato la moglie per dirglielo: «Mi hanno riconosciuto al pub». 24 MAP Magazine Alumni Polimi

Qualcun altro entra e, come in un Ritorno al futuro, ordina panini che sono fuori menù da vent’anni: il Cosacco, la Vecchia Vienna, che aveva l’ingrediente segreto di una fettina d’arancia, il Gourmandise, sparito dopo che questo formaggio francese era diventato introvabile. Oggi a fare i panini in cucina, e dietro il bancone a spillare birra e a fare cocktail, ci sono i due figli del Corbetta, Riccardo e Francesco. Lui invece, seduto alla cassa, in camicia e papillon, occhiali da vista sopra i capelli bianchi, dice: “Io sono sempre qui. Ma non mi laureo mai”.


Tradizione, qualità e innovazione: nel nostro DNA e nel DNA del Politecnico di Milano.

Franco Spotorno

Da tre generazioni coltiviamo questi valori e scegliamo la qualità delle vetture Toyota e Lexus. Ecco perché Spotorno Car offre agli Alumni del Politecnico speciali condizioni di acquisto e di assistenza su tutte le nostre automobili. Verifica la nostra Convenzione sul sito www.spotornocar.it e www.alumni.polimi.it. Vi aspettiamo nei nostri showroom per un trattamento personalizzato.


VERGANTI&PORCINI

ALUMNI DAL MONDO DELLE IDEE Roberto Verganti e Mauro Porcini, il mondo accademico e il mondo del business: l’incontro di due Alumni che raccontano come fare innovazione oggi di Valerio Millefoglie

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La prima idea dell’umanità risale a circa 1.850.000 anni fa: era una pietra scheggiata dall’uomo per darle la forma immaginata, per tramutarla in qualcos’altro dalla pietra, in una tecnologia preistorica. Ci voleva tempo, ci voleva forza, perseveranza. La rivoluzione digitale ha portato oggi l’uomo a vivere in un mondo sovraffollato di idee, che possono essere realizzate velocemente, con pochi sforzi, perseverando giusto qualche attimo. Aspiranti innovatori, startupper che appena partiti arrivano allo stop, imprese che propongono servizi che si rivelano essere tutt’altro che grandiosi. In un panorama di questo tipo come si può emergere e innovare realmente? Come si può fare design in un mondo in cui avere un’idea non ha più lo stesso valore assoluto di un tempo? Come


Roberto Verganti DOCENTE DI LEADERSHIP ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA ELETTRONICA

navigare fra tutte queste idee senza perdersi? Per trovare delle risposte l’Alumnus Roberto Verganti, ora docente di Leadership&Innovation del Politecnico, ha scritto un saggio che nel titolo contiene proprio la parola sovraffollamento: Overcrowded. Il sottotitolo aggiunge: Designing Meaningful Products in a World Awash with Ideas. Esperto di innovazione per brand come Procter & Gamble, Samsung, Fca e Gucci, il suo precedente libro, Design-Driven Innovation, è stato tradotto in sei lingue, tra cui cinese, giapponese e russo, ed è stato insignito del Best Desing an Innovation Books 2009. Proprio nell’aula magna Carassa-Dadda del Politecnico Bovisa si è tenuto un incontro a tema. Fra gli intervenuti, oltre a Verganti, anche Mauro Porcini, chief design officer di PepsiCo New York, Alumnus del Politecnico. Il pubblico riempie

“La gente non ama un prodotto che tu stesso, produttore o ideatore, non ami. E le imprese non hanno bisogno di nuove idee ma di valori” 27 MAP Magazine Alumni Polimi

tutti i posti a sedere. Una studentessa confessa quello che sembra essere il timore di molti suoi coetanei: “Sono spaventata dall’idea di non avere idee vincenti”. Ed è proprio per questo che tutti sono qui, per scoprire il meccanismo delle buone idee. “L’innovazione in un mondo buio è la luce”, dice Roberto Verganti. Introduce così la luminosa case-history di Yankee Candle, un’azienda che ha portato al successo un prodotto che sembrava obsoleto e poco efficiente come le candele. “Dal 1975 al 2010 c’è stato un incremento del consumo di candele - spiega Verganti alla platea - Le persone le amano. Eppure le candele non sono meglio della luce elettrica. Perché? Perché ci portano in un mondo romantico, non sono la migliore soluzione al buio, ma forse sono la strada per creare un’atmosfera più bella di una


lampadina accesa. In poche parole, donano un emozione”. La strada da percorrere dunque non è quella di trovare soluzioni a problemi, il focus è sulle persone e sulle esperienze reali. “Bisogna passare dalla innovation of solutions alla innovation of meaning”, afferma Verganti. Il suo motto è ‘‘from people to people’’, perché spiega “La gente non ama un prodotto che tu stesso, produttore o ideatore, non ami. E proprio per questo motivo le imprese non hanno bisogno di nuove idee ma di valori”. Mauro Porcini, parte proprio da questa visione individuale e legata ai valori: “L’idea può arrivare in qualsiasi momento, magari una mattina, prima di venire al lavoro, accompagni tuo figlio a scuola e nel tragitto osservi qualcosa. Dalla tua esperienza e visione nasce qualcosa che può parlare a più persone. L’innovazione si basa su tre pilastri: i sogni e i bisogni delle persone, la tecnologia e il business. L’idea è una triade che nasce sempre da uno di questi tre mondi”. E per farla funzionare cosa serve? “C’è stata una grande svolta con l’avvento del digital - continua a spiegare Mauro Porcini - Prima le campagne pubblicitarie imponevano il brand, erano aspirazionali, nel senso che tu spettatore potevi solo aspirare a quella vita, a quelle esperienze che fruivi in modo

passivo. Oggi invece le marche non sono più su un piedistallo, devono saper raccontare una storia, creare esperienze e percorsi. Sono sul palcoscenico 24 ore su 24”. Una delle slide finali mostrate da Verganti durante il suo intervento è tratta da una citazione del filosofo Umberto Galimberti: “Dobbiamo saper interpretare la vita”. Saperla interpretare al di là dei numeri, dei Big Data, dei focus group; bisogna saper osservare ciò che avviene ogni giorno, a ognuno di noi.

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‘‘L’innovazione si basa su tre pilastri: i sogni e i bisogni delle persone, la tecnologia e il business. L’idea è una triade che nasce sempre da uno di questi tre mondi’’


Mauro Porcini CHIEF DESIGN OFFICER PEPSICO ALUMNUS POLIMI DISEGNO INDUSTRIALE

LE MILLE LUCI DI NEW YORK E DI MAURO PORCINI

“Le marche devono saper raccontare una storia, creare esperienze e percorsi. Sono sul palcoscenico 24 ore su 24”

“Dreams can come true with vision, passion, optimism, resilience and curiosity”, si legge sulla sua pagina Twitter. E i sogni cominciano all’alba di tanti anni fa, quando Porcini si svegliava in quel di Varese per prendere autobus, treno, metropolitana, insieme a due borse: quella dell’università e quella del calcio. La partita si giocava su più campi. “Alle superiori amavo la letteratura, la filosofia ed ero combattuto. Guardavo ad Architettura come alla facoltà con più sbocchi lavorativi. Poi un mio compagno di classe mi chiamò e mi disse che avevano appena ideato un nuovo corso di disegno industriale al Politecnico. Scoprii così che la facoltà che sognavo esisteva”. Padre architetto, madre amante della letteratura e nonno pittore. “Era un sognatore - dice - non voleva mai vendere i suoi quadri”. Oggi tramanda valori e creatività di famiglia dalla città delle mille luci. 29 MAP Magazine Alumni Polimi


UN LIBRO SUL DOMANI. DA LEGGERE OGGI.


BEPPE SEVERGNINI

CORRIERE DELLA SERA - 11/01/2017 Le grandi università americane, pur disponendo di patrimoni impressionanti, chiedono molti soldi agli studenti e alle loro famiglie. Costo annuale per insegnamento (tuition) e alloggio (room and board), qualche esempio: Yale $47.600, Brown $48.272, Columbia $50.526, University of Chicago $64.965, New York University $65.860. E’ normale indebitarsi per gli studi, negli USA. Eppure i laureati (Alumni) portano la propria università nel cuore. E nel portafoglio. Se diventano ricchi, si ricordano da dove sono venuti, con donazioni e lasciti. In Italia, siamo ancora principianti; ma qualcosa si muove. (...) il Politecnico di Milano ha chiesto infatti a 87 laureati di successo come «progettare se stessi nel domani». Anzi, nel dopodomani: il titolo del volume è Verso il 2099. Sebbene siano presentati come «Top Influencers», gli Alumni del Politecnico hanno risposto. Cose intelligenti, devo dire

ALESSANDRA TRONCANA

CORRIERE INNOVAZIONE - 26/01/2017 “Io speriamo che me la cavo”: loro se la sono cavata benissimo. Il Politecnico di Milano ha chiesto a 87 dei suoi ex Alumni eccellenti come progettare se stessi nel domani o, meglio, nel dopodomani: si parla del 2099. Le risposte sono finite in un libro, qui le dieci più interessanti

Un libro di consigli che immagina e racconta il futuro agli studenti e alle loro famiglie, a chi ha voglia di riflettere sul proprio percorso professionale, a chi desidera conoscere il punto di vista di una parte importante della classe dirigente italiana o semplicemente a chi si sente parte della grande community politecnica.


MISSIONE: SALVATAGGIO IMPRESE DI UNA VITA Guglielmo Fiocchi, Alumnus 1986, racconta come fare impresa oggi, seguendo il made in Italy e spingendosi oltre i confini dell’innovazione di Valerio Millefoglie


Guglielmo Fiocchi è tra gli investitori di Design Italian Shoes, una startup marchigiana di scarpe artigianali realizzate su misura del cliente. L’utente può scegliere online 45 milioni di combinazioni diverse.

GUGLIELMO FIOCCHI CEO DI GF4BIZ ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA AEROSPAZIALE

“Mi piace l’idea di costruire qualcosa. Sono uno che costruisce, sono un ingegnere, noi dobbiamo costruire, dobbiamo avere un progetto”

Si è laureato in ingegneria aerospaziale con la professoressa Amalia Ercoli-Finzi. La tesi era sul satellite tethered. Da allora ha gravitato per oltre venticinque anni nel mondo dell’automotive, passando dal gruppo Pirelli a Sogefi, dalla Germania alla Spagna, all'Inghilterra. Poi, nel 2015 ha aperto la GF4biz, un ufficio che non c’è. “La sede dell’azienda sono io - spiega - Non ho un ufficio. Sono la dimostrazione che non serve più nulla. Bastano un pc, un cellulare e una chiavetta per collegarmi a internet. Potrei essere anche in mezzo a un prato a lavorare”. Le sue giornate lavorative però non sono ambientate in parchi e giardini, con la GF4Biz si occupa di ristrutturare e risanare aziende in difficoltà. Guglielmo Fiocchi è consulente industriale e appassionato investitore in progetti come Design Italian Shoes, un’impresa che realizza scarpe disegnate dal cliente e fatte a mano da maestri artigiani italiani. Ci accoglie

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a casa sua alla fine di una giornata di lavoro. Sul tavolo del salone ci sono ancora gli appunti, posati sul famoso pc. Arriviamo al dunque. Cosa porta un’azienda al fallimento? Un insieme di investimenti sbagliati e di gestione di livello non eccelso. A volte sono casi di troppo amore verso l’azienda, l’imprenditore ha investito troppo, come si dice ha fatto il passo più lungo della gamba. Certe volte sono imprenditori che non hanno mai reinvestito, hanno sempre preso i dividendi fino a che l’azienda si è spenta. Altre volte ancora si tratta solo di sfortuna perché è arrivato un competitor o sono cambiate le leggi. Qual è la prima cosa che lei fa quando arriva in una di queste aziende? Controllo la cassa. Non è bello, non è poetico, ma bisogna mettere quei pochi soldi che si han-


no sulla cosa più importante. Ci sono aziende che non hanno soldi per pagare i fornitori e si è lì a contare i cinquemila euro. Dunque prima di tutto bisogna garantire la sopravvivenza per i prossimi sei mesi, poi bisogna fornire un piano industriale che sia affidabile e che non sia dei sogni, perché purtroppo molti, sempre per il troppo amore, fanno dei piani a occhi chiusi, sognando. Poi devi convincere gli altri, devi smuovere le banche a credere in quel piano, devi trovare investitori e fondi disposti a entrare. Infine devi mettere tutti d’accordo, certe volte c’è anche un tribunale che giudica se vale la pena, se il piano è affidabile. Guardi i numeri. Fai domande. Ascolti. Vai a parlare con i clienti, cerchi di capire come viene vista l’azienda, quali i punti forti e quali i deboli. Non puoi avere la fotografia fatta solo dalle persone interne dell’azienda. Certe volte hai tre, quattro mesi, altre volte otto mesi o un anno. Finora le ho salvate tutte. Qual è il segreto per fare im-

presa, e naturalmente farla funzionare? Avere un’idea forte non basta. La differenza la fa l’execution. Un’idea fortissima non funziona se ad esempio non hai dei fornitori affidabili. Tanti vanno in Cina perché devono stare bassi con i costi, ma i ragazzi di una startup non hanno esperienza per negoziare in Cina. Pensano di fare tutto in tre mesi e ci impiegano un anno perché magari lo stampo non viene bene. In Europa devi fare progetti che mirano ad alti di gamma. Se giochi solo sui costi perdi sempre rispetto agli asiatici. Devi vendere delle esperienze. Un approccio strutturato e internazionale è il giusto completamento all'italianità, che è fatta di innovazione, design è qualità. Ed è quello che fate con Design Italian Shoes. Il progetto mi è piaciuto tantissimo perché lega l’artigianalità italiana all’innovazione. Tutto è fatto nelle Marche, in un raggio di venti chilometri, con fornito-

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“Un approccio strutturato e internazionale è il giusto completamento all'italianità, che è fatta di innovazione, design è qualità”


ri davvero a chilometro zero. Il cliente può configurare la sua scarpa online. Ci sono 45 milioni di scarpe diverse che si possono ottenere grazie a un configuratore in 3D, un po’ come quando compri l’automobile e scegli gli accessori. C’è la possibilità di scegliere lacci, occhielli, fodera, il tipo di suola, si può scegliere se imprimere la propria sigla, o anche fare la destra diversa dalla sinistra. Il gestore di tutto il processo è direttamente il software del sito web. Quindi la specifica per il fornitore parte in automatico dall’ordine del cliente. Il software è stato sviluppato da uno dei tre ragazzi che hanno ideato la startup. C’è un mix quindi di tradizione e di altissima tecnologia, e in meno di quattro settimane le scarpe sono pronte. Quello che è interessante è che noi del team di investitori non è che mettiamo i soldi e ce ne andiamo. Seguiamo il progetto mettendo in campo esperti di retail, di business, di finanza, di moda e design, ognuno offre il suo apporto in modo che l’azienda possa crescere. La prima volta, con i

ragazzi di Design Italian Shoes ci siamo incontrati ovviamente via Skype. Poi ci siamo incontrati a casa mia, sul divanone, seduti per terra. Ad oggi vendiamo già in trentuno paesi del mondo e stiamo aprendo accordi in Russia, Svizzera, Cina. Mi piace l’idea di costruire qualcosa. Sono uno che costruisce, sono un ingegnere, noi dobbiamo costruire, dobbiamo avere un progetto. Non si può andare a timbrare il cartellino e questo è un bellissimo progetto. Cosa si porta dietro dai suoi anni al Politecnico? Mi ha sicuramente insegnato a essere serio e competente. Al Poli non puoi vendere fumo, e così anche nel mondo del business. Poi impari a non sentirti un padreterno, la media è eccezionale. Magari al liceo nella tua cittadina ti sentivi una star. Quando arrivi al Poli essere bravi è del tutto normale. Ho imparato anche ad essere costante. Ma questa cosa me l’ha insegnata anche il tennis: uno sport

La libreria di casa Fiocchi. I volumi d’epoca ereditati dalla biblioteca di famiglia e un manuale di coaching partendo dal tennis.

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micidiale, dove non hai scuse, non c’entra l’arbitro, il tuo compagno, la palla che è rimbalzata male. Lì o vinci o perdi e sei da solo. Quello che manca è la sensazione di fare squadra, però si acquisisce tramite altre cose. Dalla libreria di casa Guglielmo Fiocchi estrae due libri: Il Gioco Interiore nel Tennis, Coaching. Poi li rimette a posto vicino a una pila di volumi antichi. Sono un’eredità di famiglia, manuali che raccontavano come fare impresa a fine ‘800, primi del ‘900. Ai piedi della libreria c’è una sorta di monopattino elettrico per spostarsi velocemente in città. Si parte da qui, dalla velocità e dal sapersi fermare a studiare e poi ripartire.

“Al Poli impari a non sentirti un padreterno, la media è eccezionale. Qui essere bravi è del tutto normale”


La Zerouno è la prima autovettura di serie stradale venduta al pubblico da Italdesign Automombili Speciali

FILIPPO PERINI DIRETTORE CENTRO STILE ITALDESIGN ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA MECCANICA

Motore V10 5.2 aspirato 0-100 km/h in 3,2 secondi Velocità massima di 330 km/h

Telaio modulare in fibra di carbonio e alluminio


LA MACCHINA DEL FUTURO È GIÀ QUI Sogni e disegni di Filippo Perini, ideatore di supercar così veloci da volare nel domani

di Valerio Millefoglie

“Sono sempre stato attirato dall’ingegneria raccontata in pellicole come Star Trek, Star Wars, scenari futuribili”

In un faldone portadocumenti Filippo Perini conserva vecchi ritagli di giornali. “Da piccolo inviavo disegni di auto e moto a tutte le riviste di settore”, racconta mentre lo apre e mostra un articolo uscito su Gente e Motori del 1979. Il titolo è “Volere è potere”, il giornalista scriveva: “Filippo Perini ha tredici anni e disegna con mano sicura. Bravo, hai fantasia, hai buona mano. Quella dell’Istituto tecnico industriale è stata una buona scelta, però non farti troppe illusioni sulla carriera del designer” Trentotto anni dopo, una laurea in Ingegneria Meccanica al Politecnico di Milano, Filippo Perini continua a disegnare con mano sicura: prima per il Centro Stile Alfa Romeo, poi in Audi dove diventa capo del design e oggi in Italdesign, nel ruolo di direttore del Centro Stile. La mano sul foglio ha tracciato progetti di concept car che dalla carta sono finite su strada, GranTurismo e Lamborghini, nomi epici come Asterion, che richiama le figure mitologiche dei minotauri, e Nuvola che ricorda miti italiani come Tazio Nuvolari. Saloni internazionali di Ginevra, di Parigi e saloni della Italdesign dove Perini ha immaginato la Zerouno, una supercar capace di raggiungere i 330 km/h, pro-

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dotta in soli cinque esemplari; e Pop.Up, una macchina che non è solo una macchina, la sua strada è il cielo. Partiamo proprio dai disegni e dalle lettere che inviava alle riviste, com’è nata la passione per il disegno di veicoli? Penso che ci sia un gene misterioso, vengo da una famiglia normalissima, mia madre faceva la maestra e mio padre era camionista. Sono stato il primo laureato della famiglia. Abitavo a Bobbio, in provincia di Piacenza, e dalle mie parti se dicevi che volevi fare il designer ti dicevano Cos’è che vuoi fare? Te vai a lavorare! Scrivevo a Gente e Motori, a Tutto Moto e inviavo i miei disegni, dalle auto sportive alle moto da cross e da strada. Mi piacevano i prototipi futuristici, i lavori di Marcello Gandini. Mi inventavo anche i nomi, come Fudro. In classe disegnavo sempre motori così la maestra un giorno mi disse arrabbiata: «Adesso devi fare qualcosa di diverso». Uscii e cominciai a disegnare un ospedale che avevano appena costruito di fronte alla scuola, una bellissima architettura, però lo disegnai inserendo anche il parcheggio e tutte le auto. Ricordo poi che


In questa pagina e nelle seguenti bozzetti originali della Zerouno e di Pop.Up disegnati da Filippo Perini

da bambino guardavo film che potrei definire di fantascienza preistorica, come Metropolis di Fritz Lang, rimasi affascinato da questa città ipotetica, dove c’erano un sacco di oggetti che si muovevano. Sono nato nel 1965 e sono sempre stato attirato dall’ingegneria raccontata in pellicole come Star Trek, Star Wars, scenari futuribili ma con una minima connessione con la realtà. L’anno scorso ho portato in riunione uno spezzone del film Blade Runner. Ho fatto vedere la scena della vettura guidata da Harrison Ford, il suo atterraggio. Nessuno ricordava di quale marca fosse l’auto. Beh, era una Volkswagen, che fa parte del nostro gruppo. Quello è stato il primo clic, abbiamo iniziato a ragionare sulla creazione di un oggetto capace di muoversi in maniera tridimensionale, facendolo combaciare

con le conoscenze tecniche attuali. Da qui è nata la Pop.Up, in collaborazione con Airbus. Si tratta di una vettura strutturata in tre livelli, con una capsula viaggiante che si aggancia a una base terrestre. Un sistema di intelligenza artificiale gestisce anche un drone, che in caso di traffico stradale aggancia la capsula trasformandola in un vero e proprio veicolo aereo. Sono convinto che nel futuro le aziende dovranno confrontarsi con la capacità di immaginare nuovi prodotti e nuovi servizi, altrimenti rimarranno tagliate fuori. Le aziende di automotive sono sempre state convinte della loro supremazia, sono sempre state granitiche, ma il mercato ci dimostra che una startup può diventare un grande competitor. Come prende forma in questo scenario la Zerouno?

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La Zerouno nasce per una serie di fattori concomitanti e dopo un periodo di crisi. Crisi in greco significa opportunità. Il Dieselgate, lo scandalo sulle emissioni, è stato un momento di shock che però ci ha portati a capire che alcune cose che prima non potevi neanche immaginare potevano invece essere plausibili. Abbiamo chiesto al nostro CEO: “Se prendiamo delle piattaforme del gruppo e, lavorandoci su, creiamo qualcosa di nuovo e le rivendiamo con un’altra marca?”. La sua risposta è stata: “Fate pure”. In quel momento avevo in mente di realizzare un prodotto completamente nostro, per mostrare all’esterno ciò che l’azienda è in grado di fare. Fino ad allora eravamo praticamente dei ghostwriter dell’industria automobilistica. Abbiamo dato vita alla divisione Italdesign Automobili Speciali


Grazie alla Realtà Virtuale combinata con le tecniche di simulazione del Dipartimento di Ingegneria di Italdesign, designer e progettisti sono stati in grado di individuare le soluzioni tecniche ed estetiche più aerodinamiche e di testarle immediatamente, ancora prima di cominciare la costruzione della vettura.

ed è nata la Zerouno. Abbiamo discusso più per che nome darle che per farla. Abbiamo scelto Zerouno perché poi ci saranno la Zerodue, la Zerotre… Chi guiderà i cinque esemplari della Zerouno?

“I clienti di queste auto sono persone che non hanno spento il bambino interiore. Hanno avuto successo nella vita e tendono a rendere reali i propri sogni’’

Il primo cliente è un signore belga di sessant’anni, un imprenditore e collezionista. Il secondo è un ragazzo russo che tra le varie attività ha quella della compravendita di vetture, dunque ci ha visto un investimento. Il terzo è un ragazzo cinese, di Honk Kong. Ha trent’anni e l’attività di famiglia è costruire grandi grattacieli in Cina. È un collezionista di auto e ne ha prese due, la seconda è per un suo amico o per un fratello. Sta pensando di prenderne una terza. In generale sono persone che non hanno spento il

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bambino interiore. Hanno avuto successo nella vita e tendono a rendere reali i propri sogni. Ci sono collezionisti che intorno a una vettura ci costruiscono letteralmente un salotto. Sono auto che percorrono duecento metri, vengono parcheggiate magari fuori da un hotel, il proprietario ci fa una passeggiata intorno, poi mica la usa. Due anni fa è stata calcolata la percorrenza media di una Lamborghini, 7000 km in quattro anni. Praticamente come non fossero mai state utilizzate. Questo utilizzo prettamente edonistico, per voi che lavorate alle vetture affinché siano dei primati, affinché raggiungano i 330 km/h, non è limitante? Come designer non mi concentro sulla tecnica ma sullo stile.


Per me sono sculture in movimento, si tratta di futurismo, proprio nel senso di movimento artistico. La vettura ha forme dinamiche, deve esprimere la velocità. Poi che chi la compri la usi come oggetto di arredamento per metterla davanti al suo divano a me non interessa. Leggere però sulla rivista di settore che in termini di prestazione la performance c’è, allora questo è un valore aggiunto forte. Che legame esiste fra i due progetti, nati praticamente nello stesso periodo, Pop.Up e Zerouno?

Entrambi sono nati da una domanda, ci siamo chiesti: “Quale sarà il mondo dell’automobile del futuro?”. A Ginevra il nostro stand ha cercato di dare una risposta, lo abbiamo chiamato lo Yin e lo Yang, tutto era incentrato attorno a questo tema. Lo spazio era diviso in due parti, una dedicata alla Zerouno e l’altra alla Pop.Up. La Zerouno è la parte emozionale, illogica, il desiderio supremo di dominio dell’uomo sulla macchina. In Pop up invece non c’è alcun desiderio di possesso dell’oggetto, rappresenta la mobilità share, come Uber, come i Taxi,

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non ha neanche il volante. Questi due approcci continueranno a esistere e a coesistere. Quanto più raggiungeremo una mobilità condivisa, tridimensionale ed easy, tanto più ci piacerà andare a utilizzare, magari non su strada ma su piste, queste automobili archeologiche dal punto di vista del concetto ma assolutamente attuali. Nonostante ci circondiamo di digitale io sono convinto che l’uomo sia analogico. Il sole è analogico. E anche la creazione dei nostri prodotti segue dei procedimenti artigianali. A Nichelino abbiamo ancora una quindicina di batti-


lastra che moderano le lamiere a mano. In che modo dunque avete progettato e lavorato alla Zerouno per mantenere questa idea di “auto su misura”? Abbiamo utilizzato il digital moke-up, anche per cercare di ridurre le tempistiche e i costi. Abbiamo usato la stessa metodologia che utilizzavamo al Centro Stile Lamborghini. Ho creato quella che noi chiamiamo un’isola di lavoro, dove i designer aerodinamici collaborano con quelli che si occupano dell’ergonomia e con i tecnici. Dunque le superfici generate dai miei designer venivano immediatamente digerite da chi faceva aerodinamica. I componenti ora sono assemblati a mano dai tecnici che in tempo reale seguono gli standard qualitativi Volkswagen sui terminali. Una volta che l’auto è pronta si concede il primo giro?

“Noi del Poli, finché un progetto non è perfetto, non ci fermiamo, e anche quando ti sei dovuto fermare continui a pensarci”

Il primo giro in auto non l’ho ancora fatto. Io conosco la macchina, so esattamente come performa e non è quello il mio scopo. Anche quando lavoravo con Lamborghini non ho guidato spesso le macchine. A meno che non fossero vetture di test. Usare una macchina di quel valore su strada aperta, considerando che puoi arrecare un danno, non è divertente. Preferisco divertirmi con la mia macchina piuttosto che avere il patema di guidare un oggetto che io personalmente valuto solo se portato al limite. Io poi ho un rapporto di odio amore con le auto, quando le distruggi, quando ti lasciano a piedi, quando devi tribolare per far diventare vera la cosa che avevi immaginato. Come si vive proprio questo tribolare, questo passaggio dalla visione alla realtà?

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Quando ho portato la scena di Blade Runner in riunione mi sono detto che probabilmente avevo esagerato, e invece non si è esagerato per niente. I fratelli Wright hanno immaginato il volo a fine Ottocento. Durante la prima guerra gli aerei già volavano e bombardavano. Oggi abbiamo le capacità tecnologiche, è solo un problema di fondi. Tornando indietro al periodo subito dopo le lettere inviate a Gente e Motori, che ispirazione pensa le abbia dato il suo percorso di studi? Mentre ero ancora studente e mi stavo laureando con una tesi dedicata agli interni automobilistici condotta proprio nel Centro Stile Alfa Romeo, ho ideato per charity una vettura che ricorda molto l’idea di Pop.Up. Mi ero inventato un auto con dei fissaggi, la capsula veniva portata via, non c’era un drone perché non esistevano ancora, ma c’era una specie di sistema che poteva trasportare il modulo su un aereo e caricarlo su un treno. Il telaio era a batterie elettriche ed era un telaio unificato in tutto il mondo, l’idea era che tu eri proprietario solo della capsula, che era una vera e propria cellula abitativa. Il progetto si chiamava Bird House. Poi, se devo dire la cosa che ho imparato di più al Poli è quella sana forma di autolesionismo che non ti permette di fermarti mai. Quando gli altri cominciano a essere stanchi tu ne hai ancora. L’ingegnere è uno che non si accontenta mai. Un ragazzo che lavora con me, anche lui Alumnus del Poli, condivide lo stesso approccio: finché non è perfetto non ci fermiamo, e anche quando ti sei dovuto fermare continui a pensarci.


L’UOMO CHE SENTE IL POLSO DELL’AMERICA CON UN’APP Antonio Tomarchio, una laurea in Ingegneria matematica nel 2007 al Politecnico di Milano, è fra i primi startupper del nostro Paese. Ha fondato Beintoo, l’azienda innovativa italiana a maggiore crescita secondo la Deloitte Technology Fast 500 Emea 2016. Dalla sede della sua nuova società in America, ci ha raccontato dove tutto ha avuto inizio di Nicola Feninno Siamo a Giarre, Catania, Sicilia. Nell’immagine fornita da Google Street View si vede una piazza elegante, contornata di palme. In fondo si scorge un pino marittimo. Il mare dista solo un paio di chilometri. Alle spalle c’è l’Etna. Ci sono tre bambini con una maglietta azzurra. Zoom, scopriamo che il bambino in realtà è sempre lo stesso. Con ogni probabilità sta correndo. La macchina fotografica montata sulle automobili di Google l’ha immortalato in tre momenti, in un solo scatto. Antonio Tomarchio è nato qui nel 1982. A 19 anni si è trasferito a Milano, per studiare al Politecnico, Ingegneria matematica. Nel 2011 ha fondato una startup, Beintoo, che l’anno scorso è risultata la startup

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con la maggior crescita in Italia. Antonio ora vive a New York; abbiamo un appuntamento su Skype per le 14.00, ora italiana. Lì sono le 8.00; è appena iniziata la sua giornata lavorativa. Il nostro dialogo inizia dall’infanzia, dalla Sicilia. “Da bambino la mia passione era costruire le cose da zero. Da grande mi sono fatto l’idea che a Milano fosse possibile. Per cui sono partito, anche se a Giarre stavo bene: gli amici, il mare a due passi, mi ricordo delle grigliate fantastiche in spiaggia il 25 aprile. Ma ero affascinato dalla città. Volevo una carriera internazionale: e ho pensato che il Politecnico fosse una realtà che mi avrebbe permesso questo. Col sen-


ANTONIO TOMARCHIO FOUNDER DI BEINTOO E QUEBIC ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA MATEMATICA

no di poi, avevo ragione. Scelgo Ingegneria matematica: il corso è stato istituito proprio l’anno in cui mi sono iscritto io”. Settembre 2001: Antonio si trasferisce a Milano. Poi, nel 2003, una parentesi di due anni a Parigi. “Nel 2003 arrivo all’École Centrale, tramite il programma “Time” del Politecnico. Ci ho passato due anni. Bellissimi. Si viveva in un campus universitario all’americana. Durante l’ultima estate che trascorro lì, entro in contatto con un avvocato di San Diego, che ha un’intuizione. Secondo lui, se si mappa la rete di citazioni di casi legali – in America il sistema giurisprudenziale si basa sulla Common Law, quindi sui precedenti – ecco, questa rete potrebbe risultare paragonabile al World Wide Web.

Dunque sarebbe stato possibile utilizzare algoritmi simili a quelli di Google per le ricerche legali. L’idea mi piace. E diventa la mia tesi di laurea. Dimostro che l’intuizione dell’avvocato era fondata. Lui raccoglie 100mila dollari. Io creo un team. Chiamo Walter Ferrara, una persona davvero in gamba con la programmazione e il coding: era stato mio compagno alle scuole medie e al liceo. Poi sento Filippo Privitera, un altro amico, anche lui siciliano. Un professore del Politecnico mi segnala William Nespoli, che stava studiando Ingegneria informatica al distaccamento del Poli di Como. Insieme lavoriamo bene: l’iniziativa è un successo nell’ambito accademico. Ma non può funzionare a livello commer-

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Technology Fast 500 EMEA è una delle più autorevoli classifiche del settore tecnologico. Premia gli sforzi e la dedizione delle aziende appartenenti a più di venti Paesi dell’area EMEA che hanno registrato il più alto tasso di crescita dei ricavi negli ultimi 4 anni. BEINTOO si è classificata al primo posto della classifica italiana, con una crescita del 2068%. “Le 10 aziende italiane che rientrano nei Fast500 sono la conferma che il nostro Paese è in grado di competere in un contesto internazionale caratterizzato da una forte tendenza a innovare – ha affermato Alberto Donato, Partner Deloitte e responsabile italiano Technology Media & Telecommunication (TMT).


ciale. A quel punto, però, avevo un team. Eravamo tutti appena laureati; qualcuno stava ancora finendo gli studi. La mia proposta è stata: ‘‘Facciamo qualcosa insieme?’’ Così nasce AdRight una piattaforma che permette di processare anonimamente i dati di navigazione associati ai cookies di alcuni siti. Oggi è pratica comune, allora, nel 2007, l’idea era assolutamente pionieristica, in Italia non lo faceva nessuno. La sede era in uno scantinato, in via Spartaco, a Milano. Sembra un cliché ma è andata davvero così”. Quattro anni dopo: un’altra idea, e un’altra svolta lavorativa. “Nel 2011 capiamo che il futuro era su mobile. Così creiamo Beintoo. L’idea era avere pubblicità ancora più mirata, incrociando dati on-line e dati off-line degli utenti, geolocalizzazione,

distanza dai punti d’interesse, frequenza di visita su un sito, frequenza e modalità di utilizzo di una app. In Europa il concetto di metriche era agli albori: noi facevamo quello. E cresciamo molto rapidamente: al secondo anno Beintoo supera il milione di euro di fatturato. Arriviamo nel 2013, e io decido di tentare la via americana. Era novembre. Io ero sposato da 4 mesi. Avevamo appena preso casa in zona Palestro. Mia moglie ha deciso di venire con me. Ora abbiamo una bambina, si chiama Clara, ha 2 anni, ed è la prima americana della famiglia”. Oggi Antonio Tomarchio è il CEO di Cuebiq, una società spin-off di Beintoo. “Il nostro obiettivo è quello di diventare la più importante società di location intelligence e human mobility intelligence al mondo. Cuebiq

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è una società ambiziosa. Non lo nascondo”. Continua, “Ci occupiamo di Location intelligence e human mobility intelligence. Nel concreto significa che oggi è possibile sviluppare un’enorme raccolta di dati aggregati tramite gli smartphone. In maniera assolutamente anonima. Questo è importante sottolinearlo: non

‘‘Era il 2007; l’idea era assolutamente pionieristica, in Italia non lo faceva nessuno’’


ci interessa assolutamente l’individuo; ci interessano i trend, i grandi numeri. Noi siamo partiti dal marketing. Ma questi dati permettono di dare delle risposte precise a domande importanti per la collettività: dove potrebbe investire una società di trasporto pubblico per migliorare i suoi servizi? Come si potrebbe evitare il traffico nelle ore di punta? Come si diffonde una malattia? Qual è il vero tasso di disoccupazione? Sono tutte domande a cui si possono dare risposte analizzando come si muovono le persone nel mondo off-line. Praticamente scattiamo una fotografia di quello che succede in America, in costante evoluzione. Mi piace dire che tastiamo il polso dell’America”. Viene da pensare all’immagine di quel bambino nella piazza di Giarre, con la maglietta azzurra, troppo veloce per gli strumenti di Google. La sede dell’azienda di Tomarchio è in Madison Avenue, al 79. Su Street View si vede una strada trafficata, i taxi gialli, molta gente sui marciapiedi, le bandiere americane issate sulla facciata di un Carlton Hotel. A questo punto gli chiedo se c’è una persona di cui vorrebbe seguire gli spostamenti off-line, come fosse una mosca. “Mi piacerebbe seguire Elon Musk. Seguire la sua giornata lavorativa”. Nel 2016 Elon Musk era al ventunesimo posto nella lista delle persone più potenti al mondo secondo Forbes. “È incredibile come stia innovando in settori economici giganteschi, avendo successo in tutti. Space X per l’esplorazione spaziale; Te-

sla sta rivoluzionando il mondo delle auto elettriche; SolarCity nel campo dell’energia solare. È incredibile quell’uomo. Ho letto moltissimo su di lui. Pensavo: questo non farà altro che lavorare, giorno e notte. Invece ha anche 5 figli; e sembra che passi tutti i weekend con loro”. Torniamo alla visione del mondo di Google Street View. Piazza Leonardo da Vinci, Milano, da qui la piazza di Giarre dista 994,6 chilometri. Madison Avenue, New York, dove si trova Antonio Tomarchio, dista 6466 chilometri. E questa è tutta la strada che ha fatto sino ad oggi.

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‘‘Siamo partiti dal marketing, ma questi dati permettono di dare risposte precise a domande importanti per la collettività: come si diffonde una malattia? Qual è il vero tasso di disoccupazione? Mi piace dire che attraverso la nostra analisi tastiamo il polso dell’America’’


FRA VENT’ANNI SAREMO TUTTI DIGITALI NATURALI INTERVISTA A PAOLA SCARPA di Valerio Millefoglie

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Paola Scarpa DIRECTOR GOOGLE ITALIA ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA GESTIONALE

“Senz’altro

quello che continuerà ad esserci saremo noi: le persone. Alle macchine che prendono il sopravvento non ci credo”

Paola Scarpa è Director in Google Italia. Una laurea in ingegneria gestionale nel 1993 e una strada che l’ha portata sempre nei luoghi dell’avanguardia: nelle prime compagnie di telecomunicazione mobile e nel primo motore di ricerca al mondo. La incontro un lunedì mattina proprio nella sede di Google Milano. Mentre ci dirigiamo verso la Google Trattoria per un caffè racconta: “Mi sveglio molto presto, vado a correre con il cane, torno a casa, faccio la doccia e vengo in palestra”. Un lapsus, l’ufficio è una palestra perché ogni giorno ci si allena. Qui infatti ci sono dei binari disegnati e riprodotti sul pavimento del primo piano, ci camminiamo sopra e ci portano in una stanza dedicata alle riunioni informali e denominata "House". Le parole continuano a scambiarsi di significato, alle pareti sono appesi una serie di piatti, prendiamo posto a un tavolo alto da cucina senza la cucina.

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Fuori c’è la vista di porta Nuova, il bosco verticale, ma siamo qui per immaginarci cosa ci sarà dopo. Un domani. Mi piacerebbe partire da qui. Fisicamente da qui. Siamo in un ufficio. Siamo nel 2017. Spostiamoci nel tempo, andiamo al giugno del 2037. Cosa immagina ci sarà qui, nel posto esatto in cui siamo seduti ora noi? Senz’altro quello che continuerà ad esserci saremo noi: le persone. Sicuramente ora c’è una grande evoluzione tecnologica in atto ma alle macchine che prendono il sopravvento non ci credo. Credo però che ci sarà sempre più una coesione tra persone e macchine. Quindi mi aspetto che qui, in futuro, ci saranno degli assistenti che gironzoleranno per gli uffici, degli assistenti virtuali che magari ci serviranno del caffè. Ci riflettevo ultimamente, una


In questa foto e nelle pagine seguenti immagini degli uffici Google sparsi nel mondo

delle competenze che l’università dovrebbe dare non è tanto la competenza tecnologica, quella diventa in un attimo obsoleta, ma la capacità di apprendere sempre cose nuove, insegnare a essere flessibili. Non sappiamo esattamente cosa accadrà fra venti anni, ma se si ha la capacità di non chiudersi e di provare a cavalcare l’onda, sarà un’esperienza stupenda. Mi aspetto che cambieranno molte cose, ma vedo che spesso le aziende hanno timore di questo cambiamento. Noto un’attitudine strana: come persona sei aperta al cambiamento, tutti hanno lo smartphone, utilizzano il tablet, poi in azienda si cambia modalità, si torna a quella tradizionale, non si parla di cloud, ci sono giardinetti chiusi, il sistema di gestione è anacronistico. Come persona accetti i cambiamenti, come azienda no. C’è chi dice: «Se per trent’anni si è fatto così non devo cambiare altrimenti rischio». Senza capire però che invece così si rischia di portare l’azienda al fallimento. Proprio in questi giorni, a Helsingborg,

in Svezia, ha aperto il Museo del Fallimento. Un’esposizione universale di insuccessi. Comprende oltre sessanta prodotti che testimoniano il rischio del business dell’innovazione. L’idea del suo fondatore, lo psicologo Samuel West, è che l’apprendimento è l’unico modo per passare dal fallimento al successo. Ha dichiarato: “Se temiamo il fallimento allora non possiamo neanche innovare. Dobbiamo imparare dagli errori, non solo ignorarli e fingere che non siano mai accaduti”. Così la Colgate non dovrebbe mai dimenticare di quando ha voluto lanciare la pizza surgelata e l’Harley-Davidson di quando ha creato un’eau de parfum. A volte il fallimento è anche essere troppo all’avanguardia rispetto ai tempi. Quindi un prodotto non funziona semplicemente perché l’innovazione è stata lanciata troppo presto. Quando lavoravo nelle telecomunicazioni avevamo lanciato i primi sistemi di mobile ticketing. Ai tempi, a inizio 2000, c’era

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“Non sappiamo cosa ci accadrà, ma l’unico modo per prepararci è essere adattabili e flessibili”


solo la funzione sms. Avevamo creato un’interfaccia grafica più attraente per impostare il messaggio e innescare il dialogo via sms con il sistema. Avevamo presentato la demo a Trenitalia, ma era ancora tutto macchinoso e complicato. Ci sono rischi calcolati che un’azienda può assumersi per tentare di innovare. E bisogna farlo. Quali sono stati i rischi calcolati nella sua carriera? La leva che mi ha portato a compiere scelte in ambito lavorativo è sempre stata la curiosità. Ero cioè curiosa di fare cose che ancora non conoscevo, mi dicevo che se avessi studiato solo la teoria non le avrei mai imparato. Arrivavo dal liceo classico e vedevo gli ingegneri come persone al di sopra, mi sembravano più intelligenti degli altri e dopo un po’ ero stanca di metterli sopra un piedistallo, volevo salirci anche io. Quindi ho fatto il Poli.

Facciamo il gioco al contrario. Andiamo indietro di venti anni. Ricorda la prima ricerca che lei ha fatto su Google? Mi parlavano di Google ma non sapevo a cosa servisse. Un ragazzo che aveva lavorato per me su un progetto in Vodafone si era spostato in Google. Gli chiesi: “Cos’è Google?”. Quindi le prime ricerche che ho fatto su Google sono legate proprio a Google. Ho letto i valori dell’azienda e me ne sono innamorata, ovvero: no pugnalate alle spalle, sì spirito di squadra. Si può lavorare bene anche in un ambiente positivo e privo di terrore. Ho sempre valutato le aziende che avessero questo tipo di imprinting. Nel breve termine il terrore porta risultati perché le persone sono intimorite. Alla lunga, e qui torniamo a parlare di futuro, questo atteggiamento non dà alle persone la possibilità di sbagliare. Dunque la persona ha un andamento lineare in azienda. Se invece

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instilli un clima di fiducia hai dei picchi molto alti, le persone osano e diventano eccellenze. Google è all’avanguardia. Fra vent’anni cosa immagina sarà all’avanguardia? Questa è un’azienda dalle mille sfaccettature. Non è mai uguale a sé. Alphabet, la holding che fa capo a Google, si occu-

“Mi chiedo cosa potremmo fare di più noi Alumni per le nuove generazioni”


Bikesharing, biliardino, spazi verdi per le riunioni e campi da basket per il post-riunione. Gli ambienti di lavoro Google sono pensati per favorire la creativitĂ .

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pa di biotecnologie, di ricerca sul tema dell’intelligenza artificiale, ma anche di investimenti finanziari. La bellezza è che nonostante le dimensioni dell’azienda, puoi scegliere magari una startup focalizzata su un determinato filone e svilupparlo all’ennesima potenza. Ad esempio, grazie ai Big Data sappiamo tantissimo ma ancora non li sfruttiamo appieno. In quale modo potrebbero essere sfruttati appieno? La persona è anche un consumatore e questo vuol dire che attraverso i Big Data la vita diventa più semplificata. Immagina di andare in un negozio dove ti vengono presentati solo abiti su misura per te: hanno già la tua taglia e conoscono già i tuoi gusti. Alcune cose poi non sono futuro ma già esistono. Se vuoi andare da A a B, il sistema analizza in tempo reale il traffico e ti indica la strada migliore. Magari tu dici: “Mi muovo tra mezz’ora” e il sistema invece ti dice “No vai ora perché c’è traffico”. Questo si traduce in un enorme risparmio di tempo che sarebbe bello dedicare invece alle cose naturali che uno ama fare. Mi piace immaginare che la tecnologia ci renderà talmente efficienti da salvaguardare il tempo. Non ci sarà mai nessuna macchina in grado di sostituire le soddisfazioni che ci può offrire il mondo per com’è naturalmente fatto. Parlo della nascita di un figlio,

di un tramonto, quei tipi di emozioni che le macchine non possono regalarti. Possono però regalarti il tempo per vivere quelle emozioni. Quindi il futuro sarà un campo aperto? Sarà quasi un ritorno al passato. Si avranno più momenti da dedicare alle relazioni interpersonali. Potremo riprenderci i nostri spazi. La macchina può essere più intelligente dell’uomo ma non ha l’intelligenza emotiva, non ha cuore. Venti anni fa saremo riusciti a immaginare questo cambiamento? Non penso. Basta vedere i film che immaginavano il futuro. Si aspettavano che saremmo andati tutti facilmente nello spazio. Ora il cielo dovrebbe essere pieno di astronavi, e ci sarebbe meno traffico per strada. Per questo dico che non sappiamo cosa ci accadrà, ma l’unico modo per prepararci è essere adattabili e flessibili. L’università dovrebbe insegnare ad essere sempre pronti all’apprendimento. Tim Armstrong, ex dirigente Google ha raccontato in un’intervista il suo primo colloquio con i fondatori di Google: “Quando ho avuto la mia prima discussione con loro, all’inizio del meeting, dopo una paio di domande mi hanno praticamente detto: Non siamo veramente sicuri di cosa dovremmo chie-

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derti. Fatti le domande da solo. Cioè quali domande ti faresti tu se fossi noi?”. La rigiro: Che domande farebbe a se stessa se fosse in me? Mi chiederei cosa potremmo fare di più noi Alumni per le nuove generazioni. Quello che mi piace di Google, e del mondo digitale in generale, è la democrazia, nella misura in cui l’innovazione è condivisa con tutti. Si migliora grazie alla condivisione, non con i giardinetti chiusi. Vorrei quindi che tanti colleghi si aprissero di più per aiutare le nuove generazioni a fare il passo successivo. Vorrei si voltassero indietro, rivolti a chi ha quattordici, trenta o quarant’anni. Aiutarli quando si arenano nelle difficoltà, fargli fare il salto, spiegargli perché le cose accadono, spiegargli come bypassare i tanti momenti difficili. Se tutti i manager offrissero loro due ore alla settimana il futuro sarebbe davvero avveniristico. Sia in Google che esternamente io faccio attività di mentoring e di coaching alle giovani donne, per far sì che siano sufficientemente forti a combattere i pregiudizi che ancora ci sono. Prendi un giovane delfino, provi a portartelo a fianco, a vedere se ce la fa. Ma ce la fanno, i giovani sono smart. Altrimenti finisce che vanno tutti via, all’estero, in Alphabet.


EPICA PEROTTINA

STORIA DEGLI UOMINI CHE HANNO COSTRUITO IL PRIMO PERSONAL COMPUTER DEL MONDO

Negli anni Sessanta un gruppo di ingegneri e informatici della Olivetti crea il primo pc da tavolo: la Programma 101, da tutti battezzata la Perottina, dal nome del suo ideatore Pier Giorgio Perotto. Il numero due del team era Giacomo De Sandre, Alumnus che ci ha aiutato a ricostruire la storia. E come hanno fatto la storia di Valerio Millefoglie

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Capitolo I

La foto della Resistenza

GIOVANNI DE SANDRE IDEATORE DELLA PROGRAMMA 101 ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA ELETTRONICA

Italia, estate 1964. Ai primi posti nella classifica dei dischi più venduti c’è Città vuota di Mina. Gianni Morandi è In ginocchio da te e gli italiani sono in villeggiatura. Qualcuno però è rimasto in città. A Pregnana Milanese, in provincia di Milano, quattro giovani ingegneri e informatici trascorrono le giornate nel Centro di Ricerca e Sviluppo della Olivetti. Il più grande di loro, Pier Giorgio Perotto, propone a tutti di fare un autoscatto di gruppo. “Non so come andrà a finire”, dice. Proprio quel mese la Olivetti cede il 75% della sua divisione elettronica alla General Electric. Il team dell’ingegner Perotto è al lavoro su qualcosa che cambierà la storia dell’elettronica ma al momento nessuno lo sa, e nessuno sa neanche se ci sarà un futuro. “Cominciamo però a farci una foto - dice l’ingegner Perotto - così ricorderemo che abbiamo fatto qualcosa”. Giovanni De Sandre, uno dei quattro, ricorda oggi quel momento, “Combattemmo così il nostro senso di fallimento. Quella foto è stata una forma di resistenza”. Così, per qualche secondo, tutti quanti sorridono all’obiettivo. Flash.

Il team della P101 in una foto scattata nell’estate del 1964 presso il Centro di Ricerca e Sviluppo Olivetti. Pier Giorgio Perotto è il primo seduto a sinistra. Accanto a lui l’Alumnus Giovanni De Sandre. Alle spalle a sinistra Gastone Garziera e Giancarlo Toppi.

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Capitolo II

Dopo il flash, un flashback Torniamo indietro di qualche anno Dopo il flash, un flashback. Torniamo indietro di qualche anno. “Tra la fine del ’62 e gli inizi del ’64 venne a prendere forma nella mia mente non tanto una soluzione, quanto un sogno”, racconta Pier Giorgio Perotto nel libro di memorie “P101”. Il sogno che lo teneva sveglio era quello di una macchina capace di compiere calcoli complessi e di gestire contemporaneamente in modo automatico l’intero procedimento di elaborazione, il tutto sotto il controllo diretto dell’uomo. “L’idea - continua a raccontare Perotto nel libro - non era tanto di immaginare un automatismo totale, quanto una macchina amichevole”, e ancora “Sognavo una macchina che sapesse imparare e poi eseguire docilmente”. Eseguire docilmente, in pratica una macchina che fosse umana, alla portata di tutti. Un computer personale. Nell’immaginario collettivo dell’epoca il computer era una macchina fantascientifica, una plancia di comando con a capo uomini in camice bianco. La tecnologia però non sembrava offrire soluzioni per creare una miniatura di tutto questo. Come fare ad inventarsi qualcosa che non c’è? Innanzitutto bisogna esserci, bisogna essere parte di un nucleo di persone. Fra queste c’era Giovanni De Sandre, classe ’35, laureato in ingegneria elettronica al Politecnico di Milano con un “attestato di studi elettronici” nel 1959. Un anno dopo la laurea De Sandre è al cospetto dell’ingegnere italo-cinese Mario Tchou, figlio di diplomatici cinesi e responsabile dei laboratori di Ricerche Elettroniche Olivetti. Il pensiero di quest’uomo chiave, che radunava le migliori menti che nutrivano “vivi interessi ai problemi relativi alle calcolatrici elettroniche” era il seguente: “Le cose nuove si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria”. De Sandre era uno di questi giovani, che ricorda bene quell’incontro. “Mi sembrava di essere appena uscito dall’acqua e di aver messo piede in un ambiente giovanissimo. Mi chiese: «Ingegnere, le interessa di più un’attività nel progetto o in produzione?» Gli risposi: «Senz’altro nel progetto». Ma non era finita, aggiunse: «Preferisce una attività di estensione di prodotti esistenti o occuparsi di progetti del tutto nuovi?». E io, preferivo i nuovi. Così, cominciò tutto”. L’ingegnere Pier Giorgio Perotto, assunto in Olivetti nel 1957, pioniere dell’informatica e padre della Programma 101

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Programma 101 Keyboard Layout originale della tastiera

Capitolo III

La memoria del futuro

MARIO BELLINI ARCHITETTO ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA

“La prima cosa da decidere era che tipo di memoria utilizzare”, dice Giovanni De Sandre, “In quel periodo l’ultima novità dei grandi calcolatori era la memoria a nuclei magnetici. Aveva però dei problemi perché aveva prestazioni eccessive e costi troppo alti per le nostre esigenze. Optammo per una scelta controcorrente, una memoria di passata generazione e considerata ormai obsoleta, la linea magnetostrittiva. Per fare la macchina del futuro abbiamo utilizzato una macchina del passato”. La domanda successiva fu: “Che organi mettiamo? Che tastiera inseriamo?”. A rispondere ci pensò il progettista Franco Bretti che, dopo essere entrato in collisione con il Centro Studi di Ivrea, era stato confinato in una sede distaccata a Caluso. Per noi lavorò a una riproduzione in piccolo delle stampanti a tamburo parallele ad alta velocità dei grandi calcolatori, la sua capacità era di 30 caratteri al secondo contro i 15 massimo delle macchine per scrivere dell’epoca. “Noi volevamo esattamente questo, un computer da camera, da cameretta, da mettere al posto del posacenere”, spiega sempre De Sandre. “Per realizzare il design l’mministratore delegato capo aveva incaricato l’architetto Zanuso. La soluzione individuata da Zanuso però lo trasformava in un mobile di otto chili di ghisa! Così fu chiamato un giovane architetto del gruppo di Ettore Sotsass, anche lui laureato al Politecnico: Mario Bellini”. Oggi la P101 è esposta al MoMa di New York. “Mentre la facevamo eravamo come l’apprendista stregone del film Fantasia di Walt Disney”, rievoca De Sandre, “Ci sentivamo come Mosè, come Michelangelo ed eravamo gasatissimi. Lavoravamo dalle nove di mattina a mezzanotte, l’una. Festeggiavamo ogni giorno in una locanda di campagna, il Brusin. A volte ci lasciavamo andare con calici di Barbera e al mattino dovevamo disfare tutto ciò che avevamo fatto la sera prima”. E arriviamo a quella foto in bianco e nero dell’estate del 1964. Due mesi dopo, l’Olivetti Programma 101, denominata Perottina, era pronta.

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Lo stand Olivetti con la P101 al Bema Show di New York, la fiera del Business Equipment Manufacturers Association. In basso, la P101 alla N.A.S.A. nel 1969. Nella pagina a fianco campagna pubblicitaria dell'epoca.

Capitolo IV

La fiera di New York del 1965

Per gentile concessione dell' Associazione Archivio Storico Olivetti, Ivrea – Italy

La Terra misura un diametro di 37 metri e un peso di 320.000 kg. È composta da acciaio inox, è ricca di acqua che proviene dalle fontane zampillanti che la circondano e si trova nel Flushing Meadows-Corona Park di New York. È l’installazione Unisfera, simbolo della fiera di New York del 1965, realizzata per celebrare l’inizio dell’era spaziale. I cerchi di acciaio che costituiscono il globo rappresentano le orbite seguite da Yuri Gagarin. Nella sala conferenze del Waldorf Astoria di New York il presentatore al microfono parla dell’uomo sulla luna, di dove possiamo arrivare e annuncia che una macchina è in grado di calcolare le coordinate della posizione di un satellite nell’orbita ellittica intorno alla terra. Come un prestigiatore accende la P101, infila la cartolina magnetica e pigia alcuni tasti. “Io ero in mezzo alla platea - ricorda De Sandre - per due, tre secondi non si è mosso nulla. Avevo il batticuore, quel modello non era di produzione, era una macchina da laboratorio. Poi si è sentito il tipico rumore della stampante ra-ta-ta e lo scroscio di applausi del pubblico”. Dopo l’era spaziale, ecco l’era dell’informatica individuale. L’Olivetti Programma 101, che inizialmente nello stand della fiera era stato messa in secondo piano rispetto agli altri prodotti, diventa l’attrazione principale. I giornali americani scrivono: “The first desktop computer in the world”.

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Capitolo V

L’oasi sulla luna Fra gli acquirenti della Programma 101 ci fu anche la NASA, che la utilizzò per pianificare lo sbarco dell’Apollo 11 sulla luna. “Bisogna credere alla capacità infinita dell’uomo”, commenta oggi Giovanni De Sandre. Poi aggiunge, “Dopo che si va sulla luna cosa si fa? Una volta che sei in cima ci vorrebbero spinte straordinarie per andare ancora più su. Noi abbiamo aperto una strada nel deserto. Lo abbiamo attraversato, l’oasi l’abbiamo fatta noi”.

Furono venduti 44.000 esemplari, al prezzo di lancio di 3.200 dollari. Fra gli acquirenti, anche la Nasa. Lo spot tv mostrava una ragazza a bordo piscina con la P101 poggiata su un tavolino e poi ancora una giovane famiglia, una segretaria, degli operai e degli impiegati al lavoro. Tutti al personal computer.

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LA DIGITAL CITY, UN SOPRALLUOGO NEL FUTURO Milano4You sarà la prima cittadella digitale d’Italia. A idearla è stato l’architetto e Alumnus PoliMi Marco Sagnelli. I lavori cominceranno in primavera, intanto siamo stati con lui a Segrate, alle porte di Milano, per immaginare insieme il futuro che vi sorgerà testo e foto di Valerio Millefoglie

Per ora ci sono i numeri: un’area di 300 mila mq ospiterà circa 90 mila mq di superficie edificata, immersa in un ampio parco di 80 mila mq. La città immaginata è tutta qui, ai piedi del suo ideatore Marco Sagnelli, che srotola il progetto architettonico sull’asfalto. Il vento lo solleva come un buon auspicio, lo porta all’altezza della realtà, delle cose fatte. Intanto qui ci sono scoiattoli, molti, e il rudere della storica cascina Boffalora, a testimonianza di un grande periodo storico. Un platano secolare ha visto tutto. “Questo è uno dei miei punti preferiti e sarà uno degli ingressi”, racconta l’architetto progettista Marco Sagnelli, con il quale siamo venuti a vedere tutto quello che ancora non c’è: nella sua testa è tutto chiaro però, qui ci sarà la prima smart city italiana, connessa, digitale, realmente

vivibile. I lavori cominceranno nella primavera del 2018. La smart city vedrà la luce nel giro di circa cinque anni. IDEA “Ero Ad Alassio - racconta - e dopo un pranzo, guardando il mare, un amico comincia a raccontarmi di questa enorme area a Segrate, con un parco immenso. I lavori erano fermi dal 2009 a causa del fallimento del precedente fondo immobiliare proprietario del terreno”. Così, da discorsi con vista mare, Sagnelli inizia a interessarsi all’area e nasce l’idea di Milano 4 You. Al centro la persona, che è abitante della sua casa ma anche del territorio che lo circonda. PROGETTO Passeggiamo lungo il perimetro che delimita l’area, Vietato oltrepassare c’è scritto su un cancello che indica Sagnelli. Lì ci saranno cam58 MAP Magazine Alumni Polimi


MARCO SAGNELLI ARCHITETTO ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA

‘‘Nessuno condomino pagherà luci, spese condominiali, riscaldamento. Invece di consumare, produrremo un surplus di energia che venderemo all’esterno’’

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pi da tennis, una piscina, e poi ancora in fondo un polmone verde. Sotto i marciapiedi sui quali camminiamo scorrerà la rete wifi gratuita. Sarà al servizio di una popolazione che, fra residenti e impiegati, raggiungerà le cinquemila persone. “Nessuno di loro pagherà luci, spese condominiali, riscaldamento - spiega Sagnelli - L’ingegnere Niccolò Aste, professore al PoliMi, ci ha prospettato sette scenari energetici diversi e abbiamo trovato quello giusto: produrremo un surplus di energia che venderemo all’esterno”. Proprio Niccolò Aste ha spiegato alla stampa: “Gli edifici, da organismi pesantemente energivori, si trasformeranno in sistemi efficienti, interattivi ed interoperabili, capaci di auto produrre e scambiare reciprocamente elettricità e calore prodotti da fonte rin-


novabile e di azzerare, o quasi, gli impatti sull’ambiente”. Tradotto in cose che prenderanno vita e vedremo: impianti di cogenerazione alimentati a biomassa, sistemi fotovoltaici integrati, pompe di calore geotermiche, recupero e riutilizzo delle acque piovane. Dunque risorse rinnovabili ma anche risorse culturali. IL TERRITORIO La storica cascina Boffalora infatti sarà ristrutturata e diventerà un centro di arti e mestieri diretto da Arnoldo Mosca Mondadori. “Una sera durante una riunione Arnoldo ci dice che per capire se era interessato o meno doveva vedere la cascina, percepirne l’atmosfera. Ma sono le dieci, gli diciamo”. Anche quella sera Sagnelli, spinto dalla passione e dalla forza delle idee, ha camminato fin qui solo per immaginare. Indica un punto sulla mappa, “Questo sarà il punto più alto, una pista ciclabile di cinque metri sopra una rotatoria con una visione prospettica. Mi interessava avere un luogo dove offrire una visione dall’alto, e che fosse una visione alta”. Qui immagina un passante che, con in mano un libro, si ferma a leggere qualche pagina. “Potrebbe sfogliare Le lezioni americane di Italo Calvino, perché costruito in capitoli brevi, oppure alcuni capitoli dell’autobiografia di Nelson Mandela; magari quelli in cui racconta di come vedeva il mondo dalla cella. Trovandosi in una condizio60 MAP Magazine Alumni Polimi


Rendering di Milano4You: una Smart City a costo zero, con soluzioni tecnologiche all’avanguardia per sicurezza, salute e benessere, servizi in sharing per un nuovo modo di vivere e di lavorare.

ne completamente opposta, fatta di libertà e di orizzonti aperti, sarebbe forte il contrasto”. Una donna passeggia stringendo a sé un barboncino. Si tratta di uno dei pochi passanti incrociati in questo sopralluogo nel futuro. L’ALUMNUS Tornando verso l’auto Marco Sagnelli racconta l’origine della sua passione. “Mi sono laureato in Architettura nel ’90, all’età di ventidue anni. Il mio Maestro però l’ho riscoperto dopo la laurea. Lucio Stellari D’Angiolini, un rivoluzionario, ci siamo rivisti vicino al Politecnico e per caso abbiamo cominciato a chiac-

chierare. Dopo quell’incontro viaggiamo molto insieme. Un giorno al Museo Archeologico nazionale d’Abruzzo, a Chieti, ricordo che rimanemmo due ore a girare attorno a una scultura del VI secolo a.C., il Guerriero di Capestrano. D’Angiolini mi raccontava il periodo storico e mi spiegava la statua studiandola in quello stesso momento, attingendo da tutto il suo bagaglio culturale. Grazie a lui ho iniziato a riflettere su un’architettura che sia anche antropologica, umana, attenta al design e filosofica. Passeggiavamo per Milano progettando la città, a vuoto, mi diceva: «Mi faccia uno 61 MAP Magazine Alumni Polimi

schizzo di Porta Venezia». E io lo facevo. Sul letto di morte, quando ormai non ci vedeva più, gli raccontai il primo progetto che mi commissionarono. Riuscì a capirlo e anche a darmi dei suggerimenti che seguii”. Marco Sagnelli mette in moto l’auto, allontanandoci dal platano secolare che, si spera presto, potrà assistere all’invenzione del futuro.

‘‘Al centro la persona, che è abitante della sua casa ma anche del territorio che la circonda’’


VISITA GUIDATA NELLO SHOPPING CENTER PIÙ GRANDE D’EUROPA Davide Padoa, CEO di Design International, studio globale di architettura, ha trasformato una vecchia fabbrica dell’Alfa Romeo, ad Arese in provincia di Milano, nel più grande centro commerciale d’Europa. Lo abbiamo visitato, facendoci accompagnare dalle sue parole di Nicola Feninno


DAVIDE PADOA CEO DESIGN INTERNATIONAL ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA Davide Padoa è arrivato ad Arese quando aveva due mesi di vita. A 24 anni si è trasferito a Londra. Oggi è a capo di uno studio internazionale di architettura, Design International. Ad Arese ci torna spesso perché ci vive ancora suo padre. E poi è qui che c’è il più grande centro commerciale d’Europa: 93mila mq e 200 negozi. Secondo il Mapic di Cannes, la fiera internazionale dei centri commerciali, è anche il più bello del mondo. “Il Centro”, si chiama semplicemente così. L’ha progettato lui, con il suo studio, sui terreni dove sorgevano i vecchi stabilimenti dell’Alfa Romeo. Ci siamo dati appuntamento nel suo ufficio milanese, vicino al Duomo.

‘‘Mio padre mi guarda. Mi dice: Va bene, però prova a migliorarlo. Potrebbe non essere così male’’

“Dormo a casa di papà quando sono in Italia. Nella stessa stanza di quando ero bambino, è cambiato solo il letto. Mio padre era contrario al centro. Un giorno torno a casa, la costruzione era ancora nella fase degli studi preliminari, ceniamo insieme. Mi dice: «Guarda, questo centro enorme che tireranno in piedi creerà un traffico pazzesco. Per la prima volta nella mia vita sono andato

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anch’io a protestare!». Lui è sempre stato contrario a scioperi, proteste, manifestazioni, anche negli anni Settanta, un ingegnere aeronautico sempre preciso, sempre impeccabile. Mi ha detto: «Ho fatto la mia scelta quando sei nato tu, venire ad Arese per la pace e la tranquillità e adesso…». Non sapeva ancora che Marco Brunelli – il patron dell’impresa – mi aveva affidato l’incarico del progetto. A metà cena glielo dico. Silenzio. Mi guarda. Mi dice: «Va bene, però prova a migliorarlo. Potrebbe non essere così male». Quand’ero bambino mi portava in vacanza ad Alassio, il nostro vicino di ombrellone era una persona molto ricca. Mi ricordo che gli chiesi: «Papà, che lavoro fa quel signore?». E lui: «Il piccolo imprenditore». Così da piccolo sognavo di fare il piccolo imprenditore. Poi ho scelto Architettura al Politecnico. Il primo esame era quello di Disegno: 21. L’assistente che mi ha interrogato mi ha detto: «Guardi, temo che la sua scelta di iscriversi ad Architettura sia stata sbagliata». Quello è stato il voto più basso che ho preso, poi mi sono appassionato, e le cose sono andate bene”.


Sul muro alle spalle nell’ufficio dell’architetto ci sono tredici foto, disposte in cinque colonne. Sono tutti progetti realizzati da Design International. Li passa in rassegna spiegandone alcuni: “Nella prima in alto a destra c’è il centro commerciale “Campania”. Aperto nel 2007, a Marcianise, Caserta. Appena sotto c’è il centro “Sicilia”, l’abbiamo sviluppato con un sardo, l’ingegner Cualbu, a Catania. Poi il “Mall of Guadalajara”, in Messico, nella regione di Jalisco, quella dei mariachi e della tequila; aperto quest’anno. A sinistra ci sono un paio di immagini del “Morocco Mall”, a Casablanca. Iniziato nel 2007 e inaugurato nel 2011. Si affaccia sull’Atlantico. 18 milioni di visitatori all’anno: è diventato l’edificio più visitato del Marocco”. E poi, sulla stessa parete, si viaggia ancora tra progetti realizzati in Italia, Cina, Francia. Da qui ci spostiamo al Politecnico, ai tempi dell’università. “Nel 1994 avevo 24 anni. All’epoca se finivi l’università prima dei 25 anni e lavoravi all’estero per un tempo continuativo potevi fare la domanda di esonero dal militare. Per cui sono andato dritto, esame dopo esame, come una macchina da guerra, per saltare la leva. Dopo la laurea ho preso un volo di sola andata per Londra. E ho trovato posto al “Numero Uno”, un ristorante italiano gestito da due portoghesi. Facevo il lavapiatti. Poi uno dei due cuochi si è ammalato mentre era a Madeira e mi hanno messo a cucinare le lasagne, gli spaghetti, il tiramisù. La cucina mi ha insegnato moltissimo: gerarchia, innanzitutto, che lì è quasi militaresca; sequenza, che è un aspetto fondamentale anche in architettura; e rispetto per i tempi: i margini che hai in cucina sono di pochi secondi. Un giorno mi hanno scritto dall’Indonesia: avevo mandato un cur-

In queste immagini: Il centro commerciale Campania a Marcianise, in provincia di Caserta Il centro Sicilia, a Misterbianco in provincia di Catania Il centro commerciale Morocco Maill, a Casablanca in Marocco a 600 metri dell’oceano Atlantico

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riculum a uno studio di architetti sei mesi prima. Non me lo ricordavo. Sono andato in biblioteca a prendere un atlante: neanche sapevo dove fosse l’Indonesia, dico davvero. Praticamente mi hanno assunto come ragazzino immagine. C’erano 800 ingegneri e architetti indonesiani e volevano dare un’idea più internazionale e giovane all’esterno. Il primo giorno di lavoro mi hanno detto: «Il tuo lavoro è venire agli incontri coi nostri clienti. Quando ti chiedono cosa ne pensi del progetto devi dire che è bellissimo». Questo per mesi. Mi annoiavo. Scarabocchiavo progetti tra un è bellissimo e l’altro. In quel momento lo studio era al lavoro sul progetto di un headquarter per Dharmala Bank. Io scarabocchiavo: c’era un grosso problema, bisognava connettere una struttura commerciale bassa con un grattacielo di 240 metri. Entra il proprietario di Dharmala. Vede il mio scarabocchio: mi ero inventato una sorta di gigantesca chiocciola per collegare i due elementi strutturali. Il boss di Dharmala va dal mio capo e gli dice: «Voglio quel ragazzo come capo-progetto». Dopo una settimana dirigevo un gruppo di 25 persone, e non sapevo neanche bene cosa volesse dire dirigere me stesso. La sera chiamavo gli amici che stavano ancora finendo l’università, che erano al militare o che stavano facendo il servizio civile: gli raccontavo quella situazione assurda. Il progetto era per il grattacielo più alto di Jakarta”.

Il centro commerciale Il Centro, ad Arese, in provincia di Milano. Il concept architettonico prende ispirazione dalle antiche corti lombarde e dal sistema di piazze, ognuna con una propria identità. Lontano dall’idea dei non-luoghi, è invece un luogo di aggregazione con 200 negozi, 25 ristoranti, un centro diagnostico, un polo sportivo e diverse aree gioco.

Torniamo in Italia, ai giorni nostri. L’esterno de "Il Centro" di Arese sembra una corte, un cascinale lombardo. Il soffitto è in legno. Sulla facciata sono state inserite delle persiane elefantiache: ricorda anche una villetta di provincia. Però catapultata a

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Rendering del centro commerciale Il Centro di Arese.

Brobdingnag, il paese dei giganti visitato da Gulliver, atterrato come un ufo nella pianura lombarda. “I miei genitori si sono spostati ad Arese quando io avevo 2 mesi. Praticamente conosco ogni angolo, i fili d’erba di ogni campetto. È stato un paese sempre abbastanza isolato, da adolescente ti costringeva a conoscerlo tutto. Quando stavo prendendo la patente ho imparato a guidare nei parcheggi dell’Alfa Romeo, si trovavano dove adesso c’è Il centro. Per il progetto siamo ripartiti proprio dal concetto di paese, e ci abbiamo giocato. Non serve prendersi troppo sul serio. Però è stupido prendere tutto con eccessiva leggerezza. Gioca col tuo cliente, ma anche col pubblico, coi visitatori che verranno. Il mio è un lavoro umile, di servizio. Devo fare sentire il pubblico il più possibile a suo agio. E quando uno sta bene in un posto, quello diventa un luogo. Perché in realtà il non-luogo non esiste”. Piazza della Chiesa è un luogo de Il Centro. La chiamano così perché c’è un ascensore che ricorda un campanile; è vuoto, la gente sembra preferire l’ascesa tramite

scale mobili. Scoppia un palloncino nell’area giochi poco distante: c’è uno scivolo che si avvolge su stesso, l’imbocco è all’altezza del secondo piano, l’arrivo a piano terra su una superficie morbida. Le mamme sono sedute su alcune panchine poco distanti. Al primo piano, in fondo c’è Kentucky Fried Chicken (due ore di coda per il pollo fritto il giorno dell’inaugurazione), di fianco Yun Quick (fast food cinese), poi Roll Eat (sapori mediterranei e preparazioni tipicamente orientali). Sullo stesso piano c’è anche un centro Humanitas Medical Care. Il centro è stato progettato in un gioco continuo tra interni ed esterni. Infrangere la regola dei vecchi centri commerciali con la loro logica da autogrill: percorso quasi obbligato, entri da una parte, fai il giro dell’oca. Ad Arese è l’opposto, la strada è stata di invitare gli ospiti, i visitatori, a stare fuori. Da qui le file dei tavolini dei bar all’aperto, i parchi giochi, la pista ciclabile, gli alberi che addolciscono le geometrie dei parcheggi. Come quando si usciva in paese a fare una commissione, ci si beveva il caffè, si stava un po’ seduti. “Quella comodità

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è un segreto che va riscoperto”, afferma Padoa. “Mio padre andava a prendere le capsule della Nespresso in un negozio vicino al Duomo. Per lui era più che altro una scampagnata; partiva da Arese e si faceva il suo giro. Una volta passa la schedina alla commessa, come al solito. Lei legge il nome: Padoa. Negli stessi giorni stavamo vendendo uno spazio del Centro proprio a Nespresso, eravamo in piena fase di commercializzazione. Ma lei è l’architetto Padoa! Dice la commessa a mio padre. Mi deve fare l’autografo! Per lei le capsule sono offerte dalla casa. In quell’istante ha dovuto decidere se dire la verità o se fingere di essere suo figlio. «Guardi che in realtà io sono il padre, l’architetto è mio figlio», risponde. Questa storia me l’ha raccontata con un certo orgoglio, devo dire la verità”.

‘‘Abbiamo voluto Infrangere la regola dei vecchi centri commerciali con la loro logica da autogrill’’


Progettato e costruito seguendo rigidi criteri di risparmio energetico e bio-sostenibilità , Il Centro è il primo centro commerciale con una copertura realizzata in Glulam, un legno lamellare composto con materiali sostenibili.

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HUAWEI NEI LABORATORI DI RICERCA DELLA RETE 5G : DOVE NASCE LA VELOCITÀ DEL FUTURO Renato Lombardi, direttore del Centro di Ricerca di Huawei Italia e Alumnus del Politecnico con una laurea in ingegneria elettronica nel 1990, dirige il team al lavoro sulle nuove tecnologie wireless ad altissima frequenza: la rete 5G, che sarà disponibile nel 2020. Ci siamo fatti anticipare il futuro di Redazione

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“L’idea di mettere in comunicazione le persone mi ha sempre affascinato”, dice Renato Lombardi in una sala riunioni di Huawei. A pochi passi dalla porta aperta c’è lo spazio con la macchinetta del caffè, dove ammette che spesso nascono le idee “perché fare ricerca è fare creatività”. Poi, continua, “Il linguaggio dice tanto di come un popolo ragiona e ho sempre pensato che il modo migliore per favorire lo sviluppo e la democrazia sia proprio quello di mettere in comunicazione le persone senza restrizioni alla tecnologia. Far circolare le idee velocemente”. E far circolare ancora più velocemente le cose è l’obiettivo della

rete 5G. “La rete 5G permetterà di aumentare tantissimo la capacità di connessione del cellulare. Se ad oggi con il 4G+ si arriva in media a un centinaio di megabit al secondo, il picco del 5G sarà di 10GB al secondo. Capacità altissima associata a diminuire la latenza, ovvero quanto ci impiega un pacchetto di informazioni a fare il giro dal mio cellulare al server e tornare indietro con l’informazione: il 4G impiega mediamente meno di 20 millisecondi, 5G si prefigge l’obiettivo di essere sotto il millisecondo”. Questo, in termini pratici, permetterà ad esempio di scaricare un intero film nel giro di qualche

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secondo o di usufruire della realtà aumentata e realtà virtuale. “Quest’ultima - spiega Renato Lombardi - la vedo più in ambito casalingo. Ad esempio faccio la spesa online da casa e miglioro il tipo di esperienza immaginando di camminare attraverso il corridoio di un supermercato, prendo un oggetto e lo metto in un carrello virtuale”. L’internet Of Things è proprio uno degli altri aspetti legati alla ricerca. “Oggi con il 4G siamo noi individui a essere collegati online, un domani non saranno solo le persone ma un po’ tutti gli oggetti, le macchine saranno collegate in rete. Già ora posso collegarmi con casa e verificare lo stato


RENATO LOMBARDI DIRETTORE DEL CENTRO RICERCA HUAWEI ITALIA ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA ELETRONICA

dell’antifurto o del termostato. Il frigorifero poterà identificare i cibi in scadenza, sapere esattamente il tipo di spesa della famiglia e farla direttamente da remoto. In ambito di safe city potranno esserci telecamere ogni 50 metri con capacità di riconoscimento facciale che saranno collegate ai database della polizia. Ci sarà più telelavoro, più telescuola, più tele di qualsiasi cosa”. Ci spostiamo nel laboratorio dove i lavori sulla rete 5G sono iniziati quattro anni fa, perché il futuro va preparato in anticipo. Il team conta un centinaio di persone, di cui il 60% sono studenti del Poli. “Stiamo lavorando con il Politecnico

sia dalla sede Huawei di Milano che dagli altri centri di ricerca e sviluppo in Cina e in altre nazioni. Non necessariamente per progetti sviluppati in Italia e non solo sul 5G ma anche in ambito hardware, coinvolgendo il dipartimento di elettronica e le tecnologie ottiche. Questo dà l’idea di quanto il Politecnico sia riconosciuta come università di eccellenza, con una competenza a livello mondiale. Per noi è una delle università top 10 d’Europa, con le quali vogliamo instaurare un rapporto a lungo termine”. La rete 5G sarà disponibile al pubblico nel 2020. Intanto, in questi laboratori, si continua a lavorare su tentativi di futuro.

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‘‘Il Poli per noi è una delle università top 10 d’Europa, con le quali vogliamo instaurare un rapporto a lungo termine’’


MARCO BRUNELLI, L’INGEGNERE LIUTAIO CHE DÀ L’ANIMA AI VIOLINI

Una laurea in Ingegneria delle Telecomunicazioni che oggi mette al servizio di viole, violini e violoncelli. Siamo andati a trovarlo nella sua bottega di liuteria per scoprire come si progetta ad arte testo e foto di Giulia Cavaliere

Pavia. Una lunga strada conduce dal caos cittadino a uno spazio più intimo, dove una volta c’erano le mura spagnole e oggi c’è una delle vie più affascinanti della città. Qui si trova una bottega artigiana di liuteria. Entrando si ha l’impressione di ritrovarsi in una grotta. Tutt’intorno colori caldi, toni pastello, legni non ancora dipinti appesi al muro o su qualche mobile: futuri strumenti

musicali, scheletri che si formano giorno per giorno, ora fermi in stadi diversi della loro crescita. Profumo di legno grezzo e tagliuzzato, vernice, lavori in corso per mano di Marco Brunelli, liutaio con una laurea al Politecnico in Ingegneria delle Telecomunicazioni e un passato in una multinazionale. La sua storia ha a che fare con il sogno, l’aspirazione realizzata e la tenacia pre-

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miata: poter vivere con profitto e soddisfazione esclusivamente della propria passione più grande. “Facevo il pendolare stressato, ero un product manager, stavo nell’ufficio marketing dove ero arrivato dopo sei anni di lavoro nel reparto ricerca e sviluppo: era stancante e a un certo punto ho avvertito che, al di là del prestigio del lavoro, desideravo fare altro”. E ora lo fa.


MARCO BRUNELLI LIUTAIO ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA

‘‘Per ogni strumento traccio peso, misure, spessore, lunghezza. È Fisica acustica, è materia mia: sono un ingegnere’’

Mentre si racconta è intento nella pittura di un violino, il pennello si posa sullo strumento ancora chiaro, lontano da come siamo abituati a incontrarlo durante i concerti. “Per costruirlo ci ho impiegato 200 ore di lavoro circa, tre settimane, ma si parla di lavoro in bianco, cioè della costruzione di pezzi non verniciati. Poi ci sono 15-20 giorni di stesura del colore, quello che sto facendo ora: vernice trasparente seguita da 50 mani circa, tre al giorno, per arrivare al classico ambra rossiccio dei violini come li conosciamo. Una volta terminato il lavoro, verrà assemblato con le corde e con tutte le parti esterne. Ci vuole tempo, e per il violoncello ce ne vuole ancora di più: un paio di mesi solo per la costruzione, è grande, sono più di 75cm di cassa!”. Alcune cose che ha studiato

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al Politecnico le utilizza ancora in modo concreto nella quotidianità del suo lavoro. “Per fare quel che faccio uso un po’ di analisi spettrale, analisi di frequenza. Mi affido alla sensibilità delle mani ma anche all’analisi del suono. Mi sono procurato dei microfoni, registro il tocco della tavola e del fondo dello strumento liberi, non incollati. Misuro le frequenze, ne calcolo lo spettro e in funzione del peso della tavola e del valore quadratico medio della frequenza ho un valore significativo che mi aiuta a capire gli estremi tecnici. Per ogni strumento traccio peso, misure - come fosse un bambino - spessore, lunghezza. È fisica acustica, sono cose che si trovano in letteratura e che posso leggere facilmente perché le ho apprese studiando”. Mette il violino a riposare perché


la mano di vernice si asciughi e continua a spiegare la sua tabella di marcia: “Faccio tutto in bottega, seguo orari liberi, ma quasi da ufficio: 9-12.30 e 14.3019. Poi l’immersione è totale, una volta che si è dentro con la testa ci si dimentica del tempo. Oltre a quello impiegato per la fase produttiva c’è poi tutto quello che passo al banco di lavoro: approvvigionamento di materie prime, marketing, vendite, viaggi. Dal 2011 sono professionista, dal 2012 sono iscritto all’ALI (Associazione Liutai Italiani) e da due anni sono nel direttivo dell’associazione, per cui ci sono riunioni e coordinamento. Abbiamo fatto mostre a Tokyo, a Sidney. Non sempre vai tu con lo strumento, a volte parte solo lui, l’impegno è costante”. Guardare Marco la-

vorare il legno suggerisce una sensazione di legame con il materiale molto forte, qualcosa che incuriosisce perché sembra indicare la storia stessa di questa vita che lui ha scelto: una vita che parte dall’amore per il legno e che risale, dice Marco stesso, a moltissimi anni fa. “Amo da sempre legno, ferro e mattoni: mi sembrano gli elementi della natura. Mi sembra che architetture così, costruite con questi materiali, si armonizzino completamente alla natura. Amo i docs di Buenos Aires in acciaio e mattone: sono fantastici. Il legno è organico, morto ma vivo insieme in ogni pezzo. Inoltre ogni pezzo è sempre diverso dall’altro; con lui puoi fare di tutto: avvitare, modellare, piegare, scolpire, tagliare. Pura creatività. Forse c’è

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anche una dose di istinto. Mi è sempre piaciuto costruire, smontare, la manualità faceva chiaramente parte sin da bambino del mio DNA: alle medie, durante le ore di educazione tecnica, si iniziava a usare il compensato, il periscopio, si tagliava, progettava, sagomava, mi sono subito appassionato alla materia e poi mi sono fatto un piccolo laboratorio in cantina dove mi esercitavo, studiavo molti testi anglosassoni legati alla divulgazione di fai da te quasi professionali. Costruivo inizialmente complementi d’arredo: lampade, leggii da tavolo, mobiletti piccoli, cassettiere. Intorno al 2002, 2003, avevo buone nozioni, costruivo e a volte avevo commissioni, alcuni mi contattavano via internet per averli, ricordo una ragazza di Roma che vole-


“Quando finisci devi mettere un cilindretto di abete inserito tra tavola e fondo dello strumento. In inglese si chiamano ‘sound post’ ma gli italiani sono romantici e la chiamano anima”

va i miei leggii, ma erano ancora commissioni minime”. Dopo aver catalogato i tocchi di legno grezzo seguendo alcuni parametri precisi passa a spiegare il suo passaggio dal lavoro di tutti i giorni al lavoro dei sogni. “All’inizio, quand’ero in azienda, non avevo l’opportunità di andare a bottega dopo il lavoro. Poi ho conosciuto mia moglie, mi sono sposato, sono venuto a vivere a Pavia e ho lavorato in azienda ancora per qualche anno. Non era però la mia vocazione. Un giorno navigando sul cellulare ho scoperto che a Pavia aveva aperto la bottega di un liutaio, quindi l’ho chiamato. Ho chiesto al proprietario se volesse insegnare i rudimenti dell’incisione per strumenti musicali, lui ha detto di sì e così ho iniziato. Staccavo

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la sera da Agrate Brianza e correvo a Pavia, andavo in questa bottega, apprendevo le basi. Il sabato stavo lì dentro per molte ore. Dopo 6 mesi è nata la mia prima figlia ma siccome mia moglie è libera professionista e io in quel momento ero a contratto, ho preso io la paternità di diritto per 5 mesi. Stavo con la bambina e c’era anche la tata, quindi ho iniziato a dedicarmi di più alla liuteria, ho costruito il mio primo strumento, poi mi sono staccato dal primo liutaio, ho lavorato da un altro nel piacentino durante l’estate, e infine sono stato presentato a Cremona”. Cremona è il centro del mondo della liuteria italiana e internazionale ed è abbastanza consueto identificare quest’approdo come una prima effettiva e significativa forma di


realizzazione nel lavoro di liuteria. Una sorta di rito di iniziazione. “A Cremona ho venduto il mio quarto strumento, un violino, sono entrato con Morassi, una delle botteghe più importanti, uno dei più grandi esportatori al mondo, era il 2010, lui ha senz’altro visto in me delle potenzialità benché ancora in erba. Avevo 38 anni compiuti, ho dovuto cospargermi il capo di cenere, diciamo così, crederci tanto e accettare economicamente molto poco. Ovviamente, all’inizio, il tuo strumento vale poco perché tu non sei un nome, come sempre in questo mondo: tu sai che qualcuno lavora da tot tempo, vende in tutto il mondo, vedi che i suoi strumenti sono richiesti e a quel punto le cose prendono piede. All’inizio devi guardarli, imparare a riconoscerli, rifai la gavetta insomma, una seconda volta, impari gli stili e inizi a muoverti lì in mezzo. All’inizio tutto ti sembra uguale, difficile da decifrare, poi tutto parla. Io nelle botteghe di Cremona apprendevo e a casa applicavo quanto mi veniva detto, cercando di farne tesoro il più precisamente possibile”. Scorre sulla parete di fronte al tavolo da lavoro tutti i ferri magici, strumenti che servono a costrui-

re strumenti. In un angolo c’è un barattolo di vetro, sull’etichetta si legge Anime e sembra essere anche questo un ingrediente magico. “Quando finisci viole, violini, violoncelli - racconta Marco - devi mettere un cilindretto di abete inserito tra tavola e fondo dello strumento, verticalmente. Quando il ponticello vibra sotto l’azione delle corde sfregate mette in vibrazione la tavola, che ripropone le vibrazioni al fondo proprio tramite queste anime. Il fondo lavora come una molla e quindi deve rimandare le vibrazioni nel modo giusto. In inglese questi cilindretti si chiamano ‘sound post’ ma gli italiani sono romantici e la chiamano anima: senza questo manca un pezzetto di motore del violino, non avremmo il rimando, il rinforzo”. Nella bottega c’è una radio piccolina. “La musica qua conta nella misura in cui devi conoscere forme, stili, suoni e, se vuoi, anche l’espressività degli artisti. Un bagaglio di conoscenze che entra in gioco perché, quando hai finito uno strumento secondo canoni e misure più o meno standard, poi c’è il musicista o il maestro che te lo deve provare”. Sono loro infine a dire cosa amano di ciò che è stato costruito con passione, e con l’anima.

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“Amo da sempre legno, ferro e mattoni: mi sembrano gli elementi della natura. Mi sembra che architetture così, costruite con questi materiali, si armonizzino completa- mente alla natura”


Domenico Paolo Zaccone - Alumnus Polimi Ingegnere Meccanico - 1988

Chairman & CEO di GOLDPLAST Group

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C O R P O R AT E E V E N T S


M2, LA LINEA 1 DEI GIOVANI MILANESI

Secondo una ricerca condotta da Uniplaces, il portale di ricerca alloggi per studenti, la fermata della metropolitana di Milano più amata dai ragazzi è Piola. Abbiamo condotto una piccola ricerca anche noi, chiedendo a chi usciva dalla fermata del metrò: “Qual è la cosa più bella che ti è capitata qui?” testo di Davide Gritti - foto di Cosimo Nesca


e tu, la ricordi? “Il momento più bello? Quando le lezioni mi danno il tempo di pranzare con calma”. “Il Bar Piola, penso sia una cosa bella per molti”. “Il giorno in cui sono tornata verso la metro col mio ragazzo per la prima volta, non lo dimenticherò mai”. “Il giorno della laurea in Architettura del mio migliore amico, lo scorso febbraio, mi ha fatto pensare alla nostra amicizia ed al valore dei traguardi, a cui non avevo mai creduto prima”. “Il giorno dell’open day delle lauree magistrali: ero un po’ stufo di tutto ed ho capito cosa volevo fare davvero, e che potevo continuare a farlo qui”.

“Un tempo ero terrorizzato all’idea di andare al Politecnico. Ora so che è il posto migliore in cui sia stato”. “Una volta ero talmente in ansia che non sono scesa a Piola, mi sono fatta altre dieci fermate. Poi mi sono decisa, ho fatto retromarcia e sono tornata qui”. “Mi capita spessissimo, prima di svegliarmi, di sognare di essere qui. Mi vedo camminare fuori dall’università, salutare qualcuno. Succedono sempre cose strane, ad esempio entro in classe e al posto della lavagna c’è un quadro cubista o altre cose molto surreali. Poi mi sveglio e devo sempre correre tantissimo per arrivare alla vita normale”. “Il

momento

più

bello…

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chiedetemelo dopo la prossima sessione”. “Qualche tempo fa ho passato la notte alla Biblioteca Centrale. E’ stata un’esperienza metafisica”. “Non so perché ma quasi tutti i giorni dopo gli esami provo una sensazione di ordine. Probabilmente quando li avrò finiti sarà il momento più bello a Piola”.

La ricerca si è concentrata sulle stazioni metro preferite dagli universitari in cerca di casa. L’affitto medio di una stanza singola in Piola è di 490 euro.


La Packstation del Politecnico, il sistema automatizzato di spedizione e consegna installato in via Ponzio, all’interno del Campus Leonardo


PACKSTATION, L’INDIRIZZO POSTALE DI CHI È DI CASA AL POLITECNICO Il Politecnico di Milano ha attivato la Packstation: un sistema di spedizione e ricezione postale per chi è di casa al Politecnico. Ecco cosa arriva qui dal Venezuela, dalla Cina e dal sud Italia di Valerio Millefoglie - foto di Cosimo Nesca

“Ho scelto come indirizzo di consegna la Packstation. racconta Nathalie - perché i corrieri non trovavano mai il mio indirizzo di casa. E poi perché ormai è un pò questa casa mia, ci vengo per le lezioni, per studiare, per vedere gli amici”

Nathalie sta facendo la magistrale di ingegneria gestionale e arriva dal Venezuela, come il pacco che un giorno le ha spedito sua madre da lì. Dentro c’era la maglia di calcio della nazionale venezuelana. “Non gioco a calcio ma la indosso per vedere le partite. Il calcio è un momento che mette allegria in Venezuela, e così mi sono fatta spedire un po’ di gioia da lì”. L’indirizzo di destinazione dell’allegria calcistica è via Ponzio, proprio di fronte al campo sportivo Giurati. Qui si trova la Packstation, un sistema automatizzato di spedizione e consegna dedicato agli studenti. “Ho scelto come indirizzo di consegna la Packstation - racconta Nathalie - perché non trovano mai il mio indirizzo di casa. E poi perchè ormai è un pò questa casa mia, ci vengo per le lezioni, per studiare, per vedere amici". Quando il portinaio non c’è, quando la casella postale non è abbastanza grande, quando si cambia spesso casa, la Packstation è un indirizzo sicuro: attivo dal lunedì alla domenica, dalle 7:00 alle 22:00. Qui, oltre alla maglia di calcio Nathalie si è fatta spedire dalla Cina un cucchiaio misuratore acquistato online, “Mi piace cucinare i pancakes e questo cucchiaio ti indica

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elettronicamente la giusta dose di ogni ingrediente”. Gli Ingegnieri studiano i KPI anche quando cucinano la colazione Appena arrivata in Italia si è dimenticata di un importante strumento per i suoi studi: la calcolatrice. “Ero sicura di averla portata con me e invece era rimasta in Venezuela”. Anche in quel caso la spedizione è arrivata con precisione matematica all’indirizzo “P002 Packstation dhlit102 – Polimi”. La Packstation, fra le prime installate a Milano, è qui dal dicembre del 2014. Le caselle hanno tre capienze diverse: piccola, media, grande. Dietro gli sportelli gialli ci sono anche confezioni culinarie provenienti dal sud Italia. “Idea geniale. Grazie a nome di tutti gli studenti fuori sede”, ha commentato un ragazzo. E grazie anche alle madri che inviano ai figli conserve di ogni cosa, dicendo “Ti mando giusto un po’ di pomodori sottaceti formaggi marmellate taralli friselle e c’è ancora un po’ di spazio per qualche confezione di pasta, quella che piace a te”. Ogni confezione nasconde una storia: maglie di calcio e allegria, calcolatrici e dimenticanze, cibi e affetti, ma anche libri, regali. Cose preziose che trovano subito casa, dall’altra parte dell’Italia o del mondo.



poli.last Cartoline e memorie per il futuro


UNA VOLTA QUI ERANO TUTTE PALME di Vito Selis - Foto Milano Sparita

Molto prima che giungessero in Duomo, portate da una catena di caffè americano, le palme sono arrivate a Milano, in piazza Leonardo da Vinci, con quasi un secolo d’anticipo. Nel 1915 veniva posata la prima pietra del complesso di Città Studi, e poco dopo venivano piantate anche le prime palme. Le cartoline dal passato, che ci portano i saluti di quell’epoca, ci raccontano che le palme erano lì anche negli anni ’30 e ’40. In quella “distesa dei prati di Lambrate”, come la definì Carlo Emilio Gadda, sorse un

paesaggio esotico, panorama africano sotto il quale i primi studenti diedero inizio alla Storia. Nel 1920 si laureava in Ingegneria Elettronica al Politecnico proprio l’autore di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Un anno prima si laureava in Architettura Gio Ponti. All’ombra di una palma ci si preparava al futuro. Le cartoline sono arrivate a noi grazie al bel progetto di archivio virtuale Milano Sparita e da Ricordare, una pagina Facebook che raccoglie immagini e foto della Milano di una volta.

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Tanti i commenti e le condivisioni delle foto del Politecnico al tempo delle palme. C’è chi scrive: “Mio padre se lo ricorderebbe così” e chi informa che “Sono state sostituite nell’immediato dopoguerra con robinie e cespugli di pungitopo”. Alla base di questa raccolta c’è la voglia di riscoprire insieme le meraviglie passate e attuali “di una città che in molti pensano sia solo nebbia e smog”, dicono gli amministratori della pagina. E, invece, aggiungiamo noi, è anche palme vintage.



30 ANNI DI ERASMUS

Nel 1987 nasceva il progetto Erasmus. Quell’anno dieci studenti del Politecnico partivano per imparare non solo un nuova lingua ma anche un nuovo modo di stare al mondo. Ecco i ricordi degli Alumni 30 anni dopo di Redazione

“Tutto nacque da un amorino. Quello per un ragazzo di Copenaghen conosciuto in Italia. Poi, una volta lì, mi innamorai della città. Frequentavo la Kunstakademi, l’Accademia delle Belle Arti. In aula eravamo in diciassette. Si lavorava giorno e notte. Avevamo le chiavi per entrare, a nostra disposizione c’era un’aula di 400 mq, con un soffitto alto 6 metri, scale in legno che scricchiolavano al passaggio, stucchi, nello storico palazzo di Charlottenborg, dove aveva vissuto la regina Charlotte alle fine del ‘600. Alle undici di mattina vedevi passare la guardia reale nella piazza, era come stare in una favola. Poi grazie alla tesi sul risparmio energetico ho lavorato sempre a Copenaghen per Louis Poulsen, ridisegnavo le storiche lampade anni ’30. Da quell’esperienza ho imparato a sapersi costruire un’identità in un luogo sconosciuto, a partire da zero per imparare una lingua, a dare libe-

ro sfogo alla creatività. Oggi frequento ancora Copenaghen, ho amici cari conosciuti proprio in quel periodo”. Michela del Rosso, Alumnus Polimi 1992 Erasmus 1987

“Volevo vedere le ombre lunghe e il sole di mezzanotte. Volevo sentire il freddo polare e scrutare le bellezze algide del nord. Non avevo mai preso un aereo. Non sapevo una parola di inglese. Tanto meno di norvegese. Quando parlo della mia esperienza Erasmus dico sempre che è stata un’esperienza così intensa che mi ha fatto crescere di due anni in uno. Sono partito ad inizio agosto 1997, avevo 19 anni. Sono tornato a fine agosto 1998 avevo 21 anni. Da quell’anno di Erasmus ogni tanto mi succede di fermarmi di colpo e chiedermi: Oggi, quando ero ad Oslo, cosa stavo facendo?”. Andrea Fragnito, Alumnus Police 2003 Erasmus 2000


“Sono finita nel posto più piovoso d’Europa: ad Anversa, città che ho dovuto cercare sulle carte geografiche. Lì ho incontrato le persone più importanti della mia vita: Ilaria e Gabriele. Miei coinquilini, confidenti, amici veri. Tutt’ora siamo legatissimi. Ho scoperto la sensazione di sentirmi veramente libera e padrona di me stessa. Di dovermela cavare in tutte le situazioni con le mie forze, di poter effettuare scelte senza condizionamenti. Ancora oggi applico nella progettazione ciò che mi è stato insegnato. Ho imparato a vivere lo spazio e a vedere anche il punto di vista degli altri”. Elena Rampi, Alumnus Polimi 2003 Erasmus 1997

“La mia destinazione: Diepenbeek, in Belgio. Un’università pazzesca in un paesino minuto, ricca di stimoli, workshop, laboratori. Un gruppo di amici belga, scozzesi, sudafricani. Un amore travolgente e distruttivo. La visita in camper dei miei genitori. Un’intera settimana di workshop sull’architettura organica e un tour per le architetture contemporanee in area fiamminga. Abitavamo in una torre per studenti, ognuno aveva una sua stanza e bagni in comune, ogni mattina prendevamo le nostre bici per raggiungere attraverso prati e boschi la nostra università a circa 20 minuti. Dopo non sono più riuscita a fermarmi, nel 1997 una tesi in Australia della durata di 9 mesi, successivamente a Londra per due anni. Tornare in Italia, quando è una scelta, vuol dire riuscire ad utilizzare il know how positivo dei paesi visitati”. Francesca Perini, Alumnus Polimi 1999 Erasmus 1995

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“Mi dicevano: «Voglio andare all’estero per imparare l’inglese». Gli dicevo: «No tu vai all’estero per imparare ad avere una visione più aperta del mondo». Una studentessa mi disse: «Voglio andare nel posto più freddo d’Europa». Finì a Rovaniemi, in Lapponia. Qualcun altro andò nella Germania dell’Est. Tutti quanti scoprivano un mondo nuovo”. Angiola Neri, responsabile dello storico CRIFA, da dove sono partiti i primi Erasmus del Politecnico di Milano

“A Madrid mi ha obbligato ad andarci Angiola; vinsi la borsa di studio per Londra, sede estremamente ambita, Angiola mi riassegnò la destinazione. Una delle sue grandi capacità è consigliare, una volta lette le doti umane di una persona, il destino migliore. Litigammo ferocemente. Non finirò mai di ringraziarla. Ho scoperto un nuovo paese e anche me stesso. Ho imparato ad imparare”. Luca Veltri, Alumnus Polimi 2003 Erasmus 2000


INTERVISTE DI CORSA alla POLIMIRUN 2017 testo di Gianni Miraglia - Foto Cosimo Nesca

Maggio 2017: più di 8.000 runner, da 63 nazioni del mondo, hanno corso per 10km. Il traguardo: finanziare 20 borse di studio per studenti meritevoli. Il nostro inviato speciale ha indossato la pettorina e ha raccolto le voci dei Politecnici che corrono ogni giorno per la propria meta PREPARAZIONE In biomeccanica la falcata è il risultato di due mal posizioni del piede – prona e supina che nel duplice contatto col suolo sviluppano l’accelerazione. Premessa meta-scientifiche dovute, in que-

sto treno sotterraneo che mi porta al Politecnico fermata Bovisa. Tra i passeggeri, tanti studenti in maglia rossa che magari un giorno progetteranno metropolitane migliori. Abbiamo già iniziato a parlare, accomunati dalla pettorina con la scritta PolimiRun. Piacere, io sono il numero 7590: svelo che sono un infiltrato inviato per vivere di corsa la seconda edizione della PolimiRun. Timidezza che inizia a sciogliersi, qualcuno scambia parole, ma molti sono già con la testa nella gara. 10 km che, partendo dal Campus Bovisa, seziona Milano lungo le sue circonvallazioni, per giungere a Città Studi, al traguardo di Piazza Leonardo da Vinci. Un’edizione che si preannun-

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cia con i migliori auspici, visto che ha raccolto più di 8000 concorrenti iscritti, le cui quote verranno destinate alla sovvenzione delle borse di studio per 20 futuri architetti, ingegneri e designer del Politecnico di Milano. Vincenzo arriva dalla Puglia ed è la prima volta che partecipa a una corsa del genere. Per lui è semplicemente un pretesto per divertirsi e stare in compagnia. È venuto a vivere a Milano per gli studi. Considera il Politecnico una buona scuola. La porta si apre, non c’è bisogno di chiedere quale sia la direzione. Siamo un’orda colorata che invade la piattaforma, le scale e il marciapiede attiguo alla stazione. Massa rossa che pulsa sangue in una giornata speciale, destinata allo sport e alla competizione condivisa per chi corre ogni giorno ed è abituato a dare il meglio, sui libri, nel lavoro; per arrivare sempre al traguardo. E ora qualche parola con una futura designer che arriva dalla Sardegna. Occhi che ti studiano ed elaborano. Le sta a cuore la questione etica. Per lei è importante raccogliere fondi per le borse di studio. Altri coetanei in maglia rossa. Quella del Politecnico è una famiglia che resta per sempre dentro. Claudio, Alumnus Polimi di architettura, spera di incontrare anche dei suoi ex compagni di corso. Mi racconta dei sogni dell’epoca, quando voleva spiccare nel campo delle telecomunicazioni e magari finire in America. Ma è soddisfatto di essere rimasto, perché adesso lavora per una grande compagnia telefonica.

il master al Politecnico, sia per la qualità degli studi che per il nostro stile di vita. Finalmente si parte, nessun colpo di pistola. Scrosciano applausi e incitamenti, siamo tutti protagonisti di qualcosa che fa del bene: siamo tutti insieme, siamo tutti studenti del Politecnico. Aumento il passo, anche per riprendermi gli anni perduti: ci può essere competizione, anche tra non competitivi che sono partiti in fondo assieme a me. Supero quelli che camminano. Alcuni schierati come una catena della solidarietà di chi va a passo lento. Il momento più pericoloso è quando salti giù da un marciapiede, la caviglia assorbe microtraumi che anche delle scarpe adatte non riescono a evitare. Ci si guarda eccitati, liberi di calpestare la carreggiata dove

PARTENZA Eccoci nel cuore del Politecnico in Bovisa, il fiume rosso invade ogni metro quadrato di un’area normalmente destinata ad orari, corsi ed esami. Per primi partiranno gli agonisti. Poi i competitivi e alla fine gli altri, quelli come me. Studenti, Alumni, professori e amici. Due ragazzi mi rispondono in inglese, uno è olandese e l’altro è belga. C’è un’Italia in cui fuggono i cervelli, pure da certi paesi considerati modello d’efficienza. Hanno preferito

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Piacere, io sono il numero 7590: svelo che sono un infiltrato inviato per vivere di corsa la seconda edizione della PolimiRun.


L’AUTORE Gianni Miraglia è uno scrittore e performer italiano. Nel programma “Viaggio nell’Italia del Giro” su Rai2 ha indossato i panni del ciclista narratore. Socio cofondatore della casa editrice Atlantide, collabora con diversi magazine italiani e il suo ultimo libro è “Ritornello al futuro” (Baldini&Castoldi).

all’ora di punta si verrebbe falciati. Ansimo domande con la voce che mi rimane. Mi affianco a due indiani che hanno scelto il Politecnico. Sono qui per studiare ingegneria aerospaziale, vorrebbero realizzare aerei per la loro nazione. Alcuni anche da adulti vogliono fare quei mestieri che sognavano da bambini. Mi raccontano che dalle loro parti si fanno le corse, ma che l’ostacolo principale sono le vacche sacre, che te le ritrovi all’improvviso di fronte e puoi superarle, ma con un certo riguardo. Il cuore batte, segue il ritmo delle migliaia di passi attorno a me, una sincronia random che evoca la pulsazione dei più di ottomila partecipanti. Questo suono è un battito vitale. Al quarto chilometro si assapora l’inizio della fatica. Secondo una ragazza l’ostacolo è stato l’esame di Scienza delle Costruzioni: “Quella sì che è stata una maratona”, dice. Ma ce l’ha fatta. Si va avanti, superando difficoltà e valutazioni, anche quelle del nostro ritmo cardiaco che inizia a prendere sopravvento. Voce sempre più provata, parole avvolte dal fiatone. Meno vocaboli, non è facile comunicare. Mi avvicino a una mamma che spinge la carrozzina del suo cucciolo. Anche lei laureata al Poli in design industriale. Ha fatto un master nel Nord Europa. Una reduce, ha partecipato alla PolimiRun dello scorso

‘‘Una claque di studenti con un guantone nero tifa per noi. Facciamo parte del grande fiume rosso ed è solo una bella festa ‘‘ 88 MAP Magazine Alumni Polimi

anno. Questa edizione le sembra perfetta, è migliorata tantissimo per l’ottima organizzazione. Corre e spinge la carrozzina, sembra non provare alcuna fatica. Mi svela che corre nella categoria Master, che prende ogni volta i tempi, perché partecipa a della gare amatoriali: per affrontare le lunghe distanze, devi necessariamente programmare tabelle, tempi e allenamenti. Spinge il figlio a rotelle. Spera che un giorno anche lui sarà realizzato come lei. Non gli imporrà i suoi studi, ma se volesse iscriversi al Poli ne sarebbe entusiasta. Al passaggio dei tunnel sotto la Stazione Centrale siamo già al sesto chilometro. Veniamo incoraggiati dagli addetti, uno di loro è un professore che si è offerto come volontario. Ha già riconosciuto un bel po’ di suoi studenti ed ex studenti, ed è piacevolmente sorpreso che alcuni siano vecchie conoscenze. Saltello sul posto per non perdere il ritmo e proseguo. La vera selezione inizia adesso. In zona Città Studi una claque di studenti con un guantone nero tifa per noi. Gambe leggere, bisogna staccarle dai pensieri e continuare a correre. Non ci si deve fermare. Andare avanti che manca poco. Facciamo parte del grande fiume rosso ed è solo una bella festa.


Si intravede la meta promessa, laggiù c’è piazza Leonardo da Vinci, il grande inventore, colui che ha intuito la modernità prima di tutti noi. Eccolo comparire: l’arrivo, il totem salvifico si staglia in mezzo alla piazza. Alcuni schizzano oltre i miei ultimi passi. ARRIVO Ci si ferma, la testa rimbomba, mani che si posano sulle ginocchia. Ma io sono qui per scrivere, raccontare storie. Mi inerpico sulle scale a rallentatore, per raggiungere la pedana dove c’è anche il Rettore. Ha un obiettivo - anzi è il suo sogno quello che PolimiRun diventi la corsa più importante di Milano. Ringrazia la partnership col brand sportivo dalle tre strisce, la Adidas, fondata da quell’Adolf Dasler che alle Olimpiadi di Berlino nel ’36 ebbe il coraggio di fornire le scarpette

all’afroamericano Jessie Owens, colui che poi si aggiudico i 100 metri, superando il campione tedesco e mettendo in crisi la macchina della propagandistica razziale nazista. Quella volta, a fine gara Hitler rifiutò di stringergli la mano, perché nero. Qualche anno dopo Jesse Owens dichiarò che nemmeno il presidente degli Stati Uniti gliela porse, che ci era abituato. Anche oggi qui c’è un campione: è il nazionale di atletica della squadra azzurra, Andrew Howe, anche lui sangue afroamericano: sua madre correva per l’Ucla di Los Angels e fu la sua prima allenatrice. L’accento reatino di Andrew sorride, accoglie con parole gentili ogni studente che lo ferma. Secondo Andrew, ognuno si muove a modo suo, ovviamente c’è chi è più predisposto. Ma comunque la voglia di arrivare a una destinazione accomuna

gli essere umani. Arriva l’ora di pranzo in questa mattinata di festa. Il parco adiacente brulica di ragazzi e ragazze in maglia rossa che mangiano mele. Stanno assieme, un tutt’uno rivolto al futuro. Respiro e osservo questo quadro perfetto in cui i sogni esistono e si basano sull’impegno e sui risultati. E quelli raggiunti oggi valgono 53.000 euro di borse di studio. Il rettore Ferruccio Resta ringrazia tutti e dice al microfono: “Sono emozionato e commosso soprattutto nel vedere questa macchia di colore. Politecnici si rimane per tutta la vita - conclude il rettore - E noi vogliamo essere sempre coi nostri laureati”. L’ultima frase che arriva dal podio è questa: “Ci vediamo il prossimo anno”. Nel frattempo, continuiamo ad allenarci.

‘‘Abbiamo un obiettivo: che la PolimiRun diventi la corsa più importante di Milano’’ 89 MAP Magazine Alumni Polimi


Maggio 2017 Piazza Leonardo da Vinci. Quasi 1500 alunmi sono tornati al Poli per festeggiare dai 10 ai 70 anni dalla laurea.


BENTORNATI ALUMNI

Ogni anno il Poli apre le porte del suo storico Campus per riabbracciare i propri Alumni. Due appuntamenti speciali per portare nelle aule chi in questi anni le ha sempre avute nel cuore di Davide Gritti

Maggio 2017 Potrebbe essere la scena finale di un film, un bel finale, come quando sullo schermo appare la scritta “Molti anni dopo” e ritroviamo i protagonisti con i capelli bianchi ma la stessa luce negli occhi, insieme a tanta emozione. Siamo invece alla cerimonia degli anniversari di laurea che celebra gli Alunmi laureati nelle annate: 1947, 1957, 1967, 1977. Riprendono il posto lasciato molti anni fa e occupano tutte le sedie dell’aula De Donato. “Bentornati”, dice al microfono il professor Enrico Zio, Delegato del Rettore per gli Alumni e Presidente AlumniPolimi Association. Poi, aggiunge, “Cominciamo dall’appello. Alzino la mano quelli del ’47”. Si sollevano tre braccia e si solleva anche un grande applauso. “Non è mai stata un’Università da cui si esce facilmente”, continua il professor Zio. Qualcuno posa sul banco il vecchio libretto universitario, l’ultimo voto registrato risale all’11 novembre del 1957 ed è un Ventotto. Il professor Zio lo aggiorna scrivendo 30L, una lode per la presenza a questa giornata. C’è chi come l’Alumnus Guido Piccardo di Ingegneria Chimica, anno di laurea 1967, ricorda a tutti che “un ingegnere non esce mai senza il suo regolo”. Infatti, ancora oggi, mostra con orgoglio il regolo che fuoriesce dal taschino. Qualcun altro, con lo stesso orgoglio dell’ex studente, mostra i luoghi della sua gioventù al nipote che ha portato oggi con sé. In prima fila ci sono madre e figlio, in epoche diverse hanno rivestito lo stesso ruolo di Alumni. Ernesto Gismondi, Premio Compasso

d’Oro alla Carriera nel 1994, è partito da qui. Dopo la laurea in Ingegneria Aeronautica nel ’57 ha spiccato il volo fondando l’azienda di illuminazione Artemide. Passeggia con la moglie rievocando ricordi, così come tanti fanno intorno a lui, accompagnati dalle famiglie. È un giorno di riabbracci, di piccoli gruppi che tornano a formarsi, tavole rotonde che fan cerchio per un brindisi e si raccontano la vita prima e dopo la laurea. Si colgono frasi qua e là, scampoli di conversazione: c’è chi racconta il progetto di aereo bimotore, il rilievo dell’altezza tramite palloncini, la durezza del quarto anno, l’ammonimento di un professore “se fate un errore di calcolo il ponte cade”, chi ricorda le lezioni del premio Nobel Giulio Natta e chi parla delle eredità di famiglia, “Mio padre era ingegnere, mio nonno era ingegnere, mio zio alla fine dell’Ottocento è stato l’architetto Ercole Balossi”. Questo è un giorno di festa come un matrimonio, come una laurea. Infatti arriva anche il momento del lancio del Tocco, e il cielo torna a essere quello del ’47. Qualche giorno dopo si celebrano gli anniversari di laurea 1987, 1997 e 2007. “Gli studenti del Politecnico scommettono su loro stessi e sul loro futuro, scommettono per essere qui tra dieci, venti, trent’anni per festeggiare il loro anniversario di laurea”. Poche ore prima del discorso del Rettore di fronte agli Alumni in festa, una macchina entra di fretta in Piazzale Leonardo fino a raggiungere uno dei

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“Io sono ingegnere. Mio padre era ingegnere, mio nonno era ingegnere,mio zio alla fine dell’Ottocento è stato l’architetto Ercole Balossi”


In foto, il Rettore Ferruccio Resta dà il benvenuto agli Alumni. Presenti all’evento anche i prorettori Donatella Sciuto e Emilio Faroldi, i presidi Ilaria Valente, Barbara Betti e Giovanni Lozza e i docenti delegati del Rettore Francesco Calvetti, Emanuela Colombo, Maurizio Zani e Renato Rota, insieme al Presidente e delegato Alumni Enrico Zio

cancelli. Ne esce un liceale che chiede indicazioni per il test di ingresso di Ingegneria e, ottenuta l’informazione, corre dalla mamma alla guida per rassicurarla. “Vai, io ti aspetto qui fuori”. Magari tra vent’anni anche lui festeggerà un anniversario al Poli. Pochi minuti dopo, dentro il Rettorato, Antonino e Alberto si riconoscono e si abbracciano come vent’anni fa. Ingegneri elettrotecnici della classe ’97, hanno fatto liceo e Politecnico insieme. Dopo una formazione parallela hanno intrapreso carriere lavorative parallele e hanno continuato a vivere nei loro paesi, uno parallelo all’altro. Pochi chilometri di distanza non hanno impedito il perdersi di vista. Mentre il figlio di Alberto a pochi passi da qui sta partecipando alla finale di un concorso matematico nazionale, Antonino enumera ricordi a cifre precise: 10 anni dall’ultima visita al Politecnico, 18 anni senza vedersi, 408 iscritti al corso di Analisi Matematica del primo anno, 1 ingegnere nucleare ogni 8 ingegneri elettrici. Elenca una

serie perfetta di esami: Modellistica dei sistemi elettromeccanici, Elettrotecnica industriale, Macchine elettriche, tutti propedeutici alla conquista finale, gli Azionamenti elettrici. Poi finalmente la laurea e ad una festa di laurea al Politecnico l’incontro con la futura moglie, architetto della classe ’97, che ha seguito attenta la costruzione del suo racconto. Giulia, bio-ingegnere della classe ’87, entra nell’Aula Magna che un tempo era una biblioteca e, con una collega che non vede da 30 anni, parla del piacere dello studiare insieme, dei piccoli passi di cui è fatto lo studio e dei piccoli passi della sua carriera, dallo scrivere un programma al gestire un’area di sviluppo e tre figli, dell’orgoglio stupefatto dei parenti che, ancora ragazza, ti sentono discutere la tua tesi e del tuo orgoglio quando un anno fa qui sotto hai sentito tuo figlio discutere la sua. Dalla parte opposta del lungo tavolo ci sono tre architette della classe ‘87 che hanno lavorato insieme ad una

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“Antonino enumera ricordi a cifre precise: 10 anni dall’ultima visita al Politecnico, 18 anni senza vedersi, 408 iscritti al corso di Analisi Matematica del primo anno, 1 ingegnere nucleare ogni 8 ingegneri elettrici”


Gli Alumni festeggiano gli anniversari di laurea 1947, 1957, 1967, 1977

Guido Piccardo, Ingegneria Chimica, anno di laurea 1967, e il suo inseparabile regolo.



Molti Alumni sono tornati sui banchi con i libretti universitari della loro epoca. Oggi i libretti cartacei sono stati sostituiti da quelli digitali

tesi in restauro e poi non si sono più perse di vista, raccontano degli amici che quel giorno hanno dato loro una mano ad appendere di corsa le decine di tavole del progetto e dei figli, sei in tutto, laureatisi al Politecnico. Nella stessa sala Claudio Maria, disegnatore industriale della classe 2007, guarda un espositore. Ha studiato e si è laureato a Bovisa, ma ha portato qui dentro il suo lavoro, collaborando al design delle luci che illuminano l’esposizione. Il Politecnico, racconta ricordando un intero corso su Bruno Munari, ha illuminato la sua strada, prendendolo giovane spaesato e restituendolo disegnatore. La luce di Claudio è lo sguardo di cui parla Francesco, architetto della classe 2007. Lo sguardo architettonico” che gli è stato insegnato qui lo ha portato in Erasmus in Portogallo, in un importante studio di Parigi e lo porterà questa sera alla cena con i compagni d’università.

Eleonora si rifugiano all’ombra della facciata del Rettorato. Qui un caldissimo venerdì 17 luglio 1987 si sono laureate, hanno rimandato le proposte di lavoro e sono andate a Venezia alla Festa del Redentore. Mentre i compagni di studio di quegli anni si avvicinano e si aggiungono ai ricordi, le due raccontano della loro tesi sul riconoscimento vocale automatico applicato ad un braccio meccanico, Gilberto, e ad un sistema computerizzato di rubrica a ricerca vocale dei numeri di telefono. La conclusione della tesi di Nicoletta ed Eleonora sosteneva che i robot di quarta generazione non fossero sufficientemente avanzati e che si dovesse attendere la quinta generazione robotica futura. A guardarle riunite tutte insieme a ricordare il passato le generazioni di studenti del Politecnico sembrano aver vinto la loro scommessa, il loro futuro.

Mentre la mattina e la festa finiscono fa sempre più caldo, Nicoletta ed

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“Lo sguardo architettonico appreso qui, l’ha portato in Erasmus in Portogallo, in un importante studio di Parigi e lo porterà questa sera alla cena con i compagni di una volta”


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N°3 - PRIMAVERA 2018


NOI E LORO:

DESIGNERS VS INGEGNERI&ARCHITETTI FENOMENOLOGIA SEMISERIA DI UNA LOTTA ETERNA Di STEFANO BOTTURA, Alumnus POLIMI DISEGNO INDUSTRIALE 1999 Noi designer siamo gli outsider, siamo la razza ibrida, siamo cuore e cervello, siamo la sintesi impossibile e perfetta tra estetica e funzionalità, siamo i figli eternamente ribelli di Mamma Architettura e Papà Ingegneria. Fateci caso: non abbiamo un ordine di categoria, non abbiamo un prefisso lavorativo/nobiliare da mettere con (patetico) orgoglio nelle firme delle mail o nelle targhette dorate fuori dagli studi. Non abbiamo nemmeno una parola in italiano, la nostra lingua madre. Ci chiamiamo “designer” e poi ci aggiungiamo prefissi (sempre in inglese mi raccomando) come “graphic” o “product” o “visual” o “fashion” o “ interior”. E poi, vogliamo descrivere la tenerezza della denominazione del corso in “Disegno Industriale”? Davvero? Nel 3° millennio? Dopo la rivoluzione digitale e l’intelligenza artificiale siamo ancora legati a una definizione da America Fordista anni 50 (se non Inghilterra di fine '800...)? Vedete come siamo? Non ci va mai bene niente: nemmeno come si chiama il nostro corso di laurea. Ma non è colpa nostra, mi sa che ci nasci così e se non ci nasci cinque anni di Politecnico ti ci fanno diventare.

Perché noi designer siamo così: sfuggenti, in movimento, mai al proprio posto, mai appagati, in ricerca continua e costante, anche di un’identità. Come invidiamo a volte le vostre certezze di architetti e ingegneri, che quando qualcuno vi chiede che lavoro fate potete rispondere tranquillamente “architetto” o “ingegnere” e la gente capisce, o almeno, crede di capirci qualcosa, mentre se noi alla domanda: “Che lavoro fai?”, rispondiamo “designer”, nella migliore delle ipotesi l’interlocutore risponde “Ah si? Bello. E cosa disegni? Fai le mostre?”. Se hai la forza di controbattere “Ma no signora in realtà facciamo un po’ di tutto, può capitare che progettiamo una sedia come un sito internet come un festival di musica come una campagna pubblicitaria o una rivista o…”, ecco che vieni subito interrotto con “Ah si lavori con il computer, anche il cugino della mia vicina fa quelle cose li”. Gli ingegneri li riconosci subito a colpo d’occhio, non c’è nemmeno da spiegare il perché, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. E lo stesso vale per gli (meglio, LE) architetti. E noi? Noi designer non ci cogli invece a un primo

colpo d’occhio, nelle giornate in cui ci sentiamo personaggi di qualche libro o film potremmo sembrare studenti di filosofia o lettere. Nelle ‘giornate no’ sembriamo balordi attaccabrighe, abbiamo quegli occhi e quelle facce lì, tra gli attori e gli scappati di casa generici. Quello che ci frega è l’Immaginario, quella parolina lì, che impari al primo anno di Università e poi ti cambia, ti rovina, ti salva la vita. Capisci che quello che sei e che fai è mettere le mani nella fantasia e renderla reale e viceversa, e per farlo devi vivere costantemente in questo mondo tutto tuo che non è né dentro né fuori dalla realtà: è tutte e due insieme. Cosa volete che ne sappiano del nostro tormento gli Ingegneri e gli Architetti che hanno tutte le loro belle certezze e sicurezze? Ma noi designer siamo generosi, questo è da dire, non glielo facciamo pesare mai. Siamo molto più umili, pure troppo a volte. Ma qui torniamo al punto di cui sopra: non ci interessano i riconoscimenti, i premi, la fama, il prestigio sociale e nemmeno ci interessano troppo i soldi. E lo sapete perchè? Perchè siamo gli ultimi veri romantici. Altrochè..

Stefano risponde in queste righe alla discussione tra architetti e Ingegneri pubblicato sul #1 del Map. Leggila online! www.alumni.polimi.it

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Lettere alla Redazione

UN INGEGNERE D’ALTRI TEMPI

L’Alumnus Franco de’ Molinari, laureato in ingegneria nel 1951, ha ritrovato un po’ di sé fra le pagine del numero precedente di MAP. Così ci ha scritto una lettera ricca di memoria storica, una testimonianza che guarda avanti, dedicata soprattutto ai più giovani. Buona lettura Faccio un passo indietro: nel 1943 vivevo a Mogadiscio, in Somalia. Mio padre, ufficiale, era prigioniero degli inglesi. Mia madre e le mie sorelle tornarono in Italia, rimpatriate con una delle Navi Bianche (Saturnia, Vulcania, Duilio, Giulio Cesare) che dall’aprile 1942 all’agosto 1943, compiendo tre volte il periplo dell’Africa, avevano rimpatriato 30.000 donne e bambini sottratti ai terribili campi di concentramento istituiti dagli inglesi a seguito dell’occupazione militare delle colonie italiane del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia). A me non fu permesso il rimpatrio, per via della mia età: avevo 16 anni, troppo grande dunque per essere considerato un bambino. Rimasto solo, mi diplomai a 17 anni nel luglio 1944 e, momentaneamente libero da impegni scolastici, iniziai a lavorare per sopravvivere. Per due anni fui impiegato come magazziniere presso il Locust Control, organizzazione per la lotta contro le invasioni di cavallette. Ottenni l’iscrizione al Politecnico attraverso un messaggio della Croce Rossa internazionale, fatto pervenire a mia madre in Italia. Finita la guerra, solo a fine 1946 riuscii a rimpatriare. Come fuori corso, potei dare entro luglio 1947 i 16 esami del biennio per frequentare poi gli altri 3 anni di ingegneria chimica industriale. Per far sapere ai giovani d’oggi le difficoltà da superare nel dopoguerra, io, vivendo con la famiglia a Monza, frequentavo il Poli mattino e pomeriggio (nel quale si svolgevano le esercitazioni obbligatorie) e, per mantenermi agli studi, insegnavo in una scuola serale della Società Arti e Incoraggiamento al Lavoro di Via Santa Marta a Milano. Tutte le sere dalle 18 alle 20, sabato dalle 14 alle 17, domenica dalle 9 alle 12 insegnavo disegno macchine, algebra e meccanica. A quei tempi, ovviamente, mi dovevo spostare su treni e tram, niente auto né moto. Negli anni 1948 e 1949 ho anche vinto due borse di studio riservate ai Reduci. Al Poli ho avuto la fortuna di avere insegnanti quali Gino Cassinis, prof. di Toponomastica e Rettore, Luigi Amerio (Analisi matematica), Adolfo Quilico (Chimica), Danusso (Scienza delle costruzioni), Leo Finzi (Scienza delle costruzioni), Gino Bozza (Fisica tecnica, poi Ret-

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tore) Giulio Natta (Chimica industriale), Luigi Dadda (Elettrotecnica, poi Rettore), Bertolini (Costruzione macchine), Pastonesi (Impianti chimici) e altri di cui ho dimenticato i nomi. Nel luglio 1951, nell’Aula Magna del Politecnico di Milano, ebbi la soddisfazione di conseguire la laurea in Ingegneria Industriale Chimica e nell’ottobre dello stesso anno di essere chiamato e assunto in Pirelli presso la quale iniziavo la mia carriera divenendo poi dirigente. Come tale ebbi la responsabilità di progettare uno stabilimento Rigenerati di gomma a Pizzighettone (da me diretto dal 1963 al 1968), un raddoppio dello stabilimento Pneumatici di Buenos Aires, (diretto dal 1969 al 1971), uno stabilimento di Pneumatici chiavi in mano per il governo dell’Iraq dal 1973 al 1978, e altri incarichi direttivi sino a tutto il 1981 anno in cui lasciavo la Pirelli e, da libero professionista, mi dedicavo alla consulenza organizzativa divenendo socio, poi consigliere delegato e presidente sino al 2004 della MCA (Management Consultants Association). Libero da impegni professionali, da allora mi sono dedicato all’Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati d’Africa della quale sono Presidente Nazionale dal 2012 e Responsabile del giornale associativo “IL REDUCE D’AFRICA”.Questa in sintesi la mia vita lavorativa che, grazie alla preparazione ricevuta al Politecnico, mi ha consentito di svolgere con soddisfazione tanti e tanti lavori diversi, indipendentemente dalla specializzazione conseguita (chimica industriale). Sulla nuova rivista degli Alumni del Poli, leggo con interesse delle innumerevoli iniziative di colleghi ben più giovani ma pieni di volontà e coraggio che danno onore al Politecnico, al quale rimango affezionato con tanta nostalgia di quegli anni. Caro Politecnico avanti tutta, ad maiora! Franco de’ Molinari Alumnus Ingegneria Chimica 1951

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