MAP - Magazine Alumni Politecnico di Milano #1

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MAP Magazine Alumni Polimi

Numero 1 - Primavera 2017

La rivista degli architetti, designer e ingegneri del Politecnico di Milano

Ferruccio Resta e il Politecnico di domani • Dossier: i numeri del Poli • La nuova piazza Leonardo • Renzo Piano: 100 alberi tra le aule • Gian Paolo Dallara e DynamiΣ: la squadra corse del Poli • PoliSocial: il 5x1000 del Politecnico di Milano • Gioco di squadra: tutto lo sport del Politecnico • Guido Canali, l’architettura tra luce e materia • Paola Antonelli, dal Poli al MoMA di New York • Zehus Bike+ e Volata Cycles, le bici del futuro • Paolo Favole e la passerella sopra Galleria Vittorio Emanuele • Marco Mascetti: ripensare la Nutella • I mondi migliori di Amalia Ercoli Finzi e Andrea Accomazzo • Nel cielo con Skyward e Airbus



MAP

Magazine Alumni Polimi La rivista degli architetti, designer, ingegneri del Politecnico di Milano Direttore Responsabile Federico Colombo Direttore Esecutivo AlumniPolimi Association. Dirigente Area Sviluppo e Rapporti con le Imprese, Politecnico di Milano.

4 Editoriale - Federico Colombo 6 Lettera aperta del Presidente Enrico Zio agli Alumni 9 ____________________________________________________poli.news________

Direttore della Comunicazione Chiara Pesenti Dirigente Area Comunicazione e Relazioni Esterne, Politecnico di Milano.

10 OPEN: il Rettore Ferruccio Resta racconta l’Ateneo di domani

Membri del Comitato Editoriale Ivan Ciceri Fundraising Manager, Politecnico di Milano. Luca Lorenzo Pagani Communication Manager AlumniPolimi Association, Politecnico di Milano. Irene Zreick Relations AlumniPolimi Association, Politecnico di Milano.

20 La nuova piazza Leonardo, un giardino da vivere

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34 Gioco di squadra: tutto lo sport del Politecnico di Milano

Caporedattore Gabriele Ferraresi

40 L’impegno sociale del Politecnico di Milano e i progetti finanziati con il 5x1000

Collaboratori Diego Cajelli, Emanuela Colombo, Cosimo Nesca, Lorenzo Palmeri, Gabriele Pasqui, Federica Passera, Giulio Pons, Federico Sardo, Simone Stefanini, Marco Villa Progetto grafico Stefano Bottura - BetterDays.it

14 Fotografia dell’Ateneo: chi sono gli studenti, dove studiano, come entrano nel mondo del lavoro 22 Cento alberi tra le aule: Renzo Piano per il nuovo campus di via Bonardi 26 Campus Bovisa: la nuova biblioteca e la nuova Aula Magna 30 Dai libri alla pista: il team DynamiΣ e la monoposto Formula SAE del Politecnico di Milano

49 ____________________________________________________better.poli_______ 50 Verso il 2099: 87 consigli degli Alumni del Poli alle nuove generazioni 54 Circle of Donors, le borse di studio i migliori studenti dell’Ateneo 58 Guido Canali: la luce e la materia

Stampa Arti Grafiche Conegliano srl Via Conegliano, 83 31058 Susegana TV

64 Paola Antonelli: il design al tempo delle emoji

Editore e Proprietario AlumniPolimi Association Politecnico di Milano

72 In sella al futuro: Volata Cycles e Zehus Bike+ reinventano la bici

Prof. Enrico Zio Presidente AlumniPolimi Association Delegato del Rettore per gli Alumni Delegato del Rettore per il Fundraising individuale, Politecnico di Milano.

80 La stella gentile: intervista con la professoressa Amalia Ercoli Finzi

AlumniPolimi Association P.zza Leonardo da Vinci, 32 20133 Milano T. +39.02 2399 3941 Alumni@polimi.it www.Alumni.polimi.it PIVA 11797980155 CF 80108350150 Pubblicazione semestrale Numero 1 - Primavera 2017 Registrazione presso il Tribunale di Milano. n°89 del 21/2/2017

68 Highline a Milano: Paolo Favole e la passerella sopra la Galleria Vittorio Emanuele 76 MrSmith e la fabbrica di cioccolato: Marco Mascetti, il designer che ha ridisegnato la Nutella 84 Andrea Accomazzo: il futuro dell’esplorazione spaziale dopo Rosetta 90 Skyward, la rampa di lancio per gli ingegneri aerospaziali del Politecnico di Milano 96 L’eterna lotta tra ingegneri e architetti. E viceversa.


EDITORIALE Quella che state leggendo è la rivista semestrale degli Alumni del Politecnico di Milano, una sorta di mappa per rivivere i luoghi in cui avete studiato, gioito e sofferto, per sbirciare dalla finestra di una vecchia aula dell’Ateneo e scoprire che nasconde un mondo ricco di novità entusiasmanti. È il punto di arrivo di diversi anni di lavoro con AlumniPolimi, volto a rintracciare e mettere in contatto gli ex-studenti tra loro e con il Poli, una missione che svolgiamo ogni giorno con passione e orgoglio e che ha dato vita a tanti progetti e occasioni di dialogo nel corso degli ultimi anni. Quando gli Alumni tornano al Politecnico, magari dopo 30 o 40 anni di assenza, è sempre una grande emozione. Improvvisamente tornano ragazzi e si guardano intorno, sovrapponendo i propri ricordi con le immagini del Campus di oggi. Vanno a cercare le loro aule, i loro posti, osservano gli studenti di oggi e i loro rituali, a volte immutati, a volte completamente nuovi. Superato un primo momento di meraviglia, però, la curiosità politecnica ha sempre il sopravvento. Insegna ancora il mio professore? C’è ancora quell’aula in cui ho sudato sette camicie? Dove studiano i ragazzi di oggi? Quanti laureati ci sono all’anno? Trovano lavoro? E dove lavorano? La biblioteca c’è ancora? E il bar? Anche dopo la laurea, il Poli resta nel cuore come un vecchio amico al quale ogni tanto si ripensa e,

rincontrandolo, accanto alla gioia e alla confidenza ritrovata c’è tanta voglia di aggiornarsi su quello che è successo nel frattempo. MAP nasce per soddisfare questa curiosità: in questo numero 1 vi racconteremo come è fatto il Politecnico, come sono cambiati i campus negli ultimi anni, chi sono gli studenti e come vivono l’università, tra studio (che c’è sempre stato e continua ad essere il nostro asset fondamentale), sport, corsi in inglese, contatto con le aziende e lavoro pratico che mette alla prova le conoscenze apprese sui libri. Vi racconteremo anche il “Poli fuori dal Poli”, cioè gli Alumni: Architetti, Designer e Ingegneri che fanno cose bellissime all’interno delle loro professioni e danno lustro al nome della Alma Mater. MAP è una rivista semestrale con la quale il Politecnico vuole raccontarsi a voi Alumni e tenere aperto questo prezioso canale di comunicazione con voi, per invitarvi a tornare tra le sue aule anche solo con il pensiero e per riallacciare una relazione così importante per l’Ateneo: quella con i suoi laureati, i principali ambasciatori dei suoi valori in tutto il mondo. Buona lettura e arrivederci a ottobre

Federico Colombo Direttore Esecutivo AlumniPolimi Association. Dirigente Area Sviluppo e Rapporti con le Imprese, Politecnico di Milano.



LETTERA APERTA DEL PRESIDENTE ENRICO ZIO AGLI ALUMNI Cari Alumni, colgo l’occasione di dialogo con voi, offertami da questa breve lettera, per esprimere il mio orgoglio di essere stato nominato “Delegato per gli Alumni” dal neo-eletto Rettore, Professor Ferruccio Resta. Gli Alumni Polimi sono tutti coloro che hanno conseguito un titolo di studio superiore al Politecnico di Milano: 50 mila architetti, 11 mila designer e 94 mila ingegneri tra i 23 e i 105 anni (eh sì, c’è anche chi, quest’anno, compie 80 anni di Laurea). Un gruppo di 155 mila professionisti che vivono e lavorano in tutto il mondo, ambasciatrici e ambasciatori del Made in Italy e di disciplina, metodo e resilienza tipicamente politecnici: indubbiamente, una grande risorsa per il nostro Paese e per il mondo intero. In questi anni abbiamo fatto molte cose insieme e sempre di più siamo chiamati a prendere parte alla vita del nostro Ateneo. Quella degli Alu-

mni è una realtà vitale, capace di immettere energie nuove, competenti e di alto livello nel sistema Politecnico, sotto forma di idee, progetti, contatti con il mondo industriale, culturale e tecnologico ed eventualmente, anche, supporto economico. È dunque facile per me dichiarare che con immutato, o al più aumentato, entusiasmo mi appresto a iniziare questo nuovo mandato al fianco del Rettore. Non può che essere, infatti, un grande onore rappresentare questa comunità di 155 mila ex-Allievi, per una sempre maggiore interazione ed integrazione all’interno del Politecnico. Vi ringrazio per quello che avete potuto fare fin ora, per quello che fate e per quello che farete: conto su tutti voi anche per i prossimi 6 anni di mandato. Prof. Enrico Zio

Presidente AlumniPolimi Association Delegato del Rettore per gli Alumni Delegato del Rettore per il Fundraising individuale, Politecnico di Milano.

Gli Alumni sono una realtà compatta e vitale che immette energie nuove nel sistema Politecnico



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N°2 - AUTUNNO 2017

N°0 - AUTUNNO 2016

N°1 - PRIMAVERA 2017

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N°3 - PRIMAVERA 2018


poli.news Numeri, storie e ricordi da piazza Leonardo da Vinci e dintorni


Ferruccio Resta racconta il nuovo Politecnico di Milano

FERRUCCIO RESTA Nato a Bergamo il 29/8/1968, vive a Milano con la moglie e ha tre figli. Laureato nel 1992, è docente ordinario di Meccanica applicata alle macchine.


OPEN Ferruccio Resta è il nuovo rettore del Politecnico, resterà in carica fino al dicembre del 2022: nato a Bergamo, 48 anni e tre figli, laureato al Politecnico nel 1992, Resta è docente ordinario di Meccanica applicata alle macchine. Nel corso degli anni ha sviluppato attività di ricerca in vari ambiti, tra cui la meccanica dei veicoli ferroviari e automobilistici e i sistemi di controllo nei settori dell’automazione industriale, dei veicoli e della robotica. Al suo attivo vanta inoltre più di 220 pubblicazioni scientifiche e sette brevetti internazionali. Ecco come vede il nuovo Politecnico di Milano. I PUNTI DI FORZA DEL POLITECNICO Non ho dubbi, il primo punto di forza del Politecnico sono gli studenti: abbiamo circa 41mila iscritti. L’alto numero di laureati mantiene una percentuale di occupazione che va oltre il 95% a un anno dal conseguimento del titolo, nonostante crisi e difficoltà nazionali e internazionali. Secondo punto di forza, la credibilità nazionale e internazionale che l’Ateneo ha ulteriormente visto crescere negli ultimi anni. Ter-

zo punto di forza è il ruolo dei ricercatori, capaci di spaziare dalla ricerca di base e speculativa a quella per il mondo industriale: questa diversità è un grande plus del Politecnico. UNA DIDATTICA AL PASSO COI TEMPI Oltre 41mila persone hanno scelto di investire qui 3 o 5 anni della loro vita, in una formazione che dovrà permettere loro di rimanere, per i successivi 50 anni, nel mondo del lavoro. Un mondo del lavoro che però oggi non dà nessun punto di riferimento, dove le professioni sono in evoluzione e dove spesso i giovani andranno a inserirsi in un mercato in cui il lavoro che svolgono ancora nemmeno esiste al momento degli studi. In questo contesto la sfida più importante è fare in modo che la nostra formazione rimanga a un livello di eccellenza globale, per farlo non abbiamo altre strade: dobbiamo innovarla. Insieme a una preparazione di base molto robusta - il nostro punto di forza - dovremo inserire insegnamenti che valorizzino il mondo delle competenze trasversali, delle soft

“Gli Alumni sono la grande sfida del presente e del futuro per il Politecnico”


skills, insegnare ancora di più ai nostri allievi il pensiero critico, a mettere in discussione le certezze, e soprattutto a risolvere i problemi. Senza dimenticare di coltivare competenze che approccino in maniera nuova il mondo del digitale. LA QUALITÀ DELLA VITA NEL CAMPUS Oggi la mobilità studentesca è altissima, e non parlo solo di flussi internazionali. Lo è anche per quel che riguarda i nostri studenti che vivono a Milano o in Italia. Scelgono l’università che più gli garantisce il ritorno dell’investimento: sono abituati a ragionare così. Più internazionali, più aperti e soprattutto con un accesso all’informazione superiore a quello della mia generazione o delle generazioni precedenti. Dobbiamo inserire il Politecnico in cima alla lista delle possibili mete di questi studenti, e per farlo dobbiamo porre grande attenzione ai programmi di formazione e garantire standard di livello internazionale. ATTRARRE RICERCA, IMPRESE, ISTITUZIONI, MONDO DEL SOCIALE Chi vuole sviluppare un’attività di ricerca deve poter scegliere il Politecnico: dobbiamo dare sicurezza di carriera, ma anche infrastrutture e un’alta qualità della vita all’interno delle nostre mura. Un fattore quest’ultimo molto importante per chi vive l’Ateneo ogni giorno. L’ultimo tema è l’attrattività verso tutti i nostri grandi partner istituzionali: le imprese devono trovare qui capacità di sviluppare innovazione e ricerca, le istituzioni devono trovare più possibilità di cooperare, e così il mondo del sociale. IL RUOLO DEGLI ALUMNI NEI PROSSIMI 6 ANNI Gli Alumni sono la grande sfida del pre-

sente e del futuro per il Politecnico: negli ultimi anni si è fatta una grandissima operazione su di loro e in questo modo alle tre dimensioni tradizionali - studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo - se n’è aggiunta una quarta, quella degli Alumni. Persone che hanno vissuto qui qualche anno della propria vita e che oggi, nel mondo del lavoro, hanno voglia di capire cosa sta succedendo nella loro università. Vogliono restituire qualcosa all’Ateneo che li ha formati. Oggi dobbiamo chiedere agli Alumni di far parte integrante del nostro progetto di sviluppo: mentre con i nostri studenti parliamo ogni giorno per cercare di disegnare il futuro, così come ci confrontiamo tutti i giorni con il personale docente e tecnico-amministrativo per condividere obiettivi, opportunità e criticità, allo stesso modo dovremo farlo con gli Alumni. Soltanto con il loro contributo potremo fare in modo che il nostro progetto venga sostenuto da centinaia di migliaia di voci. UN ATENEO CHE LAVORA CON LE AZIENDE E CON IL TERRITORIO Il mio sogno è che il Politecnico possa essere ancora più inserito nelle politiche industriali nazionali. Oggi abbiamo sicuramente ottimi rapporti bilaterali ma il sogno è che l’università, la formazione universitaria e la ricerca siano inserite nella catena del valore dell’impresa e delle politiche industriali. Quindi avere un tavolo di definizione delle politiche industriali: su questo ci piacerebbe avere un ruolo importante. MILANO: LA NUOVA LONDRA Milano sta vivendo un bellissimo momento, ha messo in moto grandi forze, probabilmente Expo è stata la scintilla: ma non mi limiterei a quello. C’è stato uno scatto d’orgoglio da parte di tutti, e il Politecnico

può fare, e sta facendo, la propria parte. Che cosa può portare il Politecnico al sistema Milano? Siamo un vettore di internazionalizzazione. Abbiamo tantissimi studenti che vanno e vengono, studenti che poi diventano ambasciatori di Milano e del Politecnico in giro per il mondo. Secondo apporto, se vogliamo più tradizionale, è che questa “nuova Londra” imporrà anche delle trasformazioni urbane: si parla di Human Technopole, di periferie, di area Expo, di scali ferroviari, e in tutto questo l’Ateneo può giocare un ruolo importante. Questo vuol dire investire in formazione e ricerca. Milano, oltre a conquistare l’Agenzia Europea del Farmaco, oltre a lavorare per portare istituzioni che prima erano a Londra o sul suolo britannico deve provare a capire se vuole essere anche un centro d’innovazione che richiami imprese e istituzioni di ricerca, di formazione universitaria. I collegamenti del Politecnico di Milano con le istituzioni comunali e regionali sono molto forti. UNA SQUADRA SU CUI CONTARE Il mio primo giorno in rettorato è stato il 9 gennaio. Sono arrivato prestissimo, ho preso un caffè e sono andato in ufficio. Poi sono stato un’oretta in silenzio: a ripensare al peso della responsabilità che mi ero preso, e a riflettere su come tradurre in azione quello che fino a quel momento avevo semplicemente pensato. Nei mesi successivi ho imparato che ci sono tutta una serie di persone, colleghi, docenti, personale tecnico-amministrativo, cui appoggiarsi. Alla fine il peso delle decisioni è sicuramente mio, del Rettore, però ci sono tantissime competenze cui si può fare riferimento per prendere una decisione corretta e nel bene delle istituzioni. Non ci si sente soli.


LA SQUADRA DEL RETTORE Questo è il Politecnico che abbiamo davanti, che viviamo ogni giorno, e che possiamo costruire nei prossimi cinque anni. In un contesto che sarà caratterizzato da grandi sfide tecnologiche: smart city, big data, automobili a guida automatica, per fare tre esempi. A fianco di queste grandi sfide tecnologiche ci saranno sfide sociali, che riguardano il settore energetico, idrico, o fenomeni come l’immigrazione. Il Politecnico da sempre studia soluzioni ai problemi. Grazie a studenti, ricercatori, docenti e Alumni continueremo a offrire queste soluzioni al Sistema Italia e a chi ne avrà bisogno.

Questo è l’Ateneo che vedo e che voglio, un ponte tra il presente e il futuro. Mentre a proposito del passato racconto sempre un aneddoto: in 25 anni al Politecnico non ho mai guardato l’orologio aspettando la fine della giornata. Sono certo che sarà così anche per i prossimi sei anni. Insieme a tutti, personale, studenti e Alumni cercherò di costruire un Politecnico “open”, sempre più aperto, sempre più connesso, sempre più vettore di modernizzazione del Paese e protagonista del contesto internazionale.

Ferruccio Resta

PRORETTORI Donatella Sciuto – Prorettore Vicario Emilio Faroldi – Prorettore Delegato Federico Bucci – Polo territoriale di Mantova Gianni Ferretti – Polo territoriale di Cremona Manuela Grecchi – Polo territoriale di Lecco Dario Zaninelli – Polo territoriale di Piacenza Giuliano Noci – Polo territoriale cinese

DELEGATI Enrico Zio agli Alumni Federico Bucci alle Politiche Culturali Francesco Calvetti alle Attività Sportive Luisa Collina alle Relazioni Esterne Emanuela Colombo alla Cooperazione e Sviluppo Lamberto Duò alla Didattica e Orientamento Emilio Faroldi all’Edilizia, Spazi e Sostenibilità Michele Giovannini agli Affari Legali

Cristina Masella al Bilancio e Controllo di Gestione Michele Giovannini agli Affari Legali Gabriele Pasqui alle Politiche Sociali Renato Rota alle Infrastrutture di Ricerca Stefano Ronchi a Alliance4Tech e Idea League Licia Sbattella alla Disabilità Donatella Sciuto alla Ricerca Maurizio Zani al Diritto allo Studio


15.916 studenti

BOVISA

CANDIANI LA MASA

design

ingegneria

MILANO

COMO

LECCO

ingegneria

ingegneria

752 studenti

1.552 studenti (dati aggiornati al 22 febbraio 2017)


NOI SIAMO QUI

Il campus diffuso del POLITECNICO DI MILANO: tra piazza Leonardo, la Bovisa e i poli territoriali

architettura ingegneria

PIAZZA LEONARDO 21.140 studenti

PIACENZA 919 studenti

ingegneria + architettura

CREMONA 359 studenti ingegneria

MANTOVA 587 studenti architettura


I numeri del Poli Architettura

7.076 studenti 17,2 %

41.225 totale studenti

Design

3.931

studenti

9,5 %

Ingegneria

30.218

studenti

73,3 %

Ingresso nel mondo del lavoro

1) Ingegneria Gestionale 2) Ingegneria Meccanica I 5 corsi con piĂš studenti 3) Ingegneria Informatica 4) Architettura 5) Ingegneria Biomedica

4.729

Gli studenti che svolgono uno stage durante gli studi

1.000

Le offerte di placement (lavoro e stage retribuiti) pubblicate sul portale Career Service ogni mese

300 1.470

Le aziende che incontrano gli studenti in Ateneo Gli studenti che scelgono di fare un’esperienza all’estero (dati aggiornati al 22 febbraio 2017)


Curva di crescita dei laureati dal 1960 a oggi 5000

3750

2500

Architettura

1250

Design Ingegneria

Crescita degli studenti internazionali

(aumento negli ultimi 5 anni: 30%) 5000 4500 4000 3500 3000 2500 2000 1500 1000 500 0

2004

2008

2009

2010

2011

2012

2013

︴

da dove provengono

2014

2015

2016

1) Cina 2) Iran 3) India 4) Turchia 5) Albania

20 15

19 70

19 85

20 00

0


I dati occupazionali del Poli L’Indagine Occupazionale sui laureati del Politecnico a un anno dal conseguimento del titolo di studio è stata svolta dal Politecnico di Milano (Servizio Studi, Career Service e AlumniPolimi Association) in collaborazione con SWG e Delos Ricerche. Le interviste si sono svolte sia in modalità on line che telefonica e hanno raggiunto l’80,4% dei Laureati Magistrali italiani, il 55,7% dei Laureati magistrali stranieri e il 75,1% dei Laureati triennali. È attualmente in corso l’indagine occupazionale 2017.

I laureati del Politecnico di Milano entrano più velocemente nel mondo del lavoro e con contratti più stabili.

È stabile il tasso di occupazione dei Laureati Magistrali italiani del Politecnico di Milano che si attesta al 91% (95,6% per ingegneria, 81,2% per architettura, 85% per design. Aumenta in maniera significativa la percentuale di laureati magistrali occupati a 6 mesi dal titolo: il 92,7 % (95% per ingegneria, 87% per architettura, 89,4 per design) rispetto all’88,3 % dei laureati 2013 (90,7% per ingegneria, 84,1% per architettura, 84,3% per design). Per quanto riguarda i tipi di contratto l’indagine evidenzia che l’88% dei nostri laureati magistrali, a un anno dalla Laurea, entra nel mercato del lavoro con un contratto di lavoro stabile (51,6 % a tempo indeterminato, 16,3% a tempo determinato, 20,4% apprendistato). Il miglioramento è significativo in particolare per i contratti a tempo indeterminato che registrano un aumento del 16,2% rispetto all’anno precedente.

La retribuzione media netta di un neolaureato del Poli

Architettura: 1.135/mese Design: 1.240/mese Ingegneria: 1.592/mese Media Ateneo: 1.462/mese (dati relativi ai laureati 2014)


I TEMPI PER L’INGRESSO NEL MERCATO DEL LAVORO DEI LAUREATI MAGISTRALI

Ingegneria entro 2 mesi dalla laurea

67,8 %

entro 6 mesi dalla laurea

93,1 % 95,6 %

entro 12 mesi dalla laurea

Architettura entro 2 mesi dalla laurea

53,5 %

entro 6 mesi dalla laurea

80,9 % 81,2 %

entro 12 mesi dalla laurea

Design entro 2 mesi dalla laurea

54,4 %

entro 6 mesi dalla laurea

82,4 % 85,0 %

entro 12 mesi dalla laurea

Media Ateneo entro 2 mesi dalla laurea

63,7 %

entro 6 mesi dalla laurea

89,6 % 91,0 %

entro 12 mesi dalla laurea


RISPETTARE IL PASSATO, COSTRUIRE IL FUTURO

Piazza Leonardo da Vinci, da parcheggio a spazio giardino da vivere di Gabriele Ferraresi - Foto: Francesco Bulleri

“La nostra idea era che diventasse quasi un campus all’americana, che gli studenti potessero andarsene in maniera molto informale a mangiare sul prato in pausa pranzo”

“Mi sono laureata in Architettura al Politecnico nel 1988: la piazza di allora? Era un parcheggio”. Ricorda Sara Protasoni, docente di Architettura del Paesaggio alla Scuola di Architettura, Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano. Non poteva immaginare che sarebbe stata proprio lei a redigere il progetto di riqualificazione di quella piazza davanti all’Ateneo in cui si era laureata. Sì, perché da quel 1988 in poi non è che piazza Leonardo fosse migliorata, anzi. Era un luogo della città che “non funzionava”. Ma che cosa non funzionava di piazza Leonardo? “Sarei più buona: non è che non funzionasse in senso assoluto. Diciamo che c’erano evidentissimi problemi di degrado, era una piazza giardino in cui tutta la parte verde era stata compromessa da usi inappropria-

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ti e soprattutto erano cambiate le condizioni intorno alla piazza. Il progetto con cui era nata non aveva più senso”, insomma, era da ripensare, commenta a MAP la Prof.ssa Protasoni. “C’erano la strada, i tombini, i marciapiedi, macchine ovunque: fino al 2013 la strada è stata un enorme parcheggio. La primissima azione che è stata intrapresa per l’iniziativa Città Studi Campus Sostenibile è stata togliere le auto dalla piazza”. E ha funzionato. Ma al di là dei parcheggi, c’era anche altro da ripensare: “Quando uno, dalla fermata della metro, doveva arrivare in piazza Leonardo, aveva due opzioni: o camminare nella palta o sulla terra battuta, oppure fare una strana gimcana tra la sbarra che chiudeva l’accesso e il pilone della pubblicità… insomma nel corso degli anni ogni portatore di


Accade in piazza: PoliMiFest è la rassegna di eventi del Politecnico di Milano. Scopri tutti gli appuntamenti a pagina 97.

In queste pagine la nuova Piazza Leonardo riqualificata: un giardino da vivere per gli studenti e la città.

interessi nella piazza aveva fatto un intervento scoordinato. Era fondamentale fare un lavoro di riordino e di pulizia”. Un lavoro che ha valorizzato il carattere storico dello spazio, con “Un disegno del suolo che riscrive l’assetto originario, valorizzando sia i parterre esistenti che le pietre, gli alberi, gli arbusti che li costituiscono. Un disegno pensato per essere fruito esclusivamente dai pedoni”. L’intervento ha ricevuto un plauso pressoché unanime: “Devo dire che sono soddisfatta, anche perché si tratta di un intervento tutto sommato molto leggero, per due motivi. Uno, perché lo spazio era uno spazio storico con una sua identità, ed era importante lavorarci in maniera intelligente e stabilendo una continuità: piazza Leonardo era nella memoria di tutti. E poi perché le risorse erano poche. Nessuno

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ci pensa, ma Comune di Milano e Politecnico non potevano investire le risorse di grandi imprese internazionali”. In termini di costi la riqualificazione di piazza Leonardo è costata 750-800 mila euro al Politecnico e circa 1 milione e 50mila euro al Comune (di cui 500mila per gli spazi verdi e circa 550mila per le opere stradali). Considerata l’importanza dello spazio in gioco, una cifra contenuta. “Ricordo che da studente non ho mai pensato di andare a fare gli intervalli lì sul prato, o mangiare lì - conclude la Prof.ssa Protasoni - e quello era uno dei nostri obiettivi: la nostra idea era che diventasse quasi un campus all’americana, che gli studenti potessero andarsene in maniera molto informale a mangiare sul prato in pausa pranzo…”. Missione compiuta, la nostra piazza Leonardo è rinata.


VIA BONARDI: 100 ALBERI TRA LE AULE di Federico Sardo

Il nuovo campus del Politecnico di Milano pensato da Renzo Piano porterà a un modo molto diverso di vivere gli spazi di Città Studi. Abbiamo parlato con chi ci sta lavorando.

In queste pagine: i bozzetti del progetto per il nuovo campus di Architettura di via Bonardi firmati da Renzo Piano: gli originali sono stati donati al Politecnico di Milano.

Dire “via Bonardi” e dire Architettura al Poli è diventato nel corso degli anni un sinonimo: gli storici edifici progettati da Gio Ponti e Piero Portaluppi, però, oggi sono destinati a rinascere: grazie a un progetto donato da Renzo Piano al Politecnico di Milano che, dal 2018, cambierà il volto del campus di Architettura. Ne abbiamo parlato con Manuela Grecchi, docente di Architettura Tecnica e Prorettore del Polo di Lecco.

Leggevo di laboratori interrati In realtà no, perché si costruirà al bordo. Si affacceranno su quello che oggi è il parcheggio, che verrà sostituito da 120 alberi. Piano, che ha studiato qui, durante il sopralluogo ha detto che quel “meno 350 cm” in realtà è il piano più vissuto dai nostri studenti: ha i connettivi, gli attraversamenti, se c’è spazio si mettono lì a studiare... Ha sviluppato la proposta partendo da questa idea.

Quali saranno gli interventi principali? Una premessa: Renzo Piano non ci ha dato un progetto ma delle idee, non abbiamo ancora la versione definitiva. Gli edifici storici hanno autori importanti: grandi nomi come Gio Ponti, autore del “Trifoglio” e della “Nave”, poi Viganò per l’ampliamento, e l’ultimo edificio di Rosselli. L’idea di Renzo Piano è fare quella che lui chiama una ricucitura tra questi palazzi, demolire il “Sottomarino”, e realizzare nuovi interventi a margine - che devono contenere anche un nuovo laboratorio-modelli, dedicato alla formazione dei giovani architetti, spazi studio e aule, proprio a margine dei confini. Perché la caratteristica di quello spazio è di essere a meno 350 cm, un grosso invaso.

Si parla di una integrazione con gli impianti sportivi come il Giuriati e la piscina Ponzio Il Giuriati lo abbiamo in uso ma è comunque uno spazio del Comune. Abbiamo fatto degli interventi migliorativi, messo a posto una palazzina che è diventata bar, fatto i nuovi servizi igienici. Alla Ponzio c’è un progetto finanziato dal Ministero che ci concede di costruire una piccola residenza universitaria nella parte che fronteggia via Ampère, ma la piscina rimane uno spazio per i cittadini.

22 MAP Magazine Alumni Polimi

Questo progetto dà grande importanza all’impatto ambientale Sostituire un parcheggio con 120 alberi è una bella prospettiva, e ci sarà attenzione anche riguardo l’energia. In un altro progetto abbiamo deciso di realizzare una centrale frigorifera



che servirà tutti gli edifici: mentre il riscaldamento è già garantito dalla nuova centrale di trigenerazione, lì faremo anche un anello di raffrescamento. E come sarà l’impatto di questa operazione non solo per gli interni ma anche per la città? L’idea di Renzo Piano è che saranno coperture praticabili, spazi aperti fruibili dai cittadini. Nell’ottica di quello che il Politecnico è: uno spazio aperto. Chiaramente priorità in assoluto l’avranno i ragazzi, perché è fatto per loro. Quali sono le tempistiche? La prima fase dell’intervento dovrà chiudersi presumibilmente per il

2018, la seconda nel 2020. Oggi com’è la situazione in termini di sostenibilità? Da sei anni c’è un progetto, Città Studi Campus Sostenibile, che ha posto l’attenzione sul punto della sostenibilità, da come ci si muove a cosa si mangia. Abbiamo ottenuto una piazza Leonardo Da Vinci completamente differente. Molto c’è da fare, però. Secondo le nostre linee guida, oggi se tocchiamo un edificio dobbiamo renderlo estremamente efficiente. Chiaramente c’è un iter burocratico e non possiamo mettere mano a tutto in una volta sola. Uno degli aspetti sui quali abbiamo posto molta attenzione è capire come i ragazzi

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usano il campus: una richiesta tipica è quella di averlo aperto e fruibile 24 ore su 24, come avviene altrove. Hanno bisogno di incontrarsi, di studiare insieme di essere presenti: chiedono spazi flessibili, e oggi abbiamo un’edilizia molto rigida. Trovate un atteggiamento positivo da parte delle istituzioni? Sì. E posso dire che Città Studi grazie al progetto Campus Sostenibile ce la siamo conquistata: i cittadini della zona vedevano l’università come un’invasione quotidiana, ora c’è partecipazione e condivisione. Fare eventi in piazza, soprattutto per i cittadini, ha dato benessere reciproco al quartiere.


Come immagina il Politecnico del futuro? La qualità è altissima, ma molto probabilmente dovremo lavorare su nuovi modelli di formazione. Con molta attenzione a quello che chiede il mercato. Ogni anno un docente aumenta d’età, ma gli studenti no. E sono sempre più pronti ad assorbire tecniche diverse.

possiamo immaginare che tutti gli studenti trovino lavoro sotto casa. Anzi, speriamo di no. Con un progetto di internazionalizzazione vanno formati affinché siano pronti, ovunque andranno nel mondo, anche a collaborare con culture diverse. Avere di fianco un compagno cinese, americano o africano apre la mente, e ne abbiamo tutti da guadagnare.

C’è la questione della “fuga di cervelli”... Noi invitiamo i ragazzi a andare all’estero, quando tornano hanno una mente molto più aperta. Bisogna ragionare in modo più globale, non

Come cambieranno le città di qui a cento anni, e nello specifico le università? I fondatori del Politecnico ovviamente avevano una visione legata alla realtà milanese, oggi i ragazzi sono

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cittadini del mondo. Abbiamo strumenti che ci consentono di vedere il mondo anche se non ci muoviamo; i gap che c’erano tra un paese in via di sviluppo e uno all’avanguardia oggi si accorciano. Questo vuol dire nuove sfide, e le città dovranno seguire questo passo. È tutto molto più veloce e l’università deve adeguarsi. I ragazzi sono abituati a computer e smartphone, è più difficile mantenere la loro attenzione, e c’è l’abitudine a essere multitasking: ognuno di noi è in un posto ma anche altrove. Servono studi che aiutino a riflettere e capire come affrontare queste questioni.


L’edificio BL28 di via Lambruschini 4, all’interno del Campus Politecnico Bovisa. A destra: migliaia di volumi archiviati all’interno della nuova Biblioteca.


STUDIO, CEMENTO E ACCIAIO

BL28, il nuovo edificio del Politecnico nello storico quartiere della Bovisa di Marco Villa - Foto: EuroMilano / Giuseppe Pastore La Bovisa, una periferia milanese con una storia industriale importante e recenti riqualificazioni che hanno trasformato il passato di fabbriche in un presente e in un futuro centrato sulla formazione degli studenti del Poli. Oggi quello di Bovisa è un grande campus ben rodato, una città della scienza e dei giovani, un quartiere aperto: dove il Poli ha “piantato la bandierina” già nel 1989 con i primi corsi, per poi crescere fino a diventare un quartiere nel quartiere. Da ottobre 2016 gli studenti del Politecnico possono

usufruire anche di una nuova biblioteca e una nuova Aula Magna situate all’interno del nuovo edificio BL28 in via Lambruschini 4. Con un catalogo di circa 18mila monografie, di cui 10mila collocate a scaffale aperto e oltre 200 periodici in abbonamento corrente, la nuova biblioteca possiede i testi indicati nei programmi di insegnamento dei corsi di studio attivi nel campus, insieme ai patrimoni bibliografici giunti dalle biblioteche dei Dipartimenti di Energia, Ingegneria Gestionale, Ingegneria Meccanica e Ingegneria Aerospaziale. Aperta tutti i

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giorni, weekend compresi, dalle 8 alle 21, può ospitare 292 studenti. Un edificio, quello della biblioteca, progettato con particolare attenzione alla qualità dello spazio interno, con aree consultazione silenziose che sfruttano la luce naturale grazie ad ampie vetrate. Sempre all’interno dell’edificio BL28 trova spazio la nuova Aula Magna gradonata da 423 posti, insieme ad aule didattiche per complessivi 660 utenti. L’intera area è inoltre cablata e coperta da wifi. In attesa di intervenire nelle aree del Parco della Goccia, la Bovisa cambia faccia ancora una volta.



In senso antiorario una panoramica dei luoghi dell’edificio BL28 di via Lambruschini: la nuova Aula Magna Carassa e Dadda, la nuova biblioteca, il rivestimento della facciata e gli spazi interni.

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L’Officina Meccanica in Bovisa dove nasce la monoposto (foto a destra) del Team DynamiΣ.

DAI LIBRI ALLA PISTA

DynamiΣ, la monoposto Formula SAE del Politecnico nasce nell’Officina Meccanica del campus Bovisa. Il nostro incontro con il Team Leader Stefano Moro di Giulio Pons

DynamiΣ: in greco, potenza. Il nome perfetto per il Team di Formula SAE del Politecnico di Milano, che ogni anno progetta e realizza il prototipo di una monoposto a ruote scoperte. Per la nuova DP9 il primo appuntamento in pista sarà a luglio, a Varano de’ Melegari. 30 MAP Magazine Alumni Polimi

Nata nel 1981, la Formula SAE offre agli studenti universitari la possibilità di confrontarsi in pista durante 15 eventi annuali, organizzati in collaborazione con le associazioni nazionali di ingegneri e tecnici dell’automobile. E il Politecnico di Milano c’è: con il Team DynamiΣ PRC. DynamiΣ è il reparto corse del Po-


“DynamiΣ per noi è un importante trampolino di lancio per un lavoro futuro, magari nel mondo motorsport”

litecnico di Milano, un progetto che parte da lontano, con il semaforo verde che si accende al Dipartimento di Meccanica nel 2004 grazie a due professori, Federico Cheli e Francesco Braghin: oggi il Team DynamiΣ PRC è una grande famiglia che ogni anno insegna a un gruppo di aspiranti ingegneri a lavorare in sinergia per raggiungere un risultato. “Ogni anno progettiamo e realizziamo un prototipo di una monoposto a ruote scoperte - racconta a MAP Stefano Moro, 21 anni, studente di Ingegneria Energetica al Politecnico di Milano e Team Leader DynamiΣ PRC - con cui gareggiamo contro più di 500 Team appartenenti alle migliori università di ingegneria del mondo in Formula SAE”.

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“Essere team leader di DynamiΣ significa soprattutto coordinare, stimolare, incoraggiare e connettere un team di 90 persone, saperli spronare a trasformare in realtà le loro idee” continua Stefano Moro. “È una grande responsabilità, perché dalla mia determinazione e dalla mia capacità di organizzazione e mediazione tra i vari reparti dipende la realizzazione del prototipo”. Un lavoro ripagato spesso e volentieri dai risultati, ma che garantisce soprattutto un’esperienza sul campo impagabile, grazie alla monoposto DP8 - DP9 per la stagione 2017 - una macchina-scuola da cui si può imparare in officina e in pista qualcosa che nessun libro potrà mai insegnare.


Gian Paolo Dallara, nato a Varano de’ Melegari il 16 novembre 1936 è un ingegnere e imprenditore italiano. Fondatore dell’omonima casa automobilistica e progettista di supercar leggendarie, ha iniziato la sua carriera in Ferrari, proseguendo in Maserati e Lamborghini.

,ILREMET ANGOSIB NON :IRORRE ERPMES ATROPMOC ERAVONNI AZNEIREPSE NI ILRAMROFSART REP ,ILRIPAC E ILRAZZILANA AM Com’è nato il suo coinvolgimento nel progetto DynamiΣ A monte c’è il mio legame con il Politecnico di Milano dove mi sono laureato in Ingegneria Aeronautica nel dicembre del 1959, quindi ho un legame di riconoscenza. Poi a Varano de’ Melegari si organizza da tempo una competizione di Formula SAE, e ho avuto occasione di incontrare questi ragazzi, non solo quelli del Poli: sono tutti magnifici per l’entusiasmo e la passione che mettono in quel che fanno. I ragazzi sono svegli: abbiamo avuto occasione di scambiarci delle idee, di lavorare insieme, da parte mia di capire e di apprezzare la loro passione.

Lei non aveva neanche trent’anni quando ha progettato la Lamborghini Miura: in cosa sono più bravi i ragazzi di oggi rispetto alla vostra generazione? Noi eravamo più provinciali: non c’era la facilità di comunicazione che c’è adesso, ogni informazione era essenzialmente “modenese”, quindi in ambito Ferrari e Maserati. Non c’era scambio di opinioni, si lavorava nell’ambito del proprio orticello. I ragazzi di oggi sono molto più aperti, è più facile conoscere, scambiare opinioni, confrontarsi e questo fa una grossa differenza. In comune c’è la preparazione solida che dà l’università italiana, una scuola che non ha niente da invidiare a nessuno in nessuna parte del mondo. La sua generazione ha progettato macchine leggendarie: dove imparavate le lezioni che i ragazzi di oggi imparano in SAE? Imparavamo in azienda, da maestri importanti. Io ho avuto come maestro il Prof. Chiti, che è stato anche assistente di Motori al Politecnico di Milano, lui è stato il mio primo maestro. Poi in Maserati l’ingegner Alfieri. C’era la passione di trasmettere le conoscenze, e c’è ancora, ma allora era anche più facile, perché eravamo in pochi: quando sono andato in Ferrari c’erano due nuovi ingegneri, eravamo io e Mauro Forghieri. Adesso in un’azienda piccola come la nostra ne arrivano 30/40 all’anno. Al tempo era più facile, c’era meno concorrenza, e c’era anche il piacere di trasmettere queste informazioni.

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Il Team DynamiΣ al lavoro nell’officina meccanica dove nasce la monoposto Formula SAE del Politecnico di Milano.

Una vettura sfortunata in termini di affidabilità nella passata stagione, ma in grado comunque di conquistare riconoscimenti prestigiosi, come il Premio Lamborghini per il miglior utilizzo della fibra di carbonio - materiale utilizzato per il telaio monoscocca - e il Premio Style & Execution, patrocinato da FCA. Una stagione 2017 che si apre nel segno della rivincita, con la DP9 che andrà a competere in Formula SAE “messa a dieta”, rispetto alla DP8 e più leggera di circa 10 kg, oltre che dotata di un innovativo fondo aerodinamico. Nessuna novità invece per quanto riguarda il propulsore, anche per

quest’anno sarà il bicilindrico di derivazione motociclistica della Aprilia RXV 450. Il primo appuntamento in pista è previsto tra il 19 e il 23 luglio all’Autodromo Riccardo Paletti di Varano de’ Melegari. “Il team che porta a gareggiare la monoposto assemblata in Bovisa negli edifici del Politecnico di Milano è composto da persone provenienti da ogni Scuola d’Ateneo. Ogni anno a inizio ottobre teniamo un recruiting che garantisce un continuo ricambio dei membri. Il team è suddiviso in 8 reparti: 7 tecnici e 1 di gestione, e ogni reparto è gestito da un responsabile, gli 8 responsabili sono poi coordinati da 4

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direttori tecnici” conclude Stefano Moro. Ma come va la DP8 in pista? Le sensazioni tra l’asfalto e i cordoli le racconta così Luciano Finzi, pilota del Team DynamiΣ: “Sento allo stesso tempo una sensazione di adrenalina, sensibilità, competenza e responsabilità. Adrenalina perché ha una reattività e una maneggevolezza uniche. Sensibilità perché essendo così leggera, è difficile sentire il limite senza superarlo” ma non solo, perché “Bisogna essere ben consapevoli di tutto quello che c’è in macchina, di come funziona e di come migliorarlo. Infine responsabilità, perché a ogni curva si ha in mano un anno di lavoro della squadra”.


GIOCO DI SQUADRA Tutto lo sport del Politecnico: PolimiRun, campionati, impianti, agonismo e tempo libero a misura degli studenti. Francesco Calvetti racconta a MAP l’evoluzione dello sport al Poli di Francesco Calvetti

Tanti anni fa al Politecnico il massimo dello sport che si poteva praticare tra una lezione e l’altra era una partita a briscola: ma le cose cambiano, e da tempo l’Ateneo offre ai suoi studenti la possibilità di praticare sport a ogni livello, in impianti moderni e attrezzati, sia a livello amatoriale che agonistico. Parla Francesco Calvetti, Alumnus di ingegneria civile del 1992, Professore di Geotecnica al Politecnico e delegato del Rettore per le attività sportive dal 2011. I VALORI DELLO SPORT, I VALORI DEL POLITECNICO Lo sport veicola valori che riteniamo utili nella vita degli studenti universitari: è uno strumento complementare alla crescita dei ragazzi, permette loro di socializzare molto facilmente con gli altri e inserirsi in un ambiente che può essere molto diverso da quello dal quale provengono, penso soprattutto agli studenti internazionali. In questo senso lo sport è accoglienza. È anche uno strumento che permette di sviluppare molte capacità e qualità complementari, che si aggiungono alle competenze specifiche fornite dai corsi di studio,

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La pista di atletica del Giuriati (Campus Leonardo)

Francesco Calvetti, 50 anni DOCENTE DI GEOTECNICA DELEGATO ALLE ATTIVITÀ SPORTIVE ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA CIVILE

come l’attitudine a lavorare in gruppo, l’etica del lavoro, la perseveranza, la capacità di vedere soluzioni alternative. E ancora la creatività, la fantasia, e secondo me anche lo sviluppo della fiducia in se stessi. AMATORI E AGONISTI INSIEME Dal 2011 abbiamo dato il via a un piano di sviluppo articolato, che prevede diverse attività: sviluppo dell’agonismo, sia a livello universitario che federale; creazione di attività interne pensate per tutti i livelli di pratica, che abbiamo definito “Sport per tutti”; incremento delle installazioni sportive nei Campus col progetto “Playground” e delle convenzioni di progetto “PoloSportivo”; sostegno all’attività dei nostri atleti di alto livello sportivo e accademico con borse di studio.

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Ora è il momento di continuare a sviluppare e innovare partendo da queste basi. LE DISCIPLINE E I CAMPIONATI Quali sport si possono praticare al Politecnico? Farei prima a dire quali sport non si possono praticare! Al Politecnico il menù sportivo è ricco e va dalle discipline in cui sono impegnate le squadre agonistiche a quelle praticabili nei nostri impianti e playground: calcio, calcio a 5, pallacanestro, pallavolo, rugby, tennis, ping-pong, atletica, palestra/fitness, automobilismo (Dynamis PRC, campionato Formula SAE), motociclismo (Polimi Motorcycle Factory, campionato Motostudent), vela (Polimi Sailing Team, campionato 1001Vela), bridge. Inoltre ci sono sci, sci di fondo, escursionismo, arram-


PolimiRun Prima edizione 2016 • 3004 partecipanti • 52.500 euro raccolti per borse di studio • 42.500 euro in sponsorship

Squadre ufficiali circa 200 studenti coinvolti in campionati federali e universitari • Basket • Calcio a 11 • Tennis • Auto • Moto

Campionati PoliMi Circa 1000 studenti impegnati in Calcio a 5, Volley, Basket 97 squadre partecipanti 273 gare disputate

Borse di studio per meriti sportivi 30 borse per meriti sportivi - 2.500 euro a singola borsa 80.000 euro di importo totale

picata, mountain-bike, nuoto, canoa e windsurf: questi ultimi sono gli sport che offriamo grazie alle convenzioni di PoloSportivo, vero e proprio campus sportivo diffuso attorno ai nostri Poli Territoriali. “SPORT PER TUTTI”: LO SPORT NELLE RESIDENZE Il progetto “Sport per tutti” è nato due anni fa con un esperimento pilota, il “Torneo delle Residenze”. L’idea è stata quella di fornire un’occasione di aggregazione e di sviluppo del senso di appartenenza per gli studenti che abitano nelle nostre residenze, creando tre tornei (calcio a 5, pallacanestro e pallavolo) loro dedicati. L’anno successivo sono nati in parallelo i “Campionati Polimi” che vedono sfidarsi nelle stesse discipline squadre compo-

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ste da studenti dello stesso corso di studi. Aggregazione e senso di appartenenza, di nuovo, ma anche goliardia: oltre alla dicitura ufficiale legata al corso di studi, le squadre si dotano di un nome di battaglia dando sfogo alla loro creatività e al senso dell’umorismo. Il nome migliore è votato dagli studenti stessi e premiato ufficialmente durante la cerimonia conclusiva dei Campionati. GIURIATI: LO SPORT DENTRO AL POLI A Milano il Giuriati è l’unico impianto dotato di una pista di atletica e di un percorso campestre, di un campo da rugby, di campi da calcio a 5 e di una palestra fitness situati direttamente all’interno di un Ateneo. Inoltre negli ultimi anni abbiamo


creato nei nostri campus milanesi

una decina di aree playground, con installazioni per praticare liberamente ping-pong, pallavolo e pallacanestro. Questi campi sono letteralmente presi d’assalto tra una

lezione e l’altra; i nostri progetti

prevedono un ampliamento anche di queste strutture.

CORRERE INSIEME: LA POLIMIRUN

La PolimiRun è il nostro evento

più significativo - lo scorso anno abbiamo raccolto 52.500 euro per

borse di studio, di cui 30.000 dalle

iscrizioni e 22.500 dagli sponsor - e di maggior richiamo, e quest’anno

torna con qualche novità di rilie-

vo, suggerita dall’esperienza dello

scorso anno. Lo spirito e la finalità della PolimiRUN sono immutati: la comunità del Politecnico si incontra e si apre alla città, e tutti insieme concorriamo alla raccolta di fondi

per sostenere gli studenti più meritevoli del Politecnico.

Il percorso è praticamente inva-

riato: partenza dal Campus Bovisa

“Quali sport si possono praticare al Politecnico? Farei prima a dire quelli che non si possono praticare!” 38 MAP Magazine Alumni Polimi

e arrivo nella riqualificata piazza

Leonardo da Vinci, di fronte al Ret-

torato. Tra le novità c’è il fatto che la corsa si svolgerà di domenica, e

che sarà possibile scegliere tra due

versioni: non competitiva e competitiva. La maglia tecnica ufficiale del

nostro sponsor Adidas sarà un’altra sorpresa…



IMPEGNO SOCIALE AL POLITECNICO DI MILANO

E SINERGIE PER LO SVILUPPO

di Gabriele Pasqui, Delegato alle Politiche Sociali - Emanuela Colombo, Delegato alla Cooperazione e Sviluppo

1. L’impegno sociale del Politecnico: ragioni e principi Negli ultimi tre mandati rettorali il Politecnico di Milano ha sviluppato la propria azione sul terreno della terza missione e dell’impegno sociale, in coerenza con quanto stanno facendo le più grandi università politecniche del mondo. In particolare, il nostro Ateneo ha promosso e incoraggiato una famiglia di nuove progettualità multidisciplinari attente allo sviluppo umano e sociale, ampliando le opportunità formative e le occasioni di scambio e ricerca offerte a studenti, giovani ricercatori, personale docente e tecnico-amministrativo dell’Ateneo e al proprio network. Mettere l’università a stretto contatto con le domande emergenti e con le dinamiche dei cambiamenti della società è un modo per estendere la missione dell’Ateneo verso temi e bisogni sociali che nascono dal territorio, sia a livello locale che globale. Questo tema è inoltre uno degli elementi caratterizzanti del nuovo mandato rettorale del Professor Ferruccio Resta. Il Politecnico è il primo Ateneo italiano ad avere avviato un programma di Responsabilità sociale. In questo quadro sono stati realizzati molti progetti significativi: la “Didattica sul campo”, il Polisocial Award, i progetti di ricerca, sviluppo e formazione nell’ambito della cooperazione internazionale testimoniati dal libro Storie di Cooperazione Po-

litecnica 2011 - 2016 edito nel dicembre dello scorso anno (scaricabile online al link http://bit.ly/storie_cooperazione). Anche attraverso l’azione del Comitato Unico di Garanzia sono stati promossi molteplici progetti di sensibilizzazione, informazione e formazione sui temi dell’uguaglianza di genere, dell’inclusione e della valorizzazione delle diversità. Inoltre da 10 anni è attiva una delega specifica che agisce come garante per l’equo accesso di studenti con problematiche di disabilità. Il Politecnico parte dunque da un patrimonio di esperienze assai ricco. Tre sono le ragioni principali per le quali questo insieme di azioni e interventi assume un valore strategico per l’Ateneo. Innanzitutto, il Politecnico ha al centro della sua missione il contributo al trattamento delle grandi sfide sociali del nostro Paese e del contesto socio-economico e territoriale, a scala locale e globale, in cui opera. In secondo luogo, il tema della terza missione è sempre più rilevante, anche dal punto di vista dell’accreditamento e della valutazione delle università, in Italia e nel mondo, e costituisce un tratto distintivo delle università eccellenti. Infine, costruire progetti di ricerca e di formazione sul fronte della responsabilità sociale è un formidabile strumento di innovazione didattica e di sperimentazione nella ricerca.

Il nostro programma di responsabilità sociale è rivolto innanzitutto alla comunità politecnica: studenti, docenti e ricercatori, assegnisti, dottorandi e collaboratori, personale tecnico e amministrativo, Alumni. È inoltre rivolto alla comunità allargata entro cui operiamo: Città Studi, Bovisa e le città dove sono collocati i nostri Poli territoriali, la città di Milano e la sua regione urbana, il contesto lombardo, il nostro Paese, il mondo intero, soprattutto nelle sue aree più critiche e svantaggiate. È infine rivolto alle imprese e alle istituzioni, ma anche a quegli attori sociali che hanno strumenti e mezzi finanziari limitati, ma che manifestano l’intenzione di affrontare problemi e criticità di natura sociale. È inoltre importante sottolineare che le attività svolte in questo campo hanno una relazione stretta con le strategie generali dell’Ateneo almeno da tre punti di vista: • l’innovazione delle forme e delle pratiche della didattica, anche attraverso la costruzione di progetti formativi fortemente interdisciplinari; • la sperimentazione di pratiche di ricerca fortemente operativa in campo sociale, capaci di rispondere a domande e sfide di forte valenza pubblica; • la costruzione di condizioni di accesso all’università e ai suoi servizi che siano


capaci di promuovere l’eguaglianza di opportunità (innanzitutto tra generi), ma anche il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze (di orientamento sessuale e di natura religiosa o culturale). 2. La cooperazione per lo sviluppo

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5X1000 codice fiscale del Politecnico:

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Nella pagina seguente, da sinistra: volontarie addette alla distribuzione dei farmaci alla Clinica Keyadah IIMC , nell’ambito del progetto Healthcare for All: the challenge of India, design guidelines for health and social care facilities in emerging countries. Analisi del colore di un’antica opera egiziana policroma proveniente dal Museo Egizio del Cairo, nell’ambito del progetto Oggetti e materiali del patrimonio archeologico egiziano - Analysis with portable spectroscopy and imaging techniques. Multan, il deterioramento di Haram Gate (foto di Marco Introini), nell’ambito del progetto Italy for Multan, sustainable social, economic, and environmental revitalizions in the historic core of Multan City.

Dal 2005 la visione della cooperazione e il ruolo possibile per il Politecnico nello sviluppo si sono evoluti e si sono affinati, dando spazio sia ad una elaborazione specifica legata alle differenti esperienze e competenze politecniche, sia a un allineamento con le riflessioni nazionali e internazionali. Storicamente la prima attenzione è stata sul fronte della formazione dove abbiamo creduto e crediamo che le logiche dello sviluppo sostenibile devono essere integrate nei curricula dei giovani che opereranno necessariamente in contesti globali. Inoltre per quanto riguarda la progettualità, la cooperazione allo sviluppo può essere considerata come un elemento qualificante per i processi di internazionalizzazione e per le riflessioni sulle politiche di integrazione. In specifiche aree geografiche esistono molte strade potenziali per aprire collaborazioni con queste realtà e numerosi sono gli esempi politecnici raccolti nel libro Storie di Cooperazione Politecnica 2011 - 2016 dalla cui analisi emergono 5 aree di particolare focus dei nostri progetti: la persona al centro, il rispetto dell’ambiente, la rilevanza dei partenariati, la crescita economica inclusiva, il mantenimento della pace internazionale. In ciascuna di queste aree il Politecnico ha portato e porta una esperienza specifica che valorizza il ruolo del mondo universitario e nello specifico il ruolo di un Ateneo tecnico che, calando le proprie competenze in un’ottica di servizio alla società, riesce a emergere in efficacia, efficienza e impatto.

do. Le logiche dello sviluppo sostenibile devono essere integrate nei curricula dei giovani di qualunque formazione, sia dal punto di vista teorico della conoscenza che da quello della padronanza operativa degli strumenti più adeguati. Questa è una urgenza formativa non solo per coloro che opereranno nella cooperazione, ma per tutti i nostri laureati che opereranno inevitabilmente nei contesti globali. Inoltre, nello specifico, le sfide sociali e dello sviluppo chiedono un forte impulso per la formazione professionalizzante di nuove generazioni di ricercatori, accademici e professionisti (tanto in Italia quando nei Paesi destinatari degli interventi). La spinta volontaria e la tensione all’aiuto sono motori positivi ma devono essere supportati da una competenza specifica fortemente radicata sia su aspetti teoretici che su esperienze di campo.

Sul fronte delle azioni sul terreno della cooperazione per lo sviluppo, in coerenza con l’Agenda 2030 e i 17 obiettivi di Sviluppo Sostenibile si basano su tre elementi caratterizzanti il ruolo delle università.

2) Promuovere una ricerca motore di sviluppo e di innovazione autoctona La ricerca scientifica può diventare strumento per lo sviluppo equo ed autonomo e può essere utilizzata per innovare le pratiche di impegno sociale e cooperazione. Le sfide dello sviluppo sono tendenzialmente legate a problematiche integrate e trasversali rispetto alle discipline tradizionali. E questo vale per i paesi in via di sviluppo se si pensa ai temi come accesso ad una alimentazione sana e sicura, all’energia, all’acqua potabile, a cure sanitarie, all’educazione, il tutto nel quadro della pianificazione sostenibile dell’uso del territorio e in particolare dello sviluppo urbano. Ma anche per i paesi emergenti che insieme a quelli considerati sviluppati devono affrontare le tematiche globali che riguardano la compatibilità dello sviluppo economico con l’attenzione e la tutela dell’ambiente, il diritto all’utilizzo delle terre, le dinamiche del lavoro e dell’occupazione, la pace e la sicurezza internazionale. L’università ha come secondo mandato di missione la ricerca che può perseguire beneficiando dello stato dell’arte in ciascun settore e usufruendo, rispetto ad altri attori, sia del tempo che del mandato istituzionale per svolgere in ruolo di terzietà un servizio al Paese e ai Paesi.

1) Arricchire i percorsi formativi dei laureati e formare le competenze nella cooperazione La missione di fondo delle Università è preparare figure di laureato in grado di coprire un ruolo da attore e protagonista delle trasformazioni della società, tanto nel Sud quanto nel Nord del mon-

3) Rafforzare il valore dei partenariati e delle reti Costruire e consolidare reti di competenze (orizzontali o trasversali tra Università, ONG, Organizzazioni internazionali, Non Profit, Imprese; Istituzioni locali e nazionali) che abbiano come elemento essenziale il rispetto delle


rispettive missioni è un altro tema centrale. Le relazioni nazionali o internazionali che le università sviluppano tra loro rappresentano una rete di “diplomazia” scientifica di lungo corso e di consolidata tradizione. Sono canali privilegiati di ingresso in alcuni Paesi su cui costruire relazioni sempre più strategiche per rafforzare le università e le istituzioni locali che, crescendo, consolideranno la propria rete locale di influenza con imprese e altre istituzioni. Si aumenteranno di conseguenza le opportunità di sviluppo locale ma anche le occasioni per il nostro Paese di essere coinvolto in questo processo, come partner a livello internazionale. Queste relazioni nazionali e internazionali rappresentano un ulteriore patrimonio di competenza che le università possono mettere a disposizione del sistema Paese per favorire un assetto di collaborazione pubblico-privato sempre più solido e innovativo. 3. Alcuni strumenti: didattica sul campo e Polisocial Award La didattica sul Campo Il Politecnico di Milano, attraverso il suo progetto di didattica sul campo ha inteso in questi anni favorire l’interazione tra le attività formative dell’Ateneo e le richieste che emergono dai territori e dalle comunità locali, attraverso la promozione e lo sviluppo di progetti didattici. Studenti e docenti, fuori dalle aule e a stretto contatto con gli attori del sociale, si confrontano con problematiche concrete mettendo a disposizione le loro competenze. Le proposte didattiche vengono elaborate dai docenti in stretta collaborazione con un’estesa rete di rappresentanti dell’associazionismo, delle istituzioni pubbliche, delle fondazioni e imprese con finalità sociali.

PoliSocial Award Il premio PoliSocial Award premia progetti di ricerca a fini sociali del Politecnico di Milano. I progetti vincitori sono finanziati con il contributo del 5 per mille IRPEF al Politecnico di Milano. Favorisce lo sviluppo e l’avanzamento di una ricerca scientifica, di base e applicata, ad alto impatto sociale. Valorizza le ricerche di natura multidisciplinare che creino sinergie tra diversi gruppi di ricerca dell’Ateneo ma anche di altre università e che coinvolgano partner esterni interessati agli esiti dei progetti di ricerca e alle loro ricadute sociali. La competizione si rivolge a professori e ricercatori di ruolo, ricercatori a tempo determinato; assegnisti di ricerca del Politecnico di Milano. I soggetti proponenti possono avvalersi della collaborazione di un gruppo di lavoro più ampio, al quale possono partecipare dottorandi e personale tecnico–amministrativo strutturato. La competizione PoliSocial Award consiste nella presentazione, selezione ed implementazione di progetti di ricerca a fini sociali: Progetti di ricognizione ed ideazione – sono progetti che hanno come obiettivo l’approfondimento della fattibilità di uno specifico problema, una sfida o un’opportunità con ricaduta sociale a livello locale o internazionale. Progetti di sviluppo e sperimentazione – sono progetti di ricerca applicata ad alto valore scientifico che si basano su un lavoro precedente di analisi del problema, del contesto, delle opportunità e che intendono sviluppare e testare sul campo soluzioni teoriche già individuate.

4. Verso il futuro L’università è il luogo che per eccellenza genera conoscenza e cultura per i cittadini del mondo e ne sviluppa il pensiero critico. Le sfide globali si prestano a letture multidisciplinari, l’innovazione di frontiera richiede l’integrazione delle competenze e le questioni sociali dei territori e delle comunità locali impongono la presenza di attori diversi. L’apertura di «nuovi» emergenti mercati internazionali richiede ormai un approccio che sappia coniugare competizione e cooperazione e chiama a una responsabilità etica nei confronti delle comunità locali e degli equilibri internazionali. Il Politecnico, costruendo una visione condivisa a partire dalla propria storia, si può oggi porre come facilitatore di dialogo e promotore di azioni di co-design per lo sviluppo sostenibile con una pluralità di attori (privato, pubblico, società civile, mondo della ricerca, istituzioni finanziarie). Internamente questa lettura può offrire un contesto di riferimento nuovo e coerente attorno a cui le varie anime dell’Ateneo impegnate nella didattica, nella ricerca e nella terza missione possano operare in modo più integrato e sinergico nel contesto globale in continua e rapida evoluzione. Esternamente questa visione può confermare il Politecnico come un attore istituzionale per condurre un servizio al Paese e contribuire con profonda etica della responsabilità ad accrescere la visibilità, l’impatto delle azioni e la credibilità tecnica e scientifica del nostro Paese sui tavoli e nei contesti internazionali.


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ENERGY4GROWING Il Politecnico e l’elettrificazione nelle realtà rurali dei paesi in via di sviluppo.

di Marco Villa Ancora oggi, secondo le stime della IEA - L’Agenzia Internazionale dell’Energia - nel mondo sono circa 1.2 miliardi gli esseri umani che non hanno accesso all’elettricità. Oltre il 95% di queste persone vive nell’Africa Sub-Sahariana e in Asia, circa l’80% in aree rurali. Debellare la povertà energetica è fondamentale per costruire un futuro nei luoghi più poveri del pianeta, ed è anche in quest’ottica che si è sviluppato il progetto Energy4Growing, un Energy Hub presso la scuola secondaria di Ngarenanyuki, in Tanzania, dove sono presenti strutture per l’alloggio di circa 300 ragazzi e per le attività didattiche diurne di circa 400 studenti.

“È come se avessimo un piccolo laboratorio, se non fossimo andati noi in quella scuola avrebbero avuto sei mesi di autonomia”

Un Energy Hub in grado di integrare diverse fonti di energia: fotovoltaico, idroelettrico e rete nazionale, gestite da un’unità di controllo dedicata e monitorabile in remoto: “Nacque tutto all’interno del Politecnico, da una ex dottoranda, Luisa Frosio - ricorda Marco Merlo, professore Associato di Sistemi Elettrici ed Energia presso il Politecnico di Milano e responsabile

del progetto Energy4Growing - in chiusura del dottorato di ricerca a Luisa venne l’idea di provare ad implementare alcune logiche di controllo degli inverter, adattandole alle realtà dei paesi emergenti. Aveva già contatti in Tanzania, e venne quindi naturale pensare a una implementazione nella scuola di Ngarenanyuki”. Il progetto Energy4Growing ha ricevuto il PoliSocial Award nel 2013: il Politecnico ha inoltre supportato il progetto inviando dottorandi sul posto. “Questo è stato molto importante - continua Merlo - perché rispetto a tante ricerche teoriche che si fanno in università, noi volevamo essere vicini alla realtà. Però essere vicini a una realtà che è in Tanzania non è facile. Anche la possibilità di andare per mezza giornata in sito a vedere cosa c’è, cosa fanno e altro è stata molto utile, sia per la parte di progettazione tecnica, sia in generale per capire cosa aveva senso fare e cosa no”. Ma quali sono le esigenze energetiche di una scuola nel cuore dell’Africa? Illuminazione, in primis, per consentire agli studen-


ti di studiare nelle ore pomeridiane e serali, e poi “Il pompaggio e la sanificazione dell’acqua, congelatori utili alla conservazione del cibo, ma anche l’alimentazione di fotocopiatrici e altri apparati tipicamente didattici - continua il Prof. Merlo - Quando hanno periodo di esami per esempio hanno bisogno di fotocopiare i compiti, e la fotocopiatrice consuma a picco 1,5kW. Si erano così dotati di un generatore diesel da 5kW. Il passaggio in termini progettuali è stato complesso, noi c’eravamo fatti una certa idea di dimensionamento del sistema - e anche un certo budget! - con molta attenzione alla parte teorica, con l’idea di realizzare un sistema che fosse duttile, modulare, da 3kW. Invece ci siamo trovati lì ad averne uno da 8kW. A livello di progetto, per quanto il sistema fosse stato pensato per essere modulare, passare da 3kW a 8kW non era facile”. Missione compiuta e impianto avviato, in un giorno speciale: “A Pasqua del 2015 si è acceso tutto: proprio a Pasqua, manco a farlo apposta!”. Oltre al Politecnico, molte aziende hanno partecipato a Energy4Growing: “Da questo punto di

vista siamo stati molto fortunati, il Politecnico ci ha aiutato molto, grazie ai tanti legami in essere con il mondo industriale. Un sincero grazie va a tutte le società che ci hanno aiutato, molte volte a titolo gratuito, fornendoci sistemi test per il laboratorio e un PLC (Programmable Logic Controller , ndr) per il controllo dell’Energy Hub e, non da ultimo, aiutandoci nella parte progettuale”. Un progetto che continua ancora oggi a quattro anni di distanza dal lancio. Quattro anni sono un lasso di tempo in cui può succedere di tutto. Cosa succede oggi a Ngarenanyuki? “La scuola sta crescendo, e l’Africa cresce a velocità per noi impensabili. Lì oggi ci sono 400 persone che vivono con 5 kW di potenza di picco, o poco più: è l’equivalente di una casa da noi. Per loro è la regola. Ora che hanno un po’ di possibilità in più possono gestire l’illuminazione la sera usando una lampadina, invece di una lampada a gas. Da un anno circa hanno anche una macchina per costruire mattoni, che consuma 30 kW… ovviamente questo sistema è alimentato

dalla rete energetica nazionale della Tanzania, che nel frattempo ha raggiunto la loro area rurale”. Un’esperienza unica quella di Ngarenanyuki, un laboratorio nel cuore dell’Africa, dove c’è stato anche da imparare per i nostri ingegneri: per esempio dall’intraprendenza altrui. “È una scuola sui generis - conclude il Prof. Merlo - sanno adattarsi e trovano soluzioni ingegnose ai problemi. Un esempio: hanno dei forni a legna che usano per cucinare. I fumi di scarico vanno all’esterno, e lì hanno realizzato uno scambiatore di calore tubolare utile a recuperare calore al fine di scaldare acqua, per poi utilizzarla a fini sanitari, come le docce per esempio. Allo stesso modo il quadro elettrico che abbiamo installato prevede più di trenta pulsanti e richiede di rispettare opportune sequenze nell’attivazione/disattivazione dei vari generatori elettrici, in Tanzania è a oggi in uso da un tecnico del posto che a fatica è capace di leggere e scrivere. In Italia servirebbe quasi un corso specifico per l’abilitazione. Davvero: da loro abbiamo imparato che anche con poco si può fare molto”.


BET ON MATH:

LA SFIDA DEL POLI AI GIOCHI IN CUI VINCE SEMPRE IL BANCO Un progetto per spiegare e divulgare i meccanismi dietro al gioco d’azzardo

di Gabriele Ferraresi

“Sul lungo periodo per ogni 5 euro giocati torneranno in tasca 3.5 euro. I biglietti vincenti da 500mila euro? Sono 5 su 30milioni”

Oltre 95 miliardi di euro, il 4,7% del Pil. Tanto hanno speso gli italiani in gioco d’azzardo nel 2016, secondo una recente inchiesta de L’Espresso, che ha indagato solo il gioco d’azzardo legale di Stato e non il sommerso: quindi slot vlt, Gratta & Vinci, lotto, superenalotto e simili. A vincere è sempre il banco, a perderci sempre i giocatori. Ma quali sono i meccanismi che si celano dietro i giochi iniqui? Li ha indagati il progetto Bet on Math, coordinato da Marco Verani, professore associato di Analisi Numerica e responsabile del progetto insieme a Nicola Parolini, Chiara Andrà e Domenico Brunetto. Un progetto che aveva - e ha - il fine di essere uno strumento di inclusione sociale e ridurre l’analfabetismo matematico: partito nel 2013 e terminato formalmente nel 2015, finanziato grazie al PoliSocial Award, Bet on Math continua a esistere grazie a un portale online (http://betonmath.polimi.it) da cui i materiali possono essere scaricati in modo gratuito. “Bet on Math è un percorso didattico per l’insegnamento della probabilità nelle scuole superiori, non solo in Lombardia, ma in tutta Italia, e ha già coinvolto circa 500 insegnanti. Abbiamo lavorato

con gli insegnanti per realizzare materiali che mettessero al centro gli studenti - commenta il Prof. Verani - Si tratta di lavori di gruppo e interazioni libere tra studenti che partono dall’analisi di alcuni giochi d’azzardo come il Gratta & Vinci, le slot machine, il Superenalotto, facendo esperienza di questi giochi attraverso delle app Android che abbiamo sviluppato”. Al centro del percorso di Bet on Math c’è il gioco d’azzardo, che i ragazzi vengono guidati a capire in un contesto protetto, in modo di fare esperienza della piccola vincita; ma soprattutto della sicura sconfitta. “Il ragazzo usa la nostra app Gratta & Perdi e a un certo punto si accorge che ha vinto, che so, 15 euro. Poi se continua a “giocare”, si fa il bilancio di quanto effettivamente sono state le entrate e le uscite, e ci si accorge che ha perso molte centinaia di euro. A quel punto lo shock emotivo è lo spazio in cui si può iniziare a descrivere matematicamente quello che è successo”. In un momento in cui i Gratta & Vinci sono ovunque, anche nei supermercati, capire come funziona un “gioco” che ha ben poco di ludico, ma molto di iniquo, almeno in termini matematici, può essere davvero interessante.


Continua Verani: “Il Gratta & Vinci è regolato da una legge che stabilisce quale può essere la vincita per ogni biglietto, e quanti sono i biglietti associati a una determinata vincita: questo per ogni emissione di Gratta & Vinci. Prendiamo un Gratta & Vinci ipotetico, la cui l’emissione è di 30 milioni di biglietti, un numero realistico. Ogni biglietto costa, supponiamo, 5 euro. A questo punto il totale dei soldi che viene speso per acquistare tutti i 30 milioni di biglietti è 30 milioni x 5. Se il gioco fosse equo, uno si aspetterebbe che tutti i premi distribuiti assommassero a 30 milioni x 5 euro. E questo non è vero. I premi restituiti assommano a una quantità inferiore. Questa è l’iniquità del gioco: non tutti i soldi rastrellati da chi organizza il gioco sono redistribuiti sotto forma di premi”. Sul lungo periodo, le conseguenze per chi “gratta”, sono evidenti: si perde una frazione ben determinata del costo del biglietto, per ogni 5 euro giocati torneranno in tasca 3,5 euro: “Chi va a giocare è però mosso dal fatto che il premio massimo di questo fantomatico Gratta & Vinci sia 500mila euro. Bene: però ci sono solo 5 biglietti vincenti su 30 milioni, quindi 1 su 6 milio-

ni. Cerchiamo di visualizzare questa probabilità: un Gratta e Vinci è lungo circa 15 cm. Mettendoli in fila uno dopo l’altro, arriveremmo dal Dipartimento di Matematica fino a Monopoli, circa 900 km, e da Milano a Monopoli, tra la Lombardia e la Puglia, c’è un solo biglietto vincente”. Già questo dovrebbe bastare a dissuaderci dal tentare la fortuna, o tentarla con un minimo più di conoscenza della matematica che si cela dietro ai pochissimi “grattini” fortunati e ai moltissimi che non valgono niente. Non solo Gratta & Vinci però, anche le slot vlt che vediamo in moltissimi bar nascondono al loro interno dinamiche matematiche complesse, ma almeno altrettanto inique. “Prendiamo una slot machine ipotetica, da bar - racconta Verani. “Una slot machine ha diversi rulli, diciamo tre, e nove simboli diversi a rullo. Uno dei simboli è il lingotto d’oro. Se escono tre lingotti d’oro, a fronte di un euro scommesso, vinco 100 euro. Se escono due lingotti vinco 10 euro. Se esce un lingotto d’oro, vinco un euro. Alla luce di questi numeri si può calcolare la probabilità che vengano fuori tre lingotti, due lingotti, o un lingotto d’oro. E diciamo che si può vedere la pro-

babilità che vengano fuori 3 lingotti d’oro è 1/9 al cubo, circa 1/1000. Vincere 100 euro non è così facile. Alla lunga quando tu giochi quello che ti viene restituito in media è il 75% della tua giocata. Alla lunga per ogni euro, ti tornano in tasca 75 centesimi. Più giochi per recuperare, più sei sicuro di perdere, nel lungo termine. Per chi produce slot è fondamentale che il gioco sia accattivante, per cui inseriscono colori, luci, animazioni: devono far sì che quando tu perdi non te ne vada”. E quando non si va via dalla slot, cominciano le ludopatie, conclude Verani: “Le persone diventano dipendenti dal gioco d’azzardo e bruciano qualsiasi cosa, il conto corrente, i propri beni, i propri affetti, le proprie famiglie, e rimangono sole. È una dipendenza che si nutre del fatto che la persona non è fino in fondo consapevole delle regole che gestiscono il sistema. Poi c’è anche una responsabilità dei mezzi di comunicazione che mettono l’accento sulle grandi vincite, e mai sulle sconfitte. Nelle tabaccherie si vedono “Vinti qui 500 euro” ma non c’è mai “Qui sono stati persi da inizio dell’anno 10.000 euro”.


DOVE VA IL TUO

5X1000 codice fiscale del Politecnico:

80057930150

SPACE SHEPHERD I satelliti per salvare i migranti nel Mediterraneo di Marco Villa Nel 2016 sulle coste italiane sono sbarcati 181.436 esseri umani in fuga dalla povertà, dalla guerra e con il sogno di una vita migliore. Un dato in salita del 18% rispetto all’anno precedente, quando dal Mediterraneo erano arrivati in Italia 153.842 migranti, e in crescita anche rispetto all’anno record 2014, quando gli arrivi furono 170.100. Questi i dati contenuti nell’ultimo rapporto dell’agenzia europea Frontex: ma agli arrivi hanno corrisposto anche innumerevoli tragedie del mare, con 3.654 corpi ritrovati senza vita nel Mare Nostrum, e un numero impossibile da quantificare di naufragi di cui non si è avuta notizia. Proprio qui, proprio sul monitoraggio delle imbarcazioni in viaggio verso la speranza nel Mar Mediterraneo, va a intervenire Space Shepherd. “Space Shepherd mira a velocizzare la localizzazione dei barconi nel Mediterraneo utilizzando satelliti esistenti” spiega Francesco Topputo, ricercatore del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali e responsabile del progetto. “È un nostro progetto che nel 2014 ha vinto il PoliSocial Award. Alla base

del progetto c’era l’idea di utilizzare gran parte degli asset spaziali già in orbita per assolvere a determinati scopi scientifici o commerciali e utilizzare le immagini prodotte dalla loro attività come un sottoprodotto per localizzare le imbarcazioni dei migranti. Space Shepherd va nella direzione di avere una maggiore “Maritime Situational Awareness”, una maggiore consapevolezza di quel che accade nel Mediterraneo. Lo scopo principale è quello di monitorare il canale di Sicilia utilizzando solo satelliti già esistenti, senza nessun aggravio in termini di progettazione o lancio di nuove piattaforme”. Oggi i sistemi di avvistamento dei barconi sono basati su strumenti a terra, il cui raggio di esplorazione dipende da vari fattori, quali potenza del sensore e altitudine cui sono installati, ma che soffrono l’essere uno strumento di terra: non possono andare oltre l’orizzonte. “I pattugliatori che ci sono nel Mediterraneo hanno lo stesso problema e lo stesso identico problema lo hanno anche gli avvistamenti da pescherecci o navi commerciali - continua Topputo. “Se io volessi avere una visione di


quello che sta accadendo come potrei fare? Dovrei puntellare il Mediterraneo di pattugliatori, con un ingente impegno economico, di uomini e di mezzi. I satelliti invece, essendo a 600-800 km dalla Terra, hanno un punto di vista privilegiato, globale, e in una sola immagine possono raffigurare tutto il Canale di Sicilia. Maggiore è l’area coperta, minore sarà la risoluzione: ma noi abbiamo studiato anche questo trade off, e abbiamo visto che con i satelliti italiani dotati di radar possiamo vedere le barche dei migranti acquisendo delle “strisciate” di 80 km di mare”.

“I satelliti, a 600/800 km dalla Terra, hanno un punto di vista privilegiato, con una sola immagine prendono tutto il Canale di Sicilia”

Una volta passato sopra il tratto di mare da monitorare, il satellite trasmette le immagini nell’ordine di 30 minuti / un’ora, a seconda del posizionamento delle stazioni di terra. Allo stato attuale sono decine i satelliti su cui si potrebbe fare affidamento per il progetto Space Shepherd: “Stiamo parlando di un problema europeo: quindi dobbiamo restringere la scelta sui satelliti europei, che sono gestiti o dell’ESA o dalle singole agenzie spaziali. Negli anni passati il primo e più importante scoglio che abbiamo in-

contrato è stato - malgrado esistano programmi come il Copernicus, proprio per lo scambio di informazioni - mettere a sistema tutte queste informazioni esistenti e far dialogare tutte le istituzioni coinvolte in un’emergenza complessa come quella dei migranti nel Mediterraneo”. Al momento Space Shepherd è portato avanti internamente al Politecnico, per esempio con tesi di laurea, ma non c’è personale dedicato che in questo momento ci lavora direttamente. “Nel dicembre del 2015 si è chiuso il progetto PoliSocial, ma per tutto il 2016 abbiamo continuato a lavorarci - conclude Francesco Topputo. “L’ultimo studente si è laureato sul progetto a Natale dell’anno scorso. In questo momento l’allocazione del nostro tempo su Space Shepherd è bassa, avremmo bisogno di un sostegno economico. Se c’è qualcuno che ha voglia di crederci, ci sono le professionalità, le competenze e i risultati, e sono sotto gli occhi di tutti. Per rimettere in moto Space Shepherd servirebbe un po’ di “benzina”, qualcuno che decida di supportare economicamente il progetto”.


better.poli Idee, progetti e persone che cambiano il mondo


MOLTO PIÙ DI UN LIBRO...


BEPPE SEVERGNINI

CORRIERE DELLA SERA - 11/01/2017 Le grandi università americane, pur disponendo di patrimoni impressionanti, chiedono molti soldi agli studenti e alle loro famiglie. Costo annuale per insegnamento (tuition) e alloggio (room and board), qualche esempio: Yale $47.600, Brown $48.272, Columbia $50.526, University of Chicago $64.965, New York University $65.860. E’ normale indebitarsi per gli studi, negli USA. Eppure i laureati (Alumni) portano la propria università nel cuore. E nel portafoglio. Se diventano ricchi, si ricordano da dove sono venuti, con donazioni e lasciti. In Italia, siamo ancora principianti; ma qualcosa si muove. (...) il Politecnico di Milano ha chiesto infatti a 87 laureati di successo come «progettare se stessi nel domani». Anzi, nel dopodomani: il titolo del volume è Verso il 2099. Sebbene siano presentati come «Top Influencers», gli Alumni del Politecnico hanno risposto. Cose intelligenti, devo dire

ALESSANDRA TRONCANA

CORRIERE INNOVAZIONE - 26/01/2017 “Io speriamo che me la cavo”: loro se la sono cavata benissimo. Il Politecnico di Milano ha chiesto a 87 dei suoi ex Alumni eccellenti come progettare se stessi nel domani o, meglio, nel dopodomani: si parla del 2099. Le risposte sono finite in un libro, qui le dieci più interessanti

Una fonte di ispirazione e un progetto per supportare gli studenti attraverso borse di studio


DA ABRAVANEL A ZUCCHETTI, 8 DEGLI 87 CONSIGLI DEI GRANDI ALUMNI DEL POLITECNICO DI MILANO ROGER ABRAVANEL

Alumnus Ingegneria Chimica 1968 DIRECTOR EMERITUS MCKINSEY

Viviamo un pericoloso ritorno ai nazionalismi e a una economia protezionista: per non rifare gli errori del passato, sarà necessario diventare sempre più cittadini del mondo

PAOLO BERTOLUZZO

Alumnus Ingegneria Gestionale 1990 AMMINISTRATORE DELEGATO CARTASI

AMMINISTRATORE DELEGATO ISTITUTO CENTRALE DELLE BANCHE POPOLARI ITALIANE

Non stressatevi troppo pensando a quale sarà il vostro prossimo lavoro: cercato piuttosto di imparare qualcosa di nuovo ogni giorno. “Come fare” è più importante di “Cosa fare”

ELENA BOTTINELLI

Alumna Ingegneria Elettronica 1991

AMMINISTRATORE DELEGATO ISTITUTO ORTOPEDICO GALEAZZI

Per giocare un ruolo attivo nei cambiamenti che vi aspettano nei prossimi decenni, dovrete imparare a conoscere e utilizzare gli strumenti informatici che permetteranno di gestire l’enorme quantità di informazioni

PIERO LISSONI

Alumnus Architettura 1985 ARCHITETTO

Coltivate i vostri dubbi: l’intelligenza del dubbio sta nell’esitare, nell’ascoltare, e vale in politica come in architettura o nella gestione di un’azienda

I CONSIGLI DEGLI ALUMNI PER I LAUREATI DI DOMANI


RENATO MAZZONCINI

Alumnus Ingegneria Elettrotecnica 1992 CEO GRUPPO FERROVIE DELLO STATO ITALIANE

Sono le persone che generano i cambiamenti: per farlo ampliate sempre più i vostri orizzonti, guardate al domani con il desiderio di cambiare in meglio le cose

STEFANO PESSINA

Alumnus Ingegneria Nucleare 1967

EXECUTIVE VICE CHAIRMAN AND CEO WALGREENS BOOTS ALLIANCE

È difficile fare previsioni per i prossimi decenni, ma resta ugualmente una riflessione importante: vi servirà per essere pronti ai cambiamenti e adattarvi più rapidamente

PATRICIA VIEL

Alumnus Architettura 1987 ARCHITETTO

Dobbiamo uscire dalla prospettiva della crisi e cercare di comprendere cosa sia cambiato, perché i rimedi messi in atto non funzionino e a cosa dobbiamo rinunciare per ritornare a svilupparci

ELENA ZUCCHETTI

Alumna Architettura 1983

AMMINISTRATORE DELEGATO GRUPPO ZUCCHETTI. KOS

Sviluppate i vostri punti di forza, ma lavorate anche sui vostri punti deboli, per acquisire duttilità, versatilità e intelligenza trasversale

VIENI A TROVARCI IN PIAZZA LEONARDO DA VINCI 32 E RITIRA LA TUA COPIA


CIRCLE OF DONORS

HAI A CUORE IL FUTURO DEI GIOVANI? Il Politecnico di Milano chiede aiuto agli Alumni: vogliamo offrire ai nostri migliori studenti le stesse opportunità che vengono garantite dalle grandi università internazionali.

ADOTTA UNO STUDENTE Io, donatore, mi impegno a: • Donare 2.000€ all’anno per 5 anni. • Supportare lo studente con un percorso di coaching. firma

20.000€

L’IMPORTO DELLA BORSA DI STUDIO

50.000€

I SOLDI RACCOLTI NEL 2016


CIRCLE OF DONORS 18 I DONATORI

Roberto Beltrame

Alessandro Cattani

Paolo Enrico Colombo

Gian Paolo Dallara

Enrico Deluchi

Luigi Ferrari

Guglielmo Fiocchi

Aldo Fumagalli Romario

Nicola Gavazzi

Luciano Gobbi

Alberto Iperti

Andrea Lovato

Marco Milani

Riccardo Monti

Alberto Rosania

Stefano Salteri

Enrico Zampedri

Enrico Zio

Qui potresti esserci tu

2 GLI STUDENTI ADOTTATI

Alessio Durante

Giulia Realmonte


CIRCLE OF DONORS ROBERTO BELTRAME

55 anni, Presidente Knorr Bremse Italia ROBERTO BELTRAME PRESIDENTE KNORR-BREMSE RAIL SYSTEMS ITALIA

Come mai ha deciso di sostenere il progetto Circle? Direi che è molto semplice: mi ritengo fortunato, il Politecnico mi ha dato tanto, ed essendo arrivato a un certo punto mi sono sentito in dovere di restituire tutto quello che ho ricevuto. ALUMNUS INGEGNERIA MECCANICA 1988

DI FRONTE AI CAMBIAMENTI.

Tra le cose che ha ricevuto cosa le torna utile nel quotidiano? La costanza. Io ho fatto abbastanza fatica a laurearmi, al contrario di altri Alumni non sono stato uno studente modello, non è stata una passeggiata. Ma ce l’ho fatta grazie al metodo che mi è stato insegnato. Un metodo con cui si risolvono i problemi? nare, la prima sonda operare su Marte, gli anni del terrore, la crisi del petrolio, il PC, il telefono internet, un Assolutamente. Con molta Chernobil, calma: si cellulare, semplificano, si analizzano, e una soluPapa straniero, la caduta del muro di Berlino, l’attentato alle Twin Towers, l’auto eletzione si trova. trica, nuovi conflitti, nuovi flussi migratori, Ho visto il primo uomo toccare il suolo lu-

DI FRONTE AI CAMBIAMENTI, DOBBIAMO CHIEDERCI SE QUELLO CHE FACCIAMO SIA ANCORA ATTUALE O SE DOBBIAMO CAMBIARE ROTTA

GIAMPAOLO DALLARA E PRESIDENTE DALLARA AUTOMO GIAN PAOLOFONDATORE DALLARA la Brexit... che epoca! Ero pronto? L’avrei mai immaginato? La risposta è semplice:

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ALUMNUS INGEGNERIA AERONAUTICA 1959 80 anni, Presidente e Fondatore Dallara Automobili S.p.A.

INNOVARE COMPORTA SEMPRE ERRORI.

Come mai ha deciso di sostenere il progetto Circle? Per l’idea che ci possa essere qualcuno che ha un briciolo della fortuna che ho avuto io partendo dal Poli, mi fa piacere.

Che cosa le ha lasciato il Politecnico di Milano? Tutto il mio percorso professionale nasce qui. Io ho cominciato a lavorare in Ferrari perché c’era Enzo Ferrari che cercava un giovane ingegnere, e gli hanno segnalato il mio nome. Ferrari faceva le prime prove aerodinamiche nella galleria del vento del Politecnico, ed è lì che ho cominciato il mio percorso. Il mio è un debito di riconoscenza non solo per quello che ho imparato, ma per come mi è stato permesso di partire bene. Che cosa ricorda dei suoi anni al Politecnico? La formazione che mi porto dietro, la riconoscenza per come è robusto il corso di Scienza delle Costruzioni, tutti i corsi del Prof. Bertolini. Sono le radici sulle quali sono cresciuto.

Quando, nel 1959, fresco gneria Aeronautica al Polite cominciato la mia attività in accompagnato in una visita fine, prima di andare al m 54 anni, Fondatore e CEO GF4BIZ in ufficio tecnico, sono entr MPORTA SEMPRE ERRORI: NON BISOGNA TEMERLI, rari nella sala riunioni, dove Come mai ha deciso di sostenere il progetto Circle? componenti di auto RLI E CAPIRLI, PER TRASFORMARLI IN ESPERIENZA È un modo per restituire quello che ho avuto. Ho deciso di sostenerloesposti perché AMMINISTRATORE DELEGATO SINTERAMA che si erano rotti (semiass sono grato al Poli, ho trovato lavoro subito grazie al Poli, ed è una scuola che

GUGLIELMO FIOCCHI

GUGLIELMO FIOCCHI ALUMNUS INGEGNERIA AERONAUTICA 1986

viene riconosciuta in tutto il mondo. È una bella idea aiutare qualcun altro, meglio ancora se dei giovani di eccellenza.

PASSIONE, INNOVAZIONE, AGILITY.

Che cosa le ha lasciato il Politecnico di Milano? La capacità di analizzare problemi, di essere razionale, di essere logico, di farsi il mazzo. Perché la selezione è tosta: mio figlio ha fatto il Poli, e non è cambiato niente. Se qualcuno dice che era più duro, non è vero. È duro uguale.

Lei si è laureato nel 1986: come vede il Politecnico di oggi? Sono molto favorevole a quello che ha fatto il Poli negli ultimi anni, ha fatto un’integrazione con le aziende e un’internazionalizzazione fantastica, e sono molto contento della gestione Azzone. Bisogna portare qui i cervelli migliori: NDO IN CONTINUO DIVENIRE, COLTIVATE LE VOSTRE ARMI: solo così verranno gli studenti migliori. Quello che posso fare è aiutare qualNE, INNOVAZIONE, AGILITY E CONSAPEVOLEZZA SONO cuno degli studenti di alto livello a rimanere al Politecnico.

ERSO UNA SODDISFAZIONE ETICA PER NOI E PER GLI ALTRI

Progettare se stessi. Titolo da ingegneri, ma


CIRCLE OF DONORS Il Prof. Enrico Zio nella nuova Sala Donatori del Politecnico di Milano

I 2 VINCITORI DELLE BORSE CIRCLE GIULIA REALMONTE

studentessa di Ingegneria Energetica Che cosa significa per te Circle? Una soddisfazione enorme. Sembra di essere già dentro alla comunità degli Alumni pur essendo al livello “precedente”. È stata la sensazione che ho avuto quando sono venuta alla Convention, ci si sentiva già dentro alla comunità degli Alumni. La possibilità di entrare in contatto con persone che hanno enorme esperienza più di noi è fantastica. Dove ti immagini tra dieci anni? Penso che l’energia sia una delle grandi sfide del mondo attuale, del futuro. Questo è il motivo per cui ho voluto fare Ingegneria Energetica: è un ambito in cui ci sono tante sfide da poter cogliere. Produrre energia senza inquinamento, sfruttando le risorse locali: quello è l’ambito in cui mi piacerebbe lavorare. Il mio sogno è produrre energia dal mare. Avresti potuto andare all’estero, ma hai scelto di restare: come mai? Avevo appena fissato la casa per andare in Olanda, a Delft, ma avere ricevuto la borsa di studio ha messo tutto in discussione. Valutando quelle che sono le opportunità ho deciso di rimanere, una decisione che va al di là dell’aspetto economico. La Magistrale del Politecnico è meno focalizzata sulle rinnovabili - che avrei invece approfondito di più all’estero - ma dà conoscenze più ad ampio spettro, è più completa. E mi convince di più.

ALESSIO DURANTE

studente di Ingegneria Elettrica Che cosa significa per te Circle? Per me è un progetto straordinario, anche e soprattutto al di là della componente economica. Rappresenta un’opportunità per confrontarmi con il mondo delle aziende, e farlo già a questa età, a 22 anni. Dove ti immagini tra dieci anni? Non ho le idee molto chiare sinceramente! Sono molto curioso, mi piacciono molti dei mie ambiti di studio e vorrei approfondire diversi aspetti. La trasmissione e la produzione dell’energia per esempio, ma anche il trasporto ferroviario, o magari le macchine elettriche e l’automazione industriale. Penso che questa sia anche una grande opportunità per chiarirmi le idee! Sei originario di Teramo, in Abruzzo: cosa dice la tua famiglia? Sono molto contenti, credo siano orgogliosi, lo sono anch’io. Ho una sorella più piccola che sta facendo l’ultimo anno di classico, ma prenderà un’altra strada. Sono molto contenti soprattutto per questa opportunità che ho di confrontarmi con il mondo delle aziende e del lavoro. L’Ingegneria è una cosa di famiglia? Sì, mio papà è ingegnere civile, ha studiato all’Aquila, non si è allontanato tanto da Teramo. Di ingegneri c’è solo mio padre nella mia famiglia. Adesso è il mio turno.


Guido Canali ARCHITETTO ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA

In questa pagina l’architetto Guido Canali ritratto nel suo studio di Parma. A destra, dettaglio di uno dei palazzi firmati da Canali a Milano al Parco Vittoria, al Portello (foto: Vaclav Sedy).


LA LUCE E LA MATERIA

Musei, impianti industriali, edilizia civile: Guido Canali, l’architetto che ha progettato e sognato il Made in Italy di Gabriele Ferraresi foto di Cosimo Nesca Nell’ottobre scorso l’architetto Guido Canali venne invitato a tenere nella sua Parma una lectio magistralis al Teatro Farnese. Esordì in questo modo: “Lectio magistralis per niente: non ho nulla da insegnare. Facciamo insieme un viaggio in edifici che mi illudo abbiano un loro contenuto e significato”. Questo è Guido Canali. Un maestro che come tutti i maestri autentici non vuole essere riconosciuto come tale, ma lo è; altro che archistar, Canali è un mistico dell’architettura. Già professore di Composizione Architettonica all’Istituto di Architettura di Venezia ed a Ferrara, Accademico di San Luca e delle Belle Arti a Parma, ha fondato e presiede la Canali associati.

“Degli anni al Politecnico ricordo Gio Ponti: alla lavagna fceva dei disegni al tratto meravigliosi, col gesso impugnato tra il pollice e l’indice. Simpatico, cordiale”

Cresciuto a Parma, Canali studia al liceo classico e frequenta in seguito il Politecnico di Milano, alla fine degli anni cinquanta. Di Canali hanno scritto “Pochi architetti come Canali hanno alla base del proprio operare il dialogo, composto e quasi defilato, con la materia del progetto e della costruzione”. Composto e quasi defilato: non solo nel progetto e nella costruzione. Studi al Politecnico di Milano, da tempo lo studio a Parma: le chiederei di tornare a Milano, però indietro nel tempo Al Poli dei miei tempi c’era obbli-

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go di frequenza, così noi studenti dovevamo esserci sempre. Ricordo i severi stanzoni di Piazza Leonardo dove entravamo alle due del pomeriggio, man mano la luce scemava, noi chini sui fogli di “disegno al vero” a ritrarre copie in gesso di capitelli corinzi. Sgobbavamo duro, era una scuola ancora all’antica, lì ho imparato l’importanza della rappresentazione grafica. Lei veniva dal liceo classico Si, quindi tutto il settore delle materie cosiddette scientifiche, tipo Analisi matematica, Scienza delle costruzioni, non è che lo amassi alla follia: però mi piaceva disegnare, anche al liceo, anche se ero un autodidatta. Al Politecnico imparai il disegno tecnico. L’insegnamento accademico che c’era allora potrebbe dare qualche suggerimento anche oggi, dal momento che oggi pare essersi persa quasi completamente la pratica del disegno a mano e i giovani sembrano computer dipendenti. Ha frequentato il Politecnico in anni in cui i professori avevano nomi importanti Quello con più aura era sicuramente Ernesto Nathan Rogers, leader del mitico BBPR. Visitavamo il suo bellissimo allestimento del Museo del Castello con soggezione quasi religiosa. Ricordo Portaluppi, anche


lui una storia legata al movimento moderno, ma noi lo percepivamo come il Preside, un po’ distaccato. Di questi architetti, pur progettisti importanti, al tempo facevamo fatica ad apprezzare le qualità. Le lezioni di Gio Ponti, le rare lezioni che faceva - perché era sempre in giro per il mondo - erano affollatissime, più dialoghi e racconti di esperienze divertenti che insegnamenti ex cathedra. Un suo collega, Paolo Favole, diceva che erano un po’ come delle lezioni di filosofia Sì, ma come in salotto, senza sussiego professorale. Ponti però, dato che spesso improvvisava le lezioni, anche si ripeteva. “Non vi ho mai parlato della mia villa a Caracas?” questo nel 1961: allora la folla di studenti, più di cento, anche in piedi, che aveva già varie volte sentito parlare della villa di Caracas mentiva. “Benissimo, vi parlo della villa di Caracas”. E Ponti partiva. Non c’erano gli strumenti didattici di oggi: la raccontava a parole, non poteva proiettare, faceva meravigliosi disegni al tratto alla lavagna, svolazzando. Molto cordiale, alla mano. Agli esami non c’era mai. Altri? Noi avevamo rapporti più fitti con gli assistenti, per esempio con Vittorio Gregotti: lo ricordo, molto simpatico e dinamico, ci stimolava, gli ricordo sempre “Vittorio, sono un tuo allievo!”. Per lui ho una grandissima stima, persona di intelligenza straordinaria, molto generoso, grande progettista e maestro. Ma il Poli lo ricordo con affetto anche perché ebbi compagni di classe molto bravi. Giorgio Grassi disegnava da mago, non meraviglia che, poi, le sue architetture le abbia rappresentate in modo così poetico. Pure Italo Lupi, un anno davanti a me, bravissimo nel disegno. Lo scoprii già laureato, quando lavorava per La Rinascente. Rimasi incantato di fronte alle sue grandi tavole di carta riso solo vergate a matita dura. Con Italo abbiamo fatto tante cose assieme, da lui ho imparato molto, lo stimo moltissimo, ed è molto gentile perché ancora mi sopporta.

Qual è la cosa più importante imparata negli anni del Politecnico? Forse il lavoro, l’impegno necessario a costruire il progetto giorno dopo giorno, con perseveranza. Nel nostro mestiere non è che dopo l’idea iniziale il progetto sia fatto. Occorre anche la fatica quotidiana per l’affinamento, il dipanarsi del progetto. Per eliminare tutto quello che risulta superfluo, troppo facile. Perché un progetto si può ritenere concluso solo quando non c’è più nulla da togliere. Non ci sono scorciatoie. Tutto questo si ottiene sgobbando, chini sui tavoli, le giornate nella polvere. Forse è questo uno degli insegnamenti più importanti del Poli. Abbiamo parlato del passato, torniamo a quegli anni. Lei ha progettato sia abitazioni che fabbriche giardino: partiamo da queste ultime, in particolare dal quartier generale di Prada Credo di essere un architetto fortunato perché quasi sempre ho avuto incarichi da committenti intelligenti e illuminati. La collaborazione con Prada dura da quasi trent’anni. Cominciò semplicemente. Patrizio Bertelli mi fece chiamare, lo incontrai nella sua bella sede operativa in provincia di Arezzo. Da allora ho avuto il privilegio di realizzare per loro tre complessi industriali (stabilimenti e uffici), uno nelle Marche, due in Valdarno. Ancora lì un quarto in via di completamento. Oltre a vari progetti, tra ipotesi abbandonate ed altre in progress. Un’esperienza estremamente stimolante, anche per la straordinaria sintonia con Patrizio, lui più architetto e progettista di tanti altri con la laurea. Benché ormai non riesca più ad incontrarlo spesso. Ma ho sempre il piacere di condividere l’impegno per la qualità architettonica, il fastidio per tutto ciò che non è essenziale, il ricorrente impiego di elementi prefabbricati per sveltire i processi costruttivi e contenere i costi. Qual era la volontà della committenza? Evitare la sciatteria e la banalità

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“Il nostro mestiere non è il mestiere dell’idea. Il progetto è fatica quotidiana, è affinamento”


Gli Headquarters Prada firmati Guido Canali a Valvigna di Arezzo (foto: Alessandro Ciampi)

che per lo più contraddistinguono gli edifici industriali che oggi si costruiscono in Italia, in prevalenza anonimi scatoloni male illuminati, poco riscaldati, per niente accoglienti. Prada invece ha grande rispetto per i suoi operai e chiede che gli edifici industriali dove questi lavorano siano progettati e realizzati con la stessa cura dedicata ai negozi, ed offrano condizioni di assoluto confort, in un rapporto ottimale tra benessere dei lavoratori e produttività. Quali sono i suoi punti cardinali nella fase che precede il progetto? È fondamentale anzitutto capire

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il sito su cui intervenire. Indagare non solo sui caratteri basici quali accessibilità, orientamento, orografia e così via. Ma anche quelli meno eclatanti, quali ad esempio i livelli della qualità o del degrado, per capire se aprire l’edificio o chiuderlo verso l’intorno e così via. Appunto perché l’edificio deve interpretare il luogo, inserirsi senza violenza. E al contempo essere in empatia con le persone che, se pur non si conoscono, saranno protagoniste, in quanto utilizzeranno l’edificio. Si tratti di residenze, di luoghi di lavoro o altro. E interrogarsi su cosa farebbe loro piacere per poterci vivere al meglio.


Gli uffici Smeg a Guastalla progettati da Guido Canali (foto: Francesco Castagna). A destra, Guido Canali nel suo studio. Sullo sfondo la riproduzione di una delle statue custodite all’interno del Museo del Duomo di Milano, di cui Canali ha curato ristrutturazione e riallestimento.

Perché in fabbrica uno ci deve stare, mentre in casa uno ci vuole stare Certo. Affinché la gente vada più volentieri a lavorare, e non si senta chiuso in scatola. Noi ci impegniamo perché la luce sia ottimale, anche quella diurna. E perché, quando alzi lo sguardo, ti possa affacciare sul verde, quasi con l’illusione di poter lavorare in un giardino. Inoltre, per quanto riguarda il contesto, abbiamo cura di non aggravare la situazione di degrado ormai prevalente nel territorio: cerchiamo di restaurare il paesaggio. Piantando molti alberi, aprendo giardini all’interno e sui tetti degli stabilimenti, stando attenti a ridurre i consumi energetici. Per questi motivi Prada è stata riconosciuta come una delle aziende più all’avanguardia a livello mondiale, sia per la salvaguardia dell’ambiente che per il benessere dei lavoratori. E più innovativa an-

che per l’impegno nel progettare e realizzare le sue fabbriche-ville. Questi stessi valori sono anche all’interno della fabbrica giardino Smeg di Guastalla Il nostro approccio al progetto è sempre vigilato da un imperativo quasi etico: non violentare il contesto, prestare molta attenzione al benessere dei futuri, pur incogniti, utenti. In più alla Smeg le condizioni ambientali di base erano molto favorevoli, perché il tema era edificare i nuovi uffici a corredo di un complesso industriale già esistente, fortunosamente a bassissima densità urbanistica, circondato da vasti appezzamenti a verde. Gli uffici Smeg, come i tipici casolari rurali padani, sono costituiti da blocchi isolati, collegati a pettine, immersi nei prati e fasciati da dune verdi entro orizzonti di pioppi, con un ampio stagno nel baricentro. Ma il

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“Progetto sempre pensando a chi starà dentro agli edifici. Nel caso degli stabilimenti è un obiettivo particolarmente importante”


“L’acqua? È un elemento magico che amo molto inserire nei miei progetti: ma non è solo estetismo, o gusto della natura”

merito principale per tali uffici-casali di campagna va a Roberto Bertazzoni che da subito approvò la piastra orizzontale monopiano in luogo di un blocco pluripiano, che sarebbe stato più banale ed assai meno confortevole, anche se meno costoso. Il gradimento da parte dei dipendenti per gli uffici Smeg, come per le fabbriche Prada, è altissimo. E unanimemente riconosciuto il privilegio di lavorare immersi nel verde. Qual è la “firma” che ama lasciare nei suoi progetti? Mi piacerebbe poter rispondere “la qualità della luce”, nella presunzione che gli utenti degli edifici da noi progettati siano veramente gratificati da tale plus. La luce naturale è infatti una componente fondamentale della progettazione, se poi è zenitale può rivelarsi addirittura scioccante. Così credo non sareb-

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be ozioso se si potesse aggiungere, alla già pur lunga lista degli insegnamenti oggi attivi nelle Facoltà di Architettura, anche un corso tipo “La luce nelle costruzioni, tecnica e umanesimo”. Anche l’acqua è un elemento che le piace molto. È un elemento vivo e magico. Ma non solo per estetismo o mero compiacimento di composizione paesaggistica. Ho sperimentato anche concreti vantaggi pratici. Per esempio nell’ultima sede Prada (Valvigna) come già alla Smeg, il bacino idrico funge da riserva nel caso di incendi e costantemente da serbatoio a valenza energetica. Quando vede concluso un suo progetto, le capita mai di pensare “questa cosa la potevo fare diversa”? Molto spesso, se non quasi sempre.


Paola Antonelli 54 anni ARCHITETTO ALUMNA POLIMI ARCHITETTURA


IL DESIGN AL TEMPO DELLE EMOJI Dal Politecnico di Milano al’incarico di senior curator del MoMA di New York. Fino alla Casa Bianca. Paola Antonelli si racconta di Lorenzo Palmeri foto: MoMA

“Da qualche tempo mi intriga un possibile parallelismo tra il la fisica e il design: è uno dei futuri possibili”

Sabato 18 ottobre scorso a cena alla Casa Bianca c’era Matteo Renzi: a tavola da Barack Obama e Michelle aveva scelto di portare due premi Oscar - Roberto Benigni e Paolo Sorrentino - un’icona dello stile italiano come Giorgio Armani e quattro donne simbolo dell’eccellenza italiana nel mondo. La campionessa olimpica Bebe Vio, Fabiola Gianotti, direttrice del Cern, la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, e proprio Paola Antonelli. Che di quel giorno disse: “È un onore immenso”. Da 23 anni a New York, Paola è da tempo un’autorità nel mondo del design, e lo è diventata anche per uno dei musei più importanti del mondo, il MoMA. Portatrice di idee brillanti e coraggiose di cui ho grande stima, per l’incontro con lei decido di non prepararmi troppo, per lasciare spazio a un dialogo libero. Per rompere il ghiaccio, decido di evocare la famigerata definizione di Design. Un tema che malgrado le apparenze è tutt’altro che banale, una domanda cui è impossibile rispondere, un interrogativo che nella quantità di tentativi mancati di risposta dice molto, in filigrana, della natura di questa disciplina e della sua evoluzione nel tempo. Con Paola cominciamo bene, perché ci troviamo subito d’accordo: “Che cos’è il Design? Devo ammettere che non ho definizioni, me ne tengo ben distante e, a dire il vero, mi sembra abbia poco senso cercarne” Qual è invece il tema che ti sta più a cuore in questo momento storico? Ce ne sono tanti, è difficile sintetizzarli in pochi punti, però proviamoci: in ge-

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nerale direi che mi spaventano molto la crescente disparità economica e la scomparsa della cosiddetta classe media. Mi fa molta paura lo spostamento verso una politica di destra, indice di un profondo malessere che, pur manifestandosi in modo diverso a seconda delle aree geografiche, sembra essere pervasivo. Mi preoccupa la disoccupazione giovanile, mi preoccupa il fatto che molte persone non abbiano il “senso del futuro”, non riescano a trovare una loro collocazione. Poi il razzismo, la discriminazione sessuale, insomma, mettendo tutto insieme credo si stia vivendo un brutto momento di regressione del senso morale e di poco slancio verso il progresso. Sei pioniera di quella che potremmo definire una “design way of life”: quale ruolo credi possa incarnare il design nel futuro del mondo? È un tema cui ho pensato molto. Di sicuro esistono molti tipi di Design, tra questi mi interessa particolarmente quello che si identifica in una sorta di “atteggiamento progettuale”, che non coincide con alcuna definizione - e non è il cosiddetto Design Thinking in cui il progetto può essere di volta in volta un’infrastruttura, una sedia, un’interfaccia o persino una filosofia di vita. Da qualche tempo mi intriga un possibile parallelismo tra il campo della fisica e quello del Design, in fisica esiste una distinzione tra teoria e applicazione e così credo sarà nel futuro del Design. Ci sono dei designer, per semplificare diciamo “speculativi”, che per ora non trovano spazio nei


Items: Is Fashion Modern? al MoMA di New York dal 1° ottobre, a cura di Paola Antonelli e Michelle Millar. Una mostra che esplorerà il presente, il passato e il futuro di 111 oggetti della moda senza tempo, come il classico dei classici: la t-shirt bianca.

governi e nelle grosse compagnie, che sono in grado di creare scenari che aiutano a pensare le conseguenze delle scelte di oggi. Si tratta di progettisti che spesso hanno una profonda conoscenza dei campi e delle dinamiche di cui trattano e il loro lavoro non ha nulla del “campato in aria”. Poi ci sono i designer “applicati” che continueranno a progettare oggetti di vario tipo, certamente si occuperanno ancora di tavoli e lampade ma presumibilmente, e perché no, anche di progettare un videogioco o magari un nuovo emoji. Mi incuriosiscono i campi in cui il Design non è considerato e non sembra in alcun modo poter entrare. Per esempio un incontro tra Design e politica. È vero che la politica in generale è abbastanza nauseante, anche se ci sono politici e politici, non sono tutti uguali. A volte dipende anche da cosa ti lascia fare l’elettorato. Molti politici attempati, in molti luoghi del mondo, bloccano un’intera generazione, fanno da tappo al futuro. Ma poi esistono queste eccezioni che rendono possibile una visione evolutiva. Chissà. Immagino tu sia spesso in viaggio: come occupi il tempo del viaggio sia da un punto di vista interiore che esteriore? Bella domanda. Posso dire che me la

godo. Mi piace molto stare da sola, magari in albergo o in giro per una città che non conosco ancora. Mi piace restare in quello spazio che hai definito “interiore”. Il momento in cui mi sento più serena e in pace con me stessa è quando sono in aereo, una dimensione che mi trasmette una serenità che posso tranquillamente paragonare al fare un lungo bagno nel mare. Quindi, in aereo non lavori? Lavoro con la mente in folle, pulisco gli ingranaggi e di fatto mi vengono un sacco di idee. Quanto hai desiderato e cercato la posizione professionale in cui sei? In realtà non l’ho cercata per niente o meglio, forse l’ho fatto ma inconsapevolmente. Non avevo mai pensato a New York come meta, ho visto un annuncio su una rivista e ho risposto. Certo, conoscevo i curatori del MoMA perché li avevo intervistati nel periodo in cui lavoravo per Domus e Abitare, ma non avevo deciso di venire a lavorare qua. Invece, una volta iniziato il rapporto di lavoro il discorso è cambiato, da quel momento, anche superando qualche limite e timore personale, ho lavorato duramente, desiderando e infine raggiungendo un certo tipo di risultato. Mi puoi indicare tre mostre che a tuo

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“Non ho cercato la posizione professionale in cui mi trovo, né avevo pensato a New York come meta. Ho visto un annuncio su una rivista e ho risposto”

avviso hanno cambiato il paradigma della curatela? In primis, non citerò le mie! Non mi sembrerebbe giusto. Andando indietro nel passato c’è una mostra del 1964, intitolata Architecture without Architects di Bernard Rudofsky, che è stata una specie di pugno nello stomaco al modernismo in Architettura. Rudofsky aveva già fatto mostre altrettanto coraggiose, ma quella è stata proprio un’idea forte. Poi ti direi la super citata Italy. The New Domestic Lansdscape curata da Emilio Ambasz nel 1972 che cito non perché sono italiana ma perché presentava per la prima volta un concetto di design molto ampio. Perché seppur il Design italiano fosse identificato con l’ambiente domestico, i mobili e i prodotti furono messi in relazione diretta con l’idea speculativa di identificare nuovi modi del vivere. Certo, già negli anni sessanta esistevano importanti gruppi di ricerca, penso agli Archigram in Inghilterra o a Superstudio in Italia, ma nel 1972, in occasione della mostra, si incontrarono per la prima volta con i grandi produttori di mobili e oggetti. Uno dei “motori” di quella mostra fu Giulio Castelli, fondatore di Kartell, uno dei miei più grandi mentori, che tengo sempre molto a citare. Poi ti voglio nominare Design, miroir du siécle tenutasi al Grand Palais di Parigi nel 1993, una mostra che ho avuto modo

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di visitare, a differenza di quelle di cui ho parlato precedentemente che per ovvie ragioni non ho visto, e che nel bene o nel male ha cambiato il mio modo di percepire il Design. La mostra era allo stesso tempo bellissima, soffocante e scostante, perché ospitava tutti gli oggetti più importanti del ventesimo secolo, ma mettendoli tutti insieme come in un mercatino delle pulci. Questo atteggiamento di grande spettacolarità, sdegno e anche arroganza mi aveva fatto pensare che non avrei mai più voluto chiamare le persone “consumatori” e che il Design non andava in nessun modo sminuito ma piuttosto messo su un piedistallo. Non dobbiamo dimenticare a questo proposito la mostra Machine Art, curata da Philip Johnson per il MoMA nel 1934. Qui per la prima volta furono messi su un piedistallo bianco pezzi meccanici di macchine utensili come i cuscinetti a sfera, le molle, le eliche. In tanti sono in attesa di un tuo libro, aspettano che tu faccia il punto. Quanto ti interessa scrivere un libro? lo farò, anzi, a dire il vero avrei dovuto consegnarlo un anno fa. Diciamo che mi interessa fino a un certo punto nel senso che ho tante idee da sviluppare e il libro sta diventando una specie di zavorra. Anche per questo, dato che ho cominciato, devo finirlo. Non credo però che uscirà prima di un anno.


HIGHLINE A MILANO

La passerella dell’Alumnus Architettura del Politecnico Paolo Favole sopra la Galleria Vittorio Emanuele. E il futuro di Milano di Gabriele Ferraresi

“Era l’inverno del 2013 quando Alessandro Rosso - che aveva realizzato l’Albergo 7 Stars Galleria - mi disse: “Andiamo a fare un giro sui tetti. I tetti erano quelli della Galleria Vittorio Emanuele” ricorda Paolo Favole, architetto, Alumnus Architettura 1966. E prosegue: “Era notte, inverno, c’era un gelo tremendo: ma il cielo era limpidissimo e si vedeva tutta la città, con il Duomo illuminato”. Una vista unica, spettacolare, quasi ingiusta da tenere solo per sé: una meraviglia da condividere con tutta la città. Così dalla prima visita sul tetto di Milano dell’architetto Favole nacque un progetto inaugurato due anni dopo, a maggio 2015, dall’allora sindaco Giuliano Pisapia in persona: Highline Galleria, una passeggiata aperta a milanesi e turisti sul tetto di Milano, nel cuore della città.

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Architetto Favole, dopo quella prima camminata notturna sul tetto di Milano, come proseguì il progetto? Pensammo con Rosso di trasformare la passerella di manutenzione presente in una passerella pubblica, e così è stato. Abbiamo ottenuto l’autorizzazione dal Comune di Milano e dalla Soprintendenza e in un tempo relativamente breve abbiamo realizzato la prima parte: in circa sei mesi era fatta. All’inaugurazione copriva una superficie di


Paolo Favole è nato, ha studiato e opera a Milano. Laureato in architettura presso il Politecnico di Milano - Medaglia d’oro come miglior laureato nel 1966 - libero professionista con studio in Milano, svolge attività nell’ambito dell’edilizia e dell’urbanistica. È autore di numerosi articoli e saggi sulla Storia dell’Architettura e la Storia della città, sulle quali tiene regolarmente conferenze e seminari in qualità di relatore. È autore di 18 libri; altri sono in corso di pubblicazione.

circa 550 metri quadri e una lunghezza di 250 metri lineari. La passerella che abbiamo realizzato è larga 120 cm e porta 500 kg a metro quadro, per motivi di sicurezza relativi all’affollamento. Un enorme lavoro, anche perché era tutto appoggiato su strutture dell’ottocento. Come sono arrivate a noi le strutture progettate da Giuseppe Mengoni più di un secolo fa? Abbastanza in buone condizioni, tenendo conto che una parte era stata sostituita nel dopoguerra, era stata bombardata. Come avete organizzato i lavori? Il cantiere è stato tutto notturno, non potevamo mica far passare i tir di giorno in Galleria! [ride] È stato un lavoro complesso, con due gru. Accumulavamo il materiale sui tetti di notte, e poi il giorno si lavorava a montare sui tetti, con operai bravissimi, e in sicurezza. Poi abbiamo inaugurato la prima parte: è venuto anche il Sindaco Pisapia, contentissimo, poi abbiamo raddoppiato e abbiamo fatto da piazza Duomo a piazza della Scala. Successivamente ancora abbiamo allargato, messo delle coperture in maniera che volendo si possano fare anche delle esposizioni: in questo modo il percorso sarà non solo di vista,

“Mengoni aveva già previsto nel suo progetto l’apertura del terzo passaggio, un percorso sui tetti della Galleria. Ma l’idea rimase un sogno nel cassetto” 69 MAP Magazine Alumni Polimi

ma anche espositivo. Si sarebbe mai immaginato di realizzare un progetto del genere? No, mai! Mai avrei pensato. Anche se Giuseppe Mengoni (1829 - 1877), il progettista della Galleria Vittorio Emanuele II, aveva già previsto nel suo progetto l’apertura del “terzo passaggio”, un percorso sui tetti della Galleria, da Piazza della Scala a Piazza Duomo. Ma il progetto rimase chiuso nel cassetto, un cassetto destinato a riaprirsi più di un secolo dopo, per offrire a tutti la possibilità di ammirare Milano dall’alto della Galleria, alta 47 metri. La passerella sulla Galleria Vittorio Emanuele è piaciuta ai milanesi Anche secondo me, piace! Dalla passerella si vede tutta piazza Duomo dall’alto, piazza Diaz, quindi sia la Torre Martini che la Torre Velasca, poi si vede un pezzo di Palazzo Giureconsulti, dell’Unione del Commercio, un po’ di tetti di banche varie, si vedono i due volumi della Scala e tutta la skyline nuova di Milano. E quando si arriva in fondo anche Palazzo Marino, poi San Carlo, San Fedele. Una vista completa. La passerella e altri progetti degli ultimi anni hanno fatto rinascere un’area


paradossalmente dimenticata, come la Galleria In Galleria c’erano tanti posti terribili. La condizione di alcuni degli ambienti “sotto” era molto degradata, c’erano i buchi nelle solette, i lavori per trasformarli sono stati ingenti. Posti malandatissimi. La passerella sopra la Galleria Vittorio Emanuele è un esempio unico in Italia. In Italia non ci sono passaggi sui tetti, mentre all’estero mi dicono che ci sono posti dove si può camminare sopra le case per tutta la città. È abbastanza un unicum, infatti speriamo di allungare la passerella, magari lungo piazza Duomo, o fino alla terrazza verso piazza Scala: ne parleremo col sindaco. Lei è nato a Milano e cresciuto in Porta Vittoria: come ha visto cambiare Milano negli ultimi 15/20 anni? Devo dire molto in meglio. L’abbandono dell’area Garibaldi-Repubblica era un buco impresentabile in una città, e mi ricordava una storia mia da bambino. Mio papà, che era laureato in Architettura - ma non ha mai esercitato - mi portava sulla canna della bicicletta a vedere la demolizione della stazione Garibaldi, quella vecchia. Sarà stato il 1953, forse il 1954. E mi diceva: “Vedi, qui verrà il Centro Direzionale, con i grattacieli come a New York dove abitano gli zii”. E me lo ricorderò sempre, l’ho visto realizzato nel 2010: ma l’idea c’era

già dal piano regolatore del 1953. Una storia travagliatissima. Anch’io ero stato invitato a un concorso per quell’area, non ho vinto: ma il progetto che ha vinto va bene, è un pezzo bellissimo di città. Molto meglio di CityLife. A Milano negli anni del boom si costruivano edifici leggendari - Torre Pirelli, Torre Servizi Tecnici Comunali, Galfa.. poi è come se ci si fosse fermati. Intanto non c’era più il boom. Poi c’è stato un momento, con il piano del 1980, in cui sono cambiate le condizioni per realizzare. Sono state fatte più case in periferia che in centro, era più complicato, forse impossibile costruire grattacieli, e forse non c’erano neanche gli investitori interessati. C’era ancora una parte della città che apparteneva al settore secondario, non era terziario avanzato come ora, quindi di uffici. E questo ha avuto un riscontro anche urbano visibile. Nel frattempo c’è anche un altro fatto: noi allora eravamo 1.850.000 e ora siamo scesi a 1.300.000, la città è totalmente cambiata anche come esigenze degli abitanti. Perdere 500mila abitanti in 25 anni è come togliere due città da Milano. E non abbiamo compensato con altri fenomeni di immigrazione, abbiamo compensato con il pendolarismo. Abbiamo parlato della Milano di ieri. E la Milano di domani? Dovremmo dare degli oneri al Comune

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per demolire le zone abbandonate, le esigenze abitative cambieranno radicalmente. L’ISTAT prevede che in Italia nel 2080 saremo 40 milioni invece di 60 milioni. E questo malgrado l’immigrazione: perché ovunque, da 0 a 30 anni abbiamo classi di abitanti che sono la metà delle classi che abbiamo tra i 30 e gli 80. Ovunque il calo sarà progressivo e rapido. In tutti i comuni dove lavoro, faccio il conto che nei prossimi 10 anni ci sarà tra il 5% e il 10% della popolazione in meno. Si è costruito troppo? Oggi abbiamo 1,6 vani a persona, e nel 1975 ne avevamo 0,8: abbiamo raddoppiato i vani e diminuito gli abitanti, c’è un’eccedenza. Lavoro in 15 comuni, dalla Puglia a qui, e tutti i comuni hanno perso almeno una o due classi delle elementari: non ci sono più gli alunni. Non è una crisi di oggi, è un fenomeno cominciato 30 anni fa. Tra cinquant’anni sarà necessario demolire i palazzi abbandonati, è impossibile immaginare quanto sarà l’invenduto, l’abbandonato, il dismesso, del residenziale da qui a 30, 40, 50 anni. Una volta che si abbatte cosa si farà? Spazi verdi. Non avremo bisogno di residenze. Ci sarà meno bisogno di tirare su palazzi: quindi l’architettura finisce? No, cambia. Ci si applicherà a ristruttu-


Paolo Favole ARCHITETTO ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA

Paolo Favole nel salotto della sua abitazione milanese.

“La passerella è un unicum: noi speriamo di allungarla, magari verso piazza Duomo, o fino alla terrazza verso piazza Scala”

rare, a rendere efficiente dal punto di vista energetico, oppure faranno palazzi per altre funzioni.

mo, ma hanno meno preparazione culturale, se la fanno un po’ qui magari. Svizzeri a lezione non ne avevo.

Che consiglio darebbe a un giovane architetto? Andare all’estero. L’ultima volta che ho insegnato al Politecnico, tra i miei studenti bravi non ce n’è uno che lavori in Italia. Su 250, i 50 bravi con cui sono in contatto sono in America, sparsi nei posti più incredibili. Non a New York, magari nel Middle West. Poi tantissimi a Londra, a Parigi, molti di quelli che erano dei paesi dell’est sono tornati in patria, uno con grande successo è andato in Vietnam.

Ma perché negli Stati Uniti uno studio dovrebbe assumere un architetto che ha studiato a Milano? Perché è bravo. Come dicevo ce ne sono nei posti più strani, per esempio a Trenton nel New Jersey, come sono arrivati là non lo so! Ma ci sono arrivati e questo è apprezzabile. Quello che sta in Vietnam dice che non riesce a star dietro al lavoro che ha. C’è sempre apprezzamento dell’Italia, malgrado quanto ci feriamo da soli. Viene riconosciuto il plus valore che hai in quanto italiano, conosci il Design, il mondo della moda, per cui vai a Londra, a Shanghai perché sei italiano (ma poi è chiaro, devi essere italiano e bravo).

Che cosa si portano all’estero gli architetti italiani che fuori non c’è? Sapranno bene la storia dell’architettura perché gliel’ho insegnata io! [ride] Sanno abbastanza bene la composizione degli ultimi venti, trent’anni, credo sappiano bene l’informatica, ma non ne sono certo, non è tra i miei insegnamenti. Io ho avuto un’ottima impressione degli allievi che ho avuto, e metà non erano italiani. Se però vengono qui a studiare dal Sud America e dall’est Europa, sarà perché trovano una scuola che là non hanno, qui si vedono tante cose dal punto di vista dell’Architettura. Ma in tutto il mondo finché non si comincia a lavorare, ci sono cose che non si imparano. Gli svizzeri hanno una conoscenza tecnica che noi non abbia-

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Per concludere, volevo chiederle del suo periodo da studente al Politecnico, cosa ricorda? Al quinto anni fui chiamato, ancora studente, dall’architetto Carlo Perogalli (1921-2005) a fargli da assistente. A Perogalli devo moltissimo: ricordo che mi diede un lavoro suo perché avessi un provento e potessi fare l’assistente. Con lui scrissi anche libri: uno, Ville dei Navigli Lombardi, l’avevo iniziato come tesi, poi è diventato un libro. Da allora ho scritto 18 libri, che è un bel numero!


IN SELLA AL FUTURO Volata Cycles e Zehus Bike+: tra smart bike e mozzi intelligenti, le bici di domani hanno fatto tappa al Poli

©Volata Cycles

di Giulio Pons

“Il momento più difficile per Volata? Il passaggio da un prototipo ad una bici ingegnerizzabile e producibile in scala”

Dalla sua invenzione a oggi la bicicletta è in sostanza rimasta fedele a se stessa, grazie a due ruote, un telaio, catena, pedali, un manubrio, una sella, e in fondo poco altro, è un mezzo perfetto. Il mezzo a propulsione umana più diffuso al mondo, che, oltre a renderci la vita più semplice nelle trafficate aree urbane, riesce anche a donarci qualcosa di abbastanza vicino alla felicità. Non è una cosa da poco. Ma dalla due ruote tradizionale è anche possibile andare oltre e percorrere nuove stra-

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de: è quello che ha voluto fare Volata Cycles, azienda fondata dagli Alumni del Politecnico di Milano Marco Salvioli e Mattia De Santis. “Le biciclette non si sono mai evolute dal punto di vista digitale, e gli utenti sono costretti ad “arredarle” con luci, computer, tracciatori GPS - racconta Marco Salvioli a MAP. “Noi con Volata Cycles abbiamo voluto creare bici complete che integrano tutte quelle feature, mantenendo un ottimo design e una continuità di prodotto”. Missione

compiuta:

le

bici


smart Volata Cycles offrono al ciclista un computer con schermo a colori integrato nell’attacco del manubrio per conoscere in tempo reale le proprie prestazioni, dal battito cardiaco alle calorie bruciate, ottenere direttamente dalla nostra Volata indicazioni meteo o un utilissimo navigatore per orientarsi lungo il percorso. Al primo modello - la Model 1 - lanciato con successo negli Stati Uniti nel 2016, Volata ha deciso di affiancare ora un altro modello pensato per il mercato europeo: è la Model 1C, lanciata a febbraio 2017. Adotta un manubrio più confortevole rispetto alla “sorella maggiore” Model 1, coperture Michelin anti foratura da 35mm e pedali più larghi: il tutto per adattarsi meglio al contesto urbano e cittadino europeo, visto che nel Vecchio Continente ogni giorno circa 46milioni di persone utilizzano una due ruote a pedali per andare il lavoro, e un mercato c’è. In entrambi i casi l’anima delle biciclette Volata, racconta Sal-

La Model1C di Volata Cycles, il nuovo modello presentato a febbraio 2017

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violi è “Una board elettronica, che è il cervello di Volata” e grazie all’app Volata Cycles la smart bike dialoga via Bluetooth sincronizzandosi con il nostro smartphone, permettendo di rispondere alle chiamate senza staccare le mani dal manubrio e in totale sicurezza. Niente catena: a trasmettere la spinta dai pedali al mozzo posteriore c’è una cinghia, quindi addio grasso e mai più mollette sui pantaloni. Infine, a proposito di sicurezza, le biciclette di Volata sono anche a prova di ladro e installano un antifurto GPS integrato nel telaio, per sapere sempre grazie al satellite dove si trova la propria due ruote. “Il momento più difficile? Il passaggio dal prototipo della Model1 a una bici ingegnerizzabile e producibile in scala” ricorda Salvioli, mentre il momento migliore “Quando abbiamo ultimato il primo prototipo e l’abbiamo iniziato a mostrarlo alla gente. Ci dicevano “Perché nessuno ci ha pensato prima?” la reazione delle persone è stata la migliore che potessimo sperare”. Con una decina


Marco Salvioli, 34 anni FOUNDER E CEO DI VOLATA CYCLES

©Volata Cycles

ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA MECCANICA

di collaboratori “Principalmente in Italia, ma a breve saranno distribuiti al 50% a Milano e al 50% a San Francisco”, precisa Salvioli, Volata è “Designed in Italy, assembled in California” e si vende online in tutto il mondo perché “smart” non è solo la bici, ma anche il processo e il modello aziendale.

“Oggi le bici a pedalata assistita garantiscono un piacere di guida impensabile fino a pochi anni fa”

Prezzi? A seconda del modello si va dai 2499 ai 3499 euro, nemmeno così fuori mercato per le biciclette di fascia alta, un prezzo in questo caso motivato da materiali, tecnologia, componentistica e design: la Model 1C ha un listino più abbordabile rispetto alla Model1, 2.499 euro contro 3.499 euro, in caso la si scelga nella versione

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con cambio meccanico, mentre si sale a 2.999 € per la versione con cambio elettronico Di2. Non c’è però solo Volata Cycles a ripensare il concetto di bicicletta: dal mondo PoliMi arriva anche Zehus Human+. Perché se la bici è cambiata poco dalla sua nascita, ancora meno è cambiata la ruota, almeno dal V millennio a.C. quando fu inventata dai Sumeri. Proprio per questo motivo possiede ancora oggi grandi margini di miglioramento: soprattutto se la si monta su una bici. È l’idea alla base di Zehus Bike+, che vuole aggredire un settore in crescita a doppia cifra, quello della bicicletta a pedalata assistita, con un mozzo posteriore


Sopra: la Model1C di Volata Cycles, la prima bicicletta Volata progettata espressamente per il mercato europeo.

smart che unisce batteria, sensori e motore dentro alla ruota posteriore di ogni bicicletta e non prevede ricarica. Giovanni Alli, marketing general manager di Zehus Human+, anche lui Alumnus del Politecnico, racconta a MAP cosa è cambiato nel mondo del “pedelec”, ovvero della pedalata assistita, da quando ha iniziato a occuparsene, nel 2009: “È cambiato il “non”: da allora a oggi la bicicletta a pedalata assistita non è più un veicolo per persone anziane o con problemi motori. Oggi esistono biciclette a pedalata assistita che pesano 12-13 kg, alcune sono utilizzate per fare escursioni in montagna o downhill

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con salti ed evoluzioni. La connettività con smartphone e la diagnostica a bordo veicolo da noi già introdotta nei prototipi del 2010 - sta diventando negli ultimi anni un must di questo tipo di veicoli. Le batterie ora sono allo stato dell’arte rispetto al mondo dei veicoli, come durata e densità energetica, e le logiche di controllo si sono evolute a tal punto da dare a una bici a pedalata assistita un piacere di guida impensabile fino a pochi anni fa”. Zehus Human+ ha capito come muoversi su questo mercato, portando il mozzo Zehus Bike+ su una ruota intelligente, la smart wheel FlyKly - in vendita online - e adattabile a tutte le bici.


MRSMITH E LA FABBRICA DI CIOCCOLATO

Marco Mascetti 37 anni DESIGNER ALUMNUS POLIMI DESIGN INDUSTRIALE

Di Simone Stefanini - Foto: Cosimo Nesca

Marco Mascetti ha ridisegnato per Ferrero il vasetto di Nutella: partendo nel 2004 dal Politecnico di Milano

“Ho avuto la fortuna di cominciare il mio percorso già durante il periodo universitario in Fontana Arte, che mi ha accolto alla cieca, quando non sapevo ancora fare nulla”

Un luminoso loft su due livelli: vetrate, legno, luce naturale, i progetti realizzati che pendono dal soffitto che riempiono lo spazio, uno spazio dove si respira aria di idee e di nuovo. Lì vive MrSmith. MrSmith è lo studio di design fondato da Marco Mascetti, Alumnus PoliMi 2004 in Disegno Industriale. Siamo nella zona nord di Milano, in Bovisa, poco lontano dal campus universitario. È lì che Mascetti e soci hanno progettato uno studio moderno, inserito in un quartiere che ancora riesce a fondere una dimensione proiettata al futuro - con la sede del Politecnico - con un’identità ben ancorata al passato. 76 MAP Magazine Alumni Polimi


Subito dopo la Laurea al Politecnico, il percorso professionale di Marco Mascetti inizia in Fontana Arte: “Mi hanno accolto alla cieca - ricorda a MAP - quando non sapevo ancora fare nulla. In quegli anni l’amministratore delegato di Fontana Arte era Carlo Guglielmi, negli anni poi diventato un caro amico, una persona illuminata che mi ha dato molta fiducia e spazio per realizzare anche i miei primi progetti”. Da lì il cammino del giovane desi-

gner sarebbe stato lungo, oltre che tutto in salita: “Il nostro è un lavoro che ha tempi di startup molto lunghi, tutti noi partiamo con grande entusiasmo a fare bellissimi progetti che nei nostri sogni conquisteranno il mondo. Ma, a meno di essere designer e produttore di te stesso - e quindi investire in produzione - il tutto deve seguire le tempistiche di un’azienda e del mercato. Prima di riuscire ad avere un ritorno economico -

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aggiunge Mascetti - ci vuole un po’: ci vogliono progetti partiti, realizzati, rapporti nuovi con cui andare avanti. Sicuramente il momento in cui ho tagliato le altre collaborazioni che non erano relative allo studio è stato un momento importante”. Chiusi così, tra il 2009 e il 2010, i rapporti con Fontana Arte, per Marco e per MrSmith arriva il momento fondamentale di ogni giovane imprenditore: come


“Il lavoro del designer ha tempi di startup molto lunghi: tutti noi partiamo con grande entusiasmo, ma poi bisogna fare i conti con le tempistiche delle aziende e del mercato”

trovare nuovi clienti? “La tecnica è stata semplice: prenderli per sfinimento. Ma non basta. Le aziende cercano credibilità e un portfolio consolidato, e per giovani designer come noi era difficile conquistarli. Abbiamo dovuto autofinanziare i primi progetti per partecipare a gare, fiere ed eventi - come il Fuori Salone - per poter guadagnare visibilità e far crescere il portfolio. La tenacia rimane un’arma fondamentale. Non basta più inviare una mail con un progetto, bisogna attaccarsi al campanello finché non aprono”. La tenacia fu premiata e le porte cominciarono ad aprirsi Nel 2012 infatti per MrSmith arriva una consulenza importante per Ferrero, con un nuovo progetto in ambito ricerca e sviluppo. “Riuscimmo a strappare un brief per un nuovo progetto: avevamo quattro giorni di tempo per consegnare, la concorrenza era importante e agguerrita, le altre agenzie erano colossi del pack. Ci sentivamo Davide contro tanti Golia, ma non ci siamo dati per vinti prima di iniziare la battaglia: e abbiamo vinto.

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È stato un successo particolare anche per l’azienda in termini di economia di scala: prima del nostro progetto, il pack di vetro della Nutella era diverso in ogni mercato, mentre oggi il nostro bicchiere è worldwide”. Quando capita di lavorare con un brand leggendario come Ferrero, e con un prodotto conosciuto e amato in tutto il mondo, un pizzico di curiosità non può mancare. Anche perché entrare a fare un giro in uno stabilimento di Nutella è il sogno di ogni bambino, ma non solo, anche di tanti adulti: “La prima volta nello stabilimento Nutella? Ridevo, ridevo come un matto, perché era una situazione veramente surreale. Uno arriva in un luogo del genere con questo immaginario classico, da “ fabbrica di cioccolato”, e pensa: ma no, quella è un’invenzione, non può essere così nella realtà, la realtà sarà un processo freddo, asettico dal punto di vista poetico. Invece era una sensazione così surreale che faceva ridere di gioia”. Una realtà talmente fuori scala da lasciare senza parole, che al tempo della prima visita di Marco Mascetti


Gli interni dello studio di MrSmith in Bovisa - Milano

aveva ancora saldamente al comando un indimenticabile capitano d’industria come Michele Ferrero, scomparso il 14 febbraio 2015. “In fabbrica ci si rendeva conto come a monte ci fosse lui, una persona con una visione assolutamente straordinaria, che ha cercato, riuscendoci, a tradurre un processo artigianale in qualcosa di industriale”. Questo non solo per la Nutella, ma per tutti i prodotti: “Michele Ferrero è stato una persona di un’umanità straordinaria, capace come poche altre di guardare avanti non tanto su quello che era il prodotto attuale sul mercato attuale, ma con una visione da qui ai prossimi anni: e un’attenzione alla qualità del prodot-

to veramente maniacale. Secondo lui “la Valeria” - che è un po’ la “sciura Maria” per noi lombardi - era la reale proprietaria dell’azienda: se lei compra, vuol dire che il prodotto funziona, e si deve prima di tutto rispondere a lei”. Ancora oggi Marco Mascetti in un certo senso deve rispondere (anche) alle esigenze della “signora Valeria”, visto che dal primo brief per Ferrero ne sono proseguiti molti altri. “È nata una lunga collaborazione che dura tuttora e che, fra i vari progetti, ci ha dato la possibilità anche di disegnare il nuovo bicchiere di Nutella”. Un bicchiere prodotto in decine di milioni di pezzi l’anno, distribuito in tutto il mondo, finito in infinite case e sulle tavole della cola-

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zione di innumerevoli famiglie. “Quando mi hanno detto la cifra esatta, il numero di bicchieri prodotti ogni anno, ho dovuto scriverla per rendermi conto” conclude Mascetti. “È un’informazione indispensabile quando fai un progetto del genere, aiuta a rendersi conto delle economie di scala che si attivano con un tratto un po’ più aperto o un po’ più chiuso in fase di progettazione. Il nostro bicchiere pesa 8 grammi in meno di quello precedente”. Pensando al trasporto, ai materiali, ai costi di produzione, quando come moltiplicatore ci sono decine di milioni di bicchieri, anche appena 8 grammi possono fare un’enorme differenza.


LA STELLA GENTILE

l’intervista ad Amalia Ercoli-Finzi di Diego Cajelli - Foto: ESA

“Immaginazione: noi lavoriamo di fantasia per riuscire a capire cosa vogliamo fare, e per prima cosa dobbiamo immaginare un mondo, una galassia, verso cui vogliamo partire”

Ci troviamo nell‘edificio B12 del Politecnico, nel cuore della Bovisa. Incontro la professoressa Amalia Ercoli Finzi al secondo piano. L’edificio è un labirinto: infatti mi ero perso, lei ha dovuto guidarmi fin lì con il telefonino, quasi fossi una sonda finita fuori rotta. È una signora minuta dai modi eleganti, gentile e curiosa. È anche una dei maggiori scienziati italiani. Eppure, uno dei primi argomenti che affrontiamo è la fantasia. “Noi lavoriamo di fantasia per riuscire a capire cosa vogliamo fare – comincia – il primo passo è immaginare questo mondo diverso sul quale vogliamo andare, immaginare una galassia talmente lon-

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tana da poter dire che siamo vicini al Big Bang. Non si tratta di un’immaginazione fine a se stessa, che fantastica su cose impossibili da realizzare; sto parlando di una fantasia ragionata che serve per individuare obiettivi e aspirazioni. Dopodiché, bisogna trovare gli strumenti per metterla in pratica” Come avete immaginato il Carousel, il sistema che avete montato su Rosetta? Chiedo, e lei sorride, mentre gli occhi le si illuminano di passione. “Dovevamo depositare all’interno di una serie di fornetti i campioni prelevati dalla cometa e avevamo due possibilità: o spostavamo il campione o spostava-


Amalia Ercoli-Finzi, 79 anni PROFESSORE ONORARIO DI MECCANICA ORBITALE CONSULENTE SCIENTIFICO NASA, ASI, ESA ALUMNA POLIMI INGEGNERIA AEROSPAZIALE

mo i fornetti. Spostare il campione voleva dire spostare il trapano, ma il trapano era attaccato al Lander. Far girare tutto il Lander è una cosa complicatissima. Quindi, abbiamo lavorato di fantasia. La soluzione è stata tenere fermo il trapano e fargli ruotare al di sotto i fornetti. Così quando il trapano trovava il fornetto giusto, il campione veniva depositato. Abbiamo fatto queste operazioni di rotazione con errori di decimo di minuto d’arco. È stata una bella soddisfazione”. Eppure è impossibile immaginare tutti gli scenari verificabili. “Vero. Non abbiamo pensato di mettere un sensore di dispiegamento del sampling tube. Il nostro trapano

dotato di un tubo che viene espulso e si introduce all’interno della cavità per raccogliere il materiale. Ho fatto test all’infinito in laboratorio, quasi posso sentire il “tac” che fa quando esce. In tutti i test ha sempre funzionato e ci siamo fidati, invece avremmo dovuto aggiungere un sensore che ci dicesse se si era dispiegato in modo corretto oppure no. L’altra cosa che non abbiamo messo era un sensore di contatto con il terreno. Non sappiamo esattamente quando avviene il contatto: lo possiamo ricostruire attraverso le forze che vengono esercitate, soprattutto attraverso la dinamica, perché imponendo una velocità di rotazione e di transazione, se queste variano

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è chiaro che il contatto con il suolo è avvenuto. Però ci sarebbe voluto proprio un bel sensore”. Un sensore, sarà per la prossima volta. A proposito, cosa ci ha insegnato Rosetta, che ci servirà per le prossime volte? “Atterrare su un asteroide serve anche a dimostrare una cosa importante: con un piccolissimo propulsore, ma proprio piccolissimo, in grado di trasmettere una frazione di centimetro al secondo di velocità, è possibile deviare l’asteroide stesso! Questo potrebbe proteggerci da un eventuale impatto: se interveniamo abbastanza presto, diciamo una ventina d’anni prima dell’impatto previsto con la Terra,


è sufficiente per cambiare la sua rotta. Perché in vent’anni di strada ne fa, e la deriva lo porta lontano dal nostro pianeta”.

“I componenti fondamentali per una missione nello spazio? Al primo posto le idee, al secondo gli uomini, al terzo, i soldi. E sulla questione economica invidio un po’ i cinesi”

Mi rincuora sapere che se dovessimo finire in rotta di collisione con un asteroide non dovremmo mandarci sopra Bruce Willis, ma non so se è il caso di dirlo alla Professoressa. Le chiedo invece quali sono le componenti fondamentali per una missione nello spazio. “Primo le idee, secondo gli uomini, che realizzano le idee, terzo i soldi. Ovvero: il contributo del cervello puro, il contributo della capacità umana e poi i soldi per mettere tutto in pratica. E le confesso che sulla questione economica invidio un po’ i cinesi, che decidono una cosa e la fanno. In Europa andiamo bene, siamo bravi, però siamo un po’ litigiosi e un po’ nazionalisti. Credo nell’Europa, ci ho sempre creduto, anche perché c’ero quando sono stati firmati i trattati di Roma. Recentemente, alla Comunità Europea, ho detto che noi scienziati avevamo pensato all’Europa della collaborazione, un‘Europa in cui la nazio-

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ne più forte aiuta le altre. Questo era il concetto: la diffusione della conoscenza basata sulla collaborazione. Non c’è come lavorare insieme per insegnare agli altri e imparare noi stessi. Perché si impara tantissimo anche dall’ignoranza. Adesso in Europa le cose non sono proprio così”. Imparare dall’ignoranza? “Sapesse quante cose ho imparato dagli errori dei miei studenti! Grazie ad essi, ho visto mettere in luce lati dello stesso argomento che non avevo mai affrontato da quella prospettiva. Dico sempre che, per fare una grande invenzione, i casi sono due: o si sa tutto, e quindi si arriva perché si ha questa base profonda, oppure non se ne sa niente e ci si lancia”. Lanciamoci su Marte, allora. È un po’ un sogno proibito, vero? “Sì. Più della metà delle missioni su Marte, credo due terzi, sono fallite. Marte è difficile da raggiungere (tant’è vero che, quando lo raggiungono, poi ci rimangono), ma è l’unica possibilità che abbiamo per esplorare un pianeta dove ci sia stata vita e dove potremmo riportare la vita. Si può fare.


Quando avremo la tecnologia per muoverci nello spazio in tutt’altro modo da come ci muoviamo oggi, potremo pensare ai pianeti candidati simili alla Terra, ma per ora c’è soltanto Marte”. Colonizzare altri pianeti? “La Terra è destinata a scomparire. Qualcuno dice tra 4 miliardi e mezzo di anni. Ma, quando il Sole inizierà a espandersi e arriverà a dimensioni che interferiranno con l’orbita terrestre, il nostro pianeta sarà già stato bruciato. Quindi, direi che abbiamo circa 3 miliardi di anni, e guardi che in tutti i momenti - “tic tac tic tac” - passa un secondo. Il Genere Umano, se non sarà così stupido da uccidersi prima, dovrà per forza colonizzare un altro pianeta. Pensi, se uno entra nel sistema solare, la Terra non la vede neanche, è solo un puntino. E stiamo qui a fare le guerre. Questo dovrebbe essere un insegnamento. Noi dobbiamo costruire per il bene comune, solo dalla felicità del singolo nasce la felicità della collettività”. Sono già nati l’uomo o la donna che cammineranno su Marte? “Sì, certo. Su Marte ci arriviamo

di sicuro. Si tratta solo di mettere insieme le competenze mondiali”. Abbiamo la tecnologia per arrivarci, quindi? “Assolutamente. Tra l’altro l’Italia è molto coinvolta nella ricerca e nella produzione di nuove tecnologie. Per esempio, stiamo lavorando tantissimo sui chip basati sul nitruro di gallio. Con quel materiale è possibile creare dei microprocessori che lavorano a temperature più alte, quindi possiamo trasmettere una maggiore quantità di energia. In più, resiste alle radiazioni e se lo mandiamo nello spazio e non si guasta”. Nelle sue parole si sente la soddisfazione per un lavoro ben fatto. “La mia massima è che la differenza di fatica nel fare lo stesso lavoro bene e male è poca. La differenza di risultato invece è enorme. In più, per me, c’è l’orgoglio di essere italiana. Il nostro Paese ha delle peculiarità eccezionali. La prima è quella della collaborazione, anche se mi sembra che nelle nuove generazioni l’abitudine a contribuire abbia perso terreno”. È un momento storico difficile. “Non la mia generazione, ma, diciamo, quella “intermedia” ha

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dato troppo. Bisogna imparare a guadagnarsele, le cose. Quando un genitore mi dice: “a mio figlio ho dato tutto” io rispondo: “hai fatto un errore enorme”, perché in questo modo il ragazzo non ha più niente da costruirsi, non ha più niente da fare. Bisogna lasciare ai figli lo spazio di guadagnarsi le cose. Torniamo un po’ indietro. La mia mamma era insegnante elementare e faceva fare il tema ai suoi bambini. Mi ricordo che un anno, dopo Natale, leggevo i temi che le scrivevano i bambini: “Gesù Bambino mi ha portato tre mandarini”. Ecco, è chiaro che non tornerei più indietro ai tempi della guerra, per carità! Godiamo di tutti i vantaggi che abbiamo adesso, però lasciamo che la gente possa desiderare e conquistare quello che vuole”. Desiderare e conquistare quello che si vuole. Non credo che ci sia un augurio migliore per il futuro. Un futuro che qui, al secondo piano dell’edificio B12 del Politecnico di Milano, una signora elegante e gentile sta contribuendo a costruire.


DOPO ROSETTA: ANDREA ACCOMAZZO E IL FUTURO DELL’ESPLORAZIONE SPAZIALE

La missione che ha portato l’uomo dove non era mai arrivato prima, raccontata dal suo direttore di volo di Gabriele Ferraresi - Foto: ESA


Andrea Accomazzo, 46 anni FLIGHT DIRECTOR DELLA MISSIONE ROSETTA ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA AEROSPAZIALE

Andrea Accomazzo, flight director della missione Rosetta. Ha impiegato più di 20 anni della sua vita su un solo progetto. Sì, ormai sono più di vent’anni. Ho cominciato a lavorare a Rosetta nel gennaio del 1997. È stato un progetto unico, molto ambizioso dal punto di vista tecnico, tecnologico e scientifico, che ha realizzato qualcosa che non era mai stata fatta prima. È stato concepito a metà anni ottanta, le persone che hanno immaginato e avviato la missione sapevano che non avrebbero visto i risultati. Per iniziare un progetto così a lungo termine, ci vuole l’umiltà di accettare che si inizia qualcosa che non si potrà mai portare a termine personalmente. Inoltre, sorge la necessità impegnarsi a fondo nell’educazione e formazione delle generazioni che seguono, che avranno il compito di prendere il testimone dalle nostre mani. Un progetto così ambizioso e visionario, non si realizza dall’oggi al domani, ci vuole molta pazienza. Sono tutte virtù che secondo me mancano un po’, al giorno d’oggi. Prevale la pressione sulla riduzione dei costi e c’è minor di-

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sponibilità dei governi – anche per giuste ragioni – a guardare un po’ più a lungo termine. Ci sono altre priorità. Ha parlato di mancanza di ambizione, di visione trentennale. Vorrei vedere obiettivi un po’ più a lungo termine e, anche, piani un po’ più sequenziali. Per esempio: questo è il nostro obiettivo, tra 15 anni vogliamo raggiungerlo, e questi sono gli step per raggiungerlo. Ma nelle conferenze ministeriali dell’ESA, dove i ministri degli stati membri e i vari direttori valutano e approvano i piani di sviluppo, si parla sempre di progetti di 2 o 3 anni al massimo. Credo che alla nostra società manchi avere una visione di ampio respiro. C’è qualcuno che si muove diversamente? Di recente abbiamo avuto in visita alcuni colleghi cinesi. La Cina ha un programma lunare: prima intende orbitare la Luna, poi atterrare, poi muoversi, infine installare una base permanente sul nostro satellite, intorno al 2030. Questa è quella che io chiamo visione completa, che porta a un obiettivo. Certo,


Volevo chiederle di tornare indietro nel tempo. È arrivato all’ESA giovanissimo. Qual è stato il primo impatto? Avevo 29 anni, fino ad allora avevo lavorato in Italia alla FIAT-Avio. Ero abbastanza giovane, ma non neolaureato. Da sempre volevo fare un’esperienza all’estero, il mio sogno erano gli Stati Uniti, mai avrei pensato di capitare in Germania. L’impatto con l’ESA è stato anche l’impatto con la realtà dalla cultura tedesca. Dal punto di vista personale, l’incontro con persone di ogni nazione è stato un grosso cambiamento: questa multiculturalità è un elemento cui in Italia non siamo abituati. L’ESA è un ambiente molto informale, tutti si chiamano per nome, si parla in inglese (per cui non ci sono il tu e il lei), nessuno si chiama “Mr.”. È interessante notare come si riconoscano le caratteristiche delle varie culture e dei vari popoli: per esempio, noi italiani da un certo punto di vista siamo meno organizzati, ma abbiamo molta più flessibilità rispetto ai tedeschi, che magari sono più rigidi ma hanno una grandissima determinazione nel perseguire i loro obiettivi. Tutto quello che c’è di positivo nelle varie culture può esprimersi, si forma una società interna migliore, questa è la cosa che mi ha colpito di più di un ambiente così internazionale. Lavorare qui filtra le caratteristiche meno adatte, facendo emergere solo quelle utili.

Come procede il lavoro dopo l’atterraggio di Rosetta? L’area di cui mi occupo io sono le operazioni di volo, siamo stati impegnati fin quando le operazioni sono state in corso, ora il nostro impegno è finito. C’è un altro centro ESA che si occupa del coordinamento delle operazioni scientifiche: ora la palla è nelle loro mani. Scienziati di vari centri di ricerca europei stanno analizzando i dati. Ci vorranno anni: recentemente uno degli scienziati di Rosetta mi ha detto che finora non abbiamo neanche analizzato, ma solamente processato il 5% dei dati che abbiamo raccolto. A proposito di visioni, di ambizioni, di grandi progetti per l’umanità; una volta che si porta Rosetta su una cometa, cosa si può sognare ancora? Di recente sono andato in Austria a fare il corso di maestro di sci! [ride]. A parte gli scherzi, a chiunque lavori nel mio campo piacerebbe fare il prossimo passo nell’esplorazione delle comete: una missione “send and return”, quindi andare a prendere un pezzo di cometa e riportarlo a Terra. Questo era il progetto originario di Rosetta, ma ci siamo resi conto che sarebbe stato troppo costoso. Ma a me piacerebbe che l’Agenzia Spaziale Europea si facesse carico di alcune esigenze nel campo spaziale. In particolare ritengo che alcuni aspetti del volo spaziale siano ormai diventati applicazioni non solo utili, ma necessarie alla nostra società. Ad esempio, negli anni ottanta i satelliti per le telecomunicazioni li faceva l’ESA, oggi sono una tecnologia commerciale: le nostre telecomunicazioni viaggiano via satellite. Negli anni novanta era l’ESA ad operare i satelliti meteo, oggi

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©Carlo Lavatori

i cinesi hanno accesso a risorse differenti dalle nostre, sono come l’URSS o gli Stati Uniti negli anni sessanta. Anche l’India ha un approccio simile, forse un po’ più ridotto in termini di investimenti, ma si pongono obiettivi a lungo termine.

“Per iniziare un progetto così a lungo termine bisogna impegnarsi nella formazione delle generazioni che seguono, che avranno il compito di prendere il testimone dalle nostre mani”


Andrea Accomazzo e il team che ha portato Rosetta e Philae sulla cometa 67P/ Churyumov-Gerasimenko.

sono applicazioni talmente necessarie che è nata un’organizzazione separata che si occupa di meteo. Esistono moltissime applicazioni che, dall’interno dell’ESA, sono diventate commerciali. Il mio sogno sarebbe poterci concentrare di più sulle cose che ancora non sono applicazioni, in particolare due aspetti: quello l’immondizia spaziale che abbiamo creato nelle orbite intorno alla Terra, e quello della difesa del nostro pianeta da minacce che possono derivare dai “near object”,

come asteroidi o comete. Prima o poi succederà che un asteroide entri in collisione con la Terra. Dobbiamo mettere in moto una rete di monitoraggio e investire su tecniche e tecnologie per poterci difendere. Questo è il mio sogno, che le agenzie pubbliche lascino andare le applicazioni commerciali e si focalizzino su progetti per il bene pubblico. Quando “guidava” Rosetta, com’era la sua giornata tipo? Le mie giornate di lavoro sono

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variate molto nel corso degli anni, come è tipico di queste missioni interplanetarie. Ci sono state fasi in cui il contatto con il satellite era una volta a settimana o meno, con bassissima attività in volo: dedicavamo il tempo delle fasi di volo “passive” per pianificare o studiare in dettaglio le altre fasi più critiche. In quei casi la nostra giornata tipica non era tanto in sala controllo, ma nei nostri uffici, in riunione, a pianificare, a vedere se tutte le attività di terra e di volo con-


vergevano correttamente. Durante le fasi attive avevamo implementato le istruzioni di volo per il satellite, quindi stavamo in sala controllo a monitorare come Rosetta si comportava in queste situazioni critiche. Nel nostro lavoro, la fase di progettazione e di pianificazione è quella che richiede la maggior parte del tempo. Ci si prepara al peggio, ma, se tutto funziona bene, in sala di controllo c’è poco da fare, in realtà: osservi e basta, tutto accade a bordo del satellite. Il grosso del lavoro è stato fatto semestri o anni prima. Gli anni che mi hanno impegnato di più sono stati il 2012 e il 2013, quando Rosetta era in ibernazione. In quegli anni con alcuni colleghi abbiamo pianificato tutto quello che avremo fatto nel 2014, mentre paradossalmente nel 2014, con la missione andata bene, sono stato meno impegnato direttamente. Le manca ancora Rosetta? Leggevo che c’era quasi un legame emotivo. Il legame emotivo c’è stato, Rosetta era diventata un componente della famiglia anche per mia moglie! Dopo l’atterraggio di Philae, la missione non era più in fase critica e sono iniziate le operazioni di routine, e per me c’è stata una grossa riduzione del carico di lavoro. La fine della missione è stata “forte” dal punto di vista emotivo per tutte le persone che lavoravano con Rosetta. Una volta concluso il lavoro, un lunedì mattina, ero in ufficio e pensavo: “Adesso cosa sarà della mia vita? Non ci sarà più niente che

mi porterà l’entusiasmo di Rosetta”. Ma poi non è vero. Che cosa le ha lasciato il Politecnico che ancora oggi le è utile? Ovviamente tutta la parte di preparazione tecnica che mi ha dato, poi la determinazione e l’ambizione di perseguire traguardi in apparenza impossibili. Per me la migliore definizione di ingegnere è questa: a partire dall’osservazione della natura e dallo studio degli strumenti messi a disposizione da chi fa ricerca, siamo in grado di creare un modello dell’ambiente in cui ci troviamo e usarlo per realizzare qualcosa di diverso. E questo è quello che mi ha insegnato il Politecnico: fare un modello di ogni cosa. È vero che voleva fare il pilota? Ancora oggi ritengo che il pilota militare sia il lavoro che più mi sarebbe piaciuto fare, ma negli anni di accademia mi sono reso conto che, per farlo, erano necessari troppi sacrifici. Avrei dovuto dedicare tutta la mia vita al volo e stare sempre in giro. Non era la vita che volevo vivere io, e nonostante abbia sofferto moltissimo quando ho deciso di andarmene – anche perché andavo bene – sapevo che la mia strada era un’altra. Ancora oggi sono in contatto con i miei colleghi, nei giorni in cui Philae arrivò alla cometa mi mandarono una nota vocale che diceva: “Si vedeva già che il cielo, per te, non era abbastanza”. C’era qualcosa che mi stava stretto, avevo bisogno di andare più lontano.

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“Ci si prepara al peggio, ma se tutto funziona bene in sala di controllo c’è poco da fare, in realtà: osservi e basta, tutto accade a bordo del satellite. Il grosso del lavoro è stato fatto semestri o anni prima”


In senso orario: il passaggio della sonda Rosetta a circa 250 km dalla superficie di Marte, la cometa 67P/ Churyumov-Gerasimenko, e un “selfie� di Rosetta.

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SKYWARD, LA RAMPA DI LANCIO DEL POLITECNICO PER LO SPAZIO Sporcarsi le mani in officina, progettare razzi, mandarli in cielo: il nostro incontro con Christian di Lazzaro e Andrea Gatti di Skyward Experimental Rocketry, l’associazione di studenti del Politecnico che Airbus ha deciso di sostenere di Simone Stefanini powered by

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Christian di Lazzaro, 23 anni PRESIDENTE SKYWARD STUDENTE POLIMI INGEGNERIA AEROSPAZIALE

Andrea Gatti, 23 anni VICE PRESIDENTE SKYWARD STUDENTE POLIMI INGEGNERIA AEROSPAZIALE

I loro razzi li hanno chiamati Rocksanne: una crasi di rocket e Roxanne. L’aereo drone da cui li lanceranno? Si chiama Cyrano, proprio come il protagonista della commedia teatrale di Rostand. Sono ingegneri di buone letture i ragazzi di Skyward Experimental Rocketry, associazione studentesca del Politecnico di Milano supportata dal colosso dell’aerospazio Airbus. E riescono grazie a un talento fuori dal comune a seguire corsi impegnativi e a progettare razzi-sonda sperimentali di piccola e media taglia, che lanciano in cielo con successo.

“È parzialmente vero che il Poli aiuta a risolvere i problemi: succede che dà un problema, un problema che mette alle corde, e costringe a trovare un modo di risolverlo”

Fondata nel 2012, Skyward Experimental Rocketry opera in un contesto molto competitivo a livello universitario, con l’obiettivo di battere il record di altitudine raggiunto da un razzo sperimentale. L’asticella da superare è in alto, molto in alto, a 32.300 metri: quella la quota raggiunta dal razzo HyEND, un progetto dell’Università di Stoccarda. Ma le premesse sono ottime: il primo traguardo per Skyward è stato raggiunto a novembre 2013 con il lancio del Rocksanne I-X, che ha raggiunto i 1100 metri di quota. Al prossimo successo stanno lavorando in queste settimane, anche in vista del contributo di Airbus, che ha deciso di sostenere i ragazzi di Skyward sia economicamente che dal punto di vista del trasferimento di conoscenze ingegneristiche. Ne abbiamo parlato con Christian Di Lazzaro, presidente di Skyward,

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e Andrea Gatti, vicepresidente e capo progetto del drone Cyrano, entrambi 23 anni. Skyward ha ormai quattro anni, come è nata? [Christian di Lazzaro] Noi ormai siamo la seconda generazione di Skyward: leggenda vuole che l’associazione sia nata nel campus Certosa, vicino Bovisa, nel 2011 circa. Ma non si chiamava così, era solamente un gruppo di studenti appassionati di razzi. Si dice “cucinassero” il propellente a casa, per dirne una, per cui la passione c’era! Erano una decina di persone: loro hanno costruito il razzo F2, in legno, pvc e cemento. Era rudimentale, certo, ma era già un razzo vero e proprio: i primi test furono catastrofici, ma simpatici, sappiamo che esistono anche prove video di esplosioni in fase di test. Si dice che la curiosità sia l’anticamera della scienza: che cosa avete scoperto ultimamente grazie al vostro impegno con Skyward? [CdL] Fino a qualche mese fa mi occupavo di uno dei tre progetti: un endoreattore ibrido e la relativa area test. Quasi più dell’endoreattore, è l’area test a essere fondamentale: è il sistema di hardware, strutture e impianti, che serve a testare il motore. Andava progettata e costruita da zero: così ci siamo dovuti cimentare nella progettazione di un’area test, e non è semplice. È qualcosa per cui non esiste un manuale di istruzioni: non c’è un tutorial


per progettare aree test per endoreattori, l’unica opzione è un gruppo di studenti che fa funzionare il cervello, si mette alla prova e risolve il problema. Dalle nozioni teoriche al progetto vero e proprio su carta il processo è lungo, è durato più di un anno. Normalmente i razzi che propellente utilizzano? [CdL] I razzi partono da terra con idrogeno e ossigeno liquido (criogenici), oppure con il propellente RP1, un derivato del kerosene. Mentre per i motori che manovrano in orbita si usano altre sostanze chimiche, perché si riducono i volumi necessari. E per Rocksanne che propellente avete usato? [CdL] Il primo l’abbiamo lanciato con il classico mix, nitrato di potassio e zucchero, un propellente che si fa in casa. Dato che la quantità di propellente necessaria al volo del missile su cui stiamo lavorando è molto grande, è di conseguenza pericoloso anche produrlo con materiale comprato in farmacia. I propellenti per motori ibridi però volendo si fanno anche in casa: la parte combustibile con la pasta, parte liquida con ossigeno; ovviamente sarebbe inutilizzabile per scopi pratici ma è un’ottima dimostrazione della semplicità della tecnologia. Il motore ibrido è molto pratico perché la parte combustibile può essere fatta di qualsiasi cosa che bruci, volendo persino legno. Nel nostro endoreattore usiamo la classica combinazione di paraffina e protossido d’azoto: insomma, cera delle candele e gas esilarante. Cosa state facendo ora e cosa farete con Skyward nei prossimi mesi? [CdL] Dopo Rocksanne 1-X, stando al programma, dovevamo andare oltre, con un razzo che arrivasse almeno a 10 km di quota. Per stare tranquilli, ci siamo imposti l’obiettivo di arrivare a circa 20 km: e così è nato Rocksanne 2-X. Di fatto però si è diviso il progetto in due parti: Rocksanne 2-Alpha, che sarebbe dovuto essere lanciato a breve, ma l’azienda che doveva produrre il motore è esplosa, non in senso finanziario, proprio in senso chimico. L’altra parte del progetto è il motore: un endoreattore ibrido - che per noi studenti è qualcosa all’avanguardia - anche se non si tratta di una rivoluzione: gli endoreattori ibridi esistono da decenni. Il motore però non è ancora stato sviluppato fi-

sicamente perché fino all’anno scorso mancavano i finanziamenti, e soprattutto perché per partire serve un’area test, un posto per testarlo. È bello grande, come motore: il nome 100k sta per 100.000 Newton secondi (Ns) che è un parametro chiamato impulso totale, la spinta media per il tempo di combustione, che ammonta a 5000 Newton, ovvero circa mezza tonnellata. L’anno scorso al Poli avevo presentato un progetto di area test, che voleva essere la prima area test fatta da studenti per endoreattori di diverse prestazioni: un polo tecnologico, molto ambizioso, ma troppo costoso. Con i 26mila euro di preventivo, avremmo avuto veramente un’area test professionale: ci siamo ispirati a un gruppo danese come il nostro che ha l’ambizione di essere il primo programma spaziale amatoriale. Come fanno? Aprono il libro, studiano e mettono in pratica la teoria. Sono professionisti che nella vita di tutti i giorni lavorano in settori ingegneristici. [AG] Poi c’è il terzo progetto, Cyrano, l’aereo, nato due anni fa. Inizialmente il nome era Pegaso, il cavallo alato. Poi guardandolo bene, il nostro aereo aveva un bel nasone, pronunciato, e dopo Rocksanne, Cyrano era il logico proseguimento. All’inizio l’aereo era a configurazione Canard, aveva vantaggi di natura aerodinamica, ma erano oscurati dalla complessità di progettazione, molto maggiore. Così ci siamo detti: il primo progetto di qualcosa che vola facciamolo partendo da qualcosa di consolidato, poi lo complichiamo! Ci piace pensare al lancio di Rocksanne 1-X tramite Cyrano, ripensando alla storia nel libro. All’inizio partiva da una rampa di lancio, e nel Cyrano sappiamo che ci sono due contendenti, il bello ma stupido Cristiano (la rampa di lancio), e Cyrano intelligente e valoroso, ma col nasone. Rossana si innamora inizialmente di Cristiano, grazie alle lettere di Cyrano, e nella finzione letteraria Cristiano è la rampa di lancio. Alla fine Rossana scopre che le lettere di Cristiano erano scritte da Cyrano. E infatti il nostro prossimo lancio sarà dall’aereo, il nostro Cyrano, nasone ma intelligente. Speriamo in un epilogo diverso, rispetto al romanzo. A livello europeo i nostri unici contendenti su un progetto di questo tipo sono dei francesi, che sono indietro con la progettazione. Altri Alumni che ho incontrato mi dicevano che il Politecnico dà un modo per

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“Sia grazie al Poli, sia grazie all’impegno in Skyward ho sviluppato il potere di non spaventarmi davanti alle difficoltà. Senza il Politecnico non sarei in grado di fare quasi nulla di utile”


risolvere i problemi. È vero? [AG] La curiosità è ciò che ha fatto partire il progetto dell’aereo che lancia i razzi. Come associazione, oltre a razzi facciamo anche aerei. La domanda di partenza è semplice: se prendessimo il nostro razzo e invece di lanciarlo da quota zero, lo lanciassimo da ottomila metri? L’aria è più rarefatta. Il razzo va veloce, se lo lanciamo dove la densità è minore, cosa succede? La quota di apogeo aumenta notevolmente. Come facciamo a portarlo a ottomila metri? Siamo anche ingegneri aeronautici, facciamo un aereo. Il Politecnico fornisce le basi teoriche che permettono, a seguito di un’analisi razionale, di arrivare alla soluzione più semplice ed efficace. [CdL] Secondo me quello che il Poli fornisce è la capacità di interpretare il mondo tecnologico attuale non come una chimera di cose pensate da menti geniali, inarrivabili, ma come qualcosa basato su relazioni e leggi matematiche spesso molto semplici. Se da piccolo guardavo un razzo e rimanevo affascinato dalle persone che lo avevano progettato, adesso invece posso dire di essere in grado di arrivare a soluzioni tecniche alternative. Sia grazie al Poli, sia grazie all’impegno grande di

Skyward ho sviluppato la capacità di non spaventarmi davanti alle difficoltà o alle scadenze. Senza il Politecnico, indubbiamente, non mi sentirei in grado di fare quasi nulla di utile, in questo campo. L’industria aerospaziale è costosa: qual è il budget di Cyrano e Rocksane? [CdL] Il primo razzo è costato circa 5mila euro, per Rocksanne 2-Alpha siamo intorno ai 20/30mila euro: aumentano il carbonio, l’alluminio, le parti elettroniche sono più complesse. C’è da tener conto che solo il case del motore è costato 4mila euro, il combustibile anche di più. Il motore che monteremo è a propellente solido, come quello di Rocksanne 1-X ma più grande: molto più semplice di quello ibrido che stiamo sviluppando, HRE100k. Li usavano anche per lo Shuttle, ad esempio, ed erano i razzi bianchi che poi si staccavano dopo circa 2 minuti dal lancio. Parlando invece del motore ibirido, HRE100k,solo l’area test potrebbe costareintorno ai 20/30mila euro, considerando la messa in sicurezza e il costo dei materiali. E costruire un satellite? Ci avete pensato? [CdL] Ci abbiamo pensato. Secondo me nel futuro, da qui a cinque/dieci anni, se

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ci saranno i fondi e l’interesse, Skyward sarà in grado di avere dei lanciatori funzionanti come servizio di lancio suborbitale per microsatelliti. Razzi e aerei sono tecnologie complesse da sviluppare, ma non sono impossibili: con il giusto impegno si può arrivare dove si vuole e Skyward ne è l’esempio. Se un giorno si vorrà sviluppare microsatelliti si tratterà solo di avere le persone motivate a raggiungere questo obiettivo! Che supporto vi aspettate da Airbus? [CdL] Al di là del mero supporto economico, che è comunque fondamentale, potrebbe esserci d’estremo aiuto la loro esperienza tecnica. [AG] Skyward è la nostra prima esperienza in assoluto, e le cose che facciamo le portiamo avanti secondo la nostra razionalità. Magari ci sono dei metodi più intelligenti, di persone che hanno già sbattuto la testa su quel problema, professionisti che lavorano nel campo da decenni. Io non è che sono il vecchio del gruppo, ma per i più nuovi del team ora quel lavoro lo faccio io, e ho 23 anni. “Vi illustro le altre strade, ma questa è quella giusta”: manca qualcuno che dica a me quando sbaglio.



ALUMNI POLIMI CONVENTION È l’appuntamento annuale del Politecnico di Milano con gli Alumni, che riunisce migliaia di professionisti e protagonisti dell’evoluzione del nostro Paese, ambasciatori del Made in Italy nel mondo www.convention.alumni.polimi.it

Attraverso il dialogo con gli Alumni riconosciuti tra i più influenti attori del mondo industriale e culturale italiano, si apre uno spazio di condivisione che stimola una riflessione sul proprio percorso di crescita professionale con l’approccio pragmatico legato al saper fare politecnico

VI ASPETTIAMO ALLA SESTA EDIZIONE (AUTUNNO 2017)


NOI E LORO: Ingegneri vs Architetti FENOMENOLOGIA SEMISERIA DI UNA LOTTA ETERNA

nel prossimo numero il designer r isponde :)

Di Giulio Pons, Alumnus POLIMI INGEGNERIA telecomunicazioni 2000 Sono un ingegnere e questa è una cosa che ti segna. In particolare sono un ingegnere del software. La lotta ingegneri VS architetti esiste anche nel mondo web: “noi” (gli ingegneri) siamo quelli del “non si può fare” e “loro” (gli architetti) quelli del “deve essere bello”, quelli che hanno il monopolio dell’estetica mondiale, che guardano una schermata di 2 milioni di pixel e dicono “Qui c’è un punto di troppo”.

È un dualismo che inizia tra le mura del Poli, dove noi siamo costretti a sgobbare come bestie mentre loro giocano col pongo a far finta di fare esami. Questo ci ha portato già da studenti all’odio, manifestato soprattutto verso i maschi architetti che paiono avere tutte le fortune del mondo: cioè poco lavoro e molte ragazze. Loro dicono di noi le cose più abiette, soprattutto sul nostro aspetto fisico: calvizie, occhiali, forfora,

trasandatezza, scarsa coordinazione fisica, crescita muscolare negativa. Odiano anche il nostro senso dell’umorismo. Probabilmente è solo perché non capiscono i nostri giochi di parole! Ci sarà un motivo se su “Nonciclopedia”, alla voce PoliMi, come definizione si trova questo: “Il Politecnico è un edificio dove la gente entra in pieno possesso delle proprie facoltà mentali e ne esce ingegnere o, se si è meno fortunati, architetto”.

Di Federica Passera, Alumna POLIMI ARCHITETTURA 1999 Quando penso agli anni del Poli ricordo la fermata della metro di Piola, che ogni mattina sputava fuori un fiume di giovani studenti: quelli di Architettura colorati nei vestiti, nei capelli e nelle espressioni; quelli di Ingegneria sonnacchiosi e avvolti nei loro cappotti blu, proprio tutti blu. Tristi. Io faccio parte del primo gruppo, con orgoglio e un po’ di ironia per i colleghi ingegneri che pensano che la nostra missione sia quella di essere eccessivi. A volte è vero:

forse è colpa di cose come l’Aula IV (esiste ancora?), un’immensa aula libera da lezioni e completamente a nostra disposizione incontrarci, approfondire le esercitazioni da svolgere in gruppo e discutere del “mondo fuori” (una cosa sconosciuta per gli amici ingegneri). In cantiere mi confronto con altri architetti, con geometri e con ingegneri e, devo essere onesta, la casta peggiore non è quella degli ingegneri. No, davvero, sono collaborativi, a volte cercano addirittu-

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ra di capire perché quella trave lì proprio non ci può stare, cercano magari di convincerti che invece ci sta benissimo, ma tanto sanno già che dovranno rifare tutti i calcoli. Che teneri. E poi ci sono gli ingegneri che vogliono sembrare come noi, come il caro collega al quale in questa sede rispondo. Mi fanno tanta tenerezza, come si fa a non volergli bene?


POLIMIFEST 2017 CALENDARIO DEGLI EVENTI Mercoledì 21 giugno, ore 21.30 Concerto omaggio a Luigi Tenco Martedì 4 luglio, ore 21.30 Cinema sotto le stelle* Martedì 11 luglio, ore 21.30 Cinema sotto le stelle* Giovedì 13 luglio, ore 21.30 Spettacolo di Tango Omaggio a “Astor Piazzolla” Martedì 18 luglio, ore 21.30 Cinema sotto le stelle* Martedì 25 luglio, ore 21.30 Cinema sotto le stelle* Sabato 16 settembre PolimiOpenLabs laboratori di Chimica in piazza per adulti e bambini Giovedì 21 settembre, ore 21,30 Concerto Paolo Fresu e Gianluca Petrella Sabato 7 ottobre PolimiOpenLabs laboratori di ICT in piazza per adulti e bambini Per maggiori informazioni: https://www.eventi.polimi.it/rassegna-evento/polimifest-2017 *Ciclo di film a tema scientifico con l’introduzione di docenti del Politecnico di Milano


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