MAP - Magazine Alumni Politecnico di Milano #0

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MAP Magazine Alumni Polimi

Numero 0 - Autunno 2016

La rivista degli architetti, designer e ingegneri del Politecnico di Milano

Rispettare il passato, costruire il futuro: la nuova piazza Leonardo da Vinci • Dossier: i numeri del Poli • Stefano Boeri: futuro istantaneo • D-Orbit, la soluzione italiana ai rifiuti spaziali • Il respiro dell’Ultima Cena • Come nasce una città: il progetto Made in Italy per una Cina ecosostenibile di Massimo Roj • AlumniPolimi Convention 2016



MAP

Magazine Alumni Polimi La rivista degli architetti, designer, ingegneri del Politecnico di Milano Ideazione e Direzione del progetto Federico Colombo Direttore Esecutivo AlumniPolimi Association. Dirigente Area Sviluppo e Rapporti con le Imprese, Politecnico di Milano. Direttore Responsabile Chiara Pesenti Dirigente Area Comunicazione e Relazioni Esterne, Politecnico di Milano. Membri del Comitato Editoriale Ivan Ciceri Fundraising Manager, Politecnico di Milano. Luca Lorenzo Pagani Communication Manager AlumniPolimi Association, Politecnico di Milano. Irene Zreick Relations AlumniPolimi Association, Politecnico di Milano.

4 Editoriale 8 Rispettare il passato, costruire il futuro: la nuova piazza Leonardo da Vinci 10 Ricordando Guernica: la storia del capolavoro di Picasso, al Poli 13 Circle: gli Alumni sostengono le eccellenze del Politecnico di domani 14 Dossier - I numeri del Poli, oggi 20 Futuro istantaneo: conversazione di Stefan Boeri con il filosofo Franco Bolelli 25 La reinvenzione della ruota dai laboratori del Politecnico 26 Adesso pedala! Volata Cycles e Zehus Bike+ 29 L’Italia va a 400 km/h grazie al Poli

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30 Tra le vetrine e i tesori: il Politecnico e Goppion

Caporedattore Gabriele Ferraresi

32 Spoon.CITY: architetti e committenti si trovano online

Collaboratori Franco Bolelli, Davide Coppo, Valerio Millefoglie, Federico Sardo, Marco Villa, Giulio Pons

34 D-Orbit: la soluzione italiana ai rifiuti spaziali

Progetto grafico Stefano Bottura - Better Days

37 Il respiro dell’Ultima Cena: il Politecnico e il cenacolo vinciano

Impaginazione Cosimo Nesca Stampa Centro Servizi d’Ateneo via Marzabotto 3 20060 Mediglia (Mi) Editore e Proprietario AlumniPolimi Association Politecnico di Milano Prof. Enrico Zio Presidente AlumniPolimi Association Delegato del Rettore per gli Alumni Delegato del Rettore per il Fundraising individuale, Politecnico di Milano. AlumniPolimi Association P.zza Leonardo da Vinci, 32 20133 Milano T. +39.02 2399 3941 alumni@polimi.it www.alumni.polimi.it PIVA 11797980155 CF 80108350150 Pubblicazione semestrale Numero 0 - Autunno 2016. Testata in corso di registrazione presso il Tribunale di Milano.

38 H2 Speed: progettare il futuro. La supercar green raccontata da Fabio Filippini 42 Come nasce una città: Massimo Roj e Progetto CMR in Cina 44 PolimiRun 2017 46 Il cielo, l’acqua e le stelle: Piero Lissoni e l’Acquario di New York 50 Alessandro Mendini: l’eccellenza italiana dalle botteghe alla stampa 3D 58 Noi e loro: architetti e ingegneri al Poli 59 Anniversari di Laurea 2017 60 AlumniPolimi Convention 2016


EDITORIALE MAP, la mappa del Politecnico di domani Nel Paleolitico - intorno al 16.500 a.C. - gli esseri umani cominciarono a disegnare le prime mappe. Il territorio che interessava loro però non era quello che si trovava sotto i piedi, ma quello che scrutavano nell’infinito, alzando la testa nelle notti perfette di una terra ancora priva di inquinamento luminoso. I nostri progenitori nelle Grotte di Lascaux disegnavano Vega, Deneb, Altair, le Pleiadi, il cielo stellato sotto il quale cresceva l’umanità. Da allora ad oggi, l’Uomo si è orientato sempre meglio nel corso dei millenni, trovando sue strade nel Mondo ed esplorandone continuamente di nuove: dalle incisioni rupestri siamo arrivati ai satelliti nello spazio ed alle sonde sulle comete, e la frontiera di Marte non appare poi così lontana. L’Uomo ha già camminato molto, ma ha ancora moltissima strada da fare: per questo serve la giusta mappa per farlo. Ed ecco il primo numero di MAP, il Magazine degli Alumni del Politecnico di Milano. MAP vuole essere una mappa per ritrovare, scoprire e conoscere tutto quello che è nato, partito e cresciuto dal Politecnico di Milano alla conquista dei mondi. Senza timore, senza paura delle frontiere e delle sfide dello sviluppo globale, portando ovunque con orgoglio e senso etico il Made in Italy e la cultura Politecnica, dalla Cina a New York, da un angolo all’altro del pianeta, e oltre.

re una sorta di cammino di ritorno per ricordare la strada di casa dalla quale si è partiti e guardare avanti, raggiungendo gli Alumni ovunque essi siano e qualunque cosa stiano facendo: pianificando intere città in Cina, come Progetto CMR dell’architetto Massimo Roj, o raccogliendo rifiuti spaziali, come la D-Orbit dell’ingegner Luca Rossettini, oppure proseguendo nel segno della purezza dello stile la tradizione della grande carrozzeria italiana, come nel caso della H2 Speed, concept car di Pininfarina firmata dal designer Fabio Filippini. Sono tantissime le storie che vi racconteremo in questo primo numero: storie affascinanti e appassionanti di Alumni del Politecnico di Milano, di cui semplicemente essere orgogliosi. Come orgogliosi rimaniamo del nostro Ateneo d’eccellenza, al primo posto tra le università italiane e di riconosciuta levatura internazionale.

Prof. Enrico Zio

Presidente AlumniPolimi Association Delegato del Rettore per gli Alumni Delegato del Rettore per il Fundraising individuale, Politecnico di Milano.

Sì, perché gli Alumni del Politecnico di Milano sono attivi in tutto il mondo e operano in svariati contesti tecnici, sociali e culturali: una Community internazionale di oltre 90 mila architetti, designer e ingegneri impegnati a realizzare il presente per costruire il futuro del mondo. Con MAP vogliamo apri-

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poli.news Numeri, storie e ricordi da piazza Leonardo da Vinci


RISPETTARE IL PASSATO, COSTRUIRE IL FUTURO

Piazza Leonardo da Vinci, da parcheggio a spazio giardino da vivere di Gabriele Ferraresi “Mi sono laureata in architettura al Politecnico nel 1988: la piazza di allora? Era un parcheggio”. Ricorda bene Sara Protasoni, docente di Architettura del Paesaggio alla Scuola di Architettura, Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico e non poteva immaginare che sarebbe stata proprio lei a redigere il progetto di riqualificazione di quella piazza davanti all’ateneo in cui si era laureata. Una piazza che sarebbe stata inaugurata, rinata e restituita alla città e al Politecnico 28 anni dopo quel giorno, il 23 maggio 2016. Sì, perché da quel

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1988 in poi non è che piazza Leonardo fosse migliorata, anzi. Era un luogo della città che “non funzionava”. Ma che cosa non funzionava di piazza Leonardo? “Sarei più buona: non è che non funzionasse in senso assoluto. Diciamo che che c’erano evidentissimi problemi di degrado, era una piazza giardino in cui tutta la parte verde era stata compromessa da usi inappropriati, e soprattutto erano cambiate le condizioni intorno alla piazza. Il progetto con cui era nata non aveva più senso”, insomma, era da ripensare. Commenta a MAP la Prof.ssa Sara Protasoni


“La nostra idea era che diventasse quasi un campus all’americana, che gli studenti potessero andarsene in maniera molto informale a mangiare sul prato in pausa pranzo”

“C’erano la strada, i tombini, i marciapiedi, macchine ovunque: fino al 2013 la strada è stata un enorme parcheggio. La primissima azione che è stata intrapresa per l’iniziativa Città Studi Campus Sostenibile è stata togliere, sperimentalmente le auto dalla piazza”. E ha funzionato. Ma al di là dei parcheggi, c’era anche altro da ripensare “Quando uno dalla fermata della metro doveva arrivare in piazza Leonardo aveva due opzioni: o camminare nella palta o sulla terra battuta, o fare una strana gimcana tra la sbarra che chiudeva, il pilone della pubblicità… insomma, ogni portatore di interessi nella piazza aveva fatto un intervento scoordinato. Era fondamentale fare un lavoro di riordino e di pulizia”. Un lavoro che ha valorizzato il carattere storico dello spazio, con “Un disegno del suolo che “riscrive” l’assetto originario, valorizzando sia i parterre esistenti che le pietre, gli alberi, gli arbusti che li costituiscono. Un disegno pensato per essere fruito esclusivamente dai pedoni”. Un intervento che ha ricevuto un plauso pressoché unanime: “Devo dire che sono soddisfatta - aggiunge - anche perché

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si tratta di un intervento tutto sommato molto leggero, per due motivi. Uno, perché lo spazio era uno spazio storico con una sua identità, ed era importante lavorarci in maniera intelligente e stabilendo una continuità: piazza Leonardo era nella memoria di tutti. E poi perché le risorse erano poche. Nessuno ci pensa, ma Comune di Milano e Politecnico non potevano investire le risorse di grandi imprese internazionali”. In termini di costi la riqualificazione di piazza Leonardo è costata 750-800 mila euro al Politecnico e circa 1 milione e 50mila euro al Comune (di cui 500mila per gli spazi verdi e circa 550mila per le opere stradali). Considerata l’importanza dello spazio in gioco, una cifra contenuta. “Ricordo che da studente non ho mai pensato di andare a fare gli intervalli lì sul prato, o mangiare lì - conclude la Prof.ssa Protasoni - e quello era uno dei nostri obiettivi: la nostra idea era che diventasse quasi un campus all’americana, che gli studenti potessero andarsene in maniera molto informale a mangiare sul prato in pausa pranzo…”. Missione compiuta, piazza Leonardo è rinata.


RICORDANDO GUERNICA di Valerio Millefoglie

La storia del capolavoro di Picasso che dal 1973 decora la biblioteca del Politecnico, raccontata da chi c’era gurato sulla parete alle sue spalle, che stringe a sua volta una spada, un cilindro spezzato da cui spunta un fiore. Il soldato è uno dei protagonisti del Guernica di Picasso. Alberto Monti e gli altri ragazzi della foto hanno appena realizzato il dipinto in scala 1:1. Ci troviamo nell’allora atrio della facoltà di Architettura di Milano, a pochi giorni dalla morte di Pablo Picasso,

Foto: Alberto Monti

“Io sono il secondo partendo da sinistra”, dice Alberto Monti, laureato al Politecnico in Architettura, indicando nella foto in bianco e nero un ragazzo con gli occhi chiusi, dietro un paio di occhiali, dentro un cappotto pesante, barba e baffi, che fra le mani stringe un poster bianco arrotolato. È accovacciato per terra e sembra riprodurre in un gioco prospettico il soldato raffi-


avvenuta l’8 aprile 1973. In un volantino datato 4 aprile 1973 del Movimento Studentesco si legge: “La Facoltà di architettura è occupata dagli studenti per iniziare la didattica. Per il rientro dei docenti democratici che il governo ha allontanato dalla facoltà, per cacciare il comitato tecnico e ottenere il rientro del legittimo Consiglio di Facoltà, per continuare a sviluppare la sperimentazione didattica e scientifica”. Picasso denuncia con un dipinto la distruzione della città basca di Guernica da parte dei nazisti, dichiarando anche che “La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti, è uno strumento per attaccare e difendersi”. Il Movimento Studentesco si difende dalle scelte del governo della D.C. con un altro Guernica, un’arma fatta di cementite e tempere con Vinavil. “La facoltà era sotto attacco anche per come la riorganizzazione dei corsi e dei contenuti potesse preparare gli studenti a un ruolo diverso dall’Architettura, in una società in trasformazione più attenta ai bisogni sociali e sempre meno alla speculazione e al profitto”, racconta Alberto Monti che fu scelto per creare il disegno di base grazie alla sua fama di vignettista satirico per il giornale del movimento. “La figura dalla quale iniziai fu la donna con il bambino

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morto tra le braccia. Era l’immagine su cui lo stesso Picasso aveva più volte lavorato nei suoi schizzi preparatori. Il disegno fu realizzato in poche ore e senza ripensamenti. Nei giorni seguenti si aggiunsero altri collaboratori e arrivò ad aiutarci anche un gruppo di studenti di Brera, in una settimana circa il lavoro fu completato. Per noi era un omaggio a un grande artista e alla sua arte, ma anche un segno tangibile di riconoscimento a tutti gli studenti, ai docenti, agli operai che condividevano le battaglie politiche e culturali di quegli anni difficili”. Sono tanti i nomi che Alberto Monti ricorda oggi. Dalle altre persone ritratte in foto, come Giuseppe Ciabotti, Mara Campana, Ezio Venosta, ma anche delle persone che in quel periodo si aggiravano intorno agli studenti. Umberto Eco, sue le lezioni tra le più seguite anche durante l’occupazione. Il grafico Albe Steiner, che invitava gli studenti a casa sua per elaborare i manifesti e le proposte grafiche di propaganda. Piero Bottoni, che dopo il suo allontanamento incontrava gli studenti fuori dalla facoltà per discutere i piani di studio che avrebbero portato avanti i suoi assistenti nei corsi della facoltà occupata. E ancora Umberto Eco, “Anni dopo ci siamo rivisti e abbiamo


rievocato il momento del nostro arresto all’alba proprio il giorno della fine dell’occupazione con l’arrivo in forze della polizia”. Alberto Monti e gli altri autori dell’impresa erano convinti che subito dopo l’occupazione, con il ritorno alla legalità, il dipinto sarebbe stato cancellato. Nel 1974 invece il consiglio di facoltà è reintegrato, la Sperimentazione entra nel piano normativo, didattico, accademico, di legalità. “Se la nostra generazione può rivendicare qualche piccolo merito”, riflette Monti, “c’è sicuramente quello di aver attuato la partecipazione attiva dei giovani e delle donne alla politica e di aver posto i temi della pace, dei diritti civili, della scuola, dell’istruzione e del lavoro come cardini del futuro”. Nella Sala Guernica del Politecnico, sul divano proprio di fronte al dipinto, un ragazzo con un computer in grembo cerca su un sito di annunci una bicicletta sportiva.

“Qualche anno dopo ho visto l’originale Guernica a Madrid, nel museo Reina Sofia. Ero con mia moglie, nell’enorme sala deserta, senza parole, ci siamo presi per mano e ci siamo abbracciati. Tutto qui” 12 MAP Magazine Alumni Polimi

Una ragazza prende un sorso d’acqua da una bottiglietta di plastica, poi torna a studiare nel silenzio, sotto le lampade bianche di design. Appena fuori dalla sala chiedo a un ragazzo se conosce la storia del Guernica. Risponde di sì “Ci ho fatto la tesina di terza media”. Chiedo se conosce la storia del Guernica della Sala Guernica. Non la conosce. Gliela racconto e penso che, come in un’antica piazza d’armi, sarebbe bello avere una targa commemorativa su cui leggerla. L’iscrizione potrebbe concludersi proprio con queste parole di Alberto Monti, che solo qualche tempo fa, facendo una ricerca sul web, ha scoperto per caso che il dipinto non è mai stato cancellato: “Qualche anno dopo ho visto l’originale Guernica a Madrid, nel museo Reina Sofia. Ero con mia moglie Francesca, nell’enorme sala deserta, senza parole, ci siamo presi per mano e ci siamo abbracciati. Tutto qui”.


CIRCLE

GLI ALUMNI POLIMI SOSTENGONO LE ECCELLENZE DEL POLITECNICO DI DOMANI

Finanziare e accompagnare i migliori studenti per rimettere in circolo la conoscenza

← Giulia Realmonte studentessa di Ingegneria Energetica Alessio Durante → studente di Ingegneria Elettrica

Lanciato a novembre 2015, Circle è Il nuovo progetto di fundraising che vuole adottare, nanziare e accompagnare i migliori studenti del Politecnico, af ancando l’eccellente formazione tecnica che ricevono in aula con un riferimento di grandi professionisti usciti dal Politecnico di Milano. Circle consentirà al Politecnico di competere con le altre università internazionali che offrono borse di studio allettanti per i migliori studenti. Questo progetto ha tre obiettivi. 1) Finanziare studenti meritevoli per i risultati ottenuti con borse di studio del valore di 20 mila euro ciascuna, per accompagnamento lungo il biennio magistrale (10 mila euro il primo anno e 10 mila euro il secondo, se i risultati vengono mantenuti). 2) Favorire la retention dei talenti af nché usciti da una nostra laurea triennale di primo livello, decidano di proseguire la propria istruzione universitaria al Politecnico di Milano. 3) Fornire l’opportunità agli studenti di incontrare professionisti di alto livello.

Gli studeni vengono selezionati tra i triennalisti, attraverso un apposito bando di concorso e sulla base di forti criteri di merito e velocità e gli Alumni membri del Circle accompagnano gli studenti selezionati sostenendoli da un punto di vista economico e rendendo disponibili consigli ed esperienze. Il progetto Circle prevede un contributo da parte di ciascun donor di 2.000 euro all’anno per un periodo di 5 anni e ha già raccolto oltre 40 mila euro, assicurando l’assegnazione e l’avvio delle prime due borse. Ogni circle è costituito da 22 donatori e ciascun circle ogni anno “adotta” due studenti i quali oltre a ricevere la borsa di studio saranno anche seguiti nel loro percorso accademico e coinvolti in attività organizzate dal circle. I primi due studenti selezionati sono Giulia Realmonte, studentessa di Ingegneria Energetica e Alessio Durante, studente di Ingegneria Elettrica. Sono loro due le prime eccellenze del Politecnico a entrare nel Circle: ma è solo l’inizio. Tra gli Alumni membri dei circle troviamo al momento: Giampaolo Dallara, Fondatore Dallara, Gugliel-

mo Fiocchi, Fondatore e CEO GF4BIZ, Roberto Beltrame, Presidente Knorr-Bremse Rail Systems Italia, Luciano Gobbi, già Presidente della Banca di Piacenza e Direttore Generale Finanza del gruppo Pirelli, Marco Milani, Presidente Vallespluga, Aldo Fumagalli Romario, Presidente e Amministratore Delegato Gruppo Sol, Alessandro Cattani, CEO Esprinet, Enrico Deluchi, Amministratore Delegato Canon Italia, Luigi Ferrari, CEO Lima Corporate Spa, Enrico Zampedri, Direttore Generale Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli Roma, Alberto Rosania, Hon. Chairman Reconsillia Sagl e Former President Ansaldo Breda, Nicola Gavazzi, Senior Partner Egon Zehnder, Paolo Enrico Colombo, Executive VP TXT e-solutions, Enrico Zio, Presidente AlumniPolimi Association, Elena Cotroneo, Relazioni strategiche istituzionali Canon Italia.

Per maggiori informazioni su Circle: sostieni@polimi.it.


I numeri del Poli, oggi Architettura

297

professori e ricercatori

8260 studenti

Design

Ingegneria

94

925

4054

professori e ricercatori

studenti

30430

professori e ricercatori

studenti

Laureati al Politecnico in Italia

22% degli architetti 16% degli ingegneri 45% dei designer 5000 600 2050

Studenti che fanno uno stage durante gli studi Annunci di placement a disposizione dei laureati sul portale CareerService ogni mese Colloqui di lavoro per laureati on campus nel 2015


Crescita degli studenti internazionali 5000 4500 4000 3500 3000 2500 2000 1500 1000 500 0

2004

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

Studenti internazionali provenienti da piĂš di 100 paesi

1497 Frequentano il corso di laurea triennale (6%) 3228 Frequentano il corso di laurea magistrale (21%) 343 Frequentano il corso di dottorato (31%) Curva di crescita dei laureati dal 1960 a oggi 5000

3750

2500

Architettura

1250

Design 20 15

20 00

19 85

0

19 70

Ingegneria


I dati occupazionali del Poli, oggi L’Indagine Occupazionale sui laureati del Politecnico 2014 a un anno dal conseguimento del titolo di studio è stata svolta dal Politecnico di Milano (Servizio Studi, Career Service e AlumniPolimi Association) in collaborazione con SWG e Delos Ricerche. Le interviste si sono svolte sia in modalità on line che telefoniche e hanno raggiunto l’80,4% dei Laureati Magistrali italiani, il 55,7% dei Laureati magistrali stranieri e il 75,1% dei Laureati triennali.

I laureati del Politecnico di Milano entrano più velocemente nel mondo del lavoro e con contratti più stabili.

È stabile il tasso di occupazione dei Laureati Magistrali italiani del Politecnico di Milano che si attesta anche quest’anno sul 91% (95,6% per ingegneria, 81,2% per architettura, 85% per design). Aumenta in maniera significativa la percentuale di laureati magistrali occupati a 6 mesi dal titolo: il 92,7 % (95% per ingegneria, 87% per architettura, 89,4 per design) rispetto all’88,3 % dei laureati 2013 (90,7% per ingegneria, 84,1% per architettura, 84,3% per design). Per quanto riguarda i tipi di contratto la nuova indagine evidenzia che ben l’88% dei nostri laureati magistrali, a un anno dalla Laurea, entra nel mercato del lavoro con un contratto di lavoro stabile (51,6 % a tempo indeterminato, 16,3% a tempo determinato, 20,4% apprendistato). Il miglioramento è significativo in particolare per i contratti a tempo indeterminato che registrano un aumento del 16,2% rispetto all’anno scorso.

La retribuzione media netta di un laureato del Poli è 1462€/mese


Tempi di inserimento nel mercato del lavoro dopo la laurea, per area disciplinare (%) sulla totalitĂ degli Alumni occupati

ingegneria

2013

2014

entro 6 mesi*

90,7

tra i 7 e i 12 mesi

95,0

9,3

5,0

architettura

2013

2014

entro 6 mesi*

84,1

tra i 7 e i 12 mesi

87,0

15,9

13,0

2013

2014

entro 6 mesi*

84,3

tra i 7 e i 12 mesi

89,4

15,7

10,6

2013

2014

entro 6 mesi*

88,3

tra i 7 e i 12 mesi

92,7

11,7

7,3

design

ateneo


Classifica QS 2016: Politecnico di Milano ancora prima università italiana. Ottimo piazzamento anche nel ranking ARWU di Shanghai

Anche quest’anno la classifica QS World University Rankings laurea il Politecnico di Milano prima università italiana nella classifica generale. L’Ateneo di Piazza Leonardo da Vinci guadagna inoltre altre 4 posizioni nel ranking mondiale, passando dal 187esimo posto al 183esimo. QS World University Rankings è stata istituita nel 2004 ed è una delle più citate classifiche sulle università internazionali. Progettata principalmente per i futuri studenti stranieri, è pubblicata annualmente su www.topuniversities.com. Per questa edizione sono state considerate 4322 università e ne sono state valutate 916 sulla base dei seguenti elementi: Academic reputation, Employer reputation, Citations per faculty, Faculty student, percentuale di studenti e docenti stranieri. In particolare, l’Ateneo ha ottenuto risultati molto buoni nella valutazione della qualità dei laureati (Employer reputation, dove è 63simo al mondo) e nella qualità della didattica e della ricerca (Academic reputation, dove è 159simo). Quest’ultima posizione sconta una rapporto studenti /docenti molto più alto degli altri atenei internazionali: se solo questo rapporto fosse allineato a quello delle migliori università straniere, il Politecnico raggiungerebbe l’81° posto al mondo. Ottimi risultati per il Politecnico di Milano anche nell’Academic Ranking of World Universities 2016 (Arwu), la classifica stilata dalla Jiao Tong University di Shanghai che prende in esame le 500 università migliori nel mondo. Il Politecnico di Milano passa dalla 254esima posizione a livello mondiale del 2015 alla 232esima, dalla 103esima in Europa alla 91esima e guadagna una posizione nella classifica italiana posizionandosi al sesto posto. In dettaglio, esaminando i Ranking of Academic Subjects (le materie specifiche di riferimento dei vari atenei presi in esame da ARWU), il Politecnico di Milano è al primo posto in Italia nei settori dell’Ingegneria Chimica, Elettrica ed Elettronica e dell’Ingegneria Civile. In quest’ultima disciplina il Politecnico è anche tredicesimo al mondo e quarto nel panorama europeo. “Siamo molto soddisfatti dei risultati – commenta Giovanni Azzone, Rettore del Politecnico di Milano – purtroppo scontiamo un rapporto studenti/docenti molto alto ma, con i tassi di occupazione che riusciamo a garantire, abbiamo scelto di non ridurre il numero delle immatricolazioni”.


better.poli Idee, progetti e persone che cambiano il mondo


FUTURO ISTANTANEO

Lo spazio urbano sta cambiando: adesso Conversazione con Stefano Boeri, architetto e Alumnus del Politecnico di Milano, di Franco Bolelli, filosofo e scrittore

Franco Bolelli Cominciamo dal futuro, Stefano. Perché davvero il futuro non è più quello di una volta: non è più futurologia o utopia astratta o modello ideale costruito a tavolino. Oggi – oggi che fra quando un bambino entra alle elementari e quando ne esce il mondo muta profondamente- il futuro confina sempre di più con il presente, e se da una parte fatichiamo di più a immaginarlo tanto l’evoluzione si è fatta istantanea, dall’altra invece di pensarlo, prevederlo, fantasticarlo, il

futuro lo stiamo direttamente costruendo. Tu che progetti e costruisci, come ti relazioni con l’idea stessa di futuro? Stefano Boeri Quale sarà il futuro delle nostre città? Quale futuro vogliamo, quale futuro ci aspetta? Siamo spesso bombardati da immagini che hanno un gusto misto: di vintage e di esotico. Immagini che evocano un immaginario legato alla fantascienza del dopoguerra, ai cartoon dei Pronipoti, alle copertine di Urania e ai film della Nouvelle Vague

e lo accompagnano con le architetture scintillanti realizzate nei nuovi epicentri dell’Oriente metropolitano. Ma dobbiamo chiederci se sono queste – in bilico tra la nostalgia di un futuro immaginato 50 anni fa e un presente realizzato nei Paesi del Golfo - le migliori narrazioni visive del futuro prossimo. Dovremmo cominciare a ragionare su tre dimensioni “utili” del futuro. Un futuro lontano, a cento anni, che fa i conti con il tempo lungo dei grandi cambiamenti climatici e demografici del pianeta. Un

“I progettisti più seri del futuro metropolitano non pensano a grandi macchine architettoniche, ma stanno ragionando su forme di intervento leggero, innesti di tecnologia dentro una città che si autogenera” 20 MAP Magazine Alumni Polimi


Stefano Boeri, Alumnus Polimi Architettura

“In tutta la storia di noi umani, la città, la grande metropoli, è sempre stata vista come luogo elettivo della costruzione di futuro”

Franco Bolelli è nato a Milano nel 1950: filosofo e scrittore, è autore di Giocate! (Torino, Add, 2012), Viva Tutto! insieme a Lorenzo Jovanotti (Torino, Add, 2010) e altri volumi. Ha ideato, progettato e realizzato eventi e festival in tutta Italia, tra cui Mi030, insieme a Stefano Boeri.

futuro a quindici/venti anni, che fa i conti con le trasformazioni che oggi possiamo attivare nelle nostre città e che tengono conto dei cicli dell’economia, della geopolitica internazionale, della cultura e delle migrazioni. E il futuro della vita quotidiana, il futuro del “domani”, che ha a che vedere con i cicli della politica, degli equilibri locali, delle relazioni interpersonali e familiari. Queste tre dimensioni devono essere, tutte e tre considerate, perché tutte e tre riguardano e dipendono da circostanze e comportamenti attivabili nel presente quotidiano. Individuale e collettivo. Tutte e tre queste dimensioni del futuro vanno dunque trattate alla stregua di un orientamento all’azione presente, come una sorta di “futuro istantaneo” - per usare un termine a te caro che ci guidi a fissare i criteri di scelta nella vita presente. FB In tutta la storia di noi umani, la città, la grande metropoli, è sempre stata vista come il luogo elettivo della costruzione di futuro. A te quanto a me affascina questa mitologia delle grandi città. Quella che spinge irresistibilmente decine di milioni di noi a vivere a New York, Los Angeles, Londra, Tokyo, Shanghai, ma anche più in piccolo Milano e Roma. Perché è dove ci sono più connessioni, più intrecci, più comunicazioni, più combinazioni, che tutto è più 21 MAP Magazine Alumni Polimi

vivo e più vivibile. Perché più ci sono incontri e più si crea varietà, e più si crea varietà più un luogo, una cultura, una società, è attraente, dinamica, energetica. Se le grandi metropoli sono così attraenti è per la loro enorme biodiversità. È perché contengono, producono e moltiplicano varietà. È perché ci offrono sempre più opzioni, più abbondanza di scelte, meno uniformità e più molteplicità. È perché questa proliferante biodiversità di culture, idee, linguaggi, stili, modelli umani, crea combinandosi all’infinito sempre nuove culture, idee, linguaggi, stili, modelli umani. SB I progettisti più seri del futuro metropolitano non pensano a grandi macchine architettoniche, ma stanno ragionando su forme di intervento leggero, innesti di tecnologia dentro una città che si autogenera grazie alla concentrazione di una moltitudine di interni, per il quale non potrà mai esistere un’architettura, un “masterplan”, una disciplina. La vera grande energia urbana dei prossimi anni è quella degli immensi spazi di organizzazione spontanea, non disciplinata, non “disegnata” che chiamiamo “slums”. La realtà crescente e inequivocabile prodotta da quei milioni di chilometri quadrati di insediamenti informali spontanei – baracche, autocostruzioni, campi - che circonderan-


no le grandi metropoli del mondo e occuperanno i loro interstizi vuoti. Mettiamoci poi che proprio le continue accelerazioni della tecnologia ci fanno pensare che alcune recenti innovazioni presto saranno desuete. Un esempio per tutti è quello dei dispositivi fotovoltaici e eolici che oggi vengono aggunti agli edifici e che saranno presto superati dalla moltiplicazioni di facciate assorbenti, porose, rivestite da membrane ibride (con tessuti biologici) capaci di catturare l’energia del vento e del sole senza il rumore e il peso delle vecchie turbine. Un altro aspetto fondamentale del futuro prossimo sarà la necessità di demolire, demolire per ricostruire: demolire gli edifici in degrado che costa troppo recuperare (come molti di quelli costruiti negli anni Sessanta e Settanta) e demolire gli elementi architettonici “tossici” o desueti. Si pensi all’enorme quantitativo di edifici industriali- spesso giganteschi e tempestati di amianto - per i quali progettare una riqualificazione - specialmente abitativa- è del tutto impensabile. O alla dismissione dei grandi mall negli Stati Uniti, dovuta anche alla rinascita dei negozi di vicinato. O ai centri direzionali concepiti intorno a un’idea del lavoro che è del tutto superata; alle migliaia e migliaia di capannoni abbandonati dalla recessione, in Italia e nel Nord Est in particolare. Che farne è una questione fondamentale. Se non

Un Fiume Verde a Milano In queste pagine: i rendering del Fiume Verde, il progetto di riqualificazione degli scali ferroviari di Milano ideato e progettato da Stefano Boeri.

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“Un altro aspetto fondamentale del futuro prossimo sarà la necessità di demolire, demolire per ricostruire”

guardiamo negli occhi queste e altre grandi questioni, rischiamo di raccontare un futuro consolante, edulcorato, che nella migliore delle ipotesi descrive un presente che è già attorno a noi: lo skyline di Seul o di Dubai, la piattaforma progettata per Melbourne che già esiste a Singapore e collega il colmo di tre torri con un parco orizzontale a trecento metri di altezza. Credo che dovremmo sforzarci di raccontare il futuro che stiamo progettando, che vogliamo progettare, considerando con attenzione queste dimensioni del futuro. A partire, per fare due esempi dalle previsioni della demografia, che ci dice che in Occidente la durata della vita si accorcerà di nuovo, dopo l’exploit di centenari e babyboomers, nati in condizioni ambientali favorevoli e non ripetibili. O dagli allarmi sui cambiamenti climatici e soprattutto sul rischio reale di mancanza d’acqua potabile. I processi di desalinizzazione dell’acqua marina saranno la vera sfida tecnologica dei prossimi anni. E la torre-turbina alta un chilometro che abbiamo progettato per il padiglione del Marocco all’ultima Biennale, ne è un esempio. Il futuro delle nostre città lo dobbiamo immaginare, e raccontare, a partire da queste grandi questioni. Altrimenti non parleremo di futuro, ma delle presenti nostalgie per un futuro che non c’è stato -e mai ci sarà. FB 23 MAP Magazine Alumni Polimi

Nello scenario che tu descrivi, mi sembra chiaro che al centro della scena è il momento di metterci le grandi visioni: quei progetti e quelle idee che allargano l’orizzonte, che costruiscono un futuro istantaneo. Perché nel mondo in vertiginosa evoluzione, soltanto chi ha grandi visioni è veramente realista. Perché l’incapacità di nutrire grandi visioni è il vero peccato mortale di una politica e di una cultura che volano basso e pensano piccolo. Ecco, con il progetto del Fiume Verde tu hai lanciato una grande visione progettuale: un anello di boschi, oasi, luoghi di incontro, ma anche di housing sociale, realizzato attraverso il milione e duecentomila metri quadri dei sette scali ferroviari dismessi. È un progetto che avrebbe un impatto straordinario sulla vivibilità di Milano, che diventerebbe un irresistibile polo di attrazione, che ci proietterebbe al di là tanto dell’ambientalismo che non sa proporre che divieti quanto di quella malsana logica per cui costruire significa solo cementificare. Si tratta di una vera visione sul futuro di questa città, non semplicemente del recupero di alcune aree in disuso. SB Milano è una grande metropoli che con la città metropolitana raggiunge una dimensione demografica di quattro o cinque milioni di abitanti, ed è una delle capitali europee sia dal punto di vi-


sta produttivo che da quello della creatività, della progettazione, della comunicazione. Ma credo che il suo futuro prossimo sia legato alla estensione della biodiversità in tutte le sue forme, e questa degli scali merci è un’occasione unica. Altre città in alcuni momenti della loro storia hanno saputo cogliere un’opportunità straordinaria come questa: in particolar modo ho raccontato che in fondo oggi Manhattan non sarebbe la stessa se non avesse avuto nel 1860 la visione di realizzare un grande parco centrale invece che continuare la griglia ortogonale e densissima dell’edificato. È un paragone molto impegnativo, ma davvero penso che il Fiume Verde possa essere per Mila-

no quello che Central Park è stato per New York.

di coabitazione di molteplici specie viventi.

FB È una estensione del lavoro sulla biodiversità che era già al centro del Bosco Verticale.

FB In un mondo dove è sempre più necessario reinventare tutto, unita’ di misura, paradigmi, linguaggi, relazioni, davvero tutto quanto, tu stai proponendo una reinvenzione dell’architettura stessa.

SB È chiaro che il Bosco è un edificio verticale mentre il Fiume Verde si estende in orizzontale: ma certo, la filosofia è la stessa. Tanto il Bosco Verticale che il Fiume Verde sono una sfida per il nostro futuro: sono due progetti fondati su una forte sperimentazione perché senza esperimenti non c’è possibilità di evoluzione, e sono due progetti che mettono al centro l’idea di una forestazione urbana e la ricchezza e la possibilità

SB Credo che per l’architettura sia finito il tempo dell’autoreferenzialità e sia necessaria una visione dell’architettura capace di abbracciare le grandi questioni sociali che il mutamento mette all’ordine del giorno.

“Tanto il Bosco Verticale che il Fiume Verde sono una sfida per il nostro futuro: sono due progetti fondati su una forte sperimentazione perché senza esperimenti non c’è possibilità di evoluzione” 24 MAP Magazine Alumni Polimi


LA REINVENZIONE DELLA RUOTA Prima della guida autonoma, le nostre auto monteranno pneumatici intelligenti: ecco come funzionano di Marco Villa

Tutti parlano dell’auto a guida autonoma: ma le tecnologie smart che rivoluzionano la nostra sicurezza alla guida sono già sul mercato. E funzionano.

Si parla tanto di auto a guida autonoma inserite in smart cities, verso un futuro in cui l’uomo sarà guidato dalla macchina e non viceversa. Ma in attesa che il futuro si compia forse ci conviene tenere d’occhio dispositivi più alla nostra portata e tecnologie già mass market nel mondo automotive. Per monitorare costantemente la condizione dei nostri pneumatici, la nostra sicurezza passa per un congegno grande come una moneta: è questa la dimensione del sensore inserito negli pneumatici Cyber Tyre, progettato da Pirelli in collaborazione con il Politecnico di Milano, che permette di monitorare costantemente lo stato della strada, fornendo informazioni cruciali per rendere più sicura la guida. Cuore dell’intero progetto è un sensore elettronico che registra e interpreta le condizioni della strada e il modo in cui lo pneumatico le affronta: a seconda dello stato dell’asfalto, infatti, lo pneumatico incontra differenti tipi di attrito, che vengono riconosciuti dal sistema di bordo e interpretati. I dati raccolti vengono inviati in tempo reale al computer di bordo, che li rielabora visivamente per permettere al guidatore di com-

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prendere tutto in pochi istanti. La parte più importante del processo, però, è quella che non si vede: i dati relativi all’attrito permettono infatti al sistema di comprendere se la strada è asciutta o bagnata o se ad esempio è presente del ghiaccio che potrebbe compromettere l’aderenza dello pneumatico e quindi la sicurezza della marcia della vettura. Per raggiungere questo risultato, sono moltissimi i parametri monitorati metro dopo metro: oltre al grado di aderenza, il sensore controlla l’inclinazione della gomma e l’area dello pneumatico a contatto con la strada, ma anche il livello di usura dello pneumatico stesso, la sua temperatura e la pressione. Grazie a tutti questi dati, il computer di bordo può compiere una sorta di previsione su cosa accadrà nei metri successivi, sia in termini di condizioni stradali, sia di performance della gomma. In questo modo potrà avvertire il guidatore di un imminente pericolo e, in alcuni casi, ridurre autonomamente la velocità della macchina. In condizioni normali, in cui non ci sono pericoli in vista, il Cyber Tyre garantisce invece la possibilità di regolare velocità e frenata con assoluta precisione.


ADESSO PEDALA! Volata Cycles e Zehus Bike+ vogliono reinventare la bicicletta: ecco come ci stanno riuscendo

©Volata Cycles

di Gabriele Ferraresi

“Il momento più difficile? Il passaggio da un prototipo ad una bici ingegnerizzabile e producibile in scala”

Dalla sua invenzione a oggi la bicicletta è in sostanza rimasta fedele a se stessa. Due ruote - e fin lì ci siamo - poi un telaio, catena, pedali, un manubrio, una sella, in fondo poco altro. È il mezzo perfetto, il mezzo a propulsione umana più diffuso al mondo, il mezzo che oltre a renderci la vita più semplice in città riesce anche a donarci qualcosa di abbastanza vicino alla felicità. Ma dalla due ruote tradizionale è anche possibile andare oltre e percorrere nuove strade: è quello che ha voluto fare Volata Cycles, azienda fondata dagli Alumni del Politecnico di Milano Marco Salvioli e Mattia

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De Santis. “Le biciclette non si sono mai evolute dal punto di vista digitale, e gli utenti sono costretti ad arredarle con luci, computer, tracciatori GPS - racconta Marco Salvioli a MAP - e con Volata Cycles abbiamo voluto creare una bici completa che integra tutte quelle feature, mantenendo un ottimo design e una continuità di prodotto”. Missione compiuta. Le bici smart Volata Cycles vantano infatti un computer con schermo a colori integrato nell’attacco del manubrio, per conoscere in tempo reale le nostre prestazioni: dal battito cardiaco alle calorie bruciate, e non solo, anche


per ottenere direttamente dalla nostra Volata indicazioni meteo, o un utilissimo navigatore per orientarci lungo i nostri percorsi. L’anima di Volata, spiega Salvioli è “Una board elettronica, che è il cervello di Volata” e grazie all’app Volata Cycles la smart bike dialoga via Bluetooth con il nostro smartphone, sincronizzandosi e permettendo di rispondere alle chiamate senza staccare le mani dal manubrio e in totale sicurezza. Niente catena: a trasmettere la spinta dai pedali al mozzo posteriore c’è una cinghia, per cui niente grasso e addio alle mollette sui pantaloni. Infine a proposito di sicurezza e antifurto le biciclette di Volata sono anche a prova di ladro e installano un antifurto GPS integrato nel telaio, per sapere sempre grazie al satellite dove si trova la propria due ruote. “Il momento più difficile? Il passaggio da un prototipo ad una bici ingegnerizzabile e producibile in scala” ricorda Salvioli, mentre il momento migliore “Quando abbiamo ultimato il primo prototipo e abbiamo iniziato a mostrarlo alla gente. Ci dicevano “perché nessuno ci ha pensato prima?” e la reazione delle persone è stata la mi-

Il mozzo posteriore Zehus Bike+.

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gliore che potessimo sperare”. Con una decina di collaboratori “Principalmente in Italia, ma a breve saranno distribuiti al 50% a Milano e al 50% a San Francisco” precisa Salvioli, Volata è “Designed in Italy, assembled in California”, e, per il momento, ha un prezzo di listino finale di 3.499 dollari, al cambio attuale 3091 euro. Troppo? No, perché la tecnologia ha un costo, e “Questa è una scelta sul nostro primo modello, abbiamo creato una bici di fascia alta, che di conseguenza ha molte parti costose. Abbiate pazienza - sorride Salvioli - presto faremo bici più economiche”. Quanto costeranno? “Non mi sbilancio sul prezzo, ma arriverà una Volata più economica del modello attuale”. Intanto per prenotare quella attuale bastano 299 dollari, sul sito Volata Cycles. Ma non c’è solo Volata Cycles a voler ripensare il concetto di bicicletta: anche Zehus Bike+. Perché se la bici è cambiata poco dalla sua nascita, ancora meno è cambiata la ruota, almeno dal V millennio a.C. quando fu inventata dai Sumeri, e proprio per questo ha margine di miglioramento, soprattutto se la si


Marco Salvioli, 34 anni FOUNDER E CEO DI VOLATA CYCLES

©Volata Cycles

ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA MECCANICA

monta su una bici. È l’idea alla base di Zehus Bike+: che vuole aggredire un mercato che cresce a doppia cifra, quello della bicicletta a pedalata assistita con un mozzo posteriore smart che unisce batteria, sensori e motore dentro alla ruota posteriore di ogni bicicletta e non prevede ricarica. Giovanni Alli, marketing general manager di Zehus Bike+, anche lui Alumnus del Politecnico, racconta a MAP cosa è cambiato nel mondo del “pedelec”, la pedalata assistita, da quando ha iniziato a occuparsene, nel 2009: “È cambiato il “non”: da allora a oggi la bicicletta a pedalata assistita non è più un veicolo per persone

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anziane o con problemi motori. Oggi esistono biciclette a pedalata assistita che pesano 12-13 kg, alcune sono utilizzate per fare escursioni in montagna o downhill con salti ed evoluzioni. La connettività con smartphone e la diagnostica a bordo veicolo - da noi già introdotta nei prototipi del 2010 - sta diventando negli ultimi anni un must di questo tipo di veicoli. Le batterie ora sono stato dell’arte rispetto al mondo dei veicoli come durata e densità energetica e le logiche di controllo si sono evolute a tal punto da dare a una bici a pedalata assistita un piacere di guida impensabile”. Impensabile, fino a ieri.


L’ITALIA VA A 400 KM/H GRAZIE AL POLI Il Politecnico e i test del Frecciarossa1000 di Marco Villa

Frecciarossa1000 è il treno Made in Italy più veloce d’Europa: e nel futuro c’è la possibilità di arrivare a risultati ancora migliori

Tornate indietro nel tempo: non di molto, poco più di una decina d’anni. Tornate indietro nel tempo e pensate che all’inizio degli anni 2000 per andare da Milano a Roma in treno occorrevano circa 5 ore, un tempo non molto diverso da quello che si impiegava per compiere lo stesso tragitto in macchina. Flash forward e torniamo al presente: tra la salita su un treno a Milano e la discesa in banchina a Roma siamo arrivati a 2 ore e 20 minuti. Tutto merito del Frecciarossa1000, ultimo modello in funzione sulla tratta Torino-Napoli e al centro di continui test di sicurezza per stabilire la velocità massima che può raggiungere. L’ultima di queste prove ha portato il traguardo a 390 km/h, picco da raggiungere per permettere l’omologazione della velocità di esercizio a 350 km/h, come richiesto dalle normative. Una certificazione di sicurezza arrivata con il contributo del Politecnico di Milano, che ha affiancato nel lavoro Italcertifer, l’ente di Ferrovie dello Stato che si occupa di questo tipo di verifiche. Questa performance ha reso Frecciarossa1000 il treno realizzato per la maggior

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parte in Italia più veloce d’Europa, con la concreta possibilità di arrivare a risultati ancora migliori, che ovviamente porteranno a un ulteriore abbassamento del tempo di percorrenza. Durante le prove è stata testata non solo la trazione che deve essere in grado di raggiungere e mantenere la velocità commerciale ma anche le prestazioni di frenatura, la captazione dal pantografo e la protezione da parte dei sistemi di sicurezza. Durante il test, a bordo del treno c’erano decine di persone, impegnate a tenere sotto controllo tutti i valori e a garantire la buona riuscita della prova: il Frecciarossa1000 è stato lanciato a quasi 400 km/h lungo la tratta Milano-Torino, durante una notte in cui non erano previsti altri treni in transito. Il risultato positivo del test apre la strada a ulteriori miglioramenti nelle prestazioni e nei servizi, grazie anche all’apporto dato dalla tecnologia ERTMS/ETCS, sistema di sicurezza di altissimo livello e assoluta affidabilità, in grado di intervenire automaticamente in caso venga rilevata la possibilità di un errore umano.


©Goppion

TRA LE VETRINE E I TESORI

Le teche che proteggono i capolavori dell’arte hanno un’anima politecnica di Valerio Millefoglie

“Un progetto è ben riuscito quando la vetrina scompare, quando il nostro lavoro non si vede più”

Un uomo visita i musei di tutto il mondo non per vedere le opere esposte ma per vedere le teche dentro le quali le opere sono esposte. È il suo lavoro. Della Gioconda vede la vetrina. Dei gioielli della Corona nella Torre di Londra ammira il segreto del movimento di apertura dolce della copertura. Il tesoro di San Gennaro non è la collana in oro, argento e pietre preziose. Della Pietà Rondanini si concentra sulla piattaforma antisismica sopra la quale è posizionata la scultura di Michelangelo. È il suo lavoro. Potrebbe essere l’inizio di un libro di José Saramago, è invece la storia vera degli Alumni che lavorano per l’azienda milanese Goppion. Un’azienda che a sua volta ha una storia che potrebbe essere tratta da un romanzo: nel 1952 Nino Goppion realizza, nella

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sua officina vetraria, espositori per bar e negozi, sue sono le vetrine per Ferrero. Nel 1956 il Museo degli Strumenti Musicali di Milano gli commissiona la vetrina per l’allestimento di strumenti dal Cinquecento al Novecento. Subito dopo, con la fine del boom economico in Italia, parte il boom economico di Goppion nel resto del mondo. Oggi sul loro sito si descrivono così: “La nostra ambizione è proteggere e tramandare i capolavori dell’umanità, il nostro impegno quotidiano è aiutare i Musei a realizzarla”. Inserendo l’indirizzo dell’azienda sul navigatore si legge: Trezzano sul Naviglio, Milano, Museo d’Arte. Tra le persone che visitano i musei per l’arte delle teche ci sono due ex alunni del Politecnico di Milano, sono Giancarlo Cotrufo e Oscar Gerolin.


Giancarlo Cotrufo si è laureato in Ingegneria Meccanica ad Indirizzo Energetico nel 1997 con una tesi sull’impianto di climatizzazione di un edificio storico monumentale adibito a museo, il chiostro di Sant’Eustorgio. Nel 2007 ha trovato l’annuncio di ricerca personale da parte della Goppion “Ho inviato il curriculum il sabato. Il lunedì ero qui per il colloquio”, racconta passeggiando per il laboratorio museotecnico, un grande capannone con due anime: quella artigianale, fatta di lastre, viti, muletti, imballaggi con sopra scritto “Ligabue”, una riproduzione del Cristo Morto del Mantegna e, proprio di fronte, un acquario a vista dove c’è l’ufficio tecnico. Qui gli ingegneri sviluppano progetti in 2D, seguono le lavorazioni in 3D e intanto, davanti a loro, prendono realmente forma i materiali. Oscar Gerolin si è laureato in Architettura nel 1992 con una tesi dal titolo, “Analisi del degrado e problemi di consolidamento delle strutture in muratura del santuario della Beata Vergine dei Miracoli in Saronno”. Come il suo collega, nel 2003 ha risposto a un annuncio della Goppion. Giancarlo Cotrufo è assegnato ai musei di Francia e Arabia Saudita. Oscar Gerolin all’Inghilterra e all’America. “La salvaguardia degli oggetti esposti non può limitarsi alla protezione contro il degrado fisico, i furti e gli atti vandalici di qualunque tipo, ma deve comprendere anche le calamità naturali come i terremoti”, c’è scritto nel volume Sistema Q – Vetrine da museo – Le tecniche, edito da Goppion nel 2011. Oscar Gerolin commenta, “Nel momento in cui esce il catalogo, noi siamo già avanti. Le idee sono più veloci della stampa”. La Goppion infatti è specializzata nel creare vetrine personalizzate, su misura per ciascuna opera. Un vaso e una statuetta in rame raffigurante un Pegaso sono esposti in una vetrina, un foglio avvisa: “TEST IN CORSO per favore non scollegare la vetrina intelligente”. Una telecamera dall’alto inquadra

la scena. Mi spiegano che siamo in collegamento con Los Angeles, e quando di notte l’azienda è chiusa, dal fuso orario della fiera americana un operatore si collega per mostrare ai visitatori il sistema capace di autoregolarsi i parametri di luminosità e di umidità, “Mentre prima l’operatore doveva aprire la vetrina e controllare, adesso è la vetrina che avvisa l’operatore se è in corso un’anomalia”, spiega Cotrufo che mi racconta poi uno dei momenti più belli della carriera. “Una volta l’anno, di solito a novembre, quando le condizioni di temperatura esterna sono simili a quelle interne della vetrina, la Gioconda viene estratta dalla sua vetrina, nella sala degli Stati del Louvre pressoché vuota. Quel giorno tra le poche persone presenti ci siamo noi”. Sostituiscono guarnizioni, cambiano filtri, verificano la parte elettronica, sempre sotto lo sguardo della Monna Lisa, “Per me è come stare a casa, in famiglia. Ormai riconosco il quadro anche dal retro”. Rievocando gli anni di studio Oscar Gerolin dice, “Da studente hai la forza e le potenzialità per cambiare il mondo. Poi hai l’esperienza dei capelli grigi”. La stessa esperienza che gli fa dire, “Per noi un progetto è ben riuscito quando la vetrina scompare, quando il nostro lavoro non si vede più, è questo il nostro fine, sparire”. Andando via si cammina su mattonelle d’epoca, si poggia la mano su un grande pomello del cancelletto d’ingresso con il marchio Goppion in rilievo. Questa è stata la prima sede dell’azienda e qui Alessandro Goppion, figlio del fondatore Nino, vuole rimanere, nel passato dove tutto è cominciato. Nella periferia di centri commerciali, carrozzerie e grill house che popolano il paesaggio con mucche giganti, mentre a pochi passi un cartoncino dentro una teca simula la pergamena della Costituzione Americana e una scultura abbozzata richiama le forme della Pietà Rondanini, pronta al test Terremoto e a resistere all’umanità che verrà.

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Il Politecnico di Milano ha collaborato alla progettazione della speciale piattaforma antisismica e antivibrante che sorregge la Pietà Rondanini di Michelangelo, conservata nella sala dell’Ospedale Spagnolo al Castello Sforzesco di Milano. La piattaforma è stata studiata per difendere l’opera d’arte da eventuali scosse e dalle vibrazioni delle linee metropolitane che passano sotto il sito. Il progetto ha vinto il premio Global Best Project, assegnato dalla prestigiosa rivista di settore Engineering News-Record. La piattaforma è stata progettata e realizzata in collaborazione dal Politecnico di Milano, Thk con Miyamoto International e Goppion.


SPOON.CITY

La rivoluzione online per il match tra domanda e offerta nei servizi dell’architettura

©Alberto Cristofaro

di Marco Villa

Caterina Pilar Palumbo, 29 anni CO-FOUNDER DI SPOON.CITY ALUMNA POLIMI ARCHITETTURA

Lucia Rampanti, 28 anni FOUNDER E CEO SPOON.CITY ALUMNA POLIMI ARCHITETTURA

“In Cina il marchio

Made in Italy per un architetto vale qualcosa in più, e il gusto dei cinesi si sta raffinando, si lasciano consigliare”

Il mercato del lavoro per gli architetti negli ultimi anni vive un momento di passaggio in cui le opportunità professionali spesso nascono lontano dai confini nazionali. Conferma tutto oggi Lucia Rampanti, 28 anni, founder e CEO della piattaforma online spoon.CITY, che sottolinea “In Italia c’è circa un architetto ogni 400 abitanti, negli Stati Uniti uno ogni 3000, in Cina uno ogni 40000”. Per molti professionisti che vogliono lavorare quindi non c’è scelta: andare dove c’è un mercato pronto ad accoglierli. È proprio questa la mission di spoon.CITY, la start up che promette di rivoluzionare il modo con cui avviene il match tra domanda e offerta per professionisti dell’architettura e committenti favorendone

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l’incontro online. Alumna 2013 del Politecnico e laureata in Architettura d’Interni, Lucia Rampanti è appena tornata dalla Cina. Ma sono anni che gira il mondo: “In Cina il marchio Made in Italy per un architetto vale qualcosa in più, inoltre il gusto dei nuovi ricchi cinesi si sta raffinando, e si lasciano consigliare. È in corso un’evoluzione del gusto senso estetico - aggiunge - e dopo anni e anni di crescita forsennata in cui si abbatteva e si costruiva senza rispetto per il passato si stanno cominciando a vedere anche le prime renovation” e continua a raccontarci la sua esperienza in Oriente. “Sono stata di recente a Pechino, dove costruiscono quasi una nuova linea della metropolitana all’anno:


e gli architetti italiani che ho incontrato lì vivono situazioni professionali in Italia impensabili, in meglio. Si lavora molto, certo, ma le responsabilità arrivano subito, le possibilità di crescita sono frequenti, si può lavorare su progetti che in Italia sono fantascienza. Ma la Cina può anche essere un buco nero: c’è chi voleva stare sei mesi, ha finito per viverci dieci anni. Inoltre cambiare vita, amici, essere degli stranieri in un luogo dove nessuno parla la tua lingua può non essere la scelta migliore per tutti”. Ma può anche essere la scelta giusta: guardare oltre l’Italia, fare un’esperienza internazionale, può aprire porte che neanche si immaginava esistessero. È proprio così che è andata per Lucia e per spoon.CITY, la piattaforma online per far incontrare architetto e committente la cui idea nacque quando si trovava grazie a una borsa di studio a sviluppare un’altra start up in California nel 2015. “Sì, l’idea di spoon.CITY è nata a San Francisco: stare lì in quel periodo è stato come fare un salto nel futuro di cinque anni”. Un dna internazionale che è la forza di un progetto che ha l’ambizione di cambiare la vita alle decine di migliaia di professionisti dell’architettura che ogni anno arrancano in una professione sempre più affollata. “Quello che mi è rimasto dell’esperienza in California? Tutti pensano a come esserti utili, a come darti una mano, anche chi è in alto, ai vertici delle aziende: magari impiegano un mese a trovare uno slot per parlarti, ma poi sono disponibilissimi. Uno dei difetti? Strano ma vero: la burocrazia”. Tornata in Italia nel giugno del 2015 Lucia Rampanti coinvolge Caterina Pilar Palumbo, anche lei Alumna Polimi, conosciuta anni prima a un master in museografia e pochi mesi dopo vincono il Premio Raffaele Sirica per startup e giovani professionisti indetto dal CNAPPC. spoon. CITY oggi vanta una community di circa 600 iscritti “Una cifra che abbiamo raggiunto con pochissimi investimenti nel marketing” precisa, una cifra destinata a crescere. Ma-

gari guardando a Oriente. Ma come funziona all’atto pratico spoon.CITY? È un sito in cui gli architetti si possono iscrivere e i committenti posso inviarci delle richieste per servizi di architettura. Se decidiamo di registrarci come architetti veniamo profilati in base alle nostre specialità, se invece abbiamo bisogno dei servizi di un architetto, ci viene chiesto di descrivere il tipo di lavoro che vogliamo commissionare e quali siano i requisiti del professionista che dovrà svolgerlo. A quel punto il sistema offre una serie di scelte al committente, e se domanda, offerta, e soprattutto preventivo si incontrano, si parte. E spoon.CITY ha fatto il suo dovere.

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“In California tutti pensano a come esserti utili, a come darti una mano, anche chi è in alto, ai vertici delle aziende. Uno dei difetti? La burocrazia”


D-ORBIT

LA SOLUZIONE ITALIANA AI RIFIUTI SPAZIALI

L’Alumnus Luca Rossettini vuole liberare l’orbita terrestre dallo space waste: ecco come di Federico Sardo

Luca Rossettini, 40 anni FOUNDER E CEO D-ORBIT ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA AEROSPAZIALE

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Luca Rossettini voleva fare l’astronauta. Dopo essere diventato ufficiale paracadutista e dopo una laurea in Ing. Aerospaziale e un Dottorato al Politecnico di Milano si è iscritto al concorso nel 2008, ha passato la selezione che da diecimila candidature tagliava a centottanta, ed è stato scartato in fase avanzata. Non si è dato per vinto: con una borsa di studio è andato in Silicon Valley, ha studiato ancora business e fondi di venture capital - e poi è entrato in Nasa. Lì ha deciso di cominciare un’attività imprenditoriale: è tornato a casa, ha fatto valutare la realizzabilità della sua idea e creato D-Orbit, una società a cui tutto il mondo oggi guarda con interesse.

“Ho fatto nascere D-Orbit in Italia per la capacità dei cervelli italiani di essere creativi e flessibili, indispensabile per inventarsi un nuovo mercato”

Perché ha deciso di occuparsi di detriti e rottami portati dall’uomo nello spazio? Se non risolviamo il problema, a breve nessuno potrà più utilizzare lo spazio. Ci sarebbe un impatto disastroso per tutto il settore e dieci volte di più per le attività sulla terra, più del 70% della tecnologia che oggi utilizziamo viene da lì. Quale idea migliore che risolvere un problema globale in un mercato nel quale nessuno fino a quel momento aveva messo piede?

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Il modo in cui si è agito fino a oggi non è sostenibile? Replicando quello che è successo in qualsiasi altro settore industriale sulla terra, inizialmente si pensa che la risorsa che si utilizza sia infinita. E si scaricavano i residui industriali nell’acqua dicendo “tanto è una goccia in un oceano”. Quando si lanciavano due satelliti l’anno, e in orbita ce n’erano dieci, era difficile pensare che sarebbero diventati seimila, più centinaia di milioni di frammenti dovuti a esplosioni e collisioni. Nello spazio noi usiamo dei settori molto specifici, utili per mandare servizi a terra. Un po’ come le autostrade: l’Italia ha milioni di strade, però poi a agosto siamo tutti sulla A1. Nel momento in cui quei settori si riempiono di spazzatura, l’operatore satellitare non riesce più a fare il suo lavoro. Quindi avete creato un dispositivo di de-orbiting per satelliti, che li rimuove una volta che hanno finito il loro lavoro. Dove vanno a finire? I satelliti in orbita bassa vengono riportati a terra in modo diretto, si decide prima dove farli cadere. Gli altri li spostiamo in un’orbita che è stata già creata e viene chiamata orbita cimitero, in attesa che in futuro con una


tecnologia che ancora non esiste possano essere riciclati. Grazie al vostro sistema, che utilizza una specie di razzo a parte, non bisogna tenere propellente per il ritorno. Questo è il punto cruciale. La nostra idea riduce i costi e aumenta la redditività: per tornare ora si usa del carburante che permetterebbe di rimanere in orbita più a lungo. Noi lasciamo utilizzare il carburante fino all’ultima goccia, e poi ci pensiamo noi. Con un’affidabilità decisamente superiore a quella che ha il satellite in quel momento. Che cos’è d-sat e quando verrà lanciato? Ci siamo costruiti da soli un satellite, e ci abbiamo messo un nostro dispositivo. Il lancio è previsto per marzo 2017. Sarà il primo satellite al mondo rimosso in modo controllato e sicuro tramite un dispositivo indipendente. Immagino sia un settore in continua espansione. Si trova proprio al tipping point in cui si passa da una crescita lineare alla crescita esponenziale. Fino a due o tre anni fa, si lanciavano un centinaio di satelliti l’anno, l’anno scorso 400. Mentre prima l’80% era governativo oggi queste percentuali sono invertite, a favore di quelli commerciali. Come funziona la regolamentazione? Esiste un trattato internazionale soprannominato space treaty che dà delle regole di utilizzo dello spazio, e un comitato apposito ONU che si occupa proprio di relitti. Ha stilato delle linee guida

che servono per implementare le leggi. In Europa sei obbligato a consegnare un pacchetto di documentazione che spiega come rimuoverai il tuo satellite. Come mai ha provato a realizzare questo sogno in Italia? Non ha mai pensato che forse sarebbe stato più facile andare all’estero? Intanto per la capacità dei cervelli italiani di essere creativi e flessibili, indispensabile per inventarsi un nuovo mercato. Il secondo riguarda l’opportunità di essere tra i primi in Italia ad approcciare il settore spaziale con un modello market-driven stile Silicon Valley, e quindi con maggiore possibilità di trovare supporti finanziari. L’Italia ha una storia incredibilmente ricca di innovazione spaziale: è stato il terzo Paese al mondo ad avere un satellite in orbita dopo URSS e Stati Uniti. Questo ci ha permesso di trovare anche persone con grande esperienza e competenze. Se dovesse azzardare una previsione, secondo lei più o meno quando succederà che i viaggi spaziali diventino una realtà quasi normale? Se guardassimo i trend del settore probabilmente la previsione sarebbe molto in là. Però conosco una decina di aziende che stanno già sviluppando navicelle in grado di portare persone nello spazio, ne esiste una che sta progettando delle stazioni orbitali in cui le persone potrebbero soggiornare. Mi aspetto che tra dieci, quindici anni ci sarà una seria possibilità di fare viaggi nello spazio a un prezzo non milionario.

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“L’Italia ha una storia incredibilmente ricca di innovazione spaziale: è stato il terzo Paese al mondo ad avere un satellite in orbita dopo URSS e Stati Uniti”


IL RESPIRO DELL’ULTIMA CENA La sfida del Politecnico: purificare l’aria per proteggere e conservare il Cenacolo vinciano di Gabriele Ferraresi

Da sinistra il rettore dell’Università Bicocca Cristina Messa, il direttore del Polo Museale Lombardo Stefano L’Occaso, la direttrice del Cenacolo Vinciano Chiara Rostagno, il rettore del Politecnico Giovanni Azzone.

Il primo ad accorgersi della fragilità dell’opera fu il suo creatore: si dice che già Leonardo Da Vinci nel 1498 notò qualche crepa a lavoro terminato. Il più grande capolavoro del Rinascimento, la sua Ultima Cena, nasceva così per mille ragioni - tempera grassa, leganti oleosi utilizzati, umidità della parete su cui era dipinta - condannata a cinque e più secoli di stenti e di conservazione difficile, e non solo. Anche di restauri approssimativi che hanno in alcuni casi compromesso del tutto il senso iniziale dato dal genio leonardesco alla cena più celebre della Storia: ma vedendo le vicende in una prospettiva storica, forse quei restauri malfatti che oggi critichiamo erano l’unico modo per far arrivare l’opera a noi. Un’opera che nel 1566, a neanche un secolo dalla sua realizzazione, il Vasari descriveva come “una macchia abbagliata”, mentre lo storico

dell’arte ed erudito Francesco Scannelli che ebbe modo di vederla nel 1642 la descrisse come già irrimediabilmente compromessa. I secoli successivi non furono più generosi per quello che è uno degli affreschi più famosi dell’umanità, e che malgrado tutto arrivò fino ai giorni nostri, passando anche indenne da un bombardamento: il 30 agosto 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale. Il convento venne distrutto, sì, ma l’affresco di Leonardo si salvò: e rimase all’aperto ed esposto alle intemperie per alcuni giorni. Ancora oggi quella per la salvaguardia del Cenacolo è una battaglia da combattere ogni giorno, e il Politecnico c’è. Il Polo Museale della Lombardia con il Politecnico di Milano e l’Università Bicocca stanno infatti progettando nuovi sistemi per salvaguardare l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci e valorizzare il Museo del Cenacolo Vinciano. L’obiettivo?

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Rendere la sala del Cenacolo uno dei luoghi con il più basso tasso di concentrazione di Pm 10 d’Italia, arrivando a meno di tre microgrammi al metro cubo di polveri sottili. Il tutto per preservare al meglio e più a lungo possibile il delicato affresco dal deterioramento, e poter dare la possibilità a più persone di visitare il capolavoro di Leonardo da Vinci. Temperatura, umidità, concentrazione di particolato e contaminanti gassosi: una delicatissima opera d’arte come l’Ultima Cena ha bisogno di un monitoraggio costante e di interventi ad alta tecnologia ottenuti potenziando gli impianti di depurazione dell’aria, installando porte intelligenti e panchine in grado di assorbire le polveri sottili portate dagli abiti dei visitatori di quello che è uno dei luoghi d’arte più visitati d’Italia, con 420.333 presenze annuali nel 2015.


H2 SPEED

PROGETTARE IL FUTURO

La supercar green nata a Cambiano e premiata a Ginevra raccontata da Fabio Filippini, Vice President Design e Chief Creative Officer di Pininfarina

Fabio Filippini, 52 anni VICE PRESIDENT DESIGN E CCO PININFARINA ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA

Tutte le immagini: ©Pininfarina

di Gabriele Ferraresi


< La H2 Speed a confronto della Sigma Grand Prix del 1968.

Un buon designer dell’automobile - forse ogni buon designer? - ha un obiettivo improbo, il suo compito è raggiungerlo: rendere il sogno realtà. Almeno così racconta Fabio Filippini, Alumnus Architettura del Politecnico di Milano, laureato con lode nel 1989 e oggi ai vertici di Pininfarina, dove dal 1° aprile 2011 ricopre il ruolo di Vice President Design e Chief Creative Officer. La sua prima concept car in Pininfarina è stata la Cambiano, nel 2012, l’ultima, la H2 Speed, presentata a marzo di quest’anno al Salone di Ginevra.

In un’intervista spiegava che il design di un’auto di oggi non è mai il frutto di un solo uomo. E ieri invece? Negli anni sessanta, settanta, poteva essere frutto di un uomo solo? Sì e no. È chiaro che soprattutto negli anni cinquanta e sessanta esistevano delle figure di grande talento, che un po’ erano gli archetipi di quello che poi è diventato il designer automobilistico in Italia. Ed erano soprattutto delle individualità, se pensiamo agli anni cinquanta, sessanta settanta. Pininfarina già allora aveva una storia

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più complessa: era già un’azienda sviluppata. Esistevano questi grandi personaggi, Aldo Brovarone, Leonardo Fioravanti, Paolo Martin e tanti altri che sono passati da Pininfarina, che avevano un estro e un tocco personale: però questo loro tocco personale si sviluppava in una struttura che aveva qualcosa di organico, in cui c’erano uno spirito e una visione forti. In cui tutto un team, che andava dai disegnatori tecnici fino agli ingegneri, fino ai modellisti prototipisti o i battilastra aveva questa cultura aziendale, o cultura di design, che portava a creare oggetti che pur pensati da personaggi diversi alla fine continuavano a rappresentare il design di Pininfarina. Ed è un caso particolare. Altre aziende all’epoca - penso a Giugiaro, penso a Marcello Gandini - avevano un tocco unico, e si poteva affermare che un’auto era stata disegnata da loro. Sempre nel passato poi ci sono situazioni in cui uno può dire “Mah, è stata davvero il frutto solo del disegno di una persona?” perché a un certo punto intervenivano i battilastra, artigiani che interpretavano a loro modo i disegni. E loro stessi avevano una capacità di interpretare e sviluppare al di là di quello che era l’intento iniziale del disegnatore: ci sono auto famosissime, come la Ferrari GTO del 1962, disegnata in parte da Pininfarina e in parte da Scaglietti, che si dice sia stata un oggetto realizzato proprio con questo savoir faire un po’ generalizzato, un savoir faire che fa sì che un insieme di persone con determinate competenze e sensibilità creino questa alchimia, per produrre poi un oggetto unico. In quanti lavorano nel suo team in Pininfarina? Circa 120 persone, ma non tutte lavorano sullo stesso progetto. Tra quei 120 ci sono i designer veri e propri, sono inclusi i tecnici, che hanno formazione tecnico-ingegneristica e contribuiscono a queste visioni portando contributi tecnologici e funzionali, ci sono degli specialisti di modellazione virtuale 3D, e anche loro trasformano


< A sinistra la concept car Cambiano del 2012, primo progetto di ricerca seguito da Filippini in Pininfarina.

le idee in forme tridimensionali e virtuali. È un mestiere in cui occorre una grande sensibilità formale, e la capacità di interpretare un desiderio e coniugarlo con i contenuti tecnici da integrare. Poi ci sono i modellisti, che fanno un lavoro manuale di rifinitura sui modelli, che sempre più sono realizzati al 90% da fresatura digitale, però esistono ancora e sono quelli che danno quel tocco, diciamo artistico, e legato all’aspetto emotivo che fa sempre parte del design dell’automobile. Nel 2012 avete realizzato la concept Cambiano La Cambiano è stato il primo prototipo di ricerca che ho fatto qui in Pininfarina, sotto la mia responsabilità. Per me era importante che rappresentasse lo stato dell’arte del design secondo Pininfarina, fondato su valori identitari come la purezza, l’eleganza, l’innovazione. Si tratta di un’auto a trazione elettrica che cercava di utilizzare una nuova tecnologia ibrida per aumentare l’autonomia. Volendo dare l’idea di un veicolo di grande presenza, un veicolo che potesse suscitare emozioni, avevamo scelto di dare una forma e una proporzione che comunque - un po’ in contraddizione con una tecnologia così innovativa - doveva rappresentare un ideale classico dell’auto, portato alla sua estrema essenzialità e purezza. Difatti la Cambiano dal punto di vista di

stile è un’auto cartesiana, quasi razionale: ha un cofano lungo che riprende un po’ l’architettura delle grandi granturismo di lusso con motori a 8, 12 cilindri longitudinale.

tempo stesso, vestire il sistema GreenGT Full Power Hydrogen, una tecnologia innovativa che offre in termini di architettura del veicolo quell’originalità da cui scaturisce un prodotto unico ed esclusivo.

È di quest’anno invece la H2 Speed, supercar a idrogeno che coniuga prestazioni straordinarie, sportività e puro divertimento di guida nel pieno rispetto dell’ambiente. A metà strada tra il prototipo da competizione e la supercar di produzione, H2 Speed è la prima auto da pista a idrogeno ad alte prestazioni al mondo.

La H2 Speed è una supercar con un propulsore elettrico-idrogeno Sì, la H2 Speed si muove grazie alla tecnologia Full Hydrogen Power presentata da GreenGT e non è un progetto ipotetico, ma il risultato di un programma di sviluppo e test che dura da due anni e ha trovato la sua massima espressione nel concept H2 Speed. Full Hydrogen Power significa un potente gruppo motopropulsore elettrico-idrogeno a fuel cell, e il risultato è una vettura a zero emissioni in grado di raggiungere i 300 km/h rilasciando nell’atmosfera solo vapore acqueo. Grazie ad una potenza massima di 503 cavalli, il motore consente di accelerare da 0 a 100 km/h in 3,4 secondi. Siamo molto soddisfatti anche della rapidità di rifornimento, sconosciuta alle elettriche tradizionali: il pieno di idrogeno può essere fatto in soli 3 minuti. Inoltre, è silenziosissima, la H2 Speed annulla quasi del tutto l’inquinamento acustico, il veicolo presenta però un suono unico, a causa del suo compressore, ma molto diverso da quello delle auto elettriche convenzionali.

A marzo avete presentato al Salone di Ginevra la concept H2, una vettura nata per le alte prestazioni e premiata come Best Concept del Salone di Ginevra 2016 dal magazine americano Autoweek Sì, e il premio è stata una grande motivazione per me e il mio team nel portare verso la produzione questo innovativo oggetto di design che racchiude tecnologia, sostenibilità, armonia e flusso aerodinamico. Nella H2 forma e funzione si fondono e danno vita a un design degli esterni all’insegna della sportività, sembra quasi una scultura potente, affascinante. Con la H2 ci siamo trovati davanti a una doppia sfida: disegnare una vettura su un telaio in carbonio e su un’impostazione meccanica estrema (lunghezza 4700, altezza 1087, larghezza 2000, passo 2900) e, al

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Le citazioni stilistiche della H2 rimandano a un progetto del 1968


A destra la concept car H2 Speed del 2016, presentata quest’anno al Salone di Ginevra >

marchiato Pininfarina, la Sigma Grand Prix Esatto, la scelta del colore di carrozzeria trae spunto dalla Sigma Grand Prix e ne reinterpreta in chiave moderna le tonalità, con una vernice monocroma in bianco perlato. Come nella Sigma, l’aggiunta di tocchi fluorescenti in vermiglione e giallo acido mette in evidenza le zone funzionali: la punta aerodinamica del frontale, lo scoop aerodinamico ed il filo della deriva centrale, le derive dell’alettone, le finestrelle che lasciano intravedere i serbatoi laterali a idrogeno, così come i dettagli tecnici sui mozzi dei cerchioni e le pinze freni. Come cambierà l’auto di domani? È una domanda di grande attualità. E in un momento particolare come quello che stiamo attraversando diventa difficile dare una risposta chiara. Di certo l’automobile autonoma sarà un passo fondamentale, un cambiamento sociale profondo. Porterà delle trasformazioni nei sistemi di mobilità a livello mondiale, nelle metropoli, e trasformerà anche l’oggetto automobile, che passerà da oggetto di possesso individuale a oggetto di utilizzo pubblico o semipubblico, quasi una commodity. Si va verso la dematerializzazione dell’oggetto automobile, che diventerà una sorta di scatola con componenti tecnologici che non avranno neanche più motivo per essere realizzati da un’uni-

ca casa produttrice, che magari ha competenze o specificità particolari, di maneggevolezza, di prestazioni, di sicurezza. Oggi identifichiamo i costruttori di auto anche in base a questi valori che gli appartengono. Se pensiamo alla Volvo pensiamo alla sicurezza, se pensiamo all’Alfa Romeo pensiamo alla sportività… quando le auto saranno delle strutture composte con pezzi di produzione standard, dove il fornitore di batterie più performanti le installa sul 90% dei veicoli del mondo, il vero interrogativo sarà come riuscire e dare una valorizzazione emozionale a questi veicoli. È un futuro in cui l’auto rischia di perdere l’anima? Esatto. Senza togliere niente a chi disegna lavatrici, non ho mai sentito nessuno che si emozionasse per il design della propria lavatrice, così come non ho mai visto musei del design della lavatrice, probabilmente ci sono, ma magari non sono così eccitanti come i musei dell’automobile. Non ho mai sentito persone al bar commentare la propria lavatrice e il numero di giri che fa. Uno può dire: quelli dell’automobile sono valori passati, ma questa mitologia dell’automobile c’è. La domanda è come fare a trasmettere questi valori in maniera consona all’epoca in cui siamo. Non è che debbano essere necessariamente la velocità o la performance, magari sarà la qualità dell’esperien-

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za del viaggio. Di sicuro ci sarà un desiderio di personalizzazione di questi veicoli, quindi l’emozione e l’anima la si troverà come oggi qualcuno si mette nello schermo dello smartphone la foto delle vacanze o dei figli, e l’oggetto, pur essendo in fondo una piastrella con uno schermo davanti diventa personalizzato con qualcosa che si lega alla propria esperienza. L’automobile dovrà in qualche modo adattarsi a questi principi e trovare nuove forme di emozione. Che cosa ricorda degli anni al Politecnico di Milano? Del 1989 ricordo una Facoltà di Architettura del Politecnico che era un centro di grande scambio culturale internazionale: era il periodo in cui il design milanese dettava la via da percorrere a tutto il mondo, in pieno boom. Io da studente di architettura mi appassionavo al design, ma mantenevo una predisposizione al design dell’auto, il cui centro però era a Torino. Da questa esperienza creativa e culturale all’epoca ho tratto degli insegnamenti fondamentali, che mi avrebbero poi aiutato anche nella mia pratica più specifica del design automobilistico ad avere una visione molto aperta: ad avere un senso di analisi, di costruzione del progetto che va molto al di là del design automobilistico. Mi ha aiutato molto nella mia carriera.


COME NASCE UNA CITTÀ Il progetto Made in Italy per una Cina ecosostenibile firmato dall’Alumnus Massimo Roj di Davide Coppo

“Shenzhen, a partire dagli anni Ottanta, si è sviluppata in modo vorace: è passata da 300.000 abitanti a 18 milioni”

Le città in cui viviamo sono mondi in cui la nostra vita, la nostra casa, i nostri bar e i nostri uffici sono un granello di sabbia nel vento del tempo. Siamo abituati a studiarne la genesi, antichissima: i primi insediamenti, il cardo e il decumano, le mura e i monumenti, le chiese. Sono frutto di un lento sviluppo organico, durato secoli, che possiamo tracciare sui libri di storia, di arte e di urbanistica come si leggono i cerchi in una quercia tagliata. Questo, tuttavia, vale per l’Europa, e in un certo modo per le Americhe. Ma altre città, soprattutto in Asia, stanno nascendo oggi. Come nasce una città partendo da zero? Massimo Roj e il suo studio hanno progettato “China-EU Future City”, un distretto di 4 chilometri quadrati a Shenzhen, nella Cina meridionale. Si tratta di un polo urbano la cui prima pietra è stata posata lo scorso maggio, focalizzato sullo sviluppo sostenibile: Shenzhen, a partire dagli anni Ottanta, si è sviluppata in modo vorace: è passata da 300.000 abitanti a 18 milioni, una crescita mai vista prima. Roj si è laureato al Politecnico e ha fondato, nel 1994, la sua compagnia Progetto CMR, con sede a Milano. “Quello che chiedono a noi, in quanto italiani, è uno standard qualitativo elevato. Possiamo

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lamentarci del traffico a Milano e Roma, ma non abbiamo idea del traffico che c’è qui a Shenzhen. E poi, tradizionalmente, i cinesi guardano ai costi e ai tempi”, mi dice Massimo Roj. La prima area del progetto si chiamerà Huan De Town, potrebbe essere già pronta nel giro di un anno, e sarà dedicata alla ricerca, alla formazione, alle attività commerciali, in parte alla residenza. In un’epoca in cui il termine gentrificazione è centrale nel discorso urbanistico, come si progetta a tavolino un quartiere? Se le aree di aggregazione tradizionalmente nascono, crescono e cambiano in modo “liquido”, come riuscire a pianificarle? Roj spiega: “La sfida è quella di riuscire a capire quali evoluzioni dal punto di vista sociale possono avvenire, come far sì che noi possiamo incontrarci in modo naturale. Ricordando che le nostre città sono nate intorno alla piazza, intorno a cui scorre la vita dei quartieri. E poi il verde fruibile. Puntiamo molto sull’idea di città multicentrica, in cui ogni centro è autosufficiente ma ben collegato con gli altri”. Naturalmente, il fattore culturale è fondamentale nel pensare alla forma e alla funzione di una nuova città. “Soprattutto in Cina”, dice Roj, “un Paese grande come un continente. Qui esistono 27


Perum rem rendanditi optiam aut aut facimporem aut es et ncomnihicae sunt laboruptio tecatio dolore siniam quissit laut

diversi ceppi etnici. Dobbiamo riuscire a trovare il maggior numero di informazioni, ci serviamo spesso di studi fatti dalle università locali, in questo caso abbiamo lavorato con la Shenzhen University. Nel nord della Cina, ad esempio, usano cibi molto caldi. Nel sud prevale il fritto. Se penso a una piazza, devo tenere conto di queste informazioni”. Quello di Shenzhen non è un esempio “pilota” nell’ambito delle smart cities progettate ex novo. La Corea del Sud, dopo anni di guerra civile,

si ritrovò semi-distrutta nel 1953. All’epoca Seul contava “soltanto” un milione di abitanti. Oggi sono decuplicati, e l’area metropolitana arriva a 25 milioni. A 60 chilometri dalla capitale è nata nel 2004 Songdo, una “città intelligente” con milioni di sensori installati nelle strade, nella rete elettrica e nelle abitazioni private. “Il tema della tecnologia è fondamentale anche qui. A Seul ci sono situazione che fanno rimanere sbalorditi, ma Shenzhen è la patria tecnologica cinese. È previsto l’utilizzo di tecnologie per il recupero

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dell’acqua piovana e dell’energia geotermica, di pannelli fotovoltaici sugli edifici e di altri sistemi attivi e passivi che riducono sensibilmente il consumo energetico complessivo”. Il discorso del fondatore di Progetto CMR torna sempre sul “modello europeo” di città, fondato su una parola in particolare che ricorre in quasi tutte le frasi che pronuncia: qualità. Conclude: “La qualità della vita è strettamente legata alla qualità dei materiali”.



Con la PolimiRUN la community politecnica si ritrova e corre per sostenere gli studenti del Politecnico di Milano

prossima edizione •

21 maggio 2017

La PolimiRUN 2017 si avvicina, è tempo di mettersi in forma! PolimiRUN è un evento di raccolta fondi organizzato dal Politecnico di Milano che accompagna ogni anno studenti, docenti, dipendenti, Alumni e chiunque abbia voglia di correre insieme alla fervente community politecnica. Bastano poche parole per descriverla: 10 km, competitiva e non competitiva, che unisce i campus di Bovisa e Leonardo passando dal centro di Milano; una corsa che spinge chi vive il Politecnico quotidianamente a vedere quegli spazi sotto una luce diversa, una corsa che riporta gli ex studenti all'interno dei loro vecchi campus e che invita familiari, amici e sportivi ad unirsi in questo grande avvenimento targato Polimi. Lo scopo della manifestazione è quello di raccogliere borse di studio per sostenere i futuri architetti, designer e ingegneri del Politecnico. La prima edizione si è svolta il 16 aprile 2016 e ha visto la partecipazione di 3.000 persone tra studenti, Alumni, dipendenti e amici del Politecnico. Ad attenderli al traguardo, il Rettore Prof. Giovanni Azzone insieme al suo Delegato per le Attività Sportive Prof. Francesco Calvetti e i due campioni olimpici Alberto Cova e Antonio Rossi. Le quote di iscrizione, per un totale di 30.000 euro più i 22.500 euro di contributi degli sponsor, sono state trasformate in borse di studio, garantendo così nuove opportunità a studenti meritevoli. Tutta la città è chiamata a partecipare a questo grande evento Politecnico, all'insegna del divertimento e dello stare insieme per supportare/incoraggiare/sostenere gli studenti. Se hai perso la prima edizione visita il sito www.polimirun.it e comincia ad allenarti perché il 21 maggio 2017 la PolimiRUN attraverserà nuovamente la città di Milano. Apertura iscrizioni gennaio 2017.



IL CIELO, L’ACQUA E LE STELLE Il progetto di Davide Coppo

New York è una città complessa, molto più complessa di quanto la definizione “Skyscrapers city” lasci intuire. Quando ci si abitua a qualcosa, le sue straordinarietà perdono il loro fulgore. E così ci siamo abituati a una città di cemento e vetro, che coniuga l’alto – altissimo – con il sottosuolo, una rete tra le più complesse al mondo di tunnel sotterranei. Tutto questo, soprattutto, costruito su un sistema ibrido tra terraferma e isole. New York ha un rapporto unico, tra le metropoli del pianeta, con l’acqua. Il nuovo acquario della città ideato dallo Studio Lissoni, esplora la dimensione marina della città come nessuna altra struttura, in precedenza, aveva fatto.

“Abbiamo pensato di disegnare un edificio che dialogasse con l’acqua, mi interessava il concetto di isola nascosta”

È una struttura che, a differenza di altri acquari famosi come quello di Genova e quello più recente di Valencia, non si sviluppa verso l’alto, come qualsiasi normale costruzione, ma verso il basso. Sembrerebbe, con il senno di poi, naturale, trattandosi di un progetto dedicato alla vita subacquea. Chiedo a Piero Lissoni – che ha firmato il nuovo Nyc Aquarium

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©Giovanni Gastel

per il nuovo acquario di New York raccontato da Piero Lissoni, Alumnus Polimi

& Public Waterfront con Miguel Casal Ribeiro, João Silva e Mattia Susani – se l’idea è stata ispirata da esempi precedenti o è nata da un pensiero originale: “Abbiamo pensato di disegnare un edificio che dialogasse con l’acqua”, dice, “mi interessava ragionare con il concetto di isola nascosta nell’acqua. Abbiamo volutamente escluso l’ennesimo edificio esterno, è in fondo un’idea semplice”. Il progetto è stato scelto tra 565 partecipanti e nascerà sulle rive dell’East River, in una zona di Brooklyn, dice Lissoni, “negletta, abbandonata, bisognosa di affetto”. Il sito dell’acquario è scavato e conterrà 8 diverse biosfere. Di queste, quattro rappresentano gli oceani - Atlantico, Pacifico, Indiano, Sud - e quattro gli altri mari - Mediterraneo, Caraibi, Rosso, Tasman - mentre i poli verranno simboleggiati da un iceberg posto al centro. Lo Studio ha lavorato per la presentazione del progetto con alcuni scienziati dell’ambiente, anche se la parte più stretta della collaborazione con biologi e zoologi – come avviene ad esempio


In queste pagine: i rendering del progetto ideato dallo Studio Lissoni per il nuovo Acquario di New York.

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“È un’idea nata seguendo un’ispirazione romantica, forse anche naïf. D’altronde tutti, a un certo punto della nostra vita, ci siamo trovati davanti al mare, di notte, con un cielo stellato”

per l’ammodernamento degli zoo – sarà un passaggio solo successivo. Piero Lissoni spiega: “C’è ancora molto lavoro da fare. Questo concorso era composto da tre moduli differenti: il primo ci ha selezionato, il secondo ci ha permesso il primo approccio progettuale, così alle semifinali siamo arrivati in 190. Ne vengono scelti dodici, poi uno. La partita vera si gioca in questi mesi. Per ora dobbiamo aspettare che termini il crowdfunding che ha lanciato la città di New York: dovranno prima trovare dieci grandi donatori, poi ci sarà una raccolta fondi più aperta”. Nel frattempo stanno stimando quanto tempo – e quanti soldi – costerà deviare il corso dello Hudson. Il fiume sarà il motore dell’acquario: “Tutto l’edificio è stato pensato a consumo zero. Abbiamo lavorato con un impianto tecnologico che permette alle correnti dello Hudson di generare energia attraverso delle micro centrali elettriche”, dice Lissoni.

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Un’altra innovazione del progetto dell’Aquarium riguarda ciò che dall’acqua, fisicamente, è più lontano: il cielo, la volta di stelle e pianeti. C’è una cosa, tuttavia, che li unisce: l’oscurità. Ogni notte l’acquario viene coperto da quella che di giorno è un’isola verde, che diventa cupola – da fuori – e planetario – da dentro. “È un meccanismo molto gestibile che funziona abitualmente in molti grandi stadi, senza particolari patimenti, e non è nemmeno troppo costoso”, dice Lissoni. “Il planetario funzionerà davvero, la riproduzione del cielo è esatta. E a seconda degli emisferi e dei mari, cambierà naturalmente il tipo di cielo mostrato”. Sull’ispirazione per la volta stellata, la concretezza architettonica sparisce. Lissoni dice: “È un’idea nata seguendo un’ispirazione romantica, forse anche naïf. D’altronde tutti, a un certo punto della nostra vita, ci siamo trovati davanti al mare, di notte, con un cielo stellato sopra gli occhi”.


ARCHITETTO, DESIGNER, ARTISTA ALUMNUS POLIMI ARCHITETTURA

©Alberto Ferrero

Alessandro Mendini, 85 anni

“Mi piaceva disegnare, ma non ero sicuro che avrei fatto l’architetto: più che progettare, volevo fare il cartoonist. Ma Architettura al Politecnico era un luogo interessante...”


©Carlo Lavatori

L’ECCELLENZA ITALIANA DALLE BOTTEGHE RINASCIMENTALI ALLA STAMPA 3D L’Italia, Milano e l’evoluzione del design attraverso gli occhi di un Maestro dell’architettura contemporanea di Irene Zreick

Alessandro Mendini si laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel 1959. Nel 2006 il Poli gli riconosce la laurea Honoris Causa in Disegno Industriale. Tra i tanti premi alla carriera che lo consacrano come uno dei “geni” del ‘900 italiano anche lo European Prize for Architecture. Sono solo alcuni dei tanti successi e riconoscimenti del grande architetto Polimi. Un primo della classe, quindi? “Nient’affatto”, risponde Alessandro. “Uno dei momenti peggiori della mia vita fu l’impatto col Poli. Per ragioni famigliari, fin da bambino ero destinato a fare l’ingegnere, quindi mi iscrissi a ingegneria, ma fu uno shock. Io lavoro di psiche, non di oggettività…” Dall’Atelier Mendini, lo studio di Milano che condivide con il fratello Francesco (anche lui Alumnus Polimi), Alessandro ci racconta la sua vita di studente e di professionista con grande allegria. Cartina del Campus Leonardo alla mano, segue con il dito i primi passi dei suoi anni al Poli: “Scappavo dalle aule di Analisi per andare a sbirciare gli studenti di Architettura che disegnavano su quei bei tavoli grandi, con i fogli bianchi, e mi affascinava l’atmosfera anarchica che si respirava. Gli studenti di ingegneria, invece, erano

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sempre così ingessati. Ci misi 6 mesi a convincermi che dovevo cambiare facoltà, e altri 6 mesi a convincermi a dirlo ai miei genitori. Lo feci con una lettera di 5 pagine in cui motivavo la mia decisione. Ma mi stavo preoccupando inutilmente! Mi risposero: fai quello che vuoi!” Una volta trovata la tua vocazione, la vita fu un pochino più facile? Non proprio. Ho sempre vissuto nella paura degli esami, soprattutto quelli delle materie scientifiche. Mi piaceva disegnare, ma non ero sicuro che avrei fatto l’architetto: più che progettare, volevo fare il cartoonist. Ma Architettura era un luogo interessante: ricordo Portaluppi, un architetto geniale e sensibilissimo ma poco democratico, che presiedeva la facoltà come un generale; e poi c’era Gio Ponti, un vero sognatore, che veniva in aula con le sue scarpe da tennis. Oggi sembra una cosa normale, ma all’epoca proprio non si usava! Faceva delle lezioni poetico-inventive, molto suggestive, e poi se ne andava. L’altro grande personaggio che ebbe influenza su di me fu Rogers. Era un grande pensatore, un filosofo. Aveva un detto: “ io non so disegnare”. Ed era vero, se ci provava faceva degli sgorbi terribili! Mi insegnò a pensare


Ma se volevi fare il cartoonist, perché hai studiato Architettura? Non ci trovo nulla di strano. In quegli anni si laureò architetto al Poli uno dei più grandi vignettisti del XX secolo, Saul Steinberg. A me interessavano la grafica e la calligrafia, amavo Walt Disney e pensavo ad un futuro da illustratore. Un’altra mia passione era la scrittura. Per 15 anni, già durante gli studi e più intensamente dopo la laurea, frequentai le redazioni di riviste milanesi; ne diressi alcune (Casabella e Domus) e ne fondai una (Modo) con alcuni amici. Dal mio ruolo di critico, teorico e giornalista ebbi la possibilità di conoscere molti industriali italiani. All’epoca la scrittura rappresentava il 70% della mia vita. Mi sono messo a progettare in ritardo. Oggi però la scrittura non è più la tua occupazione primaria: come mai questo slittamento? Quando ho cominciato era il periodo del ’68, il periodo del contro-design, del contraddittorio alle industrie, al consumo e alla plastica. Ci riunivamo in gruppi, come Alchimia, in cui si tendeva a lavorare con le mani, a non disegnare: una specie di artigianato radicalizzato. Da parte mia, all’epoca sentivo la necessità di non sporcare i luoghi con il mio progetto: volevo rimanere astratto. Piano piano queste cose sono cambiate e maturate in modo diverso, e mi è venuto il desiderio di praticare. L’occasione me la diede l’amicizia, cresciuta nel mondo delle riviste, con Alberto Alessi. Avevo iniziato a lavorare di teoria sulla sua storia aziendale e a fare delle diagnosi strategiche sulla sua industria. Ma una diagnosi strategica non è questione di numeri e bilanci? Oggi come allora, si può parlare di numeri e risk assessment, ma si può anche parlare delle problematiche intellettuali legate al mondo aziendale, ad esempio le responsabilità sociali ed estetiche.

A quell’epoca tante aziende italiane erano disposte a spendere del denaro per fare delle sperimentazioni libere. Oggi questo non può più avvenire per motivi di crisi oppure di modificati atteggiamenti. Ma riprendiamo il racconto: “Sul piano dell’industrial design, fu l’amicizia con Alessi a darmi l’occasione di iniziare a mettere in pratica. Poi a un certo punto suonò al mio campanello il direttore del Groninger Museum proponendomi di disegnargli la nuova sede del museo. Gli piaceva il mio metodo: in Alchimia ho lavorato molto connettendo e assemblando autori diversi con armonia, come un direttore d’orchestra. È un elemento in comune tra scrittura e architettura: il direttore di rivista e l’architetto sono chiamati ad orchestrare diversi strumenti e a combinare il lavoro di molte persone. Un buon direttore d’orchestra è quello che fa suonare al meglio ogni strumento. Voleva che applicassi questo metodo patchwork al disegno del nuovo museo”. Qual è il legame concettuale tra scrittura e progetto? I miei interessi iniziali erano rivolti all’espressionismo di Gaudì, Erich Mendelsohn, Rudolf Steiner e pertanto all’antroposofia, a questi luoghi magici molto complessi che scivolano verso il surrealismo. Ho sempre frequentato la pittura moderna italiana e milanese (Morandi, De Chirico, Carrà, Sironi) e ho sempre visto le cose da un punto di vista figurativo e letterario. Scrivere e figurare per me sono sempre impastati, mescolati. Non so motivare un mio progetto, se non ci scrivo intorno una serie di parole per chiarirlo a me stesso! Io lavoro di schizzi e di parole. Gli schizzi sono il residuo del piacere del racconto visivo che contiene l’essenza del mio lavoro: il progetto può saltare fuori, eventualmente, ma è un effetto collaterale. E, qualche volta, un disturbo, perché tra un’idea e la sua realizzazione c’è di mezzo di tutto, burocrazia, amministrazioni, denari… sono delle grandi palle al piede. Il piacere di lavorare è quel-

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©Carlo Lavatori

all’architettura come a un luogo teorico e di pensiero, oltre che come luogo di pratica.

“Una vita se non è raccontabile, quasi non esiste: vale anche per gli oggetti”


lo di trasmettere delle poetiche, dei racconti. Un oggetto deve raccontare una storia. La mia poltrona si chiama Poltrona di Proust in omaggio alla Recherche, che simboleggia proprio questa esigenza. Attraverso le storie e gli aneddoti, gli oggetti entrano in relazione fra di loro come le persone. Una vita, se non è raccontabile, quasi non esiste: vale anche per gli oggetti. Qual è la cosa più difficile del tuo lavoro? Ho fatto molta fatica a capire che cosa fossi. Ho una certa indifferenza tecnica: mi piace pitturare, scrivere, fare grafica ecc… una cosa

non prevale sull’altra. Mi spiego meglio: Medardo Rosso era uno scultore con la cera. Sapeva fare solo quello, e lo faceva in modo eccellente. Oppure, dal punto di vista dei contenuti, Morandi si è centrato sulle bottiglie. Io invece sono dispersivo, eclettico. Sono sempre attratto da quello che non mi appartiene e spreco le mie energie cercandolo. Pertanto mi è molto difficile dire che cosa faccio. È tutto molto frammentato e caleidoscopico. Ma in tutto questo casino che ho nella testa, c’è anche un metodo, un’ipotesi di lavoro. E lavoro come un operaio, dalla mattina alla sera, anzi di più, perché un

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operaio non lavora la domenica. Hai parlato di responsabilità estetica. Cosa significa? Al giorno d’oggi, se un uomo vuole avere una responsabilità sociale e politica, deve farlo di mestiere. La responsabilità sociale per un progettista ha un campo d’azione limitato e definito da una serie di vincoli imposti come gli spazi, la legislazione e un sistema cristallizzato di regole. Quello che ci rimane è la responsabilità estetica: fare il nostro lavoro al meglio, all’interno del suo linguaggio e della storia estetica della disciplina. E andare a votare.


Ti sei laureato più di 50 anni fa. Come è cambiata l’architettura, da allora? Non si tratta degli ultimi 50 anni: è l’avvento del computer che ha cambiato davvero l’architettura. Aldo Rossi, che secondo me è stato forse il più grande architetto contemporaneo, lavorava di trilite. Come Palladio. L’architettura da Palladio ad Aldo Rossi è stata così. Poi è arrivato il computer e con esso la possibilità di concepire delle forme architettoniche che non siano basate sulla colonna e l’architrave: si è potuta muovere l’architettura in un modo totalmente libero che prima non era nemmeno disegnabile. Contemporaneamente a questa libertà, sono nati dei materiali e la tecnologia che hanno permesso di realizzare le nuove architetture. Lo spartiacque è Frank Gehry: in quel momento, l’architettura è cambiata. Sul piano del design, lo stesso vale per l’avvento della stampante 3D, che trasforma il ciclo di produzione e potrebbe condurre a una crisi dell’industria. C’è stato un salto di mentalità tra le generazioni di designer: anziché lavorare per un’azienda, con le royalties, si può produrre in proprio con la stampante. Io però non mi ci vedo, a stampare una tazzina da tè con una stampante 3D la domenica pomeriggio… No, questo fa ridere! Anche perché il concetto dietro all’oggetto non si improvvisa. E non si può pensare di riprodurre secondo la logica del do it yourself elementi di artigianato come l’intaglio del legno o la soffiatura del vetro, che sono legati a grandi, meravigliose tradizioni e storie. Ma ci possono essere quattro tuoi amici appena laureati in design che si organizzano in gruppo e avviano un’officina che non ha bisogno della produzione in serie: con la stampante 3D, produrre una sedia non è meno vantaggioso che produrne 3000. E così tu non comprerai la sedia di Kartell.

Qual è secondo te l’edificio più bello di Milano? Che ti devo dire? Imbattibile, a livello mondiale, è il Duomo di Milano. E tra i grattacieli? Il Pirelli. Anche la Torre Hines – Cesar Pelli è bellissima. Ma a Milano le proporzioni sono piccole. Una sera ero alla Cesar Pelli con gli americani che mi avevano dato un premio. Siamo saliti al 27° piano. La guida che ci accompagnava era molto orgogliosa di quell’altezza… ma gli ospiti venivano da Chicago! Sono stati molto gentili e hanno apprezzato, ma sono abituati a grandezze diverse. Io, quando vado a Shanghai, ho la stanza al 75°. I grattacieli gemelli che Pelli ha fatto a Kuala Lumpur sono fantastici, altissimi, si specchiano l’uno nell’altro e restituiscono un senso di city, di densità. Quelle architetture sono molto più forti di quanto avviene in Italia. Che cosa occorre all’Italia per entrare nel nuovo millennio? Io sono molto coinvolto nell’impegno di salvare tecniche artigianali locali, che rischiano di andare perdute perché i giovani non sono interessati a quelle attività e perché spesso le zone in cui vengono svolte sono isolate e si spopolano. Esistono pochi documenti scritti che tramandano queste sapienze. L’Italia ha la specificità di essere nata con le botteghe pluridisciplinari del Rinascimento, come quella del Verrocchio che era pittore, scultore, architetto, marmista (e ingegnere)… la storia eroica del primo design italiano è una storia di botteghe. Anche il mio studio è una bottega tra l’artigianato, la micro architettura e la comunicazione, tipicamente italiana e tipicamente milanese. Sono cose che trovi solo in Italia. È il nostro marchio di fabbrica del Rinascimento, e dobbiamo valorizzarlo.

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“La responsabilità estetica non basta: non si cambia il mondo con una bella autostrada, devi cambiare le persone. La società è di qualità se ogni persona è di qualità”


Ti hanno definito anche genio, come ci si sente? “Se ne raccontano tante!”

A proposito di multidisciplinarità: qualche volta architetti e ingegneri sembrano non andare molto d’accordo. Cosa ne pensi? Sciocchezze. Recentemente sono andato a un convegno in Bovisa su un anniversario della Metropolitana milanese. C’erano ingegneri e architetti. Ciascuno rispettava il lavoro dell’altro. C’è bisogno di entrambe le discipline, e io ho sempre avuto un grande rispetto per gli ingegneri, così come gli ingegneri che hanno lavorato con me sono sempre stati a loro volta molto rispettosi. L’architetto pensa di avere più cultura, ma a volte è una cultura velleitaria. L’ingegnere è più un “praticone”, ma conosce seriamente le sue cose. Ci vorrebbe un po’ di ampiezza di visione. È vero, come dice Renzo Piano, che ingegnere e architetto sono un po’ lo stesso mestiere? Bisognerebbe chiederlo a mio fratello, che era suo compagno

©Ambrogio Beretta

Ti hanno definito un filosofo, un visionario. “Non sono un visionario! È qualcosa che dicono di me, ma non mi ci riconosco!”

di studi! Francesco, ad esempio, è a metà strada tra un architetto e un ingegnere. Qui, se gli edifici stanno in piedi non è certo per merito mio, ma suo! Renzo Piano tra l’altro è un architetto bravissimo, ha una grande sensibilità che riesce a modulare su tutti i fronti del progetto e un grande rispetto per il suolo. Ha una capacità di fare enorme, non so come faccia a reggere i suoi ritmi! Ma per me è un po’ troppo freddo. Tra i grandi realizzatori preferisco Fuksas oppure Foster, perché ci mettono più sentimento. Come immagini il mondo tra 50 anni? Il periodo storico che stiamo vivendo è così violento, così cattivo e duro, che è difficile sperare in un Eden. È l’invenzione della cattiveria: ogni giorno assistiamo ad un’invenzione più cattiva della precedente. Tutto il mondo si sviluppa tragedia dopo tragedia.

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Come si può invertire questo processo? Oggi le persone, in generale, si trovano in uno stato di paura, incertezza e sfiducia, con l’impossibilità di immaginare anche solo i prossimi 5 anni. Sono sopraffatte. E poi c’è il problema dell’occupazione. Per cui siamo su una china che non lascia intravedere un futuro roseo. Ho parlato di responsabilità estetica, ma non basta: non si cambia il mondo con una bella autostrada, devi cambiare le persone. La società è di qualità se ogni persona è di qualità. L’individuo deve prendersi delle responsabilità di relazione morale ed etica con gli altri. Ad esempio: degli italiani si dice che sono furbi. Ma non bisogna fare i furbi. Bisogna essere onesti. È vero che dal generale vengono date le regole… ma anche viceversa. Una persona deve comportarsi correttamente con se stessa, cercare dentro di se e capire che cos’è. Non è facile.


E2 Forum sostiene la realizzazione di MAP il Magazine degli Alumni del Politecnico di Milano ed è lieta di invitarvi all’evento piĂš innovativo del settore ascensoristico


poli.last I protagonisti della convention e gli eventi del Poli per gli Alumni


NOI E LORO

nel prossimo numero l’architetto risponde :)

Architetti e Ingegneri al Poli FENOMENOLOGIA SEMISERIA DI UNA LOTTA ETERNA

Di Giulio Pons, ALUMNUS POLIMI INGEGNERIA telecomunicazioni 2000 Sono un ingegnere e questa è una cosa che ti segna. Mi è stato chiesto di scrivere un pezzo tipo “Architetti vs Ingegneri” e per farlo non posso essere imparziale, non se la prendano gli amici architetti! Preciso che sono un ingegnere del software, lavoro nel web e vivo quotidianamente la lotta con gli architetti che spesso sono laureati in disegno industriale e fanno i grafici o gli art director, questi ultimi di solito sono i più spocchiosi e precisi dove, però, non serve. Nel mio lavoro non ci sono palazzi, né calcoli strutturali, né architetti che difendono forme tonde a tutti i costi, ma anche nel web gli ing. sono quelli del “non si può fare” e gli arch. sono quelli del “deve essere bello”. Il dualismo Architetti-Ingegneri inizia in università dove il capo di tutti i luoghi comuni - e per dirlo uso i termini più educati che posso - è questo: Architettura = femmine, Ingegneria = maschi. D’ora in poi userò spesso “Noi” per dire ingegneri e “Loro” per dire architetti e sottolineare così la contrapposizione delle parti.

All’università noi siamo quelli costretti a sgobbare come bestie mentre loro giocano col pongo a far finta di fare esami. Se un ingegnere vede uno studente che porta un plastico, di solito pensa “Ehi tu, hai già dato pupazzetti 1?”... Ma non ha mai il coraggio di dirglielo, specie se l’architetto è una ragazza. Questo ci ha portato già da studenti all’odio, allora manifestato soprattutto verso i maschi architetti che paiono avere tutte le fortune del mondo: cioè poco lavoro e molte ragazze. Loro dicono di noi le cose più abiette, soprattutto sul nostro aspetto fisico: calvizie, occhiali, forfora, trasandatezza, barba a caso, scarsa coordinazione fisica, crescita muscolare negativa. E va be’, ok, l’ingegnere non è certo uno sportivo, né “ingegnere” é sinonimo di bellezza, ma non si offendono le persone per le proprie caratteristiche fisiche! Suvvia, è la base dell’educazione!

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Loro sono quelli che hanno il monopolio dell’estetica mondiale, guardano una schermata di 2 milioni di pixel e dicono “Qui c’è un punto di troppo”, oppure “Manca l’aria! Metti un filetto”. E anche, dopo aver rifatto un palazzo, entrano ad esaminare il lavoro, guardano di traverso la superficie di una parete e dicono “non è venuta bene, c’è un’ombra”, mentre per noi è solo un muro. Un architetto di solito odia il senso dell’umorismo di un ingegnere, dice che alle nostre battute ridiamo solo noi, ma probabilmente è solo perché non capiscono i nostri giochi di parole. D’altronde ci sarà un motivo se sull’enciclopedia satirica “Nonciclopedia” alla voce Polimi, come definizione si trova questo: “Il Politecnico è un edificio dove la gente entra in pieno possesso delle proprie facoltà mentali e ne esce ingegnere o, se si è meno fortunati, architetto”.


ANNIVERSARI DI LAUREA

2017

Nel 2017, come ogni anno, il Politecnico aprirà le porte del suo storico campus per riabbracciare gli Alumni che hanno conseguito il titolo di studio nel 1947, 1957, 1967, 1977, 1987, 1997, 2007 e far rivivere l’Ateneo attraverso i luoghi politecnici, lezioni speciali, incontri con i professori e i compagni di Università. Per ricevere maggiori informazioni: alumni.polimi.it.


I PROTAGONISTI DELLA QUINTA EDIZIONE FRANCESCO STARACE

Francesco Starace è amministratore delegato di Enel S.p.A. dal maggio 2014. Ha iniziato la sua carriera nella gestione della costruzione di impianti di generazione elettrica in General Electric, poi in ABB Group e in Alstom Power Corporation. Membro del cda del Global Compact delle Nazioni Unite, dal 2016 è co-presidente dell’Energy Utilities and Energy Technologies Community del World Economic Forum. È laureato in Ingegneria Nucleare presso il Politecnico di Milano.

PATRICIA VIEL

Patricia Viel si laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel 1987 e inizia la sua collaborazione con Antonio Citterio nel 1986. Dal 2000 è socia dello studio e responsabile della progettazione architettonica e a settembre 2009 lo studio ha cambiato la propria denominazione sociale in “Antonio Citterio Patricia Viel and Partners”. Partecipa come relatrice a numerosi incontri di studio in qualità di esperta di una concezione di architettura ispirata a una forte integrazione fra progetto e paesaggio urbano.

GLI ALUMNI DI EMPATICA

Startup nata nel 2011, Empatica produce Embrace, un wearable device utilizzato da ospedali e università di tutto il mondo per monitorare epilessia, autismo, e altre patologie neurologiche. Presenti alla convention: Matteo Lai, co-fondatore e CEO di Empatica, Simone Tognetti, CTO e co-fondatore di Empatica, e Maurizio Garbarino, Head of Research di Empatica. Tutti Alumni del Politecnico di Milano.

ANTONIO TOMARCHIO

Antonio Tomarchio, serial startupper tra l’Italia e la Silicon Valley, è fondatore e CEO di Cuebiq, società spinoff di Beintoo che ha rivoluzionato il mondo della business intelligence: Cuebiq consente alle aziende di comprendere il comportamento e le intenzioni d’acquisto dei consumatori in base al loro comportamento offline e tramite dati geo-comportamentali. È laureato in Ingegneria Matematica presso il Politecnico di Milano, ma anche presso l’Ècole Centrale de Paris, dove ha ottenuto la sua seconda laurea.

VENANZIO POSTIGLIONE

Vicedirettore del Corriere della Sera, dal 1990 è giornalista professionista; ha seguito i grandi fatti di cronaca e di politica degli ultimi anni. Tra i fondatori del dorso di Milano del Corriere e vice-caporedattore della Cronaca per due anni, fino all’attuale incarico centrale. Dal 2006 è direttore giornalista del Master in giornalismo dell’Università degli Studi di Milano.


ALUMNIPOLIMI

CONVENTION 2016 VERSO IL 2099

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PIAZZA GAE AULENTI - MILANO SABATO 15 OTTOBRE ORE 9.30


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