Gli Amici del Loggione n° 12 - Maggio 2020

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GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 12 – Maggio 2020


GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista quadrimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 12 – Maggio 2020

Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa

In questo numero ha collaborato Paolo Duprè

In questo numero: 1a Copertina: Jens Rusch - Ritratto di Carl Orff [3] I Carmina Burana, di Carl Orff [32] I grandi direttori del 900: Otto Klemperer [51] Le Sinfonie di Mahler: Sinfonia n° ‘esu ezio e [66] Musica classica e cinema: Platoon, di Oliver Stone [68] L O ga a ia, l a te di ost ui e gli o ga i di Paolo Duprè) [73] La Musica medievale: Gugliel o IX d A uita ia, il primo trovatore [100] Melomania: La Traviata, di Giuseppe Verdi 4a Copertina: Giuseppe Verdi

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“ Carmina Burana: cantiones profanae cantoribus et choris cantandae, comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis”

di Carl Orff

 CENNI BIOGRAFICI Carl Orff nacque a Monaco di Baviera il 10 luglio 1895 da una famiglia bavarese della grande borghesia, molto attiva nell’esercito tedesco. Suo padre era un ufficiale e la madre pianista. La Hausmusik, l'esecuzione di musica da camera in varie formazioni (fino al quintetto con pianoforte) faceva parte delle tradizioni della famiglia e costituì pertanto l'humus ideale per lo sviluppo della musicalità del ragazzo. Carl iniziò a cinque anni lo studio del pianoforte, in seguito prese anche lezioni di organo e di violoncello.

La sua carriera iniziò nel 1918, come assistente Kapellmeister presso l'Opera di Mannheim, a fianco di Wilhelm Furtwängler. Si dedicò allo studio degli "alte Meister", gli "antichi maestri" dei secoli XVI e XVII (Orlando di Lasso, William Byrd, Haßler, Dietrich Buxtehude ecc.): determinante per la sua maturazione fu soprattutto lo studio delle opere di Claudio Monteverdi, del quale allestì, a partire dal 1923, importanti rielaborazioni. Accanto allo studio degli "antichi maestri", il campo della sperimentazione pedagogica fu l'altro grande ambito in cui Orff si mosse: nel 1924 fondò a Monaco, con l’amica Dorothea Günther, la Günther Schule, specializzata nell’insegnamento della musica, della danza e della ginnastica. Fu così che poté sviluppare le sue teorie sull’educazione musicale: compose uno Schulwerk, una serie di esercizi graduali, da ritmi semplici fino a pezzi complessi per più strumenti per xilofoni e altri strumenti a percussione. [3]


La posizione di Orff durante il nazionalsocialismo è stata oggetto di numerose ricerche, Orff non fu mai iscritto al partito nazista e non ne condivise l'ideologia. La sua sopravvivenza di artista negli anni bui del Terzo Reich è disseminata tuttavia di compromessi che hanno spesso dato adito a false interpretazioni. Dopo la seconda guerra mondiale, Orff dichiarò di aver partecipato nella Resistenza, ma non ci sono prove di questa attività se non le sue stesse dichiarazioni, da molti messe in discussione. Orff morì nel 1982, all'età di 87 anni. 

 GENESI DELL’OPERA I “Carmina Burana: cantiones profanae cantoribus et choris cantandae, comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis” sono una cantata scenica che Carl Orff compose tra il 1935 e il 1936 e sulla quale si fonda in gran parte la sua fama. Si basano su una raccolta di canti e poesie contenuti in un manoscritto del 1225 circa, il Codex Latinus Monacensis o Codex Buranus

[ ell i

agi e], del 1225 circa, proveniente

dall’Abbazia di Benediktbeuern (Bura Sancti Benedicti, done il nome di “Burana”) nelle Alpi bavaresi e conservato ora nella Biblioteca statale di Monaco. Il Codice, scoperto nel 1803, contiene

un’ampia

raccolta

di

più

di

250

poesie,

prevalentemente in latino, ma anche in alto tedesco antico e in provenzale antico, altri ancora sono maccheronici, ossia un misto di latino vernacolare con tedesco o francese, composte dai clerici vagantes, altrimenti detti goliardi (dal nome del mitico vescovo Golia (Pietro Abelardo)) che usavano spostarsi per motivi di studio tra le varie nascenti università europee, assimilandone lo spirito più concreto e terreno. Le poesie hanno argomenti molto diversi tra loro, e dimostrano la poliedricità della produzione goliardica. Se da un lato troviamo i ben noti inni bacchici, le canzoni d'amore ad alto contenuto erotico e le parodie blasfeme della liturgia, dall'altro emerge un moralistico rifiuto della ricchezza, e la sferzante condanna verso la Curia romana, di cui molti membri erano ritenuti dediti esclusivamente alla ricerca del potere. Non sono canti contro la Chiesa come istituzione divina, ma solo contro i suoi membri corrotti.

I testi originali sono inframmezzati da notazioni morali e didattiche, come si usava nel primo Medioevo. [4]


Nel 1847 il linguista e filologo Johann Andreas Schmeller curò la pubblicazione dei canti e diede alla raccolta il titolo di Carmina burana. Carl Orff conobbe questa edizione dei Carmina Burana solo nel 1934: egli capì subito di avere trovato il testo che cercava per la sua idea di teatro musicale, un teatro stilizzato in cui, più che i personaggi umani, sono protagonisti i simboli universali come l’amore, il fato o l’ebbrezza. Con l'aiuto di Michael Hofmann, uno studente di legge e latinista, Orff selezionò e organizzò ventiquattro di quei canti in una singola raccolta; tra il 1935 e il 1936 compose la musica in forma di cantata scenica e la intitolò Carmina Burana: cantiones profanae cantoribus et choris cantandae, comitantibus instrumentis atque imaginibus magicis (“Canti dell’abbazia: canzoni profane per

cantori e cori da cantare insieme a strumenti e immagini magiche”). La prima rappresentazione avvenne nel 1937 a Francoforte e fu accolta trionfalmente; la cantata fu eseguita poi in altre città tedesche e, nonostante fosse molto ostacolata dal regime nazista per il tono erotico di alcuni canti, divenne l'opera musicale più conosciuta tra quelle composte durante il Terzo Reich. Il successo fu tale che Orff scrisse ai suoi editori: “Tutto ciò che ho scritto finora, e che è stato pubblicato, può essere distrutto. I miei lavori iniziano con i Carmina Burana”. Questo successo però fu in realtà fortemente contrastato per via della stroncatura dell'autorevole recensore del "Völkischer Beobachter", Herbert Gerigk, capofila della musicologia antisemita e seguace delle teorie razziste di Alfred Rosenberg. Gerigk parlò, nella sua ampia recensione, di "Jazzstimmung" ("Linguaggio Jazz") e deplorò vivamente l'uso della lingua latina ed un "malinteso ritorno agli elementi originari del far musica", diffidando i compositori tedeschi dal seguire una corrente che a suo modo di vedere non costituiva più un problema di natura estetica ma di "Weltanschauung”, cioè la concezione del mondo dal punto di vista di Hitler. L'effetto deterrente della recensione di Gerigk fece sì che i Carmina Burana non fossero più eseguiti fino al 1940. In difficoltà simili incappò anche la Güntherschule, per via dell'adozione di strumenti esotici o ideologicamente sospetti come i flauti dolci, caduti in discredito presso i nazisti per via del loro impiego da parte della Jugendmusikbewegung e considerati "strumenti bolscevichi". La Günther si iscrisse nondimeno al partito, per evitare la chiusura della scuola. In Italia Carmina Burana venne rappresentata per la prima volta nel 1942 al Teatro alla Scala di Milano.

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La grande popolarità di questa opera prima è stata però tale da oscurare tutta la successiva produzione di Orff, il quale, come compositore, è tuttora nelle poco invidiabile posizione di “autore di una sola opera”. 

 GUIDA ALL’ASCOLTO I Carmina Burana rappresentano la prima opera di una trilogia, chiamata Trionfi, che include Catulli Carmina e il Trionfo di Afrodite. La raccolta dei Carmina, che non segue una trama precisa, richiede tre solisti (un soprano, un tenore e un baritono), due cori, di cui uno di voci bianche, mimi, ballerini e una grande orchestra completa di due pianoforti e di tutte le percussioni possibili (timpani, casse chiare, grancassa, triangolo, piatti, cymbali antichi, tam-tam, raganella, nacchere, sonagli, campane tubolari, campane da chiesa, glockenspiel, xilofono, tamburello). I Carmina Burana sono suddivisi in tre parti precedute da un prologo e un finale (ripetizione della prima sezione del prologo). Il Prologo è dedicato alla dea Fortuna (Fortuna imperatrix mundi); le tre parti sono dedicate alla Primavera (Primo vere), al vino (In taberna) e all’amore (Cour d’amours); alla fine ritorna, a sottolineare la ciclicità della fortuna, il coro del Prologo. In tutti i brani l’autore crea deliberatamente una musica semplice, articolata intorno a dei ritmi vigorosi, dalle sonorità ricche.

PROLOGO (FORTUNA IMPERATRIX MUNDI) Il Prologo (Fortuna imperatrix mundi , "Sorte imperatrice del mondo”) mette in rilievo l’impotenza umana di fronte alla cecità della fortuna e alla crudeltà della cattiva sorte; un sentimento costantemente presente nel cuore degli uomini del Medioevo, quando guerra e peste falcidiavano inesorabilmente le popolazioni e rendevano molto precaria la condizione quotidiana di uomini e donne, giovani e vecchi, miseri e ricchi. Il termine Fortuna va interpretato come sorte, destino o fato e indica il succedersi ineluttabile degli eventi, ora casuale ora regolato da forze occulte o divine, secondo le diverse credenze. Il Prologo si divide in due sezioni: [6]


I. O Fortuna (O Sorte) La prima cosa che colpì l’attenzione di Orff, quando ebbe in mano il testo dei Carmina, fu la miniatura che rappresentava una ruota con al centro la dea Fortuna e sul bordo quattro figure che rappresentano la vicenda di un uomo che, da nulla, diventa re per poi perdere il regno e tornare da dove era partito [vedi immagine].

Il compositore decise che il simbolo della

ruota esprimeva il senso più profondo della sua composizione, cioè la meditazione sulla vanità e l’inconsistenza della fortuna terrena. O Fortuna si apre con l’invocazione alla Fortuna da parte del coro, raddoppiato da tutta l’orchestra. Si tratta di un’orchestra particolarmente potente, con tre strumenti per ogni famiglia di fiati, quattro corni, ampia batteria di percussioni e due pianoforti. Segue un ostinato, cioè una sequenza di note ripetuta incessantemente eseguito dai due pianoforti, dagli archi in pizzicato e dai fagotti, il cui ritmo martellante (sottolineato dai colpi dei timpani) coincide con quello del coro. La situazione orchestrale resta identica fino a poche battute prima della fine, che si conclude in un potente assieme del coro e di tutta l’orchestra, con le percussioni (compresi gong e piatti) grandi protagonisti nel dare vigore ed energia alla conclusione del brano.

O FORTUNA (Coro) O Fortuna velut luna statu variabilis, semper crescis aut decrescis; vita detestabilis! nunc obdurat et tunc curat ludo mentis aciem, egestatem, potestatem dissolvit ut glaciem. [O sorte, cambi di forma come la luna, sempre cresci o cali: l’odiosa vita o a a turno l'acutezza della mente, dissolve come ghiaccio miseria e potere.]

atte ed o a o fo ta a

Sors immanis et inanis, rota tu volubilis, status malus, vana salus semper dissolubilis, obumbrata et velata mihi quoque niteris; nunc per ludum dorsum nudum fero tui sceleris. [Sorte potente e vana, tu ruota volubile, maligna natura, vuota prosperità che sempre si dissolve, ombrosa e velata pure me sovrasti; ora al giuoco del tuo capriccio io offro la schiena nuda.]

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Sors salutis et virtutis mihi nunc contraria, est affectus et defectus semper in angaria. Hac in hora sine mora corde pulsum tangite; quod per sortem sternit fortem, mecum omnes plangite! [Le sorti della salute e del successo ora mi sono avverse, tormenti e privazioni mi tormentano sempre. In uest’o a, se za i dugio, sentite il battito del cuore; poiché la sorte a caso abbatte il forte, piangete tutti con me!]

II. Fortune plango vulnera (Piango le ferite inferte dalla Sorte) Il brano inizia con un declamato dei bassi accompagnato dagli strumenti gravi dell’orchestra, espressione dello sgomento umano davanti all’instabilità della fortuna. Ai bassi si aggiungono poi i tenori, entrano le viole assieme ad uno dei pianoforti e al fagotto. La frase viene quindi ripetuta con l’apporto di nuovi elementi che si uniscono ai precedenti: entrano le voci acute del coro, i violini con una loro melodia, i timpani, le trombe. Tutta l’orchestra si unisce quindi nella coda, dove la stratificazione degli ostinati raggiunge il culmine della frenesia. Tutto questo si ripete altre due volte per le altre due strofe del testo. Questo pezzo mostra una tipica tecnica orffiana, quella dell’accumulazione progressiva di energia, che sfocia in momenti di esaltazione sonora.

FORTUNE PLANGO VULNERA (Coro) Fortune plango vulnera stillantibus ocellis, quod sua michi munera subtrahit rebellis. Verum est, quod legitur fronte capillata, sed plerumque sequitur Occasio calvata. [Piango le ferite inferte dalla Sorte o gli o hi pie i di la i e poi h spietata i sott ae i suoi do i. E’ vero ciò che si legge, ha la fronte coperta di capelli, ma quasi sempre segue la calva Occasione.] In Fortune solio sederam elatus, prosperitatis vario flore coronatus; quicquid enim florui felix et beatus, nunc a summo corrui gloria privatus. [Sul trono della Fortuna io sedevo in alto cinto dai variopinti fiori della prosperità; ma se un tempo fiorivo felice e beato, ora son caduto dalla cima privo di ogni gloria.] Fortune rota volvitur: descendo minoratus; alter in altum tollitur; nim is exaltatus. Rex sedet in vertice, caveat ruinam! nam sub axe legimus Hecubam reginam.

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[Gira la ruota di Fortuna: scendo sempre più in basso, mentre un altro è portato in alto, esaltato oltre ogni misura. Un re siede sulla cima, stia attento a non cadere! Infatti sotto il mozzo della ruota leggia o E u a la egi a .]

PRIMO VERE (LA PRIMAVERA) I. Veris leta facies (Il lieto volto della primavera) Il brano esordisce con una rappresentazione stilizzata del canto degli uccelli. La melodia ascendente che segue, di sapore arcaico, è affidato alla coppia di voci gravi (contralti e bassi) con i timpani e l’accordo grave dei due pianoforti che segnano ogni frase; entrano quindi le voci acute che eseguono

la seconda metà della strofa, ingentilita dal suono squillante del triangolo; completa una breve coda. Il tutto si ripete altre due volte per le altre due strofe del testo.

VERIS LETA FACIES (Coro piccolo) Veris leta facies mundo propinatur, hiemalis acies victa iam fugatur, in vestitu vario Flora principatur, nemorum dulcisono que cantu celebratur. [Il lieto volto di p i ave a si off e al o do, il igo e dell’i ve o o a s o fitto si volge i fuga; vestita di variopinti colori regna Flora, celebrata dal canto dolce-risonante delle selve.] Flore fusus gremio Phebus novo more risum dat, hac vario iam stipate flore. Zephyrus nectareo spirans in odore. Certatim pro bravio curramus in amore. [Avvinto in grembo a Flora, Febo una volta ancora sorride in questa varietà di fiori. Zefiro soffia tra il profumo di nettare. Lanciamoci a gara in ardenti amori.] Cytharizat cantico dulcis Philomena, flore rident vario prata iam serena, salit cetus avium silve per amena, chorus promit virginum iam gaudia millena.

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[Il dolce usignolo intona la sua cetra, i prati ormai sereni gioiscono dei molti fiori, uno stormo di uccelli prende il volo fra le bellezze delle selve, il coro delle vergini promette già mille gioie.]

II. Omnia sol temperat (Tutto il sole riscalda) L’introduzione strumentale (che agisce come interludio tra una strofa e l’altra e come postludio alla fine) consiste di una unica nota ripetuta quattro volte, eseguita dal timbro rarefatto del glockenspiel accompagnato dall’ottavino, dai violini e dai contrabassi. Tale semplicità di mezzi raggiunge un’efficacia poetica nell’evocazione della primavera. Anche la melodia vocale, nella sua estrema linearità (è accompagnata da due soli accordi) è di notevole suggestione.

OMNIA SOL TEMPERAT (Solo baritono) Omnia sol temperat purus et subtilis novo mundo reserat faciem Aprilis; ad amorem properat animus herilis et iocundis imperat deus puerilis. [Tutto riscalda il sole, puro e leggero svela nuovamente al o do il volto di Ap ile, l’a i o o ile s’aff etta all’a o e e il dio fa iullo eg a sui feli i.] Rerum tanta novitas in solemni vere et veris auctoritas iubet nos gaudere; vias prebet solitas, et in tuo vere fides est et probitas tuum retinere. [C’ u a g a de i as ita delle ose ella sacra Primavera, la cui autorevolezza ci impone di gioire; schiude le vie ben note, e nella tua giovinezza onestà e giustizia vogliono tenerti ben saldo.] [10]


Ama me fideliter, fidem meam nota: de corde totaliter et ex mente tota sum presentialiter absens in remota. Quisquis amat taliter volvitur in rota. [Amami con fedeltà, osserva la mia fedeltà: con tutto il cuore e con tutta la mente io sono presente anche se vivo lontano. Chiunque ami in questo modo viene trascinato nella ruota della vita.]

III. Ecce gratum (Ecco benvenuta) Tutta la prima parte, dedicata alla Primavera, culmina con questo esaltante coro, che esordisce con i tenori che declamano il capoverso (Ecce gratum); ad essi si uniscono con tono gioioso dapprima i bassi, quindi i contralti e i soprani. La sezione successiva contrasta con la precedente per il suo atteggiamento ondeggiante; nella terza sezione inizia una fase di progressiva eccitazione che culminerà nel grido (Ah!) che accompagna lo scatenarsi dell’orchestra nella coda. Tutto si ripete, con qualche leggera modifica, nelle altre due strofe.

ECCE GRATUM (Coro) Ecce gratum et optatum ver reducit gaudia: purpuratum floret pratum, sol serenat omnia, iamiam cedant tristia! Estas redit, nunc recedit hyemis sevitia. Ah! [Ecco, benvenuta e desiderata, la Primavera riporta i piaceri: imporporato fiorisce il prato, il sole tutto asse e a, via og i t istezza! Rito a l’estate e si it ae o ai il igo e dell’i ve o. Ah!] Iam liquescit et decrescit grando, nix et cetera; bruma fugit et iam sugit ver estatis ubera, illi mens est misera qui nec vivit nec lascivit sub estatis dextera. Ah!] [Già si sciolgono e si dissolvono grandine, neve, tutto, la nebbia fugge via e già succhia al seno della estate, misera è la mente di chi non vive si las ia a da e al do i io dell’estate. Ah!] Gloriantur et laetantur in melle dulcedinis qui conantur ut utantur premio Cupidinis; Simus jussu Cypridis, gloriantes et laetantes pares esse Paridis Ah! [Si esaltano e gioiscono nella dolcezza del miele coloro che si adoperano per godere il premio di Cupido; sia o agli o di i di Cip ide, fie i e lieti d’esse e pa i a Pa ide. Ah!] [11]


Uf dem Anger (Nel prato) Orff ha creato, in questa seconda sezione di Primo Vere, una celebrazione della danza, basandosi su antiche danze popolari tedesche e su testi in medio-alto tedesco, talvolta mescolato con il latino. I vari brani di Uf dem Anger sono legati tra loro da molteplici rimandi tematici e ritmici, che conferiscono a questa sezione una notevole unità interna.

IV. Tanz (Danza) Si tratta della stilizzazione di una danza popolare bavarese del 18° secolo, lo Zweifacher. È una danza frenetica e tempi irregolari. Richiede che i ballerini siano vicini l'uno all'altro e si tocchino. Ha passi simili a quelli del valzer. La prima parte della Tanz si apre con tre accordi introduttivi eseguiti da tutta l’orchestra, quindi evolve con una ritmica affidata agli archi che ricrea

l’atmosfera

delle

antiche

danze

contadine. La sezione intermedia (Trio) è affidata ad un flauto e ai timpani. Segue nuovamente la parte ritmica, scandita dalle percussioni (timpani, grancassa e piatti), e che è suonata dall’intera orchestra, dove emergono, a blocchi, gli ottoni e i legni sino alla fragorosa conclusione finale.

V. Floret silva (Fiorisce la selva) Questa parte corale sin dall’inizio si collega alla Tanz precedente. Il coro ha un andamento ritmico irregolare, con ripetizione di parole e sillabe isolate. La frase finale sospesa delle voci femminili, sul richiamo del corno che simboleggia la lontananza, viene ripetuta anche nella seconda strofa, mista di latino e di tedesco arcaico.

FLORET SILVA (Coro e coro piccolo) Floret silva nobilis floribus et foliis. Ubi est antiquus meus amicus? Hinc equitavit eia, quis me amabit? [La o ile selva fio is e o fio i e foglie. Dove l’a i o io di u te po? Da qui è partito a cavallo, ahimè, chi mi amerà?] [12]


Floret silva undique nah min gesellen ist mir we Gruonet der walt allenthalben wa ist min geselle alse lange? Der ist geriten hinnen o wi, wer sol mich minnen? [Fioriscono le selve ovunque, io soffro per il mio amico. Verdeggiano ovunque le selve, perché il mio amico è così lontano? Se ne è andato di qui a cavallo, ahimé, chi mi amerà?]

VI. Chramer, gip die vaerwe mir (Mercante, dammi il colore) I sonagli accompagnano il coro piccolo per tutta la prima sezione, suggerendo l’idea dei belletti coi quali la ragazza vuole adornarsi. Un interludio del coro a bocca chiusa porta al refrain eseguito

dal

coro

piccolo,

chiusi

da

un’aggraziata

ornamentazione melodica (melisma) sulla parola gevallen (piacere) seguita dal postludio del coro a bocca chiusa.

CRAMER, GIP DIE VARWE MIR (Coro e coro piccolo) Cramer, gip die varwe mir, die min wengel roete, damit ich die jungen man an ir dank der minnenliebe noete. Seht mich an, jungen man! Lat mich iu gevallen! [Mercante, dammi il colore per rendere le mie guance rosse, sicché io possa indurre il giovane uomo ad amarmi, volente o nolente. Guardami, giovane, lasciati sedurre!] Minnet, tugentliche man, Minnecliche frouwen! Minne tuot iu hoch gemout unde lat iuch in hohen eren schouwen. Seht mich an jungen man! Lat mich iu gevallen! [Ama, uomo virtuoso, le donne amabili! L a o e o ilita la tua a i a e ti do a grandi onori. Guardami giovane, lasciati sedurre!] Wol dir, werit, daz du bist also freudenriche! Ich will dir sin undertan durch din liebe immer sicherliche. Seht mich an, jungen man! Lat mich iu gevallen! [Salute a te, mondo, così ricco di gioie! Ti ringrazierò sempre, sicura della tua bontà generosa. Guardami giovane, lasciati sedurre!] [13]


VII. Reie (Ronda)

 Swaz hie gat umbe (Quelle che girano danzando) E’ una rievocazione del Reigen (o ridda), l’antica danza tedesca in tondo. I corni separano le varie frasi con i loro continui cambi di metro. La musica è affidata agli strumenti più gravi: controfagotto, bassotuba e grancassa accompagnano gli archi che suonano anch’essi sulle loro corde più gravi. E’ una danza sfrenata al cui culmine ritorna il motivo di Floret silva, leggermente modificato.

SWAZ HIE GAT UMBE (Coro) Swaz hie gat umbe daz sint alles megede Die wellent an man allen disen sumer gan. Ah! [Coloro che vanno girando danzando sono tutte donne, non vogliono passare tutta l’estate senza un uomo. Ah!]

 Chume, chum geselle min (Vieni, vieni, amico mio!) Il Coro ripete lo Swaz hie gat umbe; alla melodia, sempre uguale, sono intercalati brevi interludi del flauto.

CHUME, CHUM, GESELLE MIN (Coro) Chume, chum, geselle min, ih enbite harte din, ih enbite harte din! Chume, chum, geselle min! Suzer rosenvarwer munt, chum und mache mich gesunt, chum und mache mich gesunt! Suzer rosenvarwer munt. [Vieni, vieni, mio amato, io ti bramo, io ti bramo! Vieni, vieni amore mio! Dolci e rosse come rose labbra,vieni e rendimi felice, vieni e rendimi felice. Dolci e rosse come rose labbra.]

 Swaz hie gat umbe (ripetizione)

VIII. Were diu werlt alle min (Fosse mio il mondo) La regina d’Inghilterra che l’anonimo autore vorrebbe tenere tra le braccia dovrebbe essere Eleonora d’Aquitania, molto popolare tra i clerici per esser protettrice di artisti e letterati. Il fragoroso coro chiude la sezione in tedesco medio-alto e prepara l’atmosfera della successiva parte.

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WERE DIU WERLT ALLE MIN (Coro) Were diu werlt alle min von deme mere unze an den Rin des wolt ih mih darben daz diu chunegin von Engellant lege an minen armen. Hei! [Fosse mio il mondo dalle rive del mare fino al Reno, tutto lo rigetterei, se la egi a d’I ghilte a giacesse tra le mie braccia. Ah!]

IN TABERNA I. Estuans interius (Acceso nell’anima) Il testo, attribuito all’Archipoeta, è noto come Confessio Goliae, dal nome del gigante biblico che nel Medioevo era passato a personificare la vita dissoluta dei Clerici vagantes, ed è una parodia della confessione. Il ritmo puntato conferisce al brano una forte connotazione declamatoria che, poco alla volta, diventa più melodico. Il culmine del brano è sottolineato dalla massima espansione del canto.

ESTUANS INTERIUS (Solo baritono) Estuans interius ira vehementi in amaritudine loquor mee menti: factus de materia, cinis elementi similis sum folio, de quo ludunt venti. [Acceso ell’a i o di vee e te fu o e, o amarezza parlo a me stesso: sono fatto di materia, cenere e polvere, sono come una foglia con cui giocano i venti.] Cum sit enim proprium viro sapienti supra petram ponere sedem fundamenti, stultus ego comparor fluvio labenti, sub eodem tramite nunquam permanenti. [15]


[Se è proprio dell’uo o saggio porre sulle rocce le fondamenta, io stolto mi paragono ad un fiume impetuoso, che non scorre mai nel stesso alveo.] Feror ego veluti sine nauta navis, ut per vias aeris vaga fertur avis; non me tenent vincula, non me tenet clavis, quero mihi similes et adiungor pravis. Io ne sono trascinato come una nave senza timoniere, come un uccello trasportato errante per le vie del cielo; non mi trattengono legami, nè mi trattengono chiavi, cerco i miei simili e mi unisco ai corrotti.] Mihi cordis gravitas res videtur gravis; iocus est amabilis dulciorque favis; quicquid Venus imperat, labor est suavis, que nunquam in cordibus habitat ignavis. [La durezza del cuore mi fa apparire le cose gravi; il gioco è piacevole, è dolce più del miele; quel che comanda Venere è un lavoro soave, ella mai dimora nel cuore dei vili.] Via lata gradior more iuventutis inplicor et vitiis immemor virtutis, voluptatis avidus magis quam salutis, mortuus in anima curam gero cutis. [Cammino per una via ampia, come nella in gioventù, mi lascio invischiare dai vizi immemore della rettitudine, sono avido più di piaceri che di salvezza, morta è la mia anima, mi preoccupo solo del mio corpo.]

II. Olim lacus colueram (Un tempo vivevo nel lago) E’ il lamento del cigno arrostito, reso dal tenore in

falsetto,

mentre

nell’orchestra

è

rappresentato dal fagotto reso irriconoscibile dall’uso del suo registro acutissimo. Nella coda assistiamo alla rappresentazione dello sbattere dei denti degli avventori resa dallo staccato di legni, trombe e xilofono.

OLIM LACUS COLUERAM (Solo tenore e coro [tenori e bassi]) Olim lacus colueram, olim pulcher extiteram dum cignus ego fueram. Miser, miser! Modo niger et ustus fortiter. [16]


[Un tempo avevo vissuto nei laghi, un tempo ero sembrato bello quando ero un cigno. Misero, misero me! Ora sono nero e carbonizzato.] Girat, regirat garcifer: me rogus urit fortiter, propinat me nunc dapifer. Miser, miser! Modo niger et ustus fortiter. [Gira e rigira lo spiedo: il fuoco sono nero e carbonizzato.]

i

u ia tutto, l’i se vie te

i po ta a tavola. Misero, misero me! Ora

Nunc in scutella iaceo et volitare nequeo, dentes frendentes video. Miser, miser! Modo niger et ustus fortiter. [Ora giaccio su un piatto e non posso più volare, vedo digrignare i denti. Misero, misero me! Ora sono nero e carbonizzato.]

III. Ego sum abbas (Io sono l’Abate) La parodia della benedizione di bevitori e giocatori da parte dell’abate di Cuccagna è resa musicalmente dalla parodia del tono salmodico. Il baritono (al quale si prescrive di cantare “gesticolando e beffardo assai”) è interrotto dalle scomposte urla dei compagni, sicché la musica diviene “gesto sonoro”.

EGO SUM ABBAS (Solo baritono e coro [Tenori e bassi]) Ego sum abbas Cucaniensis et consilium meum est cum bibulis, et in secta Decii voluntas mea est, et qui mane me quesierit in taberna Post vesperam nudus egredietur Et sic denudatus veste clamabit: [Io so o l’a ate di Cu ag a ed il mio concistoro è assieme ai bevitori, e la mia fiducia è nella setta di Decio, e chi la mattina mi cerca nella taverna dopo sera la sera se ne uscirà nudo, e così, spoglio delle vesti, esclamerà :] Wafna! Wafna! Quid fecisti sors turpissima? Nostre vite gaudia abstulisti omnia! [Woh! Woh! Che hai fatto, turpe sorte? Hai rubate tutte le gioie delle nostre vite!]

IV. In taberna quando sumus (Quando siamo nell’osteria) L’apoteosi della sfrenatezza si raggiunge in questo che è il più celebre dei canti goliardici, un’esaltazione della vita sensuale basata su un complesso gioco di parodia di testi e funzioni sacre. [17]


Il

brano

è

basato

sulla

declamazione sillabata del testo, sulla

efficacia

dell’ossessiva

quasi

fisica

ripetizione

di

ritmo e di note, ripetizione che qui raggiunge esiti di violenza orgiastica. L’enumerazione

del

brindisi

(una parodia delle preghiere del Venerdì Santo?) costituisce la prima esplosione di energia; la seconda esplosione consiste nella enumerazione dei bevitori, iniziata dal coro a bassa voce per poi crescere di intensità. Orff accompagna questa intensificazione con le indicazioni: sfrenato, selvaggio, scatenato, fino al fragore dell’urlo finale.

IN TABERNA QUANDO SUMUS (Coro [tenori e bassi]) In taberna quando sumus non curamus quid sit humus sed ad ludum properamus cui semper insudamus. Quid agatur in taberna ubi nummus est pincerna hoc est opus ut queratur: si quid loquar, audiatur. [Qua do sia o ell’oste ia on pensiamo a quando saremo polvere, noi ci buttiamo al gioco che non ci dà ai t egua. Quel he a ade ell’oste ia dove comanda il danaro, è bene chiederlo; se qualcosa si dirà, ascoltatelo.] Quidam ludunt, quidam bibunt, quidam indiscrete vivunt, sed in ludo qui morantur ex his quidam denudantur quidam ibi vestiuntur, quidam saccis induuntur. Ibi nullus timet mortem sed pro Baccho mittunt sortem: [Qualcuno gioca, qualcuno beve, qualcuno si dà ai bagordi, ma di coloro che si cimentano al gioco, alcuni ne escono nudi, altri rivestiti, altri indossano sacchi. Qui nessuno teme la morte, ma tentano la sorte in nome di Bacco:] Primo pro nummata vini ex hac bibunt libertini, semel bibunt pro captivis, post hec bibunt ter pro vivis, quater pro Christianis cunctis, quinquies pro fidelibus defunctis, sexies pro sororibus vanis, septies pro militibus silvanis, octies pro fratribus perversis, nonies pro monachis dispersis, decies pro navigantibus, undecies pro discordaniibus, duodecies pro penitentibus, tredecies pro iter agentibus Tam pro papa quam pro rege, bibunt omnes sine lege. [18]


[Il primo è per il mercante di vino per il quale brindano i viziosi, il secondo per i carcerati, Il seguente lo bevono per i vivi, quindi bevono tre volte per i vivi, il quarto per tutti i Cristiani, il quinto per i fedeli defunti, il sesto per le sorelle smarrite, il settimo per i guardiacaccia, l’ottavo pe i f ati pervertiti, il nono per i monaci scappatii, il decimo per i marinai, l’u di esi o pe i litiganti, il dodicesimo per i penitenti, il tredicesimo per i viaggiatori. Per il Papa o per il Re bevono tutti senza freni.] Bibit hera, bibit herus, bibit miles, bibit clerus, bibit ille, bibit illa, bibit servis cum ancilla, bibit velox, bibit piger, bibit albus, bibit niger, bibit constans, bibit vagus, bibit rudis, bibit magnus, bibit pauper et egrotus, bibit exul et ignotus, bibit puer, bibit canus, bibit presul et decanus, bibit soror, bibit frater, bibit anus, bibit mater bibit ista, bibit ille, bibunt centum, bibunt mille. [Beve la do a, eve l’uo o, beve il soldato, beve il clero, beve quello, beve quella, beve il servo con l’a ella, beve il lesto, beve il pigro, beve il bianco, beve il negro, beve il costante, beve il distratto, beve il rozzo, beve il dotto, beve il povero e il malato, beve l’esule e lo st a ie o, beve il fanciullo, eve l’a zia o, beve il vescovo ed il decano, beve la suora, beve il frate, beve la nonna, beve la madre, beve questa beve quella, bevon in cento, bevon in mille.] Parum sexcente nummate durant, cum immoderate suffice bibunt omnes sine meta. Quamvis bibant mente leta, sic nos rodunt omnes gentes et sic erimus egentes. Qui nos rodunt confundantur et cum iustis non scribantur. Io, io, io, io, io, io, io, io! [Seicento denari durano poco, se tutti bevono senza moderazione e senza limite. Pur bevrndo con anima lieta, tutti ci disprezzano e diventeremo poveri. Siano maledetti coloro che ci disprezzano, e che non vengano ricordati tra i giusti.]

COUR D’AMOURS I. Amor volat undique (Amore vola ovunque) Dopo le battute introduttive, il brano si apre con una delicata cantilena dei flauti interrotta dagli interventi del coro di voci bianche. Interviene quindi il soprano, sulla cui nota tenuta lunga rientra il tema del coro dei ragazzi, che porta alla conclusione. [19]


AMOR VOLAT UNDIQUE (Solo soprano e voci bianche) Amor volat undique, captus est libidine. Iuvenes, iuvencule coniunguntur merito. [Amore vola ovunque prigioniero del desiderio. Fanciulli e fanciulle si uniscono secondo natura.] Siqua sine socio caret omni gaudio; tenet noctis infima sub intimo cordis in custodia: fit res amarissima. [Se qualche giovanetta rimane senza amante non prova alcuna gioia; tiene rinchiusa nel profondo del cuore una notte oscura: ed è la cosa più amara!]

II. Dies, nox et omnia (Giorno, notte, tutto) In questo testo multilingue, dal latino al francese antico corrisponde, nella parte vocale, al passaggio da uno stile piano e sillabico a ornamentazioni musicali sempre più elaborate e con salti di registro, quasi che Orff identificasse nel suono stesso della lingua francese il sentimento cortese dell’amore, in contrasto col sentimento più pagano dei testi goliardici in latino.

DIES, NOX ET OMNIA (Solo baritono) Dies, nox et omnia michi sunt contraria, virginum colloquia me fay planszer, oy suvenz suspirer plu me fay temer [Giorno, notte, tutto mi è avverso, i discorsi delle fanciulle mi fanno piangere e spesso sospirare e soprattutto mi intimoriscono.] O sodales, ludite vos qui scitis dicite, michi mesto parcite, grand ey dolur, attamen consulite per voster honur. [Oh amici, vi prendete gioco di me, parlate voi che sapete, abbiate pietà di me infelice, è grande il mio dolore, piuttosto consolatemi, per il vostro onore.] Tua pulchra facies me fay planszer milies, pectus habet glacies. A remender statim vivus fierem per un baser. [Il tuo bel volto mi fa piangere mille volte, hai ghiaccio nel petto. Una cura e io tornerò in vita con un bacio.]

[20]


III. Stetit puella (Stava una fanciulla) Il testo del brano è fra i più delicati della raccolta. La melodia del soprano, di impronta iberica, è inframezzata dalle sincopi degli archi, alleggeriti dagli armonici dei contrabbassi e dei violoncelli. Da rilevare la lunga ornamentazione nell’Eia, che si avvale del corno nel registro acuto.

STETIT PUELLA (Solo soprano) Stetit puella rufa tunica, si quis eam tetigit tunica crepuit. Eia. Stetit puella tamquam rosula, facie splenduit os eius fioruit. Eia. [Stava una fanciulla come una rosellina, il suo volto raggiante e la sua bocca in fiore. Stava una fanciulla con una rosellina, splendeva in volto, fioriva la sua bocca.Eia.] IV. Circa mea pectora (Attorno al mio cuore) E’ una canzone strofica, con refrain: nella prima sezione il canto appassionato del baritono si conclude con la ripresa della melodia da parte del coro maschile, mentre nella seconda il refrain è intonato dal coro femminile su un andamento più vivace e giocoso. Nell’orchestra si alternano accordi staccati e arpeggi martellati dal pianoforte e dai legni.

CIRCA MEA PECTORA (Solo baritono e Coro) Circa mea pectora multa sunt suspiria de tua pulchritudine que me ledunt misere. Mandaliet, Mandaliet, min geselle chumet niet. [Attorno al mio cuore ci sono molti sospiri per la tua bellezza che mi feriscono miseramente. Mandaliet, Mandaliet, la mia amata non arriva.] Tui lucent oculi sicut solis radii, sicut splendor fulguris lucem donat tenebris Mandaliet, Mandaliet, min geselle chumet niet. [I tuoi occhi risplendono come i raggi del sole, come lo splendore della folgore che illumina l’os u ità. Mandaliet, Mandaliet, la mia amata non arriva.] Vellet deus, vallent dii quod mente proposui ut eius virginea reserassem vincula. Mandaliet, Mandaliet, min geselle chumet niet. [Voglia Dio, vogliano gli dei accordarmi ciò che ho in mente, che io possa violare i legami della sua verginità. Mandaliet, Mandaliet, la mia amata non arriva.]

[21]


(Stetit puella]

[22]


V. Si puer cum puellula (Se un ragazzo e una fanciulla) E’ il più scopertamente erotico dei canti della raccolta. Si contrappongono i bassi che sillabano il testo sulle stesse note ed i tenori che replicano

con

un’ironica

e

allusiva

oscillazione. Da essi si distacca il baritono che sottolinea (con comica esagerazione, come prescriveva Orff) i passaggi più espliciti del testo.

SI PUER CUM PUELLULA (Soli, 3 tenori, baritono, 2 bassi) Si puer cum puellula moraretur in cellula felix coniunctio amore suscrescente pariter e medio avulso procul tedio fit ludus ineffabilis membris, lacertis, labii. [Se un ragazzo con una ragazza indugiasse in una piccola stanza, sarebbe una felice unione poi h l’a o e affiora allo stesso modo in entrambi, ed allontanata la pudicizia inizia un gioco ineffabile nelle loro carni, braccia e labbra.]

VI. Veni, veni, venias (Vieni, vieni, dai, vieni) L’ansia erotica è il tema di questo incalzante pezzo, in cui le voci sono accompagnate soltanto dai due pianoforti e dalle percussioni. Il pezzo inizia con il Coro II, con uno stile di canto spezzato e sillabico, accompagnato dal 2° pianoforte che ripete invariabilmente il proprio ostinato.

Le

percussioni

entrano

poco

dopo,

sottolineando

l’insistenza del coro sulle interiezioni (hyrca, hyrce, nazaza, trivillos). Interviene quindi il Coro I il cui stile vocale è più disteso; è però interrotto dalle impazienti esclamazioni dell’altro coro, fino a quando i due cori si uniscono nel grido finale.

VENI, VENI, VENIAS (Coro doppio) Veni, veni, venias, veni, veni, venias, ne me mori facias. Hyrca, hyrce, nazaza, trillirivos. [Vieni, vieni, dai vieni, vieni, vieni, dai vieni, non lasciarmi morire. Hyrca, hyrce, nazaza, trillirivos.] Pulchra tibi facies, oculorum acies, capillorum series. [23]


o quam clara species rosa rubicundior, lilio candidior Omnibus formosior, semper in te glorior! [Bellissimo è il tuo volto, la luminosità dei tuoi occhi, i tuoi capelli intrecciati. O che meravigliosa creatura più rossa di una rosa, più bianca di un giglio. Più bella di qualsiasi altra, sempre mi glorio per te!]

VII. In Trutina (Sulla bilancia) Questo è forse il pezzo più poetico dei Carmina. L’orchestra accompagna il soprano (che canta nel registro timbrico del contralto) con gli archi in sordina e col timbro seducente del clarinetto basso. L’interludio viene affidato ai flauti accompagnati dalla discesa cromatica del I corno e dalle percussioni del timpano.

IN TRUTINA (Solo soprano) In truitina mentis dubia fluctuant contraria lascivus amor et pudicitia. Sed eligo quod video Collum iugo prebeo Ad iugum tamen suave transeo. [Nell’i e ta ila ia dei iei se ti e ti oscillano contrapposti amor lascivo e pudore. Ma io preferisco quello che vedo, e porgo il mio collo al giogo, e ad esso cedo ben soave.]

VIII. Tempus est iocundum (E’ tempo di gioia) L’orchestra,

la

ripetizione

sillabica,

l’accompagnato dei pianoforti riprendono il brano Veni, veni, venias, in modo che il brano precedente In trutina, cantato dal soprano, appare come un intermezzo. Il refrain, infantilmente giocoso, è eseguito alternativamente dal baritono solo e dal soprano solo assieme al coro delle voci bianche, poi infine da tutti.

TEMPUS EST IOCUNDUM (Soli soprano e baritono, coro e voci bianche) Tempus est iocundum, o virgines, modo congaudete vos iuvenes! Oh, oh, oh! Totus floreo iam amore virginali, totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. [24]


[Questo è il momento della gioia, o fanciulle, ritrovate il modo di gioire con i vostri amanti! Oh, oh, oh! Tutto sto fiorendo di virginale amore, ardo tutto, è novello, novello amore per il quale mi sento morire]. Mea me confortat promissio, mea me deportat refusio. Oh, oh, oh! Totus floreo iam amore virginali, totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. [Mi conforta la promessa, mi abbatte il rifiuto. Oh, oh, oh! Tutto sto fiorendo di virginale amore, ardo tutto, è novello, novello amore per il quale mi sento morire]. Tempore brumali vir patiens, Animo vernali lasciviens. Oh, oh, oh! Totus floreo iam amore virginali, totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. [In inverno l’uo o pazie te, lo spirito della primavera rende lascivi. Oh, oh, oh! Tutto sto fiorendo di virginale amore, ardo tutto, è novello, novello amore per il quale mi sento morire]. Mea mecum ludit virginitas, mea me detrudit simplicitas. Oh, oh, oh! Totus floreo iam amore virginali, totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. [Mi rende allegra la mia verginità, mi trattiene la mia semplicità. Oh, oh, oh! Tutto sto fiorendo di virginale amore, ardo tutto, è novello, novello amore per il quale mi sento morire]. Veni, domicella cum gaudio Veni, veni, pulchra, iam pereo. Oh, oh, oh! Totus floreo iam amore virginali, totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. [Vieni mia fanciulla con gioia, vieni, vieni bella, sto già morendo. Oh, oh, oh! Tutto sto fiorendo di virginale amore, ardo tutto, è novello, novello amore per il quale mi sento morire]. IX. DULCISSIME (Dolcissimo) Il soprano si esibisce in un’estatica ornamentazione su un testo ricavato da un’altra strofa di In trutina, di cui costituisce in qualche modo la prosecuzione. La sospensione su cui si ferma il soprano prepara l’entrata del Coro nel carme successivo.

DULCISSIME (soprano) Dulcissime, totam tibi subdo me. [25]


[A te, dolcissimo, tutta mi abbandono.]

Blanzifor et Helena X. Ave formosissima (Ave bellissima) L’invocazione a Venere evoca ricordi di liturgia cristiana e di litanie mariane. Il coro si esprime in maniera potente, accompagnato da tutta l’orchestra, in cui le frasi, come in un corale luterano, sono inframezzate da interludi strumentali, qui resi dagli archi. Alla fine si ripresenta il coro di apertura.

[Tiziano Vecellio: Venere allo specchio. National Gallery of Art di Washington. 1555]

AVE FORMOSISSIMA (Coro) Ave formosissima, gemma pretiosa, ave decus virginum, virgo gloriosa, ave mundi luminar, ave mundi rosa, Blanziflor et Helena, Venus generosa. [Ave bellissima, preziosa gemma, ave o perla delle vergini, vergine gloriosa, ave luce del mondo, ave rosa del mondo, Biancofiore ed Elena, nobile Venere.]

[26]


X. O Fortuna (O Sorte) Un colpo di martello del Fato interviene a questo punto inaspettato e ci riporta direttamente al punto di partenza, pronti per un nuovo e inesorabile giro della ruota della Fortuna. Il coro della Fortuna torna dopo la lunga celebrazione delle gioie terrene che costituisce la parte più ampia della composizione: ha un significato simbolico più che musicale, quasi che Orff volesse ricordarci l’instabilità della condizione umana.

Tutte le traduzioni in italino sono originali e di proprietà letteraria © di Giueppe Ragusa.

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 DISCOGRAFIA

Carl Orff: Carmina Burana Gundula Janowitz, Gerhard Stolze, Dietrich Fischer-Dieskau. Chor & Orchester der Deutschen Oper Berlin, dir. Eugen Jochum. Deutsche Grammophon In questa edizione del 1967 ci sono tutte le componenti fondamentali che caratterizzano la traduzione in musica dei Carmina burana come pensato da Carl Orff: potenza, ossessione ritmica, estasi religiose e sensazioni magiche contrapposte a momenti orgiastici e ad esaltazioni amorose, compostezza e umorismo. Al tempo della registrazione ebbe l’imprimatur dello stesso Orff. Queste emozioni sono assicurate grazie alle prestazioni sia dell’Orchestra e del Coro dell'Opera di Berlino, magnificamente guidati da Eugen Jochum, che dei solisti: Dietrich FischerDieskau, da grande interprete liederistico, sa dosare con grandi sfumature la classicità del canto e la pastosità del timbro, Gerhard Stolze è irresistibile protagonista di un memorabile e riuscitissimo "Olim lacus" nel falsettone che accompagna la sorte del povero cigno ormai arrostito, infine Gundula Janowitz dall'emissione sempre misurata ed elegante, anche se a volte appare un po’ gelida. Il canto è purtroppo guastato dalla pessima pronuncia latina sia del coro che dei solisti, spesso incomprensibile, fino a risultare quasi sgradevole; un direttore più attento all'aspetto testuale del brano l'avrebbe forse ammorbidita un po'. Jochum, direttore troppo spesso sottovalutato, produce una performance coraggiosa e incisiva. L'orchestra della Deutsche Oper supera se stessa in una esecuzione brillante, prestante e insieme riflessiva, con eccellente selettività dei singoli piani strumentali. L'incisione, anche se risalente alla fine degli anni '60, non mostra l'età ed è ancora la interpretazione più soddisfacente, coraggiosa e incisiva dell'opera attualmente disponibile. Va considerata l’indiscussa edizione di riferimento. Da notare dal punto di vista tecnico che l'attuale rimaster DG Originals è a livelli altissimi, anche meglio del precedente CD della DG Galleria. 

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Carl Orff: Carmina Burana Arleen Augér, Patrick Summers, John van Kesteren. Philharmonia Chorus & Orchestra, dir. Riccardo Muti. EMI Classics Questa registrazione di Riccardo Muti con la Philarmonia Orchestra, è brillante,

sul piano interpretativo infinitamente

interessante. Il ritmo è equilibrato, non troppo veloce ma anche non troppo lento, come le registrazioni curate personalmente da Orff. Il Coro è possente, il trio dei solisti è ad alto livello interpretativo. Disco bellissimo!



Carl Orff: Carmina Burana Sheila Armstrong, Gerald English, Thomas Allen. London Philharmonic Orchestra & Choir, dir. André Previn. EMI Classics Non è sicuramente la migliore interpretazione dei Carmina, ma si pone decisamente tra le incisioni più interessanti per drammaticità. «In taberna» è emozionante. La perfomance è bella, nitida e chiara, grazie al suono della London Symphony Orchestra, con la quale Previn ha lavorato molto. Questa è una registrazione analogica vecchia quasi 40 anni e, come per tutta la serie EMI, contiene quelle parole magiche: «Remastered at Abbey Road Studios».  Carl Orff: Carmina Burana Barbara Hendricks, Jeffrey Black, Michael Chance. London Philharmonic Orchestra & Choir, dir. Franz Welser-Mòst. Warren Classics [29]


La registrazione, del 1989, ci mostra uno splendido suono della London Philharmonic Orchestra molto ben diretta dall’austriaco Franz Welser-Möst. La performance mette in evidenza l'emozionante dramma dell'intera colonna sonora: i contrasti tra forte e morbido, il coro, le voci dei solisti, fanno di questo CD un’esperienza uditiva eccellente.

 Carl Orff: Carmina Burana June Anderson, Bernd Weil, Philip Creech. Chicago Symphony Orchestra & Chorus, dir. James Levine. Deutsche Grammophon Anche se l'interpretazione è appena un gradino inferiore a quella di Jochum, la precisione con cui si articola il coro (a parte il piccolissimo accento americano) rende ideale la registrazione. Il suono è potente, ricco di sfumature, l'effetto percussivo esce meravigliosamente. L’Orchestra offre una performance di altissimo livello, il suono è ben dettagliato e chiaro: non solo i leggendari ottoni, ma anche gli assoli di legno sono al loro meglio, e gli archi amano andare «in pieno» nei pezzi più rustici. Da ammirare la scelta dei tempi di Levine: la conclusione accelerante di «In taberna» è emozionante ed anche tecnicamente pulita. L'equilibrio tra coro, solisti, voci bianche e orchestra è perfetto. Ottimo il trio dei solisti. La qualità del suono è veramente di altissimo livello.  Carl Orff: Carmina Burana Lynne Dawson, John Daniecki, Kevin Mc Millan. San Francisco Symphony Orchestra & Chorus, dir. Herbert Blomsted. London Decca [30]


La versione di Herbert Blomstedt del maggio 1990 è caratterizzata dalla meticolosità della sua direzione e dal virtuosismo che egli esige e ottiene dalla compagine di

San Francisco: abbiamo qui una lettura

estremamente cesellata, con incredibile ricchezza e precisione di dettaglio. Questa interpretazione è una delle pochissime a rivelare i tanti ingredienti che si mescolano in questa improbabile cantata neo-medievale i cui impulsi primitivisti e i misteri perdurano ancor’oggi Il coro guidato da Vance George ha una velocità sorprendente nel canto dei brani brevi, ma sa anche come ottenere la potenza richiesta dagli effetti di massa corale. Le voci bianche sono anche perfette, e pronunciano il latino senza alcun accento.

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I grandi direttori del ‘900: Otto Klemperer  CENNI BIOGRAFICI Otto Klemperer nacque a Breslavia (Germania, l’attuale Wrocław, Polonia) il 14 maggio 1885. Nel 1905 avvenne l'incontro con Gustav Mahler, del quale divenne amico. Fu nominato direttore dell'Opera Tedesca a Praga nel 1907 proprio per una raccomandazione dell'amico compositore. In quegli anni fu anche assistente del compositore nelle prove delle sue ultime sinfonie. Dal 1927 fu direttore della Kroll-Oper di Berlino e poi dell'Opera di Stato della stessa città che abbandonò nel 1933, a causa delle leggi razziali promulgate da Hitler, per rifugiarsi negli USA dove, fino al 1939, fu direttore stabile della Philharmonic Orchestra di Los Angeles. Dopo la Seconda Guerra Mondiale tornò in Europa dove fu direttore dell'Opera di Budapest dal 1945 al 1950, poi dal 1954 diresse la Philharmonia Orchestra, dalla quale fu chiamato a sostituire Karajan, e nel 1959 vi fu nominato direttore a vita. Ieratico, impassibile nell'espressione, Klemperer negli ultimi anni dirigeva seduto a causa di una paralisi che lo aveva colpito nel 1939, in seguito ad un intervento chirurgico per un tumore al cervello. Morì a Zurigo il 6 Luglio 1973.

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 DISCOGRAFIA Klemperer è considerato tra i più grandi direttori d'orchestra del XX secolo: le dimensioni della sua visione interpretativa apollinea, l'approccio ad una lettura perentoria del testo musicale, una certa predilezione per il suono dei fiati sono stati i tratti distintivi della sua forte identità musicale. Il suo ricco lascito discografico resta di fondamentale importanza: le sue incisioni hanno fatto scuola e alcune di esse, pur se ormai lontane nel tempo, restano edizioni di riferimento. Essendosi ritirato nel 1971, le sue registrazioni più recenti sono anche di grande qualità tecnica.  Johann Sebastian Bach – St. Matthew Passion Peter Pears, Christa Ludwig, Dietrich Fischer-Dieskau, Elisabeth Schwarzkopf, Nicolai Gedda. Philharmonia Choir e Orchestra, dir. Otto Klemperer. Warner Classics

Otto Klemperer ha dato a questa maestosa opera un ritmo più lento rispetto ad altre performances, e questa interpretazione ha suscitato qualche riserva da parte di alcuni critici. In ogni caso, i solisti in questa registrazione sono perfetti, così come i pezzi corali. Buona la dinamica della registrazione.

 Johann Sebastian Bach – Mass in B minor Agnes Giebel, Janet Baker, Nicolai Gedda, Hermann Prey, Franz Crass. BBC Chorus. New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. EMI Classics Questa è una rimasterizzazione del 2002 della registrazione di Kingsway Hall del 1967. Si tratta di una registrazione classica ampiamente elogiata e acclamata dalla critica per l’eccezionale livello dei suoi interpreti. Agnes Giebel è stata la più grande cantante di Bach della sua generazione. Janet Baker era al top della sua forma e terribilmente brava nella sua interpretazione dell'Agnus Dei. Le due voci combinate [33]


per Christe Eleison sono notevoli. Nicolai Gedda aveva già cantato diversi anni prima con Karajan e aveva ricevuto molte lodi per la sua intelligenza musicale e la sua bella voce. Herman Prey e Franz Crass sono memorabili: basta ascoltare l'aria Quoniam tu anime Sanctus, e soprattutto Et in spiritum Sanctum Dominum. Infine anche il coro della BBC crea uno standard molto alto. La New Philharmonia era al suo apice intorno a questo periodo: suonano in organico ridotto e con strumenti moderni. La lettura di Klemperer porta tutto il mistero e la riverenza spirituale che Bach intendeva. La qualità di registrazione è buona.  The Beethove “y pho ies: ° E oi a Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer Warner Classics Questo SACD contiene la registrazione mono 1955 della Sinfonia n° 3 diretta da Klemperer, non la versione stereo del 1959 che EMI ha ristampato più spesso su CD. La prestazione del 1955 è superiore a quella del 1959, poiché nel 1959 le prestazioni di Klemperer erano diventate notevolmente più lente. Ascoltando questa performance si capisce perché Klemperer è spesso considerato uno dei grandi direttori d'orchestra del XX secolo La Philharmonia Orchestra è spettacolare. Il suono di questo SACD offre una maggiore chiarezza delle singole parti orchestrali, che è a tutto vantaggio per Klemperer, maestro nel bilanciamento delle diverse sezioni dell'orchestra. La registrazione è mono, ma i singoli strumenti (moderni) sono chiari. Insieme alla registrazione di Furtwängler, questa è da ritenere una delle migliori performances della Sinfonia n°3 di Beethoven.  Beethoven – “y pho y ° 6 Pasto al / Ouve tu es P o etheus, Co iola , Eg o t Birgit Nilsson (soprano). Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. Emi Classics

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Registrazione stereo del 1957. Otto Klemperer era avvezzo, nelle grandi opere orchestrali, ad adottare tempi prevalentemente moderati, esaltando comunque in modo ottimale tutte le sfumature dinamiche ed espressive degli allegri ma non troppo, degli andanti molto mossi, degli allegretti, senza mai trasformarli in qualcosa di più rapido o più lento del dovuto. E’ nata così una delle più perfette Pastorali della storia del disco, capace di restituirci in ogni minimo dettaglio tutto il respiro della natura e, insieme, delle architetture musicali. Completano l'album tre notissime ouvertures: Le creature di Prometeo (bellissima come suono ma innegabilmente un po' greve nei tempi), Coriolano (una delle letture più intense e concentrate che se ne conoscano) ed Egmont, tutte registrate nello stesso anno 1957.  Beethoven – Symphony n° 9 Aase Nordmond Lovberg, Christa Ludwig, Waldemar Kmentt, Hans Hotter Philharmonia Chorus & Orchestra, dir. Otto Klemperer Emi Studio L'interpretazione che Klemperer dà alla nona Sinfonia di Beethoven è caratterizzata da una forza emotiva, che si ritrova forse solo nella registrazione eseguita da Furtwaengler dal vivo nel '42, peraltro in tempi di ben maggiore sofferenza; la lettura di Klemperer è forte, aspra, compatta, fa risaltare la grandezza del genio tedesco, non ammette sfumature né indulge a facili sentimentalismi; é inoltre assecondata da una superba Philarmonia Orchestra e da eccellenti cantanti, fra cui in particolare Christa Ludwig e Hans Hotter. Tra le migliori registrazioni della Nona, assolutamente da avere!  Beethoven – The orchestral recordings: Symphonies & Ouvertures Philharmonia Orchestra, New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. Emi Classics Questo box della EMI contiene tutte le registrazioni beethoveniane di Klemperer, quindi spesso c'è più di una versione per alcune sinfonie, e questo è motivo di grande interesse per chi volesse [35]


conoscere profondamente la visione beethoveniana di questo direttore, perché, oltre a poter confrontare una interpretazione con l'altra, ci è data la possibilità di ascoltare alcune registrazioni ormai introvabili sul mercato ed uscite fuori dal catalogo della EMI da decenni o addirittura mai "digitalizzate" fino ad oggi! La tecnica di registrazione ed incisione in mono per alcuni CD (ma tutte e nove le sinfonie sono anche nella versione in stereo) è decorosa anche se non eccelsa.

 Beethoven – Piano Concertos 1-5 / Choral Fantasia Daniel Barenboim (pianoforte). John Aldis Choir. New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. Emi Classics Negli anni ‘60, dovendo aggiornare il proprio catalogo in vista dell'imminente bicentenario beethoveniano, la EMI decise di optare per la "linea verde", affidando l'incisione di sonate, concerti e musiche da camera con pianoforte a un pianista poco più che ventenne, classe 1942. Si trattò in parte di una scelta obbligata o quasi, visto che i mostri sacri del pianismo beethoveniano, come Kempff, Backhaus, Serkin, Gilels o Arrau, erano tutti saldamente sotto contratto con altre case discografiche; ma fu anche una scelta a ragion veduta, perché il giovane in questione era già a sua volta un mostro sacro: si chiamava Daniel Barenboim, era sulla breccia dall'età di dieci anni, ed aveva appena realizzato ad Abbey Road un'integrale dei concerti di Mozart che s'era immediatamente imposta come versione di riferimento, affiancando quella leggendaria di Anda. Nelle musiche da camera, lo affiancarono due coetanei, Jacqueline Du Pré (sua moglie, poi prematuramente annientata da una malattia spaventosa) e Pinchas Zukerman, mentre i concerti furono interpretati col direttore EMI per eccellenza, Otto Klemperer, classe 1884, alla guida della New Philharmonia. L'integrale si assicurò immediatamente un primato, quello del divario anagrafico fra solista e direttore: un record che sarebbe stato insidiato soltanto dallo stesso Barenboim quando pochi anni dopo, stavolta in veste di direttore, avrebbe inciso gli stessi concerti con Rubinstein, classe 1886. [36]


Sul piano interpretativo, comunque, il vecchio e il giovane si muovono in piena armonia e in perfetta sintonia con le rispettive letture delle sinfonie e delle sonate: briosa, leggera ed affascinante la lettura del giovane pianista, misurata, curata ed a tratti illuminante la direzione di Klemperer; ne risulta una concezione monumentale nelle grandi linee quanto incisiva nei dettagli, e poeticissima in certi momenti di espansione lirica del solista. A titolo di cronaca, Barenboim utilizza le cadenze originali di Beethoven, fatta eccezione per il primo tempo del concerto op. 15, dove ne inserisce una propria. Degna di menzione tra l'altro la Fantasia op. 80 (con il coro John Alldis), di cui incontriamo qui una delle interpretazioni più intense e architettonicamente solide. Per quel che riguarda l’orchestra, essa è degna di plauso non solo per le individualità che spiccano nelle varie parti dei concerti ma anche per la totale dedizione alla bacchetta di Klemperer che, anche in questa occasione, trova il modo di dare alle partiture che interpreta il proprio marchio personale. La EMI come al solito ci stupisce per la qualità del suono raggiunta all'epoca (gli anni '60) Un set di dischi che a parer mio rientrano tra i migliori mai incisi; per chi volesse arricchire la propria collezione discografica, altre straordinarie incisioni sono quelle di Leonard Bernstein e Krystian Zimerman, George Szell e Emil Gilels, Willhelm Furtwängler e Edwin Fischer.  Beethoven – The complete Symphonies e Piano Concertos 1-5 Daniel Barenboim (pianoforte) New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer Emi Classics

La EMI ha anche pubblicato nel 2000 un box di 9 CD comprendenti le registrazioni beethoveniane di Klemperer già commentate prima separatamente.

 Beethoven – Fidelio Christa Ludwig (Leonore), Jon Vickers Florestan), Gottlob Frick (Rocco). Philharmonia Chorus & Orchestra, dir. Otto Klemperer. Emi Classics [37]


Nonostante

la

registrazione

risalga

al

1962,

il

beethoveniano "Fidelio" diretto da Otto Klemperer si conferma

come

un'incisione

imprescindibile

per

conoscere questa stupenda opera. Negli anni si sono susseguite altre importanti incisioni (Bernstein, von Karajan e Abbado), ma questa resta la versione più ispirata nella discografia. Orchestra e coro sono superbi e diretti in modo esemplare, senza i benché minimi segni di senescenza del direttore. Il cast è leggendario: dolcissima la Leonore di Christa Ludwig, dotata di capacità attoriali oggi assai rare e perfetta nel gioioso duetto finale; solido, eroico, scintillante il tono del Florestan di Jon Vickers, che inchioda l'ascoltatore alla sedia, non solo nelle arie. Il resto del cast è ovviamente all'altezza con Gottlob Frick quale Rocco, la Hallstein e Unger quali Marzelline e Jaquino, nonché il perfido Pizzarro di Berry ed il Don Fernando di Crass. Infinite le lodi per la Philharmonia Orchestra, che risponde ottimamente alle indicazioni di Klemperer (la cui interpretazione potrà apparire ad alcuni un po' pesante se confrontata, ad esempio, con quella di Bernstein: personalmente, credo che per lo spirito del "Fidelio" i tempi di Klemperer siano giusti, anche perché improntati a non far mai passare in secondo piano il canto); il Philharmonia Chorus dona poi una delle versioni più belle del celebre "Coro dei prigionieri", e col sostegno dell'orchestra l'effetto è proprio quello di un raggio di sole che, lentamente, fenda le grate di una cella, portando con sé un respiro di libertà. Un Beethoven, questo, che grazie a Klemperer raggiunge vette altissime nel sentimento e nella musicalità, perciò consigliatissimo.  Beethoven – Missa Solemnis Elisabeth Soderström, Marga Hoffgen, Waldemar Kmennt, Martti Talvela. New Philharmonia Chorus & Orchestra, dir. Otto Klemperer. Emi Classics Klemperer è stato un direttore straordinario, che negli ultimi anni della sua lunga carriera, si è trovato a dirigere (e a incidere) la Philharmonia di Londra, la mitica orchestra messa su da Walter Legge per conto della EMI, subito dopo la seconda guerra mondiale. Kemplerer ha lasciato letture magistrali su molti compositori dell'area germanica del periodo classico e romantico e oltre, da Mozart fino a Mahler, ma soprattutto sono rimaste (giustamente) famose le incisioni delle opere di Beethoven: le nove sinfonie, i concerti per piano con Baremboim, il Fidelio e questa splendida Missa Solemnis. [38]


Quasi contemporanea all'incisione di Karajan, che pure disponeva di un cast vocale stellare e dei Berliner Philharmoniker, questa versione di Klemperer gli è superiore per la potenza interpretativa e quasi visionaria, al pari dell'ultima scrittura di Beethoven, potente e visionaria. Certamente sono molto belle da ascoltare sia la prima interpretazione di Karajan (che ha inciso molte volte questo capolavoro, ma con risultati inferiori alla prima del 1962), che la versione di Bernstein con il Concertgebow, così come quella di Giulini con la Philharmonia, quella di Solti con i Berliner e quella di Harnoncourt con la Chamber Orchestra of Europe, per quanto riguarda le interpretazioni tradizionali. Cosi come da ascoltare sono le interpretazioni di Gardiner e quella di Herreweghe, per le versioni "filologiche" su strumenti originali. Ma questa incisione di Klemperer, per me, rimane insuperata e batte tutte le altre per straordinaria capacità di mantenere altissima la tensione emotiva, dalla prima all'ultima nota. Grandissimi i cantanti solisti: il soprano Elisabeth Soderström, il contralto Marga Hoffgen, il tenore Waldemar Kmentt e il basso Martti Talvela. La registrazione è del 1965 ma è straordinaria per la spazialità e per la dinamica, e non teme confronti neppure con registrazioni odierne.  Brahms – Symphonies 1-4 / Haydn Variations / Alto Rhapsody / Academic Festival & Tragic Ouvertures Christa Ludwig (soprano). Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. EMI Classics Klemperer registrò il ciclo delle quattro sinfonie con rapidità irripetibile tra l'ottobre del 1956 e il marzo 1957 (stavolta in stereo). Nessun tempo letargico e pesante: tutte le sinfonie sono rese con suono compatto e denso. Ovunque si distingue un piglio eroico che sembra sia stato poi perduto nelle interpretazioni tardo-romantiche di Bernstein, von Karajan, Abbado e Chailly. Si avverte una partecipazione emotiva straordinaria, un controllo assoluto dell'orchestra e una tensione avvincente

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che rende indimenticabili certi finali (la Prima e la Quarta, per esempio, dove addirittura si accelera all'impazzata). Proprio la Quarta a mio parere è la più perfetta tra queste incisioni: la nota in levare che apre tutto non è mai stata tanto indugiante, sembra interminabile, come se vivessimo un attimo di sospensione sull'orlo di un baratro. Il secondo tempo procede metronomicamente eppure alla fine riesce dolcissimo lo stesso. Nell'irruente terzo compaiono sottolineature impreviste. La passacaglia finale è un capolavoro (Celibidache ne farà il fulcro della sua interpretazione). Se la Terza non mi sembra particolarmente interessante (vale comunque la pena di sentirla), sono meravigliosi e delicati gli archi della Seconda (molto amata dai critici) che rimangono il punto forte della Philharmonia per tutte le incisioni qui contenute. I legni sono i più penalizzati: il timbro sembra sempre piatto.  Brahms – Ein Deutsches Requiem Elisabeth Schwarzkopf (mezzosoprano), Dietrich Fischer-Dieskau (baritono) Philharmonia Chorus & Orchestra, dir. Otto Klemperer EMI Classics

Tra i critici e gli amanti della musica c'è consenso generale sul fatto che Otto Klemperer abbia condotto la più grande performance dell'Ein Deutsches Requiem di Johannes Brahms che l'opera corale abbia mai ricevuto. Rimane la registrazione di riferimento (1962). La voce celestiale di Elisabeth Schwarzkopf è semplicemente insuperabile, affiancata a quel genio canoro ed operistico che è stato Dietrich Fischer-Dieskau: il celebre "Ihr habt nun traurigkeit" è senza dubbio la vetta più alta di quest'opera, e certamente

una

delle

vette

interpretative

della

Schwarzkopf. Il Philharmonia Chorus è semplicemente eccezionale, così come l’Orchestra che emoziona. Buona la rimasterizzazione.  Bruckner – Symphonies 4-9 Philharmonia Orchestra, New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. EMI Classics

[40]

stessa


Klemperer, polacco di nascita ed ebreo, non poté purtroppo per lungo tempo esercitare la sua arte in Germania, ma la sua impostazione direttoriale è senz'altro di stampo teutonico, e si iscrive nella linea della gloriosa ars direttoriale tedesca. Invano si cercheranno qui le meraviglie sonore di un Karajan, la sottolineature spirituale e cattolica di uno Jochum, il fuoco ed il pathos di Furtwängler, ma la capacità di creare impressionanti masse di suono, che sembrano travolgere a tratti l'ascoltatore, ci permette di conoscere uno degli aspetti più evidenti della musica di Bruckner. E l'incipit della quarta, l'adagio della quinta e della settima, l'afflato mistico della nona, la coda dell'ottava, la bellezza anche di suono della sesta (della quale fu probabilmente il più autorevole interprete) permettono all'ascoltatore di capire perché questo cofanetto è così importante e direi fondamentale nella collezione di ogni bruckneriano che si rispetti. Infatti il ben noto rigore morale e l'ascetismo col quale Klemperer si avvicina a questi capolavori lo ritroveremo solo in Celibidache ed in Wand.  Gustav Mahler – “y pho y No. ‘esu e tio Elisabeth Schwarzkopf, Hilde Rössl-Majdan. Philharmonia Chorus & Orchestra, dir. Otto Klemperer. EMI Classics Anche se Mahler morì prima dell'era delle registrazioni, i tre direttori d'orchestra più strettamente associati alle interpretazioni della sua musica furono Bruno Walter, Otto Klemperer e Willem Mengelberg). Tutti e tre gli uomini conobbero Mahler, e tutti e tre sostenevano la sua musica. Walter lavorò come assistente di Mahler durante due periodi distinti, ad Amburgo e a Vienna: discutevano le composizioni mentre Mahler

le suonava al pianoforte. Walter ha anche

diretto le prime mondiali di Das Lied von der Erde (1911) e della sua Nona Sinfonia (1912), le ultime due opere composte dal Maestro boemo. Mahler era amico di Klemperer e volle aiutare il giovane allievo a conquistare le sue prime tappe professionali, a Praga (1907) e ad Amburgo (1910).

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Mengelberg è stato direttore dell'Amsterdam Concertgebouw Orchestra per cinquant'anni (18951945), e durante quel periodo diresse diversi festival in cui furono eseguite tutte le opere di Mahler. Invitò anche Mahler ad Amsterdam a dirigere le sue opere, e annotò le sue copie personali delle partiture, copiando come Mahler le interpretava. Nel 1917 Mengelberg diresse la Filarmonica di Vienna in alcune opere di Mahler: questi spettacoli ricevettero recensioni entusiastiche, e Alma, la vedova di Mahler, volle regalargli alcuni appunti personali di Mahler in segno di riconoscenza. La 2a Sinfonia di Mahler era uno dei pezzi più spesso eseguiti da Otto Klemperer: vi sono molte registrazioni, in studio con la Sinfonia di Vienna del 1951 e con la Philharmonia (1961-1962), e versioni live con la Concertgebouw Orchestra (1951) e l'Orchestra della Radio Bavarese (fine 1960). Questa registrazione risale tra la fine del 1961 e l'inizio del 1962. Si tratta di una performance spettacolare: le interpreti sono il soprano Elisabeth Schwarzkopf eil mezzo-soprano Hilde RösslMajdan, protagoniste di una prestazione canora stellare. La Philharmonia Orchestra presenta un suono pieno e splendidamente bilanciato con il coro e i solisti. Klemperer interpreta la sinfonia con un pathos drammatico e religioso-filosofico, che avvince emotivamente chi ascolta questa registrazione.  Gustav Mahler - Sinfonia n° 4 Elisabeth Schwarzkopf Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer EMI Classics Mahler nelle sue opere poteva raggiungere momenti di terrore o eccitazione alternati ad atti di innocenza quasi infantile, ma è nella 4a Sinfonia dove egli esalta il suo lato più gioioso. Sembra che i cieli siano per sempre limpidi in questa sinfonia, con solo una nuvola occasionale che oscura la scena. In poche parole, è la sua sinfonia più accessibile. Purtroppo è in questa sinfonia dove la felicità inonda la scena, Klemperer fatica a mostrare uno spirito brillante, troppo preso a dimostrare la grandezza di Mahler per divertirsi. 

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Otto Kle pe e Teat o dell Ope a di Budapest [43]


Gustav Mahler – Symphony n° 9 Richard Strauss – Metamorphes / Tod und Verklarung New Phllharmonia & Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. Emi Classics Questa è una grande lettura della Sinfonia n° 9 di Mahler L'interpretazione è ben lontana dalla bellezza del suono di Karajan nella sua registrazione live digitale del 1982 da Berlino o dalle letture fortemente emotive di Bernstein a New York, Berlino e Amsterdam. Klemperer tuttavia offre un’interpretazione chiara e ben delineata seguendo e sottolineando la forza architettonica della composizione. I tempi non si sentono mai troppo lenti, anche se la spaziosità di Klemperer genera molto lirismo, a partire dalla grande tenerezza delle pagine iniziali con le loro frasi liriche di violino che possono assumere molti contenuti emotivi diversi e sottili, dal calore amorevole alla disperazione. C'è anche molta atmosfera in tutte le marce funebri, dove vengono utilizzati arpa o timpani o contrabbasso e ottoni, a cui Klemperer, a un ritmo molto desolato, conferisce un profondo senso di sofferenza. Concludo con l'osservazione che, con Walter Legge, Klemperer aveva a disposizione la Philharmonia che a quel tempo era probabilmente la migliore orchestra del mondo, in più poteva godere della migliore tecnica di registrazione a disposizione dell'EMI in quell'epoca. Questa nuova rimasterizzazione è eccellente.  Gustav Mahler – Das Lied von der Erde Elisabeth Schwarzkopf, Fritz Wunderlich Philharmonia Chorus & Orchestra, dir. Otto Klemperer EMI Classics Das Lied von der Erde (Il canto della terra) è una raccolta di poesie di Li T'Ai Po ed altri poeti cinesi della dinastia Tang. Questa composizione di Mahler (la discussione se si tratti di una Sinfonia o piuttosto di un ciclo di lieder è tuttora aperta) è uno struggente commiato dal mondo, in chiave di trovata serenità Zen, opera di cui - poco prima di morire - il grande direttore d’orchestra Jascha Horenstein disse “una delle cose più tristi di [44]


lasciare il mondo è il non potere più ascoltare il Das Lied von der Erde”. Questa è l'unica versione in studio di Fritz Wunderlich di «Das Lied von der Erde». Fritz Wunderlich è ricordato non solo per le sue interpretazioni operistiche straordinarie ma anche per la sua grande capacità di interpretare il genere liederistico, soprattutto grazie alla splendida tecnica capace di colori e dinamiche impressionanti, sia nei punti forti per l'opera che nei punti più intimisti dei lieder. Purtroppo è morto tragicamente per un incidente a 36 anni di età: avrebbe potuto regalarci molte altre emozioni. Christa Ludwig è stata una grande interprete che, per circa un decennio, sembrava «possedere» questa parte di contralto (è presente nelle registrazioni guidate da grandi direttori quali Carlos Kleiber, Herbert von Karajan e Leonard Bernstein). E poi c'è Klemperer, un discepolo di Mahler, che ha eseguito una prima registrazione LP di «Das Lied von der Erde» da Vienna, e 15 anni dopo la ripropone con questa registrazione. Egli ha vissuto una vita di impegno per la musica di Mahler. E si vede.  Gustav Mahler – Symphonies 2,4,7& 9 / Das Lied von der Erde Elisabeth Schwarzkopf, Fritz Wunderlich. Philharmonia Orchestra / New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. EMI Classics Questo cofanetto è molto interessante perché contiene due incisioni che ho già trattato prima separatamente in altre incisioni singole: il Das Lied von der Erde, considerate tra le più autorevoli e meglio riuscite nella magistrale direzione di otto Klemperer, e la Sinfonia n° 2 considerata in questa esecuzione leggendaria. Bellissime inoltre le esecuzioni delle sinfonie 4, 7 e della 9, tuttora considerate di riferimento. Sono da considerare incisioni imperdibili (al pari di quelle di Bruno Walter con la Columbia e la New York Symphony Orchestra) in quanto rappresentano l'omaggio di un grande allievo verso un grandissimo maestro. Sia Klemperer che Walter sono stati amici e allievi del grande boemo, e avevano assistito, da giovani, alle esecuzioni delle opere di Mahler dirette dallo stesso Mahler. Ma tutto questo non basterebbe a rendere irrinunciabile l'ascolto di queste registrazioni, se non fosse per il fatto che Klemperer (e lo stesso vale per Walter) è stato un musicista sublime e un direttore d'orchestra straordinario! Klemperer ha avuto la fortuna rispetto a Walter di avere a sua disposizione un'orchestra formidabile, la Philarmonia di Londra (orchestra diretta in quegli stessi anni da direttori come Karajan e Giulini), che insieme a solisti d'eccezione (Schwarzkopf, Ludwig e [45]


Wunderlich) fanno sì che ancora oggi sia la seconda sinfonia, sia la quarta, sia i Das Lied von der Erde, siano il riferimento assoluto e ancora fra le tre più belle versioni mai realizzate. La qualità tecnica di ripresa del suono e di incisione della EMI è di gran lunga molto migliore di quella attuale: incisioni storiche con il vantaggio di un bel suono in stereofonia!  Mozart - Symphonies, Ouvertures, Serenades Philharmonia Orchestra – New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. EMI Classics (8 CD) Fra i grandi direttori della sua generazione - a parte Böhm, la cui integrale risale comunque a parecchi anni dopo - Klemperer è stato quello che ha avuto in repertorio il maggior numero di sinfonie mozartiane: ben undici, praticamente tutte le grandi, di alcune delle quali ci ha lasciato più incisioni. Tra i lavori giovanili mozartiani, il più congeniale a Klemperer è sicuramente la Sinfonia n° 29, al cui mondo incantato egli sa infondere un fraseggio ideale e una straordinaria luminosità, elargendoci una delle letture più fascinose che sia dato conoscerne, anche se a tratti certe sonorità appaiono troppo pastose e certi passaggi troppo vigorosi per la sottile delicatezza di questo sottile poema degli incanti adolescenziali. La sinfonia n° 31 “Paris” presenta tempi misurati che contribuiscono a mettere in risalto gli spettacolari crescendi del primo movimento e le sottili orditure contrappuntistiche del finale. Notevoli anche le nn. 33 e 34, dove i tempi relativamente moderati accentuano l'effetto dei crescendi; anche se bisogna riconoscere che in questi capolavori della prima maturità viennese, così come nella n° 25, la lettura di Böhm rimane probabilmente ineguagliata. Una lietissima sorpresa è la n° 36, scattante e trasparente, decisamente agli antipodi dello stereotipo di un Klemperer lento e pastoso (è anche una delle poche dove vengano realizzati quasi tutti i ritornelli). Uno degli esiti interpretativi di maggior rilievo deve sicuramente vedersi nella sinfonia n° 38, dove già la sonorità vellutata dell'accordo iniziale è sufficiente a preannunziarci che ci troviamo di fronte a una Praga inusuale, per così dire intima, fatta di screziature e di mezzetinte, viva e articolata in ogni dettaglio, agli antipodi di quella sinfonia monumentale tutta d'un pezzo che troppi interpreti anche illustri la condannano ad essere. [46]


Un'altra sinfonia la cui visuale interpretativa si fa conoscere sin dall'accordo iniziale è la n° 39, la più multiforme che Mozart abbia composta: qui tanto simile alla Praga per varietà e sottigliezza di sfumature quanto insolitamente divergente per clima espressivo, concepita com'è nel segno della pienezza sonora e di un energico e caloroso dinamismo cavalleresco che si comunica anche alle parti lente (si consideri la particolare fluidità che acquisisce l'adagio introduttivo, pur senza nulla perdere della sua grandiosità). Fortemente interiorizzata, e proprio per questo più intensa che mai, è la drammaticità della n° 40, felicissima nelle soluzioni timbriche e nella scelta dei tempi, che non sono né lenti come in Krips né frenetici come in Furtwängler: il punto di maggior concitazione, curiosamente, non viene toccato nel finale bensì nel minuetto (del resto, in Klemperer tutti i minuetti mozartiani si segnalano per dinamismo e senso dei contrasti, più che mai agli antipodi di quelli moderati e ariosi di Walter). La n° 41, la Jupiter, piuttosto moderata nei due primi movimenti, si fa più tesa ed animata, al solito, nel minuetto, per culminare in un finale che non potrebbe essere più trionfale, e che qui più che mai si fa percepire come autentico apogeo dell'avventura sinfonica mozartiana. L'album presenta diverse sinfonie in doppia versione, e comprende inoltre sei Ouvertures (tutte quelle delle grandi opere), l'Adagio e fuga in do minore, la Musica funebre massonica e perfino le cinque più celebri serenate, un genere in apparenza lontano dalla personalità austera che si è soliti accreditare a Klemperer. Va da sé che, fra di esse, offra i più interessanti spunti di ascolto la "Gran partita" per fiati K. 361, dove nelle forme della serenata si insinua spesso una sensibilità timbrica di stampo romantico, e che non a caso aveva già trovato un altro interprete d'eccezione in Furtwängler. Il suono è molto buono per il suo tempo.  Mozart - Così fan tutte Margaret Price, Yvonne Minton, Lucia Popp, Luigi Alva, Geraint Evans, Hans Sotin. John Alldis Choir. New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. Warner Classics Otto Klemperer non fallisce mai. Questa registrazione, che ha reso Margaret Price una stella, è magistrale, i tempi non troppo lenti. Klemperer interpreta l'opera sottolineando gli aspetti del cinismo

e

dell'amarezza

piuttosto

che

quelli

giocosi.

L'orchestra è compatta ma trasparente, i dettagli sbalzati in modo accuratissimo. Il significato del capolavoro mozartiano sono, secondo Klemperer, non il divertimento amoroso oppure

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lo scherzo, ma la considerazione rattristata delle mende, delle ambiguità e della poca consistenza dei sentimenti. La concertazione dei pezzi d'insieme è straordinariamente organica, i tempi sono distesi ma non eccessivamente lenti. Le voci femminili risultano straordinarie (una dolcissima Price e un'impetuosa Minton), mentre rilevante il contributo di Sotin, che cerca di alleggerire la sua poderosa voce di basso "wagneriano".  Mozart - Die Zauberflote Gundula Janowitz, Lucia Popp, Walter Berry, Nicolai Gedda, Gottlob Frick. Philharmonia Orchestra and Chorus, dir. Otto Klemperer. Warner Classics Nonostante i suoi anni (la registrazione è del 1965) questa performance rimane uno dei grandi classici della discografia: inquietante come il demonio, notturno come la più lunare pagina romantica... La direzione di Klemperer è un modello di stile personalissimo nel più perfetto equilibrio fra linguaggio settecentesco e turgore faustiano. La potenza granitica con cui si stagliano i primi due accordi orchestrali non promette nulla di conciliante, la folle corsa verso la morte di Don Giovanni viene ritratta con la lucidità e la pensosità tipiche di un Maestro afflitto da crisi depressive croniche. Quando un esecutore non ha paura di mettere a nudo il proprio vissuto ma riesce a trasfonderlo sublimandolo in una perfetta opera d'arte, ecco che la figura dell'interprete acquista tutta la propria importanza. “Beate le arti che non hanno bisogno di interpreti”, disse Arrigo Boito; sentendo questa esecuzione, sostenuta da un cast assolutamente perfetto non si rimpiange il fatto che ci siano stati esecutori capaci di fondersi con un'opera in modo così simbiotico, illuminandone l'aspetto più sfuggente e impalpabile: quello del dramma giocoso. In tutti i cantanti vi è ottima tecnica, immedesimazione e perfetta aderenza alla volontà di Klemperer. Il Tamino di Gedda, reso con musicalità e con una voce squillante e piena, la regina della notte di Lucia Popp, perfettamente musicale e dotata di buona precisione nelle arie molto difficili del personaggio, la verve di Berry e la sua teatralità , lo splendore vocale della Janowizt sono decisamente insuperabili. La Philharmonia di Londra a quel tempo era al livello delle migliori prestazioni che possa fare un'orchestra di rango mondiale. [48]


Unico neo la quasi totale assenza dei recitativi, che da un punto di vista filologico è un grosso errore, ma che sono molto meno importanti, anche drammaturgicamente, rispetto a quelli fondamentali, delle opere italiane di Da Ponte/Mozart, nelle quali il loro taglio impedirebbe una comprensione delle opere. Versioni alternative ce ne sono, anche se nessuna supera questa (al massimo gli si affianca): il Don Giovanni diretto da Walter, quello di Giulini, il live di Karajan, Fricsay... pochi altri, a dire la verità. La qualità di questa registrazione è veramente eccezionale, ha una ricchezza di tono incredibile.  Mozart - Don Giovanni Nicolai Ghiaurov, Christa Ludwig, Claire Watson, Mirella Freni, Nicolai Gedda. Walter Berry, Paolo Montorsolo, Franz Crass. New Philharmonia Orchestra and Chorus, dir. Otto Klemperer. EMI Classics Klemperer, all'età di 81 anni, registrò nel 1966 per la EMI questo capolavoro alla testa della New Philharmonia Orchestra e con un cast di primissima categoria. Una concertazione che rasenta la perfezione totale, una lettura analitica dello spartito come ben raramente si ascolta, un accompagnamento orchestrale raffinatissimo. L'insieme delle voci, scelto tra le migliori voci del tempo, fa di questo box di 4 CD un vero gioiello musicale. Come è noto, i tempi di Klemperer spesso sono ampi, dilatati tanto da sembrare a volte un poco pesanti, ma in questa registrazione tutto torna, alla perfezione, non si avverte mai un calo di tensione. Sottotitolo dell'opera è "dramma giocoso in due atti", ma nell'incisione di Klemperer di giocosità ce ne è veramente poca. La sua è una lettura di solida tradizione tedesca nella scia dei grandi maestri; già dalle prime note dell'ouverture, l'ascoltatore si vede scagliare addosso un "muro di suono" assolutamente impressionante, teso e drammatico. Nicolai Ghiaurov, basso di grandissima personalità e vocalità, è il Don Giovanni per antonomasia, da antologia per bellezza del timbro, potenza vocale, fascino ed adesione al ruolo: è sicuro di sè, fascinoso, esprime una personalità unica, come raramente udito. Strabilianti la serenata e l'aria dello champagne; il duetto con la Freni "Là ci darem la mano" non teme rivali. Walter Berry è un grande Leporello, nella sua migliore interpretazione, senza lasciarsi andare alle troppo spesso esibizioni caricaturali. Nicolai Gedda è un Don Ottavio di buona fattura. Mirella Freni è una Zerlina di grandissima levatura, dolce, raffinata, sensuale vicina ad un Masetto (Paolo Montarsolo) a volte [49]


caricaturale. E’ la migliore Zerlina ascoltata in disco e a teatro. Christa Ludwig delinea una Donna Elvira drammaticissima, il timbro è quello ideale, mentre la Donna Anna della Watson è leggermente sotto alla media. Franz Crass, con un formidabile pathos, esprime un Commendatore di ampiezza e tragicità. Grande Teatro, non solo opera, come raramente accade di poter ascoltare. E' un'edizione indispensabile, accanto a quella di un Don Giovanni d'antologia di Giulini (degli anni 50) e a quella di Abbado. Un'edizione ancora oggi di riferimento. Come corposo bonus, ci sono 59 minuti di registrazioni effettuate durante le prove, dove è possibile ascoltare il grandissimo direttore impartire le scelte esecutive.  Richard Wagner – Der Fliegende Hollander Theo Adam, Anja Silva, Martti Tarvela, Gerhard Unger, Ernst Kozub, Annelies Burmeister. BBC Chorus. New Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. Warner Classics Nonostante la ricca discografia di Der fliegende Hollaender, questa versione diretta da Klemperer nel 1968 rimane ai vertici di tale discografia. Grandiosa e severe, analitica e possente, la visione del direttore tedesco si attaglia perfettamente alle voci scultoree che costituiscono il cast. Anja Silja interpreta una Senta da antologia. L'olandese di Theo Adam è buono, ma non grande. Molto bello il suono della New Philharmonica, supportato da una registrazione assolutamente stupenda, con un eccellente suono stereo.

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Le Sinfonie di Gustav Mahler

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Gustav Mahler: Sinfonia n° 2 in do minore "Resurrezione" Mahler compose la sua Sinfonia n° 2 fra il 1887 e il 1894, quando era direttore del Teatro dell'Opera di Budapest e di Amburgo. La genesi complessa e tormentata della Seconda Sinfonia fu abbastanza simile a quella della Prima. L'attuale primo tempo della Sinfonia fu il primo ad essere composto nel 1888, in una veste musicale sostanzialmente analoga a quella attuale; per quanto in origine pensata come movimento iniziale di una Sinfonia, la pagina fu poi alla fine considerata finita e dotata di un titolo a sé stante, Totenfeier (Riti funebri), sull'esempio del poema sinfonico: l’eroe celebrato nel finale della Prima Sinfonia veniva ora accompagnato alla tomba. Questa composizione costituiva qualcosa di sostanzialmente inedito ed estraneo rispetto alla produzione contemporanea, tanto che Hans von Bülow, il grande pianista e direttore [nel riquadro], tenuto in somma considerazione da Mahler, espresse un giudizio fortemente negativo; questo parere di Bülow non fu senza conseguenze, tanto che Mahler accantonò la partitura, per riprenderla solamente nel 1893, quando scrisse altri tre movimenti. Mancava di comporre il 5° e ultimo movimento. Mahler intuiva che, in una sinfonia di grandi proporzioni, dopo l'impiego di un'orchestra colossale, spettasse alla "parola", alla parola redentrice, il compito di portare a compimento l'idea musicale, così come era stato per la Nona Sinfonia di Beethoven. La scelta del testo fu ispirata da una cerimonia commemorativa funebre per lo stesso Hans von Bülow, tenuta ad Amburgo il 29 marzo 1894, quando il coro intonò il corale Risorgere di Friedrich Gottlieb Klopstock: la scoperta fu decisiva per condurre in porto la Sinfonia che rischiava ormai di rimanere incompiuta e che proprio dal finale ha tratto il soprannome che spesso l'accompagna (Auferstehungssymphonie: Sinfonia della Resurrezione). Mahler stesso così descrisse quel momento di ispirazione: "Già da tempo riflettevo sull'idea di introdurre il coro nell'ultimo movimento e solo la preoccupazione che ciò potesse essere inteso come superficiale imitazione di Beethoven [Nona Sinfonia] mi faceva sempre esitare. Allora morì Bülow, e io assistetti alla cerimonia funebre in suo onore. Lo stato d'animo in cui mi trovavo stando là seduto e i pensieri che rivolgevo allo scomparso erano nello spirito del lavoro che portavo dentro di me. In quel momento il coro accompagnato dall'organo intonò il corale su testo di Klopstock 'Auferstehen!'. Mi colpì come una folgore e tutto apparve limpido e chiaro alla mia anima! Chi crea attende questo lampo, è questo il 'sacro concepimento'! L'esperienza che allora vissi dovetti crearla in suoni. Eppure, se non avessi già portato in me quell'opera, come avrei potuto vivere tale esperienza? [...] Così è sempre per me: soltanto se vivo un'esperienza, compongo, soltanto se compongo, la vivo!...". [52]


La prima esecuzione avvenne a Berlino, alla Singakademie am Unter den Linden, il 13 Dicembre 1895: in tale occasione, cedendo alle insistenze del giovane critico e compositore Max Maschalk, Mahler stese un programma propedeutico all'ascolto della 2a Sinfonia, che fu successivamente soppresso quando la sinfonia venne pubblicata.

 ASPETTI “ETICI” DELLA SINFONIA Si è detto che la 2a Sinfonia inizia là dove era terminata la 1a: essa doveva essere l'espressione di un percorso che portava dalle esequie dell’eroe alla Resurrezione, esplicitata attraverso l'intervento corale sul testo di Klopstock; il tutto sviluppato nella progressiva transizione di tre movimenti intermedi, incluso il desiderio di "ritornare a Dio".

 Il primo movimento (Totenfeier) è una riflessione sulla morte. Come Mahler ebbe a scrivere all’amico e critico Marschalk, è l'eroe della sua prima Sinfonia (il Titano) che lui porta alla tomba. Coloro che lo amarono, chini sulla bara, vengono assaliti da pensieri: «Che cos'è la vita? Cos'è la morte? Esiste per noi una continuazione nell'aldilà? Tutto ciò è solo un sogno disordinato, oppure vita e morte hanno un senso? E dobbiamo trovare una risposta a questa domanda se vogliamo continuare a vivere.» I «Riti funebri» appaiono, cosi, come un enorme e tragico canto di morte, pieno di dubbi, di angosce, di domande a cui sembra non esservi risposta. E quei violoncelli e contrabbassi, che, fortissimo, aprono il primo movimento,

volutamente

sbilanciati

nel

ritmo (come potrebbe l'angoscia essere formulata in maniera quadrata e serena?), riappariranno, più crudeli perché inaspettati, ogniqualvolta il canto sembrerà aprirsi a una speranza; riappariranno perché non v'è ancora risposta da dare sulla tomba dell'eroe. I successivi tre tempi sono concepiti come intermezzi, pause di riflessione, ricordi e sogni delle esperienze, liete e tristi, della vita passata del defunto.

 Nel secondo movimento Mahler descrive un momento felice della vita del defunto e fa rivivere il mesto ricordo della sua giovinezza e della sua innocenza perduta. Scriveva sempre a Marschalk: "Le sarà già accaduto di aver accompagnato alla tomba una persona cara, e poi forse sulla via del ritorno di vedersi improvvisamente davanti l'immagine di un'ora lontanissima di felicità, che si posa nell'anima come un raggio di sole, in nulla oscurato: quasi si potrebbe dimenticare ciò che è avvenuto! Questo è il secondo tempo.” Composto in forma di Laendler, è velato di profonda mestizia e, insieme, di ironia. Il canto popolare serve a sottolineare questo ripensare alla innocenza perduta: ascoltiamo il tema che, dopo essersi [53]


addentrato in un bosco fitto fitto di terzine, suonate progressivamente da tutta l'orchestra con lancinante intensità, riappare e rifiorisce ancora più semplicemente dell'inizio, pizzicato con commozione, quasi timidamente, dagli archi, mentre tra i fiati rispondono solo un ottavino ed un flauto, che suonano pianissimo per non turbare i ricordi del bambino divenuto adulto.

 Nel terzo movimento alla purezza originaria si sostituiscono l'incredulità e la ragione. E l'anima non può più appoggiarsi a nulla, per sostenersi: non alla fede, che non ha, non all'innocenza, che ha perduto. «Non spera in sé, e non spera in Dio», come scrive lo stesso Mahler. La vita, allora, appare priva di significato, un incubo spaventoso da cui scuotersi d'un tratto con un grido di raccapriccio. E sente il bisogno di urlare di disperazione in mezzo al caos.

 Il quarto movimento è la chiave di volta che collega il passato al futuro: la tenera cantilena del contralto solo "O rosellina rossa" e il canto “Luce primigenia” evocano una promessa di pace, una speranza di beatitudine. Ciò che separa la vita dalla morte è soltanto una lunga attesa. Nel quinto movimento Mahler si serve di un'ode di Klopstock, «Resurrezione», per ribadire che solo l'idea della resurrezione e della nuova vita poteva concludere una sinfonia iniziata con la morte.

Con questo Finale egli credette, attraverso l'idea della Resurrezione (intesa proprio nel senso cristiano della salvezza dalla morte e della conquista della vita immortale), di dare una risposta ai problemi e alle angosce che lo tormentavano. In realtà, Mahler continuerà a indagare, per tutta la

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vita, sul significato del dolore, della sofferenza, della morte; e tradurrà la sua ricerca in musica, morendo senza aver trovato la soluzione.

 ORGANICO ORCHESTRALE Di questa Sinfonia segnaliamo l’orchestra di notevolissime dimensioni, costituita da soprano, contralto, coro misto, 4 flauti (3 e 4 anche ottavino), 4 oboi (3 e 4 anche corno inglese), 3 clarinetti (3 anche clarinetto basso), 2 clarinetti piccoli, 4 fagotti (4 anche controfagotto), 10 corni (dal 7 al 10 anche "in lontananza"), 10 trombe (4 "in lontananza"), 4 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti, triangolo, 2 tam-tam, frusta, Glockenspiel, 3 campane, arpa, archi, organo.

 GUIDA ALL’ASCOLTO 1° Movimento. Allegro maestoso. Mit durchaus ernstem und feierlichem Ausdruck. (Allegro maestoso. Con espressione assolutamente seria e solenne). Un'atmosfera tragica, luttuosa, cadenzata al passo di una marcia funebre, pervade tutto il primo movimento. Lo introduce un tremolo di violini e viole in fortissimo, con suono aspro e tagliente, su cui scabri frammenti di violoncelli e contrabbassi sempre in fortissimo che percorrono tempestosamente la scala di do minore sembrano arrampicarsi verso qualcosa che li respinge e li fa ripiombare in basso con sordi tonfi. La cupa concitazione di questo inizio non dà origine a un tema vero e proprio, ma a una serie di incisi frantumati, carichi di energia disgregata. Una prima aggregazione di questo materiale si ha quando inizia la presentazione del primo tema, esposto dagli oboi e dal corno inglese. Si tratta però di un'aggregazione instabile, sottoposta a continua, irrequieta trasformazione, con una varietà cangiante di prospettive. Questa atmosfera cupa viene rischiarata da un secondo tema cantabile, affidato ai violini in pianissimo, che ben presto viene contrapposto al primo dando luogo ad uno svolgimento a caratteri tipicamente “romantici” di impetuosità e di appassionato vigore. Una dissolvenza in pianissimo segna la conclusione della prima sezione dello sviluppo, marcata dal ritorno in fortissimo dell'introduzione con le tormentose scalette degli archi. Un insistente ritmo di marcia avvia poi la seconda parte dello sviluppo, in cui, con crescendo ad ondate di concitatissimi impulsi ad agire, si consuma, tra irruzioni e crolli improvvisi, una sorta di catastrofe che spalanca abissi di terrore. La ripresa ha funzione di ricapitolazione e di epilogo. Essa procede nel segno di una maggiore concisione del materiale tematico e di una radicalizzazione dei contrasti, quasi un’eco di un processo che va esaurendosi: ne è suggello definitivo, dopo una reminiscenza idilliaca, la trasformazione di un accordo di do maggiore in minore, quasi fosse un velo funebre che avvolge il corpo dell'eroe.  [55]


2° Movimento. Andante moderato. Sehr gemächlich. (Andante moderato. Molto comodo) Prima dell’attacco del secondo movimento, Mahler prescriveva nella partitura uno stacco di almeno cinque minuti per segnare bene il polo negativo da cui risalire la china verso la risurrezione celebrata nel finale. Il secondo movimento è basato su un tema amabile, dalle movenze quasi schubertiane: la sfera in cui vive è quella della memoria, della rievocazione nostalgica di una felicità perduta eppure possibile, almeno nella dimensione irreale del sogno. Tutto si colora di tenerezza e di trasparenza, anche nella strumentazione sovente rarefatta, che giunge peraltro a momenti grandiosi e pieni di calore, in un meraviglioso equilibrio di piani sonori tra gli archi e i fiati. Formalmente si tratta di un Landler di neppur troppo nascoste reminiscenze classiche viennesi. 

3° Movimento. In ruhig fließender Bewegung (Con movimento tranquillo e scorrevole). Un aggressivo doppio colpo di timpano in fortissimo apre il terzo tempo, uno Scherzo, un brano agile e irrequieto. Anche qui, come aveva già fatto nella Prima Sinfonia, Mahler si serve di un Lied, la Des Antonius von Padua Fischpredigt (La predica ai pesci di Sant'Antonio da Padova), tratto da Des Knaben Wunderhon (Il corno meraviglio del fanciullo), una raccolta di poesie popolari tedesche. Nel Lied si immagina che Sant'Antonio, trovata vuota la chiesa dove doveva predicare, rivolga la sua predica ai pesci, che lo ascoltano con attenzione devota ma poi ritornano immediatamente ai loro comportamenti abituali: il flessibile e scorrevole fluire delle sestine di sedicesimi, che caratterizza quasi ininterrottamente lo svolgimento del pezzo, allude all'indaffarato affiorare e inabissarsi dei pesci attorno a Sant'Antonio predicatore. [Gi ola o Tessa i: La p edi a di “a t A to io ai pes i - Eremo del Noce, Camposampiero. 1335-1337.]

L'incessante movimento di sedicesimi, che Adorno paragonò al "corso del mondo", dà vita a varianti, sviluppi, apparizioni di nuove idee, precipizi e lacerazioni che rendono ancora più ossessiva l'inesorabile monotonia del ritmo, come in un caleidoscopio sempre uguale eppure sempre diverso. I personaggi di questa danza macabra, oltre al crepitare dei timpani e ai mulinelli dei violini, sono il chiocciare di clarinetti e oboi, l'ottuso rimbombo della grancassa e il tremolare delle bacchette di legno. Al clarinetto piccolo il compositore prescrive un passo mit Humor, dell'umorismo più nero [56]


e sarcastico che si possa immaginare; alla tromba, protagonista di un episodio di struggente mestizia, si accompagna l'irrompere di triviali disegni dei fiati con carattere di fanfara, come quello che corrisponde al "grido d'orrore" di cui parlava l'autore nei suoi commenti. Ogni volta che il discorso sembra assestarsi, ecco l'inabissarsi nella vertigine del vuoto che vuole spazzar via tutto, anche visivamente rappresentata da una ripetuta discesa cromatica a precipizio. Una luce appena più serena è diffusa dal Trio, sostenuto dai tocchi magici delle arpe, che nella descrizione di Mahler corrisponde alla scena immaginaria delle "figure danzanti in una sala da ballo ben illuminata", ma vista dal di fuori nell'oscurità. La ricapitolazione dello Scherzo condensa tutti i motivi principali in un fitto intreccio contrappuntistico, prima che una nuova esplosione riduca tutto il materiale in frantumi: da questo urto apocalittico si origina una melodia di corale dei corni e delle trombe che sarà sviluppata nel quinto movimento. La coda porta a conclusione il movimento rapidamente, sospendendolo su una sola nota di contrabbassi, arpe, tam-tam, corni e controfagotto dal timbro spettrale. 

4° Movimento. "Urlicht" (Luce primigenia) - Sehr feierlich, aber schlicht, Choralmässig (Molto solenne ma con semplicità, come un corale) Segue senza interruzione il quarto movimento. La voce di contralto, raddoppiata dagli archi, intona sommessa O Röschen roth! (O rosellina rossa!): O Röschen rot! Der Mensch liegt in größter Not! Der Mensch liegt in größter Pein! [O rossa rosellina! L'uomo è nella più grande miseria! L'uomo è nella più grande pena!] quindi si effonde un dolce corale di corni e trombe al cadere del quale al contralto è affidato il Lied Urlicht (Luce primordiale), che si basa su una breve poesia popolare (tratta sempre dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn):

Je lieber möcht' ich im Himmel sein. Da kam ich auf einen breiten Weg: Da kam ein Engelein und wollt' mich abweisen. Ach nein! Ich ließ mich nicht abweisen! [Preferirei essere in cielo. Allora ho preso una larga strada; allora è venuto un angioletto e mi voleva respingere. Oh no! Non mi sono lasciato respingere!] [57]


Ich bin von Gott und will wieder zu Gott! Der liebe Gott wird mir ein Lichtchen geben, Wird leuchten mir bis in das ewig selig Leben! [Io sono di Dio e a Dio voglio tornare! Il buon Dio mi darà un lumicino che mi farà luce fino all'eterna vita beata!] La prima strofa si uniforma all'andamento di Corale, mentre un andamento più libero e mosso, da racconto infantile, sostiene la seconda (Da kam ich aufeinen breiten Weg), impreziosita dalle terzine del clarinetto, dal timbro favoloso di arpa e Glockenspiel e dagli arabeschi del violino solo e dell'ottavino. E’ una delle melodie più abbandonate e distese che Mahler abbia creato ed esprime in modo perfetto il senso dei versi, che sono un’accorata invocazione dell’uomo a Dio. 

5° Movimento. Im Tempo des Scherzo. Wild herausfahrend. Allegro energico. Langsam. Misterioso. (Tempo di Scherzo. Selvaggiamente. Allegro energico. Lento. Misterioso) Il 5° movimento, vasto e complesso nella sua elaborata struttura, utilizza tutti gli strumenti del grandioso organico prescelto da Mahler. L’inizio è caratterizzato da un impeto selvaggio: una violenta scala ascendente dei bassi riporta di colpo al clima del primo tempo, ma a un grado ancora più ardente di temperatura. E’ un caos organizzato, tutto sussulti e deflagrazioni, solcato dal segnale dei corni che devono suonare fortissimo ma disposti il più lontano possibile. Ad esso segue un nobile Corale presentato in diversi registri strumentali. Ritornano quindi gli squilli possenti degli ottoni, poi poco per volta tutto si ricompone in un quadro di immota attesa. È il Giudizio Universale. Preceduta da un formidabile rullo delle percussioni, si scatena una nuova, selvaggia marcia che rielabora il tema del Corale Dies irae, evocando i "morti che si alzano e procedono in un corteo infinito". Quando le energie si placano, si distende Der grosse Appell (il grande Appello) di Klopstock, introdotto dai corni e da quattro trombe che suonano in direzioni diverse e fuori dall'orchestra, in lontananza, all'uso delle fanfare militari. Agli ottoni in lontananza rispondono prolungati ricami di flauto e ottavino, sotto i quali Mahler annota “wie eine Vogelstìmme” (come la voce di un uccello): sono i "suoni di natura" che si fanno udire nell'ora estrema, eco tremolante della vita terrena. Quando anche questa voce di natura si è spenta, attacca il coro a cappella in pianissimo, lento e misterioso, con un effetto di arcana, purissima suggestione emotiva. La distribuzione vocale va dal coro a cappella dell'inizio agli interventi solistici del contralto cui si aggiunge un soprano, fino alla massima espansione di coro e solisti insieme; la ripresa del coro "con la massima forza" e a piena

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orchestra conduce all'epilogo osannante, cui partecipano ora anche l'organo con il suo sonoro ripieno e tre campane dal suono grave e solenne.

(Coro e soprano). Aufersteh'n, ja aufersteh'n wirst du, mein Staub, nach kurzer Ruh! Unsterblich Leben! Unsterblich Leben wird Der dich rief, dir geben. Wieder aufzublüh'n wirst du gesät! Der Her der Ernte geht Und sammelt Garben Uns ein, die starben! [Risorgerai, si risorgerai, mia polvere, dopo un breve riposo! Vita immortale! Immortale vita ti darà colui che ti chiamò. Di nuovo sarai seme per rifiorire! Va il padrone del raccolto e raccoglie covoni di noi che morimmo!] (Contralto solo). O glaube, mein Herz, O glaube: es geht dir nichts verloren! Dein ist, dein, ja dein, was du gesehnt! Dein, was du geliebt, was du gestritten! [Credi, mio cuore, credi: nulla andrà perduto per te! Tuo è, tuo, sì tuo quello a cui anelavi! Tuo quello che hai amato, per cui hai lottato!] (Soprano solo). O glaube: du wardst nicht umsonst geboren! Hast nicht umsonst gelebt, gelitten! [Credi, non sei nato invano! Non invano hai vissuto, sofferto!] (Coro e contralto). Was entstanden ist, das muß vergehen! Was vergangen, aufersteh'n! Hör' auf zu beben! Bereite dich zu leben! [Ciò che è nato deve perire! Ciò che è passato risorgere! Smetti di tremare! Preparati a vivere!] (Soprano e contralto). O Schmerz! Du Alldurchdringer!

Dir bin ich entrungen! O Tod! Du Allbezwinger! Nun bist du bezwungen! Mit Flügeln die ich mir errungen. In Liebesstreben werd' ich entschweben Zum Licht zu dem kein Aug' gedrungen.

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[Dolore! Tu che tutto pervadi! io ti sono sfuggito! Morte! Tu che tutto soggioghi! Adesso sei tu soggiogata! Con le ali che mi sono conquistato in brama d'amore mi librerò nell'aria verso la luce che nessun occhio ha penetrato.] (Coro). Mit Flügeln die ich mir errungen, Werd ich entschweben! Aufersteh'n, ja aufersteh'n wirst du mein Herz, in einem Nu! Was du geschlagen Zu Gott wird es dich tragen! [Con le ali che mi sono conquistato, mi librerò nell'aria! Risorgerai, si risorgerai mio cuore, in un attimo! Quello per cui hai combattuto ti porterà a Dio!]

[Luca Signorelli: La resurrezione della carne Cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto. 1499-1502]

 DISCOGRAFIA Mahler – “i fo ia ° ‘esu e tio Emilia Cundari (soprano), Maureen Forrester (contralto). New York Philharmoniker Orchestra, dir. Bruno Walter. Sony Classical [60]


Considero con attenzione particolare le interpretazioni di Bruno Walter di tutte le Sinfonie di Mahler, poiché non solo ha incontrato e conversato con il compositore, ma ha anche lavorato con lui e discusso e condotto le sue opere. Walter capiva l'uomo e la sua musica, e credo sapesse cosa intendeva Mahler e come voleva che fossero presentati. In questo disco mi sento come se stessi ascoltando la più vicina realizzazione possibile del lavoro. Questa

registrazione

rimasterizzata

del

1958

è

perfetta

e

meravigliosa, e si adatta molto bene agli standard audio odierni. La registrazione è ben dettagliata, la gamma del suono è completa, senza compressioni dinamiche. La performance è indimenticabile, fra le migliori in assoluto. Il cast è di livello eccezionale. Da avere!



Gustav Mahler – “i fo ia ° ‘esu e tio Cheryl Studer (soprano), Waltraud Meier (contralto). Arnold Schoeneberg Chor. Wiener Philharmoniker Orchestra, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon Ascoltare una Sinfonia di Mahler è un'esperienza della mente e dell'anima. Quando il compositore boemo sceglie la morte e la resurrezione per il suo tema, ci proietta in un’esperienza indimenticabile: la tranquillità lascia il posto alla violenza, la bellezza cede al grottesco, l'oscurità si arrende alla luce. Amo

assolutamente

questa

registrazione

dei

Wiener

Philharmoniker diretti da Claudio Abbado. E’ stata registrata dal vivo, e non riesco a immaginare come deve essere stato essere spettatori di questa performance al Musikverein.

 Gustav Mahler – “i fo ia ° ‘esu e tio Anna Larsson (soprano), Eteri Gvazava (contralto). Orfeon Donostiarra. Lucerna Festival Orchestra, dir. Claudio Abbado. Euroarts (DVD) Claudio Abbado mostra in questo DVD la sua particolare affinità con il compositore che ha facilitato la transizione tra il tonalismo del XIX secolo e l'atonalismo del XX secolo. La sinfonia della Resurrezione è davvero un monumento musicale. Abbado ha una conoscenza intima della partitura, un'attenzione pittoricamente accurata ai dettagli e un impegno totale per il lavoro. Prendiamo

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per esempio, la bella parte del flauto appena prima che il coro si unisca,

la

sottigliezza

e

l'espressività

dello

strumento

è

semplicemente rivelatoria, e ogni altro strumento e cantante fa lo stesso! Anche il basso e le percussioni hanno un grande carattere. Indimenticabile l'apoteosi finale con gli strumenti di ottone che si aprono, l’interpretazione più esaltante dell'inno finale che io abbia mai sentito: Abbado apre le braccia, giubilante ed esausto, condividendo con i suoi musicisti eccezionali tutto il suo amore per la musica e per la vita. Questo è l'opposto polare della lettura estremamente trascendente e incredibilmente lenta di Bernstein con il NYPO sulla DG ed è stupefacente possa amarli entrambi. Anna Larsson e Eteri Gvazava contribuiscono con il loro canto profondamente commovente e sentito a dare luce a questo spettacolo. L'Orfeon Donostiarra, un coro basco, consegna alla storia alcuni dei migliori canti corali che si possano mai sentire nell’interpretazione di questo brano. I bassi, soprattutto, sono eccezionali. La Lucerna Festival Orchestra offre una sontuosa e splendida esibizione dal vivo: ogni frase e ogni battuta viene suonata con il massimo impegno e musicalità. Gli applausi alla fine della performance sono grandiosi. Tecnicamente, un superbo trasferimento audio e video.

Esiste anche la versione in CD della stessa esecuzione, La registrazione è ricca e chiara con un equilibrio naturale, generosa gamma dinamica e un buon senso dell'atmosfera dal vivo In più, ad arricchire il CD, una altrettanta sontuosa performance della La Mer di Debussy con la stessa orchestra, che riesce a trasmettere con incredibile veridicità la sensazione degli schizzi sinfonici di Debussy: una registrazione frizzante, tumultuosa e potente come il mare stesso. Una registrazione con livelli perfetti e pulizia del suono quasi come fosse da studio e non una presa dal vivo. CD onsigliatissimo!

 Mahler – “i fo ia ° ‘esu e tio / Sinfonia n° 8 (1a parte) / Sinfonia n° 5 (Adagietto) New York Philharmonic, dir. Leonard Bernstein. Sony Classics (Bernstein Century)

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Quasi tutti i critici musicali pensano che tra i direttori del XX secolo è stato Leonard Bernstein a diventare la forza trainante per affrontare con efficacia la musica sinfonica di Mahler. Registrata nel settembre 1963, viene da molti considerata la migliore edizione della 2° sinfonia mahleriana, anche se i tempi possono talvolta sembrare eccessivamente ampi. Si tratta di una struttura massiccia che comprende tragedia, nostalgia, accenni di redenzione a venire, e a volte, orrore selvaggio. Nel movimento finale, Bernstein è splendidamente apocalittico. La prestazione orchestrale del NYPO è di livello molto alto, e anche la qualità del suono è altrettanto elevata. Nel complesso, una performance davvero impressionante. Il set di 2 CD è completato con 2 brani di importanza storica, l’Adagietto della 5° Sinfonia di Mahler (8 giugno 1968, alla Messa funebre per Robert Kennedy), e il primo movimento della Sinfonia n° 8, per l'apertura di Avery Fisher Hall (23 settembre 1962). Jackie Kennedy scrisse a Bernstein dopo l'esecuzione dell’Adagietto: “Quando il tuo Mahler ha iniziato a riempirsi (ma che è la parola sbagliata - perché era più presente, tremante, sensibile) del Duomo di oggi, ho pensato che era la più bella musica che avessi mai sentito.”  Gustav Mahler – Symphony n° 2 ‘esu e tio Elisabeth Schwarzkopf (soprano), Hilde Rössl-Majdan (contralto). Philharmonia Chorus & Orchestra, dir. Otto Klemperer. EMI Classics

La 2a Sinfonia di Mahler era uno dei pezzi più spesso eseguiti da Otto Klemperer: vi sono molte registrazioni, in studio con la Sinfonia di Vienna del 1951 e con la Philharmonia (1961-1962), e versioni live con la Concertgebouw Orchestra (1951) e l'Orchestra della Radio Bavarese (fine 1960). Questa registrazione risale tra la fine del 1961 e l'inizio del 1962. Si tratta di una performance spettacolare: le interpreti sono il soprano Elisabeth Schwarzkopf eil mezzo-soprano Hilde RösslMajdan, protagoniste di una prestazione canora stellare.

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La Philharmonia Orchestra presenta un suono pieno e splendidamente bilanciato con il coro e i solisti. Klemperer interpreta la sinfonia con un pathos drammatico e religioso-filosofico, che avvince emotivamente chi ascolta questa registrazione.  Gustav Mahler – Symphony n° ‘esu e tio Yvonne Kenny (soprano), Jard Van Nes (contralto). London Symphony Orchestra e Choir, dir. Klaus Tennsted. Sony Classical Questa è una stupenda, profondamente commovente e assolutamente bellissima performance catturata dal vivo dalla BBC. Tennstedt rende il primo movimento totalmente bello, il fraseggio è fuori dal mondo e sembra totalmente "giusto". Usa molto rallentando, in modo molto flessibile e mai sdolcinato, come talvolta lo è Bernstein. Nel terzo movimento l'atmosfera è bellissima, inquietante, energizzante e snervante allo stesso tempo, Tennsted lo trasforma nella transizione più logica dalla bellezza solare dei primi due movimenti verso la turbolenza dell'apocalisse in avvicinamento e la risurrezione. Nel movimento finale c'è un'orchestra piena che si precipita su un climax di ottoni e tamburi emozionante, cominciando in un pianissimo appena percettibile e crescendo in un diluvio travolgente di suono perfettamente accordato. Gigantesco! Anche il primo ingresso del coro è abbastanza sorprendente in questo modo. Molto silenzioso, come se gli angeli fossero ancora lontani nel cielo cantando, avvicinandosi gradualmente. La prospettiva uditiva è quasi perfetta. Raggiunto perfettamente l'equilibrio tra coro, solisti, archi, ottoni e fiati. Yvonne Kenny e Jard Van Nes sono splendidi, il modo in cui Kenny esprime le sue prime battute è straordinariamente bello. La reazione finale del pubblico alla fine è esplosiva e gratificante. Se sei un Mahleriano e non hai questa registrazione, devi assolutamente rimediare!  Gustav Mahler – Symphony n° ‘esu e tio Emikp Suga (soprano), Nathalie Stutzmann (contralto). Shinyukai Choir. Sato Kinen Orchestra, dir. Seiji Oawa. Sony Classical Questa è senza dubbio una grande interpretazione, presa da un concerto dal vivo splendidamente registrata. [64]


Grazie alla guida del maestro Seiji Ozawa, la Saito Kinen Orchestra è attualmente da annoverarsi tra le migliori 20 orchestre del mondo. La performance è fresca, lucida, potente e virtuosa, risplende con le estreme dinamiche di Mahler e i drammatici cambiamenti di tempo, e il risultato è una resa terrificante di questa musica fortemente evocativa.

 Gustav Mahler – Symphony n° 2 ‘esu e tio Edith Mathis (soprano), Norma Procter (contalto). Coro & Orchestra Sinfonica della Radio bavarese, dir. Rafael Kubelik. Deutsche Grammophon Questa registrazione con il Coro della Radio Bavarese e l'Orchestra Sinfonica sotto la direzione di Rafael Kubelik merita una particolare attenzione per molti pregi che contiene. Le due soliste, Edith Mathis e Norma Procter, cantano con molta delicatezza e armonia. Il grande coro raggiunge il massimo della chiarezza testuale attraverso un'intonazione impeccabile. L'orchestra, sotto la direzione di Kubelik, raggiunge una interpretazione straordinariamente potente. La performance di tutti i protagonisti ripercorre in modo impressionante il desiderio inquieto di salvezza e la profonda pace che deriva dalla Resurrezione, concludendo con un finale davvero travolgente.

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Musica classica e Cinema: “Platoon”, di Oliver Stone “Tra noi circola il sospetto e l'odio. Non riesco a credere che combattiamo tra di noi quando dovremmo combattere contro i Viet-Cong. Non c'è molto altro da dire. Spero che voi stiate bene, nonna. Di' a mamma e papà che io... Be', digli qualcosa. Chris.” “Platoon” è un film del 1986, diretto da Oliver Stone che tratta della sua permanenza in Vietnam come volontario durante la guerra ed è ispirato alle reali esperienze vissute dal regista nel 1967-1968.

Trama del film. Il protagonista principale è Chris, un giovane americano che parte volontario per la guerra del Vietnam non trovando giusto che tocchi sempre agli uomini più poveri e alle minoranze di colore rischiare la vita per la patria. Capitato in un plotone disumanizzato dall'esperienza brutale della guerra nella giungla, in breve tempo verrà spietatamente iniziato alle esigenze di quella vita violenta, incluso l'uso della droga per difendersi dalla nostalgia ed esorcizzare la paura. Durante una ricognizione nella giungla, il disumano sergente Barnes, che comanda il plotone, scopre un villaggio abitato e ne decide il massacro e la distruzione. La strage è violentemente esecrata dal sergente Elias, che aggredisce Barnes e gli assicura un rapporto ai superiori sulle atrocità da lui commesse. Sconvolto dagli orrori del massacro cui ha assistito, Chris si trova in marcia col plotone per un'azione contro un bunker dei vietcong, sotto una pioggia torrenziale. Per l'errore del tenente Wolfe che dà coordinate sbagliate, il plotone viene falcidiato dall'artiglieria amica. Mentre Chris porta in salvo i feriti, Barnes incontra Elias isolato nella giungla e lo colpisce per vendetta. Dall'alto dell'elicottero di soccorso, Chris e i sopravvissuti scorgono inorriditi Elias ferito, in fuga davanti ai vietcong, che lo uccidono successivamente. Nell'ultima azione di guerra della sua ferma di volontario, scampato a un micidiale agguato dei vietcong che hanno completamente annientato il plotone, Chris, imbattendosi nello spietato Barnes, che ferito tenta di mettersi in salvo, lo uccide con lucida determinazione. 

La musica. Il compositore statunitense Samuel Barber non immaginava che il suo Adagio per archi sarebbe diventato un’icona della malinconia, della tristezza, delle battaglie contro ogni forma di violenza e terrorismo. E non avrebbe mai saputo (è morto nel 1981) che il suo Adagio sarebbe stato usato da Oliver Stone nel 1986 per il film Platoon, che denunciava la “sporca guerra” del Vietnam, con la funzione di sottolineare i momenti più forti e tragici della pellicola. [66]


L’Adagio è un arrangiamento dello stesso Barber di un movimento del suo Quartetto per archi op. 11, composto nel 1936; nella sua versione originale, esso segue e fa da contrasto ad un primo movimento decisamente violento, ed è a sua volta immediatamente seguito da una breve ripresa del materiale nel primo movimento. L'Adagio per orchestra d'archi venne eseguito per la prima volta nel maggio 1938, in una trasmissione radiofonica da uno studio di New York, dalla NBC Symphony Orchestra diretta da Arturo Toscanini. Nel 1968 Barber trascrisse il pezzo per coro ad otto voci, abbinandogli il testo dell'Agnus Dei. Una curiosità: il brano venne eseguito durante il funerale di Albert Einstein e John Fitzgerald Kennedy, oltre che ai funerali di Grace Kelly e di Ranieri III, Principe di Monaco. Contrariamente a quanto si scrive, l'Adagio per archi non fu suonato ai funerali di Franklin Delano Roosevelt, ma fu diffuso via radio all'annuncio della sua morte. ♫♫ La musica si apre in maniera solenne con la breve cellula melodica enunciata dal primo violino nelle prime quattro battute. La progressione lenta e apparentemente inesorabile del brano alimenta un senso di tensione nell’ascoltatore che cresce con l’incedere lento ma regolare della battute. Di volta in volta è uno strumento diverso a portare avanti il tema: primo violino nella prima battuta, viola nella quattordicesima e infine violoncello nella ventottesima. Nella parte centrale del movimento si ha una ripetizione degli stessi suoni, a crescente intensità per creare un effetto di progressione che potenzia l'espressività. Stavolta però l’ordine degli strumenti è al contrario: si parte dal registro basso del violoncello, accompagnato dal crescendo degli altri strumenti; gli subentra la viola, che riprende il tema e, dopo due battute, cede nuovamente il testimone al violoncello. Questa volta però lo affianca il primo violino, che prende la melodia, rinforzata in modo molto accentuato. Dopo una brevissima pausa che crea un’atmosfera che si volge di nuovo verso la rassegnazione, il movimento si chiude di nuovo, concludendo una struttura circolare che ha fatto parlare i critici di brano “in forma d’arco”. Una curiosità: il primo film ad utilizzare questo brano è stato The Elephant Man (1980), diretto da David Lynch: fu aggiunto in coda al film per aumentare l'emotività della pellicola. L’esecuzione del brano nella colonna sonora del film è di The Vancouver Symphony Orchestra, diretta da Georges Delerue.

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L’Organaria, l’arte di costruire l’organo di Paolo Duprè

(Con questo articolo il Mo Paolo Duprè inizia la collaborazione con la Rivista. Medico e musicista concertista, ha conseguito il Diploma in organo e composizione organistica al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia.) Il mondo della musica d’organo si sviluppa di pari passo con quello dell’arte costruttiva di questo strumento, arte che va sotto il nome di “organaria”. Quest’ultima inquadra le raffinate tecniche costruttive di quella complessa macchina quale è l’organo musicale. Schematicamente non si tratta altro che di una scatola contenente aria sotto pressione con numerosi fori nella faccia superiore, apribili a comando, entro i quali sono infilati tanti flauti in grado di emettere ciascuno un suono di differente altezza. Idea geniale di un ingegnere alessandrino vissuto oltre 200 anni prima di Cristo che fu sviluppata nelle epoche successive, con un impulso incredibile a partire soprattutto dal XV secolo. Lo strumento crescerà per diffusione e ricercatezza costruttiva, stimolando via via la ricerca di artigiani, ingegneri meccanici, elettronici, fisici ed architetti. Come accennato l’invenzione dell’organo viene tradizionalmente ricondotta a Ctesibio di Alessandria vissuto nel III secolo a.C. Impiegato nella civiltà romana e in quella bizantina per celebrare festività pubbliche, cambiò destinazione quando nel 757 l’imperatore di Bisanzio, Costantino Copronimo, ne donò uno a Pipino il Breve, il quale lo collocò in una chiesa a Compiègne, in Francia. In questo periodo storico iniziò la rapida diffusione dello strumento nei luoghi di culto cristiani. Iniziarono così le modifiche importanti dello strumento tra le quali ricordiamo la sostituzione dell’alimentazione ad acqua con quella ad aria tramite mantici iniziando ad essere adoperato in tutte le chiese d’Occidente come strumento liturgico.

In seguito, a partire dal XVII secolo vennero effettuati altri importanti interventi nella meccanica: vennero arricchiti i timbri sonori, poi disposti in differenti blocchi, ed il loro sempre maggior numero [68]


costrinse a comandarli con più tastiere ed anche una pedaliera. Quest’ultima è a tutti gli effetti una tastiera, azionata da entrambi i piedi, in grado di produrre oltre 30 note, di frequenza generalmente più grave rispetto a quelle della tastiera. Soprattutto in Germania ne furono fabbricate molte con ulteriore spazio fra i vari pedali, per consentire all’organista di suonare non solo note lunghe, ma anche di adattarsi ad ogni necessità di esecuzione. Grazie all’inserimento della pedaliera con caratteristiche sempre più avanzate, compositori tedeschi come Johann Sebastian Bach consentirono alla musica polifonica di raggiungere i massimi livelli. La tastiera fu progressivamente sviluppata fino a oltre ottave ed i tasti assunsero la forma utilizzata ancora oggi. Nel XIX secolo furono introdotti anche nuovi “registri” (effetti sonori prodotti da una fila di canne aventi lo stesso timbro) in particolare quelli violeggianti. I registri, venivano azionati attraverso dei comandi (tiranti in legno) usati dall’organista per miscelare gli effetti sonori dello strumento in base alla tipologia dei brani da eseguire. Tra le recenti modifiche dello strumento è opportuno ricordare quella relativa al funzionamento dei mantici e della meccanica di trasmissione per l’apertura delle valvole delle canne. Dal Medioevo fino alla fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, i mantici furono attivati manualmente da persone impiegate esclusivamente allo svolgimento di questa funzione come si può osservare nell’immagine in basso.

L’organo meccanico possedeva tastiere, pedaliere e canne unite in un corpo unico. L’ingresso dell’aria per generare il suono all’interno delle canne avveniva per trasmissione meccanica cioè azionando un sistema di ingranaggi costituiti da asticelle di legno e parti di metallo collegate ad ogni singolo tasto delle tastiere e della pedaliera. Alla fine dell’800 i mantici poterono essere attivati con un nuovo sistema di trasmissione, pneumatico adoperato ancora oggi in moltissimi organi. Finalmente nel XX secolo si arrivò alla trasmissione elettrica e quindi elettronica. Le valvole di apertura dell’aria poste sotto la canna erano [69]


ora elettrovalvole, e questo cambiò la morfologia dello strumento separando la cassa armonica contenente i vari gruppi di canne, dalla consolle rendendone più semplice lo spostamento all’interno delle chiese e degli auditorium. A questo punto torniamo ad immaginare una scatola piatta ed allungata, divisa in compartimenti interni longitudinali, ciascuno con tanti fori quante le canne appartenenti ad una determinata famiglia. La scatola è definita somiere [foto sotto] ed i compartimenti: registri. Quando aziono un registro (manualmente od elettricamente) faccio entrare aria dentro al compartimento relativo e qualora prema un tasto ottengo la fuoriuscita d’aria attraverso la canna.

Senza entrare nel dettaglio, l’organista accende lo strumento mettendo in funzione il mantice; inserirà quindi il registro o i registri che danno aria alle canne con i timbri adatti al brano da eseguire ed infine premendo i tasti ed i pedali, aprirà, meccanicamente od elettricamente, le valvole delle rispettive canne, generando il suono.

Tornando al timbro, possiamo raggruppare le canne in due grandi famiglie: quelle ad anima (registri di principale, di flauto e violeggianti) e quelle ad ancia (trombe, clarinetti, oboi, cromorni). [70]


Inoltre per frequenza sonora la gamma è vastissima, superiore ad ogni altro strumento: da pochi Hertz (canne grosse ed alte, fino a 10 mt, generalmente in legno) fino al oltre i 10.000 Hz (canne di pochi cm). Altra particolarità, tipica dell’organo, è quella di arricchire la timbrica con canne che anziché generale la nota fondamentale producono la quinta o la terza superiore (es. premo il tasto relativo ad un Do ma ottengo un Sol o un Mi). Le sonorità cosi ottenute, sempre affiancate al suono fondamentale, danno un effetto riempitivo unico nel genere (ripieno) o dei timbri solistici nasali altrettanto originali (cornetti, nazardi, terze.)

[Trasmissione meccanica. Consolle dell organo della Chiesa di Jørlunde]

[O ga o dell A

azia di Wei ga te ]

Accennavo alla trasmissione meccanica: premendo un tasto apro la valvola sotto la canna che è raggiunta, specie se posta molto distante dalla tastiera, tramite un complesso e preciso sistema di leve e rimandi. Pensiamo agli imponenti organi tedeschi o francesi del ‘700

ed

necessaria

immaginiamo per

alla

costruire

perizia

leve

e

artigianale tiranti

che

raggiungessero somieri di lato, o dietro molti metri più in alto rispetto la tastiera. Guardiamo ad esempio lo strumento dell’Abbazia di Weingarten in [71]


Baviera: canne ovunque in controfacciata! Ecco dunque la comodità della trasmissione pneumatica di cui vediamo un esempio nella figura accanto, e più ancora della trasmissione elettrica od elettronica: poter raggiungere corpi sonori molto lontani dalla tastiera. I difetti di queste ultime trasmissioni sono l’assoluta mancanza di “tocco” della tastiera (il cosiddetto transitorio d’attacco del suono) e il rischio che il suono arrivi in ritardo alle orecchie dell’esecutore rendendo difficoltosa l’esecuzione. Ho accennato alle caratteristiche costruttive, ai corpi sonori, ai tipi di trasmissioni ed ai vari timbri. Tutto questo è variamente rappresentato nelle differenti scuole nazionali: distingueremo pertanto fra l’organo tedesco, l’italiano, il francese, ma ancora il rinascimentale, il barocco, il romantico. I compositori hanno scritto pertanto secondo il gusto della loro epoca ma anche lo strumento di quell’epoca! Ecco dunque un repertorio adatto al piccolo Callido rappresentato a fianco, così come un Bach verrà meglio eseguito in uno strumento quale il Gabler di Weingarten, ecc.

[L'organo Gaetano Callido (1774), Chiesa S. Venanzo in Albacina (Fabriano)]

Al giorno d’oggi si continua a costruire con le migliori tecnologie ma sempre guardando al passato a meno che non si faccia la pazzia (ma è veramente una pazzia?) di considerare la tecnologia virtuale. A partire dagli anni 80 del secolo scorso fu possibile realizzare un suono non a partire da una costruzione artificiale ma al contrario dalla registrazione di un suono reale chiamato “campione” dal quale si potevano artificialmente ottenere altri suoni simili. Disponendo ora di computer potentissimi si possono riprodurre perfettamente “tutti” i suoni registrati da ogni canna di uno strumento reale e riprodurli all’istante, suonando un tasto od un pedale. Si procede pertanto come segue: tutte le canne di uno strumento storico, e vengono scelti via via organi di varie epoche e nazionalità, vengono registrate digitalmente. I files ottenuti sono raccolti e riproposti con l’ausilio di un particolare software. Caricando in un potente computer questi files e questo programma, con opportuna interfaccia, si ordina al computer tramite i tasti e la pedaliera di emettere i suoni relativi, che vengono inviati a diffusori acustici tramite scheda audio. Quanto più precisa sarà la registrazione, migliore l’amplificazione e valida la riverberazione ambientale, tanto più fedele sarà l’effetto finale. L’impressione sarà quella di ascoltare un organo reale. [72]


La Musica medievale

[73]


Guglielmo 9° d'Aquitania, il primo Trovatore  CENNI BIOGRAFICI Guglielmo, nono Duca d’Aquitania e settimo Conte di Poitiers (1071-1126) è il primo trovatore di cui si ha notizia: i canzonieri non menzionano nessun trovatore precedente, e nessun’altra fonte ha tramandato il nome di un trovatore più antico. Una vida scritta da un autore anonimo del XIII secolo così lo descrive: “Il Conte di Poitiers fu uno degli uomini più cortesi al mondo e uno dei più grandi seduttori di donne. Eccellente come cavaliere e guerriero, senza pregiudizi verso l'altro sesso, compositore raffinato e cantore di canzoni, viaggiò molto per il mondo, seducendo le donne.” Fu uno dei maggiori feudatari dell'epoca, così potente e ricco da possedere più terre del Re di Francia. Fu nonno di Eleonora d’Aquitania regina di Francia e d’Inghilterra, avo di Riccardo Cuor di Leone, di Giovanni Senzaterra e forse della poetessa Maria di Francia. Fu anche uno dei condottieri della crociata del 1101, anche se questa impresa si concluse ingloriosamente, perché Guglielmo IX, ostacolato dall'imperatore Alessio Comneno al quale aveva rifiutato il giuramento di fedeltà, perse esercito e bagagli, riducendosi a continuare il viaggio da solo e in miseria. Fu più volte scomunicato dalla Chiesa perché, per gli standard del tempo, conduceva una vita licenziosa caratterizzata da eccessiva prodigalità e smisurata passione per le donne. Ebbe molte amanti e si sposò due volte. Morì il 10 febbraio 1126 e fu sepolto nella Chiesa di Saint-Jean de Montierneuf di Poitiers.

 L’ARTE TROBADORICA Guglielmo IX - sotto il nome di Coms de Peitieus (Conte di Poitou) - è meglio conosciuto come il primo dei trovatori, il primo poeta lirico in lingua volgare occitana; gli sono attribuiti 10 componimenti (più un altro di dubbia attribuzione). In quanto poeta e compositore, si esibiva spesso nella sua corte come un istrione. I due ingredienti principali della sua produzione, da un lato l’esaltazione delle virtù cortesi e del sacrificio in amore - di [74]


intonazione intimistica -, dall’altro l’elogio senza mezzi termini dei piaceri e del sesso - di impronta scherzosa, ironica e perfino parodica -, gli hanno fatto guadagnare l’etichetta semplicistica di “trovatore bifronte”, ma gli è più consono l’aggettivo “poliedrico”.

 LE COMPOSIZIONI Le dieci-undici poesie di Guglielmo IX sono state distinte dai provenzalisti in due gruppi: - sei poesie sono rivolte ai companhos,i compagni della sua cerchia, caratterizzate dai toni giocosi, ironici e dai tratti osceni. Esse sono: Ben vueilh que sapchon li pluzor; Companho farai un vers qu’er covinen; Companho non puosc mudar qu’eo no m’effrei; Companho tant ai agutz d’avois conres; Farai un vers de dreit nien; Farai un vers pos mi sonelh. - quattro, propriamente di amor cortese: Ab la dolchor del temps novel; Farai chansoneta nueva; Pos vezem de novel florir ; Molt jauzions mi prenc amar. In più il cosiddetto “canto di penitenza” Pos de chantar m’es pres talenz.

 AB LA DOLCHOR DEL TEMPS NOVEL [Nella dolcezza della primavera] L’amor cortese è il tema prescelto da quasi tutti i poeti provenzali ed è anche il contenuto del testo di questa composizione di Guglielmo d’Aquitania, unanimemente considerata tra le più belle poesie medievali. Essa si compone di cinque strofe, nelle quali il poeta si esprime in prima persona, come avviene normalmente nella poesia lirica, i suoi stati d’animo e i suoi sentimenti. L’apertura è una serena descrizione di una paesaggio primaverile, dominato dalla dolcezza del canto degli eccelli e dalla rifioritura dei boschi; l’armonia che regna nella natura è un invito all’armonia anche per il mondo umano: “E’ tempo che ognuno si tragga presso a quel che più brama”. L’immagine principe di questo componimento è sicuramente quella del biancospino il cui ramo soffre e trema al gelo e alla pioggia di una notte tutta metaforica, in attesa di un sole mattutino che è una riconciliazione con l’amata e simbolo dell’amore invincibile. Nel testo sono presenti tutto le figurazioni usate in seguito dai poeti provenzali. Risalta innanzitutto la metafora feudale: il poeta si rivolge alla sua donna come un vassallo al proprio signore. Sono inoltre presenti alcuni gesti simbolici che richiamano alla cerimonia dell'investitura: ad esempio l'anello regalato dall'amata al poeta, il giuramento di fedeltà e il poeta che mette le mani sotto il mantello dell'amata, analogia quest'ultima, con il gesto del feudatario che, durante la [75]


cerimonia d'investitura, in segno di protezione, copriva il vassallo inginocchiato con un mantello (detto senhals), in questo caso il poeta, per non compromettere la donna amata, cela l'identità di questa con soprannomi o parafrasi. L'amore cortese infine è quasi sempre adultero e la donna è sempre di ceto elevato.

AB LA DOLCHOR DEL TEMPS NOVEL Ab la dolchor del temps novel foillo li bosc, e li aucei chanton, chascus en lor lati, segon le vers del novel chan: adonc esta ben c'om s'aisi d'acho dont hom a plus talan. [Nella dolcezza della primavera i boschi rinverdiscono, e gli uccelli cantano, ciascheduno nel suo linguaggio, giusta la melodia del nuovo canto. E' tempo, dunque, che ognuno si tragga presso a quel che più desidera.] De lai don plus m'es bon e bel non vei mesager ni sagel, per que mos cors non dorm ni ri ni no m'aus traire adenan, tro qu'eu sacha ben de la fi, s'eI'es aissi com eu deman. [Dall'essere che più mi giova e piace messaggero non vedo, né sigillo: perciò non ho riposo né allegrezza, né ardisco farmi innanzi finché non sappia di certo se l'esito sarà quale io domando.] La nostr'amor va enaissi com la brancha de l'albespi, qu'esta sobre l'arbr'en creman, la nuoit, ab la ploi'ez al gel, tro l'endeman, que·l sols s'espan per la feuilla vert el ramel. [Del nostro amore accade come del ramo del biancospino, che sta sulla pianta tremando la notte alla pioggia e al gelo, fino a domani, quando il sole si diffonde tra le foglie verdi sulle fronde.] Enquer me menbra d'un mati que nos fezem de guerra fi e que·m donet un don tan gran: sa drudari'e son anel. Enquer me lais Dieus viure tan qu'aia mas mans soz son mantel!

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[Ancora mi ricordo d'un mattino che facemmo la pace tra noi due, e che mi diede un dono così grande: il suo amore e il suo anello. Dio mi conceda ancor tanto di vita che io possa mettere le mie mani sotto il suo mantello.] Qu'eu non ai soing d'estraing lati que·m parta de mon Bon Vezi; qu'eu sai de paraulas com van, ah un breu sermon que s'espel: que tal se van d'amor gaban, nos n'avem la pessa e·l coutel. [Io infatti non bado al latino ostile di quanti cercano di separarmi dal mio Buon Vicino; perché io so come vanno le parole, quando si recita un breve motto: che se alcuni si vanno vantando dell'amore, noi disponiamo di pane e coltello.] (Nota: Pane e coltello sono una metafora ripresa dalla simbologia del rituale di investitura, che alludeva al possesso di un bene, della terra, concesso al vassallo.)

 BEN VUEILL QUE SAPCHON LI PLUZOR [Ben voglio che i più sappiano] Questo componimento appartiene al genere del gab, il vanto. Nelle prime quattro strofe Guglielmo IX si vanta delle sue capacità intellettive, sociali e non belliche, si vanta di saper ben poetare, ben argomentare, ben comportarsi. Non si tratta di un dato scontato perché un cavaliere di solito deve essere ardito, deve avere un valore militare. Le successive sviluppano il tema delle capacità amatorie del conte. Nella quinta strofa, Guglielmo arriva a definirsi nei fatti “maestro”: chi gli chiederà consiglio lo riceverà e, in questo caso, sarà lui ad insegnare. E proprio nella sesta strofa egli si definisce maistre (preferendo la lezione nom a mon). La metafora ridiscende sul piano quotidiano, in questo caso in quello della mercatura: Guglielmo riesce a guadagnare il suo pane in ogni mercato, quindi a farsi valere in occasione.

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Una virata netta si ha alla settima strofa: “pero no m’auzes tan gaber”, dice il Conte. Anch’egli una volta ha dovuto battere in ritirata di fronte a una prestazione sessuale impegnativa; ma, invitato a riprovare, ha potuto ben tener fede alle sue vanterie: i dadi sono evidenti metafore sessuali, e l’essere il terzo dado plombatz, è indice del lieto fine delle sue prestazioni.

BEN VUEILL QUE SAPCHON LI PLUZOR Ben vueill que sapchon li pluzor d u ve s, si es de o a olo u ieu ai t at de o o ado ; u ieu po t d ai el este la flo , et es vertatz, e puesc ne trair lo vers auctor, quant er lasatz. [Ben voglio che i più sappiano di un canto, se è di buon colore, che ho tratto da una buona officina; perché di quel mestiere io porto il fiore, ed è la verità: ne farà il canto stesso autorità, quando sarà allacciato.] Eu conosc ben sen e folor, e conosc anta et honor, et ai ardiment e paor; e si· pa tetz u jo d a o , no soi tan fatz no sapcha triar lo meillor d e t e·ls alvatz. [Co os o e e il se o e la follia, e o os o l’o ta e l’o o e, e ho a di e to e ti o e; e se di atto sulle ose dell’a o e i a so s io o: s elgo l’a go e to iglio e t a i attivi.] Eu conosc be sel que be·m di e sel que·m vol mal atressi; e conosc be celui que·m ri, e sels ue s azauto de i conosc assatz: e atressi dei voler lur fi e lur solatz. [Conosco bene chi ben dice di me, e chi mi vuol male conosco altresì; conosco bene chi ride con me, e anche quelli a cui piaccio conosco abbastanza: e così devo voler la lor fiducia e il lor sollazzo.] Ben aia cel que me noiri, ue ta o este es a i que anc a negun no·n failli: u ieu sai joga so e oisi [78]


a totz tocatz; mas no sai de nuill mon vezi, qual que·n vejatz. [Benedetto sia chi mi nutrì e a tanto buon mestiere mi istruì nel quale con alcuno mai fallii: ché so giocar sop a il us i o a tutto to a e e so più di og i vi i o, he vediate.] Deu en laus e saint Julia: tant ai apres del joc dousa ue so e totz ai o a a; ja hom que conseill me querra o l e vedatz, ni nuils de mi non tornara desconseillatz. [Dio ne lodo e San Giuliano: se tanto so del dolce gioco in cui ho la miglior mano; mai a chi consiglio chiederà sarà negato e nessun da me via andrà senza un consiglio.] Qu ieu ai o aist e e ta: ja a igu a ueg o au a ue o· vueill ave l e de a; u ieu soi e d est este , so· va, tant ensenhatz que be·n sai gazanhar mon pa en totz mercatz. [Perché mi chiamo Maestro sicuro: ai la ia a a te u a otte i av à se za he i ivoglia l’i do a i: sono in questo mestiere – e me ne vanto – tanto esperto, da sapermi guadagnare il pane in ogni mercato.] Pe o o auzes ta ga e u ieu o fos ahuzatz l aut e , ue jogav a u jo g osser que·m fo trop bos al cap primer tro fo entaulatz; ua ga dei, o a plus este , si·m fo camjatz. [Ma a he se o a se tite il io va to, l’alt ie i ho su ito u o s a o ua do gio avo ad u gio o pesa te che andava in apertura alla grande finché fu intavolato quando guardai, niente da fare, tanto era cambiato.] Mas ela·m dis un reprover: Do , vost e datz so e ude et ieu evit vos a do le ! Fis· ieu: Qui· dava Mo pesle o e laisatz! [79]


E levei un pauc son tauler ab ams mos bratz. [Quella osì i iasi ò: “ig o e, i vost i dadi so pe de ti e io vi i vito a addoppia e! Fe i io: “e o edi Mo tpellie , e to o ollo! Ti ai su il suo tavolie e o le a ia.]

i

E ua l ai levat lo taule espeis los datz: e·l dui foron caravallier, e·l terz plombatz [E quando lo ebbi sollevato trassi i dadi: due eran facciabbasso e il terzo era piombato.] E fi·ls ben ferir al tauler, e fon jogatz. [Feriron bene il tavoliere e il gioco fu giocato.]

COMPANHO, FARAI UN VE‘“ [QU E‘] COVINEN [Compagni, farò un canto fatto bene] COMPANHO, FARAI UN VE‘“ [QU E‘] COVINEN Co pa ho, fa ai u ve s [ u e ] ovi e et aura·i mais de foudatz no·i a de sen et e totz es latz d a o e de joi e de jove .

[Compagni, farò un canto fatto bene, e avrà tanta follia, e po o se sarà intessuto.]

o; d’a o , di gioia e giove tù tutto

E te hatz lo pe vila , ui o l e te , u i s e so o volu tie s [ es] o l ap e : g eu pa ti si fai d a o ui la t o a so tale . [Tenete per villan chi non lo intende, e chi in cuor suo volentieri non lo apprende: è duro separarsi dall’a o e, pe hi gioia e se te.] Dos cavals ai a ma sselha, ben e gen; bon son ez ardit per armas e valen; a o·ls pues te e a dos, ue l u s l aut e o

o se .

[Ho due cavalli alla mia sella, bene e ammodo, sono buoni, arditi in guerra e valenti, ma tener non posso e t a i, h l’u l’alt o o a etta.] [80]


Si·ls pogues adomesgar a mon talen ja o volg aillo s uda o ga i e , ue eils fo e avalguatz de uill ho e[

o ] vive .

[Se potessi domarli a mio piacere non vorrei mai cambiare il mio equipaggiamento, perché avrei la miglior cavalcatura al mondo.] Launs fo dels montanhiers lo plus corren, as aita fe est a hez ha lo gua e ez es tan fers e salvatges, que del bailar si defen. [Di uelli di o tag a l’u o fu il più velo e, a e che le briglie rifiuta.]

e t oppo a lu go g a fie a it osia e o a così selvaggio

L aut e fo oi itz sa jos, p es Cofole ; ez anc no·n vis belazor, mon essien: aquest non er ja camjatz, ni per aur ni per argen. [L’alt o fu ut ito là p esso Co fole s; argento.]

ai e vidi più ello, osì, a

e te: e

ai lo a

ie ei pe o o o pe

Qu ie·l do ei a so se ho poilli paise , pero si·m retinc ieu tan de covinen ue, s il lo te ia u a , ieu lo tengues mais de cen. [Ché, puledrino ancora, lo diedi al suo signore, però mi riservai la clausola seguente: se lui lo tiene un anno, io lo terrò più di cento.] Cavalie , datz i o seill d u pe sa e : anc mais no fui eissaratz de cauzimen: re no sai ab al e te ha, de N Ag es o de N A se . [Cavalieri, datemi un consiglio, ché il dubbio mi tormenta: mai tanto incerto fui su una tale faccenda: tener mi devo donna Agnese o donna Arsenda?] De Gimel ai lo castel e·l mandamen e per Niol fauc ergueill a tota gen: a edui e so ju at e plevit pe sag a e . [Possiedo il castello e il territorio di Gimel, e per Niol mostro orgoglio ad ogni gente: entrambi sono miei per diritto e sacramento.]

[81]


[82]


 [C]OMPAGNO, NON PUOSC MUDA‘ QU EO NO M EFFREI [Compagni, non riesco a non turbarmi] [C]OMPAGNO, NON PUOSC MUDA‘ QU EO NO M EFFREI [C]o pag o, o puos uda u eo o eff ei de ovellas u ai auzidas et ue vei: u u a do a s es la ada de sos ga dado s a mei.

[Compagni, non riesco a non turbarmi di cose che ho sentito e che ora vedo: il fatto è che una donna ha denunciato i suoi guardiani a me] [E] diz que non volo prendre dreit ni lei, ans la teno esserrada quada trei: ta t l us o·ill la ga l esta a ue l alt e plus o la·ill plei. [Dice che non voglion rispettare diritto o legge, e che la custodiscono a tre a tre: e che se uno se uno allenta la corda, l’alt o gliela st i ge.] [E]t aquill fan entre lor aital agrei: l us e.l o pai s ge s afoc manda-carrei, e meno trop major nausa que la mainada del rei. [E poi o dis o o f a lo o tal dispetto: l’u o e il suo a i o i sie e al a ettie e fa ia o più u o e della masnada del re] [E]t eu dic vos, gardador, e vos castei: (e sera ben grans folia qui no·m crei): greu verretz neguna garda que ad oras non sonei. [Io, geloso i, ve lo di o e vi o siglio, ed p op io u g a pazzo hi o lo sonno prima o poi non cede.]

ede: o

’ gua dia

he al

[Q]u eu a o vi ulla do a ta g a fei, qui non vol prendre son plait o sa mercei, s o la loig a de p oessa ue a alvestatz o plaidei. [Ed io ai vidi do alla viltade.]

a pu fedele he o s’ p esa pla ito o

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e ede: la allo ta i da p odezza e si u is e


[E] si·l tenez a cartat lo bon conrei, ado a·s d a uel ue t o a vi o sei: si non pot aver caval, ela compra palafrei. [Se tirchi non le date un buon corredo lei si addobba con quel che si ritrova: se non può aver cavallo si compra un palafreno.] [N]on i a negu de vos ia·m desautrei, s o li vedava vi fo t pe alavei, o egues e a z de l aiga ue·s laissez [No ’ essu di voi he può s e ti di morir di sete.]

o i de sei.

i, se si vieta il vi o fo te ad u

alato uello e à dell’a ua p i a

[C]has us eu i a s de l aiga ue·s laises morir dessei! [Og u o e e

e l’a ua p i a di

o i di sete!]

 COMPANHO, TANT AI AGUT) D AVOL“ CON‘E“ [Compagni, tanto ho incontrato brutti arnesi] Nonostante i contenuti scabrosi, questo componimento mostra con tutta evidenza e forza la notevole ricchezza della poetica del conte: il riecheggiare del con che ritroviamo lungo tutto il componimento, rafforzato da giochi sonori con parole foneticamente simili (conres, son, mon).
Varie metafore mettono in relazione il con e altre realtà terrene: l’immagine del cons gardatz, l’organo sessule femminile, controllato e messo sottochiave dal proprio padrone, signore proprietario della terra e della donna, è messa in parallelo a quella, equivoca, del gorgo senza pesce, cioè la natura infruttuosa. Il conte vorrebbe che la donna sia libera di usare ciò che possiede e che possa ricevere i frutti del proprio lavoro, per il quale è indispensabile l’intervento maschile.
Intervento che deve essere reale, non un vanto non seguito dai fatti.
 Il conte formula così la sua originale legge: se ogni cosa diminuisce con il furto, il con al contrario si accresce, facendo riferimento non tanto all’aumentare dell’oggetto in senso fisico, quanto alla crescita etica e morale, oltre che esperienziale. L’unico che può farsi garante di questa legge è il conte stesso, come colui che nella vita ne ha date e ne ha prese, come colui quindi che ha più esperienza in questo campo. Così Guglielmo ci fornisce una concreta analogia nelle strofe successive, dove

[84]


chiarisce come nella riserva di legnatico del signore feudale, il furto non porta ad alcun danno, anzi, col taglio e col tempo il legname aumenta e il padrone non perde il suo tornaconto.

COMPANHO, TANT AI AGUT) D AVOL“ CON‘E“

Co pa ho, ta t ai agutz d avols o es u ieu o pues uda o· ha e ue o· pes; enpero o vueill o sap ha o afa de ai tas es. [Compagni, tanto ho incontrato brutti arnesi che debbo proprio cantare e rattristarmi, ma non voglio si sappiano i miei affari, in ogni caso.] E di ai vos e te de sa, de ue es: o azauta o s ga datz i gorcs ses peis, ni gabars de malvatz homes com de lor faitz non agues. [E vi dirò quello che penso io: non mi piace la fica sorvegliata, il gorgo senza il pesce, il fesso che si vanta e non fa niente.] Senher Dieus, quez es del mon capdels e reis, qui anc premier gardet con, com non esteis? Ca o fo estie s i ga da a sido s estes so deis. [Signore Dio, che siete del mondo re sovrano, il primo guardafica perché non uccideste? Mai mestier fu peggiore né sorveglianza più laida.] Pero dirai vos de con, cals es sa leis, o sel ho ue al a fait e peitz a p es: si c[om] autra res en merma, qui·n pana, e cons en creis. [Perché ora vi dirò la legge della fica come uomo che tante ne ha date e più ne ha prese: tutto diminuisce con il furto, la fica invece cresce.] E sel qui no volra·n creire mos casteis, an ho vezer pres lo bosc, en un deveis: pe u al e o hi tailla i aiso [ho] dos ho t eis. [E chi non vorrà credere al mio assunto, vada a vedere il bosco là in riserva: per un albero che tagli, ve ne nascono due o tre.] E quan lo bocx es taillatz, nais plus espes; e·l senher no·n pert son comte ni sos ses: a revers planh hom la tala, si·l dampn[atges no·i a ges]. [Quando il bosco è tagliato più fitto poi ricresce e il padrone non perde guadagno e tornaconto: a torto pia ge il guasto se il da o lì o v’ .] [85]


To tz es o[

pla ha la tala si·l] da [ ages o·i a ges].

[Sbagliato è pianger guasto se il danno non vi è]

 FARAI UN VERS DE DREYT NIEN [Farò un canto sul puro nulla] FARAI UN VERS DE DREYT NIEN Farai un vers de dreyt nien: o e de i i d aut a ge , o e d a o i de jove ,
 ni de ren au, u e a s fo t o atz e du e 
 sus un chivau. [Farò un canto sul puro nulla, non su di me né su altra gente né su amor né giovi ezza ho composto dormendo su un cavallo.]

su ie t’alt o: lo

No sai en qual hora·m fui natz, no soi alegres ni iratz, no soi estranhs ni soi privatz,
 ni no·n puesc au, u e aissi fui de ueitz fadatz so u pueg au. [Non so a che ora sono nato, non sono allegro né adombrato, non sono indomito o placato, né posso ie t’alt o: osì fui di otte st egato su un monte alto.] No sai cora·m fui endormitz,
 i o a· veill, s o o o ditz:
 Pe pau o es lo o pa titz
 d u dol o au;
 e o o p etz u a f o itz,
 par saint Marsau! [Non so a che ora mi addormentai né quando fui sveglio, se non me lo dici. Per poco il cuore non mi si è spezzato d’u dolor intenso e o ’i po ta u fi o, pe “a Ma ziale!] Malautz soi e cre mi morir,
 e e o sai as ua aug di . Metge querrai al mieu albir,
 [86]


e no·m sai tau;
 bos metges er, si.m pot guerir,
 mor non, si amau. [Sono malato, potrei morire e ne so quel che sento dire. Cercherò un medico a mio arbitrio ma non so quale: sarà buon medico se mi guarisce, e cattivo se il male infierisce.] A igu ai ieu, o sai ui s es,
 a o la vi, si aiut fes;
 ni·m fes que·m plassa ni que·m pes,
 i o e au; a o a No a i F a ses
 dins mon ostau. [Ho u ’a a te, a o so hi i fede ia, o l’ho ai vista; o nulla me ne importa: non ci sono Normanni o Francesi a casa mia.]

i ha fatto ose elle

sg adite ma

Anc non la vi et am la fort; a o ai d eit i o· fes to t;
 ua o la vei, e e depo t; no·m pretz un jau; 
 u ie· sai ge so et ellazo ,
 e que mais vau. [Mai la vidi e fortemente la amo; non ne ebbi diritto, né mi fece torto se non la vedo, io mi svago e poco mi importa: conosco una più dolce e anche più bella e che più vale. No sai lo lue ves o s esta, si es en pueg ho es en pla; o aus di e lo to t ue a, a a s e au; e peza·m be quar sai rema, [per] aitan vau. [Non so il luogo dove sta, se è in collina o nella piana; né oso dire il torto che mi fa, anzi mi taccio, e mi pesa se resta qui, per questo me ne vado.] Fait ai lo vers, no say de cui;
 e trametrai lo a celui que lo·m trametra per autrui
 enves Peitau,
 que·m tramezes del sieu estui la contraclau. [Ho fatto il canto, non so di chi; e lo invierò a colui che me lo invierà per altrui verso il Poitou, e mi invii la controchiave del suo astuccio. [87]


 FARAI UN VERS POS MI SONELH [Farò un canto, appena desto] In questa canzone (conosciuta anche come Il testo del gatto rosso) Guglielmo Conte d'Aquitania racconta una strana storia di sesso trasgressivo: il Conte (o, quanto meno, l'uomo che corrisponde a colui che racconta la storia in prima persona), dopo aver superato una bizzarra "prova", alla fine si sollazza energicamente per nove giorni con due donne, realizzando prestazioni veramente maiuscole (88 rapporti carnali!) tanto da rischiare un definitivo disastro del proprio apparato genitale. Le due signore vengono indicate per nome e per casato (anche se si ipotizza generalmente che i nomi siano falsi), ed è chiaro che non si tratta di mercenarie: sono N'Agnes moiller di En Guari e N'Ermessen moiller di En Bernart, cioè Donna Agnese moglie di Ser Guarino e Donna Ermesenda moglie di Ser Bernardo, ed è indicata esplicitamente la regione in cui si svolge la prodigiosa e adultera impresa: l'Alvernia, oltre il Limosino ("en alvernhe, part Lemozi"). Quando Guglielmo giunge in questa regione, incontra le due donne, che, per prime, lo salutano in modo "modesto" in nome di San Leonardo, rivolgendosi a lui come a un "pellegrino". L'astuto conte si guarda bene dal declinare le proprie generalità, anzi risponde facendo il muto, e senza dire niente emette suoni inarticolati, che il testo stilizza in monemi da filastrocca: "Babariol, babariol / Babarian". Tanto basta alle due donne per vedere nel pellegrino la consolazione delle loro libidini. Ed ecco che lo accolgono con amore e sollecitudine, lo sfamano in maniera sontuosa

e si apprestano a

soddisfare le loro voglie carnali. Prima vogliono essere sicuri che l'aitante sconosciuto non possa tradirle, andando a raccontare le loro imprese: perché sembra chiaro che quello è l'uomo adatto per loro in quanto è muto, e lo sottopongono quindi ad una prova violenta e decisiva. Lo strumento è un gatto rosso, l'enoios ("il malvagio"), grande e grosso e con lunghi baffi, un gatto lungo quanto un uomo, che viene sistemato sul povero pellegrino in modo da coprirgli tutta la schiena, arrivando fino ai piedi. L'uomo è nudo, e il gatto, ubbidendo alla volontà delle libidinose padrone, viene assicurato alle spalle e alle caviglie, e i suoi artigli direttamente nella carne dell'uomo. Poi le donne cominciano a tirare la coda del povero animale che, giustamente, graffia il supporto su [88]


cui è stato sistemato, e a lungo gli tireranno la coda, facendo più di cento piaghe al malcapitato pellegrino, che stoicamente sopporta il tutto pur di raggiungere il suo scopo. Alla fine, c'è naturalmente, la ricompensa, e i tre porteranno a termine la loro lunga performance sessuale.

FARAI UN VERS, POS MI SONELH Farai un vers, pos mi sonelh, E-m vauc e m'estauc al solelh. Donnas i a de mal conselh, Et sai dir cals: Cellas c'amor de cavalier tornon a mals. [Fa ò u a to, appe a desto, e t e al sol passeggio e sosto. Ci so do di un cavaliere non vogliono amore.]

e po o a posto, uesto l’e o e:

Donna no fai pechat mortal Que ama cavalier leal; Mas s'ama monge o clergal Non es raizo: Per dreg la deuri'hom cremar ab un tezo. [Non fa peccato mortale chi ama un avalie leale; bruciarla con un tizzone.]

a

o a o o p ete

ale, o

’è ragione: giustizia è

En Alvernhe, part Lemozi, M'en anei totz sols a tapi: Trobei la moller d'En Guari E d'En Bernart; Saluderon mi sinplamentz per san Launart. [In Alvernia e Li osi o San Leonardo.]

e ’a davo pelleg i o: ecco le mogli di Guarino e di Bernardo; mi salutarono, per

La una-m diz en son latin: "O, Deus vos salv, don pelerin; Mout mi semblatz de belh aizin, Mon escient; Mas trop vezem anar pel mond de folla gent." [U a disse, i suo lati o: Dio vi salvi, pelleg i o, troppe utte e e. ]

i se

[89]

ate pe e i o; a

io pa e e, vedia o i gi o


Ar auzires qu'ai respondutz; Anc no li diz ni ba ni butz, Ni fer ni fust no ai mentagutz, Mas sol aitan: "Babariol, babariol, babarian." [Io così mi comportai: non le dissi ne ai ne bai, ferro o legno non citai. Dicevo piano piano: Ba a i-ol, babari-ol, a a ia .] So diz n'Agnes a n'Ermessen: "Trobat avem que anam queren: Sor, per amor Deu l'alberguem, Que ben es mutz, E ja per lui nostre conselh non er saubutz." [Disse allo a Ag ese: A dia o, e o uel he e ava o! Vivaddio, oi l’ospitia o h pe lui ulla sa à isaputo .]

p op io

uto e

La una-m pres sotz son mantel Et mes m'en la cambra, el fornel: Sapchatz qu'a mi fo bon e bel, E-l foc fo bos, Et eu calfei me volentiers als gros carbos. [Una sotto il suo mantello mi portò fino al fornello. Sappiate: fu buono e bello, tutto mi piace, specialmente il calore della brace.] A manjar mi deron capos, E sapchatz agui mais de dos, Et no-i ac cog ni cogastros, Mas sol nos tres; E-l pans fo blancs e-l vins fo bos e-l pebr'espes. [Da mangiare ebbi capponi belli grassi e molto buoni; nessun servo tra i coglioni, loro ed io. Pane, buon vino, spezie e un lieto trio.] "Sor, si aquest hom es ginhos Ni laicha a parlar per nos, Nos aportem nostre gat ros De mantement, Qe-l fara parlar az estros, si de re-nz ment." [90]


[ “e ostui u uo o astuto a i ga pa la , se pe aso e te .]

a i ui ve uto, i sa à il gatto d’aiuto, h p o ta e te lo fa à

N'Agnes anet per l'enoios: Et fo granz, et ag loncz guinhos: Et eu, can lo vi entre nos, Aig n'espavent, Qu'a pauc no-n perdei la valor e l'ardiment. [Prende Agnese il gatto rosso, ben baffuto e molto grosso. Io, pensandomelo addosso, per lo spavento per poco non persi sensi e ardimento.] Quant aguem begut e manjat, Eu mi despoillei per lor grat; Detras m'aporteron lo gat Mal e felon: La una-l tira del costat tro al tallon. [Ma giato l’ulti o piatto, già udo pe l’alt o fatto, sul do so costato lo tirano al tallone.]

i

etto o il gatto t isto e fello e; dal

Per la coa de mantenen Tira-l gat, et el escoisen: Plajas mi feron mais de cen Aquella vetz Mas eu no-m mogra ges enquers qi m'ausizetz. [Pe la oda tutto a u t atto st atto ato, g affia il gatto. Ce to piaghe lui però manco morto mi sarei mosso.]

’ha fatto tutte ua addosso;

Pos diz N'Agnes a N'Ermessen: "Mutz es, que ben es conoissen. Sor, del banh nos apareillem E del sojorn." .xli. jorn estei az aquel torn. [Disse Ag ese ad E esse a: Questo Otto e più giorni rimasi lì attorno.]

uto, stai se e a. Dopo il ag o i si sf e a la otte e il gio o .

Tant las fotei com auziretz: Cen e quatre vint et ueit vetz, Q'a pauc no-i rompei mos corretz [91]


E mos arnes; E no-us pues dir los malaveg tan gran m'en pres. [Tante volte me le fotto: furon ben otta totto. Quasi uppi il fil he ho sotto e a he l’a ese; non posso dire il male che mi prese.] Monet, tu m'iras al mati, Mo vers porteras el borsi Dreg a la molher d'en Guari E d'en Bernat, E diguas lor que per m'amor aucizo-l cat. [Monet, tu andrai al mattino coi miei versi e un borsellino; dì alla moglie di Guarino e di Bernardo che uccidano il gatto per mio riguardo.]

 MOLT JAUZENS, MI PRENC EN AMAR [Molto gioioso comincio ad amare] Il senso di questo componimento è sempre quello dell’amore, che deve essere ottenuto, secondo la logica cortese, apportando un servizio alla dama. Vengono elencati non solo i servigi che Guglielmo è pronto a fare (cantarla, lodarla, dire e fare il suo volere, tenere in caro il suo pregio), ma anche ciò che egli ne avrà in cambio: le abilità della donna e il suo amore saranno capaci di rinfrescare il cuore, e rinnovare la carne, così da non farla invecchiare. Guglielmo riconosce il valore di cosa vuole acquisire, e promette di tenerlo sempre a mente. Il conte è però troppo timoroso per mandare il componimento attraverso altri: ha paura da una parte che la donna si infuri con lui, dall’altra non osa mostrarle il suo amore: lei stessa dovrà decidere se accettare o meno questo contratto.

MOLT JAUZENS, MI PRENC EN AMAR Molt jauzens, mi prenc en amar un joi don plus mi vueill aizir; e pos en joi vueill revertir, ben dei, si puesc, al meils anar, u als eils o a , estie s uja , o pues a veze i auzi . [Molto gioioso comincio ad amare una gioia, di cui ancor più voglio gioir; e se a questa gioia voglio venire [92]


devo, se posso, il meglio cercare: e amar la migliore, senza dubitare, che si possa vedere o sentire.] Eu, so sabetz, no·m dei gabar ni de grans laus no·m sai formir; mas si anc nulhs jois poc florir, aquest deu sobre totz granar e part los autres esmerar, si cum sol brus jorns esclarzir. [Sapete, io non mi devo vantare, né grandi lodi mi so attribuire, ma se mai gioia poté fiorire la mia deve più d’alt e f utta e; su tutte le gioie lei deve illa e, e o e il sole l’os u o s hia i e.] Anc mais no poc hom faissonar cors, en voler ni en dezir ni en pensar ni en consir aitals jois non pot par trobar, e qui be·l volria lauzar d u a o·i poi i ave i . [Nessuno poté mai raffigurare né col volere né col concupire né col pensare né col concepire corpo, né gioia può pari trovare e chi bene la vuole lodare, neanche in un anno ci può riuscire.] Totz jois li deu humeliar e tot aut a o s o ezi , midons, per son bel acuillir e per son bel douset esgar; e deu hom mai cent tans durar ui·l joi de s a o pot sazi . [Ogni gioia le si deve umiliare, ogni ricchezza le deve ubbidire a madonna, per il suo consentire, per il suo dolce e piacente guardare; deve più di cento volte durare chi la gioia del suo amor può sentire.] Per son joi pot malaus sanar, e per sa ira sas morir, e savis hom enfolezir, e belhs hom sa beutat mudar, e.l plus cortes vilaneiar, e.l totz vilas encortezir. [Gioia d’a o fa il alato sa a e, a se t istezza fa il sa o o i e, se u o saggio, lo vedi impazzire e se è bello lo vedi imbruttire, il più cortese può villaneggiare e ogni villano può incortesire.] Pus hom gensor no·n pot trobar, ni hueils vezer, ni boca dir, a mos obs la vueill retenir, per lo cor dedins refrescar [93]


e per la carn renovelar, que no puesca envellezir. [Più gentile di lei nessun può trovare, né occhio vedere, né bocca dire a mia voglia la voglio tenere il cuore dentro per rinfrescare e per la carne rinnovare, affinché non debba avvizzire.] Si·m vol ido s s a o do a , p es soi del pe e del g azi e del celar e del blandir e de sos plazers dir e far e de son pretz tener en car e de son laus enavantir. [Se madonna mi vuole il suo amore donare sono pronto a ricevere e a gradire e a celare e a blandire i suoi piaceri a dire e a fare e i suoi pregi tener cari e la sua lode costruire.] ‘e pe aut ui o l aus a da , tal pao ai ades s azi ; ni ieu mezeis, tan tem faillir, o l aus a o fo t ase la . Mas ela·m deu mon meils triar, pos sap a lieis ai a guerir. [Niente da altri le oso inviare, tanto ho paura di vederla stizzire; e tanto temo io stesso fallire che non oso il mio amore far brillare. Ma lei deve per me il meglio trovare perché sa che con lei posso guarire.]

[94]


 PO“ DE CHANTA‘ M E“ PRES TALENZ (Poi h

’ p esa voglia di a ta e)

Questo è l’unico canto penitenziale di Guglielmo IX pervenutoci. In queso canto la preoccupazione cristiana è poca cosa, mentre il patimento per l’abbandono delle cose e dgli onori terreni è presente e amaro. L’ultimo verso” è una chiara allusione ai vestiti sontuosi e agli onori della nobiltà. Il vaio è una pelliccia costituita da una alternanza di campanelle clochettes d'argento e d'azzurro, disposte in allineamenti chiamati file. Il vaio riproduce la pelliccia dello scoiattolo petit-gris dal ventre bianco ed il dorso grigio-azzurro.

PO“ DE CHANTA‘ M E“ PRES TALENZ Pos de ha ta es p es tale z, farai un vers, don sui dolenz: mais non serai obedienz en Peitau ni en Lemozi.

[Poi h ’ p esa voglia di a ta e fa ò u in Limosino.]

a to su iò he

’att ista: o sa ò più vassallo in Poitou né

Qu e a e i ai e eisil: en gran paor, en gran peril, en guerra laisserai mon fil; faran li mal siei vezi. [Ora me ne andrò in esilio in gran paura, in gran periglio, in guerra lascerò mio figlio; gli vorranno male i suoi vicini.] Lo depa ti s es aita g eus del seignorage de Peiteus e ga da lais Fol o d A geus tota la tera son cozi. [Tanto dura è per me la dipartita dal do i io del Poitou! Las io i di suo cugino.]

ustodia a Fol o d’A giò tutta la te a

“i Fol os d A geus o·l so o , e·l eis de ui ieu te o o, faran li mal tut li plusor, felon Gascon et Angevi. [“e Fol o d’A giò o lo so o e guasconi e angioini.]

il e da ui ho tutti i miei onori gli faranno la guerra quasi tutti felli

Si ben non es savis ni pros, [95]


cant ieu serai partitz de vos, vias l au a to at e jos, car lo veiran jove mesqui. [Poiché non è saggio né prode, quando me ne sarò andato, subito a terra lo metteranno, perché lo vedranno piccolo e indifeso.] Per merce prec mon conpaignon: s a li fi to t, u il o pe do ; et il prec En Jezu del tron en romans et en son lati. [Pietà invoco al mio compagno, se mai gli feci torto, me lo perdoni; e preghi Gesù del cielo in lingua romanza o nella sua.] De proeza e de joven fui, mais ara partem ambedui; et ieu i ai e a Cellui on tut peccador troban fi. [Fui l’uo o di prodezza e gioventù ma ora da entrambe mi separo e me ne andrò da Colui dove i peccatori trovano la pace.] Mout ai estat cuendes e gais, mas Nostre Seigner no·l vol mais; ar non puesc plus soffrir lo fais, tant soi aprochatz de la fi. [Molto sono stato gaio e gioviale ma Nostro Signore più non vuole, ora non posso portare il fardello tanto sono prossimo alla fine.] Tot ai guerpit cant amar sueill: cavalaria et orgueill; e pos Dieu platz, tot o acueill, e p e li ue· eteig a si. [Ciò che amai, tutto ho lasciato, cavalleria e orgoglio: così a Dio piace e così sia ed Egli mi prenda con sé.] Totz mos amics prec a la mort, ue·i ve ga tuit e o e fo t; u ieu ai agut joi e depo t loing e pres et e mon aizi. [Prego i miei amici che alla mia morte vengano tutti e molto mi onorino giacché ho avuto gioia e divertimento lontano, vicino e a casa mia.] [96]


Aissi guerpisc joi e deport, E vair e gris e sembeli. [Così lascio gioia e divertimento e pelliccia di scoiattolo e zibellino.]

 POS VEZEM DE NOVEL FLORIR [Poiché vediamo di nuovo fiorire]

Molti ipotizzzano che il destinatario di questo poesia di stampo cortese sia un trovatore, al quale Guglielmo IX [ ell i

agi e a si ] spiega a quali principi di

legge e di amore occorre attenersi.
Il Conte propone se stesso non solo come legislatore ma anche come artista perfetto, lodando se stesso e ciò che fa, e indicando agli iniziati della cerchia del vero amore che egli è garante e unico esempio da seguire. Solo chi osserva bene le leggi può godere a pieno dell’amore.

POS VEZEM DE NOVEL FLORIR I. Pos vezem de novel florir pratz, e vergiers reverdezir, rius e fontanas esclarzir, auras e vens, ben deu chascus lo joi jauzir don es jauzens. [Poiché vediamo di nuovo fiorire i prati e rinverdire igiardini, illimpidirsi fiumi e sorgenti, aure e venti, tutti dobbiam gioire e esser gaudenti.] II. D a o o dei di e as e. Quar no·n ai ni petit ni re? Qua e leu plus o e ove! Pero leumens Dona gran joi qui be·n mante Los aizimens. [D’a o e non devo dire altro che bene. Perché ora non ne ho né pocp né molto? Perché di più non me ne spetta! Essoi facilmente dà gran gioia a chi ne osserva bene i precetti.] [97]


III. A totz jo s es p es e aisi a d a uo a ei o· jauzi; ni o farai, ni anc non o fi; az essie s fauc, maintas ves que·l cor me di: Tot es ie s . [Sempre per me è stato così, di non gioire mai di ciò che amavo, né lo farò né mai lo feci, ma in fede mia fa io olte ose he il uo ii di e Tutto ie te .] IV. Pe tal ai ei s de o sa e quar vueill so que non puesc aver. E si·l reprovers me ditz ver certanamens: A o o atge o pode , qui·s ben sufrens . [Per questo ne ho meno piacere, perché voglio aver ciò che non posso. E tuttavia il proverbio mi dice sicuramente il vero: Chi ha buon cuore avrà potere, se si sa ben sopportare.] V. Ja no sera nuils hom ben fis o t a o , si o l es a lis, et als estranhs et als vezis non es consens, et a totz sels d ai els aizis obediens. [Nessuno sarà mai fedele ad Amore, se non gli è sottomesso, e non è compiacente con gli estranei e coi vicini e obbediente a tutti quelli della cerchia.] VI. Obediensa deu portar a maintas gens, qui vol amar; e cove li que sapcha far faitz avinens e que·s gart en cort de parlar vilanamens. [Obbedienza deve portare nei confronti di molte persone colui che vuole amare, ed è necessario che sappia fare cose attraentii e che a corte si guardi dal parlare villanamente.] VII. Del vers vos dic que mais ne vau ui e l e te , e a plus lau: que·ls motz son faitz tug per egau comunalmens, [98]


e·l son, et ieu bos e valens.

eteus

e lau,

[Del mio canto vi dico che vale di più e ne riceve più lode se lo si intende bene, perché le parole si corrispondono tutte esattamente, e la melodia, di cui io stesso mi vanto, è bella e ben fatta.] VIII. A Narbona, mas ieu no·i vau, sia·l prezens os ve s, e vueill ue d a uest lau me sia guirens. [A Narbona, perché io non ci vado, le sia donato il mio canto e voglio che di questa lode mi sia testimone.] IX. Mon Esteve, mas ieu no·i vau, sia·l prezens mos ve s, e vueill ue d a uest lau me sia guirens. [Mio Stefano, perché io non ci vado, le sia donato il mio canto e voglio che di questa lode mi sia testimone.]

 DISCOGRAFIA Guillaume IX D'Aquitaine: Las Ca o s Del Co s De Peitieus Brice Duisit Alpha Production Nella mia pur fornita CDteca di musica medievale, non ho trovato nelle varie raccolte dedicate alla musica dei trovatori alcun pezzo che riguardi il nostro nobile compositore. Questo è l’unico album che dà un quadro pressochè completo delle composizioni di Guglielmo IX: bisogna però precisare che delle 12 canzoni del Conte ci è pervenuto solo un frammento di musica, quindi Brice Duisit ha creato musiche sue. Il risultato è soddisfacente, pur con le limitazioni musicali sopraddette.

[99]


Melomania: la pagina della Lirica

La Traviata di Giuseppe Verdi [100]


GENESI DELL’OPERA  LA SCANDALOSA SIGNORA DELLE CAMELIE Madame Alphonsine Rose Plessis, più conosciuta come Marie Duplessis, contessa di Pérregaux, aveva ventitré anni quando morì di tisi, nel 1847. A dispetto del titolo, acquisito per matrimonio nel 1846, non faceva parte della nobiltà, anzi: vissuta in condizioni di estrema povertà fin da bambina e con un padre violento e alcolizzato, cercò in tutti i modi di sopravvivere svolgendo i lavori più disparati. Quando, sedicenne, si trasferì a Parigi per cercare fortuna, diventò l’amante di un commerciante e iniziò a farsi conoscere nell’alta società della capitale francese che, in poco tempo, la elevò al centro della vita mondana del tempo. Secondo le testimonianze, Marie era una giovane molto affascinante, istruita in modo impeccabile anche se autodidatta, ed interessata alla musica. Questa giovane cortigiana per circa sei anni segnerà in modo indelebile la cultura del suo tempo. Sono stati tanti gli amanti di Madame Duplessis, soprattutto intellettuali dell’ambiente parigino, ma il più autorevole di essi rimane Alexandre Dumas figlio, con il quale la donna trascorse undici mesi a Saint-Germaine-en-Laye, vicino a Parigi. In memoria di questa ragazza dai capelli neri, la carnagione chiarissima e gli occhi allungati, lo scrittore le dedicò uno dei romanzi più belli della letteratura francese, La Dame aux Camélias (“La signora delle camelie”), da cui trasse anche una versione teatrale, che conobbe un enorme successo nonostante il tema scandaloso per l’epoca. Secondo quanto scrivono i suoi biografi, Giuseppe Verdi affascinato dal dramma teatrale al quale aveva assistito in compagnia di Giuseppina Strepponi [nella foto] nel febbraio 1852 al Théâtre du Vaudeville di Parigi - decise di trarne un’opera lirica. Quel personaggio femminile libero ed indipendente, che resiste al perbenismo della società, che cede all’amore pagandone fino in fondo le conseguenze, e che era inserito in un contesto realisticamente e scandalosamente contemporaneo, impressionò fortemente il Maestro. La vicenda aveva tra l’altro qualche assonanza con il recente legame del musicista con la Strepponi e con le polemiche che questa unione irregolare aveva sollevato a Busseto. Verdi chiese con una lettera al librettista Francesco Maria Piave di prepararare i testi: […] affinché questo soggetto sia il più possibile originale e accattivante nei confronti di un pubblico sempre teso a cercare in argomenti inusuali un confine alla propria moralità”. Francesco Maria Piave accettò e scrisse il libretto dietro un compenso di 1.000 lire austriache. [101]


Per la rappresentazione, Verdi scrisse, come riportato da giornali dell’epoca, al Presidente del Teatro alla Fenice signor Marzari: “Ho volutamente cercato un soggetto pronto, certamente di sicuro effetto”: con questa frase di fatto, presentava e promuoveva la nuova opera da mettere in scena per il Carnevale del 1853, senza definirne né titolo né soggetto. Scritta in circa quaranta giorni, La Traviata fa parte della cosiddetta “trilogia popolare” (insieme a Trovatore e Rigoletto) che vede come protagonisti tre personaggi non nobili. [Il giovane Verdi all epo a della o posizio e della T aviata] Anche superare la cesoia del censore fu relativamente facile: la censura veneziana si era meritata la fama di liberalità e non si oppose alla messa in scena del melodramma verdiano, obiettando solo circa il titolo che, in origine, sarebbe dovuto essere “Amore e morte” e stranamente concordando su “La Traviata”, che sottintendeva ben più ardite implicazioni. Ma di quest’opera, così come in Rigoletto, la censura si soffermò su superficiali e marginali aspetti e non colse le esplosive spinte rivoluzionarie dell’opera. A Verdi venne imposto solo di anticipare il tempo della vicenda di un secolo, trasformando in tal modo un dramma di attualità in una tragedia storica precedente: si stemperava così la provocazione insita nell’additare il mondo borghese contemporaneo e la sua falsa e cinica morale come il vero responsabile della triste fine di Violetta. È il 6 marzo 1853 – appena due mesi dopo l’esordio del Trovatore a Roma – quando il sipario della Fenice di Venezia si alza per dare inizio alla prima di questa nuova opera verdiana. L’inizio dell’opera piacque al pubblico, ma dal secondo atto il consenso iniziò a scemare e l’esito complessivo fu, come disse lo stesso Maestro, “un fiasco”. Leggendo le cronache di allora, si evince che comunque il Maestro non si turbò molto, e leggendo le varie lettere da lui spedite da Venezia nei giorni successivi alla prima dell’opera, lo troviamo quasi impassibile. In una sua corrispondenza con Casa Ricordi si legge: “Non indaghiamo sulle cause, la storia è così. Colpa mia o dei cantanti? […] Il tempo giudicherà”. Al suo corrispondente da Genova rispose in questo modo: “La Traviata ha fatto un fiascone e – peggio – ne hanno riso. […] Eppure che vuoi […] Non son turbato. Ho torto io o hanno torto loro? Ma io credo che l’ultima parola sulla Traviata non sia quella di jeri sera, la rivedranno e vedremo!”. [102]


Il compositore sostenne ripetutamente che la responsabilità non era della musica ma andava imputata ai cantanti e, in subordine, all’amministrazione del teatro che non aveva accolto le sue contestazioni verso i cantanti stessi. In ogni caso, terminate le rappresentazioni alla Fenice, egli decise che non avrebbe autorizzato altre messe in scena, se Violetta, Alfredo e Giorgio Germont non fossero stati interpretati da artisti fisicamente e tecnicamente adeguati ai ruoli.

[I tre protagonisti della prima Traviata veneziana: da sin. Fanny Salvini-Donatelli (Violetta), Lodovico Graziani (Alfredo), Felice Varesi (Germont)]

Il tempo diede ragione a Verdi: la sera del 6 maggio 1854, quattordici mesi dopo l’insuccesso alla Fenice, e sempre a Venezia al Teatro San Benedetto, il popolo veneziano decretò un trionfale successo dell’opera che ottenne anche un completo consenso di stampa. Per la nuova rappresentazione Verdi apportò alcuni cambiamenti per adattarla ai nuovi cantanti: non più dunque il soprano Fanny Salvini-Donatelli che aveva tenuto a battesimo il ruolo di Violetta, ma la più sensibile e dal temperamento drammatico Maria Spezia Aldigheri: nel ruolo di Alfredo il tenore Lodovico Graziani venne sostituito dal più brillante Francesco Landi; infine al posto di Felice Varesi, dal passato glorioso ma ormai a fine carriera, cantò il più giovane e vigoroso Filippo Coletti. Mutarono solo i cantanti, invece non venne cambiato o aggiunto o tolto alcun pezzo, non un’idea musicale venne mutata. [Maria Spezia Aldigheri] Quella sera non fu altro che il preludio del percorso che La Traviata avrebbe fatto nei suoi oltre 160 anni di vita, raccogliendo trionfi e consensi in tutti i teatri del mondo, ponendosi al vertice di tutta la produzione verdiana. [103]


 ASPETTI ETICI DE “LA TRAVIATA” La protagonista, Violetta Valéry, è somigliante sia alla Marguerite Gautier del romanzo di Dumas sia alla “reale” Marie Duplessis. Tutte e tre condividono una breve vita da cortigiane d’alto bordo durante la quale conoscono la povertà, la passione e la malattia che le conduce alla morte. La cosa che più colpisce, però, è il grande sacrificio che Marguerite e Violetta – sulla scorta di quanto accaduto a Marie con il duca Agénor de Gramont – compiono per salvaguardare il buon nome dell’amato (Armand Duval/Alfredo Germont) in società e che le porta a una completa redenzione spirituale, nonostante la dissolutezza delle loro esistenze. La breve esistenza di Violetta Valéry è una vicenda di un destino privo di redenzione, una condanna a morte decretata dalle leggi stesse della mondanità prima ancora che dalla malattia. Violetta è una protagonista della vita sociale, ma può esserlo solo fino a che recita la parte e la sostiene con le sue ricchezze: il passo compiuto verso un’esistenza più felice, segnata dall’autenticità di un amore vissuto con passione sincera, sarà solo una parentesi, destinata a scontrarsi contro il mondo borghese che la circonda. Il lavoro che Verdi compie musicalmente (e Piave drammaturgicamente) sul personaggio di Violetta è quanto di più raffinato e completo si possa chiedere. Nel corso dell’opera si percepisce un cambiamento che è tanto vocale quanto psicologico: dalla cortigiana frivola e gioiosa del primo atto interpretabile soltanto da un soprano d’agilità che raggiunga velocemente note anche molto distanti sul pentagramma e molto alte, arriviamo nel secondo atto ad una giovane donna caratterizzata da un canto drammatico, profondo anche nelle tonalità acute, per passare infine nell’ultimo atto alla sofferenza del compimento del sacrificio per amore di Alfredo cantata con vocalità di soprano lirico. Nella splendida e tragica aria finale “Addio del passato”, Violetta, a dispetto della giovane età, è del tutto cosciente di ciò che la attende, e si rivolge a Dio accompagnata da una melodia che la segue come un presagio sin dal preludio al primo atto: la vita mondana, le feste nella società perbene, perfino l’amore di Alfredo – che torna da lei contrito quando sta esalando gli ultimi respiri e il cui padre si presenta al suo capezzale per chiedere perdono quando è troppo tardi – svaniscono di fronte alla tragedia di una giovane vita spezzata dalla malattia. Concludo con il mio intimo pensiero che La Traviata è ancora oggi un’opera universale nonostante i tanti cambiamenti della percezione comune su ciò che è lecito o illecito, su ciò che è socialmente accettabile o no: essa mette in scena una situazione semplice ed intramontabile, perché legata alla proiezione di un desiderio di felicità che supera la dimensione del tempo storico. 

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GUIDA ALL’ASCOLTO PRELUDIO ATTO PRIMO L’opera inizia con le note leggerissime degli archi, in un pianissimo attenuato che evoca più un senso di morte che una passione amorosa. Compare quindi il tema di “Amami Alfredo” sotto forma di valzer, combinando due aspetti che nel corso dell’opera appariranno spesso separati: l’autenticità della passione e la sua dimensione mondana, leggera e festosa, che farà da contrappunto – ora lieto ora tragico – alla vicenda di Violetta e Alfredo. Queste due “anime” sono invece qui unite e le volute decorative dei violini li ancorano ad una atmosfera nella quale risuona una promessa di leggerezza e pace. Il motivo passa quindi, rallentato, ai violoncelli: rimane nell’aria un senso di malinconia, di indecisione tra idillio e tragedia, evidenziato dall’insistente motivo ritmico su cui il Preludio si conclude.

ATTO PRIMO Scena I. La scena si apre nel salotto in casa di Violetta. Nel fondo è la porta che mette ad altra sala; ve ne sono altre due laterali; a sinistra, un caminetto con sopra uno specchio; nel mezzo è una tavola riccamente imbandita. L’orchestra esordisce con due rapide scale ascendenti che spezzano il clima sonoro del Preludio e ci introducono al clima teatrale del fastoso ricevimento. Violetta Valèry è una celebre cortigiana parigina mantenuta dal Barone Douphol e sta dando una festa molto animata. Seduta sopra un divano, la donna sta discorrendo col Dottore e con alcuni amici, mentre altri vanno ad incontrare quelli che sopraggiungono, tra i quali il Barone e Flora al braccio del Marchese. Questa lunga parte iniziale è un’alternanza di scene corali e di primi piani: i protagonisti emergono a tratti dai gruppi compatti di personaggi che affollano la festa.

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Le parole di Violetta, che accoglie gli invitati, sono sottolineate da un violino solista.

Scena II. E’ ancora il violino solista a fungere da tramite per l’ingresso di altri ospiti. Gastone, visconte di Letorières, presenta Alfredo a Violetta come un altro dei suoi tanti ammiratori: è il primo incontro tra i due protagonisti dell’opera. Siedono tutti a tavola, Violetta è tra Alfredo e Gastone; di fronte siede Flora tra il Marchese ed il Barone, gli altri siedono a piacere. Gastone rivela a Violetta che Alfredo è innamorato di lei. La donna finge di non dare peso alla confidenza ma nell’intimo ne è toccata. Alfredo brinda quindi a Violetta. L’aria è preceduta da una fanfara.

ALFREDO. Libiam ne' lieti calici che la bellezza infiora, e la fuggevol ora s'inebri a voluttà. Libiam ne' dolci fremiti che suscita l'amore, poiché quell'occhio al core (indicando Violetta) onnipotente va. TUTTI. Libiamo; amor fra i calici più caldi baci avrà. VIOLETTA (s'alza). Tra voi saprò dividere il tempo mio giocondo; tutto è follia nel mondo ciò che non è piacer. Godiam, fugace e rapido è il gaudio dell'amore; è un fior che nasce e muore, né più si può goder. TUTTI. Godiam... la tazza e il cantico le notti abbella e il riso; in questo paradiso ne scopra il nuovo dì. VIOLETTA (ad Alfredo). La vita è nel tripudio... ALFREDO (a Violetta). Quando non s'ami ancora. VIOLETTA (ad Alfredo). No 'l dite a chi lo ignora... ALFREDO (a Violetta). È il mio destin così. TUTTI. Godiam... la tazza e il cantico le notti abbella e il riso; in questo paradiso ne scopra il nuovo dì.

[La Traviata: Teatro lirico di Cagliari, 2016]

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Affetta

da un male che ancora nessuno conosce (solo poco prima della fine dell’opera sarà

pronunciata la parola fatale “tisi”), Violetta accusa un malore e insiste perché gli invitati passino nella sala da ballo per restare sola in attesa di riprendersi.

[Luciano Pavarotti (Alfredo), Renata Scotto (Violetta). Covent Garden, 1965]

Scena III. Violetta si guarda allo specchio e scopre il suo pallore. Si accorge della presenza di Alfredo e cerca di rassicurarlo sulla sua salute. Alfredo le professa il suo amore. Violetta, lusingata ma scettica sulle parole di Alfredo gli fa quindi l’unica domanda possibile: VIOLETTA. Da molto è che mi amate?... ALFREDO. Ah sì, da un anno. Un dì, felice, eterea, mi balenaste innante, e da quel dì tremante vissi d'ignoto amor. Di quell'amor ch'è l'anima dell'universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor. Violetta è turbata, e offre saggiamente ad Alfredo solo la sua amicizia. VIOLETTA. Ah, se ciò è ver, fuggitemi, solo amistade io v'offro: amar non so, né soffro di così eroico ardor. Io sono franca, ingenua; altra cercar dovete; non arduo troverete dimenticarmi allor. Entra Gastone che chiede cosa i due stavano facendo. Violetta gli risponde che stavano folleggiando. L’uomo esce. [107]


Violetta subito dopo smentisce quando detto prima ad Alfredo: la donna regala all’innamorato una camelia, promettendogli di rivederlo quando sarà appassita, cioè già il giorno dopo. In questo modo si dichiara a sua volta, innescando l’entusiasmo di Alfredo.

Scene IV-V. La festa intanto è finita e gli invitati vanno via. Rimasta sola, Violetta esprime sentimenti contraddittori: il turbamento nel sentirsi toccata dall’amore di Alfredo (E’ strano!), la speranza di aver trovato un autentico sentimento (Ah, forse è lui che l’anima!), il riscuotersi dell’illusione (Follie! Follie!) e l’amara costatazione di essere destinata a restare libera e sola (Sempre libera degg’io) anche nell’animata vita parigina. VIOLETTA. È strano!... è strano!... in core scolpiti ho quegli accenti! Sarìa per mia sventura un serio amore?... Che risolvi, o turbata anima mia?... Null'uom ancora t'accendeva... o gioia ch'io non conobbi, essere amata amando!... E sdegnarla poss'io per l'aride follie del viver mio? Ah, forse è lui che l'anima solinga ne' tumulti godea sovente pingere de' suoi colori occulti!... Lui che modesto e vigile all'egre soglie ascese, e nuova febbre accese, destandomi all'amor. A quell'amor ch'è palpito dell'universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor. A me fanciulla, un candido e trepido desire questi effigiò dolcissimo signor dell'avvenire, quando ne' cieli il raggio di sua beltà vedea, e tutta me pascea di quel divino error. Sentìa che amore è palpito dell'universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor! (Violetta resta concentrata un istante) Follie!... follie!... delirio vano è questo!... in quai sogni mi perdo, povera donna, sola abbandonata in questo popoloso deserto che appellano Parigi, che spero or più?... che far degg'io?... Gioire, di voluttà nei vortici finire. Sempre libera degg'io trasvolar di gioia in gioia, perché ignoto al viver mio nulla passi del piacer. Nasca il giorno, il giorno muoia, sempre me la stessa trovi; le dolcezze a me rinnovi ma non muti il mio pensier.

ATTO SECONDO Scena I. All’apertura del II atto, Alfredo e Violetta hanno già una relazione stabile. I due vivono da tre mesi in una casa di campagna presso Parigi, dove è ambientata la scena. Alfredo, momentaneamente solo, esprime la felicità di stare vicino a Violetta, che per amor suo, ha abbandonato la vita dissipata e brillante.

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[Maria Callas. La Traviata – Teatro alla Scala, Milano] [109]


Un ampio e arioso monologo introduce il cantabile “Dai miei bollenti spiriti”, la cui melodia è sostenuta da un accompagnamento agitato dagli archi, i quali si distendono seguendo passo passo le inflessioni del canto, fino alla parole finali dell’aria. ALFREDO. De' miei bollenti spiriti il giovanile ardore ella temprò col placido sorriso dell'amore! Dal dì che disse: vivere io voglio a te fedel, dell'universo immemore io vivo quasi in ciel. E’ evidente, persino nell’andamento musicale artificioso della cabaletta, che Verdi non ha in simpatia il personaggio di Alfredo, banale provinciale attento alle proprie voglie ma molto meno a capire la tempra della donna che lo ha attratto ed i suoi generosi comportamenti anche finanziari: per una donna abituata alla sostanziale umiliazione di essere pagata, il vero amore non ha prezzo. Lo scontro tra i desideri degli umani e le eterne beffe del destino è il nucleo narrativo dell’opera.

Scena II. Alfredo viene richiamato alla realtà dalla governante Annina che gli comunica che Violetta ha dovuto vendere i suoi pochi beni per far fronte alla loro dispendiosa vita a due. Dato che occorre altro denaro, l’uomo decide di recarsi immediatamente a Parigi per porre rimedio a questa situazione drammatica.

Scena III. Alfredo è in preda al rimorso. L’aria che canta rivela gli eccessi del suo carattere, che esploderanno nell’ira nel finale dell’atto. ALFREDO. Oh mio rimorso! Oh infamia!... e vissi in tale errore!... ma il turpe sogno a frangere il ver mi balenò. Per poco in seno acquetati, o grido dell'onore; m'avrai securo vindice, quest'onta laverò.

Scena IV. Stupita per l’improvvisa partenza del suo amato, Violetta riceve un invito a una festa in casa di Flora, a cui decide di non partecipare avendo ormai rinunciato al passato.

Scena V. La svolta della vicenda si compie con l’arrivo di Giorgio Germont, il padre di Alfredo. All’insaputa del figlio, egli è venuto a chiedere a Violetta di rinunciare a questa relazione scandalosa che potrebbe impedire la celebrazione del matrimonio, già programmato, della sorella di Alfredo. Questo duetto tra Violetta e Germont è uno dei cardini emotivi e musicali dell’opera. Verdi provvede con la sua musica ad accompagnare, quasi in una serie di istantanee musicali, la rapida successione di eventi e i continui rovesciamenti di prospettiva: dalla collera Giorgio Germont passa rapidamente [110]


a un atteggiamento di ammirazione e poi di preghiera, mentre Violetta passa da una posizione di inferiorità ad una di forza, trasformando la sua sconfitta in un nobilissimo sacrificio. Violetta dà a Germont le carte in cui dimostra di aver venduto tutti i suoi beni pur di non chiedere denaro all’amante. Germont ne è turbato e passa dall’arroganza iniziale ad un tono di supplica e spiega le sue profonde preoccupazioni per la figlia.

[Renata Tebaldi (Violetta), Carlo Tagliabue (Germont). Napoli 1954]

GERMONT. Pura siccome un angelo Iddio mi diè una figlia; se Alfredo nega riedere in seno alla famiglia, l'amato e amante giovane, cui sposa andar dovea, or si ricusa al vincolo che lieti ne rendea... deh, non mutate in triboli le rose dell'amor. Ai preghi miei resistere non voglia il vostro cor. Dapprima convinta di doversi allontanare da Alfredo solo per un breve periodo, e generosamente disposta a farlo, Violetta apprende con sgomento che Germont le chiede di rinunciare a lui addirittura per sempre. Violetta oppone il suo netto rifiuto: a questo grido di dolore si accompagna una scrittura orchestrale fatta di accordi sferzanti degli archi che si alternano a leggeri pizzicati.

VIOLETTA Non sapete quale affetto vivo, immenso m'arda in petto?... Che né amici, né parenti io non conto tra' viventi?... E che Alfredo m'ha giurato che in lui tutto io troverò? Non sapete che colpita d'atro morbo è la mia vita? Che già presso il fin ne vedo?... Ch'io mi separi da Alfredo?... Ah, il supplizio è si spietato, che morir preferirò. Germont, fra accenti suadenti e altri minacciosi, le prospetta allora tutte le difficoltà di una unione non sancita dal matrimonio e le pone di fronte ad un terribile argomento: quando Violetta non sarà più giovane e bella, non avrà scampo perché questa relazione non sarà mai benedetta dai vincoli [111]


nunziali. La donna alla fine, disperata e piangente, accetta, convinta solo dalla consapevolezza che questo suo immane sacrificio gioverà alla famiglia del suo Alfredo.

VIOLETTA. Dite alla giovine, sì bella e pura, ch'avvi una vittima della sventura, cui resta un unico raggio di bene... che a lei il sacrifica e che morrà! GERMONT. Piangi, o misera... supremo, il veggo, è il sacrifizio ch'or io ti chieggo. Sento nell'anima già le tue pene; coraggio, e il nobile tuo cor vincerà. Il colloquio si conclude con un commovente congedo fra i due. Violetta chiede a Germont che Alfredo, quand’ella morrà, conosca il suo sacrificio, in modo che almeno sia salva ed integra la sua memoria. Germont, che non ha ancora compreso la gravità della malattia della donna, le augura di vivere felicemente, paga della sua generosità.

Scena VI. Rimasta sola, Violetta scrive una lettera di addio ad Alfredo. L’orchestra accompagna ed esplicita i pensieri della donna: Verdi costruisce piccoli moduli musicali, ognuno dei quali è in sé compiuto. Alfredo sopraggiunge improvvisamente; ignaro della visita già avvenuta, il giovane le annuncia di aver invitato il padre perché possa conoscerla. Col pretesto di voler evitare l’incontro, Violetta si allontana, è un addio, ma non prima di aver gridato ad Alfredo tutto il suo amore: Amami, Alfredo, ua t io a o… Addio.

Scena VII. Alfredo è rimasto solo. Giuseppe, il domestico di Violetta, gli comunica che la donna è andata via in calesse alla volta di Parigi. Alfredo non si preoccupa, pensando che la donna sia andata via per cercare di non dissipare i suoi ultimi beni. Vede arrivare il padre, ma nel frattempo da un messo gli viene consegnata una lettera.

Scena VIII. Alfredo legge la lettera di Violetta, si abbandona tra le braccia del padre che invano lo consola e tenta di ricondurlo in famiglia.

GERMONT. Di Provenza il mar, il suol chi dal cor ti cancellò? Al natio fulgente sol qual destino ti furò?... Oh, rammenta pur nel duol ch'ivi gioia a te brillò, e che pace colà sol su te splendere ancor può. Dio mi guidò! Ah! il tuo vecchio genitor tu non sai quanto soffrì!... Te lontano, di squallor il suo tetto si coprì... ma se alfin ti trovo ancor, se in me speme non fallì, se la voce dell'onor in te appien non ammutì, Dio m'esaudì! [112]


Alfredo è sconvolto ma il suo dolore si tramuta in ira allorchè scopre l’invito alla festa di Flora: si precipita a Parigi per vendicarsi.

Scena IX. Una breve introduzione musicale opera un netto stacco con l’atmosfera raccolta delle scene precedenti, introducendo una dimensione mondana. La festa mascherata in casa di Flora Bervoix ci riporta all’atmosfera del primo atto, ma con una netta divisione in due sezioni sceniche. Alla prima appartengono i ballabili, tra i migliori in assoluto scritti da Verdi, alla seconda tutto il precipitare drammatico dell’azione che coincide con l’ingresso in scena di Alfredo. Nel salone del palazzo di Flora, riccamente addobbato ed illuminato, è in corso la festa. Già corrono le voci della fine della relazione tra Violetta e Alfredo.

Scena X. A fare il suo ingresso al ballo mascherato per primo è il coro femminile delle dame travestite da zingare, accompagnato dal suono di tamburelli da strada.

ZINGARE. Noi siamo zingarelle venute da lontano; d'ognuno sulla mano leggiamo l'avvenir. Se consultiam le stelle null'avvi a noi d'oscuro, e i casi del futuro possiamo altrui predir. Flora e il Marchese rievocano la loro passata relazione amorosa vissuta con galante leggerezza e finita senza rancori. [Teatro Massimo, Palermo. 2012]

Scena XI. Il secondo gruppo di ospiti in maschera è il coro maschile dei toreri, fra i quali Gastone, l’amico che aveva presentato Alfredo a Violetta. Nessun accenno musicale alle melodie spagnole, ma solo rappresentazione dell’amore come gioco di società, sotto il segno della leggerezza: non il coraggio per affrontare i tori, ma a questi uomini di mondo per conquistare la loro bella basta folleggiar. L’audacia si riserva al rischio del gioco alle carte, ed è appunto con questo invito che si chiude la scena. [113]


[Renata Tebaldi. La Traviata – Parma 1947. Museo Renata Tebaldi]

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Scena XII. Anticipato da un incalzante ritmo di tipo cavalleresco e guerresco, Alfredo entra in sala tra lo stupore dei presenti, sottolineato dagli accordi spezzati dell’orchestra. Inizia al tavolo il gioco delle carte, gli invitati puntano su di esse. Accompagnata da rapide serpentine degli archi, giunge al salone anche Violetta al braccio dell’ex amante, il Barone Douphol, che accortosi della presenza di Alfredo, intima alla donna di non rivolgere all’uomo neanche una parola. Il Barone sfida a carte Alfredo ma ne viene battuto.

Scena XIII. Gli invitati passano quindi per cena in un altro salone e Violetta e Alfredo si trovano a soli. Nel drammatico colloquio la donna avverte Alfredo del pericolo rappresentato dal barone. Il giovane si dichiara disposto ad andarsene ma solo se Violetta lo seguirà. La donna, per tener fede al patto con Giorgio Germont, gli mente affermando di amare il Barone.

Scena XIV. Alfredo, in un crescente accesso d’ira, chiama concitatamente tutti gli invitati, ed in segno di disprezzo getta del denaro a Violetta, a risarcimento di ciò che ella ha speso per lui quando i due si amavano.

[Mariella Devia, Stefan Pop. Teatro Massimo, Palermo. 2012]

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ALFREDO. Ogni suo aver tal femmina per amor mio sperdea... io cieco, vile, misero, tutto accettar potea. Ma è tempo ancora, tergermi da tanta macchia bramo...qui testimoni vi chiamo, ch'ora pagata io l'ho. Il gesto di pagare una donna implica un’evidente offesa morale. Violetta sviene fra le braccia di Flora e del Dottore. Entra anche Giorgio Germont.

Scena XV. Gli invitati esprimono rabbia e disgusto non verso Violetta ma verso chi ha insultato ignobilmente la donna, infrangendo le regole di comportamento in società. L’ira degli invitati apre il vasto concertato finale, nel quale, in unico tessuto musicale, prendono la parola tutti i personaggi principali e il coro degli invitati. Inizia appunto il coro, cioè la buona società, che fa da scudo a Violetta, espellendo Alfredo. Entra poi Giorgio Germont, con un Largo in cui manifesta il suo dolore. E’ poi la volta di Alfredo, le cui frasi spezzate sostenute dagli accordi nervosi dell’orchestra indicano l’intimo passaggio dall’ira al rimorso. Compare anche il Barone che, sia pure a bassa voce, può finalmente sfidare il giovane rivale. Infine ecco Violetta, la cui vocalità è ancora una volta elevata a un livello superiore a quello di tutti gli altri. Il suo canto toccante e lirico viene contrappuntato, dopo la prima strofa, dagli interventi di tutti gli altri, in un crescendo che coinvolge tutti: è una delle pagine più belle scritte da Giuseppe Verdi, perché piena di energia e pathos al tempo stesso. Solo nel finale questo ritmo si interrompe, lasciando lo spazio ad un tempo lento, sicuramente sorprendendo all’epoca un uditorio che si aspettava, come da regola, un finale dall’accelerazione ritmica.

TUTTI. Oh, infamia orribile tu commettesti!... Un cor sensibile! Così uccidesti!... Di donne ignobile insultator, di qua allontanati, ne desti orror. GERMONT (con dignitoso fuoco). Di sprezzo degno sé stesso rende chi pur nell'ira la donna offende... Dov'è mio figlio?... più non lo vedo; in te più Alfredo trovar non so. (Io sol fra tanti so qual virtude di quella misera il sen racchiude... io so che l'ama, che gli è fedele; eppur, crudele, tacer dovrò!). ALFREDO. (Ah sì!... che feci! ne sento orrore!... gelosa smania, deluso amore mi strazian l'alma... più non ragiono...da lei perdono più non avrò. Volea fuggirla non ho potuto... dall'ira spinto son qui venuto!... or che lo sdegno ho disfogato, me sciagurato!... rimorso io n'ho!). BARONE (piano ad Alfredo). A questa donna l'atroce insulto qui tutti offese, ma non inulto fia tanto oltraggio... provar vi voglio che tanto orgoglio fiaccar saprò. VIOLETTA (riavendosi). Alfredo, Alfredo, di questo core non puoi comprendere tutto l'amore... tu non conosci che fino a prezzo del tuo disprezzo provato io l'ho. Ma verrà giorno, in che il saprai... com'io t'amassi conoscerai... dio dai rimorsi ti salvi allora... io spenta ancora pur t'amerò. TUTTI (a Violetta). Ahi quanto peni... ma pur fa core... qui soffre ognuno del tuo dolore; fra cari amici qui sei soltanto, rasciuga il pianto che t'inondò. [116]


PRELUDIO ATTO TERZO Il Preludio del III atto si annuncia con le stesse note di quello del 1° atto, ma cambia subito espressione: mancano infatti le note gioiose del valzer amoroso e dei ballabili, mentre predominano gli accenti dolorosi, segno della svolta tragica della vita di Violetta. La melodia è condotta dai violini ed è accompagnata da un pizzicato che sostiene anche l’intervento dei legni. Il fraseggio è spezzato, a voler sottolineare il dramma imminente.

ATTO TERZO Scene I-II-III. Violetta è morente nel suo letto, mentre fuori, in stridente contrasto, impazza il carnevale parigino. Il medico, venuto a visitarla, la conforta, ma rivela alla governante Annini che la tisi non le accorda che poche ore.

Scena IV. Violetta trae dal seno una lettera e rilegge per l’ennesima volta la lettera in cui Giorgio Germont le comunica che si è consumato il duello tra Alfredo e il Barone e che quest’ultimo è stato ferito fortunatamente in modo non grave. Germont scrive anche che Alfredo è stato informato del sacrificio di lei e che sta tornando precipitosamente dall’estero per accorrere dalla sua amata. Il violino torna in veste di solista riecheggiando l’aria d’amore di Alfredo (Di quell’amor che è palpito): la donna è consapevole che la fine è vicina (“E’ tardi”) e teme di non riuscire a rivedere il suo Alfredo. Inizia un altro dei suoi cantabili, ormai privo di ogni agilità vocale e ridotto a un flebile lamento, che poi diventa preghiera. L’orchestra dapprima tenue, quasi impalpabile, si distende lasciando ampio alla voce della donna, cedendole per intero lo spazio scenico; si distacca solamente l’oboe, strumento fra i più dolci e delicati. VIOLETTA. Addio, del passato bei sogni ridenti, le rose del volto già son pallenti; l'amore d'Alfredo pur esso mi manca, conforto, sostegno dell'anima stanca... Ah, della traviata sorridi al desìo; a lei, deh, perdona, tu accoglila, o Dio. Or tutto finì. Le gioie, i dolori tra poco avran fine, la tomba ai mortali di tutto è confine! Non lagrima o fiore avrà la mia fossa, non croce col nome che copra quest'ossa! Ah, della traviata sorridi al desìo; a lei, deh, perdona; tu accoglila, o Dio. Or tutto finì! [117]


Dalla strada giungono le voci e i suoni del carnevale: la festa, ormai non si svolge più attorno a Violetta, ma fuori della sua stanza, preannuncio di una separazione dal mondo senza ritorno.

Scene V-VI. Annina annuncia con cautela a Violetta una “gioia improvvisa”, l’arrivo di Alfredo. Gli archi accompagnano questo arrivo infittendo la loro trama con un emozionante crescendo di attesa. Alfredo compare pallido per l’emozione e abbraccia la donna chiedendole perdono; tenta poi di convincerla che tutto potrà poi tornare come prima.

ALFREDO E VIOLETTA. Parigi, o cara noi lasceremo, la vita uniti trascorreremo: de' corsi affanni compenso avrai, la tua salute rifiorirà. Sospiro e luce tu mi sarai, tutto il futuro ne arriderà. Violetta vorrebbe alzarsi dal letto e recarsi in chiesa per recitare una preghiera di ringraziamento, ma le forze non la sostengono ed ella si abbandona sfinita. Quando riapre gli occhi, la donna ha un momento di estrema ribellione al suo destino, e manda Annina a chiamare il dottore VIOLETTA. Digli... che Alfredo è ritornato all'amor mio... Digli che vivere ancor vogl'io... Al termine di queste parole sopraggiunge un brusco intervento degli ottoni, strumenti che una lunga tradizione operistica associa al funebre richiamo dell’aldilà. La donna si rivolge quindi al suo amato con due dei più bei versi di tutta l’opera (“Ma se tornando non m'hai salvato, a niuno in terra salvarmi è dato”), per poi dar voce agli ultimi suoi palpiti di disperata rassegnazione:

VIOLETTA. Gran Dio!... morir sì giovane,io che penato ho tanto!...Morir sì presso a tergere il mio sì lungo pianto! Ah, dunque fu delirio la credula speranza; invano di costanza armato avrò il mio cor! Alfredo... oh, il crudo termine serbato al nostro amor!...

Scena ultima. L’arrivo del padre di Alfredo apre il finale dell’opera, con le voci che cantano insieme per l’ultima volta nel concertato conclusivo. Germont esprime tutto il suo rimorso: GERMONT. Di più non lacerarmi... Troppo rimorso l'alma mi divora... Quasi fulmin m'atterra ogni suo detto... Oh, malcauto vegliardo!... Ah, tutto il mal ch'io feci ora sol vedo!

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Violetta richiama l’attenzione di Alfredo e gli consegna un medaglione che la raffigura sana e raggiante, affinchè l’uomo non si dimentichi mai di lei: se lui dovesse avere un nuovo legame, lo faccia vedere a questa donna, che sappia che lei li benedice dal cielo e prega per loro. L’orchestra si assottiglia quasi a scomparire, ma subito riemerge con un ritmo di marcia funebre che si conclude un breve glissando crescente, quasi un lampo di luce sulle parole commosse die presenti (“nel ciel tra gli angeli”). Qui si innestano le ultime parole di Violetta, prima di cadere senza vita sul letto. VIOLETTA. E st a o! Cessa o o gli spas i del dolo e, i ritorno a vivere!... (trasalendo) Oh gioia!...

e i as e...

'a i a i solito vigo e!.. .Ah! io

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DISCOGRAFIA Trattandosi di una delle opere in assoluto più popolari di Verdi il panorama discografico appare molto corposo, ragion per cui non è facile operare una scelta tra le tante edizioni in commercio, alcune della quali molto belle. A mio parere si tratta di opera dove più che la direzione di orchestra, certamente importante, risulta fondamentale la prestazione della protagonista, cui Verdi ha destinato uno dei ruoli sopranili più vocalmente complessi e psicologicamente sfaccettati che si ricordino. Molti autorevoli critici hanno peraltro sostenuto che la tessitura vocale di Violetta richiederebbe ben tre diversi soprani ovvero una “leggera” nel primo atto, una “lirica” nel secondo e infine una “drammatica” nel terzo !!!!

Le tre Traviate della Callas Maria Callas è stata una delle più grandi cantanti liriche del XX secolo, se non la più grande, nonostante la sua voce avesse un timbro oscuro, talvolta viziato da eccessivi vibrati e da notevoli interruzioni di registro. La sua profonda e accurata comprensione delle partiture musicali era leggendaria e le sue esibizioni spesso rivelavano particolari inaspettati e importantissimi alla [119]


comprensione. Purtroppo, a causa di crescenti problemi vocali, la sua carriera discografica di opere complete fu piuttosto breve (1951-1964). Uno dei suoi ruoli più importanti è stato Violetta in La Traviata di Verdi, che ha eseguito 63 volte su sette anni. Tre sono le registrazioni che dimostrano, in tempi successivi, la grande osmosi Violetta/Callas: Roma, 1953 (Cetra e poi Naxos), Milano, 1955 (EMI) e Lisbona, 1958 (EMI e poi Myto).

Verdi: La Traviata. Maria Callas, Francesco Albanese [Alfredo], Ugo Savarese [Germont] Orchestra Sinfonica della RAI di Torino, dir. Gabriele Santini. Naxos In questa registrazione del 1953 in studio la Callas - che a quell’epoca aveva già interpretato questo ruolo in teatro altre 28 volte sotto otto diversi direttori in dieci città diverse - è eccellente al contrario dei suoi colleghi: i ruoli di Alfredo e Giorgio Germont sono non più che accettabili, con un debole potere emotivo e modesto lirismo. Il direttore d'orchestra, Gabriele Santini, è un grande verdiano, ma in questa registrazione è abbastanza anonimo, così come il coro. Poche parti in questa registrazione sono memorabili, come le arie di Violetta e il brindisi. Per quanto riguarda il suono, la registrazione di Cetra del 1953 è stata rimasterizzata per Naxos Historical nel 2005, ed il risultato è stato veramente ottimo. 

Verdi: La Traviata Maria Callas, Giuseppe Di Stefano [Alfredo], Ettore Bastianini [Germont]. Coro ed Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, dir. Carlo Maria Giulini. EMI In totale, furono 21 le recite dell’opera alla Scala, ma l'EMI ha registrato solo la prima serata. Questa performance è stata eseguita dopo un anno e nove mesi dalla precedente con Santini, un tempo considerevolmente breve in genere, ma si rileva subito una grande differenza legata all’allestimento e regia (Luchino Visconti) e alla conduzione (Carlo Maria Giulini). In questa edizione del 1955 c’è la migliore e insuperata Violetta di tutti i tempi. Così diceva Visconti: “Tutte le Traviate che [120]


verranno, tra poco, non subito (perché la presunzione umana è un difetto difficilmente eliminabile) avranno un po’ della Traviata di Maria, un po’, in principio, poi molto, poi tutto. Le Violette future saranno Violette-Maria”. E’ fatale, in arte, quando qualcuno insegna qualcosa agli altri, alle altre. Maria ha insegnato”. Purtroppo sia Di Stefano che Bastianini non erano al loro meglio: il primo canta malissimo e interpreta anche peggio, mentre il secondo canta meglio ma è poco partecipe. La qualità della registrazione è veramente scadente, il suono è mediocre con fastidiosi rumori di scena da un nastro di trasmissione dal vivo. Da avere solo per la Callas! 

Verdi: La Traviata Maria Callas, Alfredo Kraus [Alfredo], Mario Sereni [Germont]. Teatro nacional de São Carlos di Lisbonam, dir. Franco Ghione. Myto Al momento di questa terza registrazione (Lisbona, 27 marzo 1958) eseguita da una trasmissione radiofonica in diretta, Maria Callas non cantava Traviata da quasi due anni, con l'eccezione di due sole esibizioni a New York nel febbraio 1958, il mese prima della registrazione di Lisbona. Ci sono state solo due esibizioni a Lisbona e, dopo una settimana difficile a Londra a giugno e altre due esibizioni a Dallas a novembre, la Callas non ha mai più cantato l'opera. In questo senso, la registrazione di Lisbona può essere considerata di alto valore storico. Callas semplicemente stupenda! Tutti i critici concordano che la grande Maria è in uno stato di compiutezza e varietà espressiva tale - pur se colta nei primi anni della parabola discendente legata ad un netto e progressivo declino vocale - da rendere questa una delle versioni più compiute e ammirevoli della sua Violetta. E’ nettamente migliore della sua prova del 1955 con Giulini, a dispetto di una condizione vocale inferiore. E rispetto alle sue prove successive, qui dispone ancora di una voce ancora abbastanza sicura e ferma da portare a compimento ogni intenzione espressiva. Tutta la sua recita è improntata al massimo della tensione e del pathos: la soprano riesce a esprimere il meglio di se stessa, avendo ormai interiorizzato quella "traviata" così come le aveva pensata Luchino Visconti. La registrazione di Lisbona può essere ascoltata come prova di un approfondimento dell'intensità emotiva dell'interpretazione del ruolo da parte di Callas e, infine, raffinatezza e maturità dopo più di sette anni dal suo debutto a Firenze: la performance è considerata da molti come una delle caratterizzazioni più toccanti.

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Ma ia Callas, la piĂš g a de Violetta [122]


Un cast veramente eccellente inoltre la supporta al meglio. Un giovane, ma già sublime Alfredo Kraus, esaltato dalla presenza della celeberrima collega, nel pieno delle sue qualità vocali, è un Alfredo straordinario, per impeto, correttezza vocale, freschezza interpretativa. Difficile sentire registrato un Kraus tanto animato e vitale. E per una volta abbiamo in una registrazione con la Callas un tenore del tutto all'altezza della soprano greca. Uno dei migliori Alfredo che si possano udire in disco. Mario Sereni completa degnamente il cast dei protagonisti. Uno dei pochi baritoni poco incline alla stentoreità e alle forzature della gamma acuta che andavano tanto di moda in bassi e baritoni dell'epoca. Con la sua bella voce ampia e calda che l'ha sempre contraddistinto, tratteggia un Germont severo, autoritario esprimendo forza e sicurezza in una parte non certo facile. Bruson gli è senza dubbio superiore, ma la prova di Sereni è ciononostante complessivamente validissima. Franco Ghione, grazie alla sua grande esperienza sul podio, guida con autorevolezza sotto la sua bacchetta tutto il cast canoro supportato da un’ottima orchestra, sceglie tempi sempre corretti, tanto da potersi dire che questa Traviata può essere considerata la migliore tra quelle proposteci in registrazione. La registrazione di Lisbona del 1958 è stata rimasterizzata nel 2008 da Myto da un eccellente master di trasmissione originale appena scoperto. Anche se ci sono ancora alcuni rumori di fase (come nella maggior parte delle registrazioni live), la qualità del suono sembra spesso come lo stereo in DDD. registrazione Myto va considerata la versione di gran lunga migliore. Questa è la Traviata definitiva. Nessun'altra performance vi si avvicina. Assolutamente da avere!

Verdi: La traviata Renata Scotto, Alfredo Kraus [Alfredo], Renato Bruson [Germont]. Ambrosian Opera Chorus. Philharmonia Orchestra, dir. Riccardo Muti. Warner Classics Ancora oggi questa interpretazione della Traviata del 1981 è tra quelle di riferimento. Coro ed orchestra ottimi e guidati da Muti in maniera straordinaria, la varietà dinamica e i colori ottenuti dal direttore sono infiniti. Muti si conferma qui il più grande direttore verdiano di tutti i tempi! Vi è un’eccellente fusione tra prova orchestrale e sostegno dato ai cantanti (soprattutto la Scotto e Bruson), giacché in alcuni brani si crea un gioco di emulazione tra canto ed orchestra per quanto riguarda fraseggio, colori e dinamiche rarissimo da ascoltarsi, in disco e non. Inoltre Muti sceglie l'integralità [123]


assoluta del testo, e questo comporta finalmente la possibilità di approfondire espressivamente le arie tramite l'esecuzione dei "da capo" come raramente capita di udire. La meravigliosa prova di Muti è stata resa possibile soprattutto dalla presenza della Scotto, con la quale Muti manifesta una unitarietà di intenti straordinari. La Scotto di questa edizione, colta nel periodo declinante della carriera, dosa in maniera molto intelligente le sue forze: per ridurre le oscillazioni degli acuti assottiglia il timbro e ricorre sovente e piani e pianissimi di grande suggestione, ed anche se la voce è usurata gli acuti striduli sono comunque sempre timbrati ed in questa registrazione mai spinti sul fortissimo, in modo da non essere quasi mai forzati. Ma è nell'interpretazione che questa Violetta si conferma una delle migliori del XX secolo: se nel canto di conversazione cede alla Callas per inventiva, la Scotto dà una lettura dei pezzi chiusi unica per approfondimento espressivo e varietà di fraseggio e sfrutta a tal fine ogni possibilità offerta dal ricorrere dei da capo voluti da Muti. Una splendida prova, forse imperseguibile in teatro, ma magnifica da ascoltare in disco. Anche Bruson è su un livello elevatissimo: voce integra (ma qualche estremo acuto è un po’ sfocato) è grande interprete anche lui, e la sua prestazione è complessivamente ottima. Su un livello inferiore Kraus, ma non per questioni vocali. Sempre di grande eleganza il canto ed integra la voce, il Kraus di questa edizione è molto distaccato nel fraseggio, facendo rimpiangere il suo Alfredo giovanile al fianco della Callas nella Lisbona del 58. Coro ed orchestra ottimi. Dal punto di vista tecnico, nell'ultimo remastering la qualità sonora è divenuta eccellente da ottima che già era all'origine, e la dinamica è una delle più ampie si possa trovare in un disco inciso. Imperdibile.

Verdi: La Traviata Montserrat Caballè, Carlo Bergonzi [Alfredo], Sherril Milnes [Germont]. RCA Italiana Opera Chorus and Orchestra, dir. Georges Prêtre. Sony Classical Opera La Caballé in questa registrazione del 1967 è semplicemente meravigliosa come qualità vocale; certo non è una Violetta nevrastenica e realistica come le grandi Violette coeve, ma è notevolmente espressiva, pur se tutta rivolta al lato lirico-patetico del personaggio. Dal punto di vista strettamente vocale la Traviata della Caballè incisa nel corso dei suoi primi anni di carriera non teme alcun confronto e la sua voce era quella che meglio rispondeva ai

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dettami del canto verdiano, che esige, più di altri, la suggestione di uno stile "italiano". Bergonzi è del pari splendido, ed anzi nel suo caso l'affinità con il mondo di Verdi è evidente dal punto di vista stilistico e vocale: è inequivocabilmente il più grande tenore verdiano nel ruolo di Alfredo. Ottimo anche Sherrill Milnes sia come interpretazione che come qualità vocale. Questa edizione della Traviata porta un limite nella direzione di Prêtre: a tratti inutilmente veloce, a tratti troppo lento, a tratti chiassoso, soprattutto Prêtre mostra una rigidità nella condotta dei tempi incomprensibile per un direttore d'opera: ne esce una direzione che toglie qualità espressiva e musicale all'interpretazione più che aggiungerla. La registrazione è ottima, ed ottimamente riversata in CD: la dinamica del disco è amplissima, quindi occorrono impianti Hi-Fi di buon livello per riprodurlo al meglio, pena un suono distorto nei forti e fievole nei pianissimi.

Verdi: La Traviata Mirella Freni, Franco Bonisolli [Alfredo], Sesto Bruscantini [Germont]. Chor der Staatsoper Berlin. Staatskapelle Berlin, dir. Lamberto Gardelli. Da Records La protagonista di questa Traviata registrata a Berlino nel 1973 è Mirella Freni. La sua è una voce impeccabile, che canta con un tono toccante e limpido, con una grande cura del fraseggio: dà vita ad una Violetta sfumata e dolente. Molti la criticano e dicono che è stato un suo errore affrontare il ruolo, personalmente ritengo che il suo canto sempre perfetto a livello tecnico, sempre espressivo, l'emissione impeccabile, il gusto per l'accento e per la parola, la rendono una delle Violette più commoventi e sincere, nonché meglio cantate. Non è comunque paragonabile alla personalità della Callas! Il tenore Franco Bonisolli canta veramente molto bene, è un solido Alfredo, ingenuo e impetuoso e accompagna splendidamente Freni. Il Giorgio di Bruscantini è uno dei più incisivi di sempre, terribile e paterno. Il duetto con la Freni, il loro canto sempre controllato e impeccabile, la sincerità che emerge dalla loro interpretazione li rende i più grandi del II atto. Molto potente e forte la Staatskapelle Berlin; la conduzione è apprezzabile e rispettosa della partitura. La qualità del suono di questa rara registrazione è molto buona, chiara, luminosa e piena qualità; la riproduzione orchestrale discretamente eccellente.

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Verdi: La Traviata Joan Sutherland, Carlo Bergonzi [Alfredo], Robert Merril [Germont]. Coro ed Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, dir. Sir John Pritchard. Decca Dame Joan Sutherland possiede delle agilità vocali miracolose, tanto da donarci un superlativo "Sempre libera", ma purtroppo non possiede quella miriade di colori e sfumature necessarie a rendere la complessità del personaggio di Violetta. Peggiora il quadro la pronuncia davvero pessima (vedi la

lettura della

lettera…) Carlo Bergonzi è stato comunque il tenore verdiano più importante degli ultimi 50 anni, e Robert Merrill è perfetto nel ruolo di Giorgio Germont. John Pritchard è un direttore d'opera esperto a suo agio nel repertorio del Maestro di Busseto. Sempre di ottimo livello l’Orchestra del Maggio Fiorentino.

Verdi: La Traviata Tiziana Fabbricini, Roberto Alagna [Alfredo], Paolo Coni [Germont]. Coro ed Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, dir. Riccardo Muti. Sony Dopo la fine del suo contratto con EMI, Muti ha potuto imporre le proprie idee musicali alle sue nuove etichette: è stato messo nella condizione di scegliere i cantanti da imporre, per la registrazione, la forma nota come "live composito", che significa la registrazione

di

diversi

rappresentazioni

della

stessa

produzione, e anche di allestimenti senza pubblico, al fine di minimizzare il rumore del palcoscenico e gli errori canori. La Scala, che possiede un'acustica asciutta e spietata, è per Muti l'opportunità di dettagliare (senza rallentare il ritmo, ovviamente) la sua "visione" interiore della musica, a mio avviso senza pari, in Verdi (senza rimuovere nulla dal genio del grande Abbado, per esempio).

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I due protagonisti principali, sebbene giovani, offrono una prestazione avvincente con una grande precisione interpretativa. Muti offrì il ruolo che era della della Callas alla Fabriccini, una debuttante che lo convinceva non tanto per l'intonazione quanto per la pasta timbrica, la capacità di declinazione espressiva, la presa teatrale che stringe il cuore. E ne fu ricambiato: ne uscì una personalità che non abbattè il muro Callas, ma un po' lo sgretolò. Tiziana Fabriccini canta meravigliosamente, e per una volta abbiamo una soprano che canta davvero come una Violetta malata. Roberto Alagna presenta un’ottima vocalità. Paolo Coni è un eccezionale Germont. La registrazione è di una naturalezza non comune: per una volta qui abbiamo una registrazione che ti trasporta in una serata all'opera piuttosto che in una competizione di canto in studio. 

Note: A trent’anni dalla prima rappresentazione di questa edizione, avvenuta il 21 aprile 1990 al Teatro alla Scala, Rai Cultura ha riproposto, in questi giorni di forzata quarantena da Covid-19, sul canale Rai 5, questa storica edizione di Riccardo Muti con la regia di Liliana Cavani e le scene di Dante Ferretti. Questo è uno degli spettacoli di maggior successo del Teatro alla Scala, ripreso moltissime volte negli anni successivi, reso memorabile dall’interpretazione di Muti, dalla regia senza forzature della Cavani, tutta basata sui caratteri dei personaggi, e sull’intensità di Tiziana Fabbricini. Ricordo infine anche quando nel 1995, causa uno sciopero non annunciato dell'Orchestra della Scala, Muti si sedette al piano e suonò l'opera, da solo, dalla prima all'ultima nota. Immenso!

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Giuseppe Verdi [128]


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