Gli Amici del Loggione n° 17 - Gennaio 2022

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GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 17 – Gennaio 2022


GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista quadrimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 17 – Gennaio 2022

Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa

A questo numero ha collaborato il M. Paolo Duprè

In questo numero: 1a Copertina: San Gregorio Magno scrive i suoi canti ispirato dallo Spirito Santo sotto forma di colomba. Sulla sinistra il suo biografo Paolo Diacono mentre riporta gli eventi. [3] Il Canto cristiano antico. La musica gregoriana [54] La polifonia siciliana: Pietro Vinci [61] Capriccio spagnolo, di Nicolai Rimskij-Korsakov [67] Kindersezen op.51, di Robert Schumann [71] La Sinfonia n° 7 di Gustav Mahler [81] L’ulti o pe iodo creativo di Johann Sebastian Bach, di Paolo Duprè [89] Il Real Teatro di San Carlo - Napoli [108] Leonardo da Vinci e la Musica [119] Melomania: Guglielmo Tell, di Gioachino Rossini [146] 4a Copertina: Gioachino Rossini

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A tutti gli affezionati lettori della Rivista gli auguri per un felice e sereno 2022! [2]


Il Canto cristiano antico. La musica gregoriana.  LA DIFFUSIONE IN OCCIDENTE DEL CRISTIANESIMO Il messaggio del cristianesimo all’inizio fu affidato agli Apostoli e ai loro discepoli, che fecero una predicazione itinerante per la Palestina, fondando nuove comunità nelle quali i riti e le preghiere si rifacevano ai modelli originali ebraici. Il canto cristiano delle origini subì quindi l'influsso del canto giudaico praticato nelle sinagoghe, e consistette soprattutto nella intonazione di testi sacri della Bibbia, preferibilmente salmi. Una volta lasciata la Palestina il messaggio cristiano dovette necessariamente avere un linguaggio più universale, che a quei tempi era la lingua greca, patrimonio delle classi più colte. Iniziò quindi la diffusione in questa lingua: Ippolito all’inizio del III secolo scrisse proprio in greco il primo “ordo” liturgico cristiano. L’impiego della lingua latina venne utilizzato successivamente nelle classi popolari circa alla metà del II secolo dapprima nell’Africa settentrionale e quasi subito dopo a Roma: la lingua latina si manifestò come il veicolo propizio a raggiungere il popolo perché utilizzata dal popolo stesso. Nel 313, con la promulgazione dell'editto di Milano, l'imperatore Costantino concesse ai cristiani la libertà di culto con il diritto di possedere i luoghi ad esso destinati, ed iniziò così la diffusione più capillare e più libera del canto cristiano. Il canto cristiano antico si presentò da subito sotto forma complessa, legato da una serie di stratificazioni storico-geografiche, varie a seconda della regione e dei popoli che lo praticarono, e questo spiega la molteplice nomenclatura delle varie liturgie (gallicano, ambrosiano, beneventano, mozarabico, ecc.). Solo con l’avvento del canto gregoriano vi fu l’affermazione di una celebrazione liturgica unitaria.

I Canti Pre-Gregoriani  CANTO PROTOCRISTIANO SIRIANO L’itinerario del canto cristiano ebbe come prima tappa la Siria, dove si formò una ricca letteratura sacra, in cui spicca la personalità di Sant’Efrem il Siro (o di Edessa, 306-373), Dottore della Chiesa, fra i più antichi scrittori di lingua siriaca e il più importante fra essi [ ell’i

agi e].

Gli scritti di Efrem testimoniano una fede cristiana ancora primitiva ma vibrante, poco influenzata dal pensiero occidentale e più vicina al modo di pensare orientale. I suoi versi furono tra i primi ad essere cantati o in forma narrativa o come inni. Lo stile liturgico siriano si divideva, come in tutta la futura liturgia cristiana in due forme: la Declamazione e il Canto melismatico. [3]


 CANTO BIZANTINO La storia del canto cristiano bizantino inizia nel 527 d.C. con l'elezione di Giustiniano I [ ell’i

agi e]

a imperatore dell'Impero d'Oriente; in realtà ha radici molto più antiche: pesca nell'eredità greca, in quella protocristiana siriaca e palestinese e persino nei modi di intendere la musica che avevano i primi romani. La Chiesa d'Oriente ebbe come centro la Chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, pensata e realizzata sotto la guida di Giustiniano stesso. La Chiesa di Santa Sofia divenne modello per tutte le nuove chiese dell'Impero d'Oriente, ed ovviamente la musica che vi si eseguiva fece da guida per la liturgia cantata in tutte le terre bizantine. Il canto bizantino è un genere musicale unico. Esso è una monodia vocale senza accompagnamento strumentale ed è organizzato in otto modi (oktoechos) musicali. Cantato soprattutto in greco o arabo, è accompagnato vocalmente con un suono grave e prolungato chiamato ison o isocrátima dal quale, nella musica rinascimentale, si sviluppò il cosiddetto basso continuo. Fino all'ottavo secolo la musica bizantina si sviluppò in maniera piuttosto analoga a ciò che accadeva nel resto d'Europa ma con una maggior passione rivolta agli inni, più duttili rispetto alle altre forme di canto liturgico. Dal XIV secolo iniziò un inesorabile declino. Gli ecclesiastici bizantini si ritrovarono a dovere insegnare musica ai sopravvenuti dominatori turchi, i quali - invece che imparare - diffusero le sonorità della loro musica e inquinarono tutto il patrimonio musicale bizantino. Persino la chiesa di Santa Sofia venne trasformata da gloriosa sede del culto cristiano ortodosso a moschea turca.

Il canto bizantino od ortodosso rimane solo nelle chiese ortodosse.  CANTO AMBROSIANO Nelle sue Confessioni S. Agostino, contemporaneo ed amico di S. Ambrogio riferisce che questi introdusse nella liturgia cristiana gli inni ed il canto vocalizzato dei salmi alla maniera degli orientali. A S. Ambrogio (340-397) [ ell’i

agi e] si attribuiscono i testi di più

inni canti in lode di Dio che da Milano si diffusero per tutt'Europa, tanto che, nel Medioevo, inno ed ambrosiano erano sinonimi. Per Ambrogio, l'innodia è come un metodo che aiuta ad assimilare velocemente il contenuto della fede e gli insegnamenti della Chiesa, oltre ad essere un modo di pregare molto efficace. E' probabile che gli inni si cantassero a conclusione della liturgia, quasi come una meditazione della Parola di Dio. Il ritmo cadenzato facilitava la memorizzazione. [4]


Il canto ambrosiano ha una sua fisionomia propria ben distinta, che si è mantenuta quasi inalterata attraverso i secoli; ha carattere arcaico "virile" (espressione di S. Ambrogio), con palesi influenze orientali, piuttosto barbaro ma attraente. Il canto ambrosiano ha una sua fisionomia propria ben distinta, che si è mantenuta quasi inalterata attraverso i secoli; ha carattere arcaico "virile" (espressione di S. Ambrogio), con palesi influenze orientali, piuttosto barbaro ma attraente. A differenza dei salmi, il testo poetico degli inni non è tratto dalla Bibbia, ma è di libera invenzione. L'intonazione del testo è sillabica (cioè a ogni sillaba corrisponde un suono) e strofica, per cui la stessa melodia si ripete uguale per ogni strofa. Come in tutto il canto liturgico cristiano, vi si distinguono due stili: uno sillabico ed uno vocalizzato. Il ritmo è ignoto, e non si sa nemmeno da quando l'ambrosiano si canta a note uguali; ma per gl'inni giambici1 non è ancora spenta la tradizione d'eseguirli a base metrica con sillabe lunghe e brevi (indipendentemente dagli accenti delle parole). Parecchie melodie ambrosiane si trovano nel canto gallicano, in quello mozarabico e in quello gregoriano specialmente negli inni in una versione più snella ed elegante, certo meno arcaica, ciò fa pensare che la versione gregoriana sia una revisione di quella ambrosiana. Del vasto numero di inni che sono giunti fino a noi, sono sicuramente di S. Ambrogio quattro inni: Aeterne rerum conditor; Deus creator omnium; Iam surgit hora tertia; Intende qui regis Israel. Sul Te Deum le opinioni sono contrastanti.  AETERNE RERUM CONDITOR – AD GALLI CANTUM Aeterne rerum Conditor, noctem diem que qui regis, et temporum das tempora, ut alleves fastidium, [Eterno creatore del mondo, che regoli la notte e il giorno, e disponi il succedersi dei tempi, per alleviare la noia,] Praeco diei iam sonat, noctis profundae pervigil, nocturna lux viantibus a nocte noctem segregans. [già si leva il canto del messagger del giorno, che veglia nella notte profonda, luce notturna ai viandanti, che separa la notte dalla notte.] Hoc excitatus lucifer solvit polum caligine,

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Con il termine íambos (giambo), si indica un tipo di metro, costituito dall'unione di una sillaba breve e da una lunga.

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hoc omnis erronum chorus vias nocendi deserit. [Da lui destata, la stella del mattino sgombra il cielo dall'oscurità; al suo segnale, tutta la schiera dei vagabondi abbandona le vie del male.] Hoc nauta vires colligit pontique mitescunt freta, hoc ipsa Petra Ecclesiae canente culpam diluit. [Al suo canto, il navigante raccoglie le forze e si placano i flutti del mare; al suo canto, la stessa roccia della Chiesa lava nel pianto la sua colpa.] Surgamus ergo strenue! Gallus iacentes excitat, et somnolentos increpat, Gallus negantes arguit. [Orsù dunque! Alziamoci in fretta, il gallo sveglia chi dorme e rimprovera i pigri, il gallo accusa coloro che rinnegano la fede.] Gallo canente spes redit, aegris salus refunditur, mucro latronis conditur, lapsis fides revertitur. [Al canto del gallo ritorna la speranza, i malati riacquistano la salute, il brigante rinfodera la spada, la fede ritorna a chi ha rinnegato.] Jesu, labantes respice, et nos videndo corrige, si respicis, lapsus cadunt, fletuque culpa solvitur. [O Gesù, se vacilliamo guardaci, e correggici col tuo sguardo; se tu fissi su di noi il tuo sguardo, cessano immediatamente i nostri falli e la colpa è lavata nel pianto.] Tu lux refulge sensibus, mentisque somnum discute, te nostra vox primum sonet et ora psallamus tibi. [Tu luce rifulgi ai nostri sensi, dissipa il torpore del nostro spirito. A te per primo si rivolga la nostra voce, e a te si sciolga il nostro canto.] Deo Patri sit gloria, eiusque soli Filio, cum Spiritu Paraclito, in sempiterna saecula. Amen [Sia gloria al Padre, al suo unico Figlio, con lo Spirito Santo, nei secoli sempiterni. Amen] [6]


 DEUS, CREATOR OMNIUM Deus, creator omnium polique rector, vestiens diem decoro lumine, noctem soporis gratia, [Dio, creatore dell'universo, e reggitore del cielo che rivesti col chiaror della luce il giorno e la notte col dono del sopore,] Artus solutos ut quies reddat laboris usui mentesque fessas allevet luctusque solvat anxios, [perché il riposo ridoni all'usata fatica le membra spossate, sollevi le menti stanche e liberi dagli angosciosi affanni;] Grates peracto iam die et noctls exortu preces, voti reos ut adiuves, hymnum canentes solvimus. [Trascorso ormai il giorno, ti innalziamo preghiere di ringraziamento, all'inizio della notte, cantando un inno, affinché tu ci aiuti a mantener fede alle promesse.] Te cordis ima concinant, te vox sonora concrepet, te diligat castus amor, te mens adoret sobria; [Ti cantino le profondità del cuore, ti conclami la voce squillante, ti ami il casto amore, ti adori la sobria mente,] Ut, cum profunda clauserit diem caligo noctium, fides tenebras nesciat et o fide elu eat. [affinché quando l'abisso delle tenebre notturne avrà inghiottito il giorno, la fede non conosca l'oscurità e della fede si illumini la notte.] Dormire mentem ne sinas, dormire culpa noverit; astos fides ef ige a s somni vaporem temperet. [Non permettere che lo spirito si assopisca; impari, invece, a dormire la colpa, e la fede, che dà ristoro ai puri, smorzi l'ardore del sonno.] [7]


Exuta sensu lubrico te cordis alta somnient, nec hostis invidi dolo pavor quietos suscitet. [Libero da ogni sensualità, ti agogni l'intimità del cuore, e nessun timore, per inganno dell'infido nemico, turbi chi riposa.] Christum rogemus et Patrem, Christi Patrisque Spiritum; unum potens per omnia, fove precantes, Trinitas. Amen [Noi invochiamo Cristo e il Padre e lo Spirito di Cristo e del Padre: Trinità, che sei un solo essere, potente in ogni cosa, sostiene chi t'invoca.]

[Immagine di Sant'Ambrogio nel gonfalone di Milano]

 IAM SURGIT ORA TERTIA Iam surgit hora tertia, qua Christus ascendit crucem nil insolens mens cogitet, intendat affectum precis. [Già sorge l'ora terza, in cui Cristo sali sulla croce; niente di sconveniente turbi la mente, ma con commosso desiderio si volga alla preghiera.] Qui corde Christum suscipit innoxiurn sensum gerit votisque perstat sedulis sanctum mereri Spiritum. [Chi accoglie Cristo nel suo cuore conserva pura la coscienza e si dispone con assidua preghiera a meritare lo Spirito Santo.] Hae ho a uae fi e dedit diri veterno criminis, mortisque regnum diruit culpamque ab aevo sustulit. [E' questa l'ora che ha posto fine al letargo del grave delitto, che ha dissolto il regno della morte e ha tolto la colpa del mondo.] Hinc iam beata tempora coepere Christi gratia; fidei replevit veritas totum per orbem Ecclesias. [8]


[Da questo momento, ormai, è iniziata, pe g azia di C isto, u ’epoca felice; la verità della fede ha riempito le chiese sparse per tutto il mondo.] Celso triumphi vertice Matri loquebatur suae: E filius, Mate , tuus ; Apostole, e Mate tua . [Dall'alto del trionfo della croce egli parlava alla madre: Ecco, madre, tuo figlio ; Apostolo, e o tua ad e. ] Praetenta nuptae foedera alto docens mysterio, ne Virginis partus sacer Matris pudorem laederet. [Insegnando così che il patto nuziale era avvolto da un grande mistero, affinché il divino parto della Vergine non ledesse il pudore della Madre.] Cui fide i aelesti us lesus dedit miraculis nec credidit plebs impia: qui credidit salvus erit. [Ad esso Gesù diede credito con celesti prodigi: ma l'ampia plebe non ha creduto; chi invece ha creduto sarà salvo.] Nos credimus natum Deum partumque Virginis sacrae, peccata qui mundi tulit ad dexteram sedens Patris. [Noi crediamo che è Dio incarnato e nato dalla Vergine santa; ha tolto i peccati del mondo e siede ora alla destra del Padre.] Deo Patri sit gloria eiusque soli Filio, cum Spiritu Paraclito, in sernpiterna saecula. Amen [Sia gloria al Padre, al suo unico Figlio, con lo Spirito Santo, nei secoli sempiterni. Amen]

 INTENDE QUI REGIS ISRAEL Intende qui regis Israel, super Cherubim qui sedes: appare Ephrem coram, excita potentiam tuam, et veni. [O Tu che sei pastore di Israele e regni sui Cherubini, appari al tuo popolo, mostra la tua potenza, e vieni.] [9]


Veni Redemptor gentium, ostende partum Virginis: miretur omne saeculum, talis decet partum Deus. [Vieni Redentore delle genti, mostra la tua nascita verginale: ogni età della storia stupisca, è questo un parto che si addice a Dio.] Non ex virili semine, sed mystico spiramine verbum Dei factum est Caro, fructusque ventris floruit. [Non dal seme dell’uo o, ma da un mistico soffio dello Spirito il Verbo di Dio si è fatto carne: e fiorisce come frutto di un ventre.] Alvus tumescit Virginis, Claustrum pudoris pérmanet; Vexilla virtutum micant, versatur in templo Deus. [Il grembo della Vergine cresce, ma la barriera della pudicizia rimane; i vessilli delle virtù splendono, Dio abita nel tempio.] Procedit e thalamo suo, pudoris aula regia, geminae Gigas substantiae, alacris ut currat viam. [Esca dal suo talamo da questo talamo nuziale, splendida reggia della pudicizia, come gigante dalla duplice sostanza che percorre veloce la via.] Egressus eius a Patre, Regressus eius ad Patrem; Excursus usque ad inferos, Recursus usque ad caelos. [Tu sei venuto, Signore, dal Padre, e al Padre vittorioso fai ritorno; disceso fino agli inferi, sali nei cieli.] Aequalis aeterno Patri Carnis trophaeo cingere: Infirma nostri corporis Virtute firmans pérpeti. [Eguale all’ete o Pad e, di queste membra mortali rivestiti; rafforzando le debolezze del nostro corpo con la tua forza eterna.] Praesepe iam fulget tuum, lumenque nox spirat novum, quod nulla nox interpolet, fideque iugi luceat. [10]


[Già risplende la tua mangiatoia e la notte emette una luce straordinaria, nessuna tenebra la contamini,ma la rischiari perenne la fede.] Iesu, tibi sit gloria Qui natus es de Virgine Cum Patre et almo Spiritu In sempiterna saecula. Amen. [A te, Gesù, sia gloria, che sei nato dalla Vergine, con il Padre e lo Spirito Santo nei sempiterni secoli. Amen.]

 CANTO BENEVENTANO Il Canto beneventano è un canto liturgico della Chiesa cattolica, praticato principalmente nei centri ecclesiastici di Benevento e Montecassino. Sviluppatosi durante il dominio longobardo tra il VI e l’VIII secolo, il canto consisteva in un particolare tipo di rito liturgico e di canto piano tipico di Benevento. All'epoca era chiamato cantus ambrosianus (canto ambrosiano), nonostante fosse differente dal canto milanese. Proprio l'uso comune del nome cantus ambrosianus, l'importante influenza dei longobardi sia a Milano sia a Benevento e le similitudini musicali tra le due liturgie e canti fanno intuire come le origini del canto beneventano siano legate ai longobardi. Papa Stefano IX nel 1058 mise ufficialmente fuorilegge il canto ed il rito beneventano. Nonostante il divieto, il canto continuò ad essere praticato da alcuni, anche se il repertorio beneventano cadde infine in disuso. Questa vicenda viene ricordata tramite una leggenda, che parla di una lotta di canto tra un cantore gregoriano ed uno beneventano, vinta dal primo in seguito allo svenimento del suo rivale.

 CANTO ROMANO ANTICO Intorno al 1891, il benedettino André Mocquereau scoprì a Roma alcuni manoscritti dei secoli XIXIII, con una versione di canto fortemente diversa dal gregoriano: egli ritenne che le melodie ivi contenute fossero una tardiva deformazione delle melodie gregoriane. Nel 1912, invece, un altro benedettino, Raphaël Andoyer, avanzò l'ipotesi che quei codici testimoniassero il canto liturgico a Roma anteriore a Gregorio I, cioè quello non ancora elaborato da quel Papa, e per questo motivo quella versione di canto liturgico venne chiamata canto romano antico, o semplicemente canto romano. Si è anche ipotizzato che il canto romano fosse il vero canto di Gregorio I, mentre il canto gregoriano sarebbe una nuova versione, eseguita a Roma una cinquantina d'anni più tardi, sotto papa Vitaliano (657-672).

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 CANTO GALLICANO Con canto gallicano si intende il repertorio liturgico di canto piano proprio del rito gallicano della Chiesa cattolica in Gallia, prima dell'introduzione e dello sviluppo degli elementi del Rito Romano dai quali evolse il canto gregoriano. Sebbene la musica è andata per la maggior parte persa, si ritiene che diverse tracce siano rimaste all'interno del corpus gregoriano. Anche se le prime fonti documentate su un libro di canto piano nell'Europa occidentale si riferiscono proprio ad un testo gallicano con salmi e canti, purtroppo non è sopravvissuto alcun repertorio di canti gallicani. Ciò che conosciamo del canto gallicano deriva dalle descrizioni contemporanee di tale canto e dagli elementi gallicani che sono sopravvissuti attraverso l'incorporazione nelle successive composizioni gregoriane. Si riteneva che il canto gallicano differisse notevolmente dal canto romano, sia per i testi sia per la musica. L’abate e storico alemanno Walahfrid Strabo del IX secolo, riteneva che il canto romano fosse "più perfetto", e quello gallicano "incorretto" ed "inelegante". Il rito ed i testi gallicani erano spesso più fioriti e drammatici, confrontati alle loro controparti romane: tale elemento probabilmente può riflettersi nell'importanza della musica melismatica nel canto gallicano in confronto con quello romano. L'uso di due toni recitanti nella salmodia gregoriana può derivare dal canto gallicano. Un altro elemento del canto gregoriano non trovato nel canto romano, che può quindi riflettere le convenzioni gallicane, è la cosiddetta "cadenza gallicana", nella quale il neuma finale, rinvenibile solo nelle fonti galliche, è un gruppo la cui seconda nota, più alta, è ripetuta, come in Do-Re-Re o FaSol-Sol. Diverse fonti attestano l'esistenza nelle terre franche di un rito gallicano, distinto da quello romano, fra il V ed il IX secolo. Il rito celtico ed il rito mozarabico, che erano liturgicamente correlati con il gallicano, sono talvolta chiamati collettivamente con il nome di quest'ultimo: "riti di tipo gallicano", in contrapposizione alla differente struttura del rito romano. La mancanza di un'autorità centrale portò in Francia allo sviluppo di diverse tradizioni locali nell'ambito del rito gallicano, che condividevano la stessa struttura di base, ma differivano nei dettagli. Tali tradizioni continuarono fino alla dinastia carolingia. Durante la visita papale nel 752-753, il Papa Stefano II celebrò la Messa secondo il Rito Romano, con il canto romano (o canto vetero-romano). Secondo Carlo Magno, suo padre Pipino il Breve e Crodegango di Metz abolirono i riti gallicani in favore dell'uso romano, al fine di rafforzare i legami con Roma: questi rinsaldati rapporti culminarono con l'elevazione di Carlo Magno a Imperatore del [12]


Sacro Romano Impero. Carlo Magno portò a termine il lavoro iniziato dal padre, cosicché già durante il IX secolo il rito ed il canto gallicani erano stati effettivamente eliminati. Il canto romano portato nelle chiese carolinge, però, era incompleto, e andò così incorporando in sé elementi musicali e liturgici dalle tradizioni gallicane locali. Il risultante canto carolingio, che si sviluppò in canto gregoriano, era un canto senza dubbio romanizzato, ma conservava ancora numerose tracce del perduto repertorio gallicano.

 CANTO MOZARABICO La liturgia mozarabica si sviluppò nella Spagna dominata dai Visigoti. Il regno visigoto fu un regno dell'Europa occidentale tra il V e l'VIII secolo, uno degli stati successori dell'Impero romano. Originariamente creato dall'insediamento dei Visigoti in Aquitania, si espanse con la conquista della penisola iberica. Contrassegnata dalle consuetudini orientali importate dai Visigoti e dagli influssi provenienti dalle vicine Gallie, la liturgia ispano-mozarabica iniziò ad affermarsi alla fine del VI secolo. Il rito mozarabico si mantenne poi anche nelle regioni occupate dagli arabi, mentre cominciò a smarrirsi quando, con la riforma carolingia, venne imposta la liturgia romana in luogo di quella tradizionale. Il canto mozarabico si contraddistingue stilisticamente per una tendenza alla drammatizzazione e per la presenza di inflessioni popolari. Questi canti, secondo alcune fonti, hanno una forte influenza ebraica: a quanto pare, fino al quarto secolo, nella penisola iberica ebrei e cristiani hanno condiviso alcune pratiche liturgiche, come recitare i salmi e leggere i libri del Vecchio Testamento. [Pagina miniata della Bibbia di Leòn]

L'Antifonario di León, redatto nel X secolo su esemplare del VI-VII secolo, è da annoverare come una delle fonti più rilevanti del canto mozarabico. Il rito mozarabico

seguì le sorti del rito gallicano e

scomparve dopo Pipino il Breve e Carlo Magno (VIII-IX secolo).

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Il Canto Gregoriano Il Canto gregoriano è un canto monodico e liturgico della tradizione occidentale, è cantato ancor oggi ed è riconosciuto dalla Chiesa cattolica come "canto proprio della liturgia romana".

 CENNI STORICI La tradizione vuole che il canto gregoriano si sia formato all’epoca di San Gregorio Magno [nel dipinto] agli inizi del secolo VII, in realtà gli studi più recenti lo pongono in un’epoca più tarda fra il secolo IX e il secolo XI. Come avviene generalmente per ogni periodo della storia della Chiesa, il nome di un Pontefice riassume e contrassegna il lavoro di un'intera generazione: ciò vale anche per il periodo gregoriano. Il ruolo di Gregorio nei confronti del canto liturgico è testimoniato dal diacono Giovanni (870) nella sua Vita di San Gregorio, scritta su incarico di Gregorio VIII sulla base dei documenti dell'archivio pontificio. Giovanni scrive che San Gregorio Magno «antiphonarium centonem compilavit», cioè raccolse da più parti e compilò un antifonario (libro di canti per la messa), che sarebbe poi passato alla tradizione come Antiphonarius cento. Questo libro sarebbe stata redatto insieme ai maestri del tempo, ma - secondo il biografo - con un intervento diretto dello stesso Gregorio, che ci viene presentato come esperto in materia, maestro di canto ed istruttore dei "pueri cantores”. San Gregorio Magno avrebbe addirittura legato questo Antifonario con una catena d’oro all’altare maggiore della Basilica di San Pietro, là dove sono conservate le reliquie del primo Apostolo. Dell’Antifonario a noi non è pervenuto l'originale. Nel XIX secolo si pensò di avere individuato, nel codice di San Gallo 359, una copia autentica dell'Antifonario di Gregorio: l'iconografia del Papa e il prologo Gregorius praesul, presente in vari manoscritti, sembrano dare conferma irrefutabile a questa tradizionale teoria. La realtà storica sarebbe però diversa: la formazione del repertorio che venne definito “gregoriano” fu invece l’esito della precisa volontà di uniformare culto e politica nell’Europa dell’VIII secolo. [Tancredi Scarpelli: Re Pipino e Papa Stefano II. Collezione privata.]

I protagonisti iniziali di tale volontà furono il re dei Franchi Pipino il Breve, che vedeva nella alleanza con la Chiesa un modo per legittimare la sua sovranità, e il [14]


Papa Stefano II che colse tale occasione per affermare la supremazia della Chiesa di Roma in Occidente. Frutto di questa collaborazione fra la Curia romana ed il Sacro Romano Impero d’τccidente fu la elaborazione di un repertorio di straordinaria raffinatezza e di piena maturità artistica che, a partire dalla metà dell’VIII secolo, nell’ambito della rinascita carolingia, si impose definitivamente sulle forme locali più antiche (quella gallicana prima di ogni altra). L'ambiente presso il quale si formarono questi canti liturgici fu, a Roma, la Schola cantorum, luogo dove la Chiesa ha da sempre preparato i propri cantori (all'epoca di papa Damaso, morto nel 384, c'era già una distinta schiera di diaconi esclusivamente dedicata a questo scopo).

Si deve a San Gregorio la restaurazione di questa Schola: non fu lui a fondarla ma la fornì dei mezzi necessari alla sua esistenza. Similmente a quanto avveniva nelle scuole d'arte medievali, nella Schola avveniva un continuo lavoro collettivo, in cui si miscelavano qualità individuali e tradizione, stile personale e caratteristiche comuni al gruppo. La vocazione religiosa collettiva che era il cuore pulsante di tale attività spiega inoltre perché l'individuo annullasse la sua identità nel rendere un servizio alla comunità e a Dio: il nome di questi musicisti infatti non è giunto a noi perché essi non pensavano di lavorare per la propria fama ma per la gloria di Dio. Pertanto alla fine è rimasto un solo nome, quello di papa Gregorio, a designare questi canti, che egli per primo ha fatto raccogliere e conservare, ma non sono suoi, così come non lo saranno quelli che verranno dopo di lui ma che, ugualmente, si chiameranno gregoriani. Il riferimento alla personalità del Pontefice San Gregorio Magno riflette la vocazione del canto gregoriano alla univocità: ne sottolinea l’appartenenza ad una liturgia universale ed unitaria. Il ruolo di San Gregorio nell'ambito del canto liturgico fu consacrato da Leone IV (847 - 855) che per la prima volta usò l'espressione "Carmen gregorianum" e che minacciò di scomunica chi mettesse in dubbio la tradizione gregoriana.

Il canto gregoriano: versione romano-franca. È la teoria che oggi sembra essere più condivisa. In sintesi, il canto romano sarebbe stato elaborato, fino a diventare canto gregoriano, non a Roma ma [15]


nei Paesi franchi, compresi geograficamente tra la Loira e il Reno, allorché la liturgia di Roma fu imposta in modo autoritario in tutto il regno franco, sotto Pipino il Breve e Carlo Magno. In quel contesto avvenne un processo di assimilazione e di rilettura creativa della liturgia, iscritta nella vivace rinascita carolingia e sostenuta dalla politica unificatrice del Sacro Romano Impero. A ciò dovettero sicuramente contribuire, in modo determinante, i grandi monasteri e le scuole cattedrali.

 CARATTERISTICHE GENERALI DEL CANTO GREGORIANO Caratteristica primaria del gregoriano fu il mantenere l’assetto del canto cristiano arcaico, ossia il canto monodico, vale a dire una sola linea melodica intonata unitariamente dal coro (si esclude la simultaneità sonora di note diverse: ogni voce che lo esegue canta all'unisono) o dalla voce sola (cantor). Deve essere cantato a cappella, cioè senza accompagnamento strumentale. È un canto che predilige il testo sacro in prosa e che favorisce la meditazione e l'interiorizzazione (ruminatio) delle parole cantate.

 Repertorio Il repertorio del canto gregoriano è costituito dai: - Canti dell'Ufficio (o "Liturgia delle Ore"). Sono costituiti dalle seguenti forme liturgico-musicali: le Antifone, la Salmodia (che comprende il canto dei Salmi e dei Cantici), i Responsori e gli Inni. - Canti della Messa. Si distinguono in: i Canti dell'Ordinario o Ordinarium Missae (testi che non mutano mai: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei), e i Canti del Proprio o Proprium Missae (testi che variano secondo le diverse festività: Introito, Graduale, Sequenza, Alleluia [sostituito dal Tratto nel tempo di Quaresima], Offertorio e Communio.)  Stile esecutivo I Canti gregoriani presentano diverse modalità di esecuzione: - Stile sillabico o accentus, quando ad ogni sillaba del testo corrisponde solitamente una sola nota. E’ un esempio la Salmodia (cioè il canto o la lettura recitata dei salmi), che può essere a sua volta o antifonale (con due cori che si alternano), o responsoriale (con il coro che si alterna al solista), o diretta (se la esegue solo il coro o solo il solista). Lo stile salmodico è nel canto gregoriano il più sobrio degli stili di ornamentazione. - Stile neumatico o semiornato, quando ad ogni singola sillaba del testo corrispondono piccoli gruppi di note. Ne sono esempi gli Introiti, gli Offertori e i Communio della Messa o alcune antifone più ampie dell'Ufficio. [16]


- Stile melismatico, ornato o concentus, quando ogni sillaba del testo è fiorita (“ornata”) da molte note. Sono ad esempio i Graduali e gli Alleluia o i Responsori prolissi dell'Ufficio.

 I Neumi Ciò che in musica moderna si chiama nota musicale, in gregoriano è detto neuma (dal greco: segno) con la differenza che un neuma può significare sia una nota singola sia un gruppo di note. Per secoli il canto sacro era stato tramandato oralmente; dal IX secolo, con l’adozione di un unico repertorio liturgico-musicale nell’τccidente cristiano, si tentò di creare un sistema di scrittura comune e ben codificabile. La prima scrittura fu detta chironomica: essa traduceva con segni grafici il movimento della mano che imita il profilo melodico, ed era composta da segni simili a degli accenti acuti e circonflessi che venivano collocati sopra le sillabe del testo liturgico da cantare (notazione adiastematica, cioè senza rigo o a campo aperto).

Questi accenti probabilmente derivavano dagli accenti grammaticali della letteratura greca e latina, e quando venivano combinati tra loro, si formavano neumi di 1, 2 o più note. L’accento acuto o virga (/) indicava una nota “acuta” o perlomeno più acuta rispetto alla precedente (ma anche alla successiva); quello grave o punctum (\) viceversa una nota più grave. La nota “indifferente” dal punto di vista delle altezze era appunto un trattino orizzontale (-) “tractulus”. Questi tre segni costituiscono la materia primordiale del canto gregoriano e, conseguentemente, di tutta la notazione occidentale. Sopra questi segni si potevano a volte trovare scritti la lettera minuscola t (tenere la nota più a lungo) oppure c (celeriter, cioè più veloce). σell’immagine in basso si possono anche distinguere anche altri neumi formati (come scritto prima) da più note:

[17]


Il limite dei neumi consisteva nell’assenza di indicazioni sull’intervallo tra le note: non potevano quindi essere decifrati da cantori che non conoscessero precedentemente la melodia, poiché i neumi indicavano solamente il moto ascendente o discendente della melodia, senza specificare l'intervallo o l'altezza assoluta. Sin dai primi tempi furono compiuti tentativi per risolvere il problema, il più efficace tra i sistemi proposti fu quello che indicava graficamente l'intervallo: quanto maggiore era la distanza fra i neumi, tanto più ampio era l'intervallo. I

neumi

aumentarono

presto

di

numero,

assumendo

caratteristiche grafiche differenti a seconda delle diverse aree geografiche, soprattutto nei pressi dei monasteri benedettini. Nell'XI secolo appare il rigo musicale. L'amanuense che scriveva musica prese l'abitudine di scrivere il testo su righe alternate, così da utilizzare una riga per scrivere la musica presa come riferimento spaziale: le note più acute venivano scritte sopra la riga, quelle gravi al di sotto. Le righe divennero poi due, una rossa per il fa e una gialla per il do. Questo tipo di scrittura prende nome di notazione diastematica [vedi immagine a dx]. Guido Monaco (991-1050 ca.), più conosciuto con il nome di Guido d’Arezzo, monaco benedettino e teorico della musica, aumentò il numero delle linee per eliminare ogni equivoco sulla collocazione spaziale dei neumi: creò così il tetragramma formato da 4 linee orizzontali con tre spazi all'interno e con una chiave iniziale che fornisse le altezze della musica vocale. Per identificare la chiave furono utilizzate le lettere alfabetiche: due di queste, la C (Do) e la F (Fa) diventarono le lettere chiave. Con sole quattro linee il canto gregoriano, il cui ambito vocale non è esteso, può essere comodamente scritto.

[18]


[Guido d’A ezzo e il Tetragramma]

Come è noto, in seguito Guido diede anche il nome alle note esattamente come le conosciamo oggi, prendendo la prima sillaba di ogni rigo dall'inno liturgico a San Giovanni, Ut queant laxis. “Ut queant laxis Resonare fibris Mira gestorum Famuli tuorum Solve polluti Labii reatum Sancte Johannes.” Nel '600 l'Ut fu tramutato in Do dal teorico Giovanni Battista Doni, mentre il Si proviene dall'unione delle iniziali di San Johannes e fu introdotto solamente nel '500.

L'invenzione del pentagramma (attuale rigo di 5 linee) è attribuita al teorico musicale Ugolino da Forlì (o Ugolino da Orvieto) (1380–1457).

Agli inizi del XIII secolo comparve la notazione quadrata

(originaria dei

monasteri in Aquitania) che consiste di note di forma quadrata e che, in ulteriori fasi, ha condotto alle odierne forme arrotondate delle note.  I modi Il canto gregoriano è organizzato secondo otto schemi melodici, chiamati modi (octoechos), otto modi, ciascuno di otto note, ed ogni melodia è legata ad un modo, che solitamente viene indicato all'inizio dello spartito. [19]


Ogni modo presenta una propria nota dominante (la nota sulla quale maggiormente insisterà la melodia), una propria estensione (quale intervallo di note potrà sfruttare la melodia) e una propria finale (la nota sulla quale terminerà il brano). Nel Rinascimento i modi evolveranno nelle attuali scale maggiori e minori della notazione musicale classica come la conosciamo.  Tropi e Sequenze Sin a partire dal IX secolo, il canto gregoriano conobbe, a livello locale, delle differenziazioni a causa dell’influsso di melodie locali e perfino di riti estranei. Comparve l’uso di manipolare i canti ufficiali, adattandovi altri testi, interpolandovi nuove melodie, creando in tal maniera una vera e propria letteratura poetico-musicale di libera invenzione. Così nacquero le due forme principali e di aggiunte al gregoriano: i tropi e le sequenze, ambedue datate dell’epoca carolingia. Il Tropo (dal greco

πο , "cambio") è l'ampliamento di un brano liturgico attraverso l'inserimento

di un testo o di una melodia. Fiorì soprattutto nei primi decenni del IX secolo.

Inizialmente il testo venne inserito per spiegare la liturgia e successivamente anche per il suo abbellimento, oppure per dare una forma particolarmente solenne a determinati elementi della liturgia, per esempio all'ingresso del celebrante. La Chiesa cattolica accettò prontamente di

incorporare il tropo nella sua liturgia poiché abbelliva quella esistente senza creare nuovi elementi. Nel tempo, i nuovi testi vennero incorporati in tutti gli elementi della Messa, sebbene siano più frequenti nell'Introito e nel Kyrie, soprattutto nell'Alleluja, che - insieme a Domino Benedicamus sono gli esempi più comuni di questa forma musicale. I tropi furono raccolti in un libro liturgico chiamato Troparium. Un grande centro produttivo fu San Gallo di cui Tutilone (morto nel 913 o 915) sarebbe il leggendario inventore, benché papa Adriano II (867-872) già da tempo avesse autorizzato lo sviluppo di tale creatività; di là i canti si diffusero nell'area di lingua tedesca, in Italia e in Francia. Il tropario più antico conosciuto è il Tropario di San Marziale risalente al X secolo. Dal IX al XIV sec. furono scritti circa 5000 tropi, finché vennero banditi dalle celebrazioni dalla riforma di papa Pio V del 1570 dopo il concilio di Trento.

 La Sequenza (in latino sequentia) è un componimento poetico-musicale liturgico che veniva recitato o cantato al termine della seconda lettura prima dell’Alleluia che precede il Vangelo. Nacque nel IX secolo e la sua origine è da ricercare nella prassi musicale dei monasteri francesi occidentali specie in quello dell'abbazia di Jumièges (Normandia). I monaci avevano preso l'abitudine di inserire un testo letterario (detto prosa) ai vocalizzi finali dell’Alleluia e di altri canti melismatici: il testo letterario, dapprima poco legato in sé, poi divenne più coerente. Questi canti vennero in seguito inseriti nella liturgia della Messa. [20]


La sequenza ebbe in quei secoli un'enorme popolarità, sia in ambito monastico che secolare. Ogni comunità possedeva un proprio repertorio (si arrivò ad averne addirittura 5000 distinte) generalmente di autori anonimi. Nel XVI secolo, con la riforma del concilio di Trento, venne emesso un divieto di usare tropi e sequenze nella liturgia, ad eccezione di sole quattro: Victimae paschali laudes nel giorno di Pasqua e facoltativamente per l'Ottava di Pasqua; Veni Sancte Spiritus, recitata (o cantata) durante la Messa di Pentecoste; Lauda Sion Salvatorem, per il Corpus Domini; Dies irae, per le messe dei defunti. Una quinta sequenza che ricorda Maria Addolorata (15 settembre), lo Stabat Mater, fu in un primo tempo soppressa e poi successivamente ripristinata. Queste poesie sono tra i testi sacri più musicati: moltissimi compositori classici dei secoli successivi si sono cimentati con esse. La struttura della sequenza consiste in frasi ripetute a due a due tra una frase introduttiva e una conclusiva.  Sviluppo del canto gregoriano Con i secoli XII e XIII il canto gregoriano subì una lenta e inesorabile decadenza e una progressiva caduta nell’oblio. Il canto liturgico divenne quello della polifonia rinascimentale e poi dal 1600 in poi conobbe una profonda evoluzione con caratteristiche che nulla più avevano a che fare con la dimensione sacra della musica monodica delle origini. Nel primo 1800 nacque il Movimento liturgico con Prospero Guéranger, un sacerdote che si propose la restaurazione dell’τrdine benedettino in Francia, un ordine monastico nel quale trovava la manifestazione più viva della spiritualità tradizionale della Chiesa. Guéranger acquistò nel 1833 l’antica Abbazia di San Pietro di Solesmes destinata alla demolizione e vi ristabilì la vita benedettina. Sotto la sua guida i monaci diedero inizio, attorno al 1840, mediante il recupero di antichi manoscritti, un'opera sistematica di recupero della tradizione esecutiva del canto gregoriano, con la volontà di riportarla fedelmente alla sua originale dimensione. La revisione è ancora in corso. Nel Concilio Vaticano II, nel 1963, venne sancito ufficialmente il ruolo del canto gregoriano quale unico riferimento della liturgia cattolica.

[21]


[Abbazia di Solesmes e i monaci benedettini dell’A

[22]

azia]


Canti liturgici gregoriani PROPRIUM Il Proprium è l'insieme delle parti della Messa (Proprium missae) o della Liturgia delle ore (Proprium officii) della Chiesa cattolica il cui testo varia secondo i periodi dell'Anno liturgico o della commemorazione di un Santo o di un evento significativo. Il termine si usa in contrapposizione a Ordinario che è l'insieme delle parti della liturgia il cui testo rimane costante o comunque non subisce modifiche in base alla data. I canti del Proprium sono la parte più autentica ed originale del repertorio gregoriano: essi sono Introito, Graduale, Sequentia, Alleluia, Tratto, Offertorio, Communio.

 Introito  L'introito è un canto funzionale: accompagna la processione dei ministri all'altare e ha lo scopo di dare inizio alla celebrazione. Il testo è generalmente preso dai salmi, talvolta da un altro libro delle Scritture, comunque deve avere uno stretto legame con le letture che seguiranno nella Messa. L'Introito può essere cantato o letto, in funzione della solennità della Messa o a giudizio del celebrante. La sua forma consiste nella ripetizione di un'antifona intervallata dal canto di un salmo, secondo lo schema antifona - versetto salmodico - antifona - dossologia2 - antifona. Il canto viene prolungato per il tempo che dura la processione del celebrante e dei suoi ministri. Anche i versetti salmodici sono cantati in stile solenne. Non potendo naturalmente in questa sede citare tutti gli Introiti, ho scelto:  PUER NATUS

E’ senza dubbio uno dei brani più noti del repertorio gregoriano, divenuto simbolo dell’antica tradizione monodica natalizia. Secondo il Graduale Romanum con questo Introito inizia la terza Messa in die di Natale, quella più solenne del giorno del 25. Ricordo che il Natale conosce tre diversi formulari liturgici: la "Missa in nocte", la "Missa in aurora" e la "Missa in die". E’ interessante osservare che, Per dossologia nella liturgia cristiana si intende un'esclamazione rituale, una formula, un breve inno, che loda, esalta e glorifica Dio. 2

[23]


per il Natale, il grado di importanza delle celebrazioni liturgiche è invertito rispetto alla Pasqua: a Natale il rito principale è la messa del giorno e le celebrazioni notturne e del mattino sono un’aggiunta; invece per la Pasqua la liturgia centrale è rappresentata dalla Veglia notturna, mentre la Messa del giorno è un completamento tardivo. Il testo è tratto dal profeta Isaia e dunque precede di 750 anni la nascita di Cristo e ne profetizza la venuta. TESTO: Puer natus est nobis, et Filius datus est nobis, cuius imperium super humerum eius,alleluia. et vocabitur nomen eius magni consilii Angelus. [Ci è nato un bambino, e ci è stato donato un Figlio, il cui dominio è sulle sue spalle: e sarà chiamato Angelo del gran consiglio.] Cantate Domino canticum novum, quia mirabilia fecit. Alleluia. [Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie. Alleluia.] Iubilate omnis terra Domino Deo nostro, Quia ante cospectum gentium Revelavit iustitiam suam. Alleluia. [Da tutta la terra gridate di gioia al Signore nostro Dio, che davanti a tutte le genti ha rivelato la sua giustizia. Alleluia.]

 AD TE LEVAVI ANIMAM MEAM

E’ l’Introito della prima domenica di Avvento, dunque l'incipit dell’intero Graduale Romanum, il libro liturgico che raccoglie i canti propri della Messa: è quindi il primo canto della prima domenica dell'anno liturgico. Il brano si presenta nel suo complesso come una grande invocazione. Tale carattere è riassunto e posto in speciale evidenza all’inizio del secondo inciso testuale, laddove con slancio e con una linea melodica portata all’estremità acuta dell’intero brano viene sottolineata con decisione l’invocazione “Deus meus”, che diviene cifra espressiva a sigillo dell’intera composizione.

[24]


TESTO: Ad te levavi animam meam Deus meus, in te confido, non erubescam Neque irrideant me inimici mei. Etenim universi qui te espectant non confundentur. [A te, Signore, elevo l'anima mia, Dio mio, in Te confido, che io non arrossisca e non si prendano gioco di me i miei nemici. Infatti tutti quelli che ti aspettano non saranno confusi.] Vias tuas Domine demonstra mihi et semitas tuas edoce me. [Mostrami Signore le Tue vie ed insegnami i Tuoi sentieri.]

 QUASI MODO (QUASI MODO GENITI INFANTES)

Nella liturgia cattolica, la prima domenica che segue la Pasqua è detta Domenica in Albis o Quasi modo: il nome deriva dal fatto che coloro che erano stati battezzati durante la notte di Pasqua, indossavan o le vesti bianche del battesimo per una settimana, cioè fino a questa domenica. Nel Medio Evo la chiamavano Pasqua chiusa, per esprimere che l'ottava di Pasqua finiva in questo giorno.

Una curiosità letteraria moderna: dall'incipit dell'introito petrino deriva il nome Quasimodo del personaggio gobbo del romanzo di Victor Hugo Notre-Dame de Paris, che si chiama così proprio perché fu ritrovato abbandonato in fasce la prima domenica dopo Pasqua. TESTO: Quasi modo geniti infantes, alleluia, rationabile, sine dolo lac concupiscite. Alleluia, alleluia. [Quasi come infanti, alleluia, desiderate il latte spirituale e puro. Alleluia, alleluia.] [25]


Exultate Deo, adiutori nostro, iubilate Deo Jacob. [Esultate in Dio, nostra forza, giubilate nel Dio di Giacobbe.] Gloria Patri et Fílio et Spirítui Sancto. Sicut erat in principio, et nunc et semper et i sǽ ula sæ ulo u . Amen. [Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio, ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.]

 CANTATE DOMINO

Cantate Domino è un introito del tempo pasquale che dà il nome alla Dominica Cantate. Appartiene alla liturgia della Messa della Dominica quinta Paschae o della Dominica IV post Pascha. E’ presente anche nel calendario liturgico luterano e corrisponde alla quinta Domenica di Pasqua. TESTO: Cantate Domino canticum novum, omnis terra et populi, annuntiate inter gentes gloriam eius. Alleluia. [Cantate al Signore un canto nuovo, terra tutta e popoli, annunciate in mezzo alle genti la sua gloria. Alleluia.] Magnificentia et pulchritude in conspectu eius, potentia et decor in sanctuario eius. Ca tate Do i o… [Grandezza e splendore al suo ospetto, pote za e ellezza el suo sa tua io. Ca tate al “ig o e…] Tollite hostias et introite in atria eius. Adorate Dominum in splendore sancto. Ca tate Do i o… [Portate offerte ed entrate nei suoi atri. Adorate il Signore nel suo santo splendore. Cantate al Signore...]

[26]


Laetentur caeli, exultet terra et gaudeabuntur campi, quia venit Dominus iudicare terram. Ca tate Do i o… [Si rallegrino i cieli, esulti la terra e gioiscano i campi, perché viene il Signore a giudicare la terra. Cantate al “ig o e…]

 Graduale  Il Graduale, anticamente chiamato Responsorium Graduale, è un canto melismatico che può essere cantato dopo la prima lettura, utilizzando il repertorio gregoriano o polifonico, con la funzione di invito alla meditazione sulla Parola ascoltata. Più frequentemente il graduale non viene cantato ed è allora sostituito dal salmo responsoriale prescritto dal messale.

Il suo nome deriva dal latino gradus, gradino, perché in origine i cantori cantavano il graduale restando sui gradini Il Graduale si compone di due parti, un certo numero di versetti di un salmo (in genere due), più il cosiddetto "verso alleluiatico"; questo secondo elemento, in certi tempi dell'anno, è omesso; e al suo posto subentra un brano, che ha il nome di tractus. Con il termine di Graduale si designa anche il libro (Liber gradualis) che raccoglie tutti i graduali, cioè i brani descritti, dell'anno liturgico, con la relativa notazione musicale.

[Graduale del Tempo 1280 "Maestro di Gerona". Museo civico Medievale di Bologna.]

 Sequenza  La Sequenza (in latino sequentia) come si è già scritto prima è un componimento poetico musicale liturgico che veniva recitato o cantato al termine della seconda lettura prima dell’Alleluia che precede il Vangelo.  LAUDA, SION SALVATOREM

Sono cinque le sequenze conservatesi dopo la drastica riduzione voluta dal Concilio di Trento e viene recitata o cantata prima del Vangelo nella Messa della solennità del Corpus Domini. [27]


In essa, dopo la lode all'Eucaristia, viene espresso il dogma della transustanziazione:

è

il

termine

che

indica

la

conversione

della sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo e della sostanza del vino nella sostanza del sangue di Cristo, che avviene, durante la celebrazione eucaristica, al momento della consacrazione. L'autore è san Tommaso d'Aquino [ ell’immagine], che la compose attorno al 1264, su richiesta di papa Urbano IV. È ritenuto uno dei vertici della poesia religiosa di ogni tempo, per profondità dottrinale e sapienza estetica. TESTO: Lauda, Sion Salvatórem, lauda ducem et pastórem in hymnis et cánticis. Quantum potes, tantum aude: quia maior omni laude, nec laudáre súfficis. [Loda o Sion il Salvatore, loda la Guida e il Pastore in inni e cantici. Quanto puoi tanto ardisci: perché Egli è superiore ad ogni lode, e tu non basti a lodarlo.] Laudis thema speciális, panis vivus et vitális hódie propónitur. Quem in sacræ mensa cenæ, turbæ fratrum duodénæ datum non ambígitur. [Come tema di lode speciale, viene oggi proposto il pane vivo e datore di vita, il quale, alla mensa della sacra cena, alla schiera dei dodici fratelli, non si dubita dato.] Sit laus plena, sit sonóra, sit iucúnda, sit decóra mentis iubilátio. Dies enim solémnis ágitur, in qua mensæ prima recólitur huius institútio. [La lode sia piena, sia risonante, sia lieto, sia appropriato il giubilo della mente, poiché si celebra il giorno solenne, nel quale di questa mensa si ricorda la prima istituzione.] In hac mensa novi Regis, novum Pascha novæ legis Phase vetus términat. Vetustátem nóvitas, [28]


umbram fugat véritas, noctem lux elíminat. [In questa mensa del nuovo Re, la nuova Pasqua della nuova legge pone fine al vecchio tempo. La novità allontana la vetustà, la verità allontana l'ombra, la luce elimina la notte.] Quod in cena Christus gessit, faciéndum hoc expréssit in sui memóriam. Docti sacris institútis, panem, vinum, in salútis consecrámus hóstiam. [Ciò che Cristo fece durante la cena comandò da farsi in suo ricordo. Ammaestrati coi sacri insegnamenti, consacriamo il pane e il vino, ostia di salute.] Dogma datur Christiánis, quod in carnem transit panis, et vinum in sánguinem. Quod non capis, quod non vides, animósa firmat fides, præter rerum órdinem. [Ai cristiani vien dato come dogma che il pane si cambia in carne, e il vino in sangue. Ciò che non comprendi, ciò che non vedi, ardita assicura la fede, contro l'ordine delle cose.] Sub divérsis speciébus, signis tantum, et non rebus, latent res exímiæ. Caro cibus, sanguis potus: manet tamen Christus totus, sub utráque spécie. [Sotto specie diverse, che sono solamente segni e non cose, si nascondono cose sublimi. La carne è cibo, il sangue bevanda: eppure Cristo resta intero sotto ciascuna specie.] A suménte non concísus, non confráctus, non divísus: ínteger accípitur. Sumit unus, sumunt mille: quantum isti, tantum ille: nec sumptus consúmitur. [Da colui che lo assume, non spezzato, non rotto, non diviso: ma intero è ricevuto. Lo riceve uno, lo ricevono mille: quanto questi tanto quello; né ricevuto si consuma.] Sumunt boni, sumunt mali: [29]


sorte tamen inæquáli, vitæ vel intéritus. Mors est malis, vita bonis: vide paris sumptiónis quam sit dispar éxitus. [Lo ricevono i buoni, lo ricevono i malvagi, ma con ineguale sorte di vita o di morte. È morte per i malvagi, vita per i buoni: vedi di pari assunzione quanto sia diverso l'effetto.] Fracto demum sacraménto, ne vacílles, sed memento, tantum esse sub fragménto, quantum toto tégitur. Nulla rei fit scissúra: signi tantum fit fractúra: qua nec status nec statúra signáti minúitur. [Spezzato finalmente il Sacramento, non tentennare, ma ricorda che tanto c'è sotto un frammento quanto si nasconde nell'intero. Nessuna scissura si fa della sostanza; si fa rottura solo del segno: per cui né lo stato né la dimensione del Segnato è sminuita.] Ecce panis Angelórum, factus cibus viatórum: vere panis fíliórum, non mitténdus cánibus. In figúris præsignátur, cum Isaac immolátur: agnus paschæ deputátur: datur manna pátribus. [Ecco il pane degli angeli fatto cibo dei viandanti: vero pane dei figli da non gettare ai cani. Nelle figure è preannunciato, con Isacco è immolato, quale Agnello pasquale è designato, è dato qual manna ai padri.] Bone Pastor, panis vere, Iesu, nostri miserére: tu nos pasce, nos tuére: tu nos bona fac vidére in terra vivéntium. [Buon pastore, pane vero, o Gesù, abbi pietà di noi: Tu nutrici, proteggici, Tu fa' che noi vediamo le cose buone nella terra dei viventi.] Tu, qui cuncta scis et vales: qui nos pascis hic mortales: tuos ibi commensáles, coherédes et sodales [30]


fac sanctórum cívium. Amen. Allelúia. [Tu, che tutto sai e puoi, che qui pasci noi mortali: facci lassù Tuoi commensali, coeredi e compagni dei santi cittadini. Amen. Alleluia.]  STABAT MATER

Lo Stabat Mater (Stava la madre) è una sequenza del XIII secolo, tradizionalmente attribuita al Beato Jacopone da Todi [ ell’i

agi e].

La prima parte, che inizia con le parole Stabat Mater dolorosa, è una meditazione sulle sofferenze di Maria, madre di Gesù, durante la crocifissione e la Passione di Cristo. La seconda parte, che inizia con le parole Eia, mater, fons amóris è una invocazione in cui l'orante chiede a Maria di farlo partecipe del dolore provato da Maria stessa e da Gesù durante la crocifissione e la Passione. Anche se il testo è in latino, la struttura ritmica è quella del latino medievale e che poi sarà anche quella dell'italiano. È recitata in maniera facoltativa durante la messa dell'Addolorata (15 settembre) e le sue parti formano gli inni latini della stessa festa. Accompagna anche il rito della Via Crucis e le processioni del Venerdì Santo.

TESTO: Stabat Mater dolorósa iuxta crucem lacrimósa, dum pendébat Fílius. Cuius ánimam geméntem, contristátam et doléntem pertransívit gládius. [La Madre addolorata stava in lacrime presso la Croce mentre pendeva il Figlio. E il suo animo gemente, contristato e dolente era trafitto da una spada.] O quam tristis et afflícta fuit illa benedícta Mater Unigéniti! Quae moerébat et dolébat, Pia Mater dum videbat nati poenas íncliti. [Oh, quanto triste e afflitta fu la benedetta Madre dell'Unigenito! Come si rattristava, si doleva la Pia Madre vedendo le pene del celebre Figlio!] [31]


Quis est homo, qui non fleret, Matrem Christi si vidéret in tanto supplício? Quis non posset contristári, Christi Matrem contemplári doléntem cum Filio? [Quale uomo non piangerebbe al vedere la Madre di Cristo in tanto supplizio? Chi non si rattristerebbe a contemplare la pia Madre dolente accanto al Figlio?] Pro peccátis suae gentis vidit Jesum in torméntis et flagéllis sùbditum. Vidit suum dulcem natum moriéndo desolátum, dum emísit spíritum. [A causa dei peccati del suo popolo Ella vide Gesù nei tormenti, sottoposto ai flagelli. Vide il suo dolce Figlio che moriva abbandonato mentre esalava lo spirito.] Eia, mater, fons amóris, me sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam. Fac, ut árdeat cor meum in amándo Christum Deum, ut sibi compláceam. [Oh, Madre, fonte d'amore, fammi provare lo stesso dolore perché possa piangere con te. Fa' che il mio cuore arda nell'amare Cristo Dio per fare cosa a lui gradita. Sancta Mater, istud agas, crucifíxi fige plagas cordi meo válide. Tui Nati vulneráti, tam dignáti pro me pati, poenas mecum dívide. [Santa Madre, fai questo: imprimi le piaghe del tuo Figlio crocifisso fortemente nel mio cuore. Del tuo figlio ferito che si è degnato di patire per me, dividi con me le pene.] Fac me tecum pìe flere Crucifíxo condolére donec ego víxero. Iuxta crucem tecum stare, Et me tibi sociáre in planctu desídero. [32]


[Fammi piangere intensamente con te, condividendo il dolore del Crocifisso, finché io vivrò. Accanto alla Croce desidero stare con te, in tua compagnia, nel compianto.] Virgo vírginum praeclára, mihi iam non sis amára, fac me tecum plángere. Fac, ut portem Christi mortem, passiónis fac consòrtem et plagas recólere. [O Vergine gloriosa fra le vergini non essere aspra con me, fammi piangere con te. Fa' che io porti la morte di Cristo, fammi avere parte alla sua passione e fammi ricordare delle sue piaghe.] Fac me plagis vulnerári, cruce hac inebriári et cruòre Fílii. Flammis ne urar succènsus [Inflammatus et accensus], per te, Virgo, sim defénsus in die iudícii. [Fa' che sia ferito delle sue ferite, che mi inebri della Croce e del sangue del tuo Figlio. Che io non sia bruciato dalle fiamme, che io sia, o Vergine, da te difeso nel giorno del giudizio.] Fac me cruce custodíri morte Christi praemuníri, confovéri grátia. Quando corpus moriétur, fac, ut ánimae donétur paradísi glória. Amen. [Fa' che io sia protetto dalla Croce, che io sia fortificato dalla morte di Cristo, consolato dalla grazia. E quando il mio corpo morirà fa' che all'anima sia data la gloria del Paradiso. Amen.]

 VICTIMAE PASCHALI

E’ una sequenza che tradizionalmente viene cantata nella solennità di Pasqua e, facoltativamente, nell'ottava. La composizione, ritenuta dell'XI secolo, viene generalmente attribuita al monaco Wippone, cappellano dell'imperatore Corrado II, ma è stata anche attribuita ad altri, quali l'abate Notker Balbulus, Roberto II di Francia detto il Pio, il compositore di inni latini Adamo di San Vittore.

[33]


TESTO: Victimæ paschali laudes immolent Christiani. Agnus redemit oves, Christus innocens Patri reconciliavit peccatores. [Alla vittima pasquale si innalzi il sacrificio di lode, L'Agnello ha redento il gregge, Cristo l'innocente ha riconciliato i peccatori col Padre.] Mors et Vita duello conflixere mirando: Dux Vitæ mortuus, regnat vivus. Dic nobis, Maria, quid vidisti in via? Sepulcrum Christi viventis, et gloriam vidi resurgentis, angelicos testes, sudarium et vestes. [Morte e Vita si sono affrontate in un duello straordinario: il Signore della vita era morto, ora, regna vivo. Raccontaci, Maria, che hai visto sulla via? La tomba del Cristo vivente, la gloria del risorto; e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le vesti.] Surrexit Christus spes mea: præcedet suos in Galilaeam. Scimus Christum surrexisse a mortuis vere: Tu nobis, victor Rex, miserere. Amen. Alleluia. [Cristo mia speranza è risorto e precede i suoi in Galilea. Siamo certi che Cristo è veramente risorto. Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Alleluia.]

 VENI SANCTE SPIRITUS

La Pentecoste è una festa cristiana che ricorda, secondo gli Atti degli Apostoli, la discesa dello Spirito Santo nel Cenacolo, sugli Apostoli e la Vergine (evento in seguito al quale gli Apostoli furono dotati del dono di parlare lingue diverse), sotto forma di lingue di fuoco. Cade nel cinquantesimo giorno a partire dal giorno di Pasqua compreso (da cui il nome), di domenica, ed è quindi una festa mobile, dipendente dalla data della Pasqua.

TESTO: Veni, Sancte Spíritus, et emítte coelitus lucis tuae radium. [34]


Veni, pater pauperum, veni, dator múnerum, veni, lumen córdium. [Vieni, Santo Spirito, mandaci dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori.] Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium. In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium. [Consolatore perfetto, ospite dolce dell'anima, soave refrigerio. Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto.] O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium. Sine tuo númine, nihil est in hómine nihil est innóxium. [O luce beatissima, invadi nel profondo il cuore dei tuoi fedeli. Senza il tuo soccorso, nulla è nell'uomo, nulla senza colpa.] Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium. Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium. [Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, raddrizza ciò ch'è sviato.] Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium. Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. [Dona ai tuoi fedeli che solo in te confidano i tuoi santi doni. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna. Amen.] [35]


 DIES IRAE

Il Dies irae (Il Giorno dell'ira) è una sequenza liturgica in lingua latina, molto famosa, attribuita a Tommaso da Celano, da molti ritenuta una composizione poetica medievale tra le più riuscite.

Prende nome dalle parole iniziali, composta di 17 strofe di tre versi rimati, più sei versi di chiusa. Rappresenta prima l’ansia del peccatore nel giorno del giudizio divino, con le anime davanti al trono di Dio, dove i buoni saranno salvati e i cattivi condannati al fuoco eterno, poi la graduale confidenza nella divina bontà, esaltata dalla certezza di giusta clemenza. Il Dies irae è una delle parti più note del Requiem.

TESTO: Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla: teste David cum Sibylla. [Il giorno dell'ira, quel giorno che dissolverà il mondo terreno in cenere come annunciato da Davide e dalla Sibilla.] Quantus tremor est futurus, quando iudex est venturus, cuncta stricte discussurus! [Quanto terrore verrà quando il giudice giungerà a giudicare severamente ogni cosa.] Tuba mirum spargens sonum, per sepulcra regionum, coget omnes ante thronum.

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[La tromba diffondendo un suono mirabile tra i sepolcri del mondo spingerà tutti davanti al trono.] Mors stupebit et natura, cum resurget creatura, iudicanti responsura. [La Morte e la Natura si stupiranno quando risorgerà ogni creatura per rispondere al giudice.] Liber scriptus proferetur, in quo totum continetur, unde mundus iudicetur. [Sarà presentato il libro scritto nel quale è contenuto tutto, dal quale si giudicherà il mondo.] Iudex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit: nil inultum remanebit. [E dunque quando il giudice si siederà, ogni cosa nascosta sarà svelata, niente rimarrà invendicato.] Quid sum miser tunc dicturus? Quem patronum rogaturus, cum vix iustus sit securus? [In quel momento che potrò dire io, misero, chi chiamerò a difendermi, quando a malapena il giusto potrà dirsi al sicuro?] Rex tremendae majestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me fons pietatis. [Re di tremendo potere, tu che salvi per grazia chi è da salvare, salva me, fonte di pietà.] Recordare, Iesu pie, quod sum causa tuae viae: ne me perdas illa die. [Ricorda, o pio Gesù, che io sono la causa del tuo viaggio; non lasciare che quel giorno io sia perduto.] Quaerens me, sedisti lassus: redemisti Crucem passus: tantus labor non sit cassus. [Cercandomi ti sedesti stanco, mi hai redento con il supplizio della Croce: che tanto sforzo non sia vano!] Iuste iudex ultionis, donum fac remissionis [37]


ante diem rationis. [Giusto giudice di retribuzione, concedi il dono del perdono prima del giorno della resa dei conti.] Ingemisco, tamquam reus: culpa rubet vultus meus: supplicanti parce, Deus. [Comincio a gemere come un colpevole, per la colpa è rosso il mio volto; risparmia chi ti supplica, o Dio.] Peccatricem qui solvisti, et latronem exaudisti, mihi quoque spem dedisti. [Tu che perdonasti la peccatrice, tu che esaudisti il buon ladrone, anche a me hai dato speranza.] Preces meae non sunt dignae: sed tu bonus fac benigne, ne perenni cremer igne. [Le mie preghiere non sono degne; ma tu, buon Dio, con benignità fa' che io non sia arso dal fuoco eterno.] Inter oves locum praesta, et ab haedis me sequestra, statuens in parte dextra. [Assicurami un posto fra le pecorelle, e tienimi lontano dai caproni, ponendomi alla tua destra.] Confutatis maledictis, flammis acribus addictis: voca me cum benedictis. [Una volta smascherati i malvagi, condannati alle fiamme feroci, chiamami tra i benedetti.] Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis: gere curam mei finis. [Prego supplice e in ginocchio, il cuore contrito, come ridotto a cenere, prenditi cura del mio destino.] Lacrimosa dies illa, qua resurget ex favilla iudicandus homo reus. [Giorno di lacrime, quello, quando risorgerà dalla cenere il peccatore per essere giudicato.] Huic ergo parce, Deus: [38]


pie Iesu Domine, dona eis requiem. Amen. [Perdonalo, o Dio: pio Signore Gesù, dona a loro la pace. Amen.]

 Alleluia  Era in origine una formula liturgica ebraica che ricorreva soprattutto in alcuni salmi detti appunto alleluiatici; passò poi nella liturgia cristiana come acclamazione di trionfo, grido di santo tripudio,, ma lo troviamo sia nella Liturgia delle ore che nel proprio della Messa, dove è cantato prima della lettura del Vangelo. Le origini di questo canto sono complesse. In origine era riservato alle celebrazioni del giorno di Pasqua, in seguito è stato esteso anche a tutto il tempo pasquale (cioè fino alla Pentecoste) fino ad essere incluso in tutte le domeniche dell'anno, con l'eccezione dei tempi penitenziali, dove viene sempre omesso, e nelle messe per i defunti. Nel canto dell'alleluia si distinguono tre elementi: la parola alleluia che viene cantata solitamente tre volte all'inizio e alla fine; lo jubilus o melisma, prolungato sulla "a" finale dell'alleluia; il versetto, quasi sempre unico, preso da un salmo o da un cantico. La melodia posta sulla parola alleluia è generalmente sillabica o poco ornata.

 Tratto  Il Tratto (o Tractus) è un canto liturgico appartenente al Proprio della Messa: il suo testo quindi varia a seconda dell'occasione liturgica celebrata. Dal punto di vista testuale, il tratto è costituito da una serie di versetti salmodici, presi per lo più da un stesso salmo, che si susseguono senza nessuna interruzione responsoriale o antifonica. Dal punto di vista melodico, è di genere melismatico. Il tratto più lungo è il Qui habitat della prima domenica di Quaresima, che appare uno dei più antichi. Probabilmente veniva suddiviso in due parti in funzione di due letture. Questo è uno dei canti più lunghi del repertorio gregoriano.

 Offertorio  L’Offertorio (dal latino offertorium) consiste nell'offerta dei doni all'altare. Nella liturgia cattolica, l'offertorio è anche il nome del canto che accompagna la presentazione e la preparazione dei doni sull'altare per la celebrazione, cantato nel momento dell'offertorio. [39]


E’ un brano di concezione originale, in uno stile in genere assai ornato, che si avvicina al tratto: i versetti dell'offertorio sono sicuramente tra i più ornati, con una frequente tendenza al melisma, specialmente verso la fine del pezzo. Inizialmente il canto era di tipo responsoriale; dal IX secolo, la soppressione della processione offertoriale ed una serie di circostanze hanno dimensionato il rito dell'offertorio causando l'abbandono del canto dei versetti e riducendo la lunghezza del canto.  DOMINE, IN AUXILIUM MEUM RESPICE TESTO:

Domine, in auxilium meum respice: confundantur et revereantur, qui quaerunt animam meam, ut auferant eam. [Signore, abbi cura del mio aiuto. Coloro che lottano per la mia anima per strapparmela dovrebbero vergognarsi.] Avertantur retrorsum et erubescant, qui cogitant mihi mala. [Coloro che pensano il male dovrebbero ritirarsi e vergognarsi.] Exspectans exspectavi Dominum, et respexit me, et exaudivit deprecationem meam [Ho aspettato trepidante il Signore, che si è preso cura di me e ha risposto alle mie suppliche.]

 Communio  Il Communio è il canto processionale che accompagna i fedeli durante la distribuzione dell'eucaristia nella messa. Chiamato anche Antiphona ad communionem, ha la stessa struttura antifonale dell'introito: antifona - versetto salmodico - antifona. Nei primi secoli del cristianesimo, le liturgie utilizzavano il salmo 33, in particolare il versetto 9: “Gustate et videte quam suavis est Dominus” (Gustate e vedete come è buono il Signore). Questo salmo è un canto di lode, tradizionalmente attribuito al re Davide.

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ORDINARIO L'Ordinario (dal latino ordinarium) è l'insieme delle parti della messa (Ordinarium missae) o delle ore canoniche (Ordinarium officii), secondo il rito romano della Chiesa cattolica, il cui testo rimane immutato nei periodi dell'anno liturgico. Le parti dell'ordinario sono dette anche parti fisse, proprio perché non dipendono dal giorno o dalla festa. I canti dell'ordinario sono chiamati dal nome delle loro prime parole: Kyrie - Gloria - Sanctus e Benedictus - Agnus Dei.  KYRIE

Il Kyrie è la più antica testimonianza di uso liturgico cristiano, risalente al IV secolo nella chiesa di Gerusalemme, e al V secolo nella messa di rito romano. È usata come preghiera litanica e risposta a determinate invocazioni. Il termine di origine greca (Κ

ιε ἐλέη ον) e Kyrie eleison è la

traslitterazione dell'espressione in latino. Nella versione classica tradizionale, il rito di risposta è strutturato in tre invocazioni: Kyrie eleison; Christe eleison; Kyrie eleison. Nella liturgia italiana è stata tradotta con Signore pietà; tuttavia, con maggiore aderenza, potrebbe essere tradotta anche come Signore, abbi benevolenza.  GLORIA IN EXCELSIS DEO

Il Gloria in excelsis Deo, detto anche inno angelico, consiste nell'acclamazione degli angeli festanti, per annunziare ai pastori la nascita di Gesù.

È un testo che, contrariamente a quanto può far pensare il carattere natalizio delle prime parole, è di carattere pasquale. È una lode a Cristo, invocato perché abbia misericordia di tutti i Suoi figli. [41]


TESTO: Glória in excélsis Deo et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te, benedícimus te, adorámus te, glorificámus te, grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam, Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. [Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini amati dal Signore. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente.] Dómine Fili Unigénite, Jesu Christe, Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris, qui tollis peccáta mundi, miserére nobis; qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. [Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre; tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi] Quóniam tu solus Sanctus, tu solus Dóminus, tu solus Altíssimus, Jesu Christe, cum Sancto Spíritu: in glória Dei Patris. Amen. [Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l'Altissimo: Gesù Cristo, con lo Spirito Santo: nella gloria di Dio Padre. Amen.]  SANCTUS - BENEDICTUS

E’ parte integrante della prefazio, della quale costituisce la conclusione, prima dell'inizio della preghiera eucaristica; esso viene cantato o recitato ad alta voce dal sacerdote insieme al popolo. Quest'inno è un invito rivolto alla Chiesa terrestre ad unirsi ai cori celesti nella lode al Signore.

TESTO: Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt caeli et terra gloria tua. [42]


Hosanna in excelsis. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis. [Santo, santo, santo il Signore Dio dell'universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell'alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell'alto dei cieli.]

 AGNUS DEI

Agnus Dei (Agnello di Dio) si riferisce a Gesù Cristo nel suo ruolo di vittima sacrificale per la redenzione dei peccati dell'umanità. Con Agnus Dei si indica anche una particolare immagine: un agnello che porta una croce, e che rappresenta appunto Cristo. Agnus Dei viene cantata nella liturgia durante i riti della frazione del pane e dell'immistione, Non è presente nel rito ambrosiano. TESTO: Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem. [Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace.]

INNI L'innodia nel mondo liturgico è il canto di inni con testi su testi biblici. Il padre dell’innografia liturgica latina è S. Ambrogio, al quale vanno sicuramente attribuiti almeno 12 o 15 degli inni pervenutici sotto il suo nome: sono suoi, nel breviario, l’Aeterna Christi munera, Aeterne rerum conditor, e lo Splendor paternae gloriae. Tra gli inni più conosciuti ho scelto:  TE DEUM

Il Te Deum (estesamente Te Deum laudamus) è un inno cristiano in prosa di origine antica. Nella Chiesa cattolica il Te Deum è legato alle celebrazioni di ringraziamento; viene tradizionalmente cantato durante alcune solennità, come la sera del 31 dicembre per ringraziare il Signore dell'anno appena [43]


trascorso, oppure nella Cappella Sistina ad avvenuta elezione del nuovo pontefice, prima che si sciolga il conclave, o ancora a conclusione di un Concilio. L'origine del canto era tradizionalmente attribuita a san Cipriano di Cartagine oppure, secondo una leggenda dell'VIII secolo, si è sostenuto che fosse stato composto a due mani da sant'Ambrogio e da sant'Agostino il giorno di battesimo di quest'ultimo, avvenuto a Milano nel 386, per questo è stato chiamato anche "inno ambrosiano". Oggi si attribuisce la redazione finale a Niceta, vescovo di Remesiana alla fine del IV secolo. L'inno si può dividere in tre parti: - la prima, fino a Paraclitum Spiritum, è una lode trinitaria indirizzata al Padre. Letterariamente è molto simile ad un'anafora eucaristica, contenendo il triplice Sanctus; - la seconda parte, da Tu rex gloriae a sanguine redemisti, è una lode a Cristo Redentore; - l’ultima, da Salvum fac, è un seguito di suppliche e di versetti tratti dal libro dei salmi. Solitamente viene cantato a cori alterni: presbitero o celebrante e il popolo.

TESTO: Te Deum laudamus: te Dóminum confitemur. Te æternum Patrem, omnis terra veneratur. Tibi omnes ángeli, tibi cæli et univérsæ potestates: tibi cherubim et seraphim incessabili voce proclamant: [Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore. O eterno Padre, tutta la terra ti adora. A te cantano gli angeli e tutte le potenze dei cieli:] Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra maiestátis glóriæ tuae. Te gloriosus Apostolorum chorus, te prophetarum laudabilis numerus, te martyrum candidatus laudat exercitus. [Santo, Santo, Santo, il Signore Dio dell'universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Ti acclama il coro glorioso degli Apostoli, il numero lodevole dei profeti, la candida schiera dei martiri.] Te per orbem terrárum sancta confitetur Ecclesia, Patrem immensæ maiestatis; venerandum tuum verum et unicum Fílium; Sanctum quoque Paraclitum Spiritum.

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[In tutto il mondo la santa Chiesa proclama Te Padre d'immensa maestà; il Tuo venerabile e unico vero Figlio e anche lo Spirito Santo Paraclito.] Tu rex gloriæ, Christe. Tu Patris sempiternus es Filius. Tu, ad liberandum suscepturus hominem, non horruisti Virginis uterum. Tu, devicto mortis aculeo, aperuisti credentibus regna cælorum. [O Cristo, re della gloria, eterno Figlio del Padre, tu nascesti dalla Vergine Madre per la salvezza dell'uomo. Vincitore della morte, hai aperto ai credenti il regno dei cieli.] Tu ad dexteram Dei sedes, in gloria Patris. Iudex crederis esse venturus. Te ergo, quæsumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemísti. Aeternam fac cum sanctis tuis in gloria numerari. [Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. Confidiamo che verrai a giudicare il mondo. Dunque Ti chiediamo di soccorrere i tuoi servi, che hai redento col tuo sangue prezioso. Accoglici nella tua gloria nella assemblea dei santi.] Salvum fac populum tuum, Domine, et benedic hereditati tuæ. Et rege eos, et extolle illos usque in aeternum. Per síngulos dies benedícimus te; et laudamus nomen tuum in sæculum, et in sæculum sæculi. [Salva il tuo popolo, Signore, guida e proteggi i tuoi figli. E guidali e sorreggili in eterno. Ogni giorno Ti benediciamo, e lodiamo il tuo nome nel mondo, e nei secoli dei secoli]. Dignare, Domine, die isto sine peccato nos custodire. Miserere nostri, Domine, miserere nostri. Fiat misericordia tua, Domine, super nos, quemadmodum speravimus in te. In te, Domine, speravi: non confundar in aeternum. [Degnati oggi, Signore, di custodirci senza peccato. Pietà di noi, Signore, pietà di noi. Sia su di noi, Signore, la Tua misericordia, nella misura in cui abbiamo sperato in Te. In Te, Signore, ho sperato: non sarò confuso in eterno.]

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 TANTUM ERGO

Parole iniziali del penultimo versetto dell’inno Pange lingua, composto da San Tommaso d'Aquino per la celebrazione della solennità del Corpus Domini. TESTO: Tantum ergo sacramentum veneremur cernui, et antiquum documentum novo cedat ritui: praestet fides supplementum sensuum defectui. [Un così gran Sacramento dunque, adoriamo consapevolmente; ceda la vecchia Legge al nuovo sacrificio. Supplisca la fede al difetto dei sensi.] Genitori Genitoque laus et iubilatio, salus, honor, virtus quoque sit et benedictio; procedenti ab utroque compar sit laudatio. Amen. [Al Padre e al Figlio lode e giubilo, salute, potenza, benedizione. A Colui che procede da ambedue, pari gloria e onore sia.]

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DISCOGRAFIA

Solesmes 1010-2010, Le Millenaire Coro dell'Abbazia di Solesmes, dir. Fra' Yves-Marie Lelievre Solesmes Nel mare magnum delle incisioni discografiche del Canto gregoriano, consiglio di acquistare come prima scelta i dischi editi dalla etichetta Solesmes, in cui sono contenuti Canti gregoriani cantati dai monaci benedettini della Abbazia di Solesmes. Fondata nel 1010, l'Abbazia di Solesmes in Francia è uno dei più antichi ed importanti siti monastici europei che ospita anche ai nostri giorni una larga comunità di frati assorti nella preghiera, nello studio e nel lavoro come stabilito dalla regola che San Benedetto scrisse nel VI secolo. Una delle occupazioni dei monaci dell'Abbazia di Solesmes è preservare il canto gregoriano, facilitati dall'archivio e dalla tradizione millenaria del convento. Da secoli i cori dei monaci di Solesmes sono conosciuti per la loro straordinaria bellezza ed ora l'Abbazia presenta al pubblico una ricca selezione di registrazioni, in bellissime confezioni; le melodie del coro di questi monaci sono considerate le più belle e profonde con interpretazioni perfette che ricreano le stesse sonorità che avremmo sentito risuonare nel convento dieci secoli fa. Questo disco nasce per celebrare l’anniversario dei 1000 anni dalla fondazione dell’Abbazia di Solesmes, contiene melodie antiche che trascendono spazio e tempo riuscendo a coinvolgere profondamente anche ai nostri giorni: un album imperdibile per gli appassionati di canto gregoriano e per chi desidera avvicinarsi alle trascinanti melodie del sacro canto. ♫♫ Noël Coro dell'Abbazia di Solesmes. Solesmes "Noël" propone tutti i canti utilizzati nelle liturgie natalizie: i principali eventi della storia della salvezza dell'uomo sono rivissuti giorno per giorno, ora dopo ora, esattamente come per la nascita di Gesù alla mezzanotte di un freddo dicembre in una capanna di Betlemme. L'opera è divisa in tre sezioni rispettivamente dedicate alla liturgia della notte della vigilia, della Messa di mezzanotte e della Messa del giorno di Natale che [47]


canta del nuovo arrivato e dell'universalità della salvezza da Lui portata. Per le solenni liturgie di Natale sono riservati alcuni dei canti gregoriani più belli per celebrare la vigilia. Tra i canti riservati alle liturgie del periodo natalizio inclusi nell'album va segnalata la presenza del Te Deum. ♫♫ Chant: Music For Paradise Cistercian Monks of Stift Heiligenkreuz Decca (UMO) 2 cd Questo CD nel 2008, al momento della sua uscita, rappresentò un vero e proprio fenomeno discografico, rimanendo in cima alla classifica dei CD più venduti in Europa per diversi mesi. Cantano i monaci cistercensi dell’Abbazia di Heiligenkreuz, in Austria: si possono ascoltare diversi brani per l’Ufficio divino e per la celebrazione eucaristica, inclusa una Messa per i defunti, una per il tempo di Avvento e una per il Natale. Un

album

incredibilmente

bello,

lascia

una

sensazione

meravigliosa. Piacevoli le due tracce con solo il suono delle campane, interrompono bene i canti, ci si immerge nella atmosfera dell'Abbazia cistercense. ♫♫ Las mejores obras del Canto Gregoriano Coro De Monjes Del Monasterio De Silos Warner Classics - Erato

Questa non è una prestazione artificiale da parte dei professionisti, ma qualcosa dalla autentica vita quotidiana di questi monaci nel Monastero di Las Huelgas a Burgos. Stanno condividendo una parte autentica della loro vita quotidiana con l'ascoltatore e il risultato è ineffabilmente bello. Ti trasporta in un altro mondo, molto più sereno. Registrazione spettacolare. Chi li ha ascoltati dal vivo, racconta che c’è poca o nessuna differenza nel sentirli cantare dal vivo o ascoltarli sui loro CD! ♫♫ [48]


Capolavori gregoriani Cantori gregoriani Edizioni Paoline (2 CD) Quest'opera, presentata in doppio compact disc, propone quaranta brani selezionati dalla collana Canto Gregoriano, edita dalle Paoline. L'antologia è curata da Giacomo Baroffio, uno dei maggiori studiosi di questo repertorio, e vuole condurre l'ascoltatore all'incontro con il gregoriano seguendo l'itinerario dell'anno liturgico dall'Avvento al tempo pasquale, dalla celebrazione dei Santi alla liturgia dei defunti. Attraverso antifone, responsori, inni, sequenze, ritroviamo ancora oggi il fascino di queste forme musicali legate alla liturgia; musica che, nei secoli, è riuscita ad amalgamare le suggestioni di diverse culture sino a fonderle in un linguaggio unitario. È una proposta editoriale di grande interesse e valore, particolarmente accurata nello studio delle fonti, nella scelta del repertorio, nella realizzazione discografica. ♫♫ Konrad Ruhland conducts Gregorian Chant Capella antiqua München - Choralschola Sony (4 CD)

Alcuni dei più bei canti gregoriani furono realizzati negli anni '70, '80 e '90 dal musicologo tedesco Konrad Ruhland, che dirigeva cori da lui fondati a Monaco e altrove in Baviera. In questa selezione in 4 CD delle sue registrazioni per Sony e RCA troviamo alcuni dei più bei inni latini del primo cristianesimo. La rivista Gramophone elogia l'interpretazione attentamente ponderata di Ruhland e la sua vocalità “robusta”. ♫♫ Gregorian Chant (Avvento, Natalem Pasqua, Ascensione, Pentecoste) Choralschola der Wiener Hofburgkapelle, dir. Doph Hubert Decca

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La Hofmusikkapelle è composta dal Coro dei Piccoli Cantori Viennesi (fondati da Massimiliano I d'Asburgo nel 1498) e da alcuni membri del coro e dell’τrchestra dell’τpera di Stato. Chiara fedeltà nitida di un gruppo eccezionale. Eccellente registrazione, la qualità audio è al di sopra della media. Ideale per ricreare le atmosfere di un monastero medievale.

♫♫ Voices – Chant from Avignon Monache benedettine di Notre-Dame De L’A Decca

o iatio .

Le monache benedettine di Notre-Dame De L’Annonciation sono definite come il miglior coro di canto femminile del mondo. Questa registrazione è un album tematico che rivisita il viaggio dei due discepoli di Gesù Cristo, sulla strada per Emmaus, suddiviso in tre parti. La prima parte è intitolata "Tristezza nella vita" che riflette sulla tristezza che questi due discepoli stavano provando mentre camminavano lungo la strada per Emmaus, mentre raccontavano la sofferenza e la crocifissione del loro Signore. Mentre camminano, vengono raggiunti da uno sconosciuto. La seconda parte è intitolata "Rimani con noi". I due discepoli, assieme all’uomo sconosciuto, raggiungono la loro casa di Emmaus. E’ già notte e i due discepoli invitano lo straniero a rimanere. Successivamente quando dividono il pane si accorgono che lo straniero che hanno incontrato e ospitato è Gesù Cristo. La terza parte è intitolata "Cuori ardenti" e si riferisce allo stato del cuore dei due discepoli, dopo aver riconosciuto il Cristo risorto. "Voices- Chant From Avignon" è davvero una delle registrazioni di canto più belle mai pubblicate da un coro femminile. L'intero album è eccellente, tutti i testi dei canti sono tratti dai Salmi, Lamentazioni, dal libro di Geremia, dai Vangeli e dalle Epistole del Nuovo Testamento. Le voci sono limpide e commoventi, ti entrano nell’anima. Dal punto di vista tecnico, la registrazione è molto ben fatta. Imperdibile per chi ama il canto gregoriano. ♫♫ [50]


Hildegard Von Bingen: The complete edition Sequentia. Deutsche Harmonia Mundi (9 CD) Santa Hildegard von Bingen (1098-1179) fu monaca badessa benedettina, mistica e profetessa, probabilmente la prima donna musicista e compositrice nella storia cristiana. Nominata Dottore della Chiesa da Papa Benedetto XVI, è una figura poliedrica: scrisse molte opere che trattano di teologia, ascetica, esegesi, musica, medicina, poetica, soprattutto di storia naturale. Consigliera di Papi e Re nelle questioni più diverse specialmente riguardanti la riforma della Chiesa, anche la grande venerazione con cui venivano ricevuti i suoi ammonimenti era dovuta alla reputazione d'inviata da Dio, di cui godeva specialmente negli ultimi anni. Sulle sue "visioni" molto si è discusso e anche più sulle sue profezie, ma non è questa la sede per trattare questi argomenti. La linea melodica delle sue opere è unica, tipica del Canto Gregoriano, ma la sua originalità è caratterizzata dal ritmo irregolare, con un’enfasi non convenzionale, combinando testo e musica con risultati di grande effetto. Questa è una raccolta onnicomprensiva, completa delle composizioni di Hildegard, le esecuzioni dell'ensemble Sequentia sono di altissimo livello artistico e la riproduzione sonora eccellente.  CANTO AMBROSIANO Ambrosian Chant In dulci Jubilo, dir. Alberto Turco. Naxos - Early Music I canti di questo CD sono diretti da Alberto Turco, musicologo italiano specializzato in canto gregoriano e ambrosiano. Sul CD Ci sono 19 tracce che comprendono canti per ogni parte dell'Ordinario della Messa Ambrosiana più antifoni, forme musicali di salmodia, risposte e altri brevi brani. Questo CD è una buona introduzione alla conoscenza del Canto Ambrosiano.

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Cha ts de L’Eglise Mila aise – Ambrosian Chant Ensemble Organum, dir. Marcel Pérès. Harmonia Mundi – Musi ue d’a o d Marcel Pérès ha raccolto un'antologia di musica ambrosiana, illustrata attraverso vari brani liturgici, tra cui 'psalmelli', che sono salmi brevi, una bellissima «Alleluia» sulla nascita di Cristo, offertori e altro ancora, regalandoci una bellissima testimonianza della diversità del canto liturgico dei primi secoli del cristianesimo. Questo paleo-musicista e interprete, assieme al suo Ensemble, ha concentrato il suo lavoro sul canto ambrosiano della Scuola Milanese. Non c'è alcuna indicazione che il suo lavoro sia stato perfetto, ciò che possiamo essere certi, tuttavia, è che deve essere estremamente difficile trovare un'interpretazione più autentica, in quanto gli interpreti sono per natura all'avanguardia nella ricerca paleo-musicale.  CANTO MOZARABICO Mozarabic Chant - Manoscritti della cappella mozaraba della cattedrale di Toledo (XV-XVI secolo) Ensemble Organum, dir. Marcel Pérès. Harmonia Mundi – Musi ue d’A o d Il repertorio del canto mozarabico, tipico della penisola iberica, occupa una posizione di primaria importanza nella storia della musica occidentale, a fianco di altri canti liturgici latini come il Gregoriano e l'Ambrosiano. Non sono frequenti le incisioni di questo repertorio antichissimo, di cui sopravvivono limitati frammenti. Brani biblici vengono rivestiti di melodie arcaiche e complesse, e definiscono uno spazio liturgico misterioso e avvolgente. Anche per questo la liturgia mozarabica era particolarmente apprezzata dai dominatori islamici della Spagna medioevale. I brani raccolti da Marcel Pérès per questa registrazione sono tratti dai libri corali curati da Cisneros. Belle le voci. L'interpretazione ritmica è impeccabile. La pronuncia corretta del testo latino consente di cogliere tutte le sfumature di significato del testo. Il gruppo guidato da Marcel Pérès presenta una magnifica interpretazione, vibrante testimonianza spirituale delle origini del cristianesimo.

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 CANTO BENEVENTANO Chants de la cathédrale de Benevento Ensemble Organum, dir. Marcel Pérès. Harmonia Mundi – Musi ue d’A o d Bellissime sonorità di un repertorio, quello Beneventano, assai poco conosciuto. Le Voci dell'Ensemble Organum sono particolarmente preparate e capaci di affascinare l'ascoltatore. Risaltano, da questa eccellente interpretazione, le connessioni del canto beneventano con quello bizantino.

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La Scuola polifonica siciliana: Pietro Vinci Pietro Vinci è uno dei capostipiti della Scuola polifonica siciliana, tra i più grandi compositori di musica polifonica contemporanei di Orlando di Lasso e di Giovanni Pierluigi da Palestrina. Nacque a Nicosia intorno al 1533, la città di nascita è orgogliosamente dichiarata su quasi tutti i frontespizi dei suoi libri musicali, apparsi tra il 1558 e il 1584: «Petri Vincii siculi nicosiensis » («Di Pietro Vinci siciliano della città di Nicosia»). Non si sa nulla né dei suoi genitori né della sua formazione musicale, si pensa che la sua prima istruzione sia avvenuta presso i musicisti operanti alla corte dei Moncada, conti di Caltanissetta. Intorno al 1560 lasciò la Sicilia per cercare fortuna nel continente. Nella dedicatoria dei Madrigali a tre voci (1582) – una sorta di autobiografia – Vinci disse di aver lasciato la Sicilia alla volta dapprima di Livorno e poi della Lombardia, in cerca di un’occupazione stabile a fronte di probabili ma occasionali incarichi in qualche chiesa: «Feci tanto ch’or ero chiamato a questa chiesa principale, or a quell’altra ad esercire questa professione mia della musica». Antonino Mongitore nel 1714 lo definì inoltre «Musices moderator Romae», città che Vinci però non menzionò nel descrivere le proprie peregrinazioni. Nella Milano spagnola, probabile meta principale del viaggio, poté farsi apprezzare nei circoli della nobiltà cittadina; lo testimonia una lettera del 16 febbraio 1568 con cui il barone Paolo Sfondrati, fratello di Nicolò (vescovo di Cremona e poi Gregorio XIV), ringraziò il duca Ottavio Farnese per aver preso in considerazione la possibilità di assumere a servizio il compositore siciliano. La lettera offre anche un raro squarcio sulla figura umana di Vinci (seppur filtrata dal tipico sussiego nobiliare) e su una caratteristica artistica che lo connotò poi anche in seguito: premesso che «…sebene in prima vista pare inetto, è però sufficientissimo nel mestero del componere, né ha oggidì molti pari», il mittente osservò che «… la sua musica ha del difficiletto, né ogni uomo è buono a cantarla all’improviso, però se alla prima cantata non vi riuscisse molto, non si scandalizase, perché bisogna che chi cantarà ne abbi o faccia un puo’ di prattica». Il 14 maggio del 1571 Vinci fu eletto maestro di cappella in S. Maria Maggiore di Bergamo al posto di Bartolomeo Torresani, detto l’τste da Reggio; l’indomani venne redatto l’atto ufficiale e il 22 luglio, su richiesta del compositore, fu stabilito che il suo incarico sarebbe durato dodici anni; in tal modo sarebbe stata assicurata una certa stabilità al compositore, ma anche all’istituzione bergamasca, che negli ultimi sette anni aveva visto avvicendarsi ben quattro maestri di cappella, con vari problemi di gestione. Il musicista venne «onorevolmente stipendiato», come ammise lo stesso Vinci (dedica dei Madrigali a tre voci, 1582): nel 1575 aveva raggiunto la cospicua cifra di 664 lire annue, più del doppio di un normale cantore. [54]


Per la sua nuova città, definita «amena» e «felicissima» (così nel Primo libro di madrigali a quattro voci, 1583), egli ebbe sempre parole di gratitudine, in primo luogo per motivi personali: nella tranquillità infine raggiunta prese moglie ed ebbe dei figli. Fu anche il periodo professionalmente più prolifico; dal 1571 al 1580 pubblicò una decina di libri che, oltre a consolidarne la fama di madrigalista, lo fecero conoscere anche come importante compositore di musica da chiesa, fino a quel momento limitata al giovanile libro di Mottetti a cinque. σell’imminenza della scadenza dei dodici anni, Vinci chiese e ottenne dai Reggenti di Bergamo il permesso di recedere dall’incarico per tornare a σicosia dai propri familiari, un ritorno sollecitato da lettere provenienti dal padre e dai fratelli; per i suoi servizi, evidentemente apprezzati, gli vennero elargiti 25 scudi, oltre alle consuete lettere di referenze. Vinci partì da Bergamo non prima di metà ottobre del 1581, e problematica risulta la piena comprensione di quella qualifica di «maestro di cappella in Nicosia»; forse la carica fu assunta in un secondo tempo, forse fu meramente onorifica, del resto non è menzionata alcuna istituzione religiosa (ad esempio la Cattedrale). Il titolo di maestro di cappella poteva avere un significato generico, ovvero denotare una persona capace di comporre e di dirigere una cappella, non necessariamente un incarico vero e proprio. Tornato in Sicilia intorno al 1581, fu dapprima nella sua città natale, quindi fu chiamato, negli ultimi anni della sua vita, a dirigere i cori di cappella a Piazza Armerina, città di Antonio il Verso, suo più illustre discepolo, e a Caltagirone. L’ultimo incarico di maestro di cappella a Caltagirone è attestato in registrazioni amministrative del 1584, ma fu forse una mansione di breve durata od occasionale, giacché una cappella stabile a Caltagirone è documentata solo a partire dal 1620. Sul frontespizio del Settimo libro dei madrigali a cinque voci, edito proprio nel 1584, non compare alcuna qualifica, e la dedica a Francesco Spinelli, barone della Perrera, è firmata il 15 giugno dalla città di Piazza (l’odierna Piazza Armerina). Nella lettera il compositore presagisce l’imminente scomparsa, forse per l’età, forse per ragioni di salute: «M’era già deliberato queste mie fatiche [...] non mandar altrimenti in luce, anci lasciarlo che dopo la mia morte alcuno, o per amicicia

o

per

cortesia,

lo

mandasse in stampa». Pietro Vinci morì a Nicosia - o forse a Piazza Armerina - poco dopo il 15 giugno 1584 e venne sepolto nella Cattedrale di Nicosia; la lapide funeraria risulta però non più esistente già ai primi del Settecento. [Cattedrale di Nicosia]

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Dopo la sua morte apparvero a stampa alcune composizioni rimaste inedite, soprattutto per iniziativa del suo allievo Antonio il Verso.

Composizioni Durante la sua vita Pietro Vinci diede alle stampe varie opere: un Libro di Ricercari a due voci, sei libri di mottetti (a cui si aggiunge il Secondo libro de mottetti e ricercari a tre voci fatto stampare postumo da Antonio il Verso), due di Messe, oltre a tredici libri di madrigali. Le prime due opere – il Primo libro di motetti a cinque voci (Venezia, Girolamo Scotto, 1589) preparato probabilmente in vista di una carriera come maestro di cappella, e uno di composizioni a due voci (1560), di carattere didattico – sono legate alla Sicilia: sono entrambe dedicate a Francesco e Imara di Santa Pau, marchesi di Butera (la Musica a due voce al solo Francesco); il mottetto “Lucia virgo – Sicut per me civitas catanensis” è un’invocazione alle sante patrone di Catania (Sant’Agata) e Siracusa (Santa Lucia); [Giovanni da Gaeta: Sant'Agata e Santa Lucia. 1456. Museo Diocesano di Gaeta]

“Ave virginum gemma sancta Chatarina” è dedicato a una santa molto venerata nell’isola; e quasi tutte le composizioni a due voci recano intitolazioni in siciliano (proverbi, luoghi, persone, come donna Giulia Moncada Barresi, imparentata con i Santa Pau). Nel 1561 apparve la sua opera più conosciuta, il Primo libro di madrigali a cinque voci. Il libro, prima fatica in un genere che all’epoca poteva assicurare notorietà internazionale a un compositore, venne dedicato a don Antonio d’Aragona, duca di Montalto e nobile di sangue reale, e mostra tutte le caratteristiche di un’opera confezionata ad arte per esibire la competenza del musicista e nel contempo il rango del dedicatario, in primis nella scelta dei testi: tolti due sonetti senza nome dell’autore (il primo di essi elogia le virtù d’armi del dedicatario), gli altri sono dal Canzoniere petrarchesco, per lo più sonetti (in due parti), ma anche l’intera canzone “Che debb’io far, che mi consigli, Amore?” Due composizioni sono di Giulio Severino «discipulo di Pietro Vinci», qualifica che scomparve poi nelle edizioni successive. Nel Secondo libro dei madrigali a cinque voci (1567) figura un componimento encomiastico rivolto al dedicatario, il barone Gionforte de Alessi, del francese Ambrogio Marien d’Artois, compositore inserito nel contesto napoletano (entrò poi nel circolo della famiglia Gesualdo), anch’egli definito «discepolo di Pietro Vinci». Questo secondo libro di madrigali, che nel contenuto conferma il carattere del primo – gran parte dei testi poetici sono di Francesco Petrarca, per lo più sonetti in due parti, ma anche l’intera sestina “Là ver l’aurora che sì dolce l’aura” pone qualche problema: la data indicherebbe che il periodo napoletano fu di una certa lunghezza, ma anche che vi furono sei anni di [56]


silenzio editoriale per il compositore, un lasso occupato soltanto dalle riedizioni del primo libro. Il dedicatario, barone di Sisto, apparteneva alla piccola nobiltà nicosiense; la dedica, senza data, è firmata «da σicosia», non si sa se come indicazione del luogo o della provenienza dell’autore: non si può escludere che il compositore fosse ritornato in patria prima di partire verso il Nord Italia e che la data dell’edizione sia di qualche anno posteriore alla compilazione del libro. I libri di musica sacra sembrano i più direttamente legati al contesto bergamasco, sia per i dedicatari, sia per occasioni particolari evidenti all’interno. Il Secondo libro di mottetti a cinque voci (1572) è dedicato al Collegio dei Reggenti della Misericordia Maggiore, il consorzio cittadino che dal 1449 amministrava la basilica; e il Primo libro di mottetti a quattro voci (1578) al podestà Giacomo Contarini. Tra i mottetti delle due raccolte, che indicano l’occasione liturgica, secondo un principio piuttosto frequente nelle sillogi mottettistiche coeve (pur in assenza di un ordinamento liturgico vero e proprio), spiccano tre composizioni d’occasione su testo latino nel volume a cinque voci. Due sono «In magni Hestoris Baleonis funeribus», ovvero per le esequie celebrate in Bergamo per Astorre Baglioni, uno dei due comandanti della guarnigione di Famagosta ucciso di turchi nel 1570 (e per le quali furono pubblicati diversi opuscoli poetici); l’altro, «In destructione Turcharum», per celebrare la vittoria di Lepanto. Maggior rilievo sembra conferito al Libro di messe a cinque, sei e otto voci (1575), dedicato ad Antonello Arcimboldi, protonotario apostolico e componente del Senato di Milano. È un’opera ambiziosa, che nella sua ingegnosa distribuzione offre diversi modelli di procedure compositive, compresa la bicoralità. Allo stesso Arcimboldi già nel 1573 Vinci aveva dedicato il Quarto libro dei madrigali a cinque voci, con due sestine spirituali di Gabriele Fiamma e un madrigale del giovane Tasso, “Mentre mia stella miri”, una primizia che avrebbe avuto poi vasta fortuna tra i musicisti. [Costanza Colonna]

Un’importante dedizione al madrigale spirituale – genere occasionalmente affrontato in precedenza nel confronto con rime di Fiamma – testimoniano i Quattordeci sonetti spirituali (1580). L’organizzazione interna della raccolta segue un principio ordinatore tendenzialmente gerarchico (la Trinità, Maria, San Giovanni, i Magi, gli Innocenti), con una forte componente vuoi penitenziale (la Passione, il Venerdì santo) vuoi contemplativa (la Vergine), in linea con le tendenze devozionali contemporanee; può darsi che i Quattordeci sonetti fossero intesi come quinto libro di madrigali a cinque voci, a meno di non prestar fede alla notizia di un altrimenti ignoto quinto libro, datato 1584. Il libro è dedicato a un’omonima discendente della nobildonna poetessa, figlia di Marcantonio Colonna, già ammiraglio pontificio nella battaglia di Lepanto e dal 1577 viceré di Sicilia, nominato con deferenza nella lettera dedicatoria. L’intento, verosimilmente politico, doveva preparare il terreno per il ritorno di Vinci in Sicilia. [57]


Le Messe del 1581 denunciano ancora evidenti legami con Milano, essendo dedicate a Anna Morone Stampa, marchesa di Soncino e sorella del cardinale Giovanni Gerolamo Morone (la prima messa è intitolata Morona), ma i mottetti del 1582 già sono dedicati al viceré Colonna. Allo stesso Colonna sono dedicati il già ricordato libro di Madrigali a tre voci (1582) – nella dedica Vinci ricorda la di lui figlia, marchesa di Caravaggio (già menzionata nella lettera dedicatoria dei Quattordici sonetti spirituali) – e le Lamentationi a quattro voci (1583); e nel libro di madrigali, oltre a varie composizioni encomiastiche in onore dei Colonna (Costanza, il marito Francesco I di Caravaggio e la loro figlia Faustina), figurano mottetti per S. Agata, per S. Lucia e per S. Nicola, il santo titolare della Cattedrale di Nicosia. Sui frontespizi dei due libri non compare più la qualifica di maestro di cappella. Al 1583 risalirebbe anche un Secondo libro di madrigali a quattro voci, che non risulta pervenuto. [Marcantonio Colonna]

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DISCOGRAFIA

La discografia su Pietro Vinci è molto limitata.

Pietro Vinci: Quattordeci sonetti spirituali della illustrissima et eccellentissima divina Vittoria Colonna Anney Barret (soprano), Matthew Anderson (tenore), Jason McStoots (tenore), Michael Barret (tenore), Steven Hrycelak (basso) Julia Jeffrey (viola da gamba). Nota Bene Viol Consort, dir. Sarah Mead Toccata Classic

Pietro Vinci pubblicò i suoi Quattordeci Sonetti Spirituali nel 1580. Il testo appassionato ed estatico è di Vittoria Colonna, la quintessenza della donna rinascimentale, una delle poetesse più apprezzate dell'epoca. Le poesie dei Sonetti Spirituali sono religiose, ma Vinci dà loro ambientazioni laiche. La sua florida polifonia illumina in modo convincente il testo.

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Nota Bene Viol Consort è un ensemble dedito al ricco repertorio di polifonia vocale e strumentale sorto nel continente europeo e in Inghilterra.

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Pietro Vinci: I Ricercari a tre voci Diego Cannizzaro (organo) Tactus

Diego Cannizzaro, organista, pianista e clavicembalista, si occupa principalmente di musica antica dell’Italia meridionale e della musica organistica tardo ottocentesca italiana. La registrazione di questo CD è avvenuta nella Chiesa di San Panteleone di Alcara Li Fusi (Messina)

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Gli Amici del… grammofono

Nicolai Rimskij-Korsakov: Capriccio spagnolo op.34 Robert Schumann: Kinderszenen op.15

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Capriccio spagnolo op. 34, di Nicolai Andreevic Rimskji-Korsakov CENNI STORICI Quella di Rimskji-Korsakov è una delle figure più curiose e contraddittorie nella storia della musica dell'Ottocento. Avviato giovanissimo alla carriera militare in Marina, poté coltivare la musica solo da autodidatta, ma divenne cionondimeno il più completo fra i musicisti russi della sua generazione. E difatti fu illustre direttore d'orchestra e didatta di fama, maestro di una vera legione di compositori fra i quali Stravinskij. Entrato a far parte prestissimo del Gruppo dei Cinque accanto a Balakirev, Cui, Mussorgskij e Borodin, Rimskji fu quello che più si allontanò dagli ideali originari del movimento – volto a rivendicare la necessità di un nazionalismo musicale svincolato dalla tradizione e dal gusto occidentali - per piegarsi invece all'influenza delle scuole tedesca e francese, in particolare dell'opera di Liszt e di Berlioz, i quali costituiscono i modelli principali della sua produzione, specie di quella strumentale. E certamente su questo atteggiamento pesò non poco l'esperienza parigina degli ultimi anni del secolo, durante i quali Rimskij-Korsakov, presentatosi come promotore della musica russa all'estero, subì il richiamo dei circoli cosmopoliti della capitale e si aprì a suggestioni filoccidentali abbandonando, se non la consapevolezza della specificità della cultura e della musica russa, l'intransigenza autarchica dei suoi colleghi più radicali. È noto che l'opera di diffusione da lui svolta in favore dei compositori nazionali, primo fra tutti Mussorgskij, ebbe il merito di elevare a fenomeno di dimensioni internazionali una produzione che senza la sua opera di mediazione sarebbe rimasta ancora per un certo numero di anni emarginata dal contesto europeo. Fu nel 1887, dopo aver realizzato, con la collaborazione di Glazunov, la partitura del Principe Igor di Borodin, rimasta incompiuta per l'immatura fine del suo autore, che Rimskij-Korsakov ritornò a dedicarsi alla composizione che per un momento sembrava volesse abbandonare. Frutto di questa ripresa di attività creativa furono il Capriccio spagnolo (1887), Sheherazade (1888) e La grande Pasqua russa (1888-89), tre composizioni che, se non godono ancora la popolarità di cui godettero fino allo scoppio della prima guerra mondiale, sono spesso presenti ancora nel repertorio attuale. Il Capriccio spagnolo è una composizione di virtuosità orchestrale, ricca di melodie, ritmi, colori e movimento, effetti strumentali e preziosità armoniche, l'evocazione di una Spagna vista attraverso la fantasia di un artista. Ricordiamo che il folklore musicale spagnolo o quantomeno certi motivi spagnoli rispecchiati dalla musica esercitarono un influsso notevole su molti compositori europei, in modo speciale nel secolo scorso. Questa vivace pagina, per la quale Rimskij-Korsakov diede fondo a tutte le più raffinate ed efficaci tecniche di orchestrazione, era stata pensata in origine come “Fantasia su temi spagnoli per violino [61]


e orchestra”; e anche nella versione definitiva sono rimasti ampi e brillanti episodi affidati al violino solista, che è - per così dire - la guida di questa colorita escursione in terra spagnola.

[Edouard Manet: Il balletto spagnolo. 1862.Washington, The Phillips Collection.] Il Capriccio spagnolo è sicuramente una delle pagine sinfoniche più amate ed eseguite dalle orchestre di tutto il mondo: in essa Rimskij-Korsakov profuse in sommo grado la sua grandissima dote di sottile orchestratore. La prima esecuzione dell'opera fu messa in programma il 31 ottobre 1887 nel secondo dei Concerti sinfonici russi di quella stagione, sotto la direzione dello stesso Rimskij-Korsakov. Durante la prima prova del lavoro, dopo l'esecuzione del suo primo movimento, l'orchestra iniziò ad applaudire il compositore e così fece ogni volta che le fermate del pezzo lo permettevano; Rimskij-Korsakov quindi chiese all'orchestra di poterle dedicare il pezzo. Al concerto il Capriccio spagnolo ebbe un tale successo che il pubblico richiese con insistenza il bis. GUIDA ALL’ASCOLTO Il capriccio è un tipo di composizione caratterizzato da una certa libertà di realizzazione, e sempre difficilmente riducibile a elementi formali o tecnici. Il Capriccio spagnolo, che lo stesso Korsakov definì «superficiale, anche se vivo e brillante», si compone di cinque episodi strettamente legati fra loro.

 Primo episodio: Alborada

σella prima parte, “Alborada”, in la maggiore, con un’indicazione di tempo Vivo e strepitoso, troviamo un ambiente di danza collettiva, d’animazione popolare, che quasi ricorda l’Ouverture della [62]


Carmen di George Bizet. Il tema è suonato alternativamente dai violini in fortissimo, su un accompagnamento ritmato di tutta l’orchestra, e dal clarinetto in piano, su un accompagnamento molto più sobrio. Questa presentazione del tema si ripete due volte (violini, clarinetto, violini, clarinetto) e vorrei far notare la differenza di accompagnamento: quando il tema è ai violini, abbiamo tutta l’orchestra comprensiva delle percussioni, mentre quando suona il clarinetto, l’orchestra si riduce, spariscono le percussioni e gli archi sono pizzicati. Dopo la quarta ripetizione del clarinetto, il violino solista ci propone una serie di melodiosi arpeggi a cui seguirà il rullo del timpano su un accordo tenuto degli archi, che ci portano alla conclusione di questo brano. Particolarmente attiva risulta essere la sezione delle percussioni che si avvale del triangolo, dei piatti, della grancassa e dei timpani.

 Secondo episodio: Variazioni Nelle successive “Variazioni” (Andante con moto), Rimskij utilizza una nostalgica canzone asturiana come base per diverse variazioni di natura prevalentemente timbrica: dopo l'esposizione affidata ai corni, il tema viene ripreso e variato dai violini, poi dal corno inglese e infine dai legni. Il flauto solo ha il compito di chiudere questo secondo brano con una serie di scale cromatiche e un trillo finale.

 Terzo episodio: Alborada Il terzo movimento ci ripropone l’Alborada iniziale, sempre con un tempo Vivo e strepitoso, ma con una diversa strumentazione e tonalità (in questo caso siamo in si bemolle maggiore, un semitono sopra il brano iniziale). τra le parti sono scambiate: all’inizio abbiamo il tema proposto dai fiati sostenuti da un tutti orchestrale, percussioni comprese, in modo forte mentre poi troviamo il violino solo, in piano, sostenuto da pochissimi strumenti. Anche qui abbiamo una doppia riproposizione, come all’inizio. τra gli arpeggi, proposti la prima volta dal violino solista, sono presentati dal clarinetto (accompagnato qua e là dall’arpa e dal violino solo) che portano, anche qui, al rullo del timpano che ora, a differenza dell’inizio, cresce fino al forte dell’accordo finale.

 Quarto episodio: Scena e canto gitano Il quarto episodio, “Scena e canto gitano” (Allegretto), si apre su un rullo del tamburo sul quale i quattro corni e le trombe preannunciano il tema gitano in una specie di libero recitativo. Il tema fa uso di intervalli melodici tipici del canto popolare iberico e dà modo ai diversi strumenti dell'orchestra di esibirsi in libere cadenze che preparano l'entrata del vero e proprio canto gitano, ripetuto varie volte con un'orchestrazione sempre più ricca. Dopo i corni e le trombe, il tema è ripreso successivamente dal violino solista, quindi dal flauto e dal clarinetto, che propongono anche dei momenti virtuosistici con le loro cadenze, infine dall’oboe. Una cadenza dell’arpa, accompagnata dal triangolo, porta ad un secondo elemento tematico ai violini.

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Da ora e fino alla fine del movimento i due temi si alterneranno in un energico crescendo. Verso la fine dell’episodio gli archi dovranno imitare il suono della chitarra (“Quasi guitara” è scritto in partitura).

 Quinto episodio: Fandango Asturiano L’ultimo movimento è la continuazione del brano precedente. Ad un tema gioiosamente danzante proposto dai flauti si oppone una melodia più lirica affidata ai violini, più vicina ad un valzer. I due temi vengono poi riproposti in senso inverso. In questo quinto brano, tra gli strumenti a percussione, troviamo impiegate le nacchere. Infine una pesante scala a tutta orchestra provoca un'ulteriore accelerazione nel movimento (Presto) e la pagina si conclude con la stessa trascinante forza ritmica con la quale si era aperta.

DISCOGRAFIA

Rimsky-Korsakov: Capriccio espagnol / Sheherazade London Symphony Orchestra, dir. Igor Markevitch Decca Eloquence In questo analogico anni Sessanta, Markevitch (di origine ucraina, francese adottato, temperamento spagnolo!) e la London Symphony Orchestra offrono uno spettacolo abbagliante di dinamiche orchestrali; un tripudio di colori ricchi e vibranti e di splendore sonoro, come raramente si sente al giorno d'oggi. La ricca narrazione di Scheherazade, ricca di orientalismo aromatico, è più di un capolavoro orchestrale, tra le edizioni di riferimento. Il Capriccio spagnolo è ineguagliabile: una tensione senza concessioni in ogni momento ma che non trascura mai le atmosfere sottili di questo colorato pezzo. ♫♫ Rimsky-Korsakov: Cap i io espag ol / Ove tu e Ma ight / Ove tu e The Tsa ’s B ide / Ove tu e Russian Themes / Overture The Maid ok Pskov / Russian Easter Overture / Dubinushka Seattle Symphony Orchestra, dir. Gerard Schwartz Naxos Questo album mostra il talento di Rimskij-Korsakov con una generosa (67 minuti) selezione di pezzi, alcuni ben noti e altri meno. Molti compreranno l'album per il meraviglioso Capriccio Espagnol, ma anche le altre opere meritano di essere ascoltate (ad esempio la Russian Easter Overture).

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Gerard Schwartz e la Seattle Symphony Orchestra sembrano avere una naturale affinità per questa musica. E la qualità di registrazione è ben all'altezza dello standard Naxos. Una registrazione eccellente e un'ottima performance da parte di un'orchestra e direttore d'orchestra di prima categoria e delizierà chiunque non si sia avventurato oltre Scheherazade.

♫♫ Tchaikovsky: Capriccio italiano / Rimsky-Korsakov: Capriccio espagnol New York Philharmonic Orchestra, dir. Leonard Bernstein CBS Maestro

Bernstein dà una lettura superba dei due Capricci. E’ avvincente e magnifico dall'inizio al finale veramente dirompente.

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Rimsky-Korsakov: The complete Symphonies / Russian Easter Festival Ouverture / Capriccio espagnol Gotenborg Symfoniker, dir. Neeme Jarvi Deutsche Grammophon

Raccolta senza dubbio di grande interesse di queste composizioni eseguite con maestria e ottimamente registrate. L'esecuzione orchestrale è assolutamente incredibile e Neeme Järvi tira fuori il meglio di queste opere. Di grande vivacità e colore l’interpretazione del Capriccio.

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Rimsky-Korsakov: Sheherazade / Capriccio espagnol London Symphony Orchestra, dir. Sir Charles Mackerras Telarc Una delle registrazioni più belle del capolavoro di Nikolay Rimskji-Korsakov: affascinante sia il suono del corno, che quello della tuba; straordinario il violino che mima Scheherazade mentre racconta le sue favole al Sultano. Geniale Charles Mackerras che combina il virtuosismo con l’eccitazione. Questo colorato ed allegro tributo alla

musica spagnola con

variazioni sul tema tra serenate mattutine e nostalgie notturne, nelle mani di Mackerras è veramente padroneggiato e non ha nulla da invidiare al lavoro principale del disco. Un sentito elogio alla Telarc, etichetta audiofila per eccellenza.

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Robert Schumann: Kinderszenen (Scene infantili) op. 15 Intorno al 1838, alla vigilia del suo matrimonio con Clara, Robert Schumann compose una serie di trenta pezzi «caratteristici», piccole schegge del suo immenso mondo poetico: tredici di questi brani divennero le Kinderszenen op. 15, piccole scene di vita familiare, ricordi indimenticabili di un bambino sensibile filtrati dalla mano delicatissima di un poeta. L'autore le definì "scene infantili composte per bambini da parte di un adulto": esse sono il testo capitale di quella esplorazione del mondo dell'infanzia, nelle sue connotazioni psicologiche più profonde, intrapreso da Schumann con la coscienza di penetrare in una regione della sensibilità umana ancora sconosciuta alla musica. Kinderszenen è un’opera libera e, nello stesso tempo, profonda, introspettiva, psicologica, quasi intima, di una grande complessità a livello di sentimenti, spesso contrastanti: nella loro innocenza i bambini sprigionano una luce che però si perde rapidamente una volta grandi e Schumann ci fa toccare con mano questa luce con grande poesia. Egli riesce a percepire con una forza di penetrazione incredibile il mondo nascosto e immaginario dell’infanzia attraverso i suo sentimenti essenziali: la curiosità, la paura, l’impazienza, la felicità, la malinconia, …, mostrandoci così un bambino giocoso ma anche supplicante, sognante, tanto da dire: “Sono degli sguardi buttati all’indietro, al passato, reminiscenze di un uomo adulto per gli uomini della sua età”. La semplicità è la chiave di lettura per questo capolavoro, che presenta una scrittura che contrasta fortemente con la passione e il demonismo della Kreisleriana, scritta nello stesso anno: nelle Scene Infantili le melodie sono semplici e immediate, ma questa semplicità non deve far dimenticare la profonda unità d'ispirazione di questa raccolta, i cui temi derivano tutti, secondo una famosa analisi di Rudolf Reti, da tre sole cellule fondamentali la cui combinazione dà vita ad atteggiamenti espressivi profondamente diversificati. È opportuno chiarire che queste pagine non furono concepite da Schumann per pianisti dalle piccole mani; se è vero che la scrittura pianistica non presenta grandi difficoltà esecutive (cosa che induceva Schumann all'autoironia: «Mi piacciono molto le Kinderszenen, quando le suono faccio molta impressione, soprattutto a me stesso»), è anche vero che la destinazione della raccolta non è didattica, come avverrà invece per l’Album per la gioventù op. 68). Lo stesso compositore ne chiarisce la portata e la destinazione in una lettera a Clara dell'11 febbraio 1838: «Se è lecito rinvenire un'eco di quanto una volta mi dicesti circa il fatto che talora assomiglierei a un fanciullo, ebbene essa va trovata in una trentina di piccoli pezzi bizzarri, dodici dei quali [i brani divennero poi tredici] ho chiamato [67]


Kinderszenen. Ti divertiranno ma dovrai ovviamente dimenticare di essere una "virtuosa". Essi si spiegano tutti, da sé e nel modo più elementare possibile». Va infatti ricordato che Clara fu pianista dalle straordinarie doti tecniche, prima esecutrice di molte opere del marito, suo personale «banco di prova» dal momento che Robert – che aspirava ad essere un concertista virtuoso - fu frustrato dall’uso di un marchingegno da lui inventato per rinforzare il quarto dito, con l'unico risultato di rovinarsi irrimediabilmente una mano.

Guida all’ascolto L’opera 15 è formata da tredici miniature, nessuna delle quali occupa più di due pagine di partitura, alternando schemi formali semplici; quasi tutte in forma binaria e ternaria, con un piccolo rondò nel n. 11. I titoli dei brani di questo lavoro, diversi l’uno dall’altro per carattere e clima espressivo, furono dati dal compositore in un secondo momento. 1. Von fremden Ländern und Menschen (Da paesi e uomini stranieri), un brano stupendo nella sua chiarezza e linearità: il tema dolce e delicato, quasi come “il c’era una volta” di una favola. E’ formato da otto battute, le prime due delle quali si ripetono per tre volte, come una specie di carillon. Sembra quasi che qui Schumann voglia farci sentire il segreto dell’infanzia, con lo stupore del bambino davanti a paesi e uomini lontani. 2. Kuriose Geschichte (Storia curiosa), più ritmico rispetto al brano precedente, ha una forma di rondò che alterna due momenti dal carattere opposto: il primo (dove prevale la parte ritmica) è vivace e deciso, mentre il secondo (in cui prevale l’aspetto melodico) è più dolce e cantabile. 3. Hasche-Mann (A rincorrersi), è completamente diverso dagli altri due e, forse, è quello più difficile da suonare a livello tecnico. È un brano frenetico e festoso, in cui la mano destra ha delle porzioni di scale di semicrome staccate, scattanti e briose. 4. Bittendes Kind (Fanciullo che supplica): viene ripreso il tema iniziale e con esso anche il clima più raccolto e commosso, quasi un ritorno alla semplicità infantile. E’ una parentesi di patetico raccoglimento che mette in luce il raffinato gusto armonico di Schumann; la pagina si apre infatti con una delicata nona di dominante e si conclude con un'interrogativa settima di dominante, due accordi instabili, pieni di incertezza e di aspettativa. 5. Glückes genug (Quasi felice) è un piccolo quadro gioioso e dal carattere familiare. Presenta preziose sottigliezze armoniche, come l'incerto ed esitante sol diesis d'apertura o l'ambigua modulazione in fa maggiore conclusiva. 6. Wichtige Begebenheit (Avvenimento importante). Con le sue sgargianti sonorità e con accordi vigorosi e possenti racconta il giorno di festa e conclude non senza enfasi la prima parte della raccolta, dominata dalle tonalità coi diesis. 7. Träumerei (Sogno) è sicuramente il più famoso e il più espressivo delle Kinderszenen: il tema in fa maggiore è mesto e malinconico e si ripete continuamente anche se con piccole varianti melodicoarmoniche, fino a spegnersi alla fine. Gioia, malinconia, dolore, poesia, sogno, sono tutte sensazioni che questo brano suscita. [68]


8. Am Kamin (Al camino). Ancora nella tonalità del brano precedente, ci restituisce la tenerezza del focolare domestico. 9. Ritter vom Steckenpferd (Sul cavallo di legno) ci propone un’altra tenera scena familiare, con la ripetizione della cellula melodica che ci riporta ai giochi infantili. 10. Fast zu ernst (Quasi troppo serio) ha in comune col brano precedente l’andamento sincopato, anche se qui il clima cambia completamente: la serenità e la gioia infantile lasciano il posto al dubbio, all’incertezza (ben sette volte la melodia viene interrotta) e alle meditazioni assorte. 11. Fürchtenmachen (Bau-Bau). In questo brano si apre il momento dei primi timori, dei fantasmi impossibili: timore e paura sono sentimenti non rari nei bambini. Il tema è irregolare, si osserva all’inizio il controcanto della mano sinistra costituito da un sofferto movimento cromatico discendente, che sottolinea l’inquietudine e l’ansia; poi la mano sinistra intona la linea melodica mentre la mano destra ha degli accordi in contrattempo (spostando così gli accenti), forse per rappresentare l'anima agitata del fanciullo. 12. Kind im Einschlummern (Bambino che s’addormenta). Dopo il momento inquieto del brano precedente,tutto tace e il bimbo si addormenta sul ritmo di una dolce ninna-nanna, tutta giocata sul “tocco” pianistico, quasi impressionistica e anticipatrice dei colori di Debussy, dove nell’addormentarsi del fanciullo e nel suo scivolare nel mondo dei sogni, si addormentano anche le nostre amarezze, viene meno l’ansia del vivere, il peso calibrato sui tasti del pianoforte diventa leggero come i passi nella neve, nel silenzio, nell’assenza di pensieri e tensioni negative. 13. Der Dichter Spricht (Il poeta parla). Ecco infine la voce di Schumann (il poeta), che con un linguaggio armonico semplice e immediato, e con accordi lenti, in un clima tornato sereno, arriva diretto al cuore. Schumann stesso parla di sé, in modo quasi meditativo e sognante, con delicatezza e tenerezza, sotto voce (tutto questo brano è suonato piano e pianissimo) finché alla fine scompare, allontanandosi a poco a poco, come un ricordo che svanisce lontano e proprio per questo più delicato e commovente.

DISCOGRAFIA

Schumann: Kinderszenen. Kreisleriana Vladimir Horowitz (pianoforte) Deutsche Grammophon - Masters

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Registrazione live dei Kinderszenen a Vienna nel 1987.Non c'è bisogno di dire quanto brillantemente un anziano Vladimir Horowitz interpreti Schumann e quanto sia meravigliosa la sua interpretazione di Kinderszenen. Trattandosi di evocare un mondo poetico senza risvolti inquietanti, lo stile soffuso ed affettuoso dell'ultima maniera risulta più consono che mai. Deutsche Grammophon è sempre a ottimi livelli anche come qualità tecnica dell'incisione. Purtroppo si sente la presenza del pubblico, con fastidiosi rumori di tosse (mi chiedo se la tecnologia più recente non sia in grado di alleviare i rumori…). ♫♫

Robert Schumann: Kinderszenen. Kreisleriana Martha Argerich (pianoforte) Deutsche Grammophon

Schumann è un compositore ideale per questa meravigliosa inarrivabile pianista. In queste incisioni DG del 1984 la Argerich disegna un fraseggio morbido e più sfumata nei timbri raggiungendo esiti di particolare suggestione.

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Robert Schumann: Kinderszenen op. 15. Waldszenen op. 82 Maria João Pires (pianoforte) Erato

Molto bella questa registrazione del 1984. Perfette, così delicate le Kinderszenen, mai udite prima così pensierose, così trasparenti, con il tocco più fine, quasi pensi che sia Debussy, così profumato, leggero, impressionista. Pires surclassa persino gli specialisti di Schumann. Imperdibile.

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Le Sinfonie di Gustav Mahler

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Sinfonia n. 7 in Mi minore Cenni storici A detta dello stesso compositore la "Settima" è tra le più difficili e complesse delle nove sinfonie di Mahler, che vi lavorò «in un accesso di furore» - come disse la moglie Alma - durante l'estate del 1905 e in un clima di quasi assoluto isolamento. La genesi della Sinfonia è da porre però nell'estate del 1904. In quell’anno Mahler compose il secondo e il quarto movimento, i due Notturni in forma di serenata: la quieta contemplazione del paesaggio, con i suoi echi pastorali e le suggestioni dei suoni di natura, ma anche con le sovrimpressioni d'un'immaginazione romanticamente fiorita, si erano combinate armonicamente con la semplicità di canti notturni, per i quali, realisticamente, Mahler aveva impiegato strumenti tipici delle serenate, come la chitarra e il mandolino. Come scrisse la moglie Alma, nelle "Nachtmusiken" gli si libravano mormorii di fontane, fruscii di boschi, il mondo romantico tedesco, interrotti solo da enigmatici segnali militari e da improvvisi, sinistri richiami, come gemiti o sussurri, talvolta gridi lontani. L'estate seguente Mahler prese la decisione di por termine alla Sinfonia. Si ritirò come l'anno prima sulle rive del Wörthersee, a Maiernigg, senza riuscire però a concentrarsi e a lavorare. Scriveva alla moglie Alma nel giugno 1910: «Per due intere settimane mi tormentai fino alla alla malinconia, come certo rammenti ancora, finché non presi la fuga nelle Dolomiti! Lì non cambiò nulla e infine decisi di rinunciare all’intento e me ne trornai a casa convinto che l'estate era perduta per me. Tu non eri ad aspettarmi a Krumpendorf, perché non ti avevo avvertita del mio arrivo. Salii sulla barca per farmi portare all'altra riva, e al primo colpo di remo mi venne in mente il tema (o meglio il ritmo e il carattere) dell'introduzione al primo movimento e così in quattro settimane il primo, il terzo e il quinto tempo erano bell'e finiti! ». Mahler terminò la composizione il 15 agosto 1905, mentre l'orchestrazione fu completata l'anno seguente; successivamente egli mise da parte il lavoro per ultimare l'orchestrazione della Sesta Sinfonia la cui prima esecuzione era fissata per il maggio 1906. La prima esecuzione assoluta della Sinfonia ebbe luogo, sotto la direzione dello stesso compositore, il 19 settembre 1908 al Teatro Nazionale di Praga, in occasione delle celebrazioni del giubileo dell'imperatore Francesco Giuseppe. I due ultimi movimenti, Scherzo e Finale, furono sottoposti a correzioni e modifiche sino a pochi giorni dalla première. La Sinfonia ebbe un mediocre successo di pubblico, ma suscitò notevole interesse nell'ambiente musicale: in particolare Schönberg e Berg espressero giudizi favorevoli sulla poderosa composizione (la sua durata si aggira su un'ora e trenta minuti) in riferimento soprattutto a certe invenzioni [72]


armoniche e a certi impasti orchestrali di straordinario valore espressivo. Infatti, ciò che colpisce subito all'ascolto di questa Sinfonia è la varietà della strumentazione e la ricerca di timbri diversi e particolari nel vasto caleidoscopio orchestrale. Per l'organico di questa sinfonia Mahler previde infatti strumenti inusuali, quali la chitarra, il mandolino (che danno un aspetto da trovatore alla serenata notturna del quarto movimento), il glockenspiel, il flicorno baritono (o bombardino) ed il campanaccio. La Settima rimane la sinfonia meno eseguita dell'intero ciclo ed è stata considerata enigmatica e la meno riuscita delle sue sorelle.

Struttura La Sinfonia n° 7 in mi minore si divide in cinque tempi: 1. Langsam (Adagio) - Allegro risoluto, ma non troppo. 2. Nachtmusik (Musica notturna). Allegro moderato. 3. Scherzo. Schattenhaft (Fantomatico). Trio. 4. Nachtmusik. Andante amoroso. 5. Rondo-Finale. Tempo I (Allegro ordinario) - Tempo II (Allegro moderato ma energico). Il primo tempo e l'ultimo formano due parti a sé stanti e in un certo senso si riflettono a specchio: per quanto estesi e ramificati, Mahler si serve degli schemi classici della forma-sonata e del rondò. I tre movimenti centrali costituiscono invece un blocco omogeneo: quello di mezzo (Scherzo) è incorniciato da due serenate, cui Mahler dà lo stesso titolo di "Nachtmusik", ossia Notturno, e stacchi di tempo simili, Allegro moderato e Andante amoroso. Programmaticamente, dunque, Mahler pone a contrasto due forme proprie dell'elaborazione sinfonica con una parte centrale di carattere contemplativo ed evocativo, nella quale a parlare dovrebbe essere la natura stessa, in prima persona. Lo sdoppiamento del movimento lento nelle due serenate ha lo scopo di far risaltare il carattere dello Scherzo, apice della Sinfonia; nel quale l'illusione di riscoprire la natura nella sua oggettività si manifesta già dall'aggettivo che lo accompagna: "schattenhaft", fantomatico.

Guida all’ascolto

 1° Movimento: Langsam (Adagio) - Allegro risoluto, ma non troppo. Sull’introduzione a questo movimento, Mahler osservava: “Qui la σatura fa udire ka sua voce”. Fin dall'inizio, gli slanci melodici e le impennate liriche, che dovrebbero rappresentare la partecipazione al sentimento dell'uomo di fronte alla natura, assumono, nella strumentazione, colori lividi e funerei, tratti grotteschi e sardonici. Il primo movimento si apre con un Adagio (Langsam) introduttivo, formalmente una marcia funebre, che preannuncia ben tre idee tematiche del successivo Allegro con fuoco in forma-sonata: un tema straniante e spettrale del corno tenore che richiama un’idea tematica della Terza sinfonia; una breve marcia processionale affidata ai legni e, infine, un tema del trombone. Proprio [73]


quest’ultima idea tematica costituirà la base del primo aggressivo tema dell’Allegro con fuoco, nel quale si affermano alcune reminiscenze della Sesta in particolar modo nel languido secondo tema. Dopo lo sviluppo, che oltre al tema marziale grottescamente distorto, presenta al suo interno un visionario interludio formalmente simile al Corale, e una ripresa regolare, il movimento si conclude con il tema di marcia esposto in mi maggiore.

 2° Movimento: Nachtmusik (Musica notturna). Allegro moderato. I tre movimenti centrali costituiscono una sezione a sé stante all’interno della sinfonia, dal momento che possono essere raggruppati in una struttura simmetrica e intimamente coesa. Si tratta, infatti, di due Nachtmusik (Notturni) che incastonano uno Scherzo caratterizzato da una scrittura demoniaca. Il primo di essi, in do maggiore, è tutto giocato sul contrasto tra la rievocazione di un mondo agreste – rappresentato dalla imitazione di mormorii della foresta - con voli di uccelli e interventi di campanacci (Herdenglocken), suonati (come consiglia il compositore) sempre con discrezione e a intermittenza, imitando realisticamente lo scampanare di una mandria al pascolo, e tra momenti tragici che spezzano il fluire della musica. Sembra che Mahler nel comporre questo primo notturno si sia ispirato alla "Ronda di notte" di Rembrandt dai colori spettrali, frammista alla visione di un paesaggio di montagna [Rembrandt: Notte di ronda. Rijksmuseum di Amsterdam]

1642.

Inizia con una parte del preludio, con un richiamo di corno, a cui segue l'eco di un secondo smorzato. Poi entrano l'oboe, il clarinetto e il corno inglese presentando un ampio panorama della campagna austriaca con il canto degli uccelli. Un disarmonico accordo dell'orchestra lascia il posto a un innocente notturno, che diventa la marcia che guiderà il movimento Il tema principale è costituito da una marcia lenta, una sorta di marcia notturna, i suoni dei corni che si rispondono in eco sembrano proporre una disposizione d'animo placata, un ascolto franco, in sintonia con la natura. Ma via via che il dialogo pastorale dei legni si articola e si sviluppa infittendo la scrittura contrappuntistica, la distanza da quei richiami aumenta e la serenità svanisce in malinconia. Le inserzioni realistiche, come i campanacci delle mucche, la frusta, le campane di villaggio, o i richiami dei corni da caccia, suonano sempre in lontananza ("in weiter Entfernung", molto lontani, secondo le didascalie) e stentano ad aderire al paesaggio morale e spirituale. [74]


La sezione principale del movimento è nella tonalità di do minore, ma con sfumature verso il tono maggiore. Vi si alternano due trii: uno brillante con triangolo e glockenspiel che introducono un ritmo di marcia insistente e uno triste in fa minore con il suono penetrante dell'oboe e con i trilli del clarinetto. Un ultimo richiamo dai legni prepara la coda finale. La marcia scompare mentre si odono i trilli degli uccelli, finché la processione si perde in lontananza. E’ stato lo stesso Mahler a rivelare nella partitura che qui si tratta di un canto notturno di uccelli (Vogelstimmen, come voci di uccelli).

 3° Movimento: Scherzo. Schattenhaft. Un’atmosfera spettrale pervade lo Scherzo sin dall’indicazione (rara) della dinamica, Schattenhaft, Fliessendabernichtschnell (Spettrale, Scorrevole ma non veloce). Oltre che dalla denominazione “spettrale”, questo movimento è indistinto nella sua sinistra cupezza e fa rabbrividire con le sue visioni d'orrore. Alcuni critici lo considerano come una delle più straordinarie emanazioni del demoniaco in Mahler. Il movimento inizia con colpi di timpano sempre più incalzanti, turbinii di archi sferzanti come tempesta, irreali dialoghi fra strumenti, armonie frementi e squarciate atmosfere, che creano uno stato instabile di irrequietezza e che sfociano in una danza macabra sfrenata, fantasmagorica, una danza del fantasma della notte che si muove in modo grottesco, sullo sfondo di una natura in rivolta, quasi violentata. Un tema popolare di valzer caratterizza la sezione centrale, mentre nella ripresa gli spettri ritornano nella demoniaca voce del violino solista e nel cupo tema dei violoncelli.

 4° Movimento: Nachtmusik. Andante amoroso Il quarto movimento, il secondo Notturno, per il quale Mahler confessò alla moglie Alma di essersi ispirato al mormorio dei ruscelli e al Romanticismo tedesco della poesia di Eichendorff, è una serenata in fa maggiore che si configura come un tentativo, da parte del compositore, di rifugiarsi in un mondo intimo attraverso un’orchestrazione che si dirada sempre di più lasciando il posto al tenero canto del violino solista. [Joseph Karl Benedikt Freiherr von Eichendorff]

È una serenata in tre parti. Dopo le battute introduttive ascoltiamo un ostinato dell'arpa su cui figure sincopate di clarinetti e oboi propongono un tema impersonale con un’aria di marcia. Un'ampia melodia del violino, che simboleggia l'amore, è accompagnato dal mandolino e della chitarra. È curioso notare la somiglianza di questa melodia con quella di "Amami, Alfredo" nella Traviata. [75]


L’abilità nell’orchestrazione di Mahler trova uno dei momenti migliori nella sezione centrale, una pagina di grande purezza timbrica e di straordinaria delicatezza musicale. Al corno è affidato il tema principale e la scrittura ha una luminosa trasparenza melodica: vi predomina una cantabilità affettuosa e amabile, come del resto viene sottolineato da quell'Andante amoroso segnato dal musicista all'inizio del movimento.

 5° Movimento: Rondò-Finale. Sonorità chiare e festose in netta contrapposizione con i movimenti precedenti informano il Rondò finale, con le sue proporzioni non meno che colossali, nel quale ritorna il tema marziale del primo movimento. Il carattere festoso campeggia soprattutto nella fanfara bandistica che appare per ben 8 volte, mentre negli altri episodi si afferma la grande perizia contrappuntistica del compositore boemo. Con la scelta della tonalità di do maggiore il Rondò-Finale è una esplosione di gioia di vivere espressa con sonorità vigorose e massicce, tra squilli di fanfare, colpi di timpani e scampanii fragorosi. È l'espressione di un sinfonismo tripudiante e festoso di travolgente effetto sonoro. Alcuni critici lo intendono come un “brano mattutino ricco di una luminosità smagliante” Apre il movimento: un assolo di timpano, nel quale l'autore raccomanda all'esecutore, con amabile ironia, di suonare la sua cadenza "con bravura". Il primo tema è interpretato dalle trombe e dai corni, con una perorazione eroica: è un tema derivato da quello usato da Wagner ne I Maestri cantori di Norimberga. Questo tema sarà sviluppato in diverse variazioni, separate dalle varie sezioni, tra le quali spicca un minuetto dal sapore antico, un altro in cui vi è un'allusione al famoso valzer de "La Vedova Allegra" di Lehar, un'opera amata dai Mahler, e una traccia veloce accompagnata da musica turca alla maniera di Mozart. L'assoluta indifferenza espressiva, dichiarata già nell'indicazione del movimento come "Allegro ordinario", la più assoluta oggettività, ribadita anche dalla sorprendente scarsezza di didascalie, regnano deliberatamente nel Finale: solo suoni, come per incanto liberati dall'ossessionante rapporto con la natura, che chiamano vorticosamente altri suoni, e creano figure, ritmi, accordi, polifonie, armonie, parti, insiemi. Abilmente, Mahler sottrae al suo Finale in forma di Rondò ogni sostanza, ogni punto fermo: la conclusione sarà positiva e trionfale, ma solo nell'apparenza formale. Avviluppandosi nel serrato intreccio di una tecnica compositiva basata sulla variazione perpetua, egli è libero di spingersi in ogni direzione, di aprire ogni porta e di richiuderla subito. Mahler amava scherzare sul Rondò finale della Settima Sinfonia e commentarne il carattere baldanzoso con un detto tipicamente austriaco: "Was kost' die Welt!", "Che costa il mondo!". Il "mondo" rappresentava ciò che quotidianamente lo opprimeva, con le sue miserie, le sue bassezze, le sue falsità, le sue incomprensioni, e che reclamava obblighi sempre più stretti per consentirgli di sopravvivere anche come compositore. Nella natura, al suo opposto, Mahler aveva identificato la [76]


libertà, la purezza, la sua vera vita di creatore: mandato sulla terra non tanto per comporre, ma per esser composto dalle voci di natura, là aveva fissato i confini della spontaneità. Oltre il mondo. La Settima Sinfonia è per quattro quinti un tragico, struggente e brutale commiato dalla natura; al mondo è dedicato il suo ultimo quinto movimento. Alla fine del movimento le sonorità delle campane e dei campanacci ne sottolineano il carattere solenne. 

Discografia Mahler: Symphonie n° 7 Chicago Symphony Orchestra, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon - Masters Registrazione del 1984. I dettagli più intimi dell'enorme partitura di Mahler in mano ad Abbado sono felicemente ben distinguibili e godibili. L'esecuzione del grande direttore milanese è molto morbida, ad esempio dà un rilievo contenuto ai suoni di natura che Mahler introduce nel corso della Sinfonia o alla grande sonorità di ottoni, timpani e fanfare che pone nel finale. L'esecuzione della Chicago Symphony è eccezionalmente raffinata, priva di ogni esagerazione involontaria e di ostentazione istrionica.

♫♫ Mahler: Symphony n° 7 Berliner Philharmoniker, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon Il secondo ciclo di Abbado sulle Sinfonie di Mahler ha prodotto alcune vere gemme e questa performance dal vivo della Settima non fa eccezione. È sicuramente la migliore registrazione di questo lavoro. Più ascolto Abbado, più mi rendo conto che il suo unico interesse è presentare la musica di Mahler al meglio della capacità sua e della sua orchestra; è sempre il Mahler di Mahler, non il Mahler di Abbado. L'esecuzione della Filarmonica di Berlino è esemplare e infrange il mito che non sia un'orchestra di Mahler. La qualità del suono in questa registrazione è vivida e colorata, ben bilanciata e [77]


consente di ascoltare una grande quantità di dettagli in un ambiente caldo e risonanza naturale. Il Finale è particolarmente sorprendente e cattura perfettamente la vasta gamma di campane di Mahler mentre suonano per salutare il luminoso, nuovo mattino austriaco. Il pubblico della Philharmonie (praticamente in silenzio) impazzisce. Non starei senza il mio Bernstein o Tennstedt, ma questa di Abbado è la interpretazione più convincente ed edificante di questo lavoro enigmatico che si possa desiderare di ascoltare.

♫♫ Mahler: Symphony n° 7 The London Philharmonic, dir. Klaus Tennstedt. Emi Classics Registrazione dal vivo del 1993. Ha un alto livello di prestazioni sotto molti aspetti, come la chiarezza del suono dell'orchestra, la chiarezza degli archi, la bellezza delle armonie, la potenza e così via. C’è qualcosa di autentico ed emozionante nelle interpretazioni di Tennsted: egli scava in profondità, con premura, lentamente, alla ricerca di quei dettagli nascosti tra le partiture. Molto buono il livello tecnico della registrazione.

♫♫ Mahler: Symphony n° 7 New York Philharmonic, dir. Leonard Bernstein. Bernstein century - Sony Classical Bernstein è uno tra i migliori interpreti delle sinfonie di Mahler che, come sappiamo, a livello di numero di strumenti utilizzati (oltre alle varie interpretazioni vocali) sono tra le più ricche e le più estese nella storia della musica. Bernstein offre anche nella Settima una interpretazione grandiosa, accompagnata da una orchestra all’apice della sua storia musicale. Una performance superba, e superbamente registrata da Sony.

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♫♫ Mahler: Symphonie n° 7 Symphonieorhester des Bayerischen Rundfunks, dir. Mariss Jansons. BR Classics Mariss Jansons è una dei pochi direttori che a mio parere dà una versione molto coerente e convincente della settima mahleriana. La performance è raffinata ed eccezionalmente dettagliata (ma non martellante come Bernstein) e Jansons dirige un Mahler più melodioso, senza enfatizzare eccessivamente la complessa partitura. Prestazione superba di un’orchestra favolosa, eccellente qualità del suono, tono, timbro, dettaglio, gamma dinamica di gran pregio. La raccomando caldamente.

♫♫ Mahler: Symphony n° 7 London Symphony Orchestra, dir. Valery Gergiev. LSO Gergiev e l'LSO consegnano un'eccezionale registrazione della enigmatica settima sinfonia di Mahler. L'orchestra è la "mente" di Mahler, con il suo caledoscopio dei suoni e dei timbri: Gergiev si immedesima in essa e ne coglie ogni profondità e le bellezze più nascoste con mirabile maestria, assecondato dagli eccezionali strumentisti londinesi. La registrazione è ottima.

♫♫ Mahler: Symphony n° 7 Czech Philharmonic Orchestra, dir. Václav Neumann. Supraphon A differenza dei direttori specialisti di Mahler che trasmettono emozioni su ogni pagina della partitura, Neumann non si affeziona alla natura spettrale della musica notturna, dirigendo un'esecuzione semplice e felice che rende la musica godibile da sola, senza ulteriori affettazioni [79]


personali. Questo è il successo della performance, secondo me, poiché Neumann capisce che questo è il momento felice della vita di Mahler, la sua unica volta in cui scrive da mendelssohniano. Nel complesso, l'effetto è di una sinfonia tardoromantica, suonata con un'esecuzione eccezionale da parte di un'orchestra storica e la guida di un direttore il cui approccio a Mahler non è sentimentale ma comunque positivo, caloroso e amichevole, aggettivi a cui raramente si associa Mahler. Questa registrazione, realizzata durante il mandato di Neumann nel 1964-68 con la Gewandhaus Orchestra, è eccezionale sotto ogni aspetto: in particolare, il richiamo squillante della prima tromba alla fine del primo movimento è più efficace che in qualsiasi altra versione di questa musica. E infine, la registrazione vecchia di oltre quattro decenni suona splendidamente in questa rimasterizzazione del 2004.

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L’ultimo periodo creativo di Johann Sebastian Bach Paolo Duprè

Ricordo che molti anni fa entrai in un negozio di dischi in una cittadina di provincia e chiesi se avevano L’Offerta musicale (BWV 1079) di J.S.Bach. In quel periodo ero letteralmente ingordo di quanto il compositore avesse prodotto, lo stavo scoprendo pian piano e volevo conoscerne tutto. Dunque mi avvicinai alla commessa con quella richiesta e, stupito, mi sentii rispondere che di Bach non avevano nulla in offerta! Povero Maestro: non conoscevano uno dei sui più grandi capolavori,

L’Offerta Musicale, che con L’Arte della fuga

rappresenta una delle due più grandi composizioni dell’ultimo periodo creativo di Bach, dal 1747 al 1750, anno della sua morte. Siamo nel maggio del 1747 e Federico il Grande, dopo una visita del maestro a Potsdam, gli propose di improvvisare su un tema da lui scritto: il “thema regium”. [Pianoforte Gottfried Silbermann, posseduto da Federico il Grande] Terminata l’esecuzione di alcune variazioni Bach pensò di non aver esaurito tutte le possibilità del tema e, tornato a Lipsia, prese ad elaborarlo. Il risultato gli dovette sembrare così soddisfacente che venne rapidamente dato alle stampe (luglio dello stesso anno) quasi a voler inviare la sua offerta prima che il ricordo della visita si dileguasse. Tale fretta spiega un po' il disordine in cui comparve l’edizione originale: si tratta di quattro parti separate, con fogli di formato diverso, oblunghi o verticali: ciò rese difficile ai primi studiosi la completa comprensione dell’architettura che a ben vedere dimostra tutta la perfezione che ci si possa aspettare dal maestro. Essa è così strutturata: 1. Ricercare a tre voci sul tema regio 2. Cinque canoni in cui il tema regio è nel cantus firmus 3. Una fuga in cui il tema regio è nel cantus firmus 4. Un’altra fuga in cui il tema regio è soggetto della fuga 5. Cinque canoni in cui il tema regio è usato per elaborazioni canoniche 6. Ricercare finale a sei voci sul tema regio. La copia che Bach mandò al suo regale protettore contiene diverse iscrizioni latine dedicate al re. Sulla prima pagina è presente un acrostico, le prime lettere del quale formano la parola RICERCAR: regis iussu cantio et reliqua canonica arte resoluta (per ordine del re tema e risposta sono risolti in arte canonica). [81]


La prima e la seconda fuga costituiscono la Triosonata; in particolare la prima fuga è scritta nello stile concertante e nella forma da capo. I brani sono 14: ecco che ritorna il numero caro a Bach (B=2, A=1, C=3, H=8 e la somma fa 14!)

[Tema regio] I due ricercari sono scritti per cembalo e si collegano direttamente alla visita a Potsdam, quando Bach improvvisò, su uno dei pianoforti del Re , una fuga a tre voci sul tema regio, ma si sottrasse alla richiesta di adoperarlo anche come tema per una fuga a sei voci. La composizione a sei voci che suonò a Potsdam era su un tema di sua scelta e l’elaborazione a 6 del tema regio fu composta a Lipsia.

Prime battute del I ricercare e inizio del ricercare ultimo a 6 voci

Conseguentemente i due ricercari sono alquanto diversi per carattere. Il primo, di cui ricordiamo che è il solo pezzo di Bach scritto per il pianoforte moderno, manca della completa logica e del perfetto equilibrio che regnano nell’ultimo. E’ chiaro che riproduce quella che fu l’improvvisazione di [82]


Potsdam, e possiamo anzi prenderlo come esempio dell’arte di Bach, di improvvisare in forme severe. Il ricercare a 6 voci è invece una delle più elaborate fughe che Bach abbia mai costruito. E’ concepito in vaste proporzioni, profonda nel pensiero: il suo sovrano equilibrio formale e la levigata soavità del suono ne fanno uno dei monumenti supremi di tutta la musica polifonica.

[Federico di Prussia] Mentre in queste due opere per tastiera è il compositore che sembra occupare un posto dominante, le altre della collezione appaiono destinate ad esaltare il nobile personaggio cui l’opera è dedicata. Due di queste composizioni di musica da camera - la sonata a tre ed un canone - prescrivono espressamente il flauto per la voce superiore e, sebbene nelle altre non si prescriva alcuna strumentazione, tuttavia la voce superiore può sempre essere suonata dal flauto, strumento prediletto del Re. [Il flauto traversiere di Federico il grande di Prussia]

I dieci canoni hanno carattere prevalentemente retrospettivo: all’ottava, all’unisono per inversione ed aumentazione. Mettono a dura prova l’abilità dell’esecutore. σormalmente non sono neppure scritti per intero ed in due casi non si trova neppure l’indicazione della specie di imitazione adoperata: Bach

si accontenta di scrivere l’irritante

incitamento” querendo invenietis”, cercate e troverete.

Risorgono i canoni enigmatici del tardo Medioevo. Ma la salda base armonica di questi capolavori contrappuntistici e l’idea di un canone a spirale appartengono decisamente all’età di Bach. Questo [83]


canon per tonos modula nelle sue prime otto battute un intero tono sopra, e deve essere ripetuto sei volte, prima che tutte le tre parti ritornino alla tonalità originaria di do minore. Un altro tipico esempio dell’arte del secolo 18° è costituito dalla Sonata a tre, per flauto violino e basso, al centro dell’opera. E’ una sonata da chiesa, tesa di novità e splendore, probabilmente il più grande dei trii composti da Bach. σell’insieme l’Offerta musicale appare l’opera di un maestro intento a trarre le conclusioni non solo dell’esperienza della sua vita, ma, ben oltre, quella di una intera età. In una forma compatta e monumentale, l’Offerta presenta l’ultimo compendio del pensiero musicale di tre secoli. ♫♫ L’Arte della fuga (BWV 1080) è l’ultimo dei capolavori di Bach. Pare che il maestro si impegnasse in questo tremendo compito dopo aver completato l’τfferta musicale e, anche in questo caso progetto fin da principio di far conoscere la sua opera attraverso la stampa. Sorvegliò l’incisione fino ad un certo punto, ma prima che fosse finita, anzi, prima che Egli potesse completare il manoscritto, la morte lo raggiunse. L’arte della fuga rimase così incompiuta, e né l’autografo, né l’edizione originale, stampata subito dopo la morte di Bach, posso darci un’idea completa delle sue intenzioni.σon sappiamo con precisione in quale ordine debbano suonarsi i singoli numeri, ma soprattutto non sappiamo per quale fine il compositore avesse progettato l’opera. E’ anche possibile che il titolo non sia neppure dello stesso Bach. D’altra parte, i frammenti che ce ne rimangono possiedono una così compiuta e sovrana grandezza

che, seppur nella sua forma incompiuta,

L’arte della fuga ci appare una delle più importanti concezioni della mente umana. E’ come l’offerta musicale una serie di variazioni contrappuntistiche, tutte basate sulla stessa idea, e tutte nella medesima tonalità (re minore). Tra le due opere c’è anche una somiglianza melodica perché il soggetto dell’Arte della fuga sembra un geniale concentrato del Tema regium e ancora una volta Bach omette, nella maggiorparte dei pezzi qualsiasi indicazione sugli strumenti che devono eseguirli. Pare probabile che il compositore avesse in mente per il suo canto del cigno soprattutto la tastiera; eppure la composizione appare ancora più impressionante quando sia suonata da un quartetto d’archi o da altri diversi organici. Mentre nel lavoro precedente l’attenzione si concentrava sulla elaborazione canonica, nell’Arte della fuga Bach esplora tutte le possibilità della struttura fugata. Anche i 4 canoni che ne fanno parte si propongono di illustrare aspetti della forma della fuga. Nonostante il suo carattere apparentemente semplice e lineare, o forse proprio per questo, il breve tema dell’arte della fuga si adatta benissimo come fondamento per un edificio monumentale. E’di costruzione completamente regolare e simmetrica. Suonato in forma invertita i suoi intervalli [84]


fondamentali restano praticamente invariati. Se suonato assieme alla sua inversione risulta una piacevole composizione a due voci. Via via che Bach ripresenta questo tema in ogni possibile variazione ritmica e melodica, svolge un manuale completo di composizione fugata. Ogni Contrapunctus, come Bach chiama le singole variazioni, per sottolineare il carattere dotto dell’opera, offre la soluzione ad uno dei problemi fondamentali della composizione di fughe. L’opera comincia con un gruppo di fughe che presentano il tema in parte nella forma originaria in parte in inversione. A queste seguono fughe e controfughe (che usano cioè il soggetto invertito) che non solo presentano il tema invertito ma anche per augmentazione e diminuzione ( valori delle note raddoppiati o dimezzati). Bach illustra le ipotesi di fughe con due o tre temi (presi ad esempio dai controsoggetti delle precedenti, vedi l’esempio sottostante del grandioso contrappunto 11°):

Esposizione col primo soggetto

Qui viene esposto il secondo soggetto

Qui si cominano i due soggetti: il secondo nella I battuta del secondo rigo e il primo soggetto nella seconda battuta del terzo rigo .

[85]


La conclusione, quando viene eseguita all’organo solo, è di straordinaria complessità e potenza. La ciclopica quadrupla fuga, che doveva formare il culmine dell’opera si interrompe alla battuta 239 proprio dopo che il compositore aveva inserito il 3° tema sulle note del nome BACH (come è noto nel solfeggio tedesco B è il si bemolle, A è il la, C il do e H il si naturale), col gesto di un pittore rinascimentale che aggiunga il suo ritratto in un angolo del quadro. Le generazioni successive provarono a fronteggiare il compito, affascinante quanto pericoloso, di indovinare le intenzioni del maestro: Gustav Nottebohm scoprì che i tre soggetti di questa fuga potevano combinarsi col tema fondamentale di tutta l’opera, dimostrando l’intenzione di Bach di scrivere una quadrupla fuga come parte dello stesso lavoro. La fuga completata da Busoni è conosciuta come Fantasia contrappuntistica. Ma nessuno che abbia udito una esecuzione dell’opera in cui la grande fuga bruscamente si interrompe vorrebbe cambiare questa esperienza sempre profondamente commovente con una conclusione pratica, efficace quanto scolastica.

Il pezzo più stupefacente anche se non il più bello dell’intero ciclo è la Fuga a specchio a quattro voci. Qui Bach rappresenta tutte le voci della fuga come rectus, nella forma ordinaria, e poi nella loro completa inversione, come se la partitura iniziale fosse stata posta davanti allo specchio. Per rafforzare questa immagine il soprano rectus diventa basso nell’inversus, il contralto cambia col tenore e viceversa.

[86]


Simile sperimentazione giocosa non si trova più nella seconda fuga a specchio a tre voci, non eseguibile da un solo esecutore, per l’eccessiva estensione richiesta. Egli aggiunge perciò una quarta voce che anche se dal punto di vista dottrinario potrebbe parer un corpo estraneo è facile da eseguire e molto attraente, ragion per cui agli occhi di Bach dovette sembrare cosa buona. Come le invenzioni ed il clavicembalo ben temperato, anche l’Arte della fuga dovette esser pensata come opera didattica e come tale offre la quintessenza della maestria contrappuntistica: tuttavia Bach non sapeva accontentarsi di arida precettistica. Sotto le sue mani qualunque testo si trasformava in un poema colmo di tutti i misteri della bellezza suprema, arte trascendente, concepita sulle soglie dell’eternità.



L’Arte della fuga, a partire dalla prima incisione del 1934, è stata oggetto di oltre duecento registrazioni. Tralasciando gli interpreti minori vanno ricordati:

♫ All’o ga o o

Edward Power Bigss, del 1937

o

Helmut Walcha, del 1956

o

Lionel Rogg, del 1959

o

Marie Claire Alain, del 1974

o

Hans Fagius, del 1999

♫ Al clavicembalo o

Gustav Leonhardt, del 1953

o

Karl Richter, del 1955

o

Kenneth Gilbert, del 1965

o

Sergio Vartolo, del 2008 [87]


♫ Al pianoforte o

Glenn Gould, fra il 1967 e il 1981

o

Tatiana Nikolaieva, del 1992

♫ Pe

ua tetto d’a hi

o

Musica antiqua Koln, del 1984

o

Gruppo Hesperion XX, del 1986

o

Canadian brass, del 1987

o

Concerto italiano, del 1998

o

Quartetto Emerson, del 2003

Come parere personale ritengo che le esecuzioni all’organo, data la ricchezza timbrica dello strumento e la possibilità di raggiungere un plenum maestoso, meglio si adattino alla grandiosità dell’opera. Valga fra tutte l’interpretazione di Lionel Rogg all’organo Metzler della Cattedrale di St.Pierre a Ginevra.

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Il Real Teatro di San Carlo - Napoli Il Real Teatro di San Carlo, noto anche come Teatro San Carlo, più semplicemente chiamato San Carlo, è il teatro lirico di Napoli, tra i più famosi e prestigiosi al mondo. Fondato nel 1737, è il teatro d'opera più antico del mondo ad essere tuttora attivo, ed è stato il primo teatro italiano ad istituire una scuola per la danza; la sua fondazione anticipa di 41 anni quella Teatro alla Scala di Milano e di 55 anni quella del Teatro La Fenice di Venezia.

Il Teatro San Carlo di σapoli è stato inserito dall’Unesco nell’elenco dei monumenti considerati Patrimonio dell’Umanità, grazie anche all'ultimo restauro del 2010 con cui lo storico edificio ha acquisito un aspetto ancora più moderno e funzionale. La struttura può ospitare un pubblico di quasi 3000 persone ed è considerato dalla critica il teatro più bello del mondo. STORIA Il San Carlo fu costruito per volontà di Carlo di Borbone [nel dipinto], Re di Napoli e di Sicilia dal 1731 al 1759, capostipite della dinastia dei Borbone di σapoli, il quale, salito al trono all’età di 19 anni, desiderava per la sua città un luogo prestigioso che rappresentasse le arti. Per l'edificazione del teatro fu scelta Piazza del Plebiscito, luogo simbolo della città, adiacente a Palazzo Reale. Il teatro fu progettato da Giovanni Antonio Medrano (Colonnello Reale dell'Esercito) e realizzato da Angelo Carasale (già direttore del Teatro S. Bartolomeo), e costruito a fianco del lato Nord del Palazzo Reale in soli 8 mesi. Il nuovo tempio della arte lirica, sostituiva il vecchio "San Bartolomeo", ormai inadatto al fasto di una Capitale [89]


come Napoli, anche se il Monarca non amava la musica. Anzi secondo la testimonianza del De Brosses, aveva l'abitudine di chiacchierare durante lo spettacolo o di schiacciare addirittura un sonnellino. L’opera fu realizzata con un impegno di spesa di 75.000 ducati pari a circa 1.500.000 euro di oggi in solo otto mesi di lavoro. Data l’eleganza della sua struttura architettonica fu modello di riferimento per la costruzione di altri teatri della stessa tipologia, che sono sorti in tutto il continente europeo. Il re, attraverso un passaggio accedeva direttamente al palco reale, evitando così di uscire per strada. Si racconta che il Re, lodando in pubblico la sera dell’inaugurazione il Carasale, notò che «sarebbe stato maggior comodo della regal famiglia passare dall’uno all’altro edifizio per cammino interno»; e il Carasale abbassò gli occhi, ma, al termine dello spettacolo, si ripresentò all’uscita del palco, pregando il re di «rendersi alla reggia per interno passaggio da lui bramato». In tre ore, abbattendo mura grossissime, formando ponti e scale di travi e legni, coprendo con tappeti, arazzi cristalli e lumi la ruvidezza del lavoro, l’architetto fece bello e scenico quel cammino. Il San Carlo fu inaugurato il 4 novembre 1737, in occasione del giorno dell'onomastico del Re, dal quale prese il nome il teatro. L'opera che per prima in assoluto andò in scena fu l'Achille in Sciro di Domenico Sarro [nel dipinto], compositore molto affermato ed apprezzato dell’epoca. Il libretto era di Pietro Metastasio. Nell’occasione fu lo stesso Sarro che diresse l’orchestra alla presenza del re borbonico. La parte di Achille fu sostenuta, come usanza dell’epoca, da una donna, Vittoria Tesi, detta la Moretta, con accanto la soprano Anna Peruzzi, detta la Parrucchierina, nel ruolo di Deidamia e il tenore Angelo Amorevoli, che interpretava Ulisse. Poi erano presenti il celebre castrato Mariano Niccolini detto Marianino (Teagene) e Giovanni Manzuoli (Arcade). Il teatro risplendeva in tutta la sua bellezza, e come descritto dai cronisti dell’epoca, nei cinque palchi a destra e nei cinque di sinistra del palco reale si affollava la corte di re Carlo, e seguivano dall’un lato e dall’altro i palchi del cardinale Acquaviva di Aragona, del principe di Francavilla, del duca di Maddaloni, del principe di Stigliano, del principe di Avellino, del principe della Riccia, del duca di Belcastro, e via discorrendo, in modo che si vedeva intorno al nuovo re, disposta come in solenne rassegna, tutta la nobiltà del Reame. “Vi era accorso di persone distinte un incredibile numero; si videro tutti i palchi riempiuti di dame, adorne di ricchissimi abiti e di preziosissime gemme, come altresì i cavalieri in abiti sfarzosissima gala, ad oggetto di appalesare in sì gioiosa congiuntura l’interno giubilo loro.” (La Gazzetta di Napoli 5 novembre 1737). [90]


Fu un successo che travalicò i confini del regno, facendo di Napoli la capitale della musica europea. Il San Carlo fu, dal quel momento, considerato il traguardo a cui aspirava la carriera dei più grandi musicisti e cantanti europei: da Johann Hasse a Franz Joseph Haydn, da Johann Christian Bach a Christophe Gluck. Anche il quattordicenne Mozart soggiornò a Napoli per più di un mese, nel 1770 insieme al padre Leopold. Sulle tavole del San Carlo consolidarono il loro successo i più famosi cantanti dell’epoca: da Lucrezia Anguiari, detta la Bastardella, a Caterina Gabrielli, detta la Cochetta, ai celeberrimi castrati Caffarelli (Gaetano Majorano), Farinelli (Carlo Broschi), Gizziello (Gioacchino Conti) e Gian Battista Velluti ultimo cantante evirato. L'anno 1799 rappresenta per Napoli una parentesi breve ma che diffonderà alto il suo grido in tutta l'Europa: pochi mesi di fervore giacobino in cui donne e uomini, dal palco militante del Lirico, ribattezzato Teatro Nazionale di San Carlo, si fanno promotori gli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza. Scrive il “Monitore”, in data 27 gennaio, in riferimento all'Inno composto da Domenico Cimarosa sulle infiammate liriche di Luigi Rossi: «Nel Teatro Nazionale di San Carlo fu cantato un inno patriottico in mezzo a' più lieti evviva alla Libertà». Soltanto pochi mesi più tardi la parentesi libertaria sarà soffocata nel sangue e i Borbone torneranno sul trono. Durante il periodo della Repubblica Partenopea del 1799 si ebbe un uso improprio del teatro: si svolsero qui spettacoli equestri che portarono dei danni. Durante il periodo di governo di Gioacchino Murat (divenuto re di Napoli), il teatro fu ristrutturato da Antonio Niccolini (1809), caposcuola del Neoclassicismo napoletano che realizzò all'interno ambienti di ristoro e all'esterno la facciata neoclassica (ispirandosi a Villa di Poggio Imperiale a Firenze), con pronao a bugnato, a cinque archi, per accogliere vetture al coperto. Tra le altre opere, fu eseguita la grande tela sul soffitto di 500 metri quadrati, opera di Antonio, Giovanni e Giuseppe Cammarano che raffigura Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del mondo, e furono introdotti da Camillo Guerra e Gennaro Maldarelli particolari decorativi, come l'orologio nel sottarco del proscenio. La notte del 12 febbraio 1816, il teatro venne devastato da un terribile incendio. [Salvatore Fergola – L’i e dio del Real Teat o di “a Ca lo. 1816]

Le cause di tale sciagura vennero fatte risalire al fuoco di una lanterna lasciata accesa durante le prove di uno spettacolo. La combustione fu di [91]


considerevole portata visto che distrusse tutti gli interni del teatro e lasciò intatte solo le mura perimetrali e il corpo aggiunto. La gente, allertata dalle fiamme, accorse nel vano tentativo di spegnere il rogo a causa del quale venne mobilitato anche l’esercito. Ferdinando I di Borbone succeduto al trono di Napoli e delle Sicilie dopo che il padre era divenuto re di Spagna, 6 giorni dopo il disastro incaricò l’architetto toscano Antonio σiccolini di ricostruire il teatro così come era prima dell’incendio. I lavori vennero ultimati con una rapidità ed un’efficienza sbalorditive: completati nell’arco di soli nove mesi, riproposero a grandi linee la sala del 1812, conservando l'impianto a ferro di cavallo e la configurazione del boccascena.

[Ricostruzione di Angelo Forgione su una tempera del pittore Ferdinando Roberto eseguita nel 1825]

La ricostruzione lo restituì alla città nelle sembianze attuali, eccetto i colori che continuarono a essere quelli originari del 1737, con le decorazioni in argento brunito con riporti in oro (nel XXI secolo tutte in oro) mentre i palchi - così come il velario e il sipario - erano in azzurro (in seguito rossi): tutti colori ufficiali della Casa Borbonica. Solo il palco reale era rosso “pallido” (così lo definì Stendhal), prima che diventasse rosso fuoco tutta la tappezzeria del teatro. I cambiamenti avuti nel 1816 riguardarono: il palcoscenico, che fu ampliato fino a superare per grandezza la platea; il soffitto, che fu sollevato rispetto al velario del Cammarano eseguito nella stessa occasione; infine fu aggiunto il proscenio. Il re poté così nuovamente entrare nel San Carlo rinnovato e capace, come l’araba fenice, di rinascere dalle proprie ceneri: era il 12 gennaio del 1817. La nuova inaugurazione abbagliò tutta la scena intellettuale europea. Nel giorno di apertura, durante il suo Viaggio in Italia, si trovò a Napoli anche Stendhal [nel dipinto], il quale assistendo all'inaugurazione del teatro, scrisse: «Finalmente il gran giorno: il San Carlo apre i battenti. Grande eccitazione, torrenti di folla, sala abbagliante. All’ingresso, scambi di pugni e spintoni. Avevo giurato di non arrabbiarmi, e ci son riuscito. Ma mi hanno strappato le falde dell’abito. Il posto in platea mi è costato 32 carlini (14 franchi) e 5 zecchini un decimo di palco di terz’ordine. La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli [92]


occhi sono abbagliati, l’anima rapita. Niente di più fresco ed imponente insieme, qualità che si trovano così di rado congiunte. […] L’apertura del San Carlo era uno dei grandi scopi del mio viaggio, e, caso unico per me, l’attesa non è stata delusa. […] Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è come un colpo di Stato. Essa garantisce al re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare. Chi volesse farsi lapidare, non avrebbe che da trovarvi un difetto. Appena parlate di Ferdinando, vi dicono: ha ricostruito il San Carlo!» Gli occhi di Stendhal erano abbagliati probabilmente per un motivo che lui stesso ci tramanda: le decorazioni erano in argento brunito lucidato con pietra d’agata, con riporti in oro zecchino brunito; i palchi erano in raso azzurro, colore ufficiale della Casa, così come il velario e il sipario. Solo il palco reale era rosso “pallido” (così lo definì Stendhal), prima che diventasse rosso fuoco tutta la tappezzeria del teatro allorché, per scelta di Ferdinando II, i colori autentici furono sostituiti col più comune abbinamento rosso e oro. Accadde nella ristrutturazione del 1844, quando lo stesso Niccolini scrisse che «il re personalmente […] di tre parati rossi di carta vellutata di Francia […] scelse il paramento del palco di mezzo […] comandò che gli squarci delle porte de’ palchi […] fossero tappezzate della stessa carta […] comandò che il guanciale de’ parapetti de’ palchi fosse coverto in giro di velluto di lana colore scarlatto […]. Così 800 rolli di carta vellutata di Francia per il rivestimento di tutti i palchi da 1 fila inclusa, all’inizio di agosto del 1844 sono alla dogana di Napoli, giungono in Teatro l’11 settembre e vengono messi in opera entro il mese di ottobre». L’incendio del 1816 fu sicuramente un duro colpo per la monarchia napoletana in quando minacciò seriamente uno dei gioielli più preziosi della sua corona. La rifioritura del San Carlo divenne un imperativo categorico che venne rispettato grazie alla dedizione e al talento degli artigiani del Regno, i quali misero a disposizione le proprie capacità per quello che era divenuto l’emblema della grandezza della loro capitale. Si dice che la bellezza del teatro, già prima dell’incendio, fosse stupefacente e difficilmente eguagliabile. È evidente che le capacità tecniche ed umane di chi aveva effettuato i lavori, diedero origine ad un vero e proprio miracolo architettonico che ha restituito ai contemporanei e a noi una delle più strabilianti meraviglie del nostro Meridione.

Le grandi stagioni di Rossini e Donizetti Dal 1815 al 1822, il direttore musicale del teatro fu Gioachino Rossini che in quel periodo visse una delle sue stagioni più importanti e prolifiche. Il 4 ottobre 1815 avviene la prima assoluta di Elisabetta, regina d'Inghilterra, seguita dalle prime assolute di Armida nel 1817, Mosè in Egitto e Ricciardo e Zoraide nel 1818, Ermione nel 1819 e il successo di Zelmira nel 1822.

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Dopo Rossini, l'incarico di direttore artistico, dal 1822 al 1838, fu coperto da Gaetano Donizetti, il quale aveva stipulato con il Teatro un contratto che lo impegnava a comporre quattro opere l'anno. L'attività di Donizetti a Napoli fu incessante e molte sono le prime assolute andate in scena al San Carlo durante la sua attività artistica. Tra il 1823 e il 1844, infatti, al San Carlo furono presentate ben 19 opere in prima esecuzione, fra cui il capolavoro Lucia di Lammermoor rappresentato con successo nella prima assoluta del 26 settembre 1835. Al San Carlo vi calcarono inoltre le scene anche personalità quali Niccolò Paganini nel 1819, Vincenzo Bellini che nel 30 maggio 1826 debuttò con la prima assoluta di Bianca e Fernando, e Saverio Mercadante che metterà in scena ben 14 prime assolute. Nel teatro napoletano all'epoca cantavano interpreti come Maria Malibran, Giuditta Pasta, Luigi Lablache, Giovanni Battista Rubini, Adolphe Nourrit e Gilbert Duprez.

L'epoca di Verdi Durante la seconda parte del regno di Ferdinando II la morsa della censura si fece più stretta nella vita artistica del teatro. Dopo il cambio titolo dell'opera del Bellini Bianca e Fernando in "Bianca e Gernando", vi furono altre censure che questa volta tormentarono il rapporto con Giuseppe Verdi. Fu, infatti, inizialmente proibita la messa in scena di due importanti opere verdiane, quali Il trovatore nel 1853 e Un ballo in maschera (con il nome di "Una vendetta in domino") nel 1859; il compositore di Busseto dovette a volte cambiare titolo o ambientazione alle sue opere per motivi di censura (fu chiamata "Violetta" la "Traviata", "Lionello" il "Rigoletto", "Orietta di Lesbo" la "Giovanna d'Arco", "Batilde di Turenna" i "Vespri siciliani"). Nonostante tutto, il rapporto con Verdi fu abbastanza importante; furono infatti ospitate diverse opere del compositore.

Il Teatro nei tempi moderni. L'attività del teatro nella prima metà del XX secolo, fu fortemente segnata dai due conflitti bellici che causarono anche diversi danni alla struttura. σon va dimenticata l’oltraggiosa requisizione inglese del 1944 quando il Teatro diventò la sede per gli spettacoli da offrire alle truppe occupanti. Dopo la seconda guerra mondiale Il San Carlo fu il primo teatro a riaprire. Nella prima metà del secolo, su disegno di Michele Platania, fu creato un foyer sul lato che si affaccia sui giardini del palazzo reale; dalla seconda metà del Novecento si registrano importanti lavori di ristrutturazione e ammodernamento dell'impianto. [94]


ARCHITETTURA

 Facciata ed Ingresso Il Teatro sorge addossato al lato nord del Palazzo Reale col quale è comunicante. La facciata, in pieno stile neoclassico e in armonia con gli edifici di stile borbonico circostanti, presenta un pronao a cinque arcate sormontato da una galleria ionica.

[La facciata in un'antica stampa]

L’ultimo restauro del 2019 ha riportato l’edificio alla luminosità dei colori del Settecento. τra il Teatro San Carlo risplende con tonalità che variano tra il bianco e vari toni di grigi che si stagliano sul gruppo marmoreo delle statue e che hanno sostituito il vecchio e sbiadito scambiato color verdognolo.

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E' presente sull'arcosolio centrale del frontone il gruppo scultoreo della Triade della Partenope (Partenope, posta nella scultura tra i geni della Commedia e della Tragedia, era la sirena che incoronava poeti e musicisti), anch’esso recentemente restaurato.

La facciata principale presenta dei rilievi in stucco che raffigurano il Parnaso, il Mito di Orfeo, Euripide e Soflocle, opera di Angelo Viva, anch’essi splendidamente restaurati.

[ Il

ito di O feo , stucco sopra l’a ata e t ale della fa iata p i ipale]

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[Porticato esterno della facciata principale]

All’esterno del Teatro c’è una fila di pigne a “proteggerne” la facciata. Le pose l’architetto Antonio Niccolini nel 1810, in piena massoneria napoleonica, rifacendo il volto del vecchio teatro reale, e non per sola decorazione. La pigna, infatti, simboleggia la ghiandola pineale, una ghiandola endocrina che riceve il più abbondante flusso sanguigno, in misura maggiore di qualsiasi altra ghiandola nel corpo umano, ed è responsabile della chiarezza mentale. Anche detta “terzo occhio”, essa allude al più alto grado di illuminazione, quindi alla saggezza e alla conoscenza più profonda. Le pigne innanzi il portico del San Carlo volevano significare che il Teatro, il più importante dell’epoca, era la casa della Cultura europea. Quella fila di pigne era il confine tra il tempio della Cultura e la città “normale”.

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[Doppia a pa d’a esso alla sala del Teat o]

[Ingresso alla platea del teatro]

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 Platea La pianta della platea è a ferro di cavallo, la più antica del mondo, modello per il teatro all'italiana. Su questo modello furono costruiti i successivi teatri d'Italia e d'Europa, tra gli altri, il teatro di corte della reggia di Caserta che diventerà il modello di altri teatri italiani come il Teatro alla Scala di Milano. La sala è lunga 28,6 metri e larga 22,5 metri, con 184 palchi disposti in sei ordini, più un palco reale capace di ospitare dieci persone, sormontato da una corona in legno dorato e due angeli reggi-cortina ambo i lati per una capienza complessiva all'epoca di 1379 posti. Ogni tre palchi ve ne è uno decorato con putti, cornucopie, sirene, strumenti musicali realizzati a bassorilievo. Le balaustre dei palchi sono in legno di tiglio.

Ogni palco ha in una delle pareti laterali uno specchio leggermente inclinato per riflettere il palco reale. Il motivo è che nessun spettatore poteva applaudire o chiedesse un bis prima che lo facesse il Re. Se non c’era lui, allora l’applauso spettava alla Regina, poi al principe di Maddaloni oppure al principe di Sirignano e così via secondo una rigida etichetta di corte. Solo il loggione non aveva specchi; era quindi libero e privo di qualsiasi tipo di condizionamento.

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Il palco reale è riccamente decorato con due Vittorie alate e con un panneggio in cartapesta, ed è sovrastato da una corona. Nella balconata vediamo lo stemma reale di Casa Savoia, aggiunto dopo l'Unità d'Italia.

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Curiosità: i napoletani sono famosi anche per essere superstiziosi, ed è per questo che non esiste il palco n°17 ma tra il palco n° 16 e il palco n° 18 ve ne è uno chiamato 16 Bis.

 Proscenio σell’arco del proscenio troviamo decorazioni realizzate in bassorilievo e l'orologio ad acqua (che ha la particolarità di avere le lancette fisse su un quadrante che ruota) dove il Tempo indica lo scorrere delle ore mentre la Sirena delle arti tenta di trattenerle (vale a dire che l'arte non ha tempo). In alto sovrasta lo stemma delle Due Sicilie, ripristinato nel 1980 dal Provveditore alle Opere Pubbliche Paolo Martuscelli, sostituendo così quello sabaudo voluto dai re del neonato Regno d'Italia in seguito all'unità. In effetti, durante alcune operazioni di pulitura, si scoprì che lo stemma sabaudo era semplicemente sovrapposto allo stemma originale e distaccato da questo con apposito spessore.

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Il proscenio è dotato, nel sottopalco, di un sistema di elevatori che gli permettono di scendere e lasciare il posto all’orchestra, in caso di opere liriche.

 Palcoscenico Il palcoscenico misura 34×33 m. σella ricostruzione dopo l’incendio il sipario trovò definitivamente sistemazione con l’opera di Giuseppe Mancinello e che rappresenta “Il Parnaso” (realizzato nel 1854), unico esempio di sipario originario ancora esistente al mondo. [102]


Il Parnaso, rappresenta simbolicamente il luogo che secondo la mitologia greca era consacrato al culto di Apollo e delle Muse. Su questo sfondo ritroviamo disposte l'antica civiltà greco-romana e quella moderna italiana, nei loro massimi rappresentanti: tra essi Omero, Saffo, Erodoto, Socrate, Eschilo, Aristofane, Virgilio, Dante, Petrarca e Boccaccio, solo per citarne alcuni.

[Palcoscenico visto dal Palco reale]

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 La tela del soffitto La grande tela del soffitto opera di Antonio, Giovanni e Giuseppe Cammarano misura 500 metri quadrati: raffigura “Apollo che presenta a Minerva i più grandi poeti del mondo” tra i quali si possono notare Dante, Virgilio, Beatrice e Omero. Nella scena, Apollo indica ad Atena (rappresentata nel Sole) le arti. Tra le figure vi sono anche quella di Dante (in verde) con avanti a lui Beatrice, Virgilio e infine Omero. La tela ha una particolarità, non è solo una decorazione, ma anche un ingegnoso distributore del suono. Niccolini e i Cammarano sistemarono la tela, o meglio il velario in posizione sottoelevata rispetto al soffitto e questo fa sì che si crei una sorta di camera acustica, come se ci fosse un enorme tamburo che assorbe il suono e lo distribuisce perfettamente senza alterazioni sugli spettatori in platea.

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 Foyer (Salone degli specchi) Nel 1937 venne realizzato sul lato dei giardini reali il foyer, chiamato anche Salone degli specchi, su disegno di Michele Platania. Il foyer venne distrutto dai bombardamenti nel 1943 e poi ricostruito. La sala prende il suo nome dai grandi specchi che ne decorano le pareti. Si affaccia sui lussureggianti Giardini del Palazzo Reale di Napoli, tramite una doppia rampa di scale. L'ambiente oltre ad accogliere gli spettatori durante gli intervalli delle opere, viene utilizzato anche come sala in cui si tengono piccoli concerti musicali o vocali, riunioni, eventi o cene di gala.

[Il Foyer]

 Statue e busti Nei corridoi che portano all'ingresso alla platea troviamo un busto di Giuseppe Verdi, le statue di Domenico Cimarosa, Giovanni Paisiello, ed in fondo un busto brunito di Enrico Caruso. [Busto di Giuseppe Verdi]

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[Statue di Domenico Cimarosa, Giovanni Paisiello, Enrico Caruso]

ACUSTICA L'acustica del San Carlo è stata considerata, sin dalla sua edificazione, pressoché perfetta. L'evento che ha determinato più considerevolmente il raggiungimento di questo risultato tuttavia si ha nel 1816, quando il soffitto del teatro venne sollevato rispetto al passato, e la tela di Cammarano venne posta in una posizione sottoelevata rispetto al tetto. Questo meccanismo fa sì che si crei una sorta di camera acustica, come se ci fosse un enorme tamburo sopra la platea. L'acustica non si altera in base alla posizione degli spettatori (platea, palchi, loggione).

GLI ARTISTI DEL SAN CARLO L'Orchestra del San Carlo nacque insieme alla fondazione nel 1737 per eseguire l'Achille in Sciro, opera inaugurale del teatro; negli anni ha sempre avuto un'impostazione teatrale, destinata a prime rappresentazioni di opere scritte, tra gli altri, da Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti e Giuseppe Verdi. In particolare il solo ed unico Quartetto d'archi di Verdi fu composto per l'Orchestra del Massimo napoletano, il cui manoscritto è ancora conservato presso il Conservatorio di San Pietro a Majella. Nel 1884 comincia la tradizione sinfonica, con la direzione di un giovane Giuseppe Martucci che eseguì un programma composto da musiche di Weber, Saint-Saëns e Richard Wagner. Da Martucci si susseguono grandi direttori come Arturo Toscanini (1909), Victor De Sabata (1928), e compositori [106]


come Ildebrando Pizzetti e Pietro Mascagni. L'8 gennaio 1934 è Richard Strauss a dirigere l'ensemble del Teatro, con l'esecuzione di brani esclusivamente di propria composizione.

Dopo la seconda guerra mondiale, a dirigere l'Orchestra si susseguirono assiduamente nomi quali Vittorio Gui, Tullio Serafin, Gabriele Santini, Gianandrea Gavazzeni fra gli italiani e Karl Böhm, Ferenc Fricsay, Hermann Scherchen, André Cluytens, Hans Knappertsbusch, Dimitri Mitropoulos, Igor Stravinskij fra gli stranieri. σegli anni ’60 vi fu la direzione di due giovani emergenti: Claudio Abbado al suo esordio nel 1963 e Riccardo Muti nel 1967. Hanno calcato il palcoscenico del Teatro S. Carlo i più grandi cantanti lirici: Beniamino Gigli, Luciano Pavarotti, Plàcido Domingo, Josè Carreras, Tito Schipa, Renato Bruson, Enrico Caruso, Giuseppe Di Stefano, Alfredo Kraus, Mario Del Monaco e Franco Corelli…; tra le donne Maria Callas, Mirella Freni, Magda Olivero, Maria Caniglia, Toti Dal Monte, Raina Kabaivanska, Montserrat Caballè, e l’elenco potrebbe continuare. Il Coro del San Carlo è composto da 90 coristi adulti e dal marzo 2004 è stato creato anche un coro di voci bianche con bambini dai 7 ai 12 anni. Il Teatro San Carlo condivide con il Teatro alla Scala di Milano il primato della creazione della prima scuola di ballo (1812). La sua scuola di ballo accoglie attualmente 140 allievi. Hanno calcato le scene del teatro Maurice Bèjart, Vladimir Vasiliev, Roland Petit, Rodolf Nureyev, Margot Fonteyn, Carla Fracci, Roberto Bolle, Eleonora Abbagnano... Tra i Maestri del mise en scène citiamo Giorgio Zeffirelli ed Edoardo De Filippo.

[107]


Leonardo da Vinci e la Musica Chiunque si avvicini al Rinascimento per approfondirne la storia, non può fare a meno di imbattersi in Giorgio Vasari e nel suo trattato “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”, un grande lavoro di ricostruzione degli accadimenti che hanno segnato la storia e la vita di molti tra i più grandi artisti italiani vissuti tra il 1300 e il 1550.

Vasari, con grande pazienza e metodo, ha raccolto le loro storie, ha parlato con coloro che li hanno conosciuti e ha raccontato questo mondo straordinario di personalità fuori dal comune. Tra questi artisti, Giorgio Vasari ha raccontato la “Vita di Lionardo da Vinci pittore e scultore fiorentino”. Così esordisce lo storiografo (nonché pittore ed architetto) aretino: «Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azzione; e tanta e sì fatta poi la virtù, che dovunque l’a i o volse elle ose diffi ili, o fa ilità le e deva assolute. La fo za i lui fu

olta e o giu ta o la dest ezza, l’a i o e ’l valo e, sempre regio e magnanimo.

Veramente mirabile e celeste fu Lionardo, figliuolo di ser Piero da Vinci, e nella erudizione e principii delle lettere arebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario et instabile. Perciò che egli si mise a i pa a e

olte ose e, o i iate, poi l’a

a do ava.

E o ell’a

a o egli i po hi

diffi ultà al

aest o he gl’i seg ava, e e spesso lo o fo deva. Dette al ua to d’ope a alla musica, ma

esi h’e’ v’attese, fe e ta to a uisto, he

ove do di o ti uo du

ie

tosto si risolvé a imparare a sonare la lira, come quello che da la natura aveva spirito elevatissimo e pieno di leggiad ia; o de sop a uella a tò divi a e te all’i p ovviso. No di e o, e h egli a sì va ie ose attendesse, non lasciò mai il diseg a e et il fa e di ilievo, o e ose he gl’a dava o a fa tasia più d’al u ’alt a.»

[108]


Nelle parole vasariane rileviamo subito una retorica esaltazione di Leonardo genio universale e quindi anche genio della musica. Le “divine” doti musicali che Vasari attribuisce a Leonardo potrebbero dunque a prima vista essere interpretate come un ennesimo riconoscimento di eccellenza tributato in un importante campo del sapere e del fare umano - la musica - a colui che viene tuttora definito il genio universale del Rinascimento italiano. A testimonianza del fatto che le doti musicali dovevano aver giocato una parte di rilievo nell’alimentare la fama goduta dall’artista toscano presso i contemporanei, Vasari indicava nella straordinaria abilità di Leonardo come suonatore di lira e come improvvisatore di versi la ragione prima del trasferimento dell’artista dalla Firenze dei Medici alla Milano degli Sforza: Avve e he, o to Giova Galeazzo du a di Mila o e eato Lodovi o “fo za el g ado edesi o l’a o 1494, fu condotto a Milano con gran riputazione Lionardo al duca, il quale molto si dilettava del suono della li a, pe h so asse. Esiste una lettera in cui Leonardo offriva a Ludovico Sforza i propri servigi in qualità di ingegnere, architetto ed artista: con quella lettera Leonardo sosteneva di poter realizzare con successo uno strabiliante campionario di opere di ingegneria civile e militare (“Ho modi de ponti leggerissimi e forti”), di poter produrre eccellenti lavori in scultura e in pittura (“Conducerò in scultura di marmore, di bronzo e di terra, similiter in pictura, ciò che si possa fare ad paragone de omni altro.”), ma non faceva menzione alcuna delle proprie capacità musicali. Sappiamo però che Leonardo arrivò a Milano accompagnato da Atalante Migliorotti, un giovane fiorentino di sedici anni eccellente suonatore di lira, a parziale conferma del fatto che l’artista toscano, come asserito dal Vasari, si distinse in principio presso la corte sforzesca proprio in virtù delle proprie straordinarie capacità di suonatore di lira e di cantore. Così racconta il Vasari: «Lio a do po tò uello st u e to h’egli aveva di sua a o fa i ato d’a ge to g a pa te, i fo a di tes hio di avallo, osa izza a e uova, a io h l’a o ia fosse o aggio tu a e più so o a di vo e; laonde superò tutti i musici che quivi erano concorsi a sonare.» Dell’argentea lira a forma di teschio di cavallo che Leonardo suonò al cospetto di Ludovico il Moro però non è rimasta alcuna traccia se non nella memoria dei biografi vinciani. Ne parla infatti un altro biografo, il cosiddetto Anonimo Magliabechiano: «Fu mandato al duca di Milano a presentargli [...] una lira, che unico era in sonare tale strumento.»

[109]


[La Lyra teschio e sua ricostruzione moderna] Un altro biografo di Leonardo, Paolo Giovio, afferma che Leonardo ebbe modo di distinguersi come “inventore d’ogni eleganza e soprattutto di spettacoli teatrali”. In effetti, durante gli anni trascorsi alla corte degli Sforza, Leonardo si dedicò in più di una circostanza all’ideazione e all’allestimento di spettacoli per la corte, compito questo che doveva essergli particolarmente gradito. I disegni leonardeschi raffiguranti i costumi, gli apparati scenici ed i macchinismi teatrali ideati per gli spettacoli della corte milanese sono purtroppo andati perduti. E’ invece sopravvissuta una dettagliata descrizione

della

Festa

del

Paradiso,

una

rappresentazione teatrale che Leonardo allestì il 13 gennaio del 1490 in una sala del Castello Sforzesco, in onore di Isabella d’Aragona [nel dipinto], moglie del duca Gian Galeazzo. La narrazione, opera di un anonimo testimone oculare dell’avvenimento, si sofferma a lungo nel descrivere l’apparato scenico ideato da Leonardo. Apprendiamo dunque che la scena della Festa del Paradiso - allietata da “molti canti et soni molto dolci et suavi” - rappresentava la volta celeste: era infatti formata da una semisfera dipinta a oro, animata da personaggi che raffiguravano i “sette pianiti” e i “dodici signi” dello zodiaco. σon sappiamo chi sia stato l’autore delle musiche della Festa del Paradiso, in ogni caso non è azzardato supporre che Leonardo si sia interessato personalmente della loro appropriata collocazione all’interno dello spettacolo. L’anonimo cronista milanese sottolinea infatti più di una volta il ruolo fondamentale svolto dalla musica nel ricreare con “suavi soni et canti” quella armonia delle lontane sfere celesti che, sicuramente, Leonardo fece percepire, anche soltanto all’interno della finzione allegorica della festa, La descrizione scenografica dell’incantevole spettacolo della “Festa del Paradiso” di Leonardo da Vinci, in occasione delle nozze tra Gian Galeazzo Maria Sforza e Isabella d’Aragona, è a dir poco incantevole e suggestiva: Giove, Apollo, Mercurio e tanti altri Dei, tutti impegnati alla realizzazione della più grande e indimenticabile festa per l’incantevole e ammiratissima sposa Isabella,

[110]


accompagnandola in una scia luminosa con soavi suoni e canti all’incontro dove già il suo sposo l’aspetta:

«El Paradixo era fatto a la similitudine de uno mezo ovo, el quale dal lato dentro era tutto messo a horo, con grandissimo numero de lume ricontro de stelle, con certi fessi dove stava tutti li sette pianiti, segondo il lo o g ado alti e assi. A to o l’o lo de sop a del ditto ezo to do e a li XII sig i, o e ti lu i de t o dal vedro, che facevano un galante et bel vedere: nel quale Paradixo era molti canti et soni molto dolci et suavi. Trete certi schioppi, et ad uno tratto cade zoso el panno de razo che era dinanti al Paradixo, dinanti al uale e ase u o sa zo fi o a ta to he u o puti o vestito a o’ de A gelo have annuntiato la ditta representatione. Livro de dire le parole cade a terra ditto sarzo, et fu tanto sì grande ornamento et splendore che parse vedere nel principio uno naturale paradixo, et così ne lo audito, per li suavi soni et a ti he v’e a o dentro. Nel mezo del quale era Jove con li altri pianiti apreso, segondo el loro grado. Cantato et sonato che se have un pezo, se fece pore scilentio ad ogni casa; et Jove con alchune acomodate et bone parole rengratiò el summo Idio che li avesse conceduto de creare al mondo una così bella, legiadra, formosa et virtuosa donna come era la Ill.ma et Ex.ma M.a duchessa Isabella.»  TEORIA DELLA MUSICA SECONDO LEONARDO: IL PARAGONE. Leonardo era affascinato dal mondo uditivo e dimostrò questo suo interesse molto prolificamente nel Codice Atlantico. Il suono gli serviva come strumento critico per spiegare fenomeni naturali, le varie analogie tra gli elementi e i fenomeni legati all’universo fisico. Se quindi da un lato l’acustica forniva a Leonardo schemi teorici per comprendere le leggi della natura, dall’altro gli strumenti musicali gli offrivano l’opportunità molto più tangibile di confrontarsi con specifici dilemmi acustici, tecnologici, estetici e anche di immaginare nuove tecniche ibride per la produzione del suono.

[Il carro tamburo, trainato da un uomo a piedi o in altro caso azionato da una manovella che grazie ad una serie di battenti attaccati a ruote ed ingranaggi suona un ritmo predefinito mentre si sposta.] Nell’opera leonardesca troviamo alcuni scritti di carattere speculativo nei quali egli espose una propria “teoria della musica”. [111]


Stimolato dal vivo dibattito sorto nella cultura del suo tempo per stabilire quale arte fosse superiore alle altre, Leonardo lasciò nel Paragone, uno scritto facente parte del più ampio Trattato della pittura (Codice Vaticano Urbinate 1720), una nutrita serie di riflessioni in merito alla natura della musica e circa il rapporto che intercorre tra questa e le altre discipline artistiche quali la pittura e la poesia. Punto di partenza della teoria leonardesca è l’affermazione secondo cui un’arte è tanto superiore alle altre quanto più per suo tramite l’artista è in grado di presentare simultaneamente tutti i molteplici elementi che compongono la totalità dell’oggetto che con la sua opera egli intende rappresentare o raffigurare (concetto della “proporzionalità armonica”). Forte di questa premessa, Leonardo sostiene che la pittura e la musica sono superiori alla poesia in quanto, a differenza di quest’ultima, esse possono presentare in un unico istante tutte le singole parti che costituiscono il tutto di un’opera. Leonardo afferma dunque che il pittore è in grado di mostrare in un colpo d’occhio tutte le singole membra che formano un unico corpo; la stessa possibilità viene riconosciuta anche al musicista: eseguendo una composizione polifonica si odono infatti, simultaneamente, le singole voci che contrappuntisticamente costituiscono, di fatto, un tutt’uno. Sebbene definisse la musica “sorella minore della pittura”, egli faceva spesso ricorso ad analogie musicali per approfondire le qualità trascendenti della pittura stessa. Infatti è proprio nel Trattato della pittura che compare la sua celebre definizione della musica come “raffigurazione dell’invisibile”. E’ significativo che l’eclettico genio rinascimentale abbia impiegato questa particolare descrizione della musica nel suo tributo alla pittura, poiché i suoi disegni di acustica e di strumenti musicali possono essere considerati come la trasposizione in immagini del regno invisibile del suono. «Sì come di molte varie voci [musicali] insieme aggionte ad un medesimo tempo, ne risulta una proporzione armonica, la quale contenta tanto il senso dello audito che li auditori restano con stupente ammirazione quasi se ivivi, si il e te fa p opo zio alità e isulta u a fa ia la

o le p opo zio ali ellezze d’u a geli o viso posto i pittu a, della uale o i o o e to, il uale se ve a l’o hio i u

usi a a l’o e hio. E se tal a

edesi o te po he si

o ia delle bellezze sarà mostra allo amante di chi tale bellezze

sonno immitate, sanza dubbio esso restarà con istupenda admirazione e gaudio incomparabile e superiore a tutti gli altri sensi.» Partita dal convincimento che il senso della vista è superiore a quello dell’udito, nella sua completa articolazione la teoria vinciana delle arti riconosce tuttavia alla musica amplissima dignità: la musica gode infatti, assieme alla pittura, della proprietà di poter rappresentare simultaneamente tutte le proprie componenti con proporzionalità armonica. Pittura e musica emergono dunque dal Paragone [112]


come discipline complementari o, come ancora una volta si legge nelle parole di Leonardo stesso, come due sorelle: «La musica non è da esser chiamata altro che sorella della pittu a, o iossia h’essa su ietto dell’audito, se o do se so a l’o hio, e o po e a o ia o le o gio zio i delle sue pa ti p opo zio ali ope ate el medesimo tempo, costrette a nascere e morire in uno o più tempi armonici, li quali tempi circondano la p opo zio alità de’ e i di he tale a o ia si o po e, o alt i e ti he si fa ia la li ea circonferenziale le membra di che si genera la bellezza umana.» Una possibilità analoga a quella riconosciuta al pittore ed al compositore è invece negata al poeta. Leonardo paragona infatti la poesia ad un quadro di cui si mostrasse all’osservatore soltanto una parte alla volta, tenendo celate con un panno tutte le altre: un tale tipo di fruizione del quadro annullerebbe l’effetto di proporzionalità armonica che, secondo Leonardo, intercorre invece tra le singole

parti

che

compongono

una

raffigurazione pittorica. L’effetto di proporzionalità armonica non viene quindi riconosciuto alla poesia; quest’ultima infatti non è in grado di presentare i propri contenuti se non in maniera sequenziale:

«Tal diferenzia è, in quanto alla figurazione delle cose corporee, da pittore e poeta, quanto dalli corpi smembrati a li uniti, perché il poeta, nel descrivere la bellezza o bruttezza di qualonche corpo, te lo dimostra a membro a membro et in diversi tempi, et il pittore tel fa vedere tutto in un tempo. Ma della poesia non ne risulta altra grazia come se volessino mostrare un volto a parte a parte, sempre ricoprendo quelle che prima si mostrano, delle quali dimostrazio i l’o livio e o d’a

o ia, pe h l’o hio o le a

las ia o po e al u a p opo zio alità

a ia o la sua vi tù visiva a u

edesi o te po. I si ile a ade

nelle bellezze di qualonque cosa finita dal poeta, le quali, per essere le sue parti dette separatamente in separati tempi, la memoria non ne riceve alcuna armonia.» La poesia viene in seguito paragonata da Leonardo ad una composizione musicale polifonica della quale, per paradosso, non si udissero le quattro voci contemporaneamente ma, separatamente, prima la parte del soprano, poi quella del tenore, poi quella del contralto e, per ultima, quella del basso. Un tale tipo di esecuzione, sostiene propriamente Leonardo, annullerebbe tutti gli effetti di proporzionalità armonica che scaturiscono invece da una ortodossa esecuzione polifonica: «Et al poeta a ade il edesi o o ’al usi o, he a ta u sol a to o posto di uat o a to i, e a ta p i a il a to, poi il te o e, e osì seguita il o t ’alto e poi il asso; e di ostui o isulta la g azia della [113]


proporzionalità armonica, a quale si rinchiude in tempi armonici. E la musica fa ancora nel suo tempo armonico le suavi melodie composte delle sue varie voci, delle quali il poeta è privato della loro discrezione armonica.» Proseguendo la discussione in merito alla gerarchia delle arti, Leonardo individua poi un secondo criterio di discriminazione: la caducità o meno delle opere che le diverse discipline artistiche producono. Unica tra le arti la pittura ritiene secondo Leonardo il privilegio dell’eternità. Un quadro infatti, se opportunamente protetto da un vetro, si conserva intatto per un tempo pressoché infinito. Solo la pittura può quindi mantenere viva la bellezza di un volto del quale la natura stessa

non

può

invece

impedire

l’invecchiamento prima e la morte poi. Per contro, il carattere dell’eternità non è proprio di musica e poesia. Un brano musicale infatti, allo stesso modo di una poesia, “si va consummando mentre che nasce”: musica e poesia sono quindi soggette al fluire ed al passare del tempo, al nascere e morire: «Quella cosa è più degna che satisfà a miglior senso. Adonque la pittura, satisfatrice al senso del vedere, è più o ile he la usi a, he solo satisfà all’udito. Quella osa più o ile he ha più ete ità; ado ue la musi a, he si va o su a do e t e h’ella as e, e deg a della pittu a, he o vet i si fa ete a [...]. La pittu a e elle e sig o eggia la usi a pe h’essa o o ei ediate dopo la sua eazio e, o e fa la sventurata musica, anzi resta in essere, e ti si dimostra in vita quel che in fatto è una sola superfizie. O a avigliosa s ie zia, tu isse vi i vita le adu he ellezze de’ o tali, e uali al o ti uo so o va iate dal tempo, che le conduce alla debita vecchiezza. E tale scienzia ha tale proporzione con la divina natura, uale l’à o le sue ope e o l’ope e d’essa atu a, e pe uesto ado ata.» Considerata tradizionalmente una vile arte “meccanica”, la pittura era dunque, nella teoria vinciana, la più nobile delle arti. Per questo motivo Leonardo si doleva che ad essa non fosse ancora stata concessa cittadinanza nel ristretto gruppo delle nobili “arti liberali”:

«Con debita lamentatione si dole la pittura per esser lei scacciata della arti liberali, conciosiaché essa sia vera figliuola della atu a et ope ata da più deg o se so. O de atto o, o s itto i, l’avete las iata fo i del u e o delle dett’a ti li e ali; o iosia h uesta, o h’alle ope e di atu a, a ad i fi ite attende, che la natura mai creò.»

[114]


 LA VIOLA ORGANISTA Il composito e fantastico mondo degli strumenti musicali non poteva certamente rimanere alieno all’attenzione del genio leonardesco. σon ci meravigliamo quindi di rintracciare - nell’ampio corpo dei fogli manoscritti che l’artista andò disordinatamente accumulando nel corso dei suoi studi numerosi appunti e schizzi che descrivono o rappresentano strumenti e macchine musicali di ogni sorta. Come spesso si riscontra negli studi di carattere tecnico, scientifico ed artistico, anche nelle annotazioni e nei disegni relativi alle “invenzioni musicali” Leonardo sembra a prima vista voler raffigurare o descrivere - piuttosto che progetti

interamente

concretamente

realizzabili

compiuti -

e

soltanto

semplici intuizioni o idee frammentarie che si riservava di sviluppare compiutamente in un secondo momento. Pur ipotizzando in molti casi la costruzione di congegni assolutamente

fantastici

e

talvolta

addirittura praticamente inutilizzabili, gli schizzi leonardeschi di oggetto organologico-musicale rivestono tuttavia grande interesse: essi permettono infatti di evidenziare le vaste ed originali conoscenze di Leonardo in materia di meccanica, ed il modo in cui essa veniva applicata alla progettazione di strumenti musicali di ogni tipo. Dei numerosi strumenti e macchine musicali nati nella fantasia di Leonardo la viola organista è al contempo il più complesso ed il più vicino ad una reale utilizzazione nella pratica musicale dell’epoca. Leonardo dovette essere pienamente consapevole delle concrete possibilità che il suo strumento avrebbe potuto offrire: la viola organista avrebbe infatti combinato le possibilità polifoniche tipiche degli strumenti a tastiera con il colore timbrico e le possibilità dinamiche caratteristiche degli strumenti ad arco. L'idea originale di Leonardo, descritta in quattro disegni del Codice Atlantico (1488-1489) e in altri quattro disegni del manoscritto H (1493-94), deriva dal meccanismo degli strumenti medievali detti organistrum e symphonia, antenati della ghironda. In questi strumenti, esistenti fin dal XII secolo, una corda di budello animale era tesa fra due ponticelli fissi su una cassa armonica ed era sfregata, invece che da un arco, da una ruota di legno messa in rotazione da una manovella. La corda poteva produrre le diverse note della scala grazie a un sistema di ponticelli mobili, detti tangenti, azionati da tasti; si trattava in tutti i casi di strumenti monofonici, che emettevano solo una nota alla volta. Lo strumento disegnato da Leonardo ha una corda per ciascuna nota, come nel clavicembalo o nel clavicordo. Al di sotto delle corde si trovano due o più ruote che girano simultaneamente su perni paralleli, trascinate da una cinghia, sotto l'azione di una manovella. I tasti, disposti come nel clavicembalo, portano le corde corrispondenti a contatto con la ruota sottostante, oppure (a seconda dei disegni) con la cinghia di trasmissione. Lo strumento può quindi eseguire più note [115]


contemporaneamente ed è a suono continuo, come l'organo a canne, dato che le corde suonano per frizione (messe in vibrazione grazie all’attrito che su di esse esercita un nastro di crini cosparso di pece) anziché essere pizzicate (come nel clavicembalo) o percosse (come nel clavicordo). L'effetto sonoro è quello di un insieme di strumenti ad arco (all'epoca di Leonardo detti genericamente "viole"): da qui il nome "viola organista". Grazie al sistema di rinvii e di leve ideato da Leonardo, al suonatore della viola organista era possibile graduare accuratamente, tramite l’intensità della pressione esercitata dalle dita sui singoli tasti, la forza con cui le corde corrispondenti avrebbero fatto attrito contro l’archetto. Di conseguenza, l’esecutore avrebbe avuto in ogni istante pieno controllo sul volume di ogni singolo suono, caratteristica, questa, estranea sia all’organo che al clavicembalo, strumenti nei quali è infatti assente ogni possibilità di gradazione dinamica. La viola organista è uno degli strumenti musicali più complessi di Leonardo da Vinci: nessuno dei disegni in cui lo strumento appare raffigurato può essere considerato come un progetto compiuto, né sappiamo se Leonardo abbia mai costruito lo strumento descritto. Ai nostri giorni utilizzando le indicazioni di Leonardo, lo strumento è stato ricostruito dal pianista polacco Slawomir Zubrzycki che ha impiegato tre anni e circa cinquemila ore di lavoro. Il particolarissimo strumento - la cui intonazione è difficile ma impressionante - ha debuttato per la sua prima esibizione il 18 Ottobre scorso a Cracovia, in Polonia, ma la notizia ha tardato a raggiungere i media europei nonostante l’importanza dell’avvenimento  IL FLAUTO GLISSATO Per

glissato,

in

musica

s’intende

l’effetto

ottenuto

facendo

normalmente scivolare (“glisser”, in francese) la mano su uno strumento a corda o a tastiera. La caratteristica principale del “flauto glissato” è data dalla sostituzione dei convenzionali fori del calamo con una “fessura” longitudinale, con la quale Leonardo intendeva prospettare all’esecutore la possibilità di utilizzare lo strumento in modo creativo («tanto quanto a te piace»), con effetti espressivi tra una nota e l’altra della melodia, utilizzando “ottavi o sedicesimi di tono”. IL CANONE MUSICALE Questo strumento musicale è raffigurato sul foglio 136r, Codice Arundel, conservato alla British Library di Londra, dove Leonardo aveva appuntato: «Qui io faccio una ruota fatta di canne ad uso [116]


di tabbelle con un motivo musicale chiamato canone [...] e però io faccio una ruota con quattro denti, in maniera tale che ciascun dente fa l’uffizio di un cantore». Il “canone” è una tecnica d’imitazione musicale particolarmente utilizzata nel Trecento soprattutto dai compositori dell’Ars nova e, nel secolo successivo, da quelli fiamminghi. Essendo il progetto concepito a quattro voci, chiaramente Leonardo mostra l’intendimento di abbinare le tecniche della composizione polifonica con quelle del movimento rotatorio, attivato dall’esecutore per mezzo di una manovella. Una ruota dentata, simultaneamente, pone in movimento delle lamelle, la cui vibrazione sonora viene amplificata dalle canne. Le quattro voci s’inseguono a canone. [La ricostruzione di questo strumento, come del successivo, è di Edoardo Zanon per la Most a Il Mo do di Leo a do ]  LA PIVA A VENTO CONTINUO Nel foglio 76r del Codice di Madrid II troviamo il disegno della Piva a vento continuo caratterizzato dalla presenza di due mantici, per mezzo dei quali, scrisse Leonardo, «el vento fia continuo». All’uscita dell’imboccatura vi è la possibilità di inserire uno strumento a fiato (naturale o ad ancia). Sulla parte superiore della raffigurazione, vi sono dei dettagli conici intesi come bretelle necessarie per fissare l’imbragatura alle spalle del suonatore, in modo che lo stesso potesse suonare in movimento. ORGANO CONTINUO L’Organo continuo, conosciuto anche come Fisarmonica di Leonardo è da alcuni denominato “τrgano di carta”, poiché tale materiale è espressamente indicato da Leonardo nei dettagli costruttivi degli strumenti armonici del “foglio 76r” del Codice di Madrid II. E’ a tutti gli effetti antesignano dell’aerofono a mantice.

[La ricostruzione di questo strumento è del liutaio Mario Buonoconto]

[117]


 MONNA LISA E LA MUSICA «Usovvi ancora questa arte; che essendo madonna Lisa bellissima, teneva, mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico che suol spesso da e la pittu a a’ it atti he si fa o: ed i uesto di Lio a do vi e a u ghig o ta to pia evole, che era cosa più divina che umana a vederlo, ed era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti.»

σon possiamo sapere chi fossero i musici che allietarono “madonna Lisa bellissima” durante le lunghe sedute necessarie al completamento del suo ritratto. Tuttavia vogliamo credere con il Vasari che un po’ dell’enigmatico sorriso di Monna Lisa sia davvero in qualche modo lo specchio della musica, certamente bellissima anch’essa, che Leonardo faceva eseguire durante le lunghe ore in cui ritraeva quel sorriso “tanto piacevole, che era cosa più divina che umana a vederlo”.

[118]


Melomania: la pagina della Lirica

Guglielmo Tell di

Gioachino Rossini

[119]


GENESI DELL’OPERA La vera storia di Guglielmo Tell Storia e leggenda si mescolano nella figura di Guglielmo Tell. Tutto sembrerebbe indicare che non si tratta di un personaggio realmente esistito: è possibile che l'intera leggenda sia nata in Norvegia tra il X e l’XI secolo, in quanto il tema dell'arco e della mela si ritrova in una cronaca del 1200 redatta dal dotto danese Saxo Grammaticus. Tuttavia le vicende che fanno da sfondo alle sue gesta rievocano un avvenimento storico reale, la conquista dell'indipendenza da parte della Confederazione elvetica intorno al 1300, e per questa ragione Guglielmo Tell è diventato l'eroe nazionale del popolo svizzero. La storia infatti si svolge durante la lotta che le tre comunità alpine di Uri, Schwyz e Unterwalden, il nucleo della futura Confederazione svizzera, condussero tra il XIII e il XIV secolo contro gli Asburgo d'Austria per ottenere l'autonomia. Secondo la leggenda, Guglielmo Tell nacque nel cantone di Uri, che alla fine del Duecento l'imperatore d'Austria Alberto cercava di controllare attraverso i balivi, cioè gli ufficiali incaricati di riscuotere le imposte e amministrare la giustizia. [Richard Kissling: Monumento a Guglielmo Tell. 1895. Altdorf] Secondo la leggenda, Guglielmo Tell nacque e visse a Bürglen nel Canton Uri, a ridosso del massiccio del San Gottardo. Sposato e con un figlio era un cacciatore abile nell'uso della balestra. La storia di Guglielmo Tell prende avvio dalla decisione del balivo3 austriaco Albrecht Gessler, l'amministratore locale degli Asburgo di issare il proprio cappello sulla pubblica piazza di Altdorf, ordinando agli abitanti di rendergli omaggio. Il cappello, simbolo dell'autorità imperiale, doveva assolutamente essere riverito da chiunque passasse: chi non s'inchinava rischiava la confisca dei beni o addirittura la morte. Il 18 novembre 1307 Tell, accompagnato dal figlio Gualtiero, si reca nel capoluogo regionale, Altdorf; mentre passa sulla pubblica piazza, ignora il cappello imperiale. Il giorno dopo viene giudicato in piazza, in presenza del popolo.

Il balivo era un titolo di pubblico ufficiale nel tardo medioevo), con attribuzioni e autorità molto varie secondo i luoghi e i tempi; erano in genere governatori di province o di grandi circoscrizioni, con ampî poteri amministrativi e giudiziarî.

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In cambio della vita, il balivo Gessler gli impone la terribile prova della mela che, posta sulla testa del figlioletto, avrebbe dovuto essere centrata dalla freccia della sua balestra. Se rifiuta di scoccare la freccia o sbaglierà il tiro, decreta Gessler, Guglielmo sarà condannato a morte assieme al figlio. Con un tiro perfetto, l'abilissimo arciere riesce però a centrare in pieno la mela. Gessler però si era accorto che Tell aveva nascosto una seconda freccia nella sua faretra: l’uomo è costretto a confessare che, nel caso in cui avesse fallito il colpo uccidendo il figlio, con la seconda freccia avrebbe tolto la vita a Gessler. Il balivo ordina allora che l'uomo sia imprigionato a vita nella fortezza di Küssnacht. Ma durante il tragitto sul lago di Lucerna si scatena una terribile tempesta e i suoi carcerieri liberano Tell, abile timoniere, per farsi aiutare. Arrivati vicino alla riva, a metà strada tra Altdorf e Brunnen, Tell con un balzo salta dalla barca sulla riva e, con una possente spinta, rimanda l'imbarcazione verso il largo. Riesce a fuggire. Il terzo giorno, presso Küssnacht, nascosto dietro ad un albero ai lati della «Via cava» che dal Gottardo conduce a Zurigo, Tell si vendica uccidendo Gessler con la seconda freccia che sin dall'inizio gli aveva destinato. Il popolo dei tre Cantoni alpini, venuto a conoscenza delle eroiche gesta di Tell, insorge assediando i castelli e cacciando per sempre i balivi dalle loro terre. L'arciere avrebbe anche partecipato alla battaglia di Morgarten a fianco dei Confederati (Uri, Svitto e Untervaldo), conclusasi con la vittoria di questi ultimi contro gli Asburgo nel 1315. Guglielmo Tell visse nel rispetto e nell'ammirazione delle genti fino all'estate del 1354, quando, a causa di una tempesta sacrificò la sua vita per aiutare un bambino trascinato dal torrente Schächen in piena.

Il Guglielmo Tell Rossiniano Nel 1824 il 32enne Rossini, già un compositore famoso e rispettato, si trasferì a Parigi per assumere la direzione del “Théâtre-Italien”, dopo le fortunate esperienze di Vienna (Zelmira, 1822) e Londra che sancirono il suo successo europeo. Negli anni seguenti al suo arrivo si susseguirono rifacimenti francesi di suoi lavori italiani (Le Siège de Corinthe e Moïse et Pharaon, adattamenti rispettivamente di Maometto II e Mosè in Egitto), la cantata scenica Il viaggio a Reims nel 1825 e finalmente l’opera comica Le Comte Ory nel 1828 (che però riutilizzava molti pezzi del Viaggio a Reims). Dopo questi successi, il re Carlo X gli offrì un vitalizio a vita di 6000 franchi annui per cinque opere in dieci anni per l’Académie Royale de Musique (meglio conosciuta come Opéra). [121]


La prima partitura da scrivere espressamente per l’τpéra conobbe una gestazione lunga, ma il suo ritardo non aveva niente di casuale: il nuovo lavoro era atteso al varco dai parigini e probabilmente il compositore sentiva il bisogno di aver piena padronanza di quel nuovo linguaggio musicale e pertanto si sottopose ad un lungo apprendistato, studiando il declamato francese e lavorando alla lingua e allo stile tipici dell'Opèra. La partitura dl Guillaume Tell venne scritta in cinque mesi (un tempo insolitamente lungo per Rossini) e terminata nell’autunno del 1828, anche se a quell’epoca in realtà il libretto non era ancora del tutto definito. Scartati inizialmente alcuni testi di Eugène Scribe, la scelta cadde su un libretto composto da Étienne de Jouy nel 1826, tratto dall’omonima tragedia di Friedrich Schiller del 1804 e mai musicato. Le precarie condizioni di salute di de Jouy costrinsero Rossini a commissionare all’emergente drammaturgo Hippolyte Bis gli opportuni completamenti e modifiche. I ritardi nella stesura del libretto definitivo si accompagnarono alle continue modifiche della partitura a causa anche di alcune difficoltà che Rossini dovette affrontare, prima fra tutte la malattia della moglie Isabella Colbran, la temporanea indisponibilità per gravidanza della cantante Laure Cinti Damoreau cui era destinato il ruolo di Mathilde e non ultimo le continue obiezioni e richieste d’intervento, soprattutto sul quarto atto (definito lungo e macchinoso), da parte della Jury de lecture, un comitato formato da esponenti esperti dell’τpéra. Già per la prima Rossini dovette fare dei tagli a causa delle enormi dimensioni: con tutti gli entr’actes, le pause e i balletti lo spettacolo dura infatti ben sei ore. Poco dopo, i tagli divennero la regola in tutte le produzioni, che venivano gestiti dagli interpreti di loro iniziativa. L’opera andò in scena soltanto l’anno successivo, il 3 agosto 1829, al Théâtre de l’τpéra di Parigi (Salle Le Peletier), sotto la direzione del celebre Habeneck e con un trio di solisti prestigiosi: il baritono Henry Bernard Dabadie (Guglielmo), il tenore Adolphe Nourrit (Arnoldo), e il soprano Laure Cinti Damoreau (Matilde). L’accoglienza del pubblico parigino fu però fredda, deluso in quanto si aspettava le caratteristiche tipiche delle precedenti opere rossiniane: i famosi “crescendo”, i pezzi di bravura, etc. Rispetto alle precedenti opere, il Tell rappresentava infatti un’anticipazione dell’opera romantica, con tratti epici e una grande rievocazione della natura e del paesaggio montano che fanno da sfondo alla vicenda. Hector Berlioz, che non fu proprio un estimatore di Rossini, ne rimase invece positivamente colpito. Solo nel tempo l’opera conquistò gradualmente anche il favore del grande pubblico per cui rimase in repertorio per lungo tempo.

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[I tre protagonisti della prima del Guglielmo Tell. Da sin: Henry Bernard Dabadie, Adolphe Nourrit, Laure Cinti Damoreau] La prima italiana si diede a Lucca il 17 settembre 1831, nella traduzione tutt’altro che fedele di Calisto Bassi. La ricezione in Italia fu un’altra cosa, naturalmente, perché, a differenza della Francia, non solo gli stranieri occupanti c’erano, ma in una parte non piccola della penisola si trattava proprio degli austriaci. σon a caso in molte delle rappresentazioni del Tell in Italia s’introdussero dei cambiamenti volti a eliminare i riferimenti agli Asburgo, anche a costo di cambiar nome, ambientazione e collocazione temporale. [Locandina della rappresentazione al Teatro La Fenice di venezia il 26 Luglio 1856] Non stupisce ad esempio che le parole liberté o patrie

fossero

per

lo

più

espunte.

Nel finale «A nos accens religieux, / liberté, redescends des cieux, / et que ton règne recommence!», detto da Tell e poi da tutti, diventa un alquanto più generico «Quel contento che in me sento / non può l’anima spiegar». σella versione francese la parola liberté, e l’indimenticabile melodia alla quale è associata, risuona, anzi risplende, tante e tante volte, vagando attraverso svariate tonalità e passando di bocca in bocca: un simbolo di come tutti diano il proprio contributo alla comunità. [123]


CARATTERISTICHE DELL’OPERA Guillaume Tell, con le sue azioni coreografiche, i suoi momenti di danza e le scene grandiose, sarebbe diventato il prototipo di quello sfarzoso genere operistico, il Grand-Opéra, verso cui il teatro d’opera francese avanzava lasciandosi alle spalle la lunga fortuna della Tragédie lyrique rimasta fino a quel tempo in auge sin dalla sua invenzione sul finire del Seicento per merito di Jean-Baptiste Lully. In Guglielmo Tell si assiste ad una perfetta compenetrazione stile italiano e francese, con felice commistione di lirismo e declamazione, di belcanto e di immediatezza espressiva; a questi aspetti bisogna aggiungere l’integrazione di melodie provenienti dal repertorio popolare della musica svizzera. Dall’opera italiana deriva la fedeltà di Rossini ai “numeri chiusi”, ovvero a quella galleria di arie, duetti e concertanti (pezzi di insieme a più voci) che trapassano gli uni negli altri tramite un declamato che funge da collante. τltre al declamato, dell’opera francese derivano l’inserimento di ampie scene di danza (che servivano ad accrescere il clima drammatico) e uno spazio di primo piano per il coro, diventato un personaggio a sé stante, centrale, quasi sempre presente.

[Bozzetti per i costumi della prima assoluta (Mathilde, Arnold, Fürst)

Man mano che l’opera evolve, il coro non perde mai la sua importanza, regalando via via momenti di straordinario effetto evocativo, come l’originale Finale II costruito attorno a tre diversi gruppi corali che rappresentano i tre cantoni svizzeri di Unterwald, Schwyz e Uri (cui il villaggio di Bürglen appartiene) che arrivano attraverso boschi, montagne e fiumi per prestare il loro solenne giuramento. Altrettanto imponente ed evocativo è il Finale ultimo, «un paesaggio grandioso, rarefatto, di luci e d’acque», una sublime architettura costruita su una semplice frase orchestrale, che, modulando di tonalità in tonalità, si erge al massimo della solennità sulle parole. L’ultima caratteristica è l’orchestra: raffinata, complessa, molto fitta, capace di esprimere un effetto di solidità anche quando è ridotta a pochi elementi, con la valorizzazione di alcuni strumenti (spesso in secondo piano) quali i violoncelli, il corno inglese, i corni, le arpe.

L’Ouverture La fama del Guglielmo Tell è legata anche alla celeberrima Ouverture, profondamente originale e da molti paragonata ad un poema sinfonico in quattro parti. Può con sicurezza essere considerata un vero manifesto dell’integrazione tra la musicalità italiana e quella francese. [124]


Contrariamente alle sinfonie ed ouvertures precedenti, generalmente bipartite con un’introduzione lenta (o andante) e un Allegro in forma sonata senza sviluppo, l’τuverture è qui intimamente connessa all’opera: vi ritroviamo la dolorosa condizione di servaggio del popolo svizzero all’inizio (la celebre melodia del violoncello), la terribilità (la tempesta che si scatenerà nel finale) e il potere consolatorio della natura (l’idillio pastorale, con una cantilena popolare svizzera e la presenza del corno inglese in dialogo con il flauto), infine la celeberrima galoppata (il senso di rivalsa e di vittoria contro gli occupanti): una delle tante musiche rossiniane che una volta ascoltate non si dimenticano più.

Il “do in petto” – la nascita del tenore eroico Il Guglielmo Tell ha assunto una notevole importanza per l’evoluzione vocale del registro di tenore. Il tenore della prima rappresentazione era Adolphe Nourrit, il miglior tenore del suo tempo e indiscutibilmente un grande cantante con voce molto chiara e non priva di ampiezza. Aveva problemi con questo ruolo e in alcune parti dal tono più acuto esibiva un falsettone che aveva un timbro quasi femmineo e dolce, in contrasto con il carattere veemente ed eroico del personaggio. Otto anni dopo il suo rivale Gilbert Duprez [nella foto] cantò in quest’opera il primo do alto documentato dalla voce piena di petto (“do in petto”) invece della voce in falsetto. Rossini rimase scioccato e disgustato. Paragonò il tono “allo stridore di un cappone a cui è stata tagliata la gola”. Dopo questo evento però nulla fu più come prima, il pubblico si entusiasmò, l’opera rossiniana aumentò enormemente la propria popolarità e la generazione successiva di compositori ribaltò lo stile di canto prevalente: era nato il tenore eroico con la voce squillante. Anche Nourrit andò in Italia per imparare il nuovo stile, ma non andò bene: quando sua moglie andò a trovarlo in Italia, scoprì che aveva rovinato la sua voce.

L’Addio di Rossini al Teatro Come è noto, Guglielmo Tell è l'ultima opera composta dal 37enne Gioachino Rossini che, in seguito, si dedicherà solo alla musica da camera, a divertissement che chiamerà Péchés de vieillesse, alla musica sacra o a composizioni musicali non destinate al teatro. Più volte ci si è interrogati sul motivo di questo silenzio. Fu la sua fragile salute che lo fece soffrire di depressione, fu l’esaurimento creativo dopo anni di eccessiva produttività, o pensò che la sua musica non fosse più adatta ai tempi?

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Inoltre, la rivoluzione di luglio, che nel 1830 sovvertì in Francia l’ordine costituito, annullerà gli impegni assunti dal governo precedente, troncando ogni rapporto col musicista; e quando, calmatesi le acque, sarebbe stato possibile allacciare i contatti con la nuova amministrazione, l’τpéra era ormai divenuto il regno del nuovo astro emergente, Giacomo Meyerbeer. E poi, anno dopo anno, stavano cambiando radicalmente lo stile di canto, i soggetti melodrammatici stessi, nonché la strada imboccata dalla composizione operistica: persa l’occasione del contratto in esclusiva con Parigi, Rossini si sentiva sempre più lontano dal nuovo corso che pure egli stesso aveva contribuito ad avviare.

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GUIDA ALL’ASCOLTO

OUVERTURE E’ una delle più belle ouvertures di Rossini, in cui possiamo trovare momenti di calma e di serenità che contrastano con momenti più violenti o di grande foga impetuosa. L’τuverture inizia con un breve Andante di grande lirismo affidato ai violoncelli che procedono divisi, cioè non trattati come un’unica massa strumentale, contrappuntati qua e là da contrabbassi e timpani: siamo subito immessi in un’atmosfera bucolica di grande purezza melodica, che può evocare l’inizio di una nuova giornata nella calma alpina delle montagne svizzere. Terminata questa prima sezione, ne inizia una seconda, con un Allegro che preannuncia l’avvicinarsi della tempesta, con i violini e i flauti in primo piano, mentre violoncelli e contrabbassi tacciono. All’inizio una rapida figurazione di violini secondi e viole, in pianissimo è alternata ad una figurazione melodico-ritmica di tre note dei legni (le prime gocce di pioggia) e ad un tremolo degli archi acuti (le prime folate di vento). Questo breve episodio si ripete tre volte in modo praticamente invariato. La quarta volta Rossini inserisce un crescendo che lascia percepire tutta la minaccia della tempesta che incombe su questo clima sereno. [Enrico Cicarelli: La tempesta] L’orchestra

irrompe

in

fortissimo

con

l’esplosione del temporale, con il fragore degli ottoni che ne sottolinea la veemenza, e il martellante rullo dei timpani. Inizia quindi un lento decrescendo strumentale e di volume, tornano le tre note dei legni sui tremoli degli archi, che ci riportano al pianissimo dell’inizio di questa seconda parte. Il flauto da solo introduce la successiva sezione caratterizzata da un assolo (un nuovo Andante) del corno inglese, strumento bucolico per antonomasia, contrappuntato dai fiati e dal pizzicato degli archi , che canta con fervore il celebre tema del Ranz des vaches, proprio dei pastori delle Alpi, che esprime la dolcezza di una serenità ritrovata dopo la tempesta. Il corno si alterna con il flauto nel proporre una melodia ricca di arabeschi, finché i due strumenti si sovrappongono fino alla fine di questa terza parte; il flauto ora ha volatine veloci di note staccate (gli uccelli che tornano a cantare dopo la tempesta). Si

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sente anche il triangolo che suona piano, quasi a richiamare le campanelle che hanno i greggi che si trovano in montagna. Squilli di tromba, accompagnati dall’eco montanaro dei corni, interrompono bruscamente questa atmosfera bucolica e rafforzati dalle percussioni inizia l’Allegro vivace, celeberrima cavalcata (o galop) orchestrale, che annuncia l’arrivo degli svizzeri per la loro riscossa contro gli invasori austriaci. Un piano arriva inaspettatamente: tutto si calma anche se i violini, su un accompagnamento discreto dei fiati continuano trepidanti e, portandosi dietro il resto dell’orchestra, ripropongono la cavalcata. Con uno Stringendo finale il tempo accelera: gli svizzeri hanno vinto e l’orchestra esplode per la gioia, chiudendo con foga una delle pagine più eseguite di Rossini.

ATTO I Scena I. La scena è il villaggio alpino di Burglen, nel Cantone di Uri. L’epoca è il Trecento, quando sia quel cantone sia quelli vicini di Schwitz e Unterwalden si trovano sotto la dominazione dell’impero asburgico. A destra un torrente che va a perdersi sulla sinistra in mezzo alle rocce, a sinistra la casa di Guglielmo assieme ad altre capanne. In lontananza le alte montagne della Svizzera. Una piccola folla di pescatori, cacciatori e abitanti del villaggio si prepara a festeggiare le nozze di tre coppie di pastori. Il primo atto si apre con frasi orchestrali in antifona, quasi ad imitazione degli effetti d’eco dei canti di montagna, cui segue una breve frase melodica tipica rossiniana con volute ora brillanti, ora malinconiche. Inizia poi il coro, che esprime la gioia della triplice festa di nozze che si sta preparando, appena turbata da una nota di dolore. Accompagnata dall’ arpa e inframezzata da brevi interventi dei fiati, un pescatore nella sua barca intona (nel ritmo ternario che richiama l’ondeggiare di un’imbarcazione) una barcarola popolare nei toni ma molto raffinata nell’ordito melodico. CORO. È il ciel sereno, Seren il giorno, tutto d'intorno parla d'amor. L'eco giuliva di questa riva ripeta il giubilo de' nostri cor. Coll'opre ognun poi presti omaggio del mondo ognor al Creator. PESCATORE. Il piccol legno ascendi, o timida donzella, deh, vieni, e pago rendi il tenero mio cor. Io lascio il lido, o Lisa; non sii da me divisa; il ciel sereno è pegno a noi d'un grato dì. […] Gentil come la rosa d'un bel mattin nascente, potrai d'un ciel fremente placar, ben mio, l'orror. Ed al tuo fianco assiso novella vita io spero; proteggerà il mistero le gioie dell'amor.

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In questo contesto interviene, a mezza voce, Guglielmo - la cui inquietudine è accentuata dal tremito degli archi e dal suono dei corni - che innalza un lamento per l’oppressione in cui vive la Svizzera esercita dal governatore asburgico Gessler e dai suoi soldati.

[Guglielmo Tell e Gessler - Archivio storico Ricordi] Le parole di Guglielmo risuonano ancora durante la ripresa della serenata, sulla quale intervengono anche le voci della moglie Edwige e del figlio Jemmy, i quali già presagiscono come i drammi del paese tormentato non rimarranno estranei alle feste di nozze che si stanno preparando. Si ode in lontananza il “ranz des vàches”, il richiamo delle vacche, motivo che si rifà alle melodie della tradizione svizzera.Il precipitoso irrompere dell’orchestra (che interrompe il ranz) e l’intervento festoso e spensierato del coro annunciano le feste nuziali. Scena II. Giunge Melchatal, saggio pastore e venerato membro della comunità. Edwige e tutta comunità lo invitano a celebrare lui le nozze, e lui accetta con gioia. Tutti esultano e decantano le gioie dell’amore e del matrimonio. Alla fine il Coro si allontana. Scena III. Guglielmo offre ospitalità a Melchtal a casa propria, la dimora dei suoi avi, dove vive felice con il figlio. Vedendo il figlio Arnoldo, non ancora sposato, l’anziano pastore lo incoraggia a cercare a sua volta le gioie del matrimonio. [129]


Escono tutti fuorché Arnoldo. Scena IV. Arnoldo, rimasto solo, medita sulle parole del padre: egli non vuole sposarsi perché innamorato di Matilde, una principessa dell’odiata casa asburgica (e perciò nemica) che fa parte della corte del balivo Gessler e che egli ha salvato da una valanga. Da quel momento se ne è innamorato perdutamente, amore turbato dalla differenza di rango e per la vicinanza di Matilde a chi opprime la Svizzera. Si ode un lontano suono di caccia, egli fa per allontanarsi ma si imbatte in Guglielmo. [Arnoldo – Archivio storico Ricordi] Scena V. Il duetto fra Guglielmo e Arnoldo è introdotto da un dialogo in stile declamato di notevole intensità drammatica. Il conflitto da due amori, quello per la patria e quello per Matilde, si esprime simbolicamente nella tensione del canto di Arnoldo, che ripete la stessa frase (“Ah Matilde, io t’amo, è vero”), proiettandola verso un registro più acuto e arricchendola con fioriture espressive. E’ forte il contrasto con la voce di Guglielmo, che è bassa, ferma, senza alcun cedimento. Guglielmo, visto il turbamento negli occhi di Arnoldo, lo invita a impegnarsi nella lotta per la patria. Arnoldo promette di farlo anche se gli costerà l’amore per la principessa. Scena VI. Edvige introduce i cori che formano il corteo nunziale. Le tre coppie di sposi avanzano e si inginocchiano davanti a Melchthal, che benedice le unioni. Accanto al coro risalta la voce di Arnoldo, che commenta con emozione mista a struggimento il coronarsi di un momento di felicità. La festa è interrotta bruscamente dal suono dei corni di caccia che si avvicinano e che annunciano l’arrivo di Gessler e i suoi soldati. Arnoldo si allontana nella speranza di vedere Matilde. Scena VII. Il dialogo declamato tra Guglielmo e la sua sposa Edvige indica tutta l’inquietudine del personaggio che vede arrivare il momento della resa dei conti contro l’oppressore. Guglielmo impreca contro il tiranno Gessler, ma si accorge dell’assenza di Arnoldo, del quale ignora il segreto del suo amore. Invita Edvige a dar corso alla festa nunziale mentre lui andrà a cercarlo. [130]


Scena VIII. Il coro intona un canto bellissimo, gioioso ma pieno di accenti malinconici. Vi riaffiora il tipico stile rossiniano: un accompagnamento serrato e leggero degli archi, con un accenno al caratteristico crescendo.

TUTTI. Cinto il crine di bei fiori, tra gli amori scendi, Imen. Teco alfine pace scenda e ne renda lieti appien: per te solo tace il duolo, per te lieto vive il cor. Muta resta la tempesta nelle gioie dell'amor. Qualche calma spera l'alma nell'ebbrezza del piacer. La prima scena di danza dell’opera è un “passo a sei” di grande eleganza in cui confluiscono le ultime influenze italiane e le nascenti istanze del grand-opéra ottocentesco. Nella parte centrale i fiati intonano un tema di chiaro sapore popolare, ispirato ad un tema della tradizione svizzera; nel finale prevale lo stile italiano più frenetico. Mentre il coro canta si eseguono danze e da un torneo di tiro con l'arco, dove guadagna la vittoria il giovane Tell, che viene festeggiato dal coro con un motivo popolare. Scena IX. Il clima di giubilo è interrotto dall’arrivo del pastore Leutoldo, che porta con sé una scure insanguinata. Egli racconta di avere difeso la propria figlia da un tentativo di violenza da parte di un soldato di Gessler e nell’azione ha ucciso l’uomo. τra è in fuga, inseguito dai soldati del governatore; chiede al pescatore di traghettarlo sull’altra sponda del torrente. Scena X. Fuoriscena si sente il coro dei soldati asburgici. Guglielmo esorta il pescatore a salvare il pastore ma questi ritiene l’impresa troppo rischiosa ed oppone un rifiuto. Il declamato rossiniano diventa qui eccezionalmente flessibile, drammatico, l’orchestra non solo lo sostiene, ma lo lega alle frasi del coro, in un tessuto musicale stringente e privo di pause.

[Scala di Milano. 7 dicembre 1988] Guglielmo decide quindi di salire lui stesso sulla barca e di traghettare il pastore dall’altra parte del lago.

Scena XI. Questo finale del I atto è stato costruito da Rossini su un modello italiano rigorosamente suddiviso in quattro sezioni ben distinte: due pezzi d’insieme, un andantino centrale e una stretta conclusiva. [131]


All’interno di questa struttura egli importa un carattere francese dato dall’ampiezza della melodia il cui scorrere appare incerto e non perentorio. I soldati comandati da Rodolfo vedono la barca allontanarsi e approdare alla sponda opposta, circondano gli svizzeri e chiedono, irati, il nome di chi ha messo in salvo Leutoldo.

CORO DI SVIZZERI (inginocchiati e volti verso il battello che vedesi lottar coll'onde). Nume pietoso, Dio di bontà! Il suo riposo da te verrà. Salvar clemente tu puoi, Signor, dell'innocente il difensor. RODOLFO e CORO DI SOLDATI (da lontano). Di morte e scempio è giunta l'ora. Sciagura all'empio! Convien che mora! Questo Andantino è un vero capolavoro espressivo dell’intera produzione rossiniana. Le voci di Rodolfo, di Melchthal, Jemmy ed Edwige si combinano in due cori in un crescendo di tensione. Melchthal orgogliosamente annuncia che nessuno parlerà (e questo andantino assume un carattere eroico). La stretta conclusiva vede Rodolfo ordinare ai suoi soldati di arrestare Melchthal e di incendiare il villaggio.

RODOLFO. Ah! tremate. Il reo svelate. MELCHTHAL. Sciagurato! questo suolo non è suol di delator! RODOLFO. Quel ribaldo circondate! E sia tratto al mio signor. (Alcuni soldati s'impadroniscono di Melchthal; gli altri, ricevuto l'ordine da Rodolfo, si dispongono ad obbedirlo invadendo le capanne all'intorno.) Su via, struggete, tutto incendete, orma non resti d'abitator. SOLDATI. Sì, sì, struggiamo, tutto incendiamo, orma non resti d'abitator. Strage e rovina sia la lor sorte. Lampo di morte è il suo furor. JEMMY. Sì, si, struggete, tutto incendete, ma in ciel v'ha un Nume vendicator. Te forse un giorno fa à pe duto l’a o te uto del ge ito . EDWIGE, MELCHTHAL, PESCATORE e CORO DI SVIZZERI. Sì, si, struggete, tutto incendete, ma in ciel v'ha un Nume vendicator. Verrà un gagliardo, il di cui dardo saprà punire un oppressor.

ATTO II Il secondo atto è stato considerato da sempre come il più riuscito dell’opera, tanto che a volte viene eseguito in teatro da solo. I giudizi dei colleghi musicali, da Berlioz a Donizetti, erano concordi: Rossini era riuscito qui ad infondere una freschezza di matrice italiana alla forma retorica del canto francese, rispettato nei suoi canoni eppure trasfigurato a un livello di credibilità e di efficacia prima sconosciuto. Scena I. La scena si apre in una valle profonda fra le alte montagne del Rütil. Si scorge sulla sinistra una parte del lago dei Quattro Cantoni. In fondo il villaggio di Brunnen. Scende la notte. E’ terminata una [132]


battuta di caccia e cacciatori e pastori ritornano alle loro case, mentre intorno si sentono ancora i corni di Gessler.

CORO. Qual silvestre metro intorno si congiunge al nostro corno! Mesce il daino il suon morente al fragore del torrente. Ed allor ch'estinto resta chi la gioia può imitar? Il furor della tempesta può quel giubilo eguagliar.

Si ode il suono d'una campana, quindi la cornamusa dei boari svizzeri. Scena II. Giunge Matilde. Ella sa che Arnoldo l’ha seguita e non può essere lontano. Anch’ella innamorata invoca pace e segretezza per quell’amore. L’aria, uno dei pochi passaggi solistici del Guglielmo Tell viene preceduta da un ampio, magnifico declamato.

MATILDE. S'allontanano alfine! Io sperai rivederlo, e il cor non m'ha ingannata, ei mi seguìa... lontano esser non puote... Io tremo... ohimè!.. se qui venisse mai! Onde l'arcano sentimento estremo di cui nutro l'ardor, ch'amo fors'anco! Arnoldo! Arnoldo! Ah! Sei pur tu ch'io bramo. Semplice abitator di questi campi, di questi monti caro orgoglio e speme, sei tu sol che incanti il mio pensiero, che il mio timor cagioni. Oh! almen ch'io possa confessarlo a me stessa... Io t'amo, Arnoldo! Tu i giorni miei salvasti, e l'amor più possente in me destasti. Selva opaca, deserta brughiera, qual piacer la tua vista mi dà. Sovra i monti ove il turbine impera alla calma il mio cor s'aprirà. L'eco sol le mie pene udirà. Tu, bell'astro, al cui dolce riflesso il mio passo vagante sen va, tu m'addita ove Arnoldo s'aggira; lui solo il mio cuor s'aprirà, esso sol le mie pene udirà. [Matilde – Archivio storico Ricordi] Scena III. Giunge Arnoldo. Il duetto con Matilde è uno dei momenti dell’opera in cui meglio si fondono i caratteri francesi e italiani: il declamato e la melodia fluente rendono nitidamente percepibili le sfumature emotive dei due amanti. Matilde confessa all’uomo il suo sentimento e lo invita a combattere per Gessler. Arnoldo promette di conquistare la gloria sul campo di battaglia.

MATILDE. Arresta. Tutto apprendi, o sventurato, il segreto del mio cor. Per te solo fu piagato, per te palpita d'amor. ARNOLDO. Se tu m'ami, se all'affetto puoi risponder del mio cor, una speme avere in petto io potrò di pace ancor. Ma tra noi qual mai distanza, quanti ostacoli vi sono! MATILDE. Ah, non perder la speranza: tutto il ciel ti dette in dono. [133]


ARNOLDO. Cari, onesti e dolci accenti! Di piacer colmate il cor. MATILDE. (Posso amarlo. Quai momenti proverò di gioia e amor!). Riedi al campo della gloria nuovi allori a conquistar... Potrai sol colla vittoria la mia destra meritar. ARNOLDO. Riedo al campo della gloria nuovi allori a meritar. Quando in premio di vittoria cesserò di palpitar? MATILDE e ARNOLDO. Il core che t'ama sol cerca, sol brama di viver con te. Ah! questa speranza, che sola m'avanza fia sempre con me. I due si danno l’appuntamento per l’indomani. Scena IV. Mentre Matilde si allontana, Arnoldo è sorpreso da Guglielmo e da Gualtiero. Guglielmo rimprovera al giovane il disegno di passare al nemico.

GUGLIELMO. Allor che scorre de' forti il sangue! Che tutto langue, che tutto è orror, La spada impugna, Gessler difendi, la vita splendi pel traditor. ARNOLDO. Al campo volo, onor m'attende, ardir m'accende, m'accende amor. Desìo di gloria m'invita all'armi: è di vittoria ardente il cor. Gualtiero gli svela che suo padre è stato ucciso dagli sgherri di Gessler. Arnoldo, colpito dalla tragedia, ritorna sulla sua decisione e i suoi sentimenti mutano dall’amore per Matilde al dolore filiale e al desiderio di vendetta. Arnoldo giura fede alla causa. La musica, finora lenta, si accende in un tempestoso inno di battaglia:

ARNOLDO, GUGLIELMO e GUALTIERO. O libertade o morte. La gloria infiammi i nostri petti, il ciel propizio con noi cospira; del padre l'ombra il cor c'ispira, chiede vendetta e non dolor. Nel suo destino ei fortunato con la sua morte par che ci dica che del martirio il serto è dato a coronare tanta virtù. Scene V- VI- VII Uno dopo l’altro, i cori degli abitanti di Unterwalden, di Schwiz e di Uri entrano in scena a unire nella rivolta i Cantoni svizzeri intorno ai quali in futuro si svilupperà la Confederazione elvetica. Ciascuno viene trattato in maniera musicalmente differente, con suoni caratteristici che distinguono chi viene attraverso i boschi, chi attraverso le montagne, chi per il lago: dai richiami dei corni di passa al suono ondeggiante dei violoncelli.

CORO (Abitanti d'Unterwalden). Con ardor richiese il cor di sfidar, di superar la distanza ed i perigli, e ogni cor con ardor brama vincere o morir. Il vigor de' tuoi consigli nuovo in noi desta ardir. […] CORO (Abitanti di Schwitz). Domo, o ciel, da uno straniero, a' suoi mali il forte indura, e coperto dal mistero, quivi è tratto a lagrimar. Qui sol può la sua sciagura col suo pianto mitigar. […] [134]


CORO (Abitanti d'Uri). Guglielmo, sol per te Tre popoli s'unîr, Il barbaro a punir ciascuno è presto. Parla, e il tuo dir sarà di stimolo al codardo; e come acceso dardo il core infiammerà. La musica di questo finale d’atto diviene sempre più spavalda, passando dal concitato sottovoce al tono robusto del giuramento conclusivo; musicalmente i corni con un ritmo pulsante ripreso anche degli archi contrappuntano la trama melodica della chiusa.

TUTTI. Giuriam, giuriamo pei nostri danni, per gli avi nostri, e' nostri affanni, al Dio de' regi e de' pastor, di tutti abbatter gli empi oppressor. Se qualche vil v'ha mai tra noi, lo privi il sol de' raggi suoi, non oda il ciel la sua preghiera, e giunto il fin di sua carriera, gli neghi tomba la terra ancor. ARNOLDO. Già sorge il dì... GUALTIERO. Segnal per noi d'allarme. GUGLIELMO. Di vittoria. GUALTIERO. Qual grido orrispondervi deve? ARNOLDO. All'armi! GUGLIELMO e GUALTIERO. All'armi! TUTTI. All'armi!

ATTO III Scena I. Vicino al castello di Ardof, all’interno di una vecchia cappella in rovina, Matilde e Arnoldo si incontrano ancora una volta, ma stavolta per dirsi addio. Arnoldo rivela a Matilde che su di lui pesa la responsabilità di vendicare il padre ucciso da Gessler e che per questo rinuncia all’amore. Matilde quindi intona una lunga e dolorosa aria in stile italiano, ricco di fioriture belcantistiche:

MATILDE. Ei stesso? Ah! se privo di speme è l'amore, non mi resta che pianto e terrore, infelice per sempre sarò. Un delitto a me toglie il mio bene, fa più acerbe le immense mie pene, né il suo duol confortar io potrò. Ah! che invan provocando il destino a te salda serbai la mia fé; ché se tu non mi sei più vicino sarà morte la vita per me. E per colmo di duol così rio a te un padre il delitto rapi; né divider, piangendo, poss'io quel destin che te stesso colpì. Ma in onta a un fato barbaro per sempre il mesto cor conserverà l'imagine del mio liberator. I due si separano. Scena II. La piazza del mercato di Aldorf, nello sfondo si vede il castello di Gessler. Alcuni lavoranti sono occupati a costruire un palco per il seguito di Gessler. Altri piantano un palo sulla cui cima è stato posto il cappello di Gessler, simbolo del potere asburgico.

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La scena di festa che si sta preparando è un gesto di spregio che Gessler intende rivolgere al patriottismo degli svizzeri, un’affermazione autoritaria di potere sottolineata dalla presenza degli strumenti della fanfara militare. Tutti gli svizzeri devono inchinarsi dinanzi al palo.

CORO DI SOLDATI. Gloria al poter supremo, gloria a Gessler, terror del mondo inter. Nella sua rabbia estrema ei lancia l'anatema sul popolo e il guerrier. Si danza e si canta, i soldati obbligano dapprima un uomo e due donne tirolesi a ballare al suono delle voci sole, poi forzano tutte le donne a ballar, mentre gli Svizzeri mostrano con cenni evidenti la loro indignazione per tale violenza Rossini, nella prima scena di danza dell’atto III, musica una sorte di suite, un passo a tre, dove sono presenti e mischiati tra loro motivi popolari alpine e armonie mediterranee, quindi lascia spazio ad un accompagnamento a sole voci, un coretto maschile e uno femminile in contrappunto. La parte corale torna nel secondo episodio strumentale, caratterizzato da un’orchestra leggera ma da una scrittura molto fitta, dominata dal suono dei fiati più leggeri e dagli archi. Nel terzo intervento strumentale, ricompare la musica di tipo tirolese. A chiudere questa scena un’ulteriore ripresa del coro, stavolta però con un trascinante sostegno orchestrale, ed una seconda scena di danza, un “passo di soldati” eccezionalmente brillante, imprevedibile e trascinante.

[Balletto delle donne svizzere - Teat o dell’Ope a di Ro a, 1941]

Scena III. La festa viene interrotta dall’arresto di Guglielmo che si è rifiutato di inchinarsi alle insegne: l’uomo viene trascinato al centro della scena con il figlio.

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[Ernesto Dominici (Gessler) – Gino Bechi (Guglielmo Tell) – Teat o dell’Ope a di Roma, 1941] Rodolfo lo riconosce come colui che ha fatto fuggire Leutoldo. Gessler, furioso, arresta anche Jemmy e condanna Guglielmo a colpire con l’arco un pomo posto sul capo del figlio. In cambio avrà la libertà per sé e il figlio. La scena è risolta musicalmente con un declamato incisivo e con un bellissimo quartetto di voci con gli interventi del coro che ne rafforzano l’azione drammatica.

Guglielmo si inginocchia davanti a Gessler e lo implora di risparmiare al figlio questa prova mortale ma Gesser è risoluto. L’accompagnamento orchestrale è qui secco, incisivo, ma quando Guglielmo cede al ricatto e pronuncia “Ai tuoi piedi prostrato sono”, la melodia si distende e gli archi hanno note più lunghe, lugubri, quasi un andamento da corale. Guglielmo riacquista la sua prestanza e si rivolge al figlio con estrema dolcezza:

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GUGLIELMO. Resta immobile, e vêr la terra inchina un ginocchio a pregar. Invoca Iddio, ché, sol per suo favore, al sen tornar potrai del genitore. Così riman col guardo fiso al ciel. Tu per amore vacillar potresti vedendo contro te lanciar l'acuto stral, un moto sol potrebbe la vita a noi costar. Jemmy, pensa a tua madre. Ella ci attende insiem. Wagner elogiò questa scena definendola un modello di declamato musicale: “Accentuando ogni parola e venendo sostenuto dai repiri carezzevoli dei violoncelli, ha raggiunto qui le più alte vette dell’espressione lirica”. Il violoncello è qui in funzione di solista, eco della pagina iniziale dell’τuverture. Vien posto il pomo sul capo di Jemmy; Guglielmo guarda tutta la piazza e poi fissa Gessler portando la mano dove ha celato la seconda freccia, prende la mira, scocca e centra in pieno il frutto. [Metropolitan Opera. New York. 2016] La scena del tiro con l’arco è musicalmente semplicissima: brevi pizzicati degli archi cui rispondono accordi dei fiati, poi una concitazione che segue la traiettoria della freccia e l’esplosione di giubilo degli svizzeri per l’impresa di Guglielmo. Gessler però ordina che Guglielmo e il figlio vengano comunque arrestati, dopo aver scoperto che Guglielmo, nel caso avesse ucciso il figlio, aveva preparato una freccia mortale anche per lui. Guglielmo viene tratto in catene. Scena IV. Il finale del III atto inizia con un ampio quintetto al quale il coro non solo si aggiunge, ma a tratti lo sostituisce. Matilde, rivolgendosi ai soldati e a Gessler, chiede ed ottiene che Jemmy sia salvato, ma il giovane è disperato per la sorte del padre. Gessler e Rodolfo tramano per uccidere Guglielmo e decidono di portarlo su una barca verso il lago dove verrà condotto nel quale verrà giustiziato, lasciato in balia di animali che lo uccideranno. Gli Svizzeri osservano timorosi quanto sta succedendo e invano chiedono la grazia per il loro capo. Guglielmo lancia il suo anatema contro Gessler, ma costui fa trascinare via Guglielmo e fa disperdere con i suoi soldati il popolo.

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ATTO IV Scena I. La scena è la piazza davanti all’abitazione del vecchio Melchthal. Arnoldo è solo, si aggira sconsolato voglioso di vendetta.

ARNOLDO. Non mi lasciare, o speme di vendetta. Guglielmo è fra catene, ed impaziente io di pugnar ora l'istante affretto. In questo dolce asilo... qual silenzio! Andiamo... io non ascolto che il suono de' miei passi. . . Oh! vada in bando il segreto terror... entriam... (fermandosi dopo aver fatto alcuni passi per penetrare nelle stanze interne) Oh Dio! Sul limitar malgrado mio m'arresto... Fu spento il padre mio e in vita io resto! O muto asil del pianto dov'io sortiva il dì: ieri felice... ahi, quanto! Oggi fatal così! Invano il padre io chiamo: egli non m'ode più. Fuggir quel tetto io bramo che caro un dì mi fu. Scena II. Arrivano gruppi di Svizzeri che reclamano la possibilità di battersi ed è proprio Arnoldo a darne loro la possibilità, rivelando il nascondiglio di una riserva d’armi, ed unendosi a loro. Lo squillo delle trombe separa il coro dal canto di guerra di Arnoldo:

ARNOLDO. Corriam, voliam, s'affretti lo scempio di quel vile che su noi trionfò. Sì, vendetta dell'empio facciamo: il sentiero additarvi saprò. Ah! venite; delusa la speme renderem di chi vili ne brama. Gloria, onore, vendetta ci chiama, e Guglielmo per noi non morrà. CORO. Sì, vendetta, delusa la speme d'ogni tristo per noi resterà. Scene III e IV. Il cambio di scena trasferisce l’azione nell’ ultimo luogo dell’opera, un luogo tipicamente svizzero nei pressi della casa di Guglielmo, costruita su una rupe. Si intravvede il lago di Waldstaetten (il lago dei Quattro Cantoni). Alcuni scogli circondano il lago. Sono in scena Edwige, disperata per la sorte del marito e del figlio, assieme ad alcune donne svizzere. La donna vorrebbe recarsi da Gessler per invocare la grazia. All’improvviso irrompe nella scena Jemmy condotto a lei da Matilde. Questo terzetto viene scritto da Rossini come una pausa di respiro che sembra sospendere l’azione del dramma, e suonato solo dai legni e dagli ottoni.

MATILDE. Salvo da orribil nembo a te ritorno il figlio! Di bella pace in grembo ol giungerà il periglio.Matilde a voi predice un termine al dolor. Con me la speme il dice, la speme ond'arde il cor. EDWIGE e JEMMY. Vivrem di pace in grembo. N'è il labbro suo presago; del ciel, cessato il nembo, essa è per noi l'imago; e s'ella ne predice un termine al dolor, la speme in essa dice col suono dell'amor.

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[Jemmy ed Edwige – Archivio storico Ricordi] Matilde dichiara di volersi offrire come ostaggio in cambio della liberazione di Guglielmo, ma l’uomo è già in barca sul lago verso il suo supplizio, seguito da un’altra imbarcazione con a boro Gessler e altri suoi uomini. Comincia ad oscurarsi il cielo. Fedele a quanto dettatogli dal padre, Jemmy incendia la casa del padre (quale segnale dell’inizio della rivolta) e porta le sue armi. Si scatena una tremenda bufera. Scena V. Edwige si inginocchia e prega Dio. Anche Matilde e le donne si inginocchiano e si uniscono nella preghiera.

EDWIGE. Sopra l'ali del vento Morte passeggia... Ah! il mio Guglielmo è spento. Tu che l'appoggio del debol sei, ascolta, o Cielo i voti miei! Se il mio Guglielmo tu non mi rendi, se nol difendi, perduto io l'ho. Deh! frangi il giogo che ci fa oppressi, punisci il fallo negli empi stessi. EDWIGE, MATILDE e CORO. Salva Guglielmo da fero artiglio, dal suo periglio salvalo, o ciel. Scena VI. Guglielmo viene avvistato da Leutoldo e tutti accorrono verso di lui. Nel lago imperversa una furiosa tempesta che Rossini scatena in orchestra con sapienza persino maggiore che nell’τuverture. Sono infatti il dialogo fra strumenti appartenenti a famiglie diverse (archi e fiati), l’uso accorto del [140]


contrappunto, gli effetti dinamici dell’intensificazione verso il piano o verso il forte, una presenza delle percussioni precisa e misurata, con un solo passaggio in primo piano, a rendere notevole questa pagina musicale. Guglielmo dopo aver combattuto con le onde, avvicina la barca alla spiaggia, balza sopra uno scoglio, quindi respinge al largo, in mezzo al lago, l’altra barca nel quale si trova Gessler con i suoi, che poi si perde di vista.

Scene VII e VIII. Dopo la tempesta, mentre nell’orchestra se ne odono ancora alcuni echi, Rossini torna ai recitativi e ai declamati che hanno caratterizzato molte parti di quest’opera, con i brevi incisi dei cori dei soldati e di Gessler. Jemmy ha intanto raggiunto il padre, mentre il balivo e suoi hanno di nuovo guadagnato la riva. L’orchestra tace nel momento in cui Guglielmo, subito prima di scagliare la sua freccia contro il tiranno, pronuncia le parole «La Svizzera respiri.» Poi il colpo mortale e liberatorio salutato dall’orchestra e dal coro di giubilo degli svizzeri. La tempesta intanto va cessando. Scene IX e X. Mentre Guglielmo viene festeggiato anche da Gualtiero che era accorso in armi, appare Arnoldo, insieme ai patrioti armati, che annuncia la vittoria e la liberazione della città di Altdorf dal nemico. La tempesta è alfine cessata, le nubi tempestose si diradano, il Sole rischiara il panorama svizzero facendolo apparire in tutto il suo splendore. Grida di vittoria e libertà salgono verso il cielo. Una moltitudine di barche appare sul lago con le bandiere spiegate. La pagine finale dell’opera è uno dei momenti più alti di tutta la produzione rossiniana.

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L’arpa indica, oltre allo schiudersi del cielo, anche il tono bucolico della melodia pronunciata dagli strumenti a fiato: le prime tre note riprendono il motivo popolare svizzero del ranz des vâches, quindi una fiorirtura ripetuta tre volte trasforma quel richiamo in un tema elegante, concluso da cinque note discendenti che rivelano la tipica cadenza rossiniana. Dapprima questa melodia è affidata ai corni, poi a oboi e flauti, ottavino, in una sequenza che sembra avvolgere a spirale verso l’alto il tema. σelle voci dei solisti non c’è una vera melodia, ma solo una variante dello stile declamato, con un’unica nota ribattuta più volte; il declamato infine diventa a sua volta con l’intervento del coro, che fa da contrappunto all’orchestra, nella quale compaiono infine anche gli archi e che cresce di intensità sino alla fine.

GUGLIELMO. Tutto cangia, il ciel si abbella, l'aria è pura. EDWIGE. Il dì raggiante. JEMMY. La natura è lieta anch'ella. ARNOLDO. E allo sguardo incerto, errante, tutto dolce e nuovo appar. MATILDE, JEMMY, EDWIGE, ARNOLDO, GUALTIERO, LEUTOLDO, GUGLIELMO e CORO DI SVIZZERI. Quel contento che in me sento non può l'anima spiegar.

[Teatro alla Scala di Milano. 1988]

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DISCOGRAFIA

Rossini: Guillaume Tell (versione in lingua francese) Gabriel Bacquier (Guglielmo), Montserrat Caballé (Matilde), Nicolai Gedda (Arnoldo), Mady Mesplè (Jemmy). Ambrosian Opera Chorus. Royal Philharmonic Orchestra, dir. Lamberto Gardelli. Warner Classics E' una interpretazione magnifica di una bella edizione integrale nella versione francese. Si distingue per una lettura attentissima al dettaglio, all'interno di un meraviglioso equilibrio del tutto. Gabriel Bacquier

è un Guillaume convincente, dalla vocalità

piena e generosa, capace anche di un lirismo commovente, come nella struggente scena che precede il celebre episodio del tiro alla mela posta sul capo del figlio Jemmy. Un'accoppiata di livello artistico e vocale assoluto, Montserrat Caballé e Nicolai Gedda, rispettivamente Matilde e Arnoldo, ci regala momenti solistici e duetti dove virtuosismo belcantistico e profondità interpretativa si amalgamano perfettamente per il piacere dell'ascolto e dell'intensità del coinvolgimento emotivo. Mady Mesplė, uno dei migliori soprano di coloratura francesi, tratteggia bene il carattere combattivo e la fanciullesca tenerezza di Jemmy, Possiede una dizione squisita in francese e un vibrato molto bello, ben controllato e modulato. Canta molto bene anche Jocelyne Taillon in una convincente Edwige della quale riesce molto bene a rendere la continua apprensione per le sorti dei suoi cari e la fierezza del carattere. Poi, a supporto delle star, viene presentato uno schieramento di bassi veramente solidi e con voci d'altri tempi: Kolos Kovacs, un Walter possente; Gwynne Howell tratteggia bene Melchthal un saggio, ma ancora combattivo, vegliardo; Nicolas Christou è un Leuthold ben centrato; Louis Hendrikx presenta, a mio parere, una voce più opaca e meno piena ed omogenea, ma tutto sommato ben adatta al malvagio Gessler. Ma ciò che esalta la qualità del tutto è ovviamente la sapiente direzione di Lamberto Gardelli , che, grazie anche ad una Royal Philharmonic Orchestra particolarmente in forma e col supporto di un grandioso Ambrosian Opera Chorus (diretto dal bravissimo John McCarthy), riesce a trarre dall'originale, difficile e innovativa partitura rossiniana tutta la miriade di colori e dettagli in essa magistralmente racchiusi, amalgamandoli in una visione artistica coerente ed unitaria. Sempre vigile e presente, ma mai invadente, nell'accompagnare le parti dei solisti, bravissimo nel tenere costantemente alto il livello artistico delle numerose parti corali, Gardelli ha poi ampio spazio per dimostrare tutta la sua raffinata tecnica orchestrale e l'alta sensibilità musicale e personale nelle [143]


numerose parti per sola orchestra, dalla celebre ouverture, ai balletti, agli interludi. Insomma, senza inutili protagonismi e pur lasciando il giusto respiro alle superstar di cui si avvale, Gardelli tiene sempre saldamente in mano la direzione interpretativa di questo capolavoro, tanto che credo che questo possa essere considerato, a pieno titolo, il suo Guillaume Tell. Decisamente eccellente la resa sonora di una registrazione originale datata 1972 (Kingsway Hall, Londra), poi rimasterizzata nel 1988. ♫♫

Rossini: Guglielmo Tell Sherrill Milnes (Guglielmo), Mirella Freni (Matilde), Luciano Pavarotti (Arnoldo), Della Jones (Jemmy), Nicolai Ghiaurov (Gualtiero). Ambrosian Opera Chorus. The National Philharmonic, dir. Riccardo Chailly. Decca – The Originals τttima idea, quella della Decca, di riproporre questo caposaldo della storia dell’interpretazione del capolavoro rossiniano nella collana degli Originals. Ottima idea perché favorirà la diffusione di una delle più importanti realizzazioni discografiche mai fatte, cui manca solo quel senso di ritmo incessante e palpitante che deriva dalla celebrazione della Natura che realizzerà al meglio Riccardo Muti otto anni più tardi. L'interpretazione

è

certamente

eccellente;

l'Orchestra

Filarmonica Nazionale offre un suono caldo, vigoroso e colorato sotto la direzione di Chailly. Il cast è stellare e i cantanti sono all'altezza della loro reputazione. Il Tell di Sherrill Milnes è un guerriero roccioso che si giova particolarmente della scrittura fortemente declamatoria. È quindi un personaggio poco incline alla riflessività, ricco di ruvida affettuosità ma di scarsa concessione alle oasi di lirismo, anche nelle pause di riflessione come “Resta immobile” che è cantato con una sorta di disperazione cupa e rabbiosa. La scena del giuramento del secondo atto prende decisamente quota grazie anche al suo contributo essenziale e il finale dell’opera è aspro, ruvido, ma non privo di inflessioni caldamente umane. Mirella Freni è splendida come sempre: coniuga alla perfezione compostezza araldica dell’espressione con precisione adamantina del canto Pavarotti di quegli anni è sicuramente un lusso; anzi, per certi versi questa è la miglior registrazione in studio del grande tenore emiliano, veramente al top delle proprie stratosferiche performances. Ghiaurov è allo stesso modo in forma eccellente, e fa di Gualtiero Farst una sorta di monumento all’integrità morale e alla vendetta. La voce risuona ovunque straordinariamente ampia e sonora. [144]


Ferruccio Mazzoli interpreta un Gessler di scarso rilievo e di minimo spessore vocale, sia pure nell’ambito di una parte che non incide più che tanto nell’economia dell’opera. La registrazione del 1979 è finemente bilanciata, chiara e calda. ♫♫

Rossini: Guglielmo Tell Giorgio Zancanaro (Guglielmo), Cheryl Studer (Matilde), Chris Merritt (Arnoldo), Amelia Felle (Jemmy), Corpo di ballo, Coro ed Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, dir. Riccardo Muti. Philips Bella interpretazione dal vivo al Teatro alla Scala di questo Guglielmo Tell di Rossini diretto da un ispirato Muti nel 1988. E’ un Tell dal respiro immenso, corale, imperniato su protagonisti d’eccezione. Bellissimo il finale. Esiste anche la versione DVD di questa performance (Ed. Opus Arte – La Scala Collection), ma la scenografia di Gianni Quaranta e la regia del palco di Luca Ronconi sono assolutamente terribili, così come i costumi insipidi. Meglio avere Il Tell solo come CD audio ed evitare questo orribile e terribile fallimento visivo sia in termini di scenografia che di azione e movimenti scenici sconnessi.

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Gioachino Rossini [146]


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