Gli Amici del Loggione n° 16 - Settembre 2021

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GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 16 – Settembre 2021


GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista quadrimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 16 – Settembre 2021

Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa

A questo numero ha collaborato il M. Paolo Duprè

In questo numero: 1a Copertina: Ritratto di Niccolò Paganini, di Andrea Cefaly (The Bridgeman Art Library) [3] Omaggio a Carla Fracci [4] I 24 Capricci, di Niccolò Paganini [22] I g a di Di etto i del 9 : Herbert von Karajan e le 9 Sinfonie di Beethoven [31] L ope a o ga isti a di Joha “e astia Ba h, di Paolo Dup è [46] Petruska, di Igor Stravinskji [56] La Sinfonia n°6 di Gustav Mahler [67] L O hest a ella usi a lassi a [73] Partant pour la Syrie, di Ortensia di Beauharnais [76] Cinema e musica classica: Valzer con Bashir, di Ari Folman [79] La Musica del Medioevo: Le Cantigas de Santa Maria (Cantigas centenales), di Alfonso X El Sabio [109] Melomania: I Puritani, di Vincenzo Bellini 4a copertina: Vincenzo Bellini (ritratto di Vincenzo Patania, 1830)

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Carla Fracci, una vita dedicata alla danza

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I 24 Capricci, di Niccolò Paganini Tra i connotati forse più vistosi del Romanticismo musicale vi fu l’esplosione e l’esaltazione del virtuosismo strumentale, la pura esibizione di abilità e capacità manuali: per quanto riguarda il violino, il più grande virtuoso, sia come compositore che esecutore, fu Niccolò Paganini, che fece evolvere la tecnica virtuosistica dello strumento elaborandone anche un senso espressivo e musicale.

BIOGRAFIA Niccolò Paganini nacque a Genova il 27 Ottobre 1782. La sua biografia ce lo dipinge come un personaggio pieno di lati oscuri, a cominciare dal suo coinvolgimento nel soprannaturale fin da quando era bambino: a quattro anni, per un attacco acuto di morbillo, viene dato per morto; avvolto nel sudario, durante il servizio funebre Niccolò fa un piccolo movimento che viene notato dai presenti e che gli evita di venire sepolto vivo. Morte apparente per i medici del tempo, catalessi da encefalite virale da morbillo secondo la medicina moderna, opera del diavolo secondo la vox populi. Parlando della vita di Paganini, farò riferimento alla biografia ufficiale, anche se essa è ricca di episodi evidentemente romanzati creati ad arte per accrescere la suggestione intorno al personaggio.

iccolò Paganini iniziò a suonare il violino all’età di sette anni sotto le istruzioni di suo padre, Antonio Paganini imballatore di merci al porto e musicofilo, (sebbene Niccolò avesse iniziato a suonare il mandolino all’età di cinque anni). A dodici anni aveva già tenuto il suo primo concerto di violino pubblico, ma continuò a studiare con vari insegnanti, come Giovanni Servetto, e superò rapidamente ciascuna delle abilità del suo insegnante. A 13 anni, Niccolò fu portato a conoscere Alessandro Rolla, violinista e compositore tra i più importanti in Italia, e Direttore del Teatro alla Scala. All’arrivo di [4]


Paganini Rolla era a letto per una fastidiosa influenza e francamente non tanto propenso ad alzarsi per uno sconosciuto. Il giovane Niccolò, che aspettava in anticamera, notò un violino e nel leggio uno spartito, il nuovo concerto scritto da Rolla, e si mise a suonarlo. Rolla, sentendo suonare la sua opera in modo eccellente e saputo che chi suonava era un ragazzino, subito si alzò per controllare e rimase ovviamente sbigottito, tanto che disse: «Poco o nulla potrà apprendere di più di una tal’arte». Le vicende di Paganini e di Rolla si intrecciarono ancora quando, cinque anni più tardi, nel momento in cui Paganini si vantava di poter suonare qualsiasi cosa a prima vista, senza neppure conoscerla, il Maestro scaligero gli presentò un

suo

nuovo

concerto

composto

per

l’occasione:

fu

impeccabilmente eseguito, per di più con lo spartito posto sul leggio a testa in giù! Paganini compì i suoi primi veri studi a Genova e Parma. Nella città emiliana si ammalò di polmonite e venne curato con il salasso, che lo indebolì e lo costrinse a un periodo di riposo nella casa paterna a Romairone, vicino San Quirico. Qui studiò con costanza ed accanimento, anche fino a 15 ore al giorno, utilizzando un violino costruito dal celebre liutaio Guarneri del Gesù (a quei tempi non considerato uno strumento prezioso, al contrario degli Stradivari!), regalatogli da un ammiratore di Parma. Secondo talune fonti, si ritiene che questo violino possa essere identificato con il Guarneri del Gesù “Carrodus” del 1743, che - narra la storia - Paganini perse al gioco, rimanendo senza uno strumento di sua proprietà con cui esibirsi. Fu nel 1802 che un ventenne Niccolò venne in possesso di un secondo violino, gemello del precedente, il celeberrimo Cannone. Non sappiamo se sia stato un regalo dell’amico Fantino Pino, ministro della guerra, o di un ricco francese di nome Livron, che glielo regalò in occasione dell’inaugurazione del teatro di Livorno, a patto che da quel momento lo suonasse soltanto lui; sappiamo di certo che Paganini, per il suo “Cannone” - così lo chiamava per la sua incredibile potenza del suono - aveva inventato una speciale accordatura, incomprensibile per tutti i violinisti del tempo, che gli rendeva semplici anche i passaggi più difficili. Secondo recenti studi effettuati sulle fibre

del

legno

di

ambedue

gli

strumenti, il Carrodus e il Cannone sono stati ambedue fabbricati con il legno del medesimo albero. Secondo le testimonianze e le lettere a noi pervenute, Paganini usò questo violino per tutta la sua carriera, compagno inseparabile di tournée e concerti tenuti in tutta Europa; [5]


dal 1851 lo strumento è custodito a Genova nella Sala Paganiniana di Palazzo Doria Tursi, oggi sede museale nell’ambito dei Musei di Strada Nuova. Altro suo violino famoso fu il "Vuillaume" (dal nome del suo creatore), fabbricato a Parigi nel 1833, fedele riproduzione del "Cannone"; inoltre il musicista possedeva non meno di 11 Stradivari! Dal 1797 Paganini iniziò una vera carriera concertistica attraverso l'Italia settentrionale e la Toscana. Tornato a Genova, vi cominciò la composizione del suo capolavoro, la serie dei 24 Capricci per violino solo. Raggiunta un'abilità portentosa, si recò per la seconda volta in Toscana, ove ottenne clamorose accoglienze. Nel 1801 interruppe la propria attività violinistica, forse per amore di una ricca signora, e si dedicò all'agricoltura e allo studio della chitarra. In breve tempo diventò virtuoso anche di chitarra e scrisse molte sonate, variazioni e concerti che non furono pubblicati; insoddisfatto, si mise a scrivere sonate per violino e chitarra, trii e quartetti in unione agli strumenti ad arco. Paganini scriveva per chitarra a sei corde, che in quel periodo soppiantò quella "spagnola" a cinque cori (quattro corde doppie e una singola nella parte alta detta cantino, e questo spiega il suo estro negli scoppiettanti pizzicati sul violino), e per essa scrisse numerose pagine a solo e d'insieme. Riapparve nell’ambiente violinistico solamente nel 1805 a Lucca, dove accettò il posto di primo violino solista alla corte della principessa Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone [nel dipinto]. Quando nel 1809 Elisa passò sul trono di Toscana, Paganini la seguì a Firenze, per poi distaccarsene. E così, nello stesso anno, avendo riscoperto i piaceri dell’attività concertistica, Paganini iniziò la sua carriera itinerante, rimanendo dapprima in Italia (sostando a lungo a Milano, dove era particolarmente amato e dove i critici, dopo il concerto del 29 ottobre 1813, l'avevano acclamato primo violinista del mondo) e spostandosi in seguito anche all’estero. Tra il 1828 e il 1834 girò quasi tutte le maggiori capitali musicali europee: fu a Vienna (1828), Dresda, Berlino (1829), Varsavia, quindi di nuovo in Germania, riscuotendo ovunque ammirazione e onori, nonostante l’aspetto fisico ributtante. Non molto alto, deformato, con una spalla più alta dell’altra, claudicante, di colorito cadaverico a causa della sifilide, e di una magrezza spaventosa; gli occhi rientrati nelle orbite, lo sguardo era però acuto; mancava di tutti i denti per colpa del mercurio somministrato per la sifilide, la bocca gli era così rientrata che naso e mento si erano avvicinati. Le lunghe dita erano affusolate e ossute, le mani pallide solcate da vene in forte rilievo e piedi lunghi, sproporzionati, che muoveva al ritmo della sua musica mentre contorceva il corpo in pose bizzarre, impossibili ad altri. Soffriva di esaurimenti nervosi, era continuamente affaticato, ed ebbe numerosi episodi di emottisi. Vestiva sempre di nero, e ai concerti arrivava su una carrozza nera trainata da quattro cavalli neri. [6]


La sua presenza provocava comunque isteria nel pubblico: la gente sveniva, impazziva, nei teatri si scatenava il caos: era osannato come una rockstar dei nostri tempi. Prima di esibirsi, con un coltello segnava le corde perché si rompessero durante il concerto e chiudeva i suoi concerti sull’unica corda superstite, quella di sol, stregando e seducendo gli spettatori. [Dagherrotipo di Paganini]

Le sue apparizioni sul palco facevano salire il prezzo dei biglietti a teatro: addirittura, la sua immagine venne utilizzata per vendere le caramelle Paganini. Tutto ciò non deve far pensare che sia diventato famoso solo grazie a ciò che rappresentava, i suoi virtuosismi infatti sono assolutamente veritieri e leggendari e nessun altro violinista è mai stato capace di avvicinarsi alla sua prodigiosa tecnica. Era velocissimo, compiva salti melodici di diverse ottave, eseguiva lunghi passi con accordi che coprivano tutte e quattro le corde, alternava velocemente note eseguite con l’arco e note pizzicate alla mano sinistra. Paganini era probabilmente affetto dalla Sindrome di Marfan, una malattia del tessuto connettivo che, tra le sue varie manifestazioni, comprende la dolicostenomelia (eccessiva lunghezza delle estremità), e l'ipermobilità delle articolazioni: forse fu proprio questa patologia il segreto che gli permise di raggiungere gli incomparabili livelli di virtuosismo che tutto il mondo gli riconobbe come violinista. Voci sul soprannaturale erano tipiche del clima culturale del tempo, e la sua evidente bravura era tale da incrementare i pettegolezzi su una presunta “compravendita” di anime fra Paganini e il demonio. Soprattutto per il modo che aveva di improvvisare e per come lui stesso eseguiva i 24 Capricci, che erano per altri violinisti impossibili da suonare, alcuni giuravano di avere visto il demonio muovere l’archetto del violino, mentre Paganini era sul palco, e quando, durante un concerto a Vienna, uno spettatore non vedente chiese in quanti stessero suonando, alla risposta «E’ uno solo», esclamò «Allora è il diavolo!». Egli non smentì mai questa nomea, facendo di tutto per assecondarla, soddisfatto della popolarità che ne derivava, anche se con gli amici più intimi se ne rammaricava: «A dirti il vero mi rincresce che si propaghi l’opinione in tutte le classi ch’io abbia il diavolo addosso». Un altro episodio è quello che racconta che quando nel 1835 si recò al Lazzaretto di Genova e suonò per i malati di colera, questi credettero che fosse la personificazione della morte venuta a portarli via. Per non parlare della vita che il grande Maestro conduceva in modo trasgressivo, irriverente e irrispettoso delle regole sociali. Frequentava bettole di terz’ordine, bazzicava con prostitute, giocava a carte spesso perdendo cifre importanti; finì anche in galera per rissa e debiti di gioco non pagati e [7]


per aver sedotto una sua allieva - e proprio in galera, dicono le malelingue, che il diavolo in persona sia apparso e gli abbia insegnato a suonare il violino -, suonava nei cimiteri di notte, era appassionato di esoterismo. Venne anche accusato di avere strangolato la sua fidanzata! Si diceva anche che avesse ucciso un rivale in amore e che in prigione gli fosse stato concesso di suonare il violino; con il passare del tempo avrebbe perso tutte le corde tranne quella di sol, e quindi costretto a suonare solo su quella corda. Da questo aneddoto si faceva derivare la sua particolare bravura sulla corda di sol. Un altro aneddoto ben più fantasioso e inquietante è quello che raccontava di come Paganini fosse un assassino seriale e ricavasse le corde del suo violino dalle viscere delle sue vittime. Noto per il suo pessimo carattere, fu

invece un padre

incredibilmente amorevole per il suo unico figlio, Achille [ ell i

agi e], che egli amava in modo incondizionato. Nato nel

1825 dalla relazione con la cantante Antonia Bianchi, tre anni dopo il piccolo venne abbandonato dalla madre e Paganini si occupò di lui con dedizione e amore incondizionato, vedendo ricambiato il suo affetto anche nei momenti più difficili. Alla fine dell'inverno 1831 Paganini suonò per la prima volta a Parigi, ove il successo sorpassò ogni previsione; poi fu a Londra, nei Paesi Bassi, nella Francia settentrionale, di nuovo in Gran Bretagna (1833 e 1834). Dal 1834, le condizioni di salute di Paganini, spossato dai tanti viaggi e da stravizi, si fecero più debilitanti. Quell’anno segnò l'inizio dei sintomi più evidenti di una malattia polmonare, all'epoca non diagnosticata, segnata da accessi di tosse incoercibile, che duravano anche un'ora, che gli impedivano di dare concerti e che lo indebolivano sempre di più: furono interpellati almeno venti fra i medici più famosi d'Europa, ma nessuno riuscì a curarlo. Il dottor Sito Borda, pensionato dell'Ateneo di Pavia, finalmente pose la diagnosi di tubercolosi e lo curò con un rimedio dell'epoca, il latte di asina. Solo in seguito propose medicamenti mercuriali e sedativi della tosse, tipici dell'epoca, con scarsi risultati e gravi effetti collaterali. I disturbi alla gola si presentarono molto tempo prima che insorgesse la laringite tubercolare vera e propria complicata dalla necrosi dell'osso mascellare. Comunque la reazione di Paganini alla malattia fu molto dignitosa e composta; malgrado non avesse una grande opinione dei medici che non erano riusciti a curarlo, si rivolgeva sempre a loro con fiducia, sperando di trovare chi potesse aiutarlo. Diventò completamente afono. Gli faceva da interprete il figlioletto Achille di 15 anni, che si era abituato a leggergli le parole sulle labbra e quando anche questo non fu più possibile, si mise a scrivere dei bigliettini, che sono stati conservati e sottoposti a esame grafologico. Achille, diventato adulto, cercherà di dare continuità all'opera del padre, continuando a riordinare e a pubblicare le sue opere, autenticandone la firma. In seguito i nipoti, che non avevano conosciuto il nonno Niccolò, [8]


venuti in possesso dell'intera opera paganiniana, decideranno di venderla allo Stato e, solo dopo aver ricevuto un rifiuto, metteranno l'opera all'asta. Rientrato in Italia stanco e malato, nel 1837 Paganini diede a Torino il suo ultimo concerto; si ritirò quindi a Marsiglia, a Genova e infine a Nizza, dove sperava di trovare un clima migliore, ma nella città nizzarda morì il 27 maggio 1840 in casa del presidente del Senato. Da sempre inviso alla Chiesa per le intemperanze e gli scandali, malgrado non fosse ateo, il vescovo di Nizza gli negò i funerali e la sepoltura in terra consacrata. Il corpo finì così nel Lazzaretto di Villefranche-sur-Mer, venne quindi imbalsamato e addirittura esibito a pagamento in un macabro tour per la città. Conservato per ben due anni nella cantina della casa dov'era morto, nel 1853 fu sepolto nel cimitero di Gaione grazie all’impegno dei suoi amici. Infine, dal 1876 Paganini riposa nel Cimitero della Villetta, a Parma, onorato in un tempietto neoclassico: sulla tomba è incisa un’aquila che vola verso l’alto stringendo un violino con il becco.

LA FIGURA ARTISTICA A Paganini va riconosciuto l’immenso merito di aver rivoluzionato l'arte della tecnica violinistica, e le sue opere ancora oggi costituiscono una pietra di paragone per i violinisti più agguerriti. La pertinenza e la precisione degli effetti e dei temi che propose erano sconosciute al suo tempo, e la sua influenza si sentì notevolmente per tutto il XIX secolo, giungendo fino ai giorni nostri. Paganini fu senza dubbio il maggior violinista che la storia ricordi: dotato d'un eccezionale intuito violinistico, che lo condusse a scoprire tutte le risorse dello strumento (solo in parte intravedute dai virtuosi che lo avevano preceduto), provvisto di straordinarie doti tecniche oltre che della costanza indispensabile per rendersi padrone del nuovo virtuosismo che egli stesso andava creando, egli sbalordiva per l'ardimento delle scoperte, per la rapidità, la naturalezza e la perfetta intonazione con le quali superava i passaggi più scabrosi, per la spiccatissima personalità. A creare intorno al musicista genovese quell'alone di mito e di leggenda che ha sempre circondato in vita e dopo la morte questo singolare personaggio così romanticamente ricco di luci e di ombre, restano le sue composizioni, a tutt'oggi un'opera fondamentale della letteratura violinistica, una specie di summa di tecnica e di virtuosismo, un vero e proprio vademecum per tutti coloro che si dedicano allo studio del violino.

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Molto si è discusso e si continua a discutere sul “segreto” di Paganini e sul modo come egli abbia potuto raggiungere una tale altezza nelle acrobazie trascendentali del suo violinismo strepitoso. Ancora oggi la sua figura è circondata da leggende legate al suo prodigioso genio (talune anche alimentate dall'ambiente del romanticismo ottocentesco) ed al famoso patto col diavolo. [Kersting, Paganini che si esibisce]

In realtà nessun artista prima di lui (sembra che soltanto Pietro Antonio Locatelli possa definirsi un suo precursore) è riuscito a sviluppare e a potenziare fino all'inverosimile le possibilità espressive e tecniche del violino, dall'uso della scordatura ai bicordi e tricordi, dagli armonici doppi ai passi di terze, seste, ottave e decime, dai glissando ai pizzicati con la mano sinistra, dall'uso dei sopracuti al salto di corde. Se si aggiunge tutto questo bagaglio di risorse strumentali alla sua capacità ineguagliabile di improvvisatore e di inventore di variazioni su musiche altrui, non disgiunta da una cultura musicale eccellente (conosceva perfettamente le composizioni di Haydn, Mozart e Beethoven), si avrà un'idea del "fenomeno Paganini" e si potrà capire perché i suoi brani violinistici influenzarono e ispirarono una nutrita schiera di musicisti romantici e moderni. Tra le sue opere pubblicate: cinque Concerti per violino e orchestra (del 3º, in mi maggiore, si è avuta la prima esecuzione assoluta nel 1971), sei Quartetti per violino, viola, chitarra e violoncello; dodici Sonate per violino e chitarra; ventiquattro Capricci per violino solo; variazioni per violino Le Streghe, ecc. Rimangono ancora inedite molte sue opere.

"PAGANINI NON RIPETE" Questo popolare detto ebbe origine nel febbraio del 1818 al Teatro Carignano di Torino, quando il re Carlo Felice di Savoia [nel dipinto], dopo aver assistito a un concerto di Paganini, fece pregare il maestro di ripetere un brano. Paganini, che subiva spesso lesioni ai polpastrelli ed amava improvvisare al momento le composizioni, quindi difficilmente ripetibili, gli fece rispondere il suo disappunto «Paganini non ripete!». A seguito del rifiuto gli fu negato il permesso di eseguire un terzo concerto in programma. La controversia causò l'annullamento dei concerti previsti a Vercelli e Alessandria. In due lettere inviate all'amico avvocato Germi scrisse: [10]


«La mia costellazione in questo cielo è contraria. Per non aver potuto replicare a richiesta le variazioni della seconda Accademia, il Sig. Governatore ha creduto bene di sospendermi la terza…» (25 febbraio 1818) e poi, ancora: «In questo regno, il mio violino spero di non farlo più sentire» (11 marzo 1818). Tuttavia nel 1836 tornò a suonare proprio a Torino per ringraziare Carlo Alberto per la concessione di legittimazione del figlio Achille. «Paganini non ripete» ha assunto una vulgata usata tutt'oggi per motivare il rifiuto di ripetere un gesto o una frase.

LA “NEFANDA” STORIA DELLA CASA NATALE DI PAGANINI La casa natale di Paganini, in stile rinascimentale, si trovava in Passo di Gattamora al numero civico 38 nel quartiere del Colle vicino a via Madre di Dio, a Genova. Niccolò Paganini visse in questa casa fino all'età di 14 anni quando si trasferì a Parma. Sulla facciata della casa era presente un'edicola del 1610-1620 con una statua della Madonna Immacolata.

[Foto colorizzata della facciata. A dx particolare dell Edi ola]

In occasione del centenario della nascita del musicista, il Comune di Genova fece collocare sotto l’edicola questa targa: Alta ve tu a so tita i uesto u ile luogo in questa casa il giorno XXVII di ottobre dell'anno MDCCLXXXII nacque a decoro di Genova a delizia del mondo Nicolò Paganini ella divi a a te dei suo i i supe ato aest o [11]


Durante la seconda guerra mondiale la casa risultava già in cattive condizioni a causa dei crolli causati dai bombardamenti. Venne quindi acquistata dalla Curia genovese, nell’ambito di un progetto di ricostruzione di tutta l’area. Il 3 luglio 1969, si eseguì una demolizione parziale lasciando solo la facciata fino al primo piano con l'edicola seicentesca. Improvvidamente il resto della facciata venne demolito, la sera del 13 settembre 1971, con mazze e picconi, nonostante nel nuovo piano regolatore fosse stato promesso di non sacrificare la casa che sarebbe stata risparmiata e inserita in un giardino. La demolizione della casa provocò l'ira degli abitanti del Colle che cercarono inutilmente di fermare la demolizione. Nel 1981 nella vicina piazza Sarzano l'US Vecchia Genova fece erigere una targa

come "colonna infame":

A vergogna dei viventi e a monito dei venturi come usava ai tempi della gloriosa Repubblica di Genova dedichiamo questa COLONNA INFAME all'avidità degli speculatori e alle colpevoli debolezze dei eggito i della ost a ittà.

Nel 1982 l'amministrazione comunale propose la ricostruzione della facciata, ma poi quest'idea venne abbandonata. La targa del centenario venne ritrovata in un magazzino comunale e successivamente trasferita nei Giardini Baltimora, a cui è stata aggiunta una targa nel 1992 dal Comune di Genova:

Nel ricordo della demolizione dell'antico quartiere di via Madre di Dio in cui nacque Nicolò Paganini la cittadinanza qui ricolloca la lapide recuperata dalla demolizione della casa del celebre musicista otto e 99

La statua della Madonna Immacolata che si trovava nell'edicola votiva si trova adesso esposta nel Museo di Sant'Agostino.

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I 24 CAPRICCI Il termine "capriccio" sta ad indicare, secondo una pratica derivante del Seicento, un tipo di composizione affidata prevalentemente all'estro e all'improvvisazione dell’esecutore. Probabilmente Paganini tenne presenti i modelli violinistici precedenti - la grande tradizione del violino in termini di strumento adatto al virtuosismo - specialmente quelli di Antonio Locatelli, di Giuseppe Tartini e di Rodolphe Kreutzer. Ma non c'è dubbio che i Capricci di Paganini, oltre ad avere un valore didattico indiscutibile, costituiscano un esempio di alta scuola violinistica e racchiudano un messaggio musicale ed estetico di notevole importanza, collocandosi sullo stesso piano degli Studi pianistici di Chopin. In queste pagine è sparso a piene mani tutto il virtuosismo paganiniano, con il ricorso alle più straordinarie trovate o effetti rivolti ad allargare al massimo l'arco espressivo, sia timbrico che ritmico, del violino, così da toccare il vertice dell'arte di tale strumento nell'Ottocento europeo. Ogni Capriccio è un brano a sé, ha un suo carattere e una sua difficoltà, e offre uno spunto per una serie di idee armoniche e contrappuntistiche caratterizzate da mirabili invenzioni musicali. I Capricci - inizialmente giudicati ineseguibili - richiamarono subito l'attenzione di grandissimi musicisti, come Schumann, che ne curò per primo la trascrizione per pianoforte, e Liszt, il quale li definì «di rara freschezza e leggerezza» simili a «tanti diamanti che l'incastonatura più ricca richiesta dal pianoforte potrebbe rafforzarli piuttosto che volatilizzarli». Paganini fu un modello per molti compositori, che basarono alcune loro opere su suoi temi o addirittura li trascrissero per strumenti diversi dal violino. Dai temi dei Capricci sono state prodotte numerose composizioni, come l’Op. 10 di Schumann (6 studi da concerto), le Variazioni su un tema di Paganini di Brahms e la Rapsodia su un tema di Paganini di Rachmaninov. Ma soprattutto ad imitare il grande virtuoso del violino fu il grande virtuoso del pianoforte, Franz Liszt, che pubblicò una raccolta dal titolo “Études d’exécution transcendante d’après Paganini“, in cui riportò la trascrizione di sei Capricci.

 Genesi dell’opera I ventiquattro Capricci per violino solo op. 1 furono scritti nel 1797 da Paganini a Genova, di ritorno da un giro concertistico compiuto in Toscana. Vennero pubblicati come op. 1 da Ricordi nel 1818 e propagandati ampiamente dai giornali, insieme ad un gruppo di Sonate per violino e chitarra op. 2 e op. 3 e ai sei Quartetti per archi e chitarra op. 4 e op. 5. [Frontespizio della prima edizione dei 24 Capricci di Paganini (Ricordi 1820)] I 24 Capricci sono composizioni di carattere estremamente virtuosistico, con una grande varietà di tecniche violinistiche come picchettati, ricochet, ottave, decime e pizzicati con la mano sinistra. [13]


Riportano la semplice dedica “alli Artisti” ed è un’opera finalizzata a far rendere conto al violinista cosa praticamente è in grado di fare il proprio strumento: ogni capriccio si concentra infatti su un singolo problema, non solo di carattere virtuosistico, che è la caratteristica principale dell’intera opera, ma anche di carattere tecnico, musicale ed espressivo, soffermandosi mano a mano su problematiche riguardanti la mano sinistra, quindi intonazione, diteggiature, e la mano destra, quindi sonorità, doppie corde e colpi d’arco d’ogni specie (alcuni inventati da Paganini stesso). La dedica indica che quest’opera è dedicata a tutti i musicisti di professione e di un certo livello. Oltre a questa dedica però, negli spartiti personali di Paganini si può leggere che il compositore, tra il 1832 e il 1840, aveva annotato sopra ogni capriccio una singola persona, che doveva esserne il dedicatario diretto: 1: Henri Vieuxtemps; 2: Giuseppe Austri; 3: Ernesto Camillo Sivori; 4: Ole Bornemann Bull; 5: Heinrich Wilhelm Ernst; 6: Karol Józef Lipiński; 7: Franz Liszt; 8: Delphin Alard; 9: Herrmann; 10: Théodor Haumann; 11: Sigismond Thalberg; 12: Dhuler; 13: Charles Philippe Lafont; 14: Jacques Pierre Rode; 15: Louis Spohr; 16: Rodolphe Kreutzer; 17: Alexandre Artôt; 18: Antoine Bohrer; 19: Andreas Jakob Romberg; 20: Carlo Gignami; 21: Antonio Bazzini; 22: Luigi Alliani; 23: [senza nome]; 24: “Nicolò Paganini, sepolto pur troppo”.

 Guida all’ascolto - Capriccio n° 1, Andante in Mi maggiore: detto anche "L' Arpeggio", questa composizione è caratterizzata dal rimbalzo della mano su tutte le 4 corde. Il pezzo si apre in Mi maggiore e poi rapidamente si trasforma in una sezione di sviluppo in Mi minore, dove vengono introdotte le scale discendenti in terza. - Capriccio n° 2, Moderato in Si minore: si concentra sul detache (suono staccato) con molti incroci sulle corde non adiacenti. Moderato più tranquillo e contenuto. - Capriccio n° 3, Sostenuto, Presto in Mi minore. È caratterizzato dal legato con trilli nella introduzione e nella conclusione. Presto, agile e guizzante come un fuoco. - Capriccio n° 4, Maestoso in Do minore. È un esercizio caratterizzato da passaggi con molte pause sulle terzine. Oscillante fra il tono solenne e il capriccioso. - Capriccio n° 5: Agitato in La minore. Questo capriccio, percorso da fremito febbrile e travolgente, è famoso per la sua velocità in tempo di esecuzione e per i passaggi tecnicamente complessi all’inizio e alla fine per raggiungere, dopo arpeggi e movimenti cromatici, le posizioni acute e con altrettanti arpeggi e movimenti cromatici tornare giù alla tonica. Dopo che il violino si è presentato, dimostrando quello di cui tecnicamente è capace, inizia un moto perpetuo che nella parte originale aveva un colpo d’arco molto difficile, che richiede una grande padronanza della mano destra: il ricochet. Questo colpo d’arco consiste nel far rimbalzare l’arco sulla corda. A differenza però del balzato, in cui ad una arcata corrisponde un solo rimbalzo, qui l’arco deve fare più rimbalzi in una sola arcata. Ad ogni rimbalzo corrisponde una nota, quindi l’esecutore dovrà avere il pieno controllo della mano destra per ottenere l’esatto numero di rimbalzi necessari. Oltre a questo complicato colpo d’arco, ci sono voci che affermano che Paganini eseguisse il capriccio tutto sulla quarta corda, quindi [14]


aumentando la difficoltà anche per la mano sinistra. In successive trascrizioni si è deciso di semplificare il capriccio, non obbligando la tecnica del ricochet. Questo capriccio ha il potere di affascinare chi lo ascolta grazie a questa marea di note che scorrono come una cascata. - Capriccio n° 6, Lento in Sol minore. E’ soprannominato "Il trillo", sfrutta l'uso del tremolo della mano sinistra sul violino alternando rapidamente diverse note dell'accordo su una delle voci. Una melodia viene suonata in una riga con un tremolo che si verifica su un altro. Lento dalle modulazioni audaci e ardite. - Capriccio n° 7, Posato in La minore. Questo capriccio si concentra su passaggi di staccato, con molte scale e arpeggi lunghi. Abbastanza cantabile, non privo di impennate e scale ascendenti e discendenti con sonorità leggere e taglienti nei sopracuti. - Capriccio n° 8, Maestoso in Mi bemolle maggiore. Si concentra sul sostenere una nota più bassa mentre suona una melodia più alta allo stesso tempo, nel frattempo incorpora molti trilli e doppie corde. Il Maestoso è flessuoso e incisivo nel gioco degli accordi. - Capriccio n° 9, Allegretto in Mi maggiore. E’ soprannominato "La caccia". Le corde LA e MI del violino imitano i flauti ("Sulla tastiera imitando il Flauto"), mentre le corde SOL e RE imitano il corno ("imitando il Corno sulla D e G corda"). Principalmente uno studio di doppia corda, con rimbalzo nella sezione centrale. l'Allegretto ha un tono elegante e brillante, quasi un'antica caccia di corte. - Capriccio n° 10, Vivace in Sol minore. Questo capriccio è principalmente uno studio in staccato, con note staccato intervallate da accordi, trilli e incroci di corde distanti. - Capriccio n° 11, Andante, Presto in Do maggiore. Inizia e termina con sezioni che richiedono più voci, contenenti un passaggio costituito da molte note punteggiate che salta rapidamente su e giù per la scala. Questo Capriccio si articola in un Andante liricamente disteso, in un Presto dal respiro vivace e in una ripresa del tempo Andante. - Capriccio n° 12, Allegro in La bemolle maggiore. Questo capriccio consiste in un motivo di una melodia su una corda superiore che si alterna con una nota su una corda in basso, costringendo il violinista ad allungare grandi distanze mantenendo un dito sulla corda della nota di sottofondo. - Capriccio n° 13, Allegro in Si bemolle maggiore. Con gli arpeggi legati e sbalzati nel ritmo, è soprannominato "La risata del diavolo". Il brano inizia con una scala simile a passaggi a doppia corda a velocità moderata. La seconda parte consiste in corse ad alta velocità che impongono flessibilità della mano sinistra e il cambio di posizione, e il cambio di corda ad alta velocità della mano destra e il destreggiarsi con lo staccato. - Capriccio n° 14, Moderato in Mi bemolle maggiore. Mostra la capacità del violino di suonare accordi. Stilisticamente, il pezzo imita le fanfare in ottone. - Capriccio n° 15, Posato in Mi minore. Il brano inizia con un breve passaggio di ottave alte parallele, continuando su arpeggi ascendenti e scale discendenti; nel Posato in mi minore si assiste ad uno scherzoso e ironico dialogo fra due immaginari personaggi. - Capriccio n° 16, Presto in Sol minore. E’ un pezzo di assoluta bravura. La prima parte mostra il tema, che richiede all’esecutore la capacità di controllare l'arco sia con la mano destra che con la [15]


mano sinistra poiché consiste in arpeggi che utilizzano corde adiacenti alternate o salto delle corde. Il primo richiede al suonatore la padronanza del registro acuto, in quanto difficile da controllare soprattutto con la distanza. Quest'ultimo d'altra parte richiede all'esecutore di padroneggiare il salto delle corde, dove si salta da una corda all'altra, rapidamente su posizioni adiacenti. La tecnica complessivamente richiesta è il distacco. La seconda parte è continua: la prima parte è un passaggio conseguente. L'area successiva si differenzia per l'uso continuato di un'atmosfera più tranquilla, con passaggi cromatici eseguiti in frasi di impasto. Per analisi, la seconda parte è smorzando legato. Ritorna con una serie di arpeggi su e giù e scale che aumentano di intensità fino alla conclusione del capriccio. Il capriccio sembra essere breve poiché tutta la sua lunghezza viene eseguita in Presto. - Capriccio n° 17, Sostenuto, Andante in Mi bemolle maggiore. La corda di LA suona numerose note di trenta secondi sulle corde LA e MI che dialogano avanti e indietro con esecuzione della tecnica della doppia corda sulle due corde inferiori. E’ cosparso di calibrati picchettati nel passaggio al registro acuto. La sezione centrale è famosa per il passaggio delle ottave incredibilmente difficile. - Capriccio n° 18, Corrente, Allegro in Do maggiore. Rassomiglia ad una cavatina rossiniana. La introduzione di questo capriccio dimostra come suonare sulla corda SOL in posizioni molto alte. Questo parte del brano è seguita da una rapida esecuzione di scale di terzine. - Capriccio n° 19, Lento, Allegro assai in Mi bemolle maggiore. Qui ci sono molte ottave all'inizio; poi ci sono incroci tra le corde di SOL e LA; questa parte è seguita da rapidi cambiamenti di posizione sulla stringa di SOL. - Capriccio n° 20, Allegretto in Re maggiore. Questo brano è famoso per l'uso sostenuto della corda di RE, in contrapposizione ad una melodia sulle corde LA e MI, ad imitazione di una cornamusa. Segue un passaggio rapido di sedicesimi con trilli e staccato rapidissimo. - Capriccio n° 21, Amoroso, Presto in La maggiore. Questo brano inizia con una melodia molto espressiva, simile ad un'aria. Questa parte del brano è seguita da una sezione di rapido staccato. L'Amoroso è una romanza affettuosa e molto dolce, spezzata dal Presto in la maggiore. - Capriccio n° 22, Marcato in Fa maggiore. Questo brano esplora molti tipi di doppie e triple corde e implementa vari elementi tra cui incroci e tremolii. - Capriccio n° 23, Posato in Mi bemolle maggiore. La sezione centrale a contrasto è un formidabile esercizio di incroci di corde: richiede al violinista di riprodurre trame di tre semicrome sulla corda di SOL e quindi attraversare rapidamente la tastiera del violino per suonare sulla corda di MI, quindi tornare alla corda di SOL, il tutto a un tempo molto veloce. - Capriccio n° 24, Tema con variazioni, quasi presto, in la minore. La serie dei ventiquattro Capricci si chiude con questo famosissimo e trascendentale brano, dal trascinante ed entusiasmante fascino sulle quattro corde e tale da diventare nel tempo il simbolo più popolare della acrobatica fantasia violinistica paganiniana. E’ considerato come il più difficile tra tutti. E’ composto da un tema iniziale, 11 variazioni e un finale; ripropone tutte le difficoltà dei ventitré Capricci precedenti, aggiungendone anche di nuove. [16]


Il famosissimo tema iniziale suona come un tema molto intrigante (quasi “diabolico“) con un ritmo ben scandito ma che non fa perdere alle note una notevole elasticità e morbidezza. Nella prima variazione gli arpeggi del tema iniziale sono suonati con una tecnica dell’arco molto complessa. Nella seconda si tratta ancora di tecnica dell’arco, costanti e complicati giri di corda rendono questa variazione molto fluida, come un’onda del mare che si infrange sulla riva e che poi si ritira per formare un’altra onda. La terza variazione è una di quelle che potrebbero indurre, più delle altre, l’ascoltatore a credere alla leggenda del patto con il diavolo. Procedendo per ottave (la difficoltà è quindi stavolta nella mano sinistra) si fa strada, utilizzando specialmente cromatismi, un canto incantatore, come il canto delle Sirene che ipnotizzava la mente dei navigatori. Gli stessi cromatismi si fanno più numerosi e agitati nella quarta variazione e nella quinta tornano invece le ottave, sempre agitate ed eseguite in modo diverso rispetto a prima (nella terza erano eseguite come doppie corde, cioè due suoni all’ottava suonati simultaneamente, mentre qui sono eseguite una nota dopo l’altra). Altra particolarità della quinta variazione è l’attenzione che bisogna porre nella differenza tra il registro acuto e quello grave che è infatti sottolineato da accenti. Nella sesta variazione sono introdotte, per la prima volta in questi Capricci, gli intervalli di decima, che sono, per un violinista, una delle maggiori difficoltà tecniche che si possono incontrare. Questo tipo di intervalli, come le ottave e le decime, e tutte le elevatissime difficoltà tecniche presenti in queste composizioni di Paganini, si riscontrano praticamente in tutte le sue opere. La settima variazione sembra inizialmente frenata dell’impeto iniziale, ma poi, attraverso il contrasto tra registro acuto e registro grave, si capisce che non ha mai abbandonato la frenesia originale. Frenesia che scoppia ancora di più con una serie di complicati accordi nell’ottava variazione, eseguiti, di norma, in un continuo accelerando. La nona variazione, forse la più celebre, contiene una tecnica dell’arco e della mano sinistra completamente nuova. Il “pizzicato con la mano sinistra” consiste nel suonare con l’arco solo alcune note, e le altre (contrassegnate di solito dal segno +) devono essere pizzicate, ma non, come si fa di solito con la mano destra, che è già impegnata, bensì con la mano sinistra, che quindi deve fare un doppio lavoro, premere la corda per dare l’intonazione alla nota con un dito, e con un altro andare a pizzicare la stessa corda. La decima variazione è formata da note estremamente acute, e il clima potrebbe sembrare di riposo, anche se suonare in posizioni acute è per il violinista tutt’altro che rilassante, e di preparazione all’undicesima e ultima variazione, che comprende varie tecniche, anche già usate nelle variazioni precedenti, come doppie corde e arpeggi, eseguite ad una elevata velocità che preparano al Finale, composto solo da arpeggi eseguiti nelle due contrastanti dinamiche di “piano” e di “forte”, che portano all’ultimo accordo dopo il cambio di modo, da La minore a La maggiore.

Un particolare ringraziamento ad Ennio Melchiorre e Michela Marchiana per il loro preziosissimo ed indispensabile contributo nella descrizione dei vari brani. [17]


DISCOGRAFIA

Nicolò Paganini: 24 Capricci Salvatore Accardo (violino). Deutsche Grammophon – Galleria I Capricci di Paganini suonati da Accardo è quasi un obbligo averli, ascoltarli e riascoltarli. Questa famosa registrazione è sempre stata una delle più raccomandate, forse la più puramente musicale. Accardo entra con maestria in questi pezzi, e non ce n'è uno che non sia interessante in questa registrazione.

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Paganini: 24 Caprices Itzhak Perlman (violino). Warner

Questa registrazione del 1972 di Itzhak Perlmann è stata rimasterizzata nel 2015. Non esito a raccomandare questa incisione per sapere quali altezze interpretative si possono raggiungere.

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Paganini: The twenty-four Caprices Michael Rabin (violino). Emi Classics Michael Rabin è stato un violinista statunitense di origine rumena.

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Durante un recital alla Carnegie Hall, all’età di 20 anni, improvvisamente perse l’equilibrio e cadde in avanti. Questo probabilmente fu un segno precoce di una condizione patologica neurologica che influenzò negativamente la sua carriera. Circostanze poco chiare sono legate alla sua morte avvenuta il 19 gennaio 1972 all’età di 35 anni. Secondo la versione ufficiale, un improvviso collasso nervoso provocò un’accidentale caduta nel suo appartamento a New York, con un conseguente trauma cranico ad esito letale. La scomparsa prematura di Michael Rabin è stata una tragica perdita per il mondo dell’arte violinistica. Questa dei Capricci è una versione molto bella, mirabilmente ben registrata. La facilità con cui Rabin interpreta questi pezzi è disumana.

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Paganini: 24 Caprices Shlomo Mintz (violino). Deutsche Grammophon – The Originals

Mintz è naturale in questo repertorio e la performance è stellare, ricca di virtuosismi e sfumature musicali. Performance del 1982, registrata splendidamente, nonostante si fosse agli inizi del DDD.

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Paganini: 24 Caprices, op.1 Ilya Kaler (violino). Naxos Non molti conoscono Ilya Kaler, meraviglioso violinista, vincitore di 3 prestigiosi premi internazionali (Paganini, Sibelius, Tschaikovsky) la cui carriera non è mai decollata. Qui egli ci offre qui delle più grandi e più belle versione di questi 24 piccoli gioielli per violino da solo, una tecnica di precisione perfetta, anche nelle difficoltà più scabre, una musicalità quasi senza pari. [19]


I brani sono puri virtuosismi con il violino, la maggior parte sono estremamente veloci, e necessita di attenzione per apprezzare i pezzi. Bellissimo!

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Paganini: 24 Caprices Julia Fischer (violino). Decca La cosa più sorprendente di questa produzione Decca non è solo l'eccezionale virtuosismo della violinista tedesca Julia Fischer, ma anche la sua musicalità di una naturalezza innata: raramente si sente l'Opus 1 di Paganini come musica e non come pirotecnica, il che suggerisce che la violinista deve aver pensato e ripensato a questo lavoro, nonostante abbia riportato nel libretto che ha imparato i Capricci in pochi mesi. Una notevole aggiunta alla collezione dei Capricci sia per la interpretazione che per il suono.

♫♫ Paganini: 24 Caprices Midori (violino) Sony

Midori offre una prestazione magistrale di questi 24 Capricci. Il suo virtuosismo è emozionante, vengono visualizzate tutte le sfumature dei capricci. Incredibile. Brillante.

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Paganini: Capricci per violino solo Op. 1 nn. 23, 24, 15, 19, 22, 11, 13, 5, 7 Giuseppe Gaccetta (violino) Documenti Questo CD è veramente eccezionale e strepitoso, nonostante l’età quasi centenaria! Ha un alto valore storico: cinque di questi capricci con Gaccetta costituiscono il primo documento sonoro dei Capricci pervenutoci. E’ anche l'unica registrazione di Gaccetta, che li ha registrati - dopo pochi anni di studio a 17 anni - per caso in un negozio in cui c'era il cartello "Registrate la vostra voce per i vostri cari". Sono solo nove dei capricci perché l'esecutore ha dovuto inciderli su un rullo (si parla del 1931!) che aveva un limite di tempo nella registrazione. Nella rimasterizzazione, i brani non sono stati ritoccati, né accelerati, né "migliorati", (se state attenti sotto a un capriccio si sente il tram che passava appunto fuori dal negozio), e quei Capricci Gaccetta li ha suonati uno dopo l'altro senza possibilità di ripetizione.

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I grandi Direttori del ‘900: Herbert von Karajan e le 9 Sinfonie di Beethoven Tra Herbert von Karajan e Beethoven vi fu un amore che durò per tutta la vita. Il Maestro incise il ciclo delle Sinfonie beethoveniane più volte: con la Philharmonia tra il 1951 e il 55, con l’etichetta EMI, poi, con la Deutsche Grammophon, negli anni 1961-62, quindi tra il 1975 e il 1977 e infine in tarda età nel periodo tra il 1982 e 1984. A queste si deve aggiungere una quinta integrale, pubblicata in DVD, registrata tra la fine anni sessanta e inizio settanta, a cavallo tra i due giubilei beethoveniani del 1970 e del 1977. E’ interessante un confronto fra le varie interpretazioni in un periodo di tempo di oltre 30 anni.

Beethoven: The 9 Symphonies Philharmonia Orchestra, dir. Herbert von Karajan (1951-55). EMI La prima integrale beethoveniana di Karajan, l'unica da lui realizzata per la EMI, ha avuto proprio per questa ragione la fortuna di rimanere costantemente l'incisione di bandiera di questa casa, mentre la Deutsche Grammophon faceva concorrenza a se stessa pubblicando, in poco più di un ventennio, ben tre ulteriori integrali. E ancor oggi, visto il livello delle interpretazioni, questa integrale può costituire una delle soluzioni ideali per chi voglia porre la prima pietra di una discoteca di base; anche se è verosimile che il suo target di elezione venga ad essere rappresentato soprattutto dai musicofili di un certo spessore, desiderosi di raffrontare le varie versioni e magari curiosi di verificare come se la cavasse il grande Maestro di Salisburgo quando ancora non poteva fruire, in sala d'incisione, delle avanzate risorse tecnologiche che utilizzò nelle sue realizzazioni più mature. Sotto quest'ultimo profilo, va detto subito che qui si incontrano già in larga misura le consuete doti di trasparenza e levità: segno che i tecnici EMI degli anni Cinquanta sapevano il fatto loro, ma che anche e soprattutto il principale merito della magia va alle qualità del direttore. Quanto alle soluzioni interpretative, può essere curioso notare che - nel quadro di un assetto di base mantenutosi abbastanza costante nel tempo - questa integrale presenta maggiori affinità con quella degli anni Settanta che con quella dei Sessanta. Lievemente più mossa rispetto alla versione del '63 (a parte la fissità ieratica della Marcia Funebre) si presenta l'Eroica, che, specie nelle code del primo e dell'ultimo tempo, prefigura la lettura vibrante ed elettrica del '77. Lievemente più rapide rispetto alla seconda edizione sono anche la Prima e la Quinta, mentre è impercettibilmente più moderata la [22]


Sesta ed accentuatamente più lenti i primi due tempi della Quarta: tutte soluzioni destinate a riproporsi nella versione del '77. Fanno invece storia a sé la Seconda e l'Ottava, che progrediranno sempre in rapidità e fluidità. Analoghe oscillazioni si osservano nei ritornelli (quei pochi che Karajan prese in considerazione): qui, come poi nel '77, vengono omessi quelli del primo tempo della Prima e dello Scherzo della Nona, presenti invece nel '63. Un discorso a parte va fatto per la Settima, che nelle incisioni successive si sposterà sempre più verso l'orbita di Toscanini (eccezion fatta per il Trio dello scherzo, che continuerà sempre a venir eseguito con la debita grandiosità), mentre qui i tempi sono quelli dell'ultimo Furtwängler, ma con la luminosità e la fluidità tipiche di Karajan. Si tratta quasi sicuramente della sua Settima più bella, e già da sola varrebbe l'acquisto dell'intero album. Ma lo valgono anche tutte le altre, non ultima la Nona, che, della serie, è quella il cui assetto interpretativo si manterrà più inalterato nel tempo, ma che qui può vantare, nel finale, la presenza di solisti veramente d'eccezione (fra cui la Schwartzkopf ed Edelmann, protagonisti anche di alcune delle più memorabili None furtwängleriane). Audiofili e amanti del suono perfetto, astenersi però! Il CD infatti, benché di buona qualità, soffre dell'età della registrazione (anni '50) nonostante la recente rimasterizzazione. Il suono, infatti, nonostante sia pulito, non è perfetto, e si sente. Inoltre la maggior parte delle tracce sono in Mono, ma ce ne si fa una ragione vista l'età della registrazione. Sono vecchie registrazioni, ma la qualità è eccellente. L'unico inconveniente è la mancanza di note di accompagnamento. ♫♫

Beethoven: The 9 Symphonies Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan (1961-62). Deutsche Grammophon A parere unanime, è la performance di riferimento di tutte le grandi sinfonie di Beethoven. Le registrazioni del 1961-1962 delle nove sinfonie di Beethoven furono espressamente progettate come un lavoro unico, come effettivamente una "integrale" studiata a tavolino, e quindi un prodotto da offrire tutto insieme (ricordo di aver letto che sia stato il primo caso nella storia della discografia). Se qualcuno (una netta minoranza) dissente che non sia proprio la più bella (a questi livelli, i giudizi di valore sono più che mai opinabili), è senza dubbio la più equilibrata, quella dove la linea interpretativa delle varie sinfonie si presenta più organica ed uniforme. [23]


Le letture sono coinvolgenti, fresche e totalmente idiomatiche nonostante la loro età. Si sente l’influenza di Toscanini! Un inarrivabile Karajan offre un'energia, una giovinezza e una spontaneità che i suoi cicli di Beethoven degli anni '70 e '80 non riescono a eguagliare. Tempi energici ma non frettolosi, suono pieno ma attento alle sfumature, dinamica ampia, una tensione non spasmodica ma costante. Cosa dire delle singole esecuzioni se non che sono altrettante vette irrinunciabili: scegliere è impossibile, amarle tutti è doveroso. Per me, la quinta sinfonia è forse la versione più bella che ho mai sentito. I Berliner sono in forma smagliante. Il canto, con Gundula Janowitz (soprano), Hilde Rossel-Majdan (contralto), Waldermar Kmentt (tenore), Walter Berry (baritono) e con i Wiener Singverein, è eccezionale. Una sala d'incisione dall'acustica irripetibile (la chiesa Jesus-Christus-Kirche di Berlino), un ingegnere del suono analogico capace ancora oggi a oltre cinquant'anni di distanza di surclassare i moderni ingegneri di tecnica digitale. Originariamente pubblicato nel 1963 in LP, questo ciclo è stato masterizzato in CD alla massima qualità, con dinamica conservata correttamente e nessuna compressione inappropriata. Ultimamente è stato rimasterizzato in disco Blue-ray contenente tutte le 9 sinfonie (oltre diverse scene dietro le quinte). Questa rimasterizzazione porta tutti i vantaggi del formato: più dettagli, risposta in frequenza estesa, con strumenti che suonano più corposi e hanno un timbro più naturale. Il suono cristallino e purissimo restituito da questa tecnologia è impossibile da descrivere: bisogna ascoltarlo. A mio avviso è il modo migliore per ascoltare il ciclo di Beethoven degli anni '60 di Karajan. In poche parole un cofanetto destinato a restare nella storia delle incisioni discografiche che non può mancare nella raccolta di ogni vero appassionato. Beethoven stesso ne sarebbe entusiasta, io penso. ♫♫

Beethoven: The 9 Symphonies Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan (1975-77) Deutsche Grammophon Commercializzata dalla Deutsche Grammophon come edizione celebrativa per il 150° anniversario beethoveniano del 1977, questa integrale - la terza realizzata in disco da Karajan, senza contare l'autonoma versione video di pochi anni prima - fu oggetto, all'epoca, di una massiccia campagna promozionale, tale da far pensare che essa fosse destinata a rappresentare una parola definitiva non solo per il maestro salisburghese, ma per la storia dell'interpretazione tout court. Per le sinfonie di Beethoven «old school», le registrazioni della Filarmonica di Berlino del 1977 di Herbert von Karajan sono un'ottima scelta; se superino o meno le sue esibizioni del 1961, con la stessa orchestra, è molto discutibile: ritenendo accademico individuare la superiorità di un ciclo [24]


sull'altro giudico questo degli anni ‘70 coi soliti magnifici Berliner degno della massima considerazione: penso che tutti gli appassionati di musica classica dovrebbero avere anche questa raccolta. L'impressione di un minore equilibrio complessivo di tutte le 9 sinfonie si deve soprattutto alla Quarta, che, in un quadro interpretativo d'insieme dove i tempi tendono ad una sempre maggiore snellezza rispetto alle incisioni precedenti, è l'unica sinfonia a risultare sensibilmente più lenta rispetto all'edizione del '63, dando l'impressione di un ritorno verso l'impostazione del '56. Il che stupisce tanto più se si considera che la Quarta degli anni Sessanta rappresentava proprio una delle riuscite più felici ed originali della serie, dove la concertazione soffice ed aerea, unita alla velocità dei tempi, produceva esiti di una leggerezza eterea e spumeggiante, del tutto autonoma rispetto ai filoni lirico e vitalistico che rappresentano le direttrici fondamentali nella storia interpretativa di questa composizione. L'edizione 1977, sempre lieve e trasparente, ma meno rapida, si inscrive invece nettamente nel filone lirico, con esiti gradevoli e poetici ma non altrettanto originali. In questa versione anni ‘70 anche la Prima e la Terza sembrano guardare alla versione del '56 più che a quella del '63, ma stavolta in senso coerente con l'impianto complessivo di tornare verso soluzioni più dinamiche: e in questo senso veramente riuscita è l'Eroica, dove i tempi rapidi, valorizzati da una concertazione particolarmente vibratile ed elettrizzante, producono, soprattutto nella coda del primo tempo, esiti di trionfale iridescenza sonora. Si tratta, quasi certamente, della più originale Eroica di Karajan, e di uno dei vertici assoluti tra le versioni snelle ed apollinee di questo lavoro, accanto a quella di Cluytens e a quella suprema di Erich Kleiber con i Wiener. Tra le altre sinfonie, il dinamismo dei tempi e l'iridescenza della concertazione giovano particolarmente alla Seconda (il cui Larghetto rapido ed etereo è un altro miracolo interpretativo come la Quarta del '63) e all'Ottava, di cui troviamo qui una lettura spumeggiante, variegata e travolgente che può forse aspirare ad essere la più bella della storia del disco. Altri hanno criticato la Sinfonia Pastorale come troppo rigida e tesa. Particolarmente sontuosa la Nona, per la pienezza e raffinatezza del suono e per la levatura dei solisti nell'ultimo tempo (anche se restano fatalmente inarrivabili quelli esibiti nell'incisione del '56). Articolata in sei CD anziché negli abituali cinque, questa edizione presenta il vantaggio di abbinare alle sinfonie alcune Ouvertures (Prometeo, Leonora III, Egmont, Fidelio, Coriolano, Rovine di Atene) estratte dall’insuperata incisione completa del 1973.

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Gli splendidi Berliner con Karajan danno l'impressione di un grande rigore, con tempi decisi e ben scanditi, sonorità piene e dinamiche chiare. I movimenti vivaci, i crescendo impetuosi e gli snodi ritmici insistenti sono per me i più coinvolgenti in questa edizione, ma anche passaggi come la Marcia funebre della Terza mi emozionano molto. La gamma dinamica del disco è ampia, ma rispetto ad altre rimasterizzazioni DG mi sembra che il suono sia leggermente velato e non abbia la spazialità che spesso i master originali avevano e che il procedimento AMSI altrove enfatizza. ♫♫

Beethoven: 9 Symphonies - Ouvertüren Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan (1982-84) Deutsche Grammophon – Karajan Gold Neppure una decina di anni dopo dal ciclo precedente, sull'onda montante dell'era digitale, giungeva la quarta versione, subito diffusa in CD e in laser disc. In questa integrale, le migliori incisioni di Karajan sono quelle della 3°, 4°, 5° e 7, mentre alla 6° mi sembra sempre mancare il vero respiro poetico, nella 9° ho notato una palese mancanza di bellezza delle voci. Il timer di 82-84 rispetto al 61-62 mostra che Karajan sta andando ancora più veloce alla fine della sua vita! Ho anche avuto la triste impressione, in quest'ultima integrale, che la Filarmonica di Berlino non avesse più il suo entusiasmo all'inizio degli anni '60, che la macchina impeccabile facesse il suo lavoro ma non molto di più, con un anziano direttore per il quale il grande amore degli inizi si era affievolito. Dobbiamo parlare del suono di questi dischi, dato che Karajan attribuiva loro grande importanza e ha chiesto questa nuova integrale proprio perché è apparso il supporto del cd ma anche perché egli stava avanzando nell'età. Questa edizione «Karajan Gold» si mescola quindi con un processo di cui la DG è molto orgogliosa, l’«Original - Image Bit - Processing»: tutto questo è manipolato, e la naturalezza scappa. Semplicemente, è ancora più lussuoso e confortevole, enorme, opulento, ancora più artificialmente dettagliato e spettacolare.

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VIDEOTECA

Beethoven: The Symphonies Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan Deutsche Grammophon – Unitel [DVD] Come si comprende agevolmente dalle date di registrazione e dai nomi dei solisti della Nona, questi video beethoveniani di Karajan non debbono essere confusi con le integrali in disco del 1963 e del 1977, ma costituiscono un'ulteriore versione a sé stante che si situa esattamente a metà strada tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, a cavallo tra i due giubilei beethoveniani del 1970 e del 1977 e in coincidenza con una delle fasi di maggior espansione del "culto dell'immagine" del Maestro salisburghese, i cui cicli delle nove sinfonie non sono dunque quattro, come comunemente si dice, ma addirittura ben cinque. Intermedia, oltre che sotto il profilo cronologico, questa versione lo è anche dal punto di vista interpretativo, nel senso che alcune sinfonie appaiono più vicine alla concezione del '63 ed altre a quella del '77: eppure proprio ciò finisce per dare alla raccolta una impostazione particolarmente coerente, in quanto tutte le soluzioni interpretative adottate si muovono nel senso della massima snellezza e concisione di tempi e di linee. Ciò vale ad esempio per i ritornelli, quei pochi che Karajan abbia talora presi in considerazione: qui, come poi nell'edizione del 1977, vengono soppressi quelli del primo tempo della Prima e dello scherzo della Nona; ma anche, come nel '63, quello dello scherzo della Pastorale, che negli anni ‘70 verrà invece ripristinato. Ma è soprattutto sul piano dinamico che non si riscontra quella che sarà la più singolare anomalia nella versione '77, ossia il fatto che, in un contesto generale improntato a sempre maggior velocità, il primo tempo della Quarta tenda invece a farsi piuttosto lento. Qui la velocità resta all'incirca la stessa del '63, anche se non si può proprio dire di ritrovarvi la stessa effervescenza e, soprattutto, lo stesso magico senso di levità. In quest'edizione video, la cifra interpretativa saliente di tutte le sinfonie è anzi semmai la forza d'urto: ne è un autentico manifesto programmatico la Quinta, una delle più scattanti, propulsive e incandescenti che si conoscano, dove l'incalzare ritmico investe anche il secondo tema del primo tempo e, se accenna un istante a placarsi sulla cadenzina dell'oboe alla fine dello sviluppo, lo fa solo per accrescere ulteriormente la tensione. [28]


Questo ciclo produce risultati particolarmente felici nell'Eroica, il cui primo tempo anticipa la concezione rapida, fluida e iridescente delle letture a venire, mentre il finale ripropone la grandiosa visione neo-furtwängleriana del passato; la marcia funebre, dal canto suo, è sensibilmente più veloce delle altre versioni (dura quasi due minuti in meno). Fra le migliori riuscite va segnalata l'Ottava, già concepita nel segno nervoso ed elettrico dell'edizione anni settanta; e molto snella e dinamica si presenta pure la Nona, il cui scherzo, tra il taglio di tutti i ritornelli e il tempo rapidissimo, viene a durare appena nove minuti, circa uno in meno delle già rapidissime versioni 1956 e 1977. Di gran lusso il parco voci nel finale (Gundula Janowitz, Christa Ludwig, Jess Thomas, Walter Berry), anche se resta ineguagliato quello veramente stellare sfoggiato nell'edizione degli anni cinquanta. Visto che si parla di video, non si può non dedicare qualche cenno alla componente iconografica, cui del resto Karajan dedicò com'è noto un'attenzione non meno maniacale che all'interpretazione musicale, al punto da avvalersi, per i suoi primi filmati, di un regista di levatura mondiale come Clouzot. Anche grazie ai frequenti passaggi televisivi, questi, insieme a quelli del ciclo "rivale" di Bernstein con i Wiener, sono probabilmente i video sinfonici più noti, e il confronto tra le gestualità dei due direttori ci fornisce in termini materiali la cifra dei rispettivi atteggiamenti interpretativi: Bernstein si trasforma letteralmente nella musica che sta dirigendo, esprimendone i significati con ogni fibra del proprio corpo; Karajan appare invece composto e ascetico, a volte quasi in trance (tra l'altro è noto che aveva l'abitudine di dirigere ad occhi chiusi); e se i suoi gesti corrispondono puntualmente ai significati espressivi della musica, non si può dire però che la gestualità muti significativamente da un brano all'altro. Gli esperti hanno spesso osservato che i video di musica sinfonica, concentrati ora sull'immagine del direttore ora su singoli settori dell'orchestra o su singoli strumenti o particolari di strumenti, rischiano di "parcellizzare" l'attenzione dell'ascoltatore distogliendola dai significati musicali propriamente detti. L'incognita potrebbe farsi ancor più sensibile in questo caso, dove la regia assurge ad autentica opera creativa assumendo significati allusivi di particolare suggestione (si pensi ai lampi di luce che investono gli ottoni al momento degli effetti dissonanti nel primo tempo dell'Eroica, o a certe alchimie di mixage che nella Pastorale, attraverso gli effetti di sovrapposizione tra l'immagine del direttore e di certi riflessi degli strumenti, sembrano evocare in filigrana un'ombra di vedute agresti). Ma poiché qui la regia è supervisionata dal direttore, si può se non altro ritenere che anche questi aspetti siano a propria volta parte integrante della sua attività interpretativa. La 9° è impreziosita da una splendida regia di ripresa e dalla magnifica sala della Berliner Philharmonie (tenuta nascosta sino all'apoteosi finale). La registrazione è una sorta di «falsa diretta». Anche se il pubblico appare in alcune parti del DVD, la maggior parte degli scatti vengono lanciati da angolazioni impossibili nella registrazione di un vero concerto, avvicinandosi a un film o a un documentario piuttosto che ad un concerto dal vivo stesso. La varietà di scatti è molto ampia, utilizzando o scatti panoramici o alcuni in cui la fotocamera [29]


sembra essere a pochi centimetri di distanza dagli strumenti. E mettendo effetti di tutti i tipi, immagini sovrapposte, fuse tra due immagini, cambia colore in bianco e nero e di nuovo torna al colore. A volte l'orchestra e il coro sembrano addirittura posare più che esibirsi. Ma tutto questo è sempre al servizio della musica, per esaltare o enfatizzare i vari passaggi delle sinfonie e naturalmente contare sull'onnipresente Karajan come figura principale. Nonostante sia una vecchia registrazione in un formato DVD 4:3, lontano dai nuovi formati di alta qualità che ci sono oggi, l'immagine è spettacolare, con un equilibrio di luminosità e contrasto davvero buono. Il suono è meraviglioso, con l'intera gamma di frequenze ascoltate con incredibile nitidezza, dai bassi agli alti più alti. Contiene due bande audio, una in PCM stereo e una in DTS 5.1. Il Surround è stato utilizzato principalmente per estendere lo spazio dell'orchestra ma anche per esaltare la situazione spaziale delle diverse sezioni.

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L’opera organistica di Johann Sebastian Bach di Paolo Duprè

La musica d’organo accompagnò Bach lungo l’intera vita. Tra le sue prime composizioni troviamo opere per il “re degli strumenti” e l’ultima, che il maestro ormai cieco dettò al genero Altnikol, fu un corale per organo. Il primo scopo dell’arte di Bach fu di magnificare il Signore e l’organo gli offrì la via più diretta per raggiungerlo, senza bisogno di collaborazione altrui. Quasi ciascuna delle più di 200 opere che egli scrisse per l’organo fu comcepita per scopi liturgici.

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Le opere del primo periodo sono tipiche di un giovane compositore che cerca di trovare se stesso e di padroneggiare la complessità della sua arte. Bach era sempre pronto ad imparare dagli altri ed è naturale che questa tendenza non apparisse mai così netta come nelle opere della giovinezza. L’organista esordiente studiò le opere della sua famiglia e soprattutto le composizioni di Johann Cristoph e di Johann Bernhard. Dopo i parenti i suoi modelli furono i più grandi maestri a tastiera d’Italia, Germania meriodionale, centrale e soprattutto settentrionale. Copiò ed imitò la loro musica, talvolta stentando a raggiungere il loro livello e solo raramente superandolo. Il suo linguaggio è sovente mutevole e talvolta troppo abbondante. La sua tecnica armonica e polifonica è immatura, il senso dell’equilibrio formale non ancora sviluppato. Tipico del carattere volubile delle prime opere per organo di Bache è che, mentre alcune contengono parti molto difficili e brillanti per i pedali, altre ne fanno completamente a meno.

[Luneburg, citta anseatica della bassa Sasonia ove Bach dimorò dai 15 ai 18 anni. Aveva vinto una borsa di studio e studio presso la prestigiosa scuola di San Michele ove imparò anche il francese e l’italia o. Da lì a dava ad A u go ad as olta e Rei ke ed a Celle ad ascolare lo stile francese del duca Guglielmo di BrunswickLuneburg.]

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Pure, questi lavori del giovane Bach sono ugualmente attraenti, suberanti nella espressione, molto commoventi. Appaiono, con la loro comunicatività, i tipici prodotti di un giovane genio che si sta affermando. Il primo periodo mostra una certa somiglianza con quello di Brahms le cui composizioni giovanili compensano la mancanza di perfezione formale con un contenuto toccante ed appassionato. Due sono i gruppi principali di opere organistiche di Bach, quelle liberamente inventate e quelle basate su qualche corale luterano. Il primo gruppo consiste dei preludi o toccate, seguiti dalle loro fughe. I liberi preludi e le toccate risentono spesso del brillante stile veneziano di Merulo e di Gabrieli, che passò a Bach attraverso la stupenda arte del maestro di Lubecca Dietrich Buxtheude e del suo allievo Georgh Böhm. Anche una influenza nord-tedesca si può trovare nella costruzione, sciolta e rapsodica, delle fughe. Notevoli esempi della scrittura di Bach nel periodo di Luneburg (1700-1703) sono offerti dai Preludi e fughe in la minore (BWV 551 ) e do minore (BWV 549). Quello in la minore è una specie di toccata, un pezzo ad effetto che contiene nella parte centrale due sezioni fugate. La prima breve fuga è di sole 17 battute ed usa un tema gaiamente ondeggiante nel carattere delle melodie di Buxtehude senza alcun tentativo di seria elaborazione. La seconda fuga sembra introdurre un nuovo tema, che però è accomtagnato da uno scorrevole controsoggetto che gradualmente guadagna di importanza e somiglia sempre più al tema della prima fuga. Anche in questa composizione, ancora primitiva, appare lo sforzo di Bach per unificare le diverse sezioni di un’opera. Sempre di Luneburg sono le partite sul corale Oh Gott du frommer Gott. Il genio di Bach è già tutto presente. Meritano un ascolto! Un’efficace relazione tematica fra tre movimenti successivi è raggiunta nella Fantasia in sol maggiore BWV 571. L’ultimo pezzo culmina in una figura di “ostinato” consistente di 5 note discendenti a scala che appare non solo nel basso ma che nel soprano e voci intermedie. E’ questo il primo esempio dell’uso da parte di Bach di una tecnica il cui più brillante esempio si troverà nella possente Passacaglia in do minore. La celeberrima Toccata e fuga in re minore BWV 565 è l’opera più impressionante del periodo di Arnstadt. La dipendenza di Bach dai suoi modelli è chiara qui come in qualsiasi altra composizione. del primo perodo

[Arnstad, citta della Turingia ove Bach ricevette il suo primo incarico di organista. Nella chiesa di San Bonifacio i iziò a suo a e ell’agosto del 3. Aveva a i. Lo stipendio era buono, ma ben presto rimase insoddisfatto. A 21 anni divenne organista a Mulhausen e sposò la cucina Maria Barbara.]

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Le sezioni in stile di toccata al principio ed alla fine sono fortemente rapsodiche e la fuga che fluisce al centro è scioltamente costruita con volate ed accordi spezzati, che separano le diverse entrate del tema. E’ chiaro che Bach voleva mantenere quel carattere predominante di improvvisazione brillante anche nella sezione principale. Il tema sembra preso dalla tecnica violinistica di suonare contemporaneamente due corde vicine, procedimento che Bach userà spesso nella sua musica per strumenti a tastiera. Le fiumane sonore della toccata, simili a sprazzi da fuochi di artificio, hanno fatto pensare ad intenzioni programmaticamente descrittive. [La prima pagina autografa della Toccata in re minore]

Il Pirro ha visto nella toccata la raffigurazione della furia degli elementi scatenata da un temporale e tuttavia vi è una maestria latente, che regge i fili di queste emozioni scatenate. L’opera è scritta da un organista dotato già di un intuito così profondo sulle possibilità del suo strumento, da poterne strappare i più potenti effetti senza affliggere soverchiamente l’esecutore con problemi tecnici insormontabili. Nella sua esuberante intensità sono scomparsi i tentennamenti e le incertezze del giovane Fra i corali per organo del primo periodo si distinguono tre tipi: - La fughetta corale - La fantasia corale - La partita corale In alcune fughette la melodia del corale è trattata in parte come tema di fuga, in parte come base per libere imitazioni. In altre viene introdotto un controsoggetto che viene mantenuto per tutto il pezzo. Si ascolti Von Himmel Hoch (BWV 701) in cui la scala discendente di cui è fatto il controsoggetto esprime un battito d’ali di angeli. In queste composizioni non compare il pedale. L’unica fantasia corale scritta è Christ lag in Todesbanden. Erano composizioni favorite da organisti settentrionali. Lo stile è simile a quello di Buxtehude e Böhm. Impianto più vasto le Partite diverse. Esuberanti. Giovanili le BWV 766 e 767. L’armonia è all’inizio un po’ impacciata, con frequenti ripetizioni della tonica e della dominante e pesanti accordi a 5-6 parti sul tempo debole. Le partite 768, Sei gegrusset Jesu gutig mostrano tracce di revisione più tarda: nessuna debolezza tecnica, linguaggio sempre appassionato ed enorme superiorità rispetto alle composizioni dei contemporanei.

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Durante i nove anni passati a Weimar, tra il 1708 ed il 1717, dopo il breve periodo a Mulhausen nel 1707, Bach fu soprattutto un organista di corte. La maggior parte delle composizioni per organo furono scritte proprio qui, dai 23 ai 32 anni. Questo secondo periodo creativo comprende anche un grande numero di rielaborazioni e trascrizioni, specie di maestri italiani, che gli servirono come mezzi per estendere il suo orizzonte artistico e familiarizzarsi coi nuovi mezzi di espressione musicale. Vi raggiuse una tale perfezione stilistica che spesso è difficile stabilire se una certa opera per organo appartenga a questa fase od al successivo periodo della piena maturità. L’effetto dell’arte italiana su Bach fu simile a quello che ebbe la pittura su Dürer. Si liberò della eccessiva asprezza e della rigida angolosità dell’arte nordica tedesca e plasmò con chiarezza plastica e semplicità della struttura. Bach giunse così alla totale assimilazione della musica italiana e, fondendola con l’eredità contrappuntistica della sua stirpe e con lo stile nordico, creò quello che noi oggi consideriamo il suo tipico linguaggio. Le rielaborazioni di Weimar cominciano con le trascrizioni dei concerti per violino adattati al cembalo ed all’organo, ed in questo fu spinto dalla simile attività che nello stesso tempo stava facendo il suo amico e parente J.G. Walther. Bach rielaborò per organo un intero concerto ed un singolo movimento di concerto del giovane e geniale principe Johann Ernest di Weimar e tre concerti di Vivaldi. In genere egli segue fedelmente l’originale, affascinato dalla naturale grazia dello stile italiano e fortemente impressionato dalle possibilità e dai risultati che si potevano raggiungere usando la forma del concerto vivaldiano in un un’opera per organo solo. La pratica di queste rielaborazioni dovette confermarlo nella opinione che le maniere della scrittura violinistica si potessero adoperare vantaggiosamente anche nel linguaggio degli strumenti a tastiera. Al tempo stesso le sue trascrizioni non diventano meccanici trasferimenti di note: Bach rafforza l’armatura armonica ed apporta piccoli mutamenti armonici e contrappuntistici soprattutto nelle parti intermedie e nel basso, che aggiungono eleganza all’opera. Nel Concerto in do maggiore BWV 594 va addirittura oltre: cambia le cadenze del I e III tempo e sostituisce il tempo centrale con una specie di toccata tedesca in forma di recitativo. [34]


Un’altra specie di influenza italiana si rivela in opere come l’Alla breve BWV 598 e la canzona in re minore BWV 588. Queste opere riflettono l’impressione che Bach ricevette da Girolamo Frescobaldi, grande maestro ferrarese del secolo precedente, di cui copiò nel 1714 i Fiori musicali. Anche il primo movimento della Pastorale in fa maggiore BWV 590 appartiene al medesimo gruppo di opere. Questo pezzo, probabilmente incompiuto perché inizia nella tonalità di fa maggiore e termina in la minore, con lunghe note al pedale, il gentile carattere lirico ed il ritmo di siciliana 16/8, riflette quello spirito che si può trovare in innumerevoli interpretazioni musicali italiane della Natività. Sia nelle composizioni per cembalo che in quelle per organo di questo periodo Bach adopera talvolta temi italiani. Una fuga in do minore ha il titolo di Thema Legrenzianum elaboratum cum subjecto pedaliter per J.S. Bach, mentre la Fuga in si minore BWV 579 è costruita sopra un tema di Arcangelo Corelli. L’opera di Bach è lunga circa tre volte l’originale ed è a 4 voci al posto di 3 dell’altra. Tuttavia è comprensibile che il semplice e plastico tema del compositore romagnolo affascinasse il giovane maestro. Il lavoro su questa specie di musica aiutò Bach a sviluppare l’architettura così espressiva dei suoi più maturi temi di fughe.

Quanto alle opere che non sono trascrizioni e neppure basate su un modello preciso, i primi risultati dello studio compiuto da Bach sulla musica italiana si possono trovare in una serie di composizioni che contengono elementi settentrionali e meridionali accostati assieme in modo piuttosto primitivo: a questo gruppo appartiene la Toccata adagio e fuga BWV 564 [ ell i

agi e sopra, le prime sei

battute] che combina lo stile della toccata tedesca con quello del concerto italiano: il movimento centrale, che tiene dietro ai passaggi di bravura della toccata contiene una delle più calde e commoventi cantilene che Bach abbia mai scritto. In questo pezzo è chiaro che il maestro pensava ad un lungo e vasto assolo di violino, come se ne troveranno nei secondi movimenti dei concerti. Una quantità di preludi e toccate scritti nella seconda parte del periodo di Weimar rivelano un processo di semplificazione che l’arte di Bach matura sotto l’influsso dei modelli italiani. La Toccata Dorica BWW 538 [immagine nella pagina seguente] non presenta più l’abbondanza dei contrasti del tipo tedesco settentrionale. L’intero e possente pezzo scaturisce da una idea breve e semplice, enunciata nella prima mezza battuta, i cui elementi passano, quasi come frammenti, quasi in ogni [35]


battuta. Le modulazioni ben congegnate ed il sapiente svolgimento tematico tengono l’opera al riparo della monotonia.

Come i preludi, anche le fughe di questo periodo sono meno brillanti, ma più solidamente costruite, via via che Bach elimina sempre più il movimento continuo e le figurazioni veloci della toccata-fuga nord tedesca. Egli si compiace di accrescere la varietà di queste fughe, introducendo nelle sezioni intermedie nuove idee, cui attribuisce diversi gradi di importanza.

E’ il caso della energica fuga in do minore della Fantasia e fuga BWV 537, nel pieno svolgimento della quale è introdotta una contromelodia in forma di scala cromatica ascendente [immagine sopra, dalla seconda battuta della seconda riga] che giunge a soppiantare il tema principale che ritorna al suo ruolo solo verso la fine. Simili costruzioni tripartite furono adoperata dal maturo Bach per rimodellare molte opere del tempo di Weimar. Probabilmente

la più conosciuta delle

opere per organo del secondo periodo è la Passacaglia in do minore BWV 582. Bach trovò la prima metà del tema in un “trio en passacaille” di André Raison.

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Il modello formale gli viene da diverse opere di Buxtehude: d’altra parte, l’idea di adoperare rapporti matematici come basi per la costruzione musicale era perfettamente famigliare all’età barocca. Eppure, nonostante affinità così facilmente rintracciabili, l’opera di Bach è unica. Il tema, che comprende otto battute invece delle quattro tradizionali, mostra la dignità, la forza e l’intensità che lo rendono idoneo all’uso che ne verrà fatto nelle seguenti variazioni. Queste sono venti, divise in due gruppi di dieci, ognuno dei quali rivela la chiara ulteriore suddivisione in sottogruppi di cinque sole variazioni. Ed anche in questi ultimi gruppi si può osservare una ulteriore organizzazione. Lo schema è il seguente: A 1-2, 3, 4-5 B 6-7, 8,

9-10

C 11-12, 13, 14-15 A 16, 17, 18, 19-20

In questo modo la Passacaglia mostra, nel suo insieme, la stessa costruzione tripartita che si trova in ogni sottogruppo. Con la maestosa 20 variazione Bach giunge solo ad un finale provvisorio. Egli ha ormai esaurito tutte le virtualità della variazione e pensa di continuare a concludere l’opera in forma diversa. Nella fuga che segue sono utilizzate solo le prime 4 battute del tema ossia la melodia di Raison, ma Bach la orna con un contrappunto che rimane lungo tutta la fuga come il fedele compagno del tema (controsoggetto).

Come sempre Bach trae il più stupefacente vantaggio dal terreno apparentemente sterile delle restrizioni e limitazione che egli stesso si è imposto. Quella che per una mente più limitata avrebbe potuto trasformarsi in una sterile scommessa matematica, nelle sue mani si trasforma in una creazione immortale, ricca di ansie e di sorprese, dove perfino la padronanza della tecnica impallidisce davanti alla potenza ed alla maestà dell’ispirazione. Nel campo del corale per organo la principale opera del secondo periodo di Bach fu il cosiddetto Orgelbüchlein (Piccolo libro d’organo, BWV 599-644). Pare che questa vasta composizione lo impegnasse durante gli ultimi anni che trascorse a Weimar: la scrisse in due versioni che differiscono in alcune parti ma la completò soltanto dopo il trasferimento a Köthen. Bach l’aveva originariamente concepita su scala molto più vasta. Doveva comprendere 164 corali, i cui titoli il Maestro scrisse in cima alle pagine vuote, disponendoli nell’ordine in cui venivano usati durante l’anno liturgico. [37]


Tuttavia il lavoro si interruppe dopo la rielaborazione di solo 46 corali, 4 per l’Avvento, 13 per il Natale e Capodanno, 13 per la Settimana santa e Pasqua e 16 per altri avvenimenti dell’anno liturgico. Il titolo suona ampollosamente così: Piccolo libro d’organo dove si offre ad un organista principiante il metodo per sviluppare in tutte le maniere un corale, in cui possa anche perfezionarsi nello studio del pedale perché nei corali che qui si trovano il pedale è trattato in modo strettamente obbligato. All’altissimo Iddio solo per onorarlo ed al prossimo perché si istruisca. Autore Johanne Sebast. Bach P.T. cappellae magistro S.P.R. Anhaltini Cotheniensis Bach a quell’epoca aveva molti allievi e l’Orgelbüchlein è la prima di una serie di opere didattiche. Opera tipica del periodo di transizione di Bach. I corali sono presentati in maniera semplice e concisa, senza introduzioni ed interludi. Di regola il soprano presenta una semplice versione della melodia del corale, sostenuta dalle tre altre voci con maestria contrappuntistica consumata. Per lo più, lo schema ritmico viene mantenuto invariato per tutto il pezzo e così si ottiene una forma che sembra una singola variazione di una partita corale. L’interesse per la variazione su corale è una caratteristica dell’opera giovanile di Bach, così come è giovanile il soggettivismo nella interpretazione delle melodie. Nelle tre parti più gravi raggiunge altissimi livelli di fervore di sentimenti. D’altra parte l’estrema economia del linguaggio musicale, così diversa dalla volubilità dell’organista inesperto che inquietava i fedeli di Arnstadt, e la superba sapienza artistica che si dispiega nella scrittura strettamente polifonica dimostrano che il Maestro è giunto alla completa maturità.

[U ese pio dell a ti olata st uttu a polifo i a di u o dei

o ali]

Il suo magistero si rivela soprattutto nella capacità di comprimere entro i confini delle brevi composizioni sia la presentazione della melodia corale sia l’interpretazione del contenuto: Bach stesso insisteva coi suoi allievi affinché riuscissero a rendere gli “affetti” del testo. Ecco in “Agnello di Dio” i sospiri delle appoggiature; in “Il vecchio anno è passato” le atmosfere di tristezza create dai cromatismi; in “In dolce gioia” le terzine saltellanti. Ma forse il più commovente preludio corale è “O uomo piangi la tua grande colpa” in cui Bach ispirato dalle ultime parole del [38]


testo, in cui l’uomo “carico dei nostri dolori, che sparge il suo sangue per noi , lungamente sospeso nella croce” esprime in note sia i dolori del Golgota sia il messaggio della Redenzione.

[Battute fi ali del o ale O uo o pia gi la tua g a de olpa ] L’adozione di un ritmo di danza al basso in un altro corale “Tutti gli uomini devono morire” sprigiona una atmosfera serena. Nessun fraintendimento: è la visione della vita eterna evocata dalla fine del testo e dalla felicità celeste che ci attende dopo la morte . Nove dei pezzi più belli sono trattati in canone, cinque all’ottava e quattro alla quinta. Vi è un significato simbolico nell’uso di questa tecnica, legato sempre alle parole del testo, ad esempio nel secondo versetto di “In dulci jubilo” ecco le parole “portami dietro a Te,”, o nel corale “Aiutami Dio a ben riuscire” l’imitazione di Cristo si risolve proprio in un canone!

[Un intricato passaggio a 5 voci della fuga in sol minore BWV 542]

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Nelle più tarde rielaborazioni dei corali Bach non tornò ad usare i metodi adoperati nell’Orgelbüchlein ma questo stile, un accompagnamento coerente e semplice a semplici melodie, tornerà nelle successive generazioni con il Lied romantico tedesco. Pochissime delle opere per organo del terzo periodo furono scritte a Köthen (1717-1723). Probabilmente la più famosa è la Fantasia e fuga in sol minore BWV 542, scritta per la visita ad Amburgo del 1720. Nella concezione d’insieme il pezzo era molto adatto a far colpo sul vecchio Rheinken, uno dei più importanti giudici per l’alto ufficio che a Bach interessava. La fuga in particolare ha un tema prolungato e gaio che ricorda molto una vecchia canzone popolare olandese e nello stesso tempo un pezzo dello stesso Rheinken. Nonostante le vaste proporzioni il pezzo è molto ben organizzato e proporzionato. Nella sua festosa e potente scrittura esprime lo stato d’animo di un genio nella sua ancor fresca maturità. Il vecchio Rheinken deve aver vacillato trovandosi aggredito da quella scarica di passaggi ai pedali, o dal diluvio di più di trenta accordi in inversione, che giungevano dentro un ciclone di semicrome. Altra opera che Bach rielaborò per il viaggio ad Amburgo è la versione a 5 voci con doppio pedale del corale “Lungo i fiumi di Babilonia” BWV 563/b che mostra un Bach seguace dei maestri della Germania settentrionale. Altro prodotto di questo periodo è la Fuga in re minore BWV 539 basata sulla fuga in sol minore per violino solo. Incredibile come anche se la struttura sia tipicamente violinistica l’intensificazione della tessitura armonica e polifonica e nuovi ingressi del basso rendano l’opera una perfetta e brillante composizione organistica. Queste poche opere concepite a Köthen bastano per dare un’idea degli scopi artistici che Bach avrebbe perseguito nelle grandi opere per organo scritte o completate a Lipsia. Egli mirava alla coesione ed alla compattezza intrinseca di ciascuna opera, anche mentre ne aumentava le dimensioni cercava l’ultima perfezione tecnica, innanzitutto nell’impiego delle forme polifoniche, ma curava anche l’arricchimento della scrittura organistica attraverso l’introduzione di maniere stilistiche proprie di altre forme musicali. Quello che è nuovo è il senso di intensità e di costanza con cui le applicò, tutte assieme, nei suoi anni a Lipsia. Tali tendenze sono chiaramente rivelate nella Toccata in fa maggiore BWV 540, messa a precedere una fuga giovanile nella medesima tonalità. Qui il carattere fantasioso delle vecchie toccate è evitato. La sezione introduttiva si dispiega sopra un lunghissimo pedale armonico, cui segue un vasto assolo al pedale, trasportato tutto poi alla dominante è seguito da uno sviluppo di complessi arpeggi al pedale e successioni di accordi. Nonostante le dimensioni gigantesche l’organizzazione è stupefacente, un miracolo di equilibrio e logica.

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La perfezione architettonica della forma tripartita assume nel pensiero di Bach a Lipsia una importanza maggiore che a Weimar. Una delle composizioni più conosciute è la Fuga in mi minore BWV 548, che nella letteratura bachiana di lingua inglese è chiamata “the wedge” (il cuneo) perché il suo tema che contiene una linea ascendente e discendente gradualmente si divarica da un salto di terza a quello di un’ottava.

Centralmente

contiene

una

sezione

toccatistica di oltre 100 battute. Unita al preludio veniva paragonata dallo Spitta ad una vera sinfonia per organo. Alla nutrita compagine dei grandi preludi e fughe di quest’epoca, che esplorano pressoché tutte le tonalità maggiori e minori, e tutte le forme stilistiche, rendendo ancor oggi la vita difficile anche ai più virtuosi esecutori si aggiungono le Sei sonate o trii, BWV 525-530. In esse vengono introdotti elementi forestieri. Bach le scrisse dopo il 1727 soprattutto per l’istruzione del figlio Friedman. Non è del tutto chiaro se egli avesse in mente, per l’esecuzione di questi pezzi, di un organo oppure di un cembalo con due manuali e pedaliera perché il titolo “a due tastiere e pedale” è ambiguo. Esse costituiscono indubbiamente un eccellente esercizio per sviluppare la completa indipendenza delle mani e dei piedi di un organista. Non si può non notare la mancanza di uno stile specificatamente organistico. L’elaborazione è quella della sonata a tre per strumenti solisti e continuo. Il modello del concerto gioca un vasto ruolo nella costruzione formale. Opere superbe, di intricata bellezza, eleganti, di esecuzione molto difficile, con passaggi ardui, specie la sesta. Le tonalità: mi bemolle maggiore, do minore, re minore, mi minore, do maggiore e sol maggiore. La struttura: allegro, adagio, allegro. L’adagio della terza viene usato da Bach come tempo lento del suo concerto in la minore per flauto, violino e cembalo; il primo tempo della IV si trova orchestrato per oboe d’amore nella Cantata 76. Nel 1739 a Lipsia un Bach 54enne dà la sua prima opera organistica alle stampe: si tratta delle terza parte degli esercizi per tastiera (“Dritter Teil del Clavier Übung”) contenente “preludi diversi sul Catechismo ed altri canti dedicata ad amatori e specialmente intenditori di quest’arte, per l’elevazione dello spirito”. La raccolta comincia con un preludio in Mi bemolle che si collega con l’ultimo brano, la fuga della Trinità. Dunque [41]


hanno tre bemolli, ognuno ha tre sezioni principali e vengono adoperati tre temi. Nella fuga, un vero gioiello, un vasto ruolo è assegnato alla variazione tematica. Ognuna delle tre sezioni ha un soggetto proprio ma la seconda e la terza adoperano in più una variante ritmica del primo tema in combinazione contrappuntistica col soggetto loro proprio. Forse l’espressione più chiara del significato simbolico della Fuga trinitaria si può scorgere proprio nelle tre versioni dello stesso tema.

[Inizio della Tripla fuga, esposizione del I soggetto]

[Esposizione del II soggetto e del II controsoggetto (battuta 3)]

dove il II soggetto si combina col I

qui compare il III soggetto

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qui il I soggetto si combina col III che fa da controsoggetto.

L’epilogo: tutti e tre i soggetti assieme, l’unità nella trinità. Geniale. Superbo. Un ascolto da intenditori. L’apoteosi della musica occidentale, che oscura, potremmo dire, qualsiasi forma di “altra” musica e che troveremo ancora nel Bach maturo, nelle variazioni canoniche, nelle variazioni Goldberg: musica per la mente gradita anche al cuore. Ma continuando con la terza parte del Clavier Übung troviamo molti preludi corali che integrano i precedenti dell’Orgelbüchlein di Weimar: si tratta di elaborazioni di inni protestanti tedeschi che corrispondono alla prima metà dell’Ordinarium Missae latino e alle parti principali del Catechismo di Lutero. Dato che Lutero compilò due versioni, per adulti e per bambini, Bach scrisse ogni corale in forma più elaborata e più semplice (per intenditori e per amatori). Inutile dire che le composizioni per “intenditori” raggiungono difficoltà anche oggi quasi insuperabili per un organista. Eccone alcuni esempi:

Sei voci con doppio pedale in “Aus tiefer not” BWV678

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Cinque voci col cantus firmus al soprano in “Vater unser” BWV 682

Il tremendo “Jesus Christus unser Heiland”, a tre sole voci, ma tecnicamente arduo.

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E arriviamo all’ultimo periodo, della piena maturità, in cui i suoi pensieri indugiano al passato, spiano il futuro, mentre i legami col suo tempo si allentano. I diciotto corali (1747-1750) dovevano probabilmente esser pubblicati, ma la morte lo impedì (l’ultimo venne dettato al genero Atnikol ed ha per titolo: “Davanti al Tuo trono mi presento”).

Caratterizzano una predilezione verso

l’ornamentazione melodica e l’assenza di forme canoniche. Nessuno progetto liturgico, solo scopo artistico e personale. Splendidi Jesus Christus unser Heiland BWV 665 e Schmuke dich o liebe Seele BWV 654 che adopera per accompagnare il cantus firmus una commovente melodia di Sarabanda .

[Incipit del corale Schmuke dich o liebe Seele]

Lo stato di grazia che regna in questo corale impressionò fortemente artisti romantici come Mendelssohn e Schumann. ln tutte le elaborazioni l’uso di forme di danza e di variazione ci riporta agli influssi sul giovane Bach di Buxtehude e Böhm. Questo è ancor più vero per le variazioni canoniche su canto natalizio “Von Himmel hoch da komm ich her” BWV 769 scritte da Bach per l’ammissione alla Società di Scienza musicale di Mizler , che appartengono con l’Offerta musicale e l’Arte della Fuga alle estreme opere in cui il maestro eresse alle solenni forme del passato una serie di monumenti indimenticabili. Nelle [44]


variazioni canoniche adotta la forma di partita per dimostrare la sua superba maestria nella risoluzione di problemi contrappuntistici. La tessitura polifonica si fa sempre più complicata. Inizia un canone all’ottava, poi uno alla quinta ed uno alla settima; ancora uno per augmentationem (il basso raddoppia i valori del soprano) ed uno l’ultimo - con canoni al rovescio, alla sesta, alla terza, alla seconda ed alla nona. Lo stretto finale presenta assieme le quattro righe del corale: insomma pare dire a Mizler: «Ti basta questo per prendermi nella tua società?» Ma nonostante la profusione di dottrina la composizione è altamente lirica, intrisa di atmosfera natalizia. E’ interessante il fatto che nella vecchiaia Bach additasse alle future generazioni anche la maniera di scrivere musica su basi puramente omofone. Tra il 1747 ed il 1750 fece pubblicare dal discepolo Georg Schübler una collezione di sei Corali che esprimono la tendenza dell’anziano Maestro ad introdurre elementi stilistici presi da altri campi. Sono tutti trascritti da pezzi di cantate (con una sola eccezione il cui modello forse è andato perduto). E’ quasi omesso il trattamento polifonico. Il cantus firmus è accompagnato da melodie ampiamenti scorrenti (vedi sotto il primo famosissimo corale Wachet auf ruft uns die Stimme) quasi in carattere di canzoni, che mantengono solo una vaga relazione melodica col corale.

In questo corale la melodia, monodica e lirica, simboleggia la processione delle fanciulle verso lo sposo celeste, ed ha scarso rapporto melodico con il tema luterano del corale. I corali Schübler furono ampiamente imitati dai discepoli di Bach e divennero modelli per la composizione di corali organistici nella seconda metà del secolo. Così il vecchio compositore non solo portò a perfezione l’antica rete della polifonia, ma annunciò al tempo stesso anche gli sviluppi futuri della sua arte.

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[Onie Jackson: Picasso, Portrait of Igor Stravinsky variation 01]

50 anni fa, il 6 aprile 1971, moriva a New York Igor Stravinskji. Per commemorare il cinquantesimo anniversario dalla scomparsa del grande compositore russo, ho scelto il balletto Petruška, che completa idealmente la celeberrima Trilogia assieme a la Sacre de Printemps e l’Uccello di fuoco.

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Petruška, di Igor Stravinskij  GENESI DELL’OPERA Tra le testimonianze autobiografiche che Stravinskij ci ha lasciato sulla genesi di Petruška ecco quanto scrisse nelle Chroniques de ma vie. Il compositore racconta come, durante la stesura de La sagra della primavera, lavoro che era molto impegnativo, si volle distrarre componendo un pezzo per pianoforte e orchestra in cui questo strumento avesse un ruolo di primo piano: «Volli divertirmi con un lavoro orchestrale in cui il pianoforte avesse una parte predominante, una specie di Konzertstūck. Componendo questa musica avevo nettamente la visione di un burattino scatenato che, con le sue diaboliche cascate di arpeggi, esaspera la pazienza dell'orchestra, la quale a sua volta gli replica con le minacciose fanfare. Ne segue una terribile zuffa che, giunta al suo parossismo, si conclude con l'accasciarsi doloroso e lamentevole del povero burattino. Terminato questo bizzarro pezzo, per ore e ore, passeggiando sulle rive del Lemano, cercavo il titolo che esprimesse in una sola parola il carattere della mia musica e, di conseguenza, la figura del mio personaggio. Un giorno ebbi un sussulto di gioia. Petruška! L'eterno, l'infelice eroe di tutte le fiere, di tutti i paesi! Era questo che volevo, avevo trovato il mio titolo!». Stravinskij cominciò a lavorare a questa partitura nell'agostosettembre 1910 e la terminò in meno di un anno, il 26 maggio 1911. A Sergej Diaghilev, che in autunno gli fece visita sul lago di Ginevra, Stravinskij fece ascoltare il nuovo pezzo: l’impresario ne fu entusiasta e convinse il compositore a trasformare quella musica in un nuovo balletto. Il soggetto fu definito in collaborazione con Alexandre Benois, autore anche di coloratissime scene e costumi. La prima rappresentazione ebbe luogo al Théâtre du Châtelet di Parigi a il 13 giugno 1911, con la compagnia dei Ballets Russes di Diaghilev, le innovative coreografie di Michel Fokine, e con Pierre Monteux sul podio. Petruška era Vaslav Nijinski, la Ballerina Tamara Karsavina, il Moro Aleksandr Orlov, il Ciarlatano Enrico Cecchetti. Nonostante il successo della rappresentazione, alcuni critici furono spiazzati dalle musiche impervie, dissonanti, talvolta grottesche. A un critico che, dopo una prova generale, chiese: «Ci avete invitato qui per sentire questa roba?», Diaghilev rispose laconico: «Esattamente». Quando Stravinskij e Djaghilev con il suo corpo di ballo si recarono a Vienna nel 1913, la Wiener Philharmoniker, rivelando il suo atteggiamento molto conservatore, inizialmente mostrò ostilità nell'eseguire la partitura, definendola "Schmutzige Musik" (musica sconcia). La rappresentazione ebbe comunque luogo senza proteste, ottenendo anche un discreto successo. Tra il 1946 e il 1947 ad Hollywood il compositore

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realizzò una nuova versione del balletto per migliorarne la strumentazione allo scopo di rendere eseguibile la partitura anche da parte di orchestre di minore grandezza.

[I p otago isti della p i a app ese tazio e: Vaslav Niji ski Pet uška , Ta a a Ka savi a Balle i a , Aleksandr Orlov (il Moro), Enrico Cecchetti (il Ciarlatano)]  PERSONAGGI E TRAMA Petruška è un burattino del teatro popolare russo, dal corpo di segatura e la testa di legno, presente negli antichi spettacoli di cantastorie (gli skomorochi), un personaggio burlone, spavaldo e manesco, dal linguaggio schietto, che però nella trama elaborata insieme da Stravinskij e Diaghilev assunse caratteri insieme più intimistici e più tragici, con molti punti di contatto con Pierrot e anche con Pinocchio, come un "essere" inanimato che prova il desiderio impossibile di una vita umana. La vicenda del Petruška di Stravinskij è ambientata a Pietroburgo, nella piazza dell'Ammiragliato, durante le feste della settimana grassa: in mezzo a una folla chiassosa e variopinta un vecchio Ciarlatano presenta al pubblico i suoi burattini animati, Petruška, la Ballerina e il Moro, che si rivelano dotati di sensibilità umana. Il malinconico Petruška corteggia la Ballerina, ne viene respinto, freme di gelosia quando il Moro la conquista e infine, nella confusione del carnevale, viene ucciso dal rivale con un colpo di scimitarra. Il Ciarlatano mostra agli intervenuti che si trattava solo di un burattino; ma quando la folla si disperde il fantasma di Petruška appare sopra il teatrino a compiere gesti di minaccia e scherno.  LA MUSICA Da un punto di vista musicale Petruška è un'opera totalmente innovativa; la partitura stravinskiana usa un linguaggio che pone fine agli ultimi residui di connotazioni romantiche ed impressionistiche ancora presenti nelle opere del tempo. [48]


Dopo soltanto un anno dalla realizzazione del primo balletto, L'uccello di fuoco, Stravinskij qui rinuncia alle fiabesche atmosfere suggestive ed alle raffinate armonie che aveva ottenuto in quella composizione; invece di proseguire su quella strada di successo, volta decisamente pagina. I colori sonori d'urto, le dissonanze, le frasi melodiche brevissime che non si risolvono mai in uno sviluppo, l'uso di un ritmo secco e scandito, il caleidoscopio di motivi utilizzati e derivanti da canti popolari, da valzer, da canzoni banali, fanno di Petruška il primo balletto veramente moderno che conquista effetti che per parecchi anni non verranno più raggiunti. Stravinskij punta tutto sulla tagliente evidenza di idee melodiche brevi, semplici, in sé compiute, derivate in parte dal canto popolare russo, ma anche da musica di consumo, come una canzone francese o valzer viennesi, cercando di imitare il suono delle orchestrine popolari o degli organetti di Barberia, idee che non aspirano ad essere «nobili», che non si prestano a sviluppi, ma che non per questo sono modellate su un'intima cantabilità: in sé possiedono non il canto, il lirismo, ma la secca scansione del ritmo e del gesto, una chiarezza che è posta crudamente in luce dalle scelte timbriche e armoniche.

[Costume di Ballerina disegnato da Alexander Benois]

La gesticolazione della musica accompagna i rigidi movimenti di marionette, ad esempio attraverso la novità di un timbro pianistico secco, percussivo, privo di alone e di potenzialità cantabili, incline quasi ad una metallica meccanicità. Il continuo gioco di incastri e sovrapposizioni crea risultati politonali, e complessi reticoli sonori, accentuati anche dai continui cambiamenti di metro, che anticipano la ritmica del Sacre. L'intersecarsi dei personaggi sulla piazza con quelli del teatrino e l'atmosfera festosa che acutizza il dramma personale costituirono meccanismi molto efficaci per dare sostanza drammatica alla vicenda. Stravinskij usa un grande organico orchestrale (con legni e ottoni per quattro) ma giocando sulla contrapposizione di blocchi sonori e prediligendo timbri stridenti, Anche la rivalutazione della fiera e del baraccone (che assurgono a dignità d'arte in una misura inconcepibile prima di questa partitura) sono altri elementi vistosi che fanno di Petruška un testo capace di segnare una svolta, un nuovo corso nella musica del nostro secolo.  GUIDA ALL’ASCOLTO Il balletto è diviso in quattro quadri, ognuno con una propria ambientazione.

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I quadro. Festa popolare della settimana grassa. Il balletto inizia con la celebre e suggestiva evocazione del turbinio della folla, con un alternarsi, incrociarsi e sovrapporsi di brevi spunti. [Scenografia originale di Benois]

L'animazione

e

la

confusione

della

piazza

pervaderanno tutto il primo quadro: nell'introduzione (Vivace) Stravinskij stratifica tremoli di corni e clarinetti con motivi e formule ripetitive, creando una fascia sonora densa, brulicante, carica di tensione, che sfocia in una grande fanfara di tutta l'orchestra (su un tema liturgico della Pasqua, conosciuto come il Canto dei Volocebniki), che accompagna il passaggio di un gruppo di ubriachi. Nel caos della festa affiora anche l'imitazione di un organetto, affidata a due clarinetti all'ottava, e la citazione di una sguaiata chanson francese ("Elle avait une jambe de bois"), intonata delicatamente da flauti e clarinetti e successivamente anche dalla tromba e punteggiata dal triangolo e dal Glockenspiel. Un poderoso rullo di tamburi attrae l'attenzione della folla sul teatrino del Ciarlatano (Lento): i disegni cupi di fagotti, controfagotto e contrabbassi, gli arpeggi dell'arpa e della celesta, gli armonici degli archi e una cadenza incantatoria del flauto disegnano un'atmosfera improvvisamente misteriosa, che introduce la Danza Russa (Allegro giusto). Il flauto del Ciarlatano anima i tre burattini che cominciano a danzare di fronte al pubblico stupefatto, pagina brillante, vigorosa, omoritmica, basata su sequenze parallele di accordi martellanti, nella quale comincia ad emergere il ruolo concertante del pianoforte, che presenta le sonorità rigide e legnose di cui già si è detto.

[Rudolf Nureyev. Paris Opera, 1972]

Terminato lo spettacolo i pupazzi vengono rinchiusi dal padrone nella loro scatola e la folla si allontana.

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II uad o: Nella sta za di Pet uška Il pianoforte acquista un vero e proprio rilievo solistico nel secondo quadro che corrisponde anche all'iniziale partitura del Konzertstück. Un prolungato rullo di tamburo ci porta nella stanza di Petruška, che presenta pareti scure decorate da stelle nere, una mezzaluna ed un minaccioso ritratto del Ciarlatano. Il povero burattino, gettato nella sua cella, atterra con un gran tonfo. Dietro le quinte Petruška conduce una vita miserabile fra le angherie del Moro e l'amore non ricambiato della Ballerina a cui tenta di dichiararsi con modi in verità poco eleganti, venendo puntualmente respinto; la Ballerina è infatti attratta dal Moro con il quale ha una relazione. Petruška è solo coi suoi pensieri e il disegno della sua figura è affidata a due arpeggi sovrapposti dei clarinetti, un insieme dissonante, che si insinua spesso nella trama della partitura, come una specie di leit-motiv. Sono gli arpeggi diabolici già citati da Stravinskij nella sua autobiografia, e si tratta del famoso accordo Petruška che, con la sua bitonalità basata sulla sovrapposizione di due accordi, uno in do maggiore e l'altro in fa diesis maggiore, caratterizza l'entrata in scena del personaggio, creando una dissonanza inusuale che stupì gli spettatori dell'epoca. Poi emergono gli altri stati d'animo di Petruška: la rabbia, che esplode in infortissimo di tutta l'orchestra (Furioso), dominato da un arpeggio discendente di tromba e cornetta (con sordina); i pensieri amorosi rivolti alla Ballerina, resi da un melodizzare dolce e malinconico del flauto (Andantino); la sua goffa gioia che esplode all'ingresso della Ballerina (Allegro) e che si interrompe dopo 13 battute con l'uscita di scena della stessa.

III quadro: Il Moro nella sua stanza La scena si svolge ora nella lussuosa stanza del Moro che, diversamente dal protagonista, gode del privilegio di una vita molto più agiata. Il tamburo introduce la figura del Moro nella sua stanza, attraverso una rapida alternanza di gesti violenti e pesanti (Feroce stringendo), squarci sinistri, break improvvisi, una danza dal sapore orientale, affidata a clarinetto e clarinetto basso, accompagnati da piatti e grancassa, un motivo inquietante del corno inglese. Mentre il Moro tenta inutilmente di aprire una noce di cocco con la sua scimitarra, una spigliata melodia della cornetta a pistoni accompagnata dal tamburo segna l'ingresso della ballerina nella stanza. [Balletto del Bolshoi. Mosca, 2002]

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Insieme, la Ballerina e il Moro avviano un valzer, basato su due temi distinti: il primo (Lento cantabile), in mi bemolle maggiore, tratto da una danza tirolese di Josef Lanner, intonato da cornetta e flauto ("cantabile sentimentalmente") accompagnati dagli arpeggi del fagotto; il secondo (Allegretto), in si maggiore, anche questo di Lanner, affidato ai flauti e alle arpe. Anche qui Stravinskij crea un sofisticato gioco combinatorio, sovrapponendo questi due temi con quelli del Moro, mescolando quindi insieme motivi ternari e binari, e ottenendo in questo modo una dimensione sonora di estrema tensione con materiali in sé piuttosto neutri. Il pas de deux della Ballerina e del Moro è bruscamente interrotto dall'arrivo di Petruška, annunciato dal forte suono della tromba. Il burattino che finalmente è riuscito a evadere dalla sua cella piomba nella stanza per opporsi alla tresca, ma il Moro lo affronta con la scimitarra e lo insegue, scacciandolo, su un movimento rapido e staccato di archi e legni, che si conclude con violenti accordi sincopati.

IV quadro. Festa popolare della settimana grassa (sera) Il tamburo introduce ancora l'ultimo quadro (La fiera) che riporta al brulichio orchestrale della festa, trasformato qui nel suono fluttuante di una grande fisarmonica.

[Balletto del Bolshoi. Mosca, 2002]

Su

questo

sfondo

orchestrale

Stravinskij innesta una serie di danze, molto colorite, basate su temi tratti da varie raccolte di melodie popolari russe: la Danza delle Balie (Allegretto)

agile e

leggera sul motivo tradizionale "Lungo la via Piterskai'a", introdotta dall'oboe, e seguita da uno spensierato refrain; Il contadino con l’orso (Sostenuto) caratterizzata da un incedere lento e pesante e da un motivo dissonante dei clarinetti; Il mercante gioviale con le due zingare su un tema staccato e saltellante, scandito con forza dagli archi; la Danza dei carrettieri e degli stallieri (Moderato), basata su un tema molto ritmato e accentato, prima suddiviso tra trombe, archi, tromboni e corni, poi ripreso da tutta l'orchestra, anche in forma di canone, in un crescendo martellante; Le maschere (Agitato) su una trama veloce volatile di archi e legni nella quale si innesta un pesante, drammatico motivo degli ottoni. Questo crescendo sfocia alla fine in un assolo della tromba: è Petruška che irrompe sulla scena, inseguito dal Moro che lo raggiunge e lo colpisce a morte, fra l'orrore dei presenti. [52]


La folla pensa che ci sia stato un vero delitto; il Ciarlatano viene interrogato dalla polizia e cerca di riportare la calma scuotendo il corpo inerte di Petruška da cui esce segatura, ricordando ai presenti che si tratta solo di un burattino di legno. A notte inoltrata la folla si allontana mentre la neve cade dal cielo e la fiera si chiude. Il Ciarlatano riordina e ripulisce il suo teatrino prima di allontanarsi portando con sé il burattino rotto. All'improvviso compare una trama uniforme dei corni, sulla quale ritorna il tema della tromba (con sordina), livido e agghiacciante: questa volta è il fantasma di Petruška che compare sul tetto del teatrino, facendo sberleffi. La morte ha liberato il suo spirito dal corpo della marionetta ed ora egli è tornato per tormentare il suo antico aguzzino che nel vederlo fugge impaurito. Il sipario si chiude su un enigmatico motivo di quattro note pizzicate degli archi (Molto più lento). 

DISCOGRAFIA Stravinsky: Petrushka – Pulcinella Royal Concertgebouw Orchestra, dir. Riccardo Chailly. Decca

Bellezza, sensualità e finezza sono magnificamente espresse da Chailly, di cui ricordo anche una Sacre mozzafiato. Ottima qualità di registrazione, suono avvincente in tutti i registri. Chi volesse assaporare anche altri Balletti stravinskiani registrati da Chailly, può reperirli in una raccolta in 2 CD sempre della Decca

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Stravinsky: The firebird – Petrushka – The Rite of Spring Chicago Symphony Orchestra / The Cleveland Orchestra, dir. Pierre Boulez. Deutsche Grammophon

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Le musiche tratte dai migliori balletti di Igor Stravinsky, dalla favola incantata dell'Uccello di Fuoco, alla struggente malinconia della marionetta Petruška, al ritmo devastante della Sagra della Primavera. Da ascoltare tutto di un fiato. Ottima la qualità del suono.

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Igor Stravinsky: Petrouchka – Scenes de ballets Israel Philharmonic Orchestra, dir. Leonard Bernstein. Deutsche Grammophon

Questo Petruška è un vero gioiello. E' pieno di verve e umorismo, esplosivo, infinito, piacevole, in breve una delle migliori interpretazioni di questo balletto. Ottima la qualità di registrazione.

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Igor Stravinsky: Petrouchka London Symphony Orchestra, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon Questo CD fa parte delle registrazioni della musica di Stravinsky che Claudio Abbado aveva realizzato con la "sua orchestra di allora", la London Symphony, fra la fine degli anni '70 e gli inizi degli anni '80. La bellezza fiera unita alla cantabilità sovrana, conferiscono un fascino unico a queste letture, ancora così moderne nonostante siano passati quasi quaranta anni! Il filo conduttore delle letture di Abbado è l'estrema lucidità di analisi dello spartito, ma a differenza delle letture di Boulez, Abbado affianca al tentativo di analisi razionale anche [54]


un'estrema musicalità, un dare sempre un "privilegio in più" alla ricerca della linea melodica, come solo un grandissimo direttore d'opera, oltre che di concerti sinfonici, è in grado di fare. E Abbado è stato, senza ombra di dubbio, un grandissimo direttore di opere liriche e di concerti. Molto ben riuscita è questa lettura di Petruška, nella versione originale del 1911, dove Abbado si avvale della collaborazione di un pianista eccezionale, Leslie Howard, e che ha quasi il sapore di un concerto per pianoforte e orchestra in forma di balletto. Il suono rimasterizzato è eccellente. ♫♫

Stravinsky: Petrouchka – Scenes de ballet Berliner Philharmoniker, dir. Bernard Haitink. Philips

Grande interpretazione di un direttore capace di farci immergere totalmente nelle atmosfere fiabesche di Stravinskji.

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Le Sinfonie di Gustav Mahler

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Sinfonia n° 6 “Tragica” in la maggiore  CENNI STORICI La Sesta Sinfonia fu composta da Mahler nei mesi estivi degli anni 1903 e 1904, la strumentazione fu completata il 1° giugno 1905, e venne eseguita per la prima volta a Essen il 27 maggio 1906 sotto la direzione dello stesso compositore. Mahler stese tre versioni della Sesta. La prima, quella eseguita a Essen nel 1906, prevedeva lo Scherzo al secondo posto e l'Andante al terzo, mentre nella successiva, risultato di una revisione condotta dall'autore nel giugno dello stesso anno, l'ordine dei due movimenti centrali fu invertito, nella ricerca di ottenere un maggiore effetto di contrasto. Curiosamente scomparve dalla seconda edizione anche il terzo colpo di martello lasciando simbolicamente aperta la conclusione della Sinfonia. Nella versione definitiva del 1907, l'ultima volta in cui ebbe l'opportunità di dirigere la Sinfonia, l'autore stesso ristabilì l'ordine originario, che è quello ancor oggi più frequentemente proposto dai direttori d'orchestra. I colpi di martello rimasero due, fortissimo il primo e piano il secondo. Ciò non deve far pensare a una creazione particolarmente travagliata: erano, quelli, tempi e procedimenti del tutto consoni al modus operandi mahleriano. In realtà, se si eccettua il dubbio relativo alla posizione dei due movimenti intermedi, negli altri casi, più che di vere e proprie revisioni, si trattò di aggiustamenti marginali, soprattutto di strumentazione, volti a ottenere una maggiore trasparenza nella densissima tessitura della Sinfonia, salvo il dettaglio, che non è marginale per via della sua importanza simbolica, del terzo colpo di martello aggiunto nella coda del Finale, prima introdotto e poi eliminato, In questa fase compositiva della sua vita, Mahler si allontana definitivamente dal mondo bizzarro e variopinto del Wunderhorn per immergersi nei tortuosi inferni dell'anima, in una dimensione più soggettiva, quasi autobiografica. Ciò vale soprattutto per la Sesta, gravata da interferenze extramusicali, riferimenti personali, citazioni e autocitazioni, complesse simbologie sonore. In una lettera a Richard Specht, il suo primo biografo, Mahler cosi presentava il nuovo lavoro: «La mia Sesta proporrà enigmi che potranno essere affrontati soltanto da una generazione la quale abbia assorbito e digerito le mie cinque sinfonie precedenti». Ma quali enigmi? Molti di questi enigmi sono illustrati dalla sensibilità tutta femminile di Alma Mahler, moglie del compositore, prima commentatrice di questa Sinfonia e delle sue ambiziose premesse filosofiche. Leggiamo nelle sue Erinnerungen: «Quell'estate fu bella, felice, senza conflitti. Alla fine delle vacanze Mahler mi suonò la Sesta sinfonia, ormai completa. Dovevo rendermi libera da tutti i lavori di casa, aver molto tempo a disposizione per lui. Salivamo di nuovo a braccetto nella sua casupola nel bosco, dove eravamo sicuri di non essere disturbati, in mezzo agli alberi. Tutto ciò si svolgeva sempre con grande solennità. Dopo aver abbozzato il primo tempo, Mahler era sceso dal bosco e aveva detto: "Ho tentato di fissare il tuo carattere in un tema - non so se mi è riuscito. Ma devi lasciarmi fare". È [57]


il grande tema pieno di slancio del primo tempo della Sesta Sinfonia. Nel terzo tempo descrive i giochi senza ritmo delle bambine che corrono traballando nella rena. E spaventoso: le voci infantili diventano sempre più tragiche, e alla fine non resta che una vocina lamentosa che va spegnendosi. Nell'ultimo tempo descrive se stesso e la sua fine o, come ha detto più tardi, quella del suo eroe. "L'eroe che viene colpito tre volte dal destino, il terzo colpo lo abbatte, come un albero". Queste sono parole di Mahler. Nessun'opera gli è sgorgata tanto direttamente dal cuore come questa. Piangevamo quella volta, tutti e due, tanto profondamente ci toccava questa musica e quel che annunciava con i suoi presentimenti. La Sesta è un'opera di carattere strettamente personale e per di più profetico. Tanto con i Kindertotenlieder che con la Sesta Mahler ha messo in musica 'anticipando' la sua vita. Anch'egli fu colpito tre volte dal destino e il terzo colpo lo abbatté. Ma quell'estate era allegro, cosciente della grandezza della sua opera e i suoi virgulti erano verdi e fiorenti». A chi non conoscesse la biografia di Mahler alcuni passi di quest'appassionante rievocazione potranno sembrare oscuri. Ma ci vuoi poco a chiarirli. Proprio nel giugno del 1904 Alma aveva dato alla luce una seconda bambina, Anna Justine, che aveva dunque pochi mesi quando, alla fine delle vacanze, la Sinfonia stava nascendo; durante la composizione della Sesta, nell'estate del 1904, Mahler aveva ripreso le poesie di Friedrich Rückert ricavandone i due ultimi brani del ciclo dei Kindertotenlieder, quasi uniformandoli al messaggio tragico della Sinfonia: e quell'ostinato cantare la morte di bambini era sembrata ad Alma un "voler chiamare le disgrazie". Presentimenti di sciagure che si sarebbero avverate nell'estate del 1907 con un triplice colpo del destino: alla scomparsa improvvisa della figlia primogenita Maria, vittima di una malattia infettiva dell'infanzia, seguirono la prima diagnosi della grave disfunzione cardiaca che avrebbe portato Mahler alla tomba e le sue dimissioni da direttore dell'Opera di Vienna sotto la pressione di meschini intrighi locali. Alma non aveva dubbi che i colpi di martello introdotti nel Finale della Sinfonia - un unicum davvero sorprendente - anticipassero questi eventi lugubri: in questo senso Alma vedeva la Sesta Sinfonia come un'opera non solo strettamente personale e profetica ma anche intimamente autobiografica, il cui "eroe" altri non era che Mahler stesso, rappresentato in un autoritratto "ideale".

 ETICA DELLA SINFONIA La partitura della Sesta è sicuramente una delle più elaborate di tutta l'opera sinfonica mahleriana. La Sesta, assieme alla Quinta e la Settima, segna il ritorno di Mahler alla sola strumentalità, dopo l'impiego della voce (solistica e corale) nella Seconda, Terza e Quarta Sinfonia. Pur rinunciando ai testi poetici, o a citazioni che a questi direttamente rimandino, la partitura della Sesta è disseminata di processi interiori, di drammi e di visioni che configurano un mondo costellato di simboli e di allusioni. Volendo racchiudere questo programma in una formula, si potrebbe parlare, citando l'autore, di una «lotta dell'uomo contro il destino», una lotta che annulla la carica ideale di forza positiva e autoaffermativa dell'umanesimo eroico beethoveniano per ribaltarsi verso l'annientamento totale. [58]


Tutta la Sinfonia, con la parziale eccezione dello Scherzo, si dipana in una scansione serrata, marcata, quasi martellante: ritmo di marcia che, nella sua inesorabile brutalità, sembra voler affermare qualcosa di ineluttabile, alla stregua di un'idea fissa. Di solito Mahler rifugge dall'idea fissa per mostrare piuttosto, del suo mondo, gli aspetti più variegati e contrastanti, tra paesaggi della natura e dell'anima, esaltazioni e depressioni, luci e ombre: qui essa diviene invece il motore stesso della Sinfonia.

 STRUMENTAZIONE In questa Sesta Mahler usa alcuni strumenti del tutto inusuali, come lo xilofono (unica presenza in tutte le Sinfonie di Mahler), le nacchere, la frusta, il già più volte citato martello, le campane tubolari e soprattutto i campanacci delle mucche ("Herdenglocken"). Anche qui la tentazione di assegnare a questi interventi un significato simbolico di natura extramusicale è molto pronunciata: nacchere e xilofono hanno fatto pensare ai ghigni sardonici del diavolo, le campane basse ai rintocchi delle chiese di paese, la frusta ai colpi sferzanti del destino, prima che il martello compia l'opera di abbattimento.

[Caricatura di Mahler e la Sinfonia 6 da Die Muskete del 19 ge

aio

9

. La didas alia all a golo supe io e si ist o

recita Tragische Sinfonie, in

asso Hergott, das ich die

Huppe vergessen habe! Jetzt kann ich noch eine Sinfonie s h ei e . Buo o g azioso! Voglia di las ia e fuo i il oto e avvisatore acustico! Ah bene, ora ho una scusa per la scrittura di un'altra sinfonia.)]

Mahler fu attratto da questi ingenui accostamenti, che appartenevano al mondo delle sue esperienze sensibili e delle sue visioni all'aria aperta; nel campo vastissimo della Sinfonia essi contribuiscono però in primo luogo a creare un'atmosfera timbrica, a comunicare uno stato di disagio e di angoscia che rapidamente si materializza in sensazioni opposte, in folgorazioni e ricordi, sogni e disincanti, malinconie e improvvise euforie: un magma psicologico che continuamente ribolle e freme, s'inabissa e riemerge trasfigurato, senza che mai il processo si arresti.

 GUIDA ALL’ASCOLTO

 Primo movimento (Allegro energico, ma non troppo) Il primo movimento è in forma sonata.

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Il primo tema irrompe con tutta la sua energia devastante su un impetuoso movimento di marcia. Tutte e tre le sinfonie mediane di Mahler iniziano con un ritmo di marcia, questa si differenzia vistosamente dal Trauermarsch della Quinta e dall'attacco luttuoso della Settima per una maggiore decisione. Il motto delle tre trombe appare subito nel primo movimento, un accordo di tonalità maggiore in fortissimo che si trasforma in minore diminuendo al pianissimo, accompagnato dalle sei note del timpano che scandiscono il ritmo del destino: il modo in cui Mahler lo isola e lo riprende senza alcuna trasformazione nei momenti culminanti della sinfonia ne fa il segnale di qualcosa di immodificabile. Mahler se ne serve per collegare questo stato d'animo all'idea fissa di un destino eternamente presente, ostile all'uomo. Alla violenza percussiva del tema di inizio si contrappone la cantabilità spaziosa e impulsiva del tema di Alma (così chiamato perché Mahler stesso disse che in essa aveva cercato di riassumere il carattere della moglie Alma,

ell i

agi e a d ), un'escursione

melodica ampia e appassionata, vibrante di passione, luminosa di espressività, vitalistica nella disperazione, come di cosa desiderata con ardore ma anche forse irraggiungibile, spinta com'è in quella tessitura così acuta dei violini. Lo sviluppo, dopo l'elaborazione di questi nuclei tematici, sollecitati da trilli e tremoli e resi talvolta diabolicamente sarcastici dalla presenza dello xilofono, aggiunge un episodio del tutto nuovo, in tempo moderato: ai timbri già rarefatti di celesta, archi in pianissimo, corni con sordina e tromboni vaghi di sonorità arcaiche, si uniscono i campanacci delle mucche, a rappresentare l'altrove di intatte solitudini alpestri, il distacco dai tumulti della valle di lacrime, lassù nella pace dei suoni della natura. La brusca irruzione di un nuovo vortice infernale conduce rapidamente alla ripresa con il ritorno in maggiore del tema di marcia con incisive e complesse varianti, che tengono conto delle trasformazioni timbriche incontrate durante lo sviluppo. Sarà proprio il tema di Alma a chiudere bruscamente il movimento con una repentina caduta verso il basso dopo aver toccato un massimo di intensità delirante.

 Secondo movimento (Scherzo) A stabilire la continuità dell'idea fissa, lo Scherzo si apre sullo stesso ritmo di marcia del primo movimento, ma come una variante deformata della solita marcia. Lo Scherzo trasforma la linearità della marcia in una danza spettrale: l'atmosfera si fa grottesca, sinistra, a momenti ironica, il trillo ne è l'elemento caricaturale caratteristico. Attimi di calcolata sentimentalità vengono a interrompere il meccanico svolgersi della scena, che ad Alma ricordava gli innocenti giochi sulla rena delle sue due bambine, con orribili presagi. [60]


Il Trio in fa maggiore è un grazioso intermezzo in tempo meno mosso che Mahler, quasi a voler sottolineare lo stacco, chiama "Altväterisch", ossia un’affettuosa rievocazione di un tempo lontano, colta in una luce fredda, con lo stupore di chi scopra in soffitta un vecchio teatrino di burattini e lo osservi con curiosa trepidazione animarsi. Il suo presunto arcaismo si risolve in ironia macabra, quasi evocasse il fantasma di un antico minuetto sgangherato. L'intero movimento trova poi una definizione timbrica adeguatissima al contenuto con gli interventi dello xilofono, del glockenspiel, dei piatti e le uscite sarcastiche del primo violino. La Coda funge da ricapitolazione e disintegrazione del materiale precedente lasciando affiorare un'allusione fuggevole al «tema del destino».

 Terzo movimento (Andante moderato) Se lo Scherzo poteva essere riferito alla prima sezione demoniaca dello sviluppo dell'Allegro energico, l'Andante moderato riprende la quiete alpestre della seconda. Molti studiosi lo relazionano al carattere dei vicini Kindertotenlieder, esplicitamente citati d'altra parte alla nona battuta. La cifra distintiva di questa bellissima pagina deve però essere colta nella sua immagine timbrica, oltre che nel fascino del lungo, sinuoso tema principale. Nella quiete malinconica e spossata di questo Andante, così diverso dalle effusioni liberatorie degli altri tempi lenti mahleriani, c'è un'aura misteriosa e indeterminata che oscura la visione pastorale, anche nella sezione mediana dove ritorna l'appello lontano dei campanacci alpini. L'Andante moderato sembra ricollegarsi, all'inizio, con il clima espressivo di struggente rimpianto dell'Adagietto della Quinta Sinfonia, soprattutto quando la delicata trama degli archi viene impreziosita dai tocchi leggiadri dell'arpa; ma già l'uscita del corno con un'ampia e distesa frase melodica fa prendere alla pagina un respiro più robusto e vigoroso, meno crepuscolare ed elegiaco. La sezione del secondo tema, esposto dal corno inglese, ci trasporta nuovamente in vista di alture montane, con insistenti echi di Jodeln e di richiami pastorali. Dal cuore di questa sequenza idilliaca si origina un violento sussulto, e la parte restante del movimento s'infiamma per salire a una temperatura incandescente, abbandonando il candore di visioni serene e assumendo sempre più il tono di una confessione soggettiva e appassionata,

affidata

alla

voce

spiegata degli archi. Raggiunto l'acme, la discesa avviene a poco a poco senza più concitazione, con dignità e misura di proporzioni classiche.

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 Quarto movimento (Finale) L'ultimo tempo della Sesta è una delle costruzioni sinfoniche più imponenti e impenetrabili di Mahler, un'avventura sonora che in circa ottocento battute di partitura si protrae per oltre mezz'ora di ascolto. Inizia con un'estesa introduzione (Sostenuto), luogo di cupi e inquieti presagi, da cui si generano schegge di motivi in varie figurazioni: archi librati in slanci vertiginosi, grotteschi avvii di marcia del basso tuba, lontani richiami del corno, pallide fanfare dei legni, il tutto ossessivamente minacciato dal motto fatale della Sinfonia, l'accordo maggiore delle trombe che cambia in minore sui violenti colpi del timpano. All’introduzione segue il primo tema, l'Allegro moderato, che acquista progressivamente forza ed energia. L'inserzione di un secondo elemento tematico, così teneramente conciliante e consolatorio, crea spazi d'inatteso lirismo frenando ma non arrestando il corso impetuoso, sempre più pressante della marcia. La riapparizione dell'introduzione all'inizio della ripresa spinge gli eventi verso l'epilogo. Tra bagliori sinistri e demoniaci, il ritorno dei campanacci ha qualcosa di assurdamente irreale e fantomatico; il secondo tema è ora poco più che una larva e tutto sprofonda pesantemente nel gorgo terribile e tartareo della marcia. Nella notte cupa e senza speranza il destino afferra l'anima dell'eroe, dopo aver infierito sul cadavere a colpi di martello. Sui brandelli che rimangono si stende, in una sorta di preghiera intonata dagli ottoni gravi, un velo intriso di umanissima, amara pietà. Infine, con l'ennesimo ritorno del tema dell'introduzione attacca la coda, che nella versione originale prevedeva l'ultimo Hammerschlag successivamente soppresso. Un'ultima impennata di disperazione si leva nel grido dell'accordo di la minore lanciato fortissimo a piena orchestra e poi svanito sul terribile diminuendo della figura ritmica dei timpani. È il peso ineluttabile del Fato. Il resto è silenzio, ben oltre il pizzicato degli archi che sigilla con un singhiozzo il verdetto su questo mondo.

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DISCOGRAFIA

Mahler: Symphony n° 6. / Richard Strauss: Metamorphosen New Philharmonia Orchestra, dir. Sir John Barbirolli. Emi Classics La Sesta (come disse Berg, "l'unica sesta, nonostante la Pastorale beethoveniana”) diretta da Barbirolli è, come lavoro e come performance, semplicemente tremenda, imponente nella sua forza trainante e inarrestabile nel suo slancio. La registrazione è sempre stata di prim'ordine e il gong, le arpe e i colpi di martello sono devastanti nel loro impatto. La visione di Sir John, sebbene lenta per la maggior parte degli standard, affascina sempre più. A differenza di altre prestazioni lente e anche molte più veloci, Barbirolli non perde mai slancio, mantiene immancabilmente la tensione, anche se la sinfonia si libra magnificamente nell'Andante. Si sente, alla fine del primo movimento un mormorio: è lo stesso direttore che borbotta, grugnisce, geme, come è noto cosa che faceva anche Bernstein. La qualità del suono, grazie al lavoro di rimasterizzazione del 2002, è migliorata notevolmente nelle successive ristampe. ♫♫

Mahler: Symphony n° 6. Boston Philharmonic Orchestra, dir. Benjamin Zander. IMP Masters La concezione della 6a di Benjamin Zander è magnifica: presenta la Sesta come una tragedia cruda e universale. Questa registrazione è di un'esibizione dal vivo alla Joshua Hall nel 1994, al New England Conservatory di Boston. Per un'esecuzione dal vivo, è straordinariamente chiara e precisa, senza rumori estranei indesiderati. Gli strumenti a percussione, in particolare, hanno prestazioni brillanti in tutta la sinfonia. I momenti di silenzio tra le note accentuano la musica in modo che sembra saltarti addosso. Già nel terzo movimento arrivano molti degli attesi "suoni di campanaccio". Il finale, il quarto movimento, è una marcia gigantesca che si precipita per affrontare e affrontare il mondo. Poi, a un terzo del quarto movimento, veniamo abbattuti dal primo colpo di martello. Circa cinque minuti dopo, il secondo colpo di martello ei suoi riverberi fanno cadere tutto nell'oblio. In qualche modo, fuori dalla [63]


desolazione seguita a quel secondo colpo di martello, ci ritroviamo in un ambiente pastorale, per poi svettare verso un trionfo finale. Ma i timpani ci avvertono con il loro motivo, e ci ritroviamo improvvisamente in una folle corsa a capofitto in discesa. Proprio quando sembra che stiamo sorprendentemente per trionfare e raggiungere la nostra destinazione, dopo tutto, il colpo di martello finale ci spazza via la vita. Ci sono ancora circa due minuti di luttuosa riflessione su quanto è accaduto. Poi, un ultimo crash orchestrale mette fine a tutto. ♫♫

Gustav Mahler: 6. Symphonie. Kindertotenlieder Christa Ludwig. Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan. Deutsche Grammophon - The Originals [2 CD] In questa Sesta spiccano la precisione ritmica di Karajan, i colori che trae dalla sua orchestra, anche nei passaggi più teneri: il terzo movimento, Andante, è senza dubbio il più bel movimento lento dell'intera opera di Gustav Mahler, e la sua interpretazione da parte di Herbert von Karajan e della compagine berlinese è una delle più belle. A questa sesta si rimprovera di essere priva di impatto dinamico e di vera angoscia mahleriana, al contrario

di quelle di

Bernstein e

Barbirolli, che offrono entrambe prestazioni di potenza devastante e incredibile intensità emotiva che pochi sono in grado di eguagliare. Ciò non toglie nulla a questa splendida performance di Karajan all’apice delle sue prestazioni interpretative. La performance di Christa Ludwig nei Kindertotenlieder è sublime e senza paragoni. ♫♫

Gustav Mahler: Symphony n.6 Berliner Philharmoniker, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon

Claudio Abbado e i Berliner sono un tutt'uno per questa sinfonia. Anche la presa di suono dal vivo è ben riuscita. Una versione molto equilibrata rispetto a quella di Karajan. Anche la presa di suono dal vivo è ben riuscita.

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Mahler: Symphony n.6 New York Philharmonic Orchestra, dir. Leonard Bernstein. Sony classical – Bernstein century Questa registrazione di Leonard Bernstein con la New York Philharmonic è del 1967 e, nonostante l’età, presenta un suono molto chiaro e immediato. La performance è potente e diretta. Il primo movimento è vivace, ritagliato, efficiente. Bernstein esprime un vero lirismo nel trio dello Scherzo, posto come secondo movimento. L'Andante moderato è splendidamente suonato e dilatato a 15' 21". Il Finale è spinto e brutale, ma con momenti di bel lirismo. ♫♫

Mahler: Symphony n.6 London Symphony Orchestra, dir. Klaus Tennsted. EMI Classics Questa è la versione del 4 e 7 novembre 1991 data dalla London Philharmonic Orchestra diretta dal grande direttore d'orchestra mahleriana, Klaus Tennstedt, alla Royal Festival Hall di Londra. Si tratta di una performance bella e sublime. Viene eseguita con un tempo molto lento, che ricorda l'altra versione eccezionale di questa sinfonia diretta da Sir John Barbirolli. L'orchestra dà tutto ciò che ha nella sua capacità e il risultato è perfetto con una sensazione «meravigliosamente» ansiosa e poi cataclismica. Inoltre, il suono è ammirevole e straordinariamente rimasterizzato. La sesta di Mahler è la migliore performance di Tennstedt. ♫♫

Gustav Mahler: Symphony n. 6 Symphonic Orchester des Bayerischen Rundfunks, dir. Rafael Kubelik. Audite

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Questo di Kubelik è un Mahler grintoso e dinamico che non soffre di un'interpretazione eccessiva o personalizzata del direttore d'orchestra, quello che sentiamo è Mahler! Con Kubelik il tessuto della sinfonia rimane intatto, la musica scorre senza ostacoli o ripiegamenti. Per una visione diametralmente opposta a Bernstein, il Mahler di Kubelik non è secondo a nessuno, e questa performance dal vivo con il BRSO è una delle migliori registrazioni della Sesta Sinfonia di Mahler.

 VIDEOTECA Gustav Mahler: Symphony n. 6 Lucerne Festival Orchestra, dir. Claudio Abbado. Euro Arts [DVD] Il Lucerne Festival si apre ogni anno con un concerto della Lucerne Festival Orchestra: si tratta di un ensemble d'élite fondato da Claudio Abbado che fa capo alla Mahler Chamber Orchestra, a cui si aggiungono solisti e cameristi di fama internazionale. In occasione del centenario della prima della sinfonia nel 1906, Abbado guida un'accorata interpretazione della tragica e profetica Sinfonia n. 6 di Mahler; la performance è assolutamente superba ed è stata resa ancora più potente dalla lunga frequentazione di Abbado con la musica di Mahler. Registrato dal vivo presso la Sala Concerti del Centro Culturale e Congressuale di Lucerna, 10 agosto 2006.

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L’orchestra nella musica classica L’orchestra è un insieme di strumenti musicali, diversi per qualità e numero, necessari all'esecuzione di una composizione musicale, variamente formato a seconda del periodo in cui è stata scritta la composizione e secondo il carattere della stessa; ha un direttore che ha il compito di guidare il gruppo nell’esecuzione musicale facendosi interprete della volontà dei compositori. L’orchestra è divisa in sezioni chiamate famiglie, le quali hanno all’interno dell’orchestra una attività precisa:

 Archi. Formano l’ossatura dell’orchestra sinfonica e sono suddivisi in: violini primi e secondi, viole, violoncelli e contrabbassi. I violini primi sono gli strumenti che hanno la parte di maggior rilievo e di maggiore difficoltà. Il ruolo di primo violino è quello di più grande prestigio in tutta l’orchestra e per tale ragione è posizionato in prima fila a sinistra del direttore, mentre il primo violoncello è alla destra. Per ragioni di equilibrio sonoro, un’orchestra con venti violini primi avrà in genere diciotto o venti violini secondi, quattordici viole, dodici violoncelli e otto contrabbassi. Nell’orchestra moderna gli archi possono essere posizionati in due modi diversi: - Americana: il direttore ha i violini primi e secondi, le viole ed i violoncelli disposti nell’ordine da sinistra verso destra, con i contrabbassi subito dietro i violoncelli. In questa disposizione c’è una separazione abbastanza netta tra le sezioni alte (violini e viole) sulla sinistra e quelle basse (violoncelli e contrabbassi), sulla destra del palco. - Europea: i violini primi sono a sinistra del direttore, i secondi a destra, i violoncelli e le viole al centro, con i contrabbassi dietro i violoncelli ma leggermente spostati a sinistra del direttore. In questa disposizione c’è un maggiore bilanciamento tonale/spaziale, con le sezioni basse provenienti dal centro del palco e maggiormente distanti dell’impianto di diffusione.

 Legni. Questi sono suddivisi in: flauti, oboi, clarinetti e fagotti, ciascuno dei quali suona una parte diversa. Di solito ci sono due esecutori per strumento; nel caso di tre strumenti per gruppo, il terzo esecutore in suona uno strumento ‘collegato’: l’ottavino (flauto), il corno inglese (oboe), il clarinetto basso (clarinetto) e il controfagotto (fagotto).

 Ottoni. Sono suddivisi in: quattro corni, tre trombe e tre tromboni. A volte si aggiungono la tuba, il trombone basso.

 Percussioni. Sono suddivisi in: timpani, grancassa, tamburi d’orchestra, piatti e triangolo. Nella musica del Novecento troviamo composizioni che richiedono anche dieci o più percussionisti. Di solito vengono impiegati uno o due musicisti, ciascuno dei quali si occupa di diversi strumenti.  Arpe. A questi gruppi, in alcuni casi, si affianca una coppia di arpe.

Tra i vari strumenti esiste una gerarchia: gli archi, che hanno il maggior peso nell’orchestra, sono in primo piano; gli ottoni stanno dietro agli archi, sia perché il loro suono è più potente, sia perché la [67]


loro funzione nell’orchestra prevede una minore partecipazione; le percussioni sono gli strumenti posizionati più lontano e sono i meno numerosi.

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Vi sono diversi tipi di orchestra distinti a seconda dell’organico, cioè degli strumenti che vi prendono parte) e del numero di esecutori: l’orchestra d’archi (o barocca); l’orchestra da camera (o classica); l’orchestra sinfonica dell’800 (o romantica); l’orchestra sinfonica moderna. Esistono, inoltre, altre formazioni strumentali: dal duo, formato da due esecutori, fino a gruppi strumentali di più strumenti.

 O hest a d a hi o a o a L’orchestra d’archi è un complesso strumentale formato dagli strumenti ad arco (violini, viole, violoncelli e contrabbassi) e dal clavicembalo. Alla fine del Cinquecento, a Venezia, compaiono le prime formazioni strumentali che si avvicinano alla moderna concezione di “orchestra”. Dapprima in esse prevalgono gli strumenti a fiato (come nelle composizioni di Giovanni e Andrea Gabrieli ma nel Seicento si fa ampio uso degli strumenti ad arco, che al tempo di Bach diventano predominanti.

[O hest a d a hi o a o a]

Nelle prime orchestre anche il clavicembalo ha un ruolo importante perché, insieme alle viole da gamba (violoncelli), al violone (contrabbasso) e alla dulciana (fagotto), esegue il “basso continuo”, ovvero l’accompagnamento con note basse. Gli archi si assestano su quattro dimensioni diverse, che resteranno simili nel corso dei secoli: violino, viola, violoncello e contrabbasso. [68]


Durante tutto il Seicento, dunque, gli archi diventano l’elemento dominante della musica orchestrale e molti musicisti compongono quasi esclusivamente per essi. Diffusa soprattutto nel Seicento, viene per questo definita anche orchestra barocca. All’inizio del Settecento il suo organico aumenta con l’introduzione di alcuni strumenti a fiato, come la tromba, l’oboe e il fagotto. Il fascino del suono degli archi ha continuato a ispirare i compositori anche nell’Ottocento e nel Novecento, che hanno dedicato a questa formazione numerose composizioni. Nelle orchestre barocche, comunque, gli strumenti non sono molto numerosi, all’incirca tra 20 e 30, perché tutti i musicisti devono poter entrare nelle “camere” (saloni) dei palazzi dei nobili. I rumorosi strumenti a fiato, seppur presenti, sono considerati secondari perché si preferisce l’omogeneità timbrica degli archi agli effetti di contrasti timbrici.

 Orchestra da camera (o classica)

Con il termine orchestra da camera si parla generalmente dell’orchestra del periodo classico, formata da alcuni strumenti ad arco, da un numero variabile di strumenti a fiato (legni e ottoni) e da alcuni strumenti a percussione (inizialmente i timpani, ai quali si aggiungeranno grancassa, triangolo e piatti).

[Orchestra classica]

E’ l’orchestra delle sinfonie di Haydn, Mozart e del primo Beethoven. L’aumento del numero degli strumenti favorisce anche la crescita delle possibilità espressive, mentre l’introduzione di fiati e percussioni richiede un incremento del numero degli archi per sostenerne le sonorità sempre più potenti. ♫♫ Orchestra di Mannheim. A Mannheim, in Germania, nel 1740, grazie al mecenatismo del principe elettore Carlo Teodoro, si forma la più celebre orchestra del secolo: è un complesso di [69]


strumenti veramente eccezionale, non solo perché per quei tempi è molto numeroso (circa 40 strumenti), ma anche perché lo stipendio generoso offerto ai musicisti attrae i migliori strumentisti d’Europa. Sotto la direzione di Carl Stamitz (1745-1801), preceduto dal padre Johann Anton Stamitz (17171757), nasce dunque quella che sarà definita la Scuola di Mannheim, vera artefice della tecnica sinfonica moderna. Nella Scuola di Mannheim, e nell’orchestra a essa legata, si sperimentano nuovi strumenti (come il clarinetto e gli strumenti a percussione) e se ne perfezionano altri, soprattutto a fiato: ad esempio, il flauto dolce diventa flauto traverso, la bombarda diventa oboe. la dulciana diventa fagotto, il cornello diventa corno, il serpentone diventa tuba e così via. Nell’orchestra, in questo periodo, gli strumenti iniziano già a dividersi in “famiglie” e viene inoltre perfezionata la tecnica strumentale degli esecutori; vengono anche definite importanti forme di musica per orchestra, come ad esempio la forma-sonata e la Sinfonia.

 L o hest a o a ti a

Nell’Ottocento, i costruttori perfezionano gli strumenti e ne inventano di nuovi, proseguendo il lavoro iniziato già nella Scuola di Mannheim. Nell’orchestra romantica aumenta il numero dei legni e gli ottoni, dal suono potente, acquistano grande importanza; in entrambi i casi si applicano congegni per chiudere i fori (chiavi e pistoni). Inoltre, si perfezionano gli strumenti a percussione, come i timpani, e gli strumenti a corde, come l’arpa, che entra nell’orchestra in maniera stabile, e il contrabbasso, che acquista la sua forma definitiva con 4 o 5 corde d’acciaio. Strumenti nuovi sono invece lo xilofono e i sassofoni, non sempre presenti nell’orchestra.

[L o hest a o a ti a]

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 L o hest a si fo i a Tra Ottocento e Novecento l’orchestra sinfonica si presenta con un organico variabile tra gli ottanta e i cento esecutori sono introdotti nuovi strumenti come l’arpa, il pianoforte, l’organo, la chitarra, nella sezione delle percussioni, fanno il loro ingresso, tra gli altri, lo xilofono, il gong e il vibrafono. Nel Novecento, i compositori appartenenti all’avanguardia sperimentalista introducono in orchestra anche strumenti elettronici.

[L o hest a si fo i a]

 L o hest a si fo i a

ode a

L’orchestra sinfonica moderna è il più grande gruppo di musicisti che suonano insieme tanti strumenti. Può comprendere 80-100 strumentisti, ma anche di più, in funzione delle partitura da eseguire. I musicisti sono seduti in semicerchio di fronte al direttore d’orchestra. Gli strumenti dal suono più potente sono dietro, per produrre un buon bilanciamento del suono. GI i strumenti più numerosi sono quelli appartenenti alla famiglia degli archi (di solito 60, di cui 32 violini) e appaiono così disposti: - i primi violini (di solito 16) sono nella prima fila e il più bravo violinista (primo violino) è il più vicino al direttore; - seguono poi i secondi violini (altri 16), le viole e a destra violoncelli e contrabbassi; - gli strumenti a fiato sono disposti in più file nell’arco centrale; - gli strumenti a percussione sono nell’ultima fila in alto: chi li suona deve potersi spostare dai timpani alla grancassa, dallo xilofono alle campane tubolari, e perciò deve avere spazio.

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 Il Di etto e d o hest a II Direttore d’orchestra è il musicista che dirige grandi o piccole formazioni strumentali ponendosi di fronte agli strumentisti e guidandoli con gesti delle mani. Egli ha compiti importanti: sceglie la composizione da proporre all’orchestra; studia la partitura, cioè l’insieme delle singole parti affidate ai diversi strumenti; interpreta la musica, cioè fare scelte musicali fondamentali sull’andamento, sulla dinamica ecc. rispettando le intenzioni del compositore; spiega ai componenti dell’orchestra come deve essere eseguita quella musica. Durante le prove, il direttore coordina l’esecuzione di tutto il gruppo dei musicisti dell’orchestra, indicando il tempo, gli attacchi dei vari strumenti, le variazioni dinamiche e, cosa non meno importante, gli errori.  Le formazioni da camera Tra le numerose formazioni strumentali da camera, le più comuni sono: - il Duo, composto da uno strumento con funzione solista (ad arco o a fiato) e da uno strumento accompagnatore (generalmente uno strumento a corde); - il Trio, nelle sue due formazioni più classiche: il trio d’archi, composto da violino, viola e violoncello, e il trio composto da violino, violoncello e pianoforte; - il Quartetto, che nella sua formazione più classica è composto da strumenti ad arco (due violini, viola e violoncello), ma può contemplare anche altre formazioni strumentali a fiato (come quello di ottoni: 2 trombe, 1 trombone, 1 tuba) o miste; - il Quintetto di fiati, composto da flauto, oboe, clarinetto, fagotto e corno. - l’Ottetto di fiati, composto da due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti.

Di solito il palcoscenico per i concerti di musica classica è digradante, in modo che le file posteriori possano vedere il direttore d’orchestra, e in generale per facilitare l’amalgama del suono. [72]


Partant pour la Syrie, di Ortensia di Beauharnais Quest’anno ricorre il 200° anniversario della morte di Napoleone Bonaparte (5 maggio 1821) e desidero ricordare la ricorrenza con una delle musiche che si ispirano alle sue gesta.

La scelta è ampia. Su tutte, la Sinfonia n° 3 Eroica che Beethoven dedicò a Napoleone, quale grande uomo che (come ci ricorda il filosofo Hegel) "cavalcava lo spirito del mondo", dedica che in seguito disconoscerà in un impeto di sdegno, strappando il frontespizio dell'opera, a seguito della sua incoronazione a imperatore. Una valida alternativa poteva essere il meno noto ma grandioso “Te Deum per l’incoronazione imperiale di Napoleone Bonaparte” di Giovanni Paisiello, eseguito il giorno dell’incoronazione di Napoleone; o la stupenda sonata Napoléon che Paganini compose per la

sola quarta corda del violino, accompagnata dall'orchestra, o ancora le musiche celebrative scritte da Jean-François Le Sueur, da Nicolas Roze, da Paul Ertel sino ad Arnold Schönberg, Ho scelto invece un’opera decisamente “minore”, pressoché sconosciuta in Italia, intitolata Partant pour la Syrie (“Partendo per la Siria”), una composizione musicale del 1807 ispirata dalla campagna d'Egitto di Napoleone Bonaparte ed attribuita alla regina Ortensia di Beauharnais, su testo di Alexandre de Laborde, Ortensia, figlia di Giuseppina di Beauharnais, figliastra di Napoleone Bonaparte, nonché madre di Napoleone III, raccontò nelle sue memorie di aver composto la melodia quando viveva alla Malmaison; in realtà il vero autore fu il compositore Louis Drouet, che dovette piegarsi alla ragione di Stato ed alle ambizioni musicali della regina, subendo impotente il silenzio che gli era stato imposto. [La regina Ortensia canta Partant pour la Syrie davanti alla madre, l'imperatrice Giuseppina, e alla nuora, l'imperatrice Eugenia.]

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Durante i decenni successivi questa storia d'amore fu conosciuta in numerosi arrangiamenti per diversi strumenti, da compositori come Bochsa o Dussek. Venne persino scritta una serie di variazioni per il flageolet (un piccolo flauto a becco in uso soprattutto nel XVI e XVII secolo). Dopo la caduta di Bonaparte, la canzone continuò ad aver successo negli ambienti napoleonici raccolti attorno a Ortensia che viveva in esilio e continuò ad essere cara al partito napoleonico anche durante la restaurazione dei Borboni. Durante il Secondo Impero la canzone divenne una sorta di secondo inno nazionale francese, suonato in quasi tutte le cerimonie ufficiali, a discapito della Marsigliese che era stata vietata. È su quest'aria che Napoleone III e l'imperatrice Eugenia fecero il loro ingresso nell'Opéra dopo l'attentato di Felice Orsini, il 14 gennaio 1858. La canzone fu suonata l'ultima volta in via ufficiale per Napoleone III quando lasciò il castello di Wilhelmshöhe, dove era prigioniero politico, per andare in esilio in Inghilterra nel 1871. Partant pour la Syrie rimase comunque nel repertorio classico militare francese. Nella canzone si narra la storia di amore e guerra del crociato Dunois, un genere cavalleresco molto in voga all'epoca del Primo Impero francese. Il testo è tratto da un poema di Laborde, intitolato Le beau Dunois (Il bel Dunois). La storia: Dunois implora la Vergine Maria di benedirlo prima di partire per la crociata in Siria. Tornato vittorioso e carico di onori, verrà ricompensato dal suo signore, che gli concederà la mano di sua figlia Isabelle. La storia utilizza il famoso personaggio del conte di Dunois, compagno d'armi di Giovanna d'Arco: nella realtà il "vero" Dunois non è mai andato in Siria né ha sposato la figlia del suo signore. Sebbene sia ancora nel repertorio dell'esercito francese, la storia d'amore musicata dalla regina Ortensia è ai nostri tempi completamente dimenticata.

 GUIDA ALL’ASCOLTO La musica di questa composizione presenta il ritmo di una marcia dagli accenti metrici regolari ed esposta in modo uniforme e cadenzato, con una chiosa finale celebrativa alla fine di ogni strofa. Testo: Partant pour la Syrie, le jeune et beau Dunois, venait prier Marie de bénir ses exploits: faites, Reine immortelle, Lui dit-il en partant, [74]


que j'aime la plus belle et sois le plus vaillant. [Partendo per la Siria, il giovane e bel Dunois andava a pregare Maria di benedire le sue imprese: fate, Regina immortale, Le disse partendo, che io ami la più bella e che io sia il più valoroso.] Il trace sur la pierre le serment de l'honneur, et va suivre à la guerre le Comte son seigneur; au noble voeu fidèle, Il dit en combattant: amour à la plus belle, honneur au plus vaillant. [Egli scrive sulla pietra il suo giuramento d'onore, e va a seguire in guerra il Conte suo signore; al nobile voto fedele, egli grida in combattimento: amore per la più bella, onore al più valoroso.] On lui doit la Victoire, vraiment, dit le seigneur; puisque tu fais ma gloire je ferai ton bonheur. De ma fille Isabelle, sois l'Epoux à l'instant, car elle est la plus belle, et toi le plus vaillant. [Gli dobbiamo la vittoria, davvero, disse il signore; dal momento che fai la mia gloria, io farò la tua felicità. Di mia figlia Isabelle, sii subito lo Sposo, perché lei è la più bella, e tu il più valoroso.] A l'Autel de Marie, ils contractent tous deux cette union Chérie qui seule rend heureux. Chacun dans la chapelle disait en les voyant: amour à la plus belle, honneur au plus vaillant. [All'altare di Maria, entrambi contraggono questa adorata unione che sola rende felice. Tutti nella cappella hanno detto vedendoli: amore per la più bella, onore al più valoroso.]

 DISCOGRAFIA Chi volesse ascoltare il brano lo può trovare nella Anthologie de la Musique militaire française (des origines à 1870) eseguita dai Musique des équipages de la flotte de Toulon, Lucas Rodriguez & Clara Schmitt. Etichetta: France Productions.

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Musica classica e cinema: Valzer con Bashir, di Ari Folman Valzer con Bashir è un film del 2008 scritto e diretto da Ari Folman. Il film unisce animazione e documentario, ma è anche diario personale e cronaca bellica, realismo e fantasia surrealistica. Nel 1982 il governo israeliano decide di invadere il Libano e occupare Beirut, rendendo i suoi soldati corresponsabili dei massacri di Sabra e Chatila, quando in 3 giorni di settembre i falangisti cristiani libanesi uccisero più di 700 (3000 secondo altre fonti) profughi palestinesi (bambini, donne e vecchi compresi) per vendicare l'assassinio del loro carismatico neopresidente Bashir Gemayel. Quella guerra Folman l'ha combattuta quando aveva 19 anni e ha impiegato 4 anni a scrivere e produrre il film che la racconta dal punto di vista di un soldato semplice, come era lui, dopo essersi reso conto di averne rimosso la memoria. Il titolo del film si riferisce alla "danza" di un soldato, che spara all'impazzata con il suo mitra sotto un poster di Bashir Gemayel,

 TRAMA Una notte, in un bar, un amico confessa al regista israeliano Ari Folman un suo incubo ricorrente: sogna di essere inseguito da 26 cani inferociti. Ha la certezza del numero perché, quando l'esercito israeliano occupava una parte del Libano, a lui, ritroso nell'uccidere gli esseri umani, era stato assegnato il compito di uccidere i cani che di notte segnalavano abbaiando l'arrivo dei soldati. I cani eliminati erano proprio 26. In quel momento Folman si accorge di avere rimosso praticamente tutto quanto accaduto durante quei mesi di guerra che culminarono nel massacro portato a termine dalle Falangi cristiano-maronite nei campi di Sabra e Chatila. Decide allora di intervistare dei compagni d'armi dell'epoca per cercare di ricostruire una memoria che ognuno di essi conserva solo in parte cercando di farla divenire patrimonio condiviso. Il film è una graphic novel caratterizzata da una fotografia "sporca" e mossa che segna il recupero doloroso della memoria e, sul piano più strettamente linguistico, dà suggestioni di grande respiro epico al film. Le ultime immagini non sono più in animazione, ma sono filmati d'archivio, che ritraggono i cadaveri del massacro in mezzo alle macerie del campo profughi: queste immagini reali, al termine di un film di animazione, colpiscono lo spettatore con una crudezza particolare e nuova.

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 COLONNA SONORA Max Richter, compositore contemporaneo scozzese, ha tessuto frammenti alterati della "Sonata per pianoforte D.850" di Schubert e ha accompagnato le immagini delle milizie falangiste libanesi con la Marcia funebre dalla "Sonata per pianoforte n. 2, Op. 35" di Chopin. Tra le molte scene voglio ricordare i cani dell'inizio, la danza febbrile di un soldato con la mitraglietta impazzita per la strada sotto il fuoco nemico (accompagnata dalle note del Valzer op.64 di Chopin), ma tanti sarebbero i momenti del film su cui soffermarsi a riflettere, a coglierne rimandi di significato. Tanti e a volte insostenibili. Intenso e doloroso, questo film è un'opera di grande poesia.

 Johann Sebastian Bach: Concerto n° 5 in fa minore per clavicembalo e archi – Largo Tragica la sequenza del terrorista bambino, solo contro un carro armato e, dopo, il corpicino straziato su cui scendono pietose le note del Concerto n° 5 in fa minore per clavicembalo e archi di Bach. Nel 1729 Bach, il quale già da sei anni ha fissato la sua dimora a Lipsia, assunse la direzione del Collegium Musicum della città, un'attività che lo impegnò in modo continuativo, specialmente per quanto riguarda il genere del concerto, cioè del far musica con più strumenti. In quegli anni Bach scrisse numerose rielaborazioni di concerti precedenti, del resto non aveva sempre molto tempo a disposizione per scrivere concerti nuovi, a causa degli impegni con il Collegium Musicum, che ogni settimana doveva tenere i suoi concerti (né vanno trascurati altri incontri musicali ai quali il compositore non poteva sottrarsi). Ciò spiega la ragione per cui il Concerto in fa minore per clavicembalo e archi è una trascrizione fatta dallo stesso Bach di un Concerto per violino e archi andato perduto. Anche gli altri sei Concerti per clavicembalo e orchestra d'archi sono trascrizioni di Concerti per violino scritti da Bach. Lo schema formale del Concerto in fa minore è sostanzialmente vivaldiano, con l'alternanza di Tutti e di Solo, ma il carattere dei temi è squisitamente bachiano: sono frasi semplici, ritmicamente precise e squadrate, ben scandite e armonicamente suscettibili di ampi sviluppi. Il suono del clavicembalo risulta intelligentemente fuso con l'orchestra e i tre movimenti sono contrassegnati da un tempo di marcia il primo, da una espressiva melodia in la bemolle il secondo e da un passo di giga il terzo, nell'ambito di una nobile spiritualità musicale. Il Largo (presente nel film) è un straordinario canto nostalgico, condotto in assoluta libertà musicale dal clavicembalo sopra il pizzicato degli archi: una pagina meravigliosa di Bach.  [77]


 Fryderyk Chopin: Sonata n° 2 op. 35 – Marcia funebre La Sonata n. 2 op. 35 in Si bemolle minore è una composizione di Fryderyk Chopin scritta tra il 1837 e il 1839. È celebre soprattutto per il terzo movimento, noto come Marcia funebre, il fulcro intorno al quale ruota l’intero lavoro. In Chopin la marcia funebre abdica alla solennità pubblica per includere un momento di meditazione privata. La parte più sublime della marcia è il Trio, una dolcissima melodia in tonalità maggiore, accompagnata solo da incessanti arpeggi della mano sinistra. Rispetto a Beethoven si è completamente smarrita la dimensione eroica e gloriosa: il trio chopiniano esprime piuttosto una sconfitta, per alcuni una preghiera, per altri solo profonda tristezza, un'umanizzazione della morte.

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La Musica del medioevo

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Le Cantigas de Santa Maria, di Alfonso X El Sabio  LA FIGURA STORICA E CULTURALE DI ALFONSO X EL SABIO Alfonso X re di Castiglia e di León, detto El Sabio (il Sapiente), nacque a Toledo nel 1221. Figlio di Ferdinando III il Santo e di Beatrice di Svevia, salì al trono nel 1252. Direttrici della sua politica furono la lotta contro i Mori, ai quali sottrasse Cartagena e Lorca, e il tentativo di ottenere, fondando le sue pretese sulla parentela di sua madre con gli Hohenstaufen, la corona imperiale. L'impegno con cui per diciotto anni tentò di perseguire il secondo obiettivo, nonostante l'opposizione papale, gli procurò numerose ribellioni all’interno del suo stesso Regno. Inimicatosi buona parte della nobiltà castigliana e gli altri sovrani della penisola fu dichiarato decaduto dalle Cortes di Valladolid (1282) che offrì il trono al figlio secondogenito Sancio, il quale però rifiutò il titolo di re, conservando quello di principe ereditario. Sostenuto solo dai francesi, Alfonso X morirà 2 anni dopo a Siviglia. Fortunata e gloriosa fu invece la sua politica culturale.

Egli si distinse per il suo mecenatismo: l’amore per la cultura lo spinse a dare grande incremento agli studi scientifici e letterari facendo confluire nella sua corte le personalità più erudite del mondo cristiano, arabo ed ebraico. La sua corte divenne un centro dove musicisti, poeti, filosofi, storici di regioni e religioni diverse (arabi, cristiani e musulmani) collaborarono attivamente all'ambiziosa impresa cui Alfonso X si accinse: quella, cioè, di compilare una summa del sapere storico, giuridico e scientifico dell'epoca. A quest'opera grandiosa Alfonso X patrocinò, supervisionò e spesso partecipò - scrivendo lui stesso e in collaborazione con un gruppo di intellettuali latini, ebrei e islamici (conosciuto come Scuola di traduttori di Toledo) - alla stesura di una ingente opera letteraria. La lingua usata fu il castigliano in uso a Toledo nella seconda metà del XIII secolo, che fornirà la base di quella che da allora in poi sarà utilizzata nella prosa castigliana. Tuttavia, bisogna notare che nell'ambito della poesia lirica, Alfonso X usò il galiziano-portoghese, lingua in cui vennero scritte le Cantigas de Santa Maria. I manoscritti alfonsini sono volumi lussuosi, di grande qualità calligrafica e profusi di miniature: erano pertanto destinati ai potenti nobili che potevano finanziare la ricchezza di questi codici e a coloro che condividevano il progetto dell'uso della lingua castigliana come strumento politico al servizio della corte, dato che i libri utilizzati nelle università medievali o Studi Generali erano più a buon mercato, maneggevoli e scritti generalmente in latino, lingua di uso comune tra i letterati. [80]


Alfonso X nella sua opera di mecenatismo istituì anche un corso di musica presso l’Università di Salamanca. Le opere più importanti di Alfonso X si possono raggruppare in: - opere storiche: La crónica general de España (“La cronaca generale della Spagna”), poi portata avanti da Sancio IV, storia della Spagna per la cui stesura gli autori attinsero a innumerevoli fonti, e La grand e general estoria (“La grande e generale storia”) che dall'origine del mondo giunge alla morte di Mosè; - opere giuridiche: Las siete partidas (“Le Sette parti”), il maggior tentativo di sistematizzazione del diritto realizzato nel Medioevo; - opere scientifiche: Los siete libros del saber de astronomía (“I sette libri sulle conoscenze astronomiche”); - opere poetiche: Cantigas de Santa María (“Canti di Santa Maria”). Poiché il castigliano non era allora in uso per la poesia a carattere lirico, Alfonso X scelse il gallego per esprimersi poeticamente. Fu questa l'opera che Alfonso X predilesse e quella che meglio esprime la personalità del monarca. Gli si attribuiscono inoltre: El lapidario, il Libro del acedrez, dados e tablas (“Libro dei giochi degli scacchi, dei dadi e delle tavole”). Rilevanti sono anche le traduzioni da lui ordinate, tra cui il Libro di Kalila e Dimna.

 LE CANTIGAS DE SANTA MARIA Le Cantigas erano un tipo di musica popolare molto diffuso nel XIII secolo nella penisola iberica: oltre quelle religiose (le più numerose), ci sono pervenute molte cantigas di altro genere: ad esempio le cantigas de amigo, cioè canzoni d'amore cantate o recitate da una ragazza, le cantigas de escarnio (scurrili o satiriche), le cantigas de gesta (narrative o epiche), ecc. Le poesie di carattere religioso, che celebravano la vita e i miracoli dei santi, venivano cantate dai menestrelli per il popolo in occasione soprattutto delle feste religiose. Nel secolo XI, cominciarono ad essere raccontati nella poesia popolare anche i miracoli della Madonna. Il vero luogo culturale di nascita delle Cantigas de Santa Maria è da considerare la corte del re Alfonso X el Sabio. Esse fanno parte dei documenti più importanti della poesia religiosa dell'Europa e in particolare della Spagna, e costituirono un importante passo avanti per lo sviluppo della cultura spagnola, nonostante l'epoca medievale - la cosiddetta "età di mezzo" – sia stata sempre vista come un periodo di profonda crisi, politica e sociale poiché segnata da oscurità, intolleranza e devastazioni.

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Solo tre sono ritenute dagli studiosi più tarde, del XIII o al massimo XIV secolo, e presentano gli stessi poemi e melodie con poche eccezioni e varianti. Tutte le altre sono concordemente attribuite ad Alfonso X. Non è però chiaro quanto e come il re abbia fattivamente collaborato alla stesura dell'opera, se abbia cioè limitato la sua parte alla supervisione o se scrisse egli stesso almeno alcune parole e musica. Da un lato, i manoscritti attestano parecchie volte che Alfonso "fece" alcune cantigas, e in diverse di esse (per esempio i numeri 1, 347, 400 e 401) egli parla in prima persona. D'altronde, il re, che possedeva gli strumenti culturali per procedere alla composizione, ebbe certamente una speciale predilezione per la sua collezione, di cui parlò in altre sue opere: nella Estoria General egli stesso spiegò che «...Il re scrive un libro (...) nel senso che egli raccoglie il materiale per esso (...), lo adatta, mostra la maniera in cui deve essere presentato e mette in ordine cosa deve essere scritto» (da Estoria general).  La struttura Le Cantigas sono una collezione di 401 canzoni dedicate alla Madonna, composte fra il 1270 e il 1290; comprendono anche il testo di altre venti poesie dedicate alle Festas de Jesus Cristo e alle Festas de Santa María. In più comprendono un'introduzione in omaggio al re Alfonso e un prologo. Le Cantigas de Santa María si possono dividere in due gruppi: Il primo, le Cantigas de Miragres, è formato da 356 narrazioni, in cui sono riassunte storie, miracoli e storie legate alla Vergine Maria, sia per il suo intervento diretto, sia per gli amori mistici che la sua figura genera nelle anime pie. I secondi, le Cantigas de Loor, sono le canzoni puramente liriche o di lode, e numericamente sono un gruppo molto più piccolo. Sono elogi della Vergine o si riferiscono a feste mariane o cristologiche. Sono poesie più serie, profonde, quasi mistiche, in cui invece di cantare i miracoli della Vergine, riflettono su di Lei come in una preghiera. Questi prendono la forma di inni sacri come quelli eseguiti nella liturgia, ma che servivano sia come intrattenimento letterario che musicale nelle corti di palazzo e nelle feste profane, e da lì venivano trasmessi dai menestrelli al folklore della tradizione popolare. Ogni dieci testi dei Miragres ve n'è uno de Loor. Alla regolarità di tale disposizione fa eccezione solo l'inizio della raccolta, ove un Prologo cantato ("Porque Trobar") precede la prima Cantiga de Loor (Des oge mais), e la fine, ove un Peticon segue l'ultima ("Pero Cantigas de loor"). L'argomento delle Cantigas de Miragres è identificato ognuna da una intestazione ("Esta è como..."), e da splendide miniature illuminate illustra la storia di ciascun miracolo, per un totale di ben 2.640 miniature coloratissime, di un virtuosismo raramente eguagliato, che da sole costituiscono un'opera d'arte incomparabile; invece le Cantigas de Loor sono accompagnate da miniature che ritraggono i musicisti nell'atto di suonare o accordare una gran varietà di strumenti. Nei vari manoscritti tali pitture cambiano, ad eccezione di quelle che ritraggono lo stesso Alfonso, le quali tutte concorrono a [82]


mostrarcelo come supervisore e istruttore, di tutti gli scribi, chierici e laici, impegnati a compilare le Cantigas.  I testi In un periodo in cui la poesia trobadorica è completamente associata all'idea dell'amore cortese è plausibile fare di Alfonso X la figura di un trovatore sui generis che canta alla Vergine Maria, quale dama idealizzata: tale interpretazione viene esposta da Alfonso stesso nella Cantiga di prologo "Porque Trobar". Le Cantigas mostrano attraverso i loro racconti uno spaccato della società del tempo: infatti l’oggetto dei miracoli raccontati spesso non è la narrazione di fatti eccezionali ed eroici, ma di piccoli momenti di vita vissuta, di difficoltà quotidiane in cui l’azione miracolosa della Madonna è richiesta per risolvere beghe familiari, intrighi di corte e sotterfugi amorosi. Risalta sempre la fede nel suo aiuto, anche se a volte i dettagliati resoconti delle situazioni boccaccesche che avevano reso necessario l'intervento divino suggeriscono che il pubblico godesse del peccato almeno quanto del miracolo. Alfonso utilizzò anche sue stesse esperienze: la Cantiga 209 Muito faz grand'erro, ad esempio, narra dello stesso Alfonso che è colpito da grave malattia e prova tanto dolore che teme per la sua stessa vita. La guarigione arriva solo con l'applicazione sul corpo dolorante di un manoscritto delle Cantigas. La devozione del Re era sicuramente autentica tanto che nel testamento dispose che tutte le copie delle Cantigas de Santa Maria esistenti fossero custodite nella stessa Chiesa che avrebbe ospitato la sua tomba. Alcune Cantigas hanno una valenza politico-religiosa. La situazione della penisola iberica di quel periodo mostra una compresenza di razze, culture e religioni diverse (arabi, ebrei, cristiani spagnoli ed europei): la Vergine Maria interviene a favore delle conversioni religiose e a sostegno dei cristiani minacciati dai mori. Come detto prima, ogni 10 componimenti poetici ne appare uno denominato "di lode", che non ha contenuto narrativo, ma è una preghiera con cui si chiede la grazia e l'intercessione per il perdono dei peccati. Si tratta di vere e proprie poesie, ove i testi utilizzano immagini preziose per la Vergine: "stella", "cammino", "luce", "rosa", anche il ritmo è dolce e delicato. Le poesie raccolte da Alfonso sono tutte scritte in lingua gallega (affine comunque al portoghese medievale), considerata dai poeti spagnoli dal XIII al XV secolo la più dolce e la più musicale, dunque la più adatta per la stesura di queste opere. La Galizia faceva parte del regno di Alfonso.  La Musica Da un punto di vista musicale l'opera presenta una commistione di generi provenienti da epoche e regioni diverse: predomina la forma poetico-musicale (ABA) di un ritornello (A) detto "estribillio" alternato ad una strofa con ripresa finale del ritornello (BA); è presente inoltre il canto gregoriano (l'innodia e la sequenza) e quello trovadorico (la cansò, il rondeau ed il virelai). L'origine della forma [83]


(ABA) non è ancora molto chiara: è probabile una derivazione dallo Zajal arabo o dal Virelai francese, pur non escludendo una possibile genesi autoctona. Le Cantigas offrono una straordinaria ricchezza metrica per ciò che concerne il numero di sillabe per verso o il numero di versi per strofa, in compenso la struttura generale di ogni brano è abbastanza uniforme. La tecnica usata per la composizione consistette in alcuni casi nella composizione ex novo, ma nella grande maggioranza dei casi venne fatto uso del contrafactum, ossia il prendere famose melodie secolari adattandole ad un nuovo testo con parole moralizzate. L'uso di melodie già popolari aveva anche lo scopo di rendere familiari le storie all'uditore; ciò andava nella direzione delle intenzioni di Alfonso di descrivere nei contenuti delle storie narrate la realtà della grazia divina continuamente attuata nella quotidianità. Delle melodie fino ad oggi identificate, alcune sono canzoni dei trovieri, altre vengono dal repertorio di Notre-Dame, altre ancora ricordano delle canzoni dei trovatori; e ve ne sono certe, persino, che ricordano i pochi motivi di danza che ci sono pervenuti per iscritto. In genere le cantigas hanno un ritmo vivace, che si presta anche alla danza sacra, in uso presso i santuari per alimentare la gioia pur in mezzo alle penitenze.  Gli strumenti musicali

I codici manoscritti della Cantigas di Madrid sono, attraverso le loro miniature, una fonte importantissima per l'individuazione degli strumenti musicali utilizzati nel Medioevo, rappresentati quasi nella loro totalità, tanto da essere una fonte ricchissima di informazioni per gli studiosi ed i musicisti.

Non essendo pervenuti esemplari conservati di molti di questi strumenti, spesso le miniature sono l'unica fonte per risalire alla loro forma, anche se a volte le esigenze artistiche dell'illustratore vanno a scapito della correttezza delle proporzioni.

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Le miniature riproducono coppie di suonatori, talvolta in costume moresco e alcune di esse ci possono illuminare sull’esecuzione, anche ricca dal punto di vista dell'organico, delle cantigas; in una di queste si vede infatti il re Alfonso circondato da un buon numero di musicisti, cantanti e danzatori.  I Codici

Le Cantigas de Santa Maria sono definite “uno dei maggiori monumenti della musica medievale”. La raccolta è stata conservata in quattro manoscritti del XIII secolo, in cui le canzoni sono accompagnate da numerose coloratissime miniature illustrative, costituendo così una delle più interessanti imprese artistiche del Medio Evo nonché una delle più profonde testimonianze della devozione dell’uomo verso la Vergine Maria. I quattro codici sono provenienti tutti dalla corte del re Alfonso X. o

Il Codice Toledano, che appartenne alla Cattedrale di Toledo fino al 1869 e che ora si conserva nella Biblioteca Nazionale di Madrid (ms. 10069): è la prima raccolta uscita dallo scrittoio del re, dopo il 1257. Il manoscritto consta di 160 fogli di pergamena a due colonne, in lettere francesi del secolo XIII e contiene 128 composizioni con notazione musicale,

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Il secondo codice, il più ricco, si conserva alla Biblioteca di El Escorial (codice J. b. 2), e contiene 417 cantigas, illustrate con 40 miniature, e reca notazione musicale. È costituito da 361 fogli di pergamena scritte in due colonne con lettere francesi del XIII secolo.

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Si conserva a El Escorial un altro codice (J. b. 1) con 198 cantigas, notazione musicale e 1275 miniature raggruppate in lamine di sei quadri, che danno all'opera un gran valore iconografico e pittorico. Sono 256 fogli di pergamena scritti in due colonne a lettere francesi del XIII secolo.

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Il codice di Firenze, conservato nella Biblioteca Nazionale di questa città, contiene 104 cantigas, delle quali due non appaiono negli altri codici e altre offrono varianti di un certo interesse. È incompleto, con strofe mancanti, con molte vignette disegnate e con le linee della notazione musicale in bianco. Sono 131 fogli scritti con lettere gotiche del XIII secolo e generalmente a due colonne.

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 GUIDA ALL’ASCOLTO In considerazione che in commercio nel campo discografico non esiste ancora una raccolta sequenziale e completa delle varie Cantigas, ho ritenuto opportuno avvalermi della splendida raccolta, in più CD, diretta dal musicista spagnolo Eduardo Paniagua assieme al suo ensemble Musica Antigua. Ogni volta prenderò in considerazione un singolo CD di questa collana, dando il testo originale delle Cantigas presenti, la traduzione in italiano e un breve commento critico.

 Cantigas Centenales  Le Cantigas Centenales è un disco che raccoglie un gruppo di canzoni che aprono e chiudono il vasto periodo delle Cantigas di Alfonso X: sono l’Intitulatio, il Prologo, le Cantigas 1, 100, 200, 300 e 400, e l’Epilogo; inoltre contiene la Cantiga n° 279 che dimostra la grande fede del Re malato verso la Madonna guaritrice. In queste composizioni riscontriamo la volontà di Alfonso X sia di nutrire profondi sentimenti devozionali con la Vergine Maria, sua patrona e protettrice, sia di essere, come Re, il promotore di questo progetto culturale, e di avere le qualità intellettuali e umane di Trovatore per poter condurre in porto questi codici di preghiere. Nei brani presenti nel CD, allorché è stata preparata la strumentazione e l’ambiente musicale, gli interpreti hanno deciso che a cantare tutte le strofe fosse una sola voce, come se il cantore fosse lo stesso Re Alfonso. ♫♫

INTITULATIO (Proclama) I codici delle Cantigas iniziano con l’Intitulatio, o Proclama, una presentazione dell’autore Re Alfonso di Castiglia elencando i titoli della sua regalità. Senza annotazioni musicali con octosillabi in rima crociata, egli dichiara le regioni di questa raccolta: cantare le lodi della Vergine Maria nella quale confida profondamente. Il titolo Re dei romani indica che questo brano è stato composto tra il 1257 e il 1275, il periodo in cui il re era un pretendente al Sacro Impero Romano.

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Testo: Don Affonso de Castela, de Toledo, de Leon. Rey e ben des Conpostela, ta o e o d A ago , de Cordova, de Jahen, de Sevilla outrossi, e de Murça, u gran ben, lle fez Deus, o ap e di. [Don Alfonso di Castiglia, di Toledo, di Leon, Re e bene di Compostela, fino al regno di Aragona, di Cordova, di Jaèn, di Siviglia e anche di Murcia, dove Dio fece un gran bene, come si sa,] do Algarve, que gãou de mouros e nossa ffe meteu y, e ar pobrou Badallouz, que reyno e uit a tigu , e ue tolleu a ou os Nevl e Xe ez, Beger, Medina prendeu e Al ala d out a vez, [di Algarbe, dove sconfisse i Mori ed introdusse la nostra fede, e che anche popolò Badajoz, che è un regno molto antico, e che catturò i Mori a Niebla e Jerez, Veyer, e conquistò Medi a e Al alà i u ’alt a occasione,] E que dos Romãos Rey e pe de eit e “eño este liv o, o a hei, fez a o e a loo da Virgen Santa Maria, que este Madre de Deus, en que ele muito fia. [e che Re dei Romani, e per mano del Signore, scrisse questo libro, come lo trovate, a onore ed in lode della Vergine Maria, che è Madre di Dio, nella quale egli confida molto.] Poren dos miragres seus fezo cantares e sões, saborosos de cantar, todos de sennas razões, o i podedes a ha . [Quindi dei suoi miracoli voglio cantare e suonare, bramoso di narrare tutte le vicende sacre che ho potuto raccogliere.] ♫♫ [87]


PROLOGO – PORQUE TROBAR (Prologo – Perché comporre) Questo canto d’inizio identifica le doti necessarie per essere un buon trovatore. Il Re Alfonso dichiara che, sebbene non le possegga tutte, ha preso la decisione di abbandonare gli amori umani e di dedicare se stesso alle lodi alla Vergine, con la speranza di essere ricompensato con il “premio d’amore” di tutti i trovatori. Le sette strofe sono scritte con la metrica propria dei canti d’amore provenzale (maestria), con 6 versi ossitonici, accento sull’ultima sillaba, senza ritornello. Testo: Este é o prólogo das «Cantigas de Santa Maria», ementando as cousas que há mester eno trobar. [Questo è il Prologo delle Cantigas di Santa Maria, dove si spiega cosa vuol dire essere Trovatore.] Porque trobar é cousa em que jaz entendimento, porém que-no faz há-o d' haver, e de razom assaz, per que entenda e sábia dizer o que entend' e de dizer lhe praz, ca bem trobar assi s' há de fazer. (Perché comporre è una cosa per la quale occorre capacità, quel che si fa lo si deve saper fare, e bene, per chi comprenda e sia capace di raccontare o abbia il piacere di raccontare, ché quello che si deve fare è comporre bene.)

E, macar eu estas duas nom hei com' eu querria, pero provarei a mostrar ende um pouco que sei, confiand' em Deus, ond' o saber ven; ca per Ele tenho que poderei ost a , do ue ue o, algũa e . (E per quanto dubiti di saper fare quel che vorrei fare, proverei comunque a dimostrare anche una minima parte di quel che posso, confidando in Dio, che mi dia il sapere; ché per Lui io potrei mostrare, di quello che ho, il mio meglio.) [88]


E o que quero é dizer loor da Virgem, madre de nostro Senhor, Santa Maria, que ést' a melhor cousa que El fez; e por aquest' eu quero seer hoimais seu trobador, e rogo-lhe que me queira por seu trobador, [E quel che voglio è lodare la Vergine, Madre di nostro Signore, Santa Maria, ciò che di meglio che Egli ha creato; e per questo io desidero essere il suo trovatore e desidero ardentemente che anche Lei mi voglia come suo trovatore,] e que queira meu trobar receber, ca per el quer' eu mostrar dos miragres que ela fez; e ar querrei-me leixar de trobar des i por outra dona, e cuid' a cobrar per esta quant'enas outras perdi. [e che gradisca il mio cantare, che io possa raccontare i miracoli che Ella compie; e non vorrei fare il t ovato e pe essu ’alt a do a, e deside o a oglie e pe Lei ua to gli alt i ha o dispe so.] Ca o amor desta senhor é tal que que-no há, sempre per i mais val, e, poi-lo gaanhad' há, nom lhe fal, senom se é per sa grand' ocajom, querendo leixar bem e fazer mal (ca per esto o perd', e per al non). [Pe h l’a o e he p ovo pe uesta Donna è tale che non ve ne è di più e sempre di più, e non vi è menzogna o falsità che mi faccia perdere questa opportunità, vanificando ogni sforzo positivo (ché per questo non vorrei perdere il suo favore.)] Porém dela nom me quer' eu partir, ca sei de pram que, se a bem servir, que nom poderei en seu ben falir de o haver, ca nunca y faliu quem lho soube com merçee pedir, ca tal rogo sempr' ela bem oiu. [Perciò non voglio separarmi da Lei perché so bene che, se la servo bene, non potrò mai smettere di ricevere il suo aiuto, perché lei non ha mai smesso di dare aiuto a chi ha saputo chiederlo piamente, ha sempre ascoltato le preghiere fatte in questo modo.] Onde lhe rogo, se Ela quiser, que lhe praza do que dela disser em meus cantares, e, se lh' aprouguer, que me dé galardom com' ela dá aos que ama; e que-no souber, por ela mais de grado trobará.

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[Onde io desidero, se Ella lo vorrà, che si segua nelle preghiere quel che io racconto nelle mie canzoni, e che, se ciò avverrà, che mi dia le sue grazie come le dà a quelli che ama; e se voi lo saprete, per Lei canterò al colmo della felicità.] ♫♫

CSM 1 - LOS SIETE GOZOS (Le sette gioie) La Cantiga n° 1 è un inno di lode che presenta la vita di Maria nei sette momenti cruciali riguardanti il rapporto tra Lei e Suo Figlio, conosciute nella Chiesa come “Le sette Gioie”: la visita dell’Arcangelo Gabriele e l’Annunciazione, la nascita Di Gesù con l’arrivo in una grotta, l’Epifania con i tre Re Magi, la Resurrezione con i sepolcri vuoti, l’Ascensione tra le nuvole, la Pentecoste con l’arrivo dello Spirito Santo, ed infine l’Assunzione in Cielo e l’Incoronazione della Vergine.

Testo: Esta é a primeira cantiga de loor de Santa Maria, ementando os VII goyos que ouve de seu fillo. [Questa cantiga è il primo canto di lode della Madonna, dove si menzionano le sette gioie che Ella ebbe da Suo Figlio.] Des oge mais quer' eu trobar pola Sennor onrrada, en que Deus quis carne fillar beyta e sagrada, por nos dar gran soldada no seu reyno e nos erdar por seus de sa masnada de vida perlongada, sen avermos pois a passar per mort' outra vegada. [D’o a i poi o voglio a ta più se o della Mado a, deg a di esse e o o ata, dalla uale Dio i evette carne sacra e benedetta, per dare a noi un grande dono del Suo regno, a noi, in quanto suoi seguaci ed eredi della vita eterna, senza dover morire una seconda volta.] E poren quero começar como foy saudada de Gabriel, u lle chamar foy: «Benaventurada Virgen, de Deus amada: do que o mund' á de salvar ficas ora prennada; e demais ta cunnada Elisabeth, que foi dultar, é end' envergonnada.»

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[E così voglio cominciare narrando come venne salutata da Gabriele, quando andò a trovarla: «Vergine benedetta, da Dio amata: tu sei in questo momento incinta di Colui che dovrà salvare il mondo; e tua cugina Elisa etta, he p ovava du i e ve gog a pe uesto, a h’ella g avida.»] E demais quero-ll' enmentar como chegou canssada a Beleem e foy pousar no portal da entrada, u paryu sen tardada Jesu-Crist', e foy-o deytar, como moller menguada, u deytan a cevada, no presev', e apousentar ontre bestias d'arada. [E voglio anche narrare con quanta fatica Ella arrivò a Betlemme, e come t ovò ipa o all’i g esso i u portone, dove partorì immediatamente Gesù Cristo, e, per sua necessità, lo depose in una mangiatoia, dove vi era del mangime per delle bestie da lavoro, e il bambino era in mezzo ad esse.] E non ar quero obridar com' angeos cantada loor a Deus foron cantar e «Paz en terra dada»; nen como a contrada aos tres Reis en Ultramar ouv' a strela mostrada, por que sen demorada veron sa offerta dar estranna e preçada. [E non voglio dimenticare come gli angeli innalzarono le lodi a Dio e a ta o o “ia pa e su tutta la te a ; o come, la stella segnalò ai tre Re, provenienti da paesi lontani, il luogo, affinchè portassero senza indugio i loro caratteristici e preziosi doni.] Outra razon quero contar que ll' ouve pois contada a Madalena: com' estar vyu a pedr' entornada do sepulcr' e guardada do angeo, que lle falar foy e disse: «Coytada moller, sey confortada, ca Jesu, que ves buscar, resurgiu madurgada.» [Voglio i olt e a a e u ’alt a osa he, ual he te po dopo, la Maddalena disse a Maria: come ella vide la porta del sepolcro spalancata e vegliata da un angelo, che parlò e le disse: «Donna infelice, non soffrire più, perchè Gesù, che sei venuto a cercare, è risorto stamattina».]

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E ar quero-vos demostrar gran lediç' aficada que ouv' ela, u vyu alçar a nuv' enlumada seu Fill'; e poys alçada foi, viron angeos andar ontr' a gent' assada, muy desaconsellada, dizend': «Assi verrá juygar, est' é cousa provada.» [E voglio a he ost a e la p ofo da ed i te sa gioia ua d’Ella vide ascendere al cielo suo Figlio su una nuvola luminosa; e come, dopo che la nuvola salì, vi erano angeli che andavano tra le persone lì presenti, che erano molto scoraggiate, dicendo: «Tornerà per giudicare, è cosa certa.»] Nen quero de dizer leixar de como foy chegada a graça que Deus enviar lle quis, atan grãada, que por el esforçada foy a companna que juntar fez Deus, e enssinada, de Spirit' avondada, por que souberon preegar logo sen alongada. [Non voglio dimenticar di dire di come venne da lei la grazia che Dio Le inviò; fu questa così preziosa che le persone riunite con Lei nel nome di Dio furono ispirate ed arricchite dallo Spirito Santo, in modo tale che furono capaci di iniziare a predicare immediatamente.] E, par Deus, non é de calar como foy corõada, quando seu Fillo a levar quis, des que foy passada deste mund' e juntada con el no ceo, par a par, e Rea chamada, Filla, Madr' e Criada; e poren nos dev' ajudar, ca x' é noss' avogada. [E, per Dio, non è da tacere come venne incoronata, quando suo Figlio volle portarla via da questo mondo, per riunirsi con Lei come sua pari nel cielo, e che fosse chiamata Regina, Figlia, Madre e Serva; e dovrà venire in nostro aiuto, perchè è la nostra avvocatessa.] ♫♫

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CSM 100 – ESTRELLA DEL DIA (Stella del giorno) La Cantiga n° 100, forse la più nota dell’intero Canzoniere, è meglio conosciuta come “Santa Maria, stella del giorno”. Essa è una glosa, cioè un’antica forma poetica, composta da Venancio Fortunato nel VI secolo. Nella miniatura che accompagna questa cantiga il Re è inginocchiato e parla alla Vergine con confidenza nelle ultime due strofe a nome di tutti. Il Re chiede alla Vergine di guidarci, come una stella del mattino verso il destino che desideriamo: il Paradiso (come si vede nella miniatura a dx) con palme, frutti e angeli musicanti con i loro strumenti, alcuni dei quali di origine andalusa, il laùd (uno strumento a corda della famiglia dei liuti), il rebab (uno strumento a corde parallele sulla cass di risonanza, che va suonato con un archetto), il ganun (salterio), il tamburello. Alfonso X scelse la stella quale simbolo dell’Ordine di Santa Maria che fondò nel 1272.

Testo: Esta é de loor. [Questo è un inno di lode] Santa Maria, Strela do dia, mostra-nos via pera Deus e nos guia. [Santa Maria, stella del giorno, mostraci la via per giungere a Dio e guidaci.] Ca veer faze-los errados que perder foran per pecados entender de que mui culpados son; mais per ti son perdõados da ousadia que lles fazia fazer folia mais que non deveria.

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[Perché per far vedere a coloro che sbagliano che si erano persi a causa dei loro peccati, comprendiamo quanto essi siano colpevoli; ma per Te sono perdonati dell'audacia che li ha portati a commettere follie che non dovrebbero.] Santa Maria, Strela do dia, mostra-nos via pera Deus e nos guia. [Santa Maria, stella del giorno, mostraci la via per giungere a Dio e guidaci.] Amostrar-nos deves carreira por gãar en toda maneira a sen par luz e verdadeira que tu dar-nos podes senlleira; ca Deus a ti a outorgaria e a querria por ti dar e daria. [Indicaci la via per raggiungere l'incomparabile e vera luce che solo Tu puoi darci; perché Dio Te lo concede e a Te lo concederebbe sempre.] Santa Maria, Strela do dia, mostra-nos via pera Deus e nos guia. [Santa Maria, stella del giorno, mostraci la via per giungere a Dio e guidaci.] Guiar ben nos pod' o teu siso mais ca ren pera Parayso u Deus ten senpre goy' e riso pora quen en el creer quiso; e prazer-m-ia se te prazia que foss' a mia alm' en tal compannia. [La Tua intenzione potrebbe guidarci meglio di ogni altra cosa in Paradiso dove Dio conserva sempre gioia e sorriso per coloro che vogliono credere in Lui; e avrebbe pietà di me se la mia anima fosse in Tua compagnia.] Santa Maria, Strela do dia, mostra-nos via pera Deus e nos guia. [Santa Maria, stella del giorno, mostraci la via per giungere a Dio e guidaci.] ♫♫

CSM 200 – ALABE , ALABO Y ALABA‘E (Lode, lode e sempre loderò)

La Cantiga 200 conclude il Codex E con la stessa intenzione con cui era iniziato nel Prologo. Il Re Alfonso parla di sé in relazione a Santa Maria “L'ho cantata, la canto e canterò i suoi meriti” e spiega il perché. I tre tempi dell'azione si completano con la promessa di continuare a cantare nuove [94]


canzoni (loaré) e che altri seguano il loro esempio. È un canto di lode per ciò che è, non per ciò che fa (miracoli). In questa cantiga il Re è l'autore e i sudditi-discepoli ascoltano tutto ciò che gli è stato concesso (“più di quanto io possa contare”): buona famiglia, salute nelle malattie, aiuto nelle battaglie, uscita dalle congiure. E desidera, alla fine, vedere "colei che ho sempre amato".

Testo: Esta é de loor de Santa Maria. [Questa è un inno di lode per Santa Maria] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] Ca, ontr' os que oge nados son d' omees muit' onrrados, a mi á ela mostrados mais bes, que contarei. [Perché tra tutti quegli uomini pieni d'onore che vivono oggi, mi ha concesso più beni di quanti ne possa contare.] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] Ca a mi de bõa gente fez vir dereitamente e quis que mui chãamente reinass' e que fosse rei. [Perché mi ha reso un discendente diretto di persone molto nobili e ha voluto che regnassi giustamente e fossi re.] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] E conas sas piadades nas grandes enfermidades m' acorreu; por que sabiades que poren a servirey. [95]


[E con la Sua misericordia mi ha aiutato nelle mie grandi malattie, perciò, siatene certi, in cambio La servirò.] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] E dos que me mal querian e buscavan e ordian deu-lles o que merecian, assi como provarei. [E a coloro che mi portavano cattiveria e cospiravano e tramavano contro di me ha dato ciò che meritavano, come dimostrerò.] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.]

A mi de grandes pobrezas sacou e deu-me requezas, por que sas grandes nobrezas quantas mais poder direi. [Mi ha liberato dalla grande povertà e mi ha dato la ricchezza, per la quale nominerò tutti i suoi grandi meriti che possa mai dire.] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] Ca mi fez de bõa terra [96]


sennor, e en toda guerra m' ajudou a que non erra nen errou, u a chamei. [Perché Colei che non sbaglia né ha mai sbagliato mi ha fatto signore di una bella terra e mi ha aiutato in ogni guerra quando la invocavo.] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] A mi livrou d' oqueijões, de mortes e de lijões; por que sabiades, varões, que por ela morrerei. [Mi ha liberato dalle disgrazie, dalla morte e dalle ferite. Sappiate dunque, bravi uomini, che morirò per Lei.] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] Poren todos m' ajudade a rogar de voontade que con ssa gran piadade mi acorra, que mester ei. [Tutti voi ora unitevi a me per pregare con tutto il nostro cuore che mi aiuti nella Sua grande misericordia, perché ne ho bisogno.] Santa Maria loei e loo e loarei. [Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] E quando quiser que seja, que me quite de peleja daquest mund' e que veja a ela, que sempr' amei. [E quando lo vorrà, mi tolga dal tumulto di questo mondo, e possa io contemplare Colei che ho sempre amato.] Santa Maria loei e loo e loarei.

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[Lode, lode e sempre loderò Santa Maria.] ♫♫

CSM 279 – GRAN ENFERMEDAD (Grande malattia) La Cantiga 279 è speciale per essere il primo miracolo di guarigione. Sotto forma di ballata, Alfonso chiede aiuto per se stesso, "il tuo trovatore" attanagliato dal dolore e vicino alla morte. A partire dall'anno 1269, la salute del re peggiorò e un modo per propiziare la sua guarigione era continuare a comporre canti di lode. Testo: Como el rei pidiu mercee a Santa Maria que o guarecesse da grand' enfermidade que avia; e ela, como sennor poderosa, guarecé-o. [Come il re chiese la grazia a Santa Maria perchè lo guarisse da una grave malattia che lo aveva colpito; e come Ella, potente Signora, lo guarì.] Santa Maria, valed', ai Sennor, e acorred' a vosso trobador, que mal le vai. [Santa Maria, o Signora, fate guarire il vostro trovatore e soccorretelo nella sua malattia.] A tan gran mal e a tan gran door, Santa Maria, valed', ai Sennor, como soffr' este vosso loador; Santa Maria, valed', ai Sennor, e sã' é ja, se vos en prazer for, do que diz «ai». [Un gran male e un tanto grande dolore, Santa Maria, oh Signora, fa soffrire il vostro trovatore, guaritelo; Santa Maria, oh Signora, guaritelo, se Voi lo vorrete, da quello che lo fa lamentare.] Santa Maria, valed', ai Sennor, e acorred' a vosso trobador, que mal le vai. [Santa Maria, o Signora, fate guarire il vostro trovatore e soccorretelo nella sua malattia.] Pois vos Deus fez d'outra cousa mellor e vos deu por nossa rezõador, seede-mi ora bõ' ajudador en est' enssay.

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[Perchè Dio ha creato Te quanto di più meraviglioso esiste, e Ti ha nominato nostra protettrice, aiutami con benevolenza in questa prova.] Santa Maria, valed', ai Sennor, e acorred' a vosso trobador, que mal le vai. [Santa Maria, o Signora, fate guarire il vostro trovatore e soccorretelo nella sua malattia.] Que me faz a mort', ond' eigran pavor, e o mal que me ten tod' en redor, que me fez mais verde mia coor que dun canbrai. [Perchè la morte mi riempie di paura, e il male che dappertutto mi circonda fa diventare la mia pelle più verde di una pannocchia.] Santa Maria, valed', ai Sennor, e acorred' a vosso trobador, que mal le vai. [Santa Maria, o Signora, fate guarire il vostro trovatore e soccorretelo nella sua malattia.] Que fez enton a galardõador de todo ben e do mal sãador? Tolleu-ll' a fever e aquel umor mao e lai. [Che cosa fa allora la donna celebrata sommamente per tutta la sua bontà e guaritrice di tutti i mali? Mi calma la febbre e toglie il mio cattivo umore.] Santa Maria, valed', ai Sennor, e acorred' a vosso trobador, que mal le vai. [Santa Maria, o Signora, fate guarire il vostro trovatore e soccorretelo nella sua malattia.] ♫♫

CSM 300 – SEMPRE LOAR (Lodare sempre) Il testo della Cantiga n° 300 si compone di due parti. La prima riguarda la necessità di lodare Santa Maria con l'esposizione dei suoi attributi in una disposizione parallela, con le contraddizioni già espresse nella Cantiga 180; madre e figlia (di Dio), serva e padrona, ecc. Continua con la gratitudine per la sua azione di mediazione per intercedere per i nostri peccati. [99]


La seconda parte è personale. Il re si sente incompreso e deluso da parenti e consiglieri. È criticato per le sue prestazioni politiche e finanziarie, e anche per i suoi successi culturali. E davanti allo scontento che esiste nel suo regno, chiede alla Vergine di schierarsi dalla sua parte, per la sua comprovata fedeltà a Lei. Esorta tutti a lodarla poiché non hanno apprezzato o apprezzato le sue canzoni ei suoi suoni. Questa cantiga alterna versi di 7 e 4 sillabe. Testo: Esta é de loor de Santa Maria. [Questa è in lode di Santa Maria.] Muito deveria ome sempr' a loar... a Santa Maria... e seu ben rezõar. [Un uomo dovrebbe sempre lodare Santa Maria e proclamare la sua bontà.] Ca ben deve razõada seer a que Deus por Madre quis, e seend' el seu Padre e ela filla e criada, e onrrada e amada a fez tanto, que sen par é preçada e loada e será quant' el durar. [Si deve certamente proclamare colei che Dio ha scelto come sua Madre e, essendo Lui suo Padre e Lei figlia e serva, l'ha resa così grandemente onorata e amata che senza eguali è stimata e lodata, e lo sarà finché Dio esiste.] Muito deveria ome sempr' a loar... a Santa Maria... e seu ben rezõar. [Un uomo dovrebbe sempre lodare Santa Maria e proclamare la sua bontà.] Outrossi loar devemos a por que somos onrrados de Deus e ar perdõados dos pecados que fazemos; [100]


ca temos que devemos por aquesto lazerar, mas creemos e sabemos que nos pod' ela guardar. [Allo stesso modo dovremmo lodare Colei per la quale siamo onorati da Dio e anche perdonati dei peccati che commettiamo; poiché crediamo di dover soffrire per questo, ma crediamo e sappiamo che Ella può proteggerci.] Muito deveria ome sempr' a loar... a Santa Maria... e seu ben rezõar. [Un uomo dovrebbe sempre lodare Santa Maria e proclamare la sua bontà.] Razõa-la ben, sen falla, devemos, ca nos razõa ben ante Deus, e padrõa é noss' e por nos traballa; e baralla e contralla o dem', e faz-lo estar que non valla nemigalla nen nos possa mal buscar. [Dovremmo parlare bene di Lei, senza fallo, perché Lei parla bene per noi davanti a Dio ed è Lei che ci difende e lavora per noi; e attacca e combatte il diavolo e lo rende inoffensivo, non più capace di farci del male.] Muito deveria ome sempr' a loar... a Santa Maria... e seu ben rezõar. [Un uomo dovrebbe sempre lodare Santa Maria e proclamare la sua bontà.] E por esto lle [de] mando que lle non venna emente do que diz a maa gente porque sõo de seu bando, e que ando a loando e por ela vou trobar, [101]


e cuidando e buscando como a possa onrrar. [Pertanto, la prego di non prestare attenzione a ciò che dice la gente malvagia, perché io sono dalla sua parte e la lodo costantemente e canto per Lei, sempre meditando e cercando modi per onorarla.] Muito deveria ome sempr' a loar... a Santa Maria... e seu ben rezõar. [Un uomo dovrebbe sempre lodare Santa Maria e proclamare la sua bontà.] Mas que lles dé galardões ben quaes eles merecen, porque me tan mal gradecen meus cantares e meus sões e razões e tenções que por ela vou fillar; ca felões corações me van porende mostrar. [Possa Lei dare loro le ricompense che meritano, perché apprezzano così poco le mie canzoni e melodie e versi e dialoghi poetici che compongo per Lei, perché mi rivelano cuori vili in questo modo.] Muito deveria ome sempr' a loar... a Santa Maria... e seu ben rezõar. [Un uomo dovrebbe sempre lodare Santa Maria e proclamare la sua bontà.] E ar aja piadade de como perdi meus dias carreiras buscand' e vias por dar aver e herdade u verdad' e lealdade per ren nunca puid' achar, mais maldad' e falssidade, con que me cuidan matar.

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[Inoltre, possa avere pietà di come ho sprecato i miei giorni cercando modi e mezzi per dare ricchezza ed eredità dove non avrei mai potuto trovare verità e lealtà, lottare come potrei, ma invece, malizia e falsità che cercano di uccidermi.] Muito deveria ome sempr' a loar... a Santa Maria... e seu ben rezõar. [Un uomo dovrebbe sempre lodare Santa Maria e proclamare la sua bontà.] ♫♫

CSM 400 – MANERAS DE LOAR (Modi di lodare) La Cantiga 400 chiude il libro dei canti e il Re conclude il compito di lodare la Madre di Nostro Signore, così come aveva annunciato nei versetti 13 e 14 del Prologo. Nella Cantiga 400 c'è un dettaglio di umiltà quando parla in prima persona della fragilità e piccolezza della sua opera, rispetto a quella di Santa Maria. Tuttavia, il Re è sicuro della sua ricompensa nonostante lo spropositato sforzo economico nel finanziare codici e cattedrali in onore della Vergine, rispetto al valore della figura e dei miracoli della Vergine. Implica l'amore con cui ha realizzato il libro dei canti. Questo apprezzamento è corroborato dall'invio nel suo testamento che i codici siano conservati e cantati nel tempio dove è sepolto (Cappella reale della Cattedrale di Siviglia). Alfonso chiede a Santa Maria di accettare le cantigas e la prega di mediare con suo Figlio, salvatore dell'umanità, per la salvezza della sua anima. Testo: Esta é de loor de Santa Maria. [Questa è in lode di Santa Maria.] Pero cantigas de loor fiz de muitas maneiras, avendo de loar sabor a que nos dá carreiras como de Deus ajamos ben, sol non tenno que dixe ren: ca atant' é comprida a loor da que nos manten, que nunca á fida. [Sebbene abbia composto canti di lode in vari modi, con il piacere di lodare Colei che ci indica le vie per guadagnarci la benedizione di Dio, ritengo di non aver detto nulla: poiché è ampia la sua lode, che ci sostiene e che non ha fine.] [103]


Pero fiz com' oý dizer que fez Santa Soffia, que sa mealla offreçer foy, ca mais non avia, a Deus de mui bon coraçon; mais o meu é mui mor don que lle dou mui de grado, e cuid' end' aver gualardon mui grand' e muit' onrrado. [Ma ho fatto come ho sentito dire che Santa Sofia ha fatto, che ha offerto a Dio una moneta insignificante che non aveva altro che quella, con il cuore pieno; ma la mia è un'offerta molto più piccola, che faccio di buon cuore, e penso che riceverò in cambio un premio molto grande e molto onorato.] Ca pero o don mui pouc' é, segund' a mia pobreza, non catará est', a la ffe, a Sennor da franqueza; ca por un don, esto sey ja, que ll'eu dé, çento me dará dos seus mui nobres dões, e a mia mingua comprirá conos seus gualardões. [Benché il mio dono sia piccolo in accordo con la mia povertà, nostra Signora generosamente non ne terrà conto, per la mia fede; che per un dono che le faccio, mi darà cento dei suoi migliori doni e compenserà i miei difetti con i suoi premi.] E poren lle quero rogar que meu don pequen[inn]o reçeb' e o queyra fillar por aquel que meninno no seu corpo sse figurou e sse fez om' e nos salvou por nos dar parayso, e pois consigo a levou, e foi y de bon siso. [E quindi voglio pregarvi di ricevere il mio piccolo dono e di volerlo accogliere nel nome di Colui che nel suo corpo si è formato e si è fatto uomo e ci ha salvati per darci il Paradiso e poi lo ha portato con sé, mostrando così grande saggezza.] ♫♫

CSM 401 – EPILOGO, PETIÇON (Epilogo, richiesta) Nel codice E questa cantiga conclude il libro dei canti e ricorda il patto con la Vergine stipulato dal Prologo con il quale dovrebbe pregare per la salvezza del suo servo trovatore. Sia la protezione della

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sua persona, sia l'aiuto al suo governo del regno, nei brutti momenti di tradimento e slealtà. La canzone è una preghiera di ardente emozione e devozione. L'itinerario delle Cantigas Centenales mostra la tenacia artistica del re Alfonso, la sua personale paternità e la sicurezza di ottenere quel premio che chiede nel finale, il Paradiso, quando i suoi giorni in questo mondo si concluderanno.

Testo: Esta é petiçon que fezo el Rey a Santa Maria. [Questa è una richiesta che il re fece a Santa Maria.] Macar poucos cantares acabei e con son, Virgen, dos teus miragres, peço-ch' ora por don que rogues a teu Fillo Deus que el me perdon os pecados que fige, pero que muitos son, e do seu parayso non me diga de non, nen eno gran juyzio entre migu' en razon, nen que polos meus erros se me mostre felon; e tu, mia Sennor, rogall' agora e enton muit' afficadamente por mi de coraçon e por este serviço dá-m' este galardon. [Anche se ho finito di cantare con un po' di musica dei tuoi miracoli, vorrei ora chiederti, Vergine, per dono, che tu preghi tuo Figlio divino, affinché mi perdoni i peccati che ho commesso, che sono molti, e non mi neghi il suo Paradiso, né mi chieda nel giorno del giudizio finale se sono stato equo, né si mostri duro con me per i miei errori; e Tu, mia Signora, prega per me, allora come adesso con perseveranza e con tutto il cuore e concedimi questo premio per il mio servizio.] Pois a ti, Virgen, prougue que dos miragres teus fezess'ende cantares, rogo-te que a Deus, teu Fillo, por mi rogues que os pecados meus me perdon e me queira reçebir ontr' os seus no santo parayso, u éste San Matheus, San Pedr' e Santiago, a que van os romeus, e que en este mundo queira que os encreus mouros destruyr possa, que son dos Filisteus, com' a seus emigos destruyu Machabeus Judas, que foi gran tenpo cabdelo dos judeus. [A te, Vergine, che hai gioito che abbia cantato dei tuoi miracoli, imploro di pregare Dio, tuo Figlio, affinché perdoni i miei peccati e mi accolga con sé nel santo Paradiso dove sono San Matteo, San Pietro e San Giacomo, dove vanno i pellegrini; Egli vuole che io in questo mondo possa distruggere i Mori increduli che sono Filistei, nello stesso modo in cui Giuda Maccabeo, che fu a lungo un capo dei Giudei, rovinò i suoi nemici.]

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E al te rog' ainda que lle queyras rogar que do diab' arteiro me queira el guardar, que punna todavia pera om' enartar per muitas de maneiras, por faze-lo peccar, e que el me dé siso que me poss' amparar dele e das sas obras, con que el faz obrar mui mal a queno cree e pois s'en mal achar, e que contra os mouros, que terra d'Ultramar ten e en Espanna gran part' a meu pesar, me dé poder e força pera os en deitar. [E Ti chiedo anche di pregarlo di proteggermi dal demonio subdolo che cerca ancora di ingannarmi in molti modi per farmi peccare, e di darmi il buon senso necessario affinché io sappia liberarmi da lui e dalle azioni che possano impedirmi di fare del male a coloro che credono in lui e che in seguito si perderanno, e prego anche che mi dia forza e potere per sconfiggere i Mori che possiedono la terra di Oltremare e, con mio rammarico, un gran parte di Spagna.] Outros rogos sen estes te quer' ora fazer: que rogues a teu Fillo que me faça viver, per que servi-lo possa, e que me dé poder contra seus emigos e lles faça perder o que ten forçado, que non deven aver, e me guarde de morte per ocajon prender, e que de meus amigos veja senpre prazer, e que possa mias gentes en justiça ter, e que senpre ben sábia enpregar meu aver, que os que mio fillaren mio sábian gradeçer. [Voglio fare altre richieste ancora: che preghi tuo Figlio di farmi vivere perché possa servirlo e di concedermi il potere contro i suoi nemici, che non devono possedere ciò che hanno preso con la forza, e che mi protegga da una morte accidentale, e che abbia sempre a cuore il benessere dei miei amici, e che ho chiesto di essere giusto con i miei, e di usare sempre bene i miei beni , e che quelli che mi seguono mi siano grati.] E ainda te rogo Virgen, bõa Sennor, que rogues a teu Fillo que, mentr' eu aqui for en este mundo, queira que faça o mellor, per que del e dos bõos sempr' aja seu amor; e, pois Rey me fez, queira que reyn' a seu sabor, e de mi e dos reynos seja el guardador, que me deu e dar pode quando ll' en prazer for; e que el me deffenda de fals' e traedor, e outrossi me guarde de mal consellador e d'ome que mal serve e é mui pedidor. [E ti prego ancora, Vergine, buona Signora, che tu preghi tuo Figlio che, mentre son qui in questo mondo, voglia che io faccia sempre del mio meglio affinché io possa ricevere il suo amore e la sua misericordia: e poiché mi ha fatto Re, che vuole che io regni secondo la sua volontà, che sia il mio protettore e quello dei [106]


regni che mi ha dato e potrà dare quando lo vorrà; e che mi difenda dal falso e dal traditore e dai consiglieri incapaci e anche mi impedisca di essere un uomo che serve male e implora.] E pois ei começado, Sennor, de te pedir merçees que me gães, se o Deus por ben vir, roga-lle que me guarde de quen non quer graçir algo que ll' ome faça neno ar quer servir, outrossi de quen busca razon pera falir, non avendo vergonna d'errar nen de mentir, e [de] quen dá juyzio seno ben departir nen outro gran consello sen ant' i comedir, e d'ome mui falido que outro quer cousir, e d'ome que mal joga e quer muito riir. [E poiché ho incominciato, Signora, a chiederti di guadagnarmi i favori di Dio affinché io possa vivere bene, prega che io possa essere protetto da chi non vuole essere grato per ciò che un altro fa né vuole servirlo, e anche da chi cerca ragioni per essere ingiusto e da chi ha opinioni senza considerarle bene e consiglia prima di pensare, e da un uomo fallito che cerca di accusare un altro e da chi si comporta male e vuole sempre rifuggire.] Outrossi por mi roga, Virgen do bon talan, que me guard' o teu Fillo daquel que adaman mostra sempr' en seus feitos, e daqueles que dan pouco por gran vileza e vergonna non an, e por pouco serviço mostran que grand' affan prenden u quer que vaan, pero longe non vam; outrossi que me guardes d'ome torp' alvardan, e d'ome que assaca, que é peor que can, e dos que lealdade non preçan quant' un pan, pero que sempr' en ela muito faland' estan. [Chiedi anche per me, Vergine di buon spirito, che tuo Figlio mi protegga da colui che si mostra sempre falso nelle sue azioni, e da coloro che danno poco per la loro grande malvagità e perché non hanno vergogna, e da coloro che per fare qualche servizio mostrano che porteranno grande vantaggio ovunque vadano, ma non vanno mai lontano; proteggimi inoltre dagli uomini indiscreti e da chi che parla male di tutti, che è come un cane, e da chi che, pur non dando alcun valore alla lealtà, si vanta oltremodo.] E ainda te rogo Sennor espirital, que rogues a teu Fillo que el me dé atal siso, per que non caia en pecado mortal, e que non aja medo do gran fog' infernal, e me guarde meu corpo d'ocajon e de mal e d'amig' encuberto, que a gran coita fal, e de quen ten en pouco de seer desleal, e daquel que se preça muit' e mui pouco val, e de quen en seus feitos sempr' é descomunal. Esto por don cho peço, e ar pidir-ch-ei al: [107]


[E vi prego anche, mia Signora spirituale, di pregare tuo Figlio di darmi il buon senso di non cadere in peccato mortale, e di non vivere nella paura del grande fuoco dell'inferno, e di preservare il mio corpo da incidenti e malattie, e come un amico travestito che non appare in difficoltà, e che non dà importanza alla slealtà, e che si è dato molta importanza ma vale pochissimo e che nelle sue opere è sempre esagerato. Per questo ti chiedo e ti chiederò anche altre cose:] Sennor Santa Maria, pois que começad' ey de pedir-che merçee, non me departirey; poren te rog' e peço, pois que teu Fillo Rey me fez, que del me gães siso, que mester ey, con que me guardar possa do que me non guardey, per que d'oj' adeante non erre com' errey nen meu aver enpregue tam mal com' enpreguey en algus logares, segundo que eu sey, perdend' el e meu tenpo e aos que o dey; mas des oi mais me guarda, e guardado serey. [Signora Santa Maria, da quando ho cominciato a chiederti pietà, non mi abbandonare; ti prego e ti chiedo, poiché tuo Figlio mi ha fatto re, che tu mi dia il buon giudizio di cui ho tanto bisogno per potermi trattenere da ciò che prima non mi trattenevo, affinché da d'ora in poi non sbagli come ho sbagliato, né che usati male i miei beni come ho fatto in alcuni luoghi, lo so bene, sprecando beni e tempo e coloro ai quali l'ho dato; più che mai da oggi proteggimi ancora e io sarò salvato.] Tantas son as merçees, Sennor, que en ti á, que porende te rogo que rogues o que dá seu ben aos que ama, ca sey ca o fará se o tu por ben vires, que me dé o que ja lle pedi muitas vezes; que quando for alá no parayso, veja a ti sempr' e acá mi acorra en mias coitas por ti, e averá me bon galardon dado; e sempre fiará en ti quen souber esto e mais te servirá por quanto me feziste de ben, e t'amará. [E’ osì g a de la isericordia, Signora, che è in Te, che per questo Ti prego di proteggere chi dà il suo bene a chi ama, so che lo farai se ti prendi cura di farlo, che Tu mi dia quello che già tante volte ho chiesto: che quando andrò in Paradiso Ti possa vedere sempre e che qui mi aiuti nelle mie afflizioni e, così mi avrai dato un ottimo premio; e sempre avverrà che per il bene mi hai ti servirà e ti amerà.]

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Melomania: la pagina della Lirica

I Puritani di

Vincenzo Bellini [109]


GENESI DELL’OPERA La svolta decisiva nella carriera e nell'arte di Vincenzo Bellini fu la sua partenza, nel 1833, dall'Italia alla volta di Parigi che allora era l’autentica capitale europea della musica. Nella capitale francese Bellini entrò in contatto con alcuni dei più grandi compositori d'Europa, tra cui Fryderyk Chopin, e il suo linguaggio musicale si arricchì di colori e soluzioni nuove, pur conservando intatta l'ispirazione melodica di sempre. Conobbe anche Gioachino Rossini, che già da qualche anno viveva a Parigi, il quale ben presto lo prese sotto la sua ala protettrice e lo raccomandò alla Direzione del Teatro dell’Opéra di Parigi, il più prestigioso di Francia, perché gli venisse commissionato un nuovo lavoro. Parallelamente Bellini conduceva trattative con il Théâtre Italien, sempre a Parigi, e nel febbraio del 1834 sottoscrisse con questo teatro un contratto che lo impegnava alla composizione di un’opera nuova. Per quanto riguarda il libretto, Bellini non poteva più contare sulla collaborazione di Felice Romani, con il quale – dopo le incomprensioni veneziane e il mancato successo della Beatrice di Tenda – aveva rotto i rapporti; si rivolse perciò a un fuoriuscito italiano, il conte Carlo Pepoli, un patriota rifugiatosi nella capitale francese. Questi aveva già scritto alcuni testi per composizioni vocali, ma era totalmente privo di esperienza teatrale (la qual cosa in seguito fu fonte, per Bellini, di ritardi e di non pochi problemi). Fra i soggetti sottopostigli da Pepoli, Bellini ne scelse uno tratto dalla storia inglese, ambientato al tempo delle lotte tra i puritani, seguaci di Cromwell, e i partigiani degli Stuart. Si trattava del dramma storico Têtes rondes et Cavaliers di Ancelot e Saintine, da poco rappresentato a Parigi e ispirato a sua volta al romanzo Old Mortality di Walter Scott (tradotto in italiano con il titolo I puritani di Scozia). Nel mondo dell’opera, come in quello del dramma romantico francese, la storia inglese – messa in voga dai romanzi di Scott – costituiva in quegli anni una fonte privilegiata, grazie soprattutto alla sua ricchezza di intrighi ed episodi foschi. Il dramma di Ancelot e Saintine presentava proprio queste caratteristiche: la vicenda era intricatissima e macchinosa (tanto che il libretto dovette sfrondarla impietosamente), ma offriva una grande quantità di situazioni teatrali, diverse l’una dall’altra (vi era il tema eroico-patriottico, quello amoroso, quello della follia), che avrebbero fornito stimoli in abbondanza per l’effusione canora dei personaggi in scena. Bellini, perciò, ne fu subito entusiasta. In aprile, deciso il soggetto e scritturata la compagnia di canto, Bellini si stabilì a Puteaux (allora un tranquillo sobborgo parigino immerso nel verde), ospite in una villa di amici, e si accinse alla composizione. Il sistema teatrale francese, che ammetteva tempi lunghi, gli garantiva una certa tranquillità: il compositore non era assillato dalla fretta che dominava perennemente il mercato d’opera italiano, e poteva dedicarsi con calma al suo lavoro. [110]


La gestazione fu comunque lunga e laboriosa. L'11 aprile 1834 Bellini scriveva a suo zio Francesco Ferlito: «Di già ho scelto l'argomento per la nuova opera di Parigi: è dei tempi di Cronwello dopo che questi fece decapitare Carlo I d'Inghilterra… Io sono entusiasta del soggetto, lo trovo proprio da ispirare e martedì, al più tardi, incomincio a scrivere la musica, sperando che il poeta (il conte Pepoli di Bologna) mi dia dei versi». Bellini compose la sua ultima opera in nove mesi, dall'aprile del 1834 al gennaio del 1835, una durata per l'epoca insolitamente lunga. Durante questo periodo, l'impianto drammaturgico subì trasformazioni radicali e il compositore fu costretto ad intervenire molte volte in maniera decisa sul lavoro dell'inesperto librettista. Nonostante questo lavoro congiunto di continua revisione dei versi, non c’è dubbio che molti versi dei Puritani siano decisamente mediocri di qualità e che anzi, rispetto alla media dell’epoca, il lavoro appaia deficitario nella coerenza e nell’impianto drammatico. Il 24 gennaio 1835, alla presenza di tutta l’alta società e di tutto il mondo artistico parigino, la nuova opera andò in scena al Théâtre Italien col titolo I puritani e i cavalieri (in seguito, il titolo fu ridotto semplicemente I puritani). Inizialmente strutturata in due atti, l'opera fu suddivisa in tre atti poco prima dell'andata in scena, su indicazione di Gioachino Rossini; la nuova suddivisione fu consigliata dalla decisione di invertire l'ordine della Scena di Elvira ("Qui la voce sua soave") e del duetto tra Riccardo e Giorgio, la cui aria "Suoni la tromba, e intrepido" provocava un'immancabile richiesta di bis. Alla vigilia della prima rappresentazione, la lunghezza eccessiva dello spettacolo impose anche il taglio di tre brani, oggi sovente ripristinati in occasione degli allestimenti. L’esito della prima fu trionfale. La compagnia di canto vantava quattro artisti di prim’ordine: Giulia Grisi (Elvira), Giovanni Battista Rubini (Arturo), Antonio Tamburini (Riccardo), Luigi Lablache (Giorgio), che da allora divennero celebri col nome di ‘quartetto dei puritani’.

[Giulia Grisi - Giovanni Battista Rubini - Antonio Tamburini - Luigi Lablache]

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Subito dopo le rappresentazioni parigine, gli stessi artisti si esibirono anche a Londra, al King’s Theatre, il 21 maggio 1835; l’opera ebbe poi una rapida diffusione e un successo incontrastato in tutti i teatri europei. Contemporaneamente alla versione per Parigi, Bellini approntò una versione destinata a un allestimento previsto al Teatro di San Carlo di Napoli, la cui protagonista doveva essere Maria Malibran. Bellini inviò la partitura con la nuova versione, ma il manoscritto non giunse in tempo a Napoli: a Marsiglia fu fermato dalla quarantena, impostagli perché nella Francia meridionale era scoppiata un’epidemia di colera. Il Teatro di Napoli, in difficoltà finanziarie e in cerca di pretesti, approfittò del ritardo per annullare il contratto con Bellini: la versione napoletana dei Puritani, perciò, non fu mai rappresentata. Otto mesi dopo il debutto parigino dei Puritani, il 23 settembre 1835, Vincenzo Bellini, all’età di 34 anni, morì improvvisamente, forse per le complicanze di un’infezione intestinale, forse per il colera che in quel periodo cominciava a diffondersi anche a Parigi.

[Maschera funebre e ricostruzione del volto di Vincenzo Bellini (A gelo D Agata . Museo dei Saperi e delle Mirabilia siciliane, Palazzo e t ale dell U ive sità di Cata ia.]

 STRUTTURA MUSICALE DELL’OPERA Con I Puritani, l’arte di Bellini si apre a vie nuove. Attento alle esperienze romantiche d’oltralpe, il compositore usa l’orchestra in funzione espressiva, impiega effetti timbrico-strumentali ricchi e accurati, sperimenta armonie ricercate: si appropria, in altri termini, di quegli aspetti del linguaggio musicale nei quali i compositori francesi eccellevano (così facendo, risponde anche alle aspettative del pubblico parigino). Bellini fa un uso sistematico dei richiami tematici, proprio come soleva fare l’opera francese del tempo; ricorre pure a espedienti tipici del grand-opéra, come gli spettacolari quadri storici collettivi o l’impiego di suoni fuori scena, intesi a creare suggestivi effetti spaziali. Magistrali, in questo senso, la complessa introduzione, con i richiami del campo militare, il coro guerriero, la preghiera mattutina, l’esultanza degli astanti (vi sono già concentrati tutti i temi

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dell’opera, da quello amoroso a quello guerriero), o una scena tipicamente romantica come quella dell’uragano. Ma tutto ciò non compromette le peculiari qualità belliniane, in primo luogo la cura esemplare della melodia. I Puritani presentano una grande abbondanza di idee e di momenti musicalmente suggestivi improntati a un lirismo espansivo, tipicamente italiano. Numerose sono le melodie memorabili: ad esempio l’effusione di “A te, o cara, amor talora”, con cui si presenta Arturo (formalmente il brano appartiene a un genere ibrido, che sta fra l’aria e il pezzo d’insieme); o la melodia dalle ampie arcate “Credeasi, misera” nel concertato della terza parte, espressiva e di grande respiro; o ancora il cantabile di Elvira che vaga, mesta e folle, per le stanze del castello (“Qui la voce sua soave”), con la frammentazione della linea vocale tipica di una mente sconvolta, prima di sfociare nella virtuosistica cabaletta (“Vien, diletto, è in ciel la luna”) che produce, con le sue acrobatiche fioriture, un effetto quasi spettrale.

[Manifesto della prima rappresentazione de I Puritani al Gran Teatro La Fenice di Venezia 25 Aprile 1836] E ancora la polacca “Son vergin vezzosa”, vivace e dalla brillante coloratura, intonata da Elvira mentre si trova in uno stato di eccitazione estatica, e la cabaletta del duetto di Riccardo e Giorgio, “Suoni la tromba, e intrepido”, un brano marziale e trascinante – che il pubblico italiano considerò espressione dei propri ideali risorgimentali – e a cui arrise un’immediata popolarità.

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GUIDA ALL’ASCOLTO Preludio L’introduzione si presenta scandita “a tutta forza” (come indica la partitura) da una serie di accordi orchestrali che pronunciano un tema di fanfara. La fanfara si spegne gradualmente dapprima in una sorta di eco che la ripete in piano, con il pizzicato dei violini a sottolineare il ritmo, quindi in una transizione guidati dai legni sul sostegno di un lungo tremolo orchestrale. Una pausa di silenzio precede il suono dei corni, il richiamo dei quali si trasforma in un’idea melodica vera e propria. Il tema viene quindi trasferito ad altri gruppi di strumento e sviluppato in un crescendo che lo trasforma nel movimento di un ballo popolare, una tarantella.

PARTE PRIMA Scena I. L’alba sorge e rischiara una fortezza nei pressi di Plymouth, quartiere generale di un reggimento di puritani seguaci di Oliver Cromwell [nel dipinto] e impegnati, tra il 1650 e il 1651, nel conflitto con la Scozia degli Stuart. La scena raffigura uno spazioso terrapieno nella fortezza. Si vedono alcune cinte, torri ad altre specie di fortificazioni, con ponti levatoi. Da lontano si scorgono montagne. Il coro dei soldati che si risvegliano si inframezza al motivo aperto dai corni, riempendone i vuoti con frasi brevi e scattanti. L’intervento del tamburo militare apre un nuovo tema di fanfara condotto dagli archi, la cui seconda parte ha di nuovo le movenze di un ballo popolare, stavolta però di tipo più schiettamente nordico. Ritorna il coro con un inno bellicoso, dapprima statico, cantato di fronte al pubblico, quindi più movimentato, le voci dei soldati esprimono sicurezza nella vittoria: sono sicuri che la dinastia scozzese degli Stuart cadrà sotto l’assalto dei puritani che sono mossi dall’energia combattiva che dà loro l’ira contro il nemico.

SENTINELLE (di dentro). All'erta! All'erta! L'alba apparì. La tromba rimbomba, nunzio del dì. BRUNO, SOLDATI (sulla scena). Quando la tromba squilla ratto il guerrier si desta: l'arme tremende appresta, alla vittoria va! Pari del ferro al lampo, se l'ira in core sfavilla, degli Stuardi il campo In cenere cadrà.

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Sui rintocchi lontani di una campana, su una melodia religiosa, Sir Bruno Roberton, ufficiale dei puritani, invita i soldati a seguire il precetto della preghiera mattutina. I soldati si inginocchiano. Il canto di lode a Dio viene innalzato fuoriscena, con l’accompagnamento dell’organo, dalle voci di quattro protagonisti: Elvira, figlia del generale puritano Lord Gualtiero Valton; Sir Giorgio Valton, fratello di Gualtiero; Sir Riccardo Forth, colonnello puritano; Lord Arturo Talbo, seguace degli Stuart, la cui presenza in campo nemico è giustificata solo dall’amore che lo lega ad Elvira. Il canto è dolcissimo, melodioso e Bruno e i soldati lo ascoltano rapiti. La voce di Elvira primeggia sulle altre. ELVIRA. ARTURO, RICCARDO, GIORGIO (di dentro il castello). La luna, il sol, le stelle, le tenebre e il fulgor dan gloria al Creator in lor favelle! La terra e i firmamenti esaltano il Signor: a Lui dian laudi e onor tutte le genti!

Scena II. Senza alcuna transizione, dalla delicatezza del clima di preghiera si passa al clamore di una festa popolare. L’orchestrazione è robusta, la vivacità e l’energia del ritmo sono trascinanti e lasciano emergere una evidente affinità con il motivo del coro dei soldati ascoltato poco prima. Bellini qui gioca con gli spazi creati dai suoni che provengono da fuori scena, Alle voci fuori scena del coro dei soldati, rispondono dopo una breve pausa i castellani che entrano in scena, creando una scena musicale ricca di spazialità e dinamismo.

Scena III. Chiusasi così la parte introduttiva dell’opera, si entra nel vivo del dramma con il recitativo - rafforzato con ampio respiro da una frase melodica – di Riccardo, disperato perché ama Elvira senza esserne ricambiato. Bruno ascolta lo sfogo amaro di Riccardo e gli ricorda, ancora in recitativo, come patria e fede siano ideali sufficienti per non cadere preda dello sconforto. RICCARDO (a se). Or dove fuggo mai? ... Dove mai celo gli orrendi affanni miei? Come quei canti mi risuonano all'alma amari pianti! O Elvira, Elvira, o mio sospir soave, per sempre, per sempre, io ti perdei! Senza speme ed amor, in questa vita or che rimane a me? BRUNO. La patria e il cielo! Riccardo si confida con Bruno e gli racconta di come Lord Gualtiero Valton, che in un primo tempo gli aveva concesso di sposare Elisa, sia tornato sui propri passi in quanto la donna era innamorata di Lord Arturo Talbo. Bruno cerca di placare il dolore di Riccardo, ma questi (su un accompagnamento largo di strumenti a fiato, che alludono, per un’antica tradizione musicale, all’incombenza della morte) afferma che il suo dolore potrà essere sollevato solo dalla morte.

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La dolcezza iniziale del fraseggio dell’uomo si accende con uno sforzando quando ricorda le sfide affrontate in nome dell’amore per Elvira. Il suo canto sentimentale è ricco di una bellissima ornamentazione belcantistica che vale non solo come esibizione di virtuosismi ma soprattutto come inflessioni del cuore del protagonista da aggiungere al disegno della melodia, il tutto reso ancora più accentuato da un accompagnamento di accordi orchestrali in rapida successione. RICCARDO. Ah! Per sempre io ti perdei, fior d'amore, o mia speranza; ah! La vita che m'avanza sarà piena di dolor! Quando errai per anni ed anni in poter della ventura, io sfidai sciagura e affanni nella speme del tuo amor. Bruno cerca di riscuotere Riccardo richiamandolo ai valori della patria e dell’onore, nonché additandogli i soldati che si stanno adunando al suono della marcia già sentita in precedenza. Riccardo però rompe con questo ritmo militaresco ancora con il suo canto. Il brusco mutamento ritmico e di atmosfera porta da una situazione scenica bellicosa ad una intimistica, affettuosa, decisamente più congeniale allo spirito di Bellini. Con un accompagnamento dettato dall’arpa il canto di Riccardo è ancora dolce, sentimentale, appena rinforzato dal flauto e dal clarinetto. Il ritorno della marcia militare chiude questa aria. RICCARDO. Bel sogno beato di pace e contento, o cangia il mio fato, o cangia il mio cor. Oh! come è tormento nel dì del dolore la dolce memoria d'un tenero amor.

Scena IV. La scena si sposta all’interno del castello, nelle stanze di Elvira. Una breve introduzione orchestrale, con i suoi crescendo e rinforzando, evidenzia l’agitazione della donna e acuisce il dramma del momento. Elvira incontra lo zio Sir Giorgio Valton, fratello di Gualtiero, e colonnello delle truppe puritane. Bellini lo disegnerà sempre come degno sostituto della figura paterna della donna, assegnandogli nobiltà, calore e signorilità nella parola. Elvira ha molta fiducia in Giorgio e gli confida le sue pene d’amore, e da lui attende quel conforto che l’autorità paterna non sempre è disposta a concedere. La giovane si oppone all’idea del matrimonio ed evoca la morte perché teme di andare sposa a Riccardo. GIORGIO. O figlia, o nome che la vecchiezza mia consola e alletta, pel dolce tempo ch'io ti veglio accanto, pel palpitar del mio paterno core e pel soave pianto che in questo giorno d'allegrezza pieno piove dal ciglio ad inondarmi il seno... O figlia mia diletta, oggi sposa sarai! ELVIRA. Sposa! No, mai! Sai com'arde in petto mio bella fiamma onnipossente; sai che puro è il mio desio, che innocente è questo core. Se tremante all'ara innante strascinata un dì sarò... Forsennata, in quell'istante di dolore io morirò! Con atteggiamento protettivo verso la nipote, Giorgio le rivela che sarà invece l’amato Arturo a divenire il suo sposo.

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[Maria Callas nel ruolo di Elvira. 1952]

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La parte più intensa e toccante del duetto è quella nella quale Giorgio racconta come abbia convinto il fratello ad accettare le nozze di Elvira con Arturo e a revocare la parola data a Riccardo. Le lacrime del fratello hanno spinto Gualtiero a cedere e a salvare la propria figlia da un destino infelice. Questa narrazione è sobria, tuttavia intrisa di commozione, con un disegno melodico disegnato dai violini. Giorgio conclude il duetto mentre il violoncello sottolinea l’allentamento dello stato di tensione di Elisa. GIORGIO. Io cominciai: "Germano", né più potei parlar; allor bagnai sua mano d'un muto lagrimar. Poi ripigliai tra gemiti: "L'angelica tua Elvira pel prode Artur sospira; se ad altre nozze andrà ...misera, perirà!" ELVIRA. O angiol di pietà, sceso dal ciel per me! E il padre? GIORGIO. Ognor tacea ... ELVIRA. E poi? GIORGIO. Ei dicea: "Riccardo chiese e ottenea mia fede ... ei la mia figlia avrà!" ELVIRA. Ciel! Solo a udirti io palpito! E tu? GIORGIO. "La figlia misera", io ripetea, "morrà"! "Ah, viva!" ei mi dicea e stringemi al cor: "Sia Elvira felice, sia lieta d'amor." Elvira non fa in tempo ad assaporare la gioia scaturita dal racconto che il suono dei corni da caccia in lontananza cattura la sua attenzione. Ai corni in lontananza rispondono i corni in orchestra, a imitazione del reciproco invio di segnali fra una guarnigione interna e una esterna al castello. Il coro dei soldati, anch’esso fuori scena, annuncia l’arrivo di Arturo Talbo, definito prode guerriero benché appartenente alla fazione opposta ai puritani, essendo un seguace della dinastia scozzese degli Stuart. Mentre Arturo viene accolto nel castello con onore, Elvira e Giorgio commentano con gioia il suo arrivo. L’orchestra alla fine del duetto propone una variazione del richiamo dei corni, trasformato in una via di mezzo fra la marcia e un passo di danza.

Scena V. Nella sala d’armi del castello, tutti sono in attesa dell’arrivo di Arturo e festeggiano il suo imminente matrimonio con Elvira. Il coro festoso e popolare degli abitanti del castello è a tratti popolaresca, a tratti marziale confondendosi con quello dei soldati già ascoltato in precedenza. Sono in scena Arturo con alcuni scudieri e paggi, i quali recano vari doni nuziali tra cui un magnifico velo bianco, ed Elvira assieme a Gualtiero Valton, Sir Giorgio ed altri castellani e castellane che portano festoni di fiori. Sullo sfondo i soldati guidati da Bruno. L’aria di sortita di Arturo è uno dei momenti culminanti dell’opera: egli ripete due volte la stessa strofa, basata sulle “melodie lunghe”, tipicamente belliniane molto lodate da Richard Wagner; la sua voce, spinta oltre il do sovracuto, è portata a un tipo di ornamentazione melodica ed espressiva, che richiede duttilità, forza, dolcezza di espressione, tecnica, tutte doti che Giovanni Battista Rubini, l’Arturo del debutto, possedeva. [118]


[Joan Sutherland e Luciano Pavarotti. Metropolitan Opera di New York. 1976]

ARTURO. A te, o cara, amor talora mi guidò furtivo e in pianto; or mi guida a te d'accanto tra la gioia e l'esultar. ELVIRA. O contento! ARTURO. Ah, mio bene! ELVIRA. Ah! mio Arturo! Or son tua! ARTURO. Ah, Elvira mia, sì, mia tu sei! GIORGIO, VALTON. Senza occaso quest'aurora mai null'ombra, o duol vi dia, santa in voi la fiamma sia, pace ognor v'allieti il cor! CASTELLANI, CASTELLANE. Cielo arridi a voti miei, benedici a tanto amor. ARTURO. Al brillar di sì bell'ora, Se rammento il mio tormento si raddoppia il mio contento, m'è più caro il palpitar d'amor.

Scena VI. L’intrigo della vicenda si arricchisce di nuovi eventi in un ampio recitativo. Gualtiero Valton consegna ad Arturo un salvacondotto per condurre all’altare Elvira e affida la figlia a Giorgio. Si rivolge quindi ad Enrichetta, una dama appena entrata, sua prigioniera da molti mesi: non potrà assistere alle nozze della figlia perché deve scortare al Parlamento di Londra la donna, di cui non conosce l’identità ma che è sospettata di simpatie per gli Stuart. La donna è in realtà Enrichetta Maria, vedova di Carlo I, fatto processare da Cromwell e decapitato dal boia. Arturo (che non l’ha riconosciuta) sente pietà per lei e cerca di rimanere solo con lei per confortarla. Gualtiero intanto si congeda benedicendo gli sposi, mentre l’orchestra riprende i vari temi musicali del duetto Elvira-Arturo. Giorgio ed Elvira si allontanano con le damigelle, mentre Arturo si attarda e si assicura che tutti siano andati via.

Scena VII. E’ ancora in recitativo che Arturo si avvicina alla prigioniera, che gli confida di essere la sua regina deposta. Professando allora la sua fedeltà agli Stuart, nel nome dei quali è caduto anche in battaglia [119]


suo padre, Arturo medita di far fuggire Enrichetta, anche a costo di morire. Enrichetta tenta invano di dissuaderlo, ricordandogli che sta per sposarsi.

Scena VIII. Entra in scena Elvira, accompagnata da Giorgio. Ha il capo coronato di rose e nelle mani il magnifico velo bianco regalatole da Arturo. ELVIRA. Son vergin vezzosa In vesta di sposa; son bianca ed umile qual giglio d'april; ho chiome odorose cui cinser tue rose; ho il seno gentile del tuo monil. ENRICHETTA, ARTURO. Se miro il suo candore, mi par la luna allor che tra le nubi appare la notte a consolar. GIORGIO. Se ascolto il suo cantare un rosignuol mi par, che insegni al primo albore a sospirar d'amor. ELVIRA. Son bianca ed umile qual giglio d'aprile, son bianca, sì, sì, sì! Son vergin vezzosa, ecc. Quest’aria di Elvira è una polacca, ricca di spunti belcantistici, uno dei brani più acclamati dell’opera intera. Elvira prega Enrichetta di voler provare il velo sul capo di Enrichetta e glielo posa addosso. Mentre Elvira prosegue con il suo entusiasmo, gli altri tre personaggi pensano sul da farsi. La regina sente di poter nascondere sotto quel velo il suo tormento; Arturo crede sia stato il Cielo a mandare un travestimento così accorto per la fuga; Giorgio pensa alla bellezza di Elvira vestita del velo da sposa. Da fuori le voci di Valton e dei castellani sollecitano Elvira ai preparativi. La donna, assieme a Giorgio, esce di scena. Enrichetta e Arturo rimangono soli. Arturo intima alla sua regina di non togliersi il velo nunziale e la invita con forza a fuggire con lui vestita da sposa per sottrarsi ad una morte certa.

Scene IX-X. Sopraggiunge Riccardo che, credendolo in compagnia proprio di Elvira, sguaina la spada e sfida Arturo a duello. E’ un recitativo che letteralmente prende forma di un arioso. Arturo accetta la sfida, ripetendo lo stesso svolgimento musicale del suo avversario.

[Opéra National de Paris. 2019]

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Enrichetta si frappone tra i due sfidanti, si toglie il velo e rivela la sua identità. Il suo canto ricorda la melodia di Arturo “A te o cara” della scena V. Riccardo si dichiara disposto a lasciarli fuggire. Il suo proposito è chiaro: pensa che Elvira si sentirà tradita e non vorrà più saperne del promesso sposo. Anche Arturo e la prigioniera rimangono attoniti da tale proposta. Arturo ha deciso comunque di fuggire con la sua regina: rivolge con il pensiero un ultimo addio a Elvira e alla sua felicità. Giungono da lontano i suoni della festa che si sta preparando, risuonano le note della polacca “Son vergin vezzosa”. Arturo si allontana velocemente con Enrichetta mentre Riccardo che ha promesso di concedergli il tempo per allontanarsi dal castello, segue i due fuggitivi con lo sguardo e con il canto.

Scena XI. Non trovando Arturo nella sala dove lo aveva lasciato, Elvira lo cerca assieme al padre, allo zio e ai castellani, le cui voci si rincorrono nella scena, concitate dalla ricerca. Il tremolo dell’orchestra accompagna il variare dell’armonia che riflette l’ansia di questo momento, fino a che, dalle finestre, Arturo viene visto fuggire in compagnia di una donna vestita da sposa, nella quale tutti riconoscono la prigioniera che Valton avrebbe dovuto accompagnare a Londra. Riccardo e Giorgio prendono l’iniziativa e, con voce decisa, incitano gli uomini in arme all’inseguimento dei due fuggitivi. Elvira, scossa dagli eventi, dopo aver ripetuto un lamento (“Ahimè”) dà inizio a un vaniloquio balbettante, sillabato, primo indizio del suo precipitare nella follia. ELVIRA (con dolore). La dama d'Arturo è in bianco velata, la guarda e sospira, sua sposa la chiama. Elvira è la dama? Non sono più Elvira? La dama? Riccardo, Giorgio e i castellani tutti cercano di scuoterla dal suo vaneggiare ma capiscono presto che il colpo subìto dall’infelice è definitivo. CASTELLANI, CASTELLANE. Ti scuota, o Elvira. Demente vivrà, demente vivrà. Dolente morrà! Una melodia semplice ma bellissima accompagna Elvira in uno straniato inno alla fedeltà di Arturo, che la donna esegue prima con dolcezza, poi con sempre maggiore slancio. Bellini scrive che deve “esser declamato con tutto lo slancio di un core innocente “contento”.

ELVIRA (nel suo delirio, crede vedere Arturo). Arturo, tu ritorni? T'appressa ancor ... ancor ...Ah! Vieni, ah! Vieni. Oh! Vieni al tempio, fedele Arturo, eterna fede, mio ben, ti giuro! Comm'oggi è puro, sempre avrò il cor. Ah! Vieni, con te vivrò d'amor, d'amor morrà. La voce di Elvira intreccia la sua voce a quelle di Riccardo, di Giorgio, di tutti i castellani, di Bruno. La musica è incalzante, cresce sulla base di un unico disegno che, ripetendosi, si espande in sonorità ed espressività, riuscendo ad apparire diverso a ogni nuovo passaggio, a ogni nuova intonazione. [121]


Elvira immagina di essere sul punto di sposare Arturo, di scambiare con lui promesse di fedeltà. Riccardo, invaso dalla tristezza e dal riaccendersi del proprio amore per l’infelice donna, manifesta la propria collera nei confronti di Arturo. Giorgio invoca l’aiuto di Dio.

RICCARDO. O come ho l'alma triste e dolente, udendo i pianti dell'innocente! O come crudo fu il traditore! Sì, più la miro, ho più doglia profonda, e più l'alma s'accende in amor, ma più avvampa tremendo il furore, contro chi tanto ben m'involò! GIORGIO. Dio di clemenza, t'offro mia vita se all'innocenza giovi d'aita. Deh sii clemente a un puro core; sì, la mia prece pietosa e profonda che a te vien sui sospir del dolor, Tu, clemente, consola, o Signore, per la vergin cui l'empio immolò! Sul finire i vocalizzi di Elvira si fanno più acuti, spingendosi fino ad una ornamentazione assai fitta che procede senza sostegno dell’orchestra.

[Irina Lungu (Elvira). Scena della follia. Modena 2017]

Anche il momento di rinsavimento, nel quale Elvira mostra di rendersi conto della fuga di Arturo, avviene in realtà nel pieno del delirio, amplificato dalla forza con cui procede l’orchestra. La voce di Elvira continua a tratti a spiccare sul coro esprimendo il dramma che sta vivendo e la sta annientando, mentre il coro a sua volta canta tutta la sua rabbia, maledicendo i due fuggitivi, in particolare Arturo “vil traditor”.

ELVIRA (fa un moto, quasi tornando a vedere Arturo, che fugge). Ma tu già mi fuggi? Crudele, abbandoni chi tanto t'amò! Ah, crudel! CASTELLANI, CASTELLANE. Ahi! dura sciagura! CASTELLANI. Ahi! lutto e dolore! ELVIRA. Qual febbre vorace m'uccide mi sface. Ah! qual fiamma, ah, qual ira m'avvampa! Fantasmi perversi, fuggite dispersi, o in tanto furor sbranatemi il cor! CASTELLANI, CASTELLANE. Ahi! lutto e dolor! ahi! Ahi dolor! Ella sì pura! Sì bella, sì pura, del ciel creatura! Ahi! avrà vendetta! Ahi! dolor! Ahi! sta maledetta, sì, la coppia rea, sì, la figlia avrà vendetta, andrà maledetta la coppia fuggente. Vendetta cadrà sul vil traditor, sì! Non casa, non spiaggia raccolga i fuggenti! [122]


In odio del cielo, in odio ai viventi, battuti dai venti, da orrende tempesta, le odiate lor teste non possan posar. Erranti piangenti in orrida guerra, col cielo e la terra, il mar, gli elementi, ognor maledetti, in vita ed in morte, sia eterna lor sorte, eterno il penar.

PARTE SECONDA Scene I-II. La scena si apre in una sala. Da una delle porte laterali si intravvede il campo inglese e qualche fortificazione. Una breve introduzione orchestrale precede la scena corale che apre la seconda parte dell’opera: gli strumenti a fiato eseguono all’inizio alcuni accordi leggeri che si alternano al cupo rullo dei timpani e finiscono come sospesi, disegnando una melodia mesta, quasi una marcia. Su questa melodia si innesta un accompagnamento irregolare, un pizzicato di archi, che gli dà un andamento irregolare. Ed è questo il motivo portante del coro, integrato da un inciso di nove note affidato ai violini che si ripete doloroso due volte prima che lo straniato passo di marcia riprenda. Il testo del coro viene continuamente ripetuto ed esprime tutto il dolore della comunità dei puritani per la sorte di Elvira, per il suo errare nei meandri della follia dopo la fuga del promesso sposo Arturo. CASTELLANI, CASTELLANE. Ah! dolor! Ah! terror! Ah! terror! Ah! pietà! Piangon le ciglia si spezza il cor. L'afflitta morrà d'amor. Ah! terror! Ah! dolor! Il duol l'invase. La vidi errante tra folte piante, per le sue case gridando va. Pietà! Qual dolor! Si spezza il cor. Morrà d'amor. Ahi! qual terror! La comunità impersonata dal coro esorta Giorgio a raccontare di Elvira. L’uomo è dapprima riluttante poi, commosso da tanta partecipazione, invita tutti ad avvicinarsi a lui per ascoltare il suo racconto. Egli narra, in un crescendo vocale, che Elvira si aggira per il castello cercando Arturo e comportandosi come se fosse sul punto di sposarsi: pronuncia giuramenti su un altare immaginario, canta d’amore accompagnandosi con l’arpa, ma a tratti torna in sé e chiede di morire. Il coro invoca a gran voce la punizione di Arturo ma allo stesso tempo compiange l’infelice donna destinata a morire d’amore. Giorgio chiede al Cielo pietà e comprensione. In questa prima parte dell’atto, Bellini rinnova il tratto nobile, fermo e caloroso del personaggio, mentre al coro viene affidata in fortissimo tutta la riprovazione per Arturo e in piano il sentimento di compassione nei riguardi di Elvira. GIORGIO. Cinta di fiori e col bel crin disciolto talor la cara vergine s'aggira, e chiede all'aura, ai fior con mesto volto: "Ove andò Elvira? Ove andò? Ove andò?" CASTELLANI, CASTELLANE. Misero cor! [123]


GIORGIO. Bianco vestita, e qual se all'ara innante adempie il rito, e va cantado:"il giuro"; poi grida, per amor tutta tremante: "Ah, vieni, Arturo, ah, vieni, Artur!" CASTELLANI, CASTELLANE. Ah! quanto fu barbaro il traditor! Misero cor, morrà d'amor! GIORGIO. Geme talor qual tortora amorosa, or cade vinta da mortal sudore, or l'odi, al suon dell'arpa lamentosa, cantar d'amor, d'amor. CASTELLANI, CASTELLANE. Misero cor! GIORGIO. Or scorge Arturo nell'altrui sembiante, poi del suo inganno accorta, e di sua sorte, geme, piange, s'affanna e ognor più amante, invoca morte, morte. GIORGIO, CASTELLANI, CASTELLANE. Cada il folgor sul traditor! Ahi! la misera morrà d'amor! Entra in scena Riccardo, con un foglio in mano: con un semplice recitativo riferisce che il Parlamento di Londra ha condannato a morte Arturo, mentre Gualtiero Valton è stato riconosciuto innocente e gli è stato restituito il suo onore. Il coro interviene invece cantando motivi di notevole incisività e orchestrati con grande cura. La parte dedicata alla condanna di Arturo è arricchita da un inciso di violoncelli e contrabbassi che, con il sostegno leggero dei timpani, conferisce un colore scuro, inquieto e doloroso; il secondo intervento corale che riguarda l’annuncio dell’assoluzione di Valton si dispiega in sole cinque battute: è uno dei momenti più toccanti di tutta l’opera, un piccolo capolavoro di invenzione melodica

e

drammaturgica. RICCARDO (entra con un foglio). E di morte lo stral non sarà lento! Alla scure Artur Talbo è condannato dall'anglican sovranno Parlamento. Ecco il suo fato! RICCARDO, GIORGIO, CASTELLANI, CASTELLANE. Quaggiù nel mal che questa valle serra, ai buoni e ai tristi è memorando esempio se la destra di Dio possente afferra il crin dell'empio. RICCARDO. Di Valton l'innocenza a voi proclama, il Parlamento e ai primi onor lo chiama. CASTELLANI, CASTELLANE. Qual doglia, Valton, se vedran tue ciglia Insana ancor la tua diletta figlia!

Scena III. Sul lungo tremolo degli archi si innesta la voce di Elvira, da lontano. La donna quindi si presenta in scena, è scapigliata, il volto, lo sguardo ed ogni suo passo evidenziano la sua follia. Giorgio e Riccardo osservano impietositi l’arrivo della giovane, che vaneggia disperata. Il canto di Elvira è espressivo e sintomatico del dramma interno che la donna sta vivendo: la voce è ora nostalgica ora disperata, piena di esitazioni, di silenzi, di dissonanze che danno spessore alla sofferenza (“qui il giurava”) ma pur sempre permeata da una dolcezza melanconica tipica belliniana. Gli episodi musicali si presentano in successione senza soluzione di continuità suggerendo un percorso dell’anima della donna che dal ricordo muove verso lo sconforto e culmina infine nella ripresa della frase musicale iniziale. Questa ricomparsa melodica chiude con efficacia straordinaria il cerchio e motivo della scena e rappresenta una delle pagine più riuscite di tutta la produzione di Bellini.

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ELVIRA. Qui la voce sua soave mi chiamava e poi sparì. Qui giurava esser fedele, qui il giurava, e poi crudele, mi fuggì! Ah! mai più qui assorti insieme nella gioia dei sospir. Ah! rendetemi la speme, o lasciate, lasciatemi morir! Elvira vede Giorgio e nella sua follia lo scambia per il padre e gli chiede di condurla all’altare, vede poi Riccardo che piange e in lui vede un uomo che soffre per amore, non sapendo di essere lei stessa la donna per cui egli spasima d’amore. Elvira, dopo avere invocato la morte, sorride e atteggia il volto come una pazza. ELVIRA. Vien, diletto, è in ciel la luna! Tutto tace intorno, intorno; Finché spunti in ciel il giorno, ah, vien, ti posa sul mio cor! Deh! t'affretta, o Arturo mio, riedi, o caro, alla tua Elvira; essa piange e ti sospira, vien, o caro, all'amore.

Scena IV. Uscita di scena Elvira, Giorgio e Riccardo intrecciano un duetto che viene aperto da un ampio assolo del corno. Le prime note del tema richiamano l’incipit dell’aria di Arturo “A te o cara”, e paiono perciò come un’evocazione del personaggio che ora Giorgio chiede a Riccardo di salvare. Giorgio è convinto che Arturo non sia il solo responsabile della fuga di Enrichetta e spinge Riccardo ad ammettere il proprio coinvolgimento, prima minacciandolo poi ricordandogli che la morte di Arturo provocherebbe anche quella di Elvira e che quindi la sua coscienza si macchierebbe di due vittime. Inizia un duetto tra i due uomini su un impianto ritmico ben scandito e con un tema ampio e lirico. Giorgio perora la sua causa agitando di fronte a Riccardo i fantasmi di Elvira e Arturo, ma Riccardo si difende dicendosi sicuro di essere perdonato dal fantasma di lei e di poter rispedire all’inferno quello di lui. Giorgio tra le lacrime ha infine ragione sulle resistenze di Riccardo e si arriverà a un compromesso: Arturo sarà risparmiato ma morirà se il giorno dopo combatterà con le truppe nemiche all’assalto del castello.

[Anthony Clark Evans (Riccardo) e Adrian Sâmpetrean (Giorgio). Lyric Opera of Chicago. 2018]

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A chiusura dell’atto, una cabaletta cantata da Giorgio in modo epico e marziale sancisce il loro patto. Uno dei brani più famosi dell’0pera, simbolo del patriottismo indipendentista siciliano.

GIORGIO. Sia voce di terror: Patria, vittoria, vittoria, onor. Suoni la tromba, e intrepido io pugnerò da forte; bello è affrontar la morte gridando: libertà! Amor di patria impavido mieta i sanguigni allori, poi terga i bei sudori e i pianti la pietà.

[Teatro Valli. Reggio Emilia. 2017]

Scriveva Bellini: “Il duetto è venuto magnifico e lo squillo delle trombe farà tremare di gioia i cuori liberi che si troveranno in teatro”.

PARTE TERZA Scena I. Un giardino a boschetto, vicino alla casa di Elvira. Il giorno comincia ad oscurarsi, si leva un uragano. Il suono degli strumenti è sobrio, senza compiacimenti, molto controllato anche quando sfoga la sua massima potenza; un abbellimento rapido e ascendente suggerisce la comparsa di un lampo. Mentre la resa musicale dell’uragano va spegnendosi, entra Arturo pallido, ansante. Si toglie il grande mantello che l'avvolge ed esprime sollievo per essere scampato alla furia dei suoi nemici ed essere tornato nel suolo natio. All’improvviso si leva di lontano la voce di Elvira che, accompagnata dall’arpa, intona una romanza. ELVIRA (di dentro). A una fonte afflitto e solo s'assideva un trovator, e a sfogar l'immenso duolo sciolse un cantico d'amor. Ah! [126]


[Giuseppe Di Stefano nel ruolo di Arturo]

[127]


Arturo riconosce quella che era “la mia canzon d’amor” e, nell’udirla, rinasce la sua passione, e si mette subito alla ricerca della donna amata. I suoi richiami però non trovano risposta e decide quindi, in un recitativo, di cantare a sua volta la romanza, riversandovi non solo l’esperienza felice dell’amore ma anche quella dolorosa dell’esilio. L’orchestrazione leggera, con i flauti in primo piano, conferisce alla romanza un tono carezzevole e amoroso anche nei suoi momenti più malinconici e tristi. L’ultima parola, musicalmente, spetta al clarinetto che chiude la romanza con una frase breve e struggente.

ARTURO. La mia canzon d'amore! O Elvira, o Elvira, ove t'aggiri tu? Nessun risponde, nessun. A te così cantava di queste selve tra le dense fronde, e tu allor eco facevi al canto mio! Deh! se ascoltasti l'amoroso a to… Odi quel dell'esiglio, odi il mio pianto. A una fonte afflitto e solo s'assideva un trovator; toccò l'arpa e suonò duolo, sciolse un canto, e fu dolor. Brama il sol allor ch'è sera, brama sera allor ch'è sol. Gli par verno primavera, ogni gioia gli par duol! Il canto di Arturo viene interrotto dal suono di un tamburo e dall’arrivo di un drappello di soldati che attraversano la scena. L’uomo si copre con il suo mantello e si nasconde. Usciti i soldati dalla scena, Arturo riprende il suo canto. ARTURO. Son già lontani. Perchè mai non posso porre il piede entro l'adorate soglie, dire a Elvira il mio duol, la fede mia? (per inoltrarsi, poi s'arresta). Ah! o … pe de pot ei e stesso e lei. O si ipigli il a to. Forse a me verrà, se al cor le suona come ne dì felici, quando uniti dicemmo: io t'amo, io t'amo. Corre a valle, corre a monte l'esiliato pellegrin, ma il dolor gli è sempre a fronte, gli è compagno nel cammin. Cerca il sonno a notte scura l'esiliato pellegrin; sogna, e il desta la sciagura della patria e il suo destin. Sempre eguali ha i luoghi e l'ore l'infelice trovator. L'esiliato allor che muore ha sol posa al suo dolor.

Scena II. Rapita dalla voce di Arturo, Elvira compare in scena, è turbata, crede che la voce da lei ascoltata sia frutto della sua fantasia malata. Le sue parole sono accompagnate dalle note del canto d’amore di Arturo “A te o cara”. Arturo però risponde ai suoi richiami: egli è lì realmente davanti a lei, incredula di quanto vede. L’animo della donna trabocca di gioia di fronte al ritrovato amore, ma è forte anche la voglia di sapere perché e con chi Arturo sia fuggito. L’uomo le dice di non essere uno spergiuro e che la donna che egli ha fatto fuggire non era una donna da lui amata ma la regina, che egli ha così sottratto al destino di una morte atroce. La rivelazione tocca l’anima di Elvira, che ritorna alla lucidità della ragione e alla consapevolezza dell’amore puro ritrovato. Arturo ed Elvira si dichiarano a vicenda il proprio amore e si promettono a vicenda di non lasciarsi mai più. ELVIRA. Dunque m'ami, mio Arturo? Sì?

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ARTURO. Vieni, vieni fra queste braccia, amor, delizia e vita, vieni, non mi sarai rapita finchè ti stringo al cor. Ad ogni istante ansante ti chiamo e te sol bramo. Ah! vieni, vien, tel ripeto t'amo, ah, t'amo d'immenso amore. ELVIRA. Caro, caro, non ho parola ch'esprima il mio contento; l'alma elevar mi sento in estasi d'amor. Ad ogni istante ansante ti chiamo e te sol bramo, ah! caro, vien, tel ripeto, t'amo, t'amo d'immenso amore. Sì, tel ripeto, sentilo, Artur, dal mio cor. ARTURO. Sì, mel ripeti, ah! mio ben! Ad ogni istante ansante ti chiamo e te sol bramo!

[Olga Peretyatko (Elvira), Dmitry Korchak (Arturo. Teatro Regio di Torino. 2015]

Ad interrompere il loro duetto, una lunga nota sul corno e un rullo di tamburi sono presagi di nuovi ostacoli all’unione dei due innamorati. Il suono lontano della marcia militare scuote Arturo che capisce di essere ancora in pericolo e turba Elvira che comincia di nuovo a vaneggiare. La donna si sorprende dello sguardo dell’esterrefatto Arturo, che gli ricorda quello che le rivolgono tutti gli altri, e vaneggia confusamente sulle nozze non più celebrate. Poi richiama l’attenzione dei puritani che si odono fuori scena, temendo che Arturo voglia fuggire da lei ancora una volta. Le sue invocazioni di aiuto si mescolano alle voci sempre più vicine degli uomini in arme i quali entrano in scena e affrontano Arturo.

Scena III. Anche la gente del castello si stringe con fragore intorno ad Arturo, impedendone una eventuale fuga. Arturo è impietrito dal dolore, guarda immobile Elvira senza curare ciò che gli sta succedendo intorno; Elvira è come istupidita per quel che sta vedendo. Preceduto da un rullio sinistro di tamburi, sopraggiunge Riccardo. Su un ritmo da marcia funebre rivela ad Arturo che il Parlamento l'ha condannato a morte; Elvira, non discostandosi da quel ritmo, continua a perorare la causa del proprio amore con parole patetiche ma altrettanto straniate.

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Riccardo e i soldati ricordano ad Arturo che è stato condannato a morte, e questa parola produce in Elvira, che la ripete con un grido terribile, un’autentica trasfigurazione, un cambiamento tale da impressionare gli astanti e fermare, per un momento, la loro sete di vendetta. Nell’istante di pausa creato dallo stupore collettivo per il cambiamento leggibile sul volto di Elvira, Arturo prende la parola e avvia il concertato finale con un Largo maestoso di grande bellezza, l’ultima sublime melodia scritta da Bellini. A tutti i personaggi Bellini concede l’opportunità di esporre i propri sentimenti, e consente all’orchestra di espandersi con il suo gioco di incisi affidati alle viole, ai violoncelli, ai corni, all’oboe su un accompagnamento ritmico incessante.

ARTURO. Credeasi, misera!, da me tradita, traea sua vita in tal martir! Or sfido i fulmini, disprezzo il fato, se teco allato potrò morir! ELVIRA. Qual mai funerea voce funesta mi scuote e desta dal mio martir! Se fui sì barbara nel trarlo a morte m'avrà consorte nel suo morir! GIORGIO. Qual suon funereo feral rimbomba nel sen mi piomba, m'agghiaccia il cor! Non ha più lagrime il mio dolor. ALCUNI SOLDATI. Quel suon funereo, ch'apre una tomba, cupo rimbomba, mi piomba al cor. E Dio terribile in sua vendetta gli empi saetta con rigor. ALTRI SOLDATI. Quel suon funereo, ch'apre una tomba, cupo rimbomba, mi piomba al cor. E Dio lo vuol senza pietà! RICCARDO. Quel suon funereo ch'apre una tomba al cor mi piomba, lor sorte orribil mi piomba al cor. Ah, pietà. DONNE. Quel suon funereo di tromba ci piomba al cor. Pur fra le lagrime speme ci affida, Sì, che Dio ci arrida con pietà. ARTURO. Traea sua vita in tal martir! Ah! sì, disprezzo il fato, se teco allato potrò morir! I soldati, impazienti, danno sfogo alla loro sete di vendetta dapprima in pianissimo quindi con una progressiva intensità del ritmo. Arturo chiede pietà per il suo amore per Elvira, che, scossa dal canto di Arturo, si risveglia dal delirio e chiede almeno di poter seguire al patibolo il suo amato. A questo punto anche Riccardo e Giorgio, scossi dal dolore e dalla compassione, invocano pietà per la sorte dei due giovani innamorati. La tragica atmosfera viene interrotta da un suono di corni da caccia. Entra un messaggero che reca delle lettere. Riccardo e Giorgio le leggono: gli Stuart sono stati sconfitti e Cromwell ha concesso un'amnistia generale. Tutti esultano ed Elvira ed Arturo possono tornare ad essere felici.

ARTURO. Ah! mia Elvira! ELVIRA. Oh! contento! Ah! sento, o mio bell'angelo, che poco intera è un'anima ad esaltar nel giubilo che a o i do e à. Be edite le la i e, l a sia, i sospi i, i ge iti; va egge ò el palpito di ta ta a a voluttà! RICCARDO, GIORGIO, CASTELLANI, CASTELLANE. Sì, sì, l'amor coronerà di giubilo gli spasimi di tanta fedeltà. Amor pietoso e tenero coronerà di giubilo l'ansia, i sospiri, i palpiti di tanta fedeltà.

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DISCOGRAFIA

Bellini: I Puritani Joan Sutherland (Elvira), Pierre Duval (Arturo), Renato Capecchi (Riccardo), Ezio Flagello (Giorgio). Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, dir. Richard Bonynge. Decca G a d’Ope a Questa è la prima registrazione in studio di Joan Sutherland de I Puritani, che venne realizzata a Firenze nel 1963. A discapito di comprimari per certi versi inferiori, questo disco non sfigura di fronte alla più nota versione, sempre in studio, con un cast più stellato, di una decina d'anni dopo, che commento a seguire: vuoi per la dizione giovanile più corretta, vuoi per la freschezza adamantina di una giovane Sutherland che ha dei colori e delle sfumature uniche, la gamma e il virtuosismo della voce sono semplicemente mozzafiato. Altri potrebbero aver portato più pathos al ruolo (Callas), ma nessuna l’ha eguagliata vocalmente. Una performance davvero strepitosa! Agilità limpide, registri perfettamente fusi e un legato avvolgente, ideali per restituire la linea melodica immateriale così tipica di Bellini, fanno di Sutherland una Elvira di prim'ordine. Pierre Duval è un Arturo di tutto rispetto che affronta bene la tessitura incredibilmente alta e non sfigura con la Sutherland nei loro duetti. Renato Capecchi ed Ezio Flagello offrono un buon supporto. Il coro e l'orchestra sono eccellenti e nel suo complesso questa registrazione è consigliata. Il suono è vintage "Decca". ♫♫ Bellini: I Puritani Joan Sutherland (Elvira), Luciano Pavarotti (Arturo), Piero Cappuccilli (Riccardo), Nicolai Ghiaurov (Giorgio). Chorus of the Royal Opera House, London Symphony Orchestra, dir. Richard Bonynge. Decca Incisione storica risalente al 1973, questa edizione Decca è ancora oggi, risolutamente, la più bella disponibile dell'opera, anche grazie ad una coppia fenomenale di protagonisti. Joan Sutherland scrive qui una splendida pagina della sua carriera: se lo smalto della prima metà degli anni '60 non c'è più, al suo posto c'è una espressività notevole. Ed inoltre un gusto del canto,

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dei portamenti, dei legati, difficilmente superabili in Bellini. Vocalità pressoché perfetta, a parte un accenno di usura nei sovracuti. In ogni caso una prova difficilmente eguagliabile. Luciano Pavarotti si dimostra un eccellente belliniano, rendendo eroico il suo Arturo, dal tono sempre squillante. E’ un po’ espressivamente sottotono nel primo atto, ma nel terzo atto è splendido sia vocalmente che interpretativamente, la raffigurazione che egli dà del tenore protoromantico è da antologia del teatro d'opera. Sentire poi come domina la tessitura acutissima dei duetti con la Sutherland è veramente cosa rara. Da lodare anche il duo Ghiaurov - Cappuccilli (rispettivamente Giorgio e Riccardo nell'opera), con le loro stupende voci artefici probabilmente della più fulgida versione del celebre duetto del finale del secondo atto "Il rival salvar tu dei...Suoni la tromba e intrepido", entrambi così marziali e battaglieri sugli squilli di tromba che sembra esortino anche noi ad unirci a loro in battaglia. Un po' deludente rispetto allo standard elevato del cast è l'Enrichetta di Anita Caminada. La direzione di Bonynge alla testa dell'Orchestra della LSO dà vita ad uno spettacolo sfolgorante: ottimo accompagnamento dei cantanti, splendida atmosfera araldica, bellissimi colori ed un suono sempre morbido e liquido, veramente belliniano. A volte qualche lieve sbandamento ritmico, qualche difficoltà a mettere ben in luce tutti i dettagli della partitura, ma in complesso un ottimo risultato. Tecnicamente questa è sempre stata una grande registrazione, ma ora che è stata rimasterizzata in HQ-audio l'audio è ancora più splendido: l'alta gamma si è aperta di più, ha una maggiore chiarezza e ora ha una qualità tridimensionale. Nel complesso, un'incisione piena di vitalità ed atmosfera! ♫♫ Bellini: I Puritani Maria Callas (Elvira), Giuseppe DI Stefano (Arturo), Nicola Rossi-Lemeni (Riccardo), Rolando Panerai (Riccardo). Coro ed Orchestra de Teatro alla Scala di Milano, dir. Tullio Serafin. Emi Classics Maria Callas è stata forse la più grande soprano ad affrontare la parte, scatenando gran parte del pathos e della passione che la maggior parte dei soprani non riesce a trasmettere nel loro canto, ma in questa registrazione è stata sostenuta da un cast che non è riuscito a raggiungere i suoi eccellenti standard. Insieme a lei come Arturo in questa registrazione del 1953 c'è uno dei suoi colleghi più amati, il tenore Giuseppe Di Stefano, in grande forma. Questo è comunque un bellissimo CD. [132]


♫♫ Bellini: I Puritani Beverly Sills (Elvira), Nicolai Gedda (Arturo), Louis Quilico (Riccardo), Paul Plishka (Giorgio). Ambrosian Opera Chorus, London Symphony Orchestra, dir. Julius Rudel. Westminster - The Legacy Beverly Sills è stata uno dei soprano più sottovalutati degli anni '60 e '70. Pur non avendo la voce di Sutherland, emanava un carisma sul palco che spesso sfugge al soprano australiano. Aveva anche un grande senso del dramma, una voce giovanile e un'abilità coloratura. È innocente, ingenua, giocosa, triste e folle, tutto ciò che il ruolo chiede: per molti versi, trovo che sia un'Elvira ideale, e se Bellini fosse vivo oggi, probabilmente troverebbe Sills come interprete ideale accanto a Giulia Grisi e a Maria Callas. Arturo è Nicolai Gedda. Anche se non ha la voce di Pavarotti, lo trovo più coinvolto emotivamente. Louis Quilico fu uno dei più grandi baritoni degli anni '60 e '70 ma non riuscì a raggiungere una fama adeguata alle sue possibilità. In questa registrazione canta con molta grazia da parte di Riccardo, rimanendo in linea con la linea del belcanto senza allontanarsi dalla bellezza del dramma. Paul Plishka è un meraviglioso Giorgio, comprensivo e compassionevole. Con Quilico si esibisce magnificamente nel duetto «Suoni la tromba!». Un cast di supporto davvero magnifico! Julius Rudel è uno dei più grandi direttori del belcanto che abbia mai sentito, superiore, a mio avviso a Bonynge. Questa è davvero una grande registrazione, e metterei questo Puritani tra i primi della lista.

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VIDEOTECA

Bellini: I Puritani Edita Gruberova (Elvira), Josè Bros (Arturo), Carlos Alvarez (Riccardo), Simòn Orfila (Giorgio). Cor e Orquestra Simfonica del Gran Teatre del Liceu, dir. Friederich Haider. Art Haus Musik (DVD) Questa è una registrazione dal vivo del 2001 del Gran Teatro de Liceu de Barcelona. Gruberova, nonostante i suoi 50 anni di età,

è un'Elvira

impegnata e credibile. Jose Bros è un Arturo con un tono brillante e una buona tecnica di canto, il suo registro acuto suona sia dolce che caldo e non va oltre le righe quando affronta le parti difficili del ruolo. In generale non copre tutti i requisiti del ruolo, ma la sua realizzazione è accettabile. Carlos Alvarez tiene in braccio un giovane e potente Riccardo con un bel tono squillante. Simon Orfila è molto giovane per il ruolo di Giorgio, ma possiede la voce per convincere, un bel tono e forza. La bacchetta di Friedrich Haider è equilibrata, i suoi tempi sono semplicemente accurati secondo la partitura originale. ♫♫ Bellini: I Puritani Anna Netrebko (Elvira), Eric Cutler (Arturo), Franco Vassallo (Riccardo), John Relyea (Giorgio) Orchestra, Chorus and Ballett Metropolitan Opera Orchestra, dir. Patrick Summers. Deutsche Grammophon (DVD) Resta difficile immaginare una collezione di video d’opera senza questa produzione MET dell’opera di Bellini, cantata in maniera eccezionale. Non è perfetta da tutti i punti di vista, ma le sue eccellenze, soprattutto Anna Netrebko con la sua voce elettrizzante nella interpretazione di Elvira, distolgono l’attenzione da altri aspetti meno convincenti di questa memorabile serata all’opera. La Netrebko si dimostra fragile sin dall’inizio, le espressioni e i movimenti delle sue mani suggeriscono immediatamente la sua vulnerabilità. Intensa e consapevole di ogni sottile movimento e di ogni reazione onora ad altissimo livello la partitura di Bellini. In ogni atto c’è una sua scena di follia: nel primo quando si accorge che il fidanzato è sparito con un’altra donna, nel terzo, l’atto finale, quando il fidanzato viene scortato dai soldati per essere [134]


giustiziato. Tuttavia, è nel secondo atto che trionfa la follia. La Netrebko è coinvolgente, mentre corre su e giù per la scalinata, una creatura persa e debole. Più tardi nel passaggio a soprano di coloratura, mostra una vocalità teatrale impavida mentre è sdraiata e la sua testa pende verso la buca dell’orchestra. Arturo è Eric Cutler, un tenore che canta la sua parte con sicurezza. Il suo canto è ovunque intenso, definito e non agitato. Anche John Relyea (Giorgio) è un’eccellente voce, fa un ottimo lavoro soprattutto nella grande aria del terzo atto. Franco Vassallo, nelle vesti di Riccardo non si distingue particolarmente, il suo ruolo di baritono manca di colore e sfumature. Il direttore Patrick Summers guida l’eccezionale MET Orchestra in un’esibizione di gran livello, eccezionale nel far risaltare le linee melodiche lunghe di Bellini. DVD super consigliato.

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Vincenzo Bellini [136]


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