GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 13 – Settembre 2020
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista quadrimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 13 – Settembre 2020
Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa
A questo numero ha collaborato il M. Paolo Duprè
In questo numero: 1a Copertina: Bernardo Strozzi – Ritratto di Claudio Monteverdi (c.1630) [3] Claudio Monteverdi: Vespro della Beata Vergine [25] Ezio Bosso, il ricordo [33] Il mio Addio al Maestro [35] Beethoven 250: Quando Beethoven inventò il jazz [38] Maria Veniaminovna Yudina [43] Le Sinfonie di Mahler: Sinfonia n° 3 in re minore [58] Il 600 tedesco nella musica organistica (di Paolo Duprè) [63] Musica classica e cinema: Gravity, di Oliver Stone [65] Gli a ti hi st u e ti usi ali: l A pa [72] La Musica del Medioevo: L A s Nova Italia a, F a es o La di i [91] Tosca, di Giacomo Puccini 4a Copertina: Giacomo Puccini
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Claudio Monteverdi: Vespro della Beata Vergine da concerto composto sopra canti fermi sex vocibus et sex instrumentis, SV 206 Claudio Monteverdi pubblicò nell'estate del 1610, nella stamperia del veneziano Riccardo Amadino - assieme alla Missa in illo tempore - Il Vespro della Beata Vergine, con un'ampollosa e adulatoria dedica a papa Paolo V. Il titolo completo dell'opera, Sanctissimae Virgini mìssa sexis vocìbus ad ecclesiarum choros ac vespere pluribus decantanda cum nonnullis sacris concentibus, ad sacella
sive
accomodata
prìncipum
(Messa
della
cubicula Santissima
Vergine a sei voci per i cori ecclesiastici e vespro da cantarsi a più voci con alcuni sacri concerti, adatti alle cappelle o alle camere dei principi), rende espliciti sia il contenuto sia lo scopo dell'edizione. Le ragioni che spiegano quest'edizione - e in particolare la varietà stilistica, quasi enciclopedica, che essa mette in mostra - risiedono probabilmente nelle condizioni in cui si trovava Monteverdi all'epoca in cui compose il Vespro. Il compositore, che all'epoca aveva 43 anni, era alle dipendenze di Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova [nel dipinto a dx]. Era al servizio della Corte dei Gonzaga già da una ventina d'anni come suonatore di viola ed era arrivato a farsi un nome come compositore di madrigali, balletti e infine di opere. Ci sono pervenute dodici lettere monteverdiane, scritte tra il 1601 e il 1611, dalle quali trapela uno stato di insoddisfazione pressoché costante da parte del compositore: quasi senza eccezione sono cariche di lamentele per il lavoro eccessivo, l'indigenza, i pagamenti inadeguati e il perenne sospetto che il suo talento non fosse tenuto nella giusta considerazione dai Gonzaga. Era stata cocente la delusione provata due anni prima quando il tanto desiderato incarico di Maestro della Cappella ducale di Santa Barbara di Mantova, resosi vacante per la scomparsa di Gastoldi, non gli venne assegnato: la scelta era ricaduta dapprima su Antonio Taroni e poi, definitivamente, su Stefano Nascimbeni.
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Inoltre egli attraversava una profonda crisi personale dovuta alla scomparsa, nel 1607, della moglie Claudia e poi anche dell’allieva e protetta Caterinaccia Martinelli. Lo stesso Monteverdi presentava una salute malferma per la malaria contratta nella zona paludosa di Mantova. E’ quindi naturale che pubblicando la Missa e il Vespro a Venezia e dedicandoli entrambi al Papa, Monteverdi volesse ingraziarsi il Pontefice mostrando la sua bravura e versatilità di compositore di musica sacra in un'ampia gamma di stili, che andavano dal contrappunto tradizionale dello stilus antiquus sino al recentissimo canto monodico; la Missa era anche esattamente il genere di musica cantato nella Cappella Sistina. Non sorprende che la raccolta non abbia conosciuto ristampe: il formato e il contenuto rivelano che si trattava di un volume da presentare in dono e non di un libro destinato all'uso pratico, almeno per quanto riguarda i cori ecclesiastici italiani di normali dimensioni. Sappiamo che Monteverdi [nel dipinto a sin] si recò a Roma sperando di presentare di persona il suo nuovo lavoro al Papa e nello stesso tempo di chiedere un posto gratuito per il figlio Francesco di 9 anni “nel seminario romano con benefitio da chiesa che li paghi la donzena, essendo io povero”. In cuor suo Monteverdi sperava di ottenere a Roma anche un nuovo posto per sé, meno gravoso ed economicamente più gratificante.
Gli archivi del Vaticano conservano una copia della Missa, fatta decorare da Monteverdi con lo stemma del pontefice. Entrambi i tentativi fallirono. L’ambiente romano, austeramente controriformista e in mano ai tanti allievi di Palestrina, non si lasciò sedurre dallo stile monteverdiano. I guai non erano finiti: subito dopo la morte del duca Vincenzo Gonzaga, il figlio Francesco lo licenziò insieme al fratello Giulio Cesare e Monteverdi si trovò senza lavoro. Per sua fortuna l’incarico di maestro di cappella della Basilica di San Marco a Venezia si rese vacante improvvisamente nel 1613 con la morte di Giulio Cesare Martinengo. I Procuratori della Basilica invitarono Monteverdi a sostenere una prova pratica il 19 agosto. Non sappiamo
quali
musiche
egli
preparò
per
l’occasione, ma sembra improbabile che si sia trattato del nuovo Vespro: le fonti parlano di una Missa non meglio precisata e riferiscono che le prove si svolsero nei giorni precedenti nella Chiesa di San Giorgio con i «XX sonatori ordinarii» della Basilica e con l’utilizzo di due organi positivi. I procuratori all’unanimità assegnarono l’incarico [4]
al musicista cremonese, che dopo tanti anni di sofferenza poteva finalmente guardare al futuro con ottimismo. ESEGESI DELLA COMPOSIZIONE Il Vespro è senza dubbio la più ricca e complessa opera sacra a se stante scritta prima delle Passioni di Bach. Esso costituisce allo stesso tempo un’estesa sequenza liturgica ed un coeso insieme artistico in cui troviamo i diversi stili compositivi dell'epoca: polifonici, solistici, vocali e strumentali. Molti critici si sono posti il dubbio se alla base della composizione vi sia un’intensa religiosità del compositore nei confronti della Madonna o se invece Monteverdi abbia scritto quest’opera grandiosa solo per accreditarsi come grande compositore di musica sacra e accattivarsi il favore del Duca di Gonzaga. La questione è ancora aperta.
Dal lungo titolo si ipotizza che sia il Vespro che la Messa (pubblicati assieme) siano stati scritti a celebrazione della Vergine Maria e perciò destinati alle festività a Lei dedicate (la nascita l’8 settembre, l’annunciazione il 25 marzo e l’assunzione in cielo il 15 Agosto). Ricordiamo che il culto mariano, nel periodo successivo al Concilio di Trento e nel clima di fervore controriformistico che lo segnò prolungatosi anche nel 1600, conobbe una spiccata diffusione nel mondo cattolico, che lo utilizzava anche in funzione anti-protestante. In campo musicale intere raccolte di mottetti e di madrigali spirituali vennero dedicati alla Madonna, e anche il Vespro di Monteverdi, rientrerebbe in questa linea: vi sono infatti compresi i brani richiesti dal servizio liturgico vesperale nelle solenni celebrazioni mariane.
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Vi è una ipotesi opposta secondo la quale il Vespro sia stato scritto originariamente per la festività di Santa Barbara (4 dicembre), la festa più importante per la corte mantovana.
[Basilica Palatina di S. Barbara a Mantova, Chiesa di Corte dei Gonzaga. 1562-1572] Quando però Monteverdi vide svanire la sua possibilità di essere nominato maestro della cappella ducale dedicata alla santa, avrebbe mutato la destinazione, aggiungendo alcuni brani come Ave maris stella o Audi Coelum. A riprova di tale tesi è la presenza nel Vespro del salmo Duo seraphim, che non compare mai nelle celebrazioni mariane essendo in onore della Trinità; al contrario, sappiamo che Santa Barbara fu sottoposta al martirio proprio per la sua incrollabile fede nel mistero della Trinità, cui allude il testo del mottetto.
STRUTTURA Pubblicato nel 1610, il Vespro si annuncia come opera sacra, anche se incorpora nel suo tessuto musica profana: sono presenti infatti diverse forme compositive che vanno dalla sonata, al mottetto, all'inno e al salmo. Il Vespro comunque raggiunge un'unità di scrittura costruita sul canto piano del gregoriano, che diventa un cantus firmus1 nell'opera. Il Vespro è scritto per un grande coro che possa coprire dieci parti vocali in alcuni movimenti, e che, nel corso dell'opera, si scomponga in cori separati mentre accompagna ben sette differenti solisti. Le parti strumentali sono scritte per violino e cornetto mentre la composizione del tutto orchestrale non è specificata dall'autore. Altrettanto non sono specificate le parti di
1
Nella pratica della polifonia medievale viene chiamata cantus firmus (canto fermo) la melodia tratta dal repertorio
liturgico che veniva eseguita da una voce (tenor) lungo tutta la composizione e che costituiva la base per il gioco contrappuntistico delle altre voci. Dalla fi e del se . XV, l a te di ela o azio e del cantus firmus divenne più articolata e varia, si cominciò a impiegare elodie di o igi e p ofa a o talo a di uova o posizio e e ad appli a e la della musica strumentale.
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edesi a te i a a he all a
ito
canto piano e antifona da inserire fra i salmi, né il conclusivo Magnificat. Questo fa sì che gli esecutori modifichino l'impostazione dell’opera secondo l'organico presente.
GUIDA ALL’ASCOLTO Nella stampa del 1610 il Vespro della Beata Vergine risulta strutturato in dodici parti, di cui alcune però non appartenenti al rito liturgico del Vespro per la festa della Beata Vergine.
I. Deus in adjutorium me intende [Responsorio per 6 voci e 6 strumenti] Sin dal primo brano si avverte l'ampio respiro del canto monteverdiano, dagli spaziosi accordi e dai ritmi vivaci rinsaldati e irrobustiti dalla magnificenza corale. Il brano utilizza le note della Toccata dell'Orfeo (rappresentato a Mantova nel 1607). Esso ha un carattere maestoso di vera e propria ouverture, il coro che scandisce le parole in modo sillabico è accompagnato dal timbro squillante degli strumenti a fiato (i cornetti in modo particolare).
DEUS IN ADJUTORIUM ME INTENDE Deus in adjutorium meum intende. Domine ad adiuvandum me festina. Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto: sicut erat in principio et nunc et semper et in saecula saeculorum. Amen. Alleluia. [O Signore, vieni ad aiutarmi. Signore affrettati ad aiutarmi. Gloria al Padre, al Figlio, e allo Spirito Santo, com'era in principio e ora e per sempre e per tutti i secoli dei secoli. Amen. Alleluia.]
II. Dixit Dominus [Salmo per 6 voci e sei strumenti] Lo stesso organico vocale e strumentale è previsto anche nel primo salmo, costruito in maniera tale da alternare il coro, che talvolta utilizza strutture di basso ostinato, a sezioni solistiche di carattere brillante, insieme a ritornelli strumentali. Nel salmo la voce del tenore avvia con naturalezza ritmica un'articolata polifonia, che apre la via alla recitazione sillabica del falso bordone, quasi un parlato di tutte le voci. Non mancano intrecci contrappuntistici alternati ad effusioni ariose, e tra un periodo e l'altro sono introdotti ritornelli strumentali che «si possono sonare et anche tralasciare secondo il volere». [7]
PSALMUS 109: DIXIT DOMINUS Dixit Dominus Domino meo: «Sede a dextris meis, donec ponam inimicos tuos scabellum pedum tuorum. Virgam virtutis tuae emittet Dominus ex Sion: dominare in medio inimicorum tuorum. Tecum principium in die virtutis tuae in splendoribus sanctorum: ex utero ante luciferum genui te.» [Disse il Signore al mio Signore: «Siedi alla mia destra, affinché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». Il Signore stende lo scettro del tuo potere da Sion: «Domina in mezzo ai tuoi nemici. A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell'aurora, come rugiada, io ti ho generato.»]
III. Nigra sum [Mottetto per sola voce] Il mottetto ad una sola voce per tenore è un pezzo monodico su testo tratto dal "Cantico dei Cantici"; ha un andamento di canto abbastanza voluttuoso, ma non in contrasto con il tono religioso del Vespro.
NIGRA SUM Nigra sum sed formosa, filiae Jerusalem. Ideo dilexit me Rex et introduxit me in cubiculum suum, et dixit mihi: surge amica mea et veni, iam hiems transiit imber abiit et recessit, flores apparuerunt in terra nostra. Tempus putationis advenit. [Io, figlia di Gerusalemme, sono nera ma bella. Il re mi ha apprezzata e mi ha introdotta nella sua stanza e mi ha detto: «Alzati mia adorata e vieni perché l'inverno è passato, le piogge sono terminate e i fiori sono apparsi sulla nostra terra, il tempo del raccolto è arrivato».]
IV. Laudate pueri [Salmo a 8 voci] In questo Salmo assistiamo all’ alternanza di parti solistiche attorniate, all'inizio e alla fine, dal coro a otto voci. Questo brano presenta una struttura musicale polifonica e poliritmica, continuamente variata nelle coloriture e negli spunti tematici. Espressiva è la coda con improvvisazioni contrappuntistiche sulla parola «Amen», che si sciolgono in eleganti giochi sonori, somiglianti ad un madrigale.
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LAUDATE PUERI Laudate pueri Dominum, laudate nomen Domini. Sit nomen Domini benedictum ex hoc nunc et usque in saeculum. A solis ortu usque ad occasum, laudabile nomen Domini. Excelsus super omnes gentes Dominus et super coelos gloria eius. Quis sicut Dominus Deus noster qui in altis habitat et humilia respicit in coelo et in terra? [Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore. Sia benedetto il nome del Signore, ora e sempre. Dal sorgere del sole al tramonto sia lodato il nome del Signore. Su tutti i popoli eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria. Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell'alto e si china a guardare nei cieli e sulla terra?] Suscitans a terra inopem et de stercore erigens pauperem: ut collocet eum cum principibus: cum principibus populi sui. Qui habitare facit sterilem in domo, matrem filiorum laetantem. Gloria Patri et Filio et Spiritili Sancto. Sicut erat in principio et nunc et semper et in saecula saeculorum. Amen. [Solleva l'indigente dalla polvere, dall'immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo. Fa abitare la sterile nella sua casa quale madre gioiosa di figli. Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, cosi come era in principio e ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen]
V. Pulchra es [Mottetto a due voci] Tratto dal Cantico dei Cantici. Vi compare un duetto di soprani su basso continuo, ma in realtà è una sola la voce che canta dall'inizio alla fine, mentre l'altra sostiene la prima nelle diminuzioni raddoppiandole alla terza. L’effetto è di tipo madrigalesco. PULCHRA ES Pulchra es amica mea, suavis et decora, filia Jerusalem. Pulchra es amica mea, suavis et decora sicut Jerusalem, terribilis ut castrorum acies ordinata. Averte oculos tuos a me quia ipsi me avolare fecerunt. [9]
[Sei bella, amica mia, soave e avvenente, o figlia di Gerusalemme. Sei bella, amica mia, soave e avvenente come Gerusalemme, terribile come un esercito schierato. Distogli i tuoi occhi da me perché mi hanno fatto fuggire.]
VI. Laetatus sum [Salmo a 6 voci] E’ caratterizzato da sortite virtuosistiche di canto e da molteplici atteggiamenti stilistici di tipo profano.
PSALMUS 121: LAETATUS SUM Laetatus sum in his quae dieta sunt mihi: In domum Domini ibimus. Stantes erant pedes nostri, in atriis tuis Jerusalem. Jerusalem quae aedificatur ut civitas: cuius participatio eius in id ipsum. Illuc enim ascenderunt tribus Domini: testimonium Israel ad confitendum nomini Domini. [Quale gioia, quando mi dissero: «Andremo nella casa del Signore»! E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme che è costruita come città salda e compatta. Lì salgono insieme le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore.] Quia illic sederunt sedes in iudicio sedes super domum David. Rogate quae ad pacem sunt Jerusalem: et abundantia diligentibus te: Fiat pax in virtute tua: et abundantia in turribus tuis. [Lì sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide. Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, e sicurezza nei tuoi baluardi.] Propter fratres meos et proximos meos loquebar pacem de te. Propter domum Domini Dei nostri quaesivi bona tibi. Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto. Sicut erat in principio et nunc et semper et in saecula saeculorum. Amen. [Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: «Su di te sia pace!». Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene. Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, così com'era in principio e ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.] [10]
VII. Duo seraphim [Mottetto a tre voci] Questo mottetto a tre tenori e basso continuo di carattere meditativo ma altamente virtuosistico interrompe, in un certo senso, il filo del discorso religioso, perché non ha molto a che vedere con la festività della Vergine: è infatti dedicato al mistero della Trinità, non a caso molto venerato nella Basilica palatina di S. Barbara in Mantova.
DUO SERAPHIM Duo Seraphim clamabant alter ad alterum: Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Plena est omnis terra gloria eius. Tres sunt qui testimonium dant in coelo: Pater, Verbum et Spiritus Sanctus. Et hi tres unum sunt. Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Plena est omnis terra gloria eius. [Due Serafini si chiamavano ad alta voce l'uno con l'altro: Santo è il Signore, Dio dell'Universo. Tutta la terra è piena della sua gloria. Tre sono coloro che ne danno testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, tre in uno. Santo è il Signore, Dio dell'Universo. Tutta la terra è piena della sua gloria.]
VIII. Nisi Dominus [Salmo a dieci voci] L’organico vocale di questo salmo prevede l’utilizzo di dieci voci divise in due cori. PSALMUS 126: NISI DOMINUS Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt aedificant eam. [11]
Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam. Vanum est vobis ante lucem surgere: surgite postquam sederitis qui manducatis panem doloris. Cum dederit dilectis suis somnum: ecce haereditas Domini filii: merces fructus ventris. [Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode. Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane e sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno. Ecco, dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo.] Sicut sagittae in manu potentis ita filii excussorum. Bearus vir qui implevit desiderium suum ex ipsis: non confudetur cum loquetur inimicis suis in porta. Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto. Sicut erat in principio et nunc et semper et in saecula saeculorum. Amen. [Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l'uomo che ne ha piena la faretra: non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici. Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo: così com'era in principio e ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.]
IX. Audi, coelum [Mottetto a più voci e coro] L’organico prevede un Tenore, un Tenore in eco, e la successiva entrata di un coro a sei voci. Il mottetto inizia con una parte di tenore dalle fioriture liriche e non priva di effetti d'eco. Dopo la cadenza sulla parola «omnes» entrano le altre cinque voci in una polifonia ariosa.
AUDI COELUM Audi coelum verba mea plena desiderio et perfusa gaudio. Dic quaeso mihi: quae est ista, quae consurgens ut aurora rutilat et benedicam? Dic, nam ista pulchra ut luna, electa ut sol replet laetitia terras coelos, maria. [O cielo, ascolta le mie parole che sono piene di desiderio e piene di gioia. Dimmi, ti prego, chi è questa donna che sorge come l'aurora e che io la benedica? Dimmi se è questa bella come la luna, eletta come il sole, che colma il cielo, la terra e i mari di gioia.] Maria Virgo, illa dulcis, predicata de Prophetis Ezechiel porta Orientalis. Illa sacra et felix porta, [12]
per quam mors fuit expulsa, introduxit autem vita. Quae semper tutum est medium inter homines et Deum, pro culpis remedium. [Il profeta Ezechiele ha predetto questa dolce Maria Vergine come porta d'oriente. Questa sacra e felice porta attraverso la quale la morte è stata bandita e ha introdotto la vita. Essa è sempre la perfetta mediatrice fra gli uomini e Dio e il rimedio per i peccati.] Omnes hanc ergo sequamur, qua cum gratia mereamur vitam aeternam. Consequamur. Praestet nobis Deus, Pater hoc et Filius, et Mater cuis nom invocamus dulce miseris solamen. Benedicta es, Virgo Maria, in saeculorum saecula. [Noi tutti seguiamola, perché attraverso la sua grazia raggiungeremo la vita eterna. Cerchiamola. Possano Dio, Padre e Figlio, insieme alla Madre, della quale invochiamo il nome, dare dolce conforto all'afflitto. Benedetta tu sia, o Vergine Maria, in tutti i secoli dei secoli.]
X. Lauda Jerusalem [Salmo a 7 voci] In questo salmo il canto in lode di Dio risplende con una straordinaria purezza armonica e una polifonia semplice e immediata.
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E’ un canto per sette voci e basso continuo strutturate in due cori (organizzati secondo il principio dei cori spezzati) tenuti insieme dai Tenori che hanno il canto fermo. PSALMUS 147: LAUDA JERUSALEM, DOMINUM Lauda Jerusalem, Dominum: lauda Deum tuum, Sion. Quoniam confortavit seras portarum tuarum: benedixit filiis tuis in te. [Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda, Sion, il tuo Dio. PerchÊ ha rinforzato le sbarre delle tue porte: in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.] Qui posuit fines tuos pacem: et adipe frumenti satiat te. Qui emittit eloquium suum terrae: velociter currit sermo eius. Qui dat nivem sicut lanam: nebulam sicut cinerem spargit. Mittit cristallum suam sicut buccellas: ante faciem frigoris eius quis sustinebit? [Egli ha messo pace nei tuoi confini e ti sazia con fior di frumento. Manda sulla terra la sua parola, il suo messaggio corre veloce. Fa scendere la neve come lana, come polvere sparge brina. Getta come briciole la grandine, di fronti al suo gelo chi resiste?] Emittet verbum suum et liquefaciet ea: flabit spiritus eius, fluent acquae. Qui annuntiat verbum suum Jacob: justitias et iudicia sua Israel. Non fecit taliter omni nationi: et iudicia sua non manifestavit eis. [14]
Gloria Patri et Filio, et Spiritui Sancto: sicut erat in principio et nunc et semper et in saecula saeculorum, Amen. [Manda una sua parola ed ecco si scioglie, fa soffiare il vento e scorrono le acque. Annunzia a Giacobbe la sua parola, le sue leggi e i suoi decreti a Israele. Cosi non ha fatto con nessun altro popolo, non ha manifestato ad altri i suoi precetti. Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo: così com'era in principio e ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen.]
XI. Sonata sopra Sancta Maria [Sonata per otto strumenti] E’ una pagina indicativa della spiritualità monteverdiana. Questa Sonata per soprano e otto voci è l’ultima della serie dei sacri concentus ed è di tutto il Vespro il brano dove i veri protagonisti sono gli otto strumenti. La voce solista ripete per undici volte l'invocazione litanica «Sancta Maria ora pro nobis», mentre l'orchestra svolge una serie di variazioni su un motivo inizialmente in ritmo di canzone francese. La frase melodica assume man mano robustezza ed espansione lirica su un tessuto armonico indicato dagli strumenti bassi (tromboni e viole), a sostegno di un'architettura polifonica e strumentale, somigliante a quella di Frescobaldi, di cui Monteverdi è contemporaneo non solo cronologicamente.
SONATA SOPRA SANCTA MARIA Sancta Maria, ora pro nobis! [Santa Maria, prega per noi!]
XII. Ave maris stella [Inno a 8 voci] L'inno Ave maris stella a otto voci rappresenta un altro momento essenziale della polifonia sacra monteverdiana. Due cori si alternano con l'inserimento di ritornelli strumentali.
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AVE MARIS STELLA Ave maris stella, Dei Mater alma, atque semper virgo, felix coeli porta. Sumens, illud ave Gabrielis ore, funda nos in pace, mutans Evae nomen. [Salve a te stella del mare, Madre di Dio che dona la vita, Vergine perpetua, felice porta del cielo. Sentendo quell'«Ave» nella bocca di Gabriele dai a noi la pace e cambia il destino di Eva.] Solve vincla reis, profer lumen caecis, mala nostra pelle, bona cuncta posce. Mostra te esse matrem sumat per te preces, qui pro nobis natus, tulit esse tuus. [Spezzi le nostre catene mortali, porti il lume ai ciechi, allontani i vizi, chiedi per noi tutte le cose buone. Spiegati Madre, Egli accetterà le nostre preghiere grazie a Te, Egli che è stato degno di nascere come tuo figlio.] Virgo singularis, inter omnes mitis, nos culpis solutos mites fac et castos. Vitam praesta puram, iter para tutum, ut videntes Jesum semper collaetemur. [Vergine unica, la più mite di tutte, ci purifichi dal peccato e ci fai miti e innocenti. Attraverso la tua pura vita preparaci per un viaggio sicuro affinché quando vedremo Gesù potremo gioire per sempre.] Sit laus Deo Patri, summo Christo decus, Spiritui Sancto tribus honor unus. Amen. [Lodalo sia il Signore, gloria all'altissimo Cristo e allo Spirito Santo, onore alla Trinità in uno. Amen.] [16]
XIII. Magnificat [Cantico per sette voci e sei strumenti] Brano di ampie proporzioni è il Magnificat conclusivo del Vespro. Si sa che Monteverdi scrisse due Magnificat: il primo più denso e sostanzioso per sette voci e strumenti, quali violini, cornetti, viola da braccio e organo, il secondo per sei voci e solo organo. L'uno e l'altro, comunque, riflettono una grandiosità di concezione corale e dimostrano la forza inventiva e l'originalità creatrice del musicista.
[Botticelli: Madonna del Magnificat]
Il Magnificat a sette voci e sei strumenti si dispiega in dodici sezioni, il Gloria e l'Amen compresi. E’ concepito in maniera assolutamente nuova rispetto ai brani precedenti; in primo luogo è costruito a sezioni chiaramente distinte, ognuna delle quali corrispondente ad uno dei versetti del cantico, ma è soprattutto il ruolo attivo e drammatico che è richiesto agli strumenti a non avere eguali nel Vespro stesso, i quali non possono assolutamente essere considerati ad libitum. Il Magnificat iniziale fornisce il motivo base, il cantus firmus circolante nelle varie parti dell'opera, ed è tenuto da una voce solista contrapposta alle altre del coro oppure agli strumenti. Segue brevemente poi l'Anima mea per solo soprano. Il canto dei due tenori nell'Exultavit a tre voci è ad imitazione e in rapporto contrappuntistico con il contralto. Festoso e in fortissimo si presenta il Quia respexit con il vigoroso intervento degli strumenti, invitati a suonare «con più forza che si può». Il Quia fecit sviluppa ritmi diversi in una varietà di soluzioni corali; le parti dei bassi si raggrumano fra di loro, in opposizione al cantus firmus del contralto. L'Et misericordia a sei voci sviluppa fra tenore e soprano un dialogo contrappuntato, così come indica il sottotitolo. [17]
Di tono drammatico è il Fecit potentiam, dove il canto dei violini fa da sfondo con delicate fioriture alla voce tenorile. Il suono penetrante dei cornetti rende timbricamente chiara l'introduzione cantabile del Deposuit; i violini poi si sostituiscono ai cornetti, servendosi dello stesso disegno melodico. Nell'Esurientes gli strumenti si alternano con le due voci di soprano e infine si fondono e si amalgamano con esse. Nel Suscepit Israel a tre voci i due soprani svettano nell'acuto, quasi a formare una cupola di suoni, in cui si sente nello sfondo il cantus firmus del tenore. Il Sic locutus è una brillante combinazione strumentale di violini e di fiati dialoganti, con l'innesto del cantus firmus del contralto. Il Gloria Patri a tre voci è costruito sul motivo dei soprani in contrasto con le voci dei tenori, che ricamano vocalizzi arieggianti timbri strumentali. Il Magnificat si chiude con il Sicut erat in un clima di esaltante grandiosità vocale e strumentale e tra i più indicativi di questa cuspidale costruzione polifonica.
MAGNIFICAT Magnificat anima mea Dominum. (a tre voci) Et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo. (ad una voce sola et sei instrumenti li quali suoneranno con più forza che si può). Quia respexit humilitatem ancillae suae, ecce enim ex hoc beatam me dicent omnes generationes. [L’a i a ia ag ifi a il Signore e il io spi ito esulta i Dio, io salvato e, pe h ha gua dato l’u iltà della sua se va. D’o a i poi tutte le ge e azio i i hia e a o eata.] (a 3 voci et dot instrumenti) Quia fecit mihi magna, qui potens est: et Sanctum nomen eius. (a 6 voci sole in dialogo) et misericordia eius a progenie in progenies timentibus eum. [G a di ose ha fatto i e l’O ipote te e “a to misericordia si stende su quelli che lo temono.]
il suo o e: di ge e azio e i ge e azio e la sua
(ad una voce et tre instrumenti) Fecit potentiam in brachio suo, dispersit superbos mente cordis sui, (ad una voce et doi instrumenti) deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles. (a due voci et quattro instrumenti) esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes.
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[Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.] (a tre voci) Suscepit Israel, puerum suum, recordatus misericordiae suae. (ad una voce sola et sei instrumenti in dialogo) Sicut locutus est ad patres nostros, Abraham et semini eius in saecula. [Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre.] (a tre voci - due de le quali cantano in Echo) Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto (tutti gli strumenti et voci, et va cantato et sonato forte) sicut erat in principio et nunc et semper et in saecula saeculorum. Amen. [Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo. Come era nel principio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.] Come abbiamo accennato, esiste un secondo Magnificat a sei voci e basso continuo, che poteva essere adoperato in luogo del precedente per il Vespro che si intonava alla vigilia della festa, meno solenne, o quando non si avevano a disposizione strumenti diversi dall'organo; in questo caso, Monteverdi aveva pensato alla possibilità di omettere le sezioni strumentali del Dixit Dominus e dell'Ave maris stella e di eseguire il Deus in adiutorium a voci sole, ulteriore esempio della flessibilità della raccolta.
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DISCOGRAFIA Sono numerose le registrazioni in commercio di questo capolavoro e ve ne segnalo alcune che, a mio parere, sono particolarmente significative. Claudio Monteverdi: Vespro della Beata Vergine, 1610 Giovanni Gabrieli, Giovanni Bassano, Claudio Monteverdi: Mottetti The Monteverdi Choir and Orchestra /“alis u Cathed al Bo s Choir / Philip Jones Brass Ensemble / David Munrow Recorder Ensemble. Dir. Sir John Eliot Gardiner. Decca double Splendida
e storica prima esecuzione (1974) di Sir John Eliot
Gardiner. Questa è la versione con Philip Jones Brass, che usa trombe e tromboni al posto dei cornetti originali che invece possono essere trovati in altre registrazioni. La performance è ad alto livello, anche se mi sento di esprimere una preferenza per il CD successivo, sempre con Gardiner.
Claudio Monteverdi: Vespro della Beata Vergine - Magnificat II (a 6 voci) The Monteverdi Choir / The London Oratory Junior Choir / His Majesties Sagbutts and Cornetts The English Baroque Soloists. Dir. Sir John Eliot Gardiner. Archiv (2 CD) Questi due CD raccolgono la registrazione del capolavoro monteverdiano registrato nella Basilica di San Marco a Venezia nel maggio 1989, dal vivo, da un John Eliot Gardiner in grandissima forma, con il Monteverdi Choir (che per l'occasione cantava a memoria), The English Baroque Soloists Monteverdi Choir, e dei English Baroque Soloists, e gli strumenti a fiato degli His Majestyes Sagbutts and Cornets; vi è anche la gradita sorpresa della versione alternativa del Magnificat a sei voci (registrata in studio a Londra). Questa
registrazione
dal
vivo
è
contraddistinta
dalla
caratteristica acustica della basilica veneziana, dalla presenza di voci bianche nel coro e da un imponente organico strumentale. Inoltre si tratta di una esecuzione priva di interpolazioni in
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canto gregoriano, con la sequenza dei brani che si attiene all'ordine originale della pubblicazione a stampa e che include entrambi i Magnificat (sia quello a 7 voci e sei strumenti sia la versione alternativa a 6 voci). Come sempre la direzione di Gardiner è nervosa e scattante; questa performance privilegia l'aspetto strumentale rispetto alla parola cantata. Orchestra, coro e solisti cantano e suonano in maniera eccellente. Interessante ed esaustivo l’allegato libretto con le note curate dello stesso Gardiner. Di questa performance esiste in commercio anche una ripresa video effettuata dalla BBC e pubblicata in DVD dalla stessa Archiv. Eccezionale sia sul piano della resa visiva che soprattutto del suono, vedere e ascoltare questo classico lavoro nella Basilica di San Marco a Venezia dove Monteverdi era il Maestro di Cappella è semplicemente meraviglioso. Il DVD esalta la magnificenza della registrazione. Da consigliare a tutti gli amanti dell'arte in generale.
Monteverdi: Vespro della Beata Vergine Taverner Concert , Choir & Players. Dir. Andrew Perrot. Veritas
Questa performance registrata in All Saint Church (Chiesa di tutti i Santi) a Tooting (Inghilterra) è assolutamente perfetta. I cantanti sono meravigliosi e i cori rispondenti sono così equilibrati che si immagina perfettamente l'esperienza del luogo originale. L'equilibrio tra cantanti e strumentisti è perfetto. Unica nota negativa: libretto di accompagnamento molto ridotto.
Monteverdi: Vespro della Beata Vergine Nederlands Kamerkoor. Concerto vocale. Dir. Renè Jacobs. Harmonia Mundi
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Questa di Jacobs supera le altre registrazioni per l'equilibrio assoluto e perfetto tra canto e strumenti, passione e riflessione, coadiuvato peraltro da splendidi complessi vocali/strumentali... come dire... capolavoro del Capolavoro Eccellente la registrazione del suono.
Monteverdi: Vespro della Beata Vergine La Capella Reial, Coro del Centro Musica antica di Padova, Montserrat Figueras. Dir. Jordi Savall. Alia Vox Registrazione del 1999 (etichetta Astrée Naive) rimasterizzata in SACD. Sin dalle prime note, l'ambiente d' ascolto è stato pervaso da un'atmosfera leggermente calda e raffinata. Le voci e gli strumenti hanno preso posto nella scena in maniera consistente, quasi reali, disponendosi su vari e distinti piani verticali. La musica fluisce piacevolmente mentre le voci si alternano, si contrappongono e si rinforzano nei passaggi corali. Sono rimasto piacevolmente impressionato da tanta raffinatezza timbrica! Solo in accompagnamento si inseriscono i pochi strumenti, arricchendo, prevalentemente nel medio-basso, l'armonia globale. Si aggiunga una tecnica eccellente che permette di ascoltare ogni variazione timbrica con la massima esattezza e chiarezza. Bellissimo il libretto inserito nella elegante confezione con le ricche e interessantissime note dello stesso Savall in lingua italiana (!!!): la Alia Vox di Jordi Savall è delle una pochissime a considerare con rispetto il pubblico di appassionati del nostro Paese!
Monteverdi: Vespro della Beata Vergine Ensemble Elyma. Les Sacqueboutiers de Tolouse. Cori "Antonio Il Verso", "Coro Madrigalia". Dir. Gabriel Garrido. Etichetta K 617
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Gabriel Garrido, grande specialista nel settore, plasma un Vespro di inimmaginabile bellezza per quel che concerne il suono, la dinamica e l'intreccio delle voci. A capo della meravigliosa Orchestra di strumenti d'epoca "Ensemble Elyma" e dello splendido coro "Antonio Il Verso", coadiuvato dall'altro "Coro Madrigalia" e dai fiati "Les Sacqueboutiers de Tolouse", il direttore argentino fa entrare l'ascoltatore in una immaginaria chiesa gotica dove, se si chiudono gli occhi con il semplice aiuto di una cuffia, sembra di andare a ritroso nel tempo e di ascoltare cori di monaci in antichi conventi, voci angeliche, organi e strumenti di altri tempi, insomma una melodia che non può stancare perché ricca di argento vivo e di colori che fanno letteralmente accapponare la pelle.
Monteverdi: Vespro della Beata Vergine 1610 Concerto italiano. Dir. Rinaldo Alessandrini. Naive Interessantissima ed assolutamente imperdibile questa versione del Vespro con protagonisti Rinaldo Alessandrini e il Concerto Italiano! Il Maestro italiano tenta, con questa incisione, di ricreare l'originale struttura del Vespro che Monteverdi scrisse a Venezia nel 1610. Infatti, se da un lato Alessandrini, come scrive di suo pugno nel libretto, pone la filologia al centro della sua interpretazione, prestando la massima attenzione nel ricreare l'ordine con cui si susseguono i pezzi e curando con la massima fedeltà la parte strumentale, dall'altro non abbandona - ed anzi valorizza - l'espressività del canto, grazie alla presenza di due grandi interpreti
come Sara Mingardo e Roberta
Invernizzi fra i solisti, che comprendono appieno la teatralità insita nella composizione. Il Concerto Italiano porta a nuova vita la partitura, liberandola dalle vischiosità e dalle pesantezze troppe volte ascoltate in passato, donando un suono trasparente e scintillante fin dal "Domine ad adiuvandum". Rinaldo Alessandrini ha scelto un’interpretazione intimista, del Vespro, con l’impiego del numero minimo di cantori richiesto da Monteverdi e di 13 strumentisti, tra strumenti ad arco e fiati (cornetti e tromboni), con un basso continuo minimo costituito da organo e due tiorbe. Non vi è l’aggiunta di antifone in gregoriano. Stupendo e freschissimo il suono Naive. La registrazione è stata fatta a Palazzo Farnese, uno degli edifici più importanti del Rinascimento italiano. [23]
Utile e colmo d'informazioni il ricco libretto di accompagnamento. Consigliatissimo.
Monteverdi: Vespro della Beata Vergine 1610 Regensburger Cathedral Choir. Dir. Hanns-Martin Schneidt. Deutsche Grammophon
Voci angeliche impressionanti! Splendida registrazione. L'unico problema è che si compone di punti salienti selezionati, e non della registrazione completa.
Monteverdi: Magnificat a sei voci, Messa a quattro voci (1640) Choir of the Carmelite Priory (London). Dir. George Malcolm. Decca
Interessante ma datata (1963) registrazione del (meno inciso) Magnificat a 6 voci e della Messa a 4 voci. Suggestiva l’interpretazione del coro.
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Ezio Bosso, il ricordo Il 10 febbraio 2016 Carlo Conti chiamò sul palco della 66a edizione del Festival di Sanremo il Maestro Ezio Bosso, pianista, contrabbassista, compositore e direttore d'orchestra di fama mondiale. Il Maestro era considerato dalla critica internazionale uno tra i maggiori esponenti della corrente musicale postminimalista e le sue composizioni erano note in tutto il mondo, eppure al grande pubblico italiano questo nome era misconosciuto. Quella sera, con le sue riflessioni e le sue note, con il coraggio con cui parlò della sua malattia, con l’amore per la musica che traboccava dal suo corpo devastato dalla sofferenza, l'artista piemontese conobbe finalmente la meritata consacrazione anche in patria. Nato a Torino il 13 settembre 1971 da padre operaio, Ezio Bosso si innamora della musica sin da bambino, grazie a una prozia pianista. Per seguire la sua grande passione musicale, decide a 16 anni di andare in Francia, dove in breve debutta come solista di violoncello. L’incontro con Ludwig Streicher, contrabbassista dei Wiener Philharmonic, segna il suo destino: intuendone il talento, il musicista austriaco lo indirizza all’Accademia di Vienna dove Bosso studia contrabbasso, composizione, direzione d’orchestra. Da contrabbassista suona in importanti formazioni, tra cui la Chamber Orchestra of Europe di Claudio Abbado, con il quale instaura un legame non solo artistico ma di amicizia. Dopo la morte di Abbado, nel 2017 sarà Ezio a farsi testimonial dell’eredità della sua ultima creatura, l’Associazione Mozart14, nata a Bologna per portare la musica nei luoghi del dolore, nelle carceri, negli ospedali. Il percorso nella malattia di Claudio sarà per Ezio un esempio di resistenza e di rinnovato impegno in una musica che, come amava ripetere, «è la vera terapia». La sua carriera è prestigiosa: dirige grandi orchestre quali la London Symphony Orchestra, l’Orchestra dell’Accademia della Scala di Milano, la Wien Residenz Orchester, la Bonn Kammer Orchester, cogliendo ovunque ragguardevoli successi internazionali. Il suo calvario personale inizia nel 2011: prima una grave neoplasia cerebrale, poi la comparsa di una malattia neurodegenerativa che in breve lo porterà sulla sedia a rotelle. Della sua malattia, parlava così: «Un incidente, un terremoto, una storia. La mia storia. Noi siamo composti da storie, e non ci sono storie belle o brutte. Però hanno dei colori: possono essere tristi, disperate, allegre. Quello che bisogna evitare sono le storie noiose. Il mio disagio è per me occasione di non annoiarmi mai». Ma la sofferenza segna anche la sua rinascita come artista. Ritorna in [25]
pubblico. Alla sua attività di pianista alterna quella di direttore d’orchestra, alla guida dell’organico della Fenice di Venezia e del Comunale di Bologna. La malattia non gli impedisce inizialmente di continuare a suonare, comporre e dirigere. Dal 2015 ricomincia una intensa attività concertistica alla testa di alcune delle migliori orchestre italiane e internazionali nella riconquistata veste di direttore d’orchestra; inoltre riprende la sua attività di solista in un crescendo che porta oltre 100.000 spettatori nei migliori teatri con il suo recital per solo pianoforte considerata la tournée di musica classica più importante della storia italiana. Negli ultimi anni viene nominato Direttore Stabile Residente del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste e fonda la sua orchestra, la StradivariFestival Chamber Orchestra (poi ribattezzata Europe Philharmonic), a riprova dell’inesauribile amore per la musica che lo anima anche nei momenti di più acuta difficoltà.
Nel settembre 2019 è costretto alla cessazione dell'attività di pianista, avendo la malattia compromesso l'uso delle mani: le sue dita non rispondevano più bene, i dolori a forzarle sui tasti si erano fatti insopportabili. Niente più piano ma prosegue con la sua orchestra con cui tiene le ultime trionfali serate all’insegna di Beethoven e Strauss al Conservatorio di Milano per la Società dei Concerti. Il fisico è già molto provato, eppure l’uomo è indomito. Appena veniva issato dalla sua carrozzina al predellino del direttore, Bosso si trasformava: alzava la bacchetta e accendeva la musica dando davvero tutto se stesso. Assistere a un suo concerto, o anche a una sua prova, era un’esperienza emozionante perché ci si rendeva conto di quanto amore lui trasmettesse ai suoi musicisti, senza concedersi pause, senza mai accontentarsi, senza smettere anche quando era chiaramente esausto.
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Nonostante l’infermità progressiva, Bosso comunque non abbandona mai il mondo della musica, trovando in esso nuova linfa e una costante fonte di ispirazione. Memorabile la serata-evento Rai3 “Che Storia è la Musica”, che l’ha visto nel triplice ruolo di autore, conduttore e direttore d’orchestra: ha letteralmente rivoluzionato la storia della divulgazione musicale in TV con ascolti superiori al milione di media e ne ha definitivamente sancito il ruolo centrale nel panorama classico, ruolo ribadito dal clamoroso tutto esaurito a 14.000 presenze per il suo debutto in Arena di Verona coi Carmina Burana nell’agosto 2019. Il Maestro è morto il 15 maggio 2020 all’età di 48 anni, nella sua casa di Bologna a causa dell'aggravarsi della malattia neurodegenerativa e della recrudescenza del cancro cerebrale che lo costringeva a lunghi periodi di sosta per le terapie. Eppure, nonostante tutti questi mali, Ezio non si è mai arreso. Ha continuato a combattere fino alla fine con il coraggio di un leone. La musica, la sua passione più grande, la sua ragione di vita, l’aveva anzi spinto a sfide sempre più grandi. A trasformare ogni sconfitta del corpo in una rinascita dello spirito. LE SUE COMPOSIZIONI Ezio Bosso ci ha lasciato una produzione compositiva di ragguardevole ampiezza: 5 opere, 15 balletti, 18 musiche di scena, 5 sinfonie, 33 lavori per orchestra, 15 pezzi per due strumenti, 11 per trio, 16 quartetti, 15 per strumento solo, 18 per voce e strumenti, 6 per organico misto; inoltre 15 colonne sonore tra cui per i film di Gabriele Salvatores “Io non ho paura” (2003), “Quo vadis, baby?” (2005), e “Il ragazzo invisibile” (2014): composizioni che hanno ricevuto la nomination ai David di Donatello. LE SUE FRASI PIÙ BELLE Ezio Bosso ha incantato gli italiani per la sua musica, ma anche per la dignità con cui ha affrontato la malattia neurodegenerativa che lo ha colpito e il modo in cui l’ha raccontata, senza dimenticare il suo primo amore: la musica.
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Il tempo è un pozzo nero. E la magia che abbiamo in mano noi musicisti è quella di stare nel tempo, di dilatare il tempo, di rubare il tempo. La musica, tra le tante cose belle che offre, ha la caratteristica di essere non un prodotto commerciale, ma tempo condiviso. E quindi in questo senso il tempo come noi lo intendiamo non esiste più. La musica è una fortuna ed è la nostra vera terapia. La malattia non è la mia identità, è più una questione estetica. Ha cambiato i miei ritmi, la mia vita. Ogni tanto "evaporo". Ma non ho paura che mi tolga la musica, perché lo ha già fatto. La cosa peggiore che possa fare è tenermi fermo. Ogni giorno che c'è, c'è. E il passato va lasciato a qualcun altro.
La musica ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare. Stanza è una parola importante nella vita degli uomini, ma spesso è data per scontata. Eppure nel linguaggio vuol dire tanto, vuol dire poesia, canzone, libertà, affermarsi. Vuol dire persino costruire. Scrivo perché interpreto, interpreto perché scrivo. E affronto la mia musica come se non fosse mia. Affronto come interprete il compositore. Ho smesso di domandarmi perché. Ogni problema è un'opportunità. DISCOGRAFIA Autori vari – The 12th Room Ezio Bosso, pianoforte. Sony Classical Questo è il suo album d'esordio, vincitore del Disco d’oro con oltre 50.000 copie vendute. [28]
Questo CD contiene composizioni dello stesso Maestro ma anche di altri Autori (Bach, Chopin, Gluck), un mix sapiente di brani “classici” e brani originali di Bosso di una sublime delicatezza. Lascio presentare questo album al Maestro stesso. “Si dice che la vita sia composta da 12 stanze. 12 stanze in cui lasceremo qualcosa di noi che ci ricorderanno. Nessuno può ricordare la prima stanza dove è stato, ma pare che questo accada nell’ultima che raggiungeremo. I brani, come sempre nelle mie scelte, rappresentano un piccolo percorso meta-narrativo. Quelli di repertorio rivelano anche da dove provengo, dove si trovano le radici della musica che scrivo. Rivelano i due musicisti che convivono in me: il compositore e l’interprete. Soprattutto sono storie di stanze. Stanze a cui appartengo o che appartengono alla mia esperienza, o semplicemente che appartengono alla storia delle stanze stesse. Alcuni sono i brani che mi hanno aiutato a tornare a studiare, a uscire dalla “stanza”, quelli con cui ricomincio a studiare. Altri sono brani dedicati ad altri compositori, a storie di stanze, o concepiti da esperienze avute con loro stesse. Ma alla fine, come sempre, è quella storia che non puoi raccontare. Forse seguendola vi riconoscerete o vedrete che tipo di storia era. Perché per me, se racconti una storia la cambi ed è anche per questo che esiste la musica. Per farcele vivere, le storie. Io posso solo provare a dare gli elementi […] per fare avere all’ascoltatore l’esperienza di sentirsi quasi dentro il pianoforte, come fosse il pianoforte stesso una stanza in cui entrare.” Bosso suona al pianoforte con tanta leggerezza e passione, questo CD trasuda amore, competenza, sensibilità. Musica straordinaria. Atmosfere bellissime che confermano l'originalità di questo artista. Da ascoltare e riascoltare.
Ezio Bosso - …a d the thi gs that e ai Ezio Bosso, pianoforte. Sony Classical
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2004 to the p ese t da
Questo cofanetto contiene due cd ed un dvd oltre ad un libretto interno con i dettagli dei brani, alcune foto di Ezio ed un suo commento al lavoro. E’ un'antologia che raccoglie i momenti più indicativi della produzione del Bosso interprete e compositore, che riesce a illuminare molti dei numerosi lati di questo poliedrico artista. Le composizioni originali di Ezio Bosso presentano una infinità di sfumature in tutti i brani che sono già di per sé di livello eccezionale; grazie all'immenso potere evocativo dei suoni, ognuno di essi porta l’ascoltatore in un mondo di musica “assoluta”.
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Il dvd allegato documenta tale ricchezza artistica anche sotto il punto di vista visivo, caratterizzando con una forte componente gestuale e fisica un comparto musicale di per sé estremamente empatico e suggestivo.
Ezio Bosso – The Venice Concert Sergej Krilov, violino. Orchestra Filarmonica della Fenice, dir. Ezio Bosso. Sony Classical Concerto da ascoltare ad occhi chiusi. Favoloso. Bosso non sbaglia mai, è divino come persona, pianista, compositore e direttore d'orchestra. Un grande album: bella musica interpretata magnificamente, classica e contemporanea. A rendere il tutto più fantastico è il dvd che dà l’opportunità di vederlo dirigere, consentendo di godere il lavoro combinato del direttore e dei musicisti in un teatro incomparabile. Un piacere ascoltare e vedere! AA.VV. (Ezio Bosso, Benedetto Marcello, Johann Sebastian Bach, Piotr Ilijc Tschaikowskij, John Cage) StradivariFestival Chamber Orchestra, dir. Ezio Bosso. Sony Classical Anche questo doppio Cd del 2018 regala emozioni davvero intense. Interessante combinazione di opere, registrate con gusto squisito, che non lasceranno nessuno indifferente. Immenso, professionale e originale, come l'artista stesso.
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Il Maestro scrive nelle note di essere grato alla musica perché da lei non si smette mai di imparare e scoprire.
AA.VV. (Arvo Part, Johann Sebastian Bach, Oliver Messiaen, Ludwig van Bethove, Ezio Bosso – The Roots (A tale sonata) Ezio Bosso (pianoforte), Relya Lukic (violoncello). Sony Classical Questo album per pianoforte, con Relya Lukic al violoncello, raccoglie brani di Pärt, Bach, Messiaen, Beethoven e le inedite “Bagatelle No.3” per piano solo e la Sonata per violoncello e pianoforte “The Roots (A Tale Sonata)”. Disco molto impegnativo da ascoltare, i brani sono molto tristi e toccanti. Un album meraviglioso, con musica intensa e profonda. Musica che ci commuove per la sua bellezza. Violoncello e pianoforte in perfetta armonia, raggiungendo una grande espressività. Essenziale per qualsiasi amante della musica. Questa è l’ultima incisione di Bosso nelle vesti di pianista esecutore. E’ un dolore sapere di non poter più avere altre sue nuove registrazioni, ma questo lascito è forse il miglior lavoro possibile con cui poteva salutare il pianoforte in sala di registrazione, un'opera come sempre complessa e commovente, che dialoga profondamente con la vera essenza dell'essere umano: le sue radici. Apprezzati anche gli scritti che accompagnano i suoi dischi che raccontano il mondo di questo artista.
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Grazie, Claudio! Vari interpreti. European Union Youth Orchestra; Europa Philharmonic Orchestra, dir. Ezio Bosso. Sony Classical Il 20 Gennaio 2019 cinquanta musicisti dalle migliori orchestre di tutto il mondo, alcuni veri e propri caposaldi del percorso abbadiano, risposero alla chiamata di Ezio Bosso e dell’associazione Mozart14 di Alessandra Abbado per unirsi a giovani talenti della European Union Youth Orchestra e agli amici della Europa Philharmonic Orchestra fondata dal Maestro Bosso, in una grande orchestra senza nome per ricordare in musica e amicizia i cinque anni dalla scomparsa del grande Maestro milanese nell’auditorium Manzoni di Bologna, sua ultima sede. Un evento unico nel suo genere che, nel totale rispetto dei principi abbadiani, lo ricordò con gioia, senza retorica, col piacere di ritrovarsi dopo lunghe carriere spesso distanti, omaggiandolo prima di tutto con quella qualità assoluta che egli ha sempre chiesto ai suoi musicisti. Keith Pascoe, Etienne Abelin, Jörg Winkler, Luca Franzetti, Jacques Zoon sono solo alcuni dei nomi che, da prime parti, parteciparono al grande concerto evento di Bologna, sotto la bacchetta di Ezio Bosso. E molti di loro oggi fanno parte a tutti gli effetti della grande comunità aperta detta Europa Philharmonic Orchestra, vera incarnazione dei principi etici, culturali e musicali di Bosso, Il concerto bolognese fu sold out sin dalle prove aperte e, incentrato su un repertorio pienamente condiviso con tutti i musicisti, com’è consuetudine di Bosso, si configura, allora come oggi, come un vero omaggio corale di tantissimi professionisti ad una stagione musicale che vide l’Italia in primissimo piano nel panorama culturale europeo. Un programma dunque perfetto per carezzare la memoria di Abbado e un inedito e divertente Pierino colorato da un tocco di borbonica ironia nella voce sorridente di Silvio Orlando al suo esordio in questo ruolo narrante.
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Il mio addio al Maestro Si è tanto parlato di Ezio Bosso dopo la sua morte, ed è difficile dire cose nuove per celebrare un uomo che già tutti hanno celebrato. Ma poi mi sono detto che non voglio scriverne per cantare le sue lodi, ma per cercare di capire cosa lo ha reso speciale e per imitare il suo modo di porsi nei confronti della vita, fino a far mia la certezza che esiste qualcosa di più grande della sofferenza e della malattia. Mi sono laureato in Medicina quasi mezzo secolo fa e anche se non lavoro più resto medico per tutta la vita, e la sofferenza e le malattie degli altri (ma anche le mie) non passano indenni nella mia mente, specialmente ora che il tempo mi sembra passare velocissimo tra le dita delle mani e avverto sempre di più la precarietà dell’esistenza. Sono corso a guardare le sue interviste e i suoi concerti, e ho rivisto anche quella serata del 2016 quando vidi il maestro Ezio Bosso fare il suo ingresso sul palco dell’Ariston, ospite del Festival di Sanremo: allora la mia prima reazione fu di insofferenza, non nei suoi confronti, ma verso la Televisione pubblica, che credevo stesse sfruttando il suo handicap per suscitare facili sentimenti di compassione e produrre incrementi di ascolti. Avevo conosciuto di fama Bosso tanti anni fa quando dirigeva la LSO e poi l’avevo perso di vista. Non conoscevo la sua malattia ed evidentemente non conoscevo neanche l’uomo: ero caduto nella trappola del pregiudizio, che il Maestro ha invece sempre combattuto fino alla morte. Poi Ezio ha iniziato a raccontare a fatica di sé, della musica, ha commentato ed eseguito la sua “Following a bird”, gettandosi letteralmente
sul pianoforte prima dell’esecuzione in modo
scoordinato, come preso da uno spasmo, salvo poi eseguire il brano con una delicatezza unica. E’ stata una vera trasfigurazione. Invito tutti a rivederlo, lo trovate in rete.
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Innanzitutto vedere un uomo che fa una sincera professione di felicità colpisce, fa invidia (anche se non fa notizia). Vedere un uomo con una malattia neurodegenerativa gravissima sorridere, anche con gli occhi, in modo incontenibile, commuove. “Ho avuto una vita meravigliosa”, lo ripeteva sempre, nella gioia e nel dolore. Eppure alla domanda: “Sei felice?” lui rispondeva: “Non te lo so dire, ma di sicuro tengo stretti i momenti di felicità. Li vivo fino in fondo, fino alle lacrime, perché saranno quelli a salvarti nei momenti bui”.
A fargli vivere quei “momenti di felicità” è stata sicuramente la musica: “La musica che scrivo non è mia, ma diventa di chi la suona quando la suona, di chi la ascolta quando la ascolta… Si può fare musica solo in un modo: insieme, perché è un atto d’amore”. Diceva che la musica è sacrificio, nel senso mistico della parola, rendere sacro ciò che si tocca: “La musica purifica la realtà, ci avvicina al mistero di cui già partecipiamo, facendoci sentire parte di un disegno più grande, non controllabile. È la rappresentazione divina nelle mani degli uomini”. E’ sbagliato pensare che la sua malattia non abbia influito sul suo modo di dirigere, di comporre o di suonare. Come il grande e indimenticabile Claudio Abbado, ormai anziano e prossimo alla fine, anche Bosso diede ai suoi ultimi concerti uno struggimento unico; chiunque l’abbia visto suonare o dirigere un’orchestra rimaneva a bocca aperta perché vedeva un uomo appassionato, che non si risparmiava per paura della sofferenza. Addio Maestro, da parte di noi tutti che amiamo la Musica, addio senza enfasi e senza compassione, proprio come Tu avresti voluto! [34]
Quando Beethoven inventò il jazz Per ricordare i 250 anni dalla nascita di Beethoven, avvenuta a Bonn il 16 dicembre 1770 , ho pensato di parlare in questo numero del suo ultimo miracolo compositivo ovvero l’anticipazione – da parte di un uomo non più giovane e ormai sordo – dei ritmi del jazz, del
boogie-voogie
e del
ragtime,
musiche che
nasceranno un secolo dopo. Voglio parlarvi della Sonata n° 32 op. 111 in do minore che chiude la serie delle sonate per pianoforte, e può dirsi delle intero corpus pianistico, insieme alle Variazioni Diabelli in do maggiore op. 120 (1823) e alle due raccolte di Bagatelle op. 119 (1822) e op. 126 (1824). La sonata fu composta intorno al 1821-22 e venne dedicata al suo allievo e mecenate l’arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena. La prima stesura del primo tempo si trova oggi nella casa di Beethoven a Bonn, mentre l’intera sonata in bella copia è conservata nella Deutsche Staatsbibliothek di Berlino. Nell’autografo della prima stesura è drammaticamente evidente la fatica affrontata da Beethoven nella composizione: per nessun’altra sonata ci è giunto un autografo così disseminato di cancellature e pieno di buchi cartacei in seguito alle raschiature.
STRUTTURA DELLA COMPOSIZIONE L'opera è formata da due soli movimenti, quasi l’incarnazione di due principi contrapposti: una violenta tensione cui segue una sublime meditazione. Come si vede Beethoven si discosta dalla struttura della sonata classica, articolata in quattro movimenti (Allegro – Adagio – Minuetto/Scherzo – Rondò). A chi gli chiedeva come mai avesse scritto solo due movimenti, Beethoven rispondeva ironicamente che non aveva avuto tempo di scrivere altro.
GUIDA ALL’ASCOLTO I. Maestoso - Allegro con brio ed appassionato. Il primo movimento, Maestoso, in do minore, viene aperto da un'introduzione di grave severità e densissima tensione armonica. Il primo tema del movimento, che appare dopo l’introduzione, presenta una fitta rete contrappuntistica e presenta rapidi mutamenti dinamici (con a volte battute in pianissimo), trilli ed arpeggi.
Il secondo tema principale, quello dell’Allegro con brio e
appassionato, sembra nascere dalla profondità sonora del tema che lo ha preceduto. Il tema è schematico, ma la sua potenza espressiva è pari alla sua elementare semplicità, impronta la pagina del suo carattere severo e impetuoso, e si snoda quasi come una fuga. [35]
Dopo aver percorso la ripresa del tema in altra tonalità rispetto alle battute iniziali, si giunge ad una coda denotata da caratteri di dolcezza e serenità che pare distaccarsi dal carattere impetuoso e aggressivo iniziale.
II. Arietta: Adagio molto semplice e cantabile. Vero cuore della Sonata è però l'Arietta con variazioni, rispetto alla quale l'Allegro con brio appassionato costituisce un vasto preambolo. Il tema in do maggiore del secondo movimento della sonata, chiaro e lineare, è di grande semplicità nella sua enunciazione. Da questo materiale tematico Beethoven elabora cinque variazioni con coda, di bellezza rara. La purezza dell’espressione lirica è evidente, quasi palpabile fisicamente, ha i caratteri dell’anima universale. Egli apre le strade a nuove sonorità, a una differente scrittura pianistica, a pensieri trascendentali, ci conduce verso nuovi mondi, fluttuanti, celestiali.
In tutto questo, una variazione sorprendente posta al centro dell’Arietta: Beethoven scrive alcuni passaggi sincopati e in controtempo che appaiono come un presagio della musica del futuro, quasi jazz, o ragtime, o boogie-woogie. Certamente Beethoven sprigiona qui un’energia e una creatività che gli permettono di anticipare i tempi di molti anni. Nella quinta e ultima variazione il tema torna nella limpida forma originaria, ma rivestito di trilli e atmosfere fluttuanti che gli attribuiscono una connotazione sublimata. In questo momento di tenero congedo, anche l'aspetto melodico del tema subisce una variazione, appena percepibile, eppure di grande effetto espressivo: il motivo originale re-sol-sol viene fatto precedere dall'appoggiatura di due note ornamentali, do e do diesis. Si tratta di un particolare minimo, ma che accresce di infinita tenerezza l'innocenza assoluta di questa finale contemplazione del suono: sembra quasi che il vertiginoso viaggio attraverso le variazioni sia servito soltanto a conquistare alla religiosa purezza dell'Arietta quelle due note, che ne rendono la melodia ancor più immensamente umana. Nei trilli finali, la sonata ascende verso il cielo, verso quel Dio che Beethoven amava e odiava, perché “mi urla la sua musica nella testa, e mi vieta di sentirla”, per non fare più ritorno. [36]
Nessuna indagine critica riuscirà a restituire la grandezza umanistica di questa pagina beethoveniana come ha saputo fare l'arte di Thomas Mann nel Doktor Faustus: «Questo do diesis aggiunto è l'atto più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa dare. È come una carezza dolorosamente amorosa sui capelli, su una guancia, un ultimo sguardo negli occhi, quieto e profondo. È la benedizione dell'oggetto, è la frase terribilmente inseguita e umanizzata in modo che travolge e scende nel cuore di chi ascolta come un addio, un addio per sempre, cosi dolce che gli occhi si riempiono di lacrime».
DISCOGRAFIA Nel numero 3 della Rivista del Gennaio 2018, ho già fatto un’ampia disanima delle integrali delle Sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven, e a queste vi demando. Mi sento attualmente di consigliare questo CD della Deutsche Grammophon (anche in edizione vinile): Beethoven: The last three sonatas (op.109-111) con il Maestro Maurizio Pollini, che 42 anni dopo la prima registrazione in studio di questi capolavori e con la fantastica acustica dell'Herkulessaal al Residence di Monaco, è tornato esattamente nello stesso posto per incidere ancora una volta il testamento pianistico di Beethoven: questa nuova registrazione contiene tutti gli elementi che sottolineano la sua forte affinità con gli esperimenti espressivi del genio tedesco.
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Maria Veniaminovna Yudina La pianista sovietica Maria Veniaminovna Yudina nacque il 9 settembre 1899 a Nevel, una cittadina della Russia occidentale, situata a breve distanza dalla frontiera con la Bielorussia, da una famiglia di origini ebraiche. Studiò presso il Conservatorio di San Pietroburgo sotto la guida del maestro Leonid Nikolaev. A dodici anni era già artista completa. Leggeva avidamente Platone, Agostino, Tommaso d’Aquino, si appassionava ai poeti simbolisti, studiava arti figurative, architettura, teatro, filologia, storia. Al suo cospetto i colleghi Richter, Gilels, Sofronitskij tremavano come ragazzini. «Le sue dita sono artigli d’aquila», esclamò un ammirato Shostakovich. Anche Prokofiev ne fu sbalordito. «Suonare per me è un avvenimento interiore», testimoniava la giovane Yudina, donna inquieta, inappagata, sempre in ricerca. «Non m’interessano la fama o la tranquillità. Al centro della mia vita c’è la ricerca della verità. Devo inoltrarmi nella mia vocazione, alla ricerca di un’illuminazione che mi sorprenderà», riassumeva così il suo pensiero. Questa sua tormentosa ricerca approderà alla fine alla fede cristiana ortodossa. Convertitasi all’età di vent’anni, non volle sposarsi per dare tutto il suo impegno alla musica ed alla difesa dei valori religiosi: considerava la sua musica un'espressione di fede. Sfidò l'ateismo imposto dallo Stato sovietico e le scelte antireligiose del regime, e coraggiosamente indossava una croce mentre si esibiva. Per questa sua religiosità
ebbe una particolare dialettica con
Shostakovich [nella foto assieme alla Judina]. Il compositore e la Yudina si conoscevano bene, avevano studiato assieme al Conservatorio di Pietrogrado: lui la ammirava pur considerandola un po’ stravagante, discutevano spesso dei valori religiosi, lei tentando inutilmente di convertire lui ateo convinto. Per la sua appartenenza all’avanguardia musicale (anche questa fieramente condannata dal regime) e per le sue convinzioni religiose venne espulsa dal Conservatorio di Leningrado. Maria si trasferì quindi a Mosca, dove faticava perfino a pagarsi l’affitto e riusciva a malapena a noleggiare un pianoforte. Fu costretta ad insegnare all’Istituto Gnessin pianoforte e canto. Nonostante le difficoltà economiche, comunque cercava di aiutare tutti, pagava visite mediche agli amici indigenti, difendeva i perseguitati dal regime. Shostakovich raccontava che ella dava tutti i suoi soldi alla Chiesa perché aiutasse i poveri, rinunciando anche al riscaldamento nel suo appartamento durante il rigido inverno russo. [38]
Quando teneva concerti, affiggeva avvisi di questo tipo: «Suonerò nella tale città. Posso portare pacchi di un chilo massimo l’uno». Poi recapitava i vari pacchi agli sconosciuti destinatari, fino all’ultimo. Sempre fiera avversaria delle censure del regime, volle nei suoi ultimi concerti negli anni Sessanta, come solidarietà verso il proscritto Boris Pasternak recitarne delle poesie. Intellettuale meditativa e agguerrita, tenne corrispondenza con tutti i più influenti compositori a lei contemporanei, si prodigò eseguendo autori ignorati o proscritti in Unione Sovietica: da Stravinskij (che durante la visita di riconciliazione dell’illustre compositore in patria nel 1962 volle riceverlo in scarpe da tennis, per sottolineare in che modo viveva l’avanguardia in Russia) a Krenek, da Bartok a Hindemith, fino a Jolivet e Shaporin.
[Igor Stravinskij e Maria Yudina alla mostra "Igor Stravinsky: vita e creatività". Leningrado, House of Composers. 6 ottobre 1962.] Non
nascose
neppure
amicizie
pericolose (oltre a Pasternak, padre Pavel Florenskij, la poetessa Marina Cvetaeva, il monaco Feodor Andreev), ma fortunosamente evitò sempre la reclusione. Neri capelli lisci, occhi che mandavano bagliori, lunghi abiti scuri un po’ trasandati, così si presentava ai suoi affollatissimi concerti: aveva un enorme seguito di pubblico perché ascoltarla dal vivo pare fosse sempre un’esperienza. Il pubblico l’amava profondamente, non voleva andarsene nemmeno dopo l’ennesimo bis. Alla fine Maria rientrava in scena e recitava, tra uragani di applausi, poesie dei “suoi” autori proibiti. [39]
Questo atteggiamento però contrastava con le disposizioni della dittatura russa, che – nonostante la pianista avesse raggiunto fama mondiale e ricevesse inviti da tutta Europa - la osteggiò e non l’autorizzò mai a lasciare il Paese: la sua unica tournée all’estero si tenne in Polonia con una puntata nella DDR. «Ostenta la sua religione», questa era l’accusa. Della Yudina è noto un famoso episodio che coinvolse lei e Stalin. Una sera Stalin ascoltò alla radio il concerto per pianoforte n° 23 K 488 di Mozart, dal secondo tempo (Adagio) doloroso e meraviglioso, suonato dalla Yudina.
Al
leader
piacque
così
tanto
che
immediatamente telefonò alla direzione della stazione radio per avere una copia dello spettacolo. Gli dissero che glielo mandavano, ma sfortunatamente per la stazione radio, era stata una trasmissione in diretta e non c'era nessuna registrazione. Ma nessuno osò dirlo a Joseph Stalin. Maria Yudina venne convocata d’urgenza nel cuore della notte, l’orchestra venne subito approntata, due direttori, terrorizzati dall’idea che la registrazione non soddisfacesse Stalin e che questi si accorgesse che non era il concerto che aveva ascoltato alla radio, declinarono l’invito, solo un terzo accettò. Yudina rimase serenamente calma. In una notte la registrazione venne completata, il disco confezionato in pochi esemplari e recapitato all’illustre ammiratore. Fortunatamente per tutti gli interessati, Stalin non fu in grado di distinguerlo dalla trasmissione che aveva sentito. Si narra che il dittatore russo sarebbe scoppiato in lacrime, commosso, fin dalle prime note dell'ascolto dell'esecuzione. Dopo breve tempo la Yudina si vide premiata con il premio Stalin e con 20.000 rubli. Come risposta, Maria scrisse questa lettera, citata a memoria da Shostakovitch, secondo il quale la Yudina non mentiva mai: “Vi ringrazio, Josip Visarionovich, per il vostro aiuto. Pregherò per voi giorno e notte, chiedendo al Signore di perdonare i grandi peccati che avete commesso nei confronti del popolo e del paese. Il Signore è misericordioso e vi perdonerà. Il denaro l’ho dato alla chiesa che frequento.” Se si considera che al tempo la chiesa era un'istituzione fuorilegge e che si stava rivolgendo direttamente alla massima autorità sovietica, appare straordinario, inspiegabile e in qualche modo miracoloso che la Yudina non abbia avuto conseguenze negative per la sua persona. Stalin lesse la lettera, non disse nulla e la mise da parte. Il disco con il K 488 suonato dalla Yudina era sul giradischi di Stalin quando il dittatore fu trovato morto nella sua dacia, il 5 Marzo del 1953. Era stata l’ultima musica che Stalin aveva ascoltato. Maria Yudina morì a Mosca il 19 novembre 1970 all'età di 71 anni, per i postumi di un incidente stradale. Venne seppellita al Cimitero Vvedenskoe di Mosca e da allora la sua tomba è continua meta di pellegrinaggio. [40]
L’arte di Maria Yudina
Anche se musicalmente Maria Yudina è conosciuta soprattutto per le sue interpretazioni di Johann Sebastian Bach e Ludwig van Beethoven, la sua figura in campo musicale è quella di un’appassionata promotrice della musica contemporanea, tra cui quella di Shostakovich. Il suo stile è caratterizzato da uno spregiudicato virtuosismo, marcata spiritualità e una spiccata forza che la rende quasi mascolina; virtuosismo, scatto, elettricità, bellezza del suono, un’eccezionalità umana più grandi del suo mito. Prodigio di perfezione e di poesia. Una pianista straordinaria. Alcuni conoscitori ne tramandano giudizi entusiasti. Una certezza: fu la più grande pianista russa di tutti i tempi: la sua tecnica fu considerata insuperabile da Richter, che si diceva intimidito da lei, e la originalità e profondità di interpretazione la rendevano un mito. La maggior parte delle sue registrazioni su LP pubblicate in Russia sono ancora oggi molto difficili da trovare. Discografia Autori vari The art of Maria Yudina Maria Yudina, I. Evgarov, Beethoven Quartet Scribendum
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La benemerita etichetta Scribendum ha ristampato introvabili dischi Melodyia in un corposo box di 26 CD, comprendente una buona parte delle incisioni reperibili di questa pianista straordinaria, donna battagliera e fuori dal comune sotto ogni rispetto. Il cofanetto si apre con Bach del quale la Yudina è stata una delle più grandi interpreti di tutti i tempi. La cromatica Fantasia e Fuga è interpretata in modo mozzafiato. Anche le Goldberg rappresentano un momento altissimo. Versione integralie di tutti i ritornelli, la Yudina riesce a farne un monumento di vitale baldanza e di lirico abbandono, anche se il tono rimane sostenuto ed epicheggiante per quasi tutto il disco, niente scivolamenti simbolisti nelle variazioni più intimiste: sono delle Goldberg quasi rivedute con gli occhiali del cubofuturismo, spigolose e vigorose. E’ presente anche una buona scelta dal Clavicembalo ben temperato e altri vari pezzi. Del suo Beethoven presente con diverse sonate e variazioni sono assolutamente da ascoltare le Variazioni Diabelli e l’Hammerklavier, vertici acuminatissimi di talento interpretativo. Sorprendenti le due esecuzioni dell’ultima sonata di Schubert che anticipano, nella enorme dilatazione dei tempi, specie nel primo movimento, le desolate esecuzioni di Richter: che ne sia stato influenzato? Ma la parte certamente più succulenta del cofanetto sono le puntate sul Novecento. Stravinskij è molto presente ed eseguito splendidamente; una Seconda Sonata di Shostakovich di riferimento; ma soprattutto darei rilevanza alla esecuzione inarrivabile della Seconda Sonata di Krenek. Sonata che rappresenta di suo un incubo berghiano, con striature di ritmi che sanno già di jazz, fino all’ebbrezza del finale, suonato in modo frenetico dionisiaco con uno slancio e una sonorità lancinanti. Non mancano i russi nell’enorme repertorio della pianista, da segnalare ovviamente Mussorgskij i cui Quadri d’un’esposizione sono di assoluto riferimento, pur nello sterminato panorama delle incisioni di questo celebre polittico. L’esecuzione della Yudina si distingue per chiarezza dei dettagli e per alcune caratterizzazioni (come per esempio in Bydlo) che trovano la risonanza dell’anima russa più profonda, eredità del contatto con il folklore musicale vissuto direttamente dalla musicista. La qualità del suono non è la migliore, quindi attenzione: microfoni e attrezzature sovietiche. Ma tollerabile.
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Le Sinfonie di Gustav Mahler
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Gustav Mahler: Sinfonia n° 3 in re minore Nel giugno del 1894 il signor Lesch, capomastro del villaggio di Steinbach sull'Attersee - un lago del Land dell'Alta Austria -, consegnava ai fratelli Gustav e Otto Mahler una costruzione che gli era stata commissionata da loro l'anno precedente. Appena sei metri per sei, con sole tre finestre più l'ineluttabile porta d'ingresso, immersa in un panorama di prati, lago e solitudine che piacquero immediatamente a Gustav mentre Otto, perplesso, ripartiva quasi subito.
La quiete e la natura erano, infatti, l'ideale per il lavoro creativo di Mahler, un rifugio estivo dal massacrante mestiere invernale di Kapellmeister che in quel periodo svolgeva ad Amburgo, punteggiato dagli scontri con la direzione del teatro, le maestranze e gli artisti, e condito da sotterfugi, meschinità, corruzione e tutto ciò che può fiorire dietro un palcoscenico. Così in quello spazio ristretto che lui affettuosamente chiamò "Schnützelputz-Häusel", piccola casina bella, il compositore boemo portò a compimento in quello stesso 1894 la Seconda Sinfonia e nei due anni successivi vi compose anche la Terza. Ancor prima di completare la Seconda Sinfonia, Mahler cominciò ad immaginare un nuovo progetto sinfonico. La stesura della Prima Sinfonia lo aveva impegnato per un periodo di quattro anni (1884-1888), cui erano seguiti però altri sei anni di ripensamenti e correzioni; mentre la Seconda Sinfonia aveva avuto una gestazione anche più tormentata, nei sei anni compresi fra il 1888 e il 1894. La concezione del terzo dei suoi lavori sinfonici invece tenne impegnato il compositore per un periodo assai più limitato: a parte qualche appunto dell'estate 1893, la piena realizzazione della stesura comprese solamente le due estati del 1895 e del 1896, trascorse in villeggiatura proprio nella baita di Steinbach. Era questa infatti l'unica [44]
stagione in cui Mahler era libero di comporre, dati i suoi grandi impegni durante quegli anni: la direzione di uno dei teatri più illustri della Germania, quello di Amburgo, alla guida del quale Mahler consolidò la propria fama di direttore carismatico per le capacità tecniche ed espressive nonché artista innovativo per le scelte musicali. Dal serrato lavoro di quelle due villeggiature nacque una delle partiture sinfoniche più sterminate e complesse mai scritte, che supera l'ora e mezza di durata e che a una grande orchestra aggiunge un contralto solista, un coro femminile e un coro di voci bianche. Mahler progettò il piano della partitura inizialmente in sette movimenti. La nuova Sinfonia avrebbe dovuto concludersi con il Lied Das himmlische Leben (La vita celestiale), composto nel 1892 su una lirica dell'antologia Des Knaben Wunderhorn (II corno magico del fanciullo); Mahler invece successvamente decise di usarla come conclusione della Sinfonia n° 4. Di questa, viceversa, avrebbe dovuto far parte un altro Lied, Es sungen drei Engel (Cantavano tre angeli), su testi tratti dalla medesima antologia di Achim von Armin e Clemens Brentano, che invece venne spostato nella Terza. Il 6 agosto 1896 Mahler scrisse la parola fine sulla partitura. L’impegno richiesto per l'esecuzione della sinfonia ne ritardò la presentazione al pubblico, che avvenne - dopo alcune prove parziali - solamente il 9 giugno 1902, a Krefeld, al Festival della "Società musicale tedesca”, sotto la direzione dell'autore. Alma Mahler, nel suo libro di ricordi, racconta così l'avvenimento: «L'esecuzione era aspettata con trepidazione, perché già alle prove tutti avevano capito con sempre maggior chiarezza quant'era grande e importante l'opera che si stava affacciando al mondo. Dopo il primo tempo scoppiò una manifestazione entusiastica. Richard Strauss si fece avanti sotto il podio e applaudì ostentatamente, tanto che suggellò, per così dire, il successo. E, dopo ogni tempo, gli ascoltatori sembravano più emozionati; anzi, alla fine nel pubblico, che si era alzato in massa e premeva verso il podio, si scatenò un vero delirio.» La struttura sinfonica Con la Terza Sinfonia l'orchestra di Mahler raggiunge dimensioni ipertrofiche (quattro flauti con due ottavini, quattro oboi con corni inglese, cinque clarinetti, quattro fagotti, otto corni, quattro trombe, quattro tromboni, basso tuba, due arpe, percussioni e archi); la stessa forma sinfonica arriva al numero, esorbitante rispetto ai consueti parametri, di sei movimenti. E’ poi particolare il fatto che la forma sinfonica della Terza, invece di nutrirsi della coerenza e della coesione di tutti i materiali, viene animata da una logica dissimile, che si avvale di materiali eterogenei e li allinea non secondo una ferrea consequenzialità, ma piuttosto secondo sbalzi. [45]
Nel programma della prima esecuzione Mahler volle mettere una didascalia per ogni movimento: "I. Pan si sveglia: arriva l'estate; II. Ciò che i fiori del prato mi dicono; III. Ciò che mi dicono gli animali del bosco; IV. Che cosa mi racconta la notte (l'uomo); V. Che cosa mi raccontano le campane del mattino (gli angeli); VI. Quello che l'amore (Dio) mi racconta". Pubblicando l'opera, Mahler le cancellò. In una lettera a Max Marschalk del 26 marzo 1896 ebbe modo di chiarire come fosse per lui «una insulsaggine inventare della musica a partire da un programma dato». Avversione, dunque, verso la musica a programma della tradizione romantica, e, nel contempo, pari distacco da una concezione della sinfonia come musica "pura", autoreferenziata. Punto di mediazione fra questi due estremi che avevano animato il dibattito culturale di tutta la seconda metà del secolo - era quello di attribuire al genere della sinfonia un percorso interiore, psicologico, che si dipanasse progressivamente da un movimento all'altro, e che si traducesse in termini puramente musicali. Il programma, in questa prospettiva, deve essere inteso come una traccia, una suggestione, per rendere più chiaro agli interlocutori e al pubblico un contenuto musicale estremamente complesso. I titoli, di conseguenza, vanno respinti - come li respinse l'autore - nel loro troppo puntuale didascalismo; eppure possono essere utili per comprendere quale fosse il percorso interiore che l'autore aveva in mente nel concepire la sinfonia. Nella sua forma definitiva la sinfonia è divisa in sei movimenti e può suddividersi in due blocchi: il primo è costituito per intero dal solo primo movimento (che raggiunge da solo i quaranta minuti); seguono senza soluzione di continuità i rimanenti cinque movimenti, i primi due strumentali, il terzo e il quarto vocali, l'ultimo nuovamente strumentale, nella forma di un lungo Adagio, per un totale di altri 60-70 minuti. La decisione alquanto insolita (il cui unico precedente confrontabile è dato dalla Patetica di Tschaikowskij, di soli tre anni anteriore) di far finire una Sinfonia con un Adagio pare senza dubbio il frutto di una necessità interiore del compositore. Etica della Terza Sinfonia Se la Prima Sinfonia indagava i rapporti fra individuo e natura e la Seconda Sinfonia procedeva dalle esequie verso la resurrezione, la Terza Sinfonia pone nuovamente al proprio centro l'idea della natura e il suo confronto con l'uomo, ma in una prospettiva nuova. Nella 3a Sinfonia Mahler intese delineare una sorta di cosmogonia, un grande poema musicale che abbracciasse tutti gli stadi dello sviluppo in ordine progressivo, procedendo a gradini dalla natura inanimata alla vita vegetale, a quella degli animali, all'uomo, e su su fino agli angeli e all'amore di Dio. Riconosciutosi parte integrante della natura accanto ai fiori di campo e agli animali del bosco, l'uomo apprende il suo destino attraverso il sentimento della morte, che porta con sé rassegnazione e dolore. [46]
Ma quando le campane del mattino, animate dal canto dei bambini che col loro Bimm-Bamm accompagnano il tenero dialogo angelico fra San Pietro e Gesù, fugano le ombre della notte e restituiscono all'uomo il senso della sua vita, ecco che allora parla l'amore; all'improvviso il vuoto si trasforma in ricchezza e la disperazione in vita: la certezza dell'esistenza dell'amore diviene qualcosa di reale nel mondo degli uomini. E la rivelazione della "gioia celeste" schiude un nuovo ciclo, una nuova esistenza, forse una nuova totalità: solo l'amore può vincere il dolore e la morte. Il 1° luglio 1896, al culmine della sua composizione, Mahler scriveva ad Anna von Mildenburg: «All'incirca potrei definire l'ultimo tempo così: "Ciò che Dio mi racconta". E precisamente proprio in quel senso che Dio infine può essere inteso solo come amore». Dio è amore: ecco la rivelazione, la mèta ideale verso la quale conduce il sentiero del lungo Adagio nel percorso tortuoso dell'intera Sinfonia. Sappiamo che Mahler pensava di concludere la Sinfonia con la rappresentazione della vita celestiale, arrestandosi però su quel limite: l'idea di una speranza. Da questo punto di non ritorno parte l'immensa arcata dell'ultimo movimento, che invece torna a evocare, con cupa drammaticità, gli spettri inquieti della notte, dove il desiderio ardente e la rinnegazione, il dubbio e la fede, si agitano in rinnovata battaglia, ricollegandosi infine, come in una giostra senza fine, all'inizio.
GUIDA ALL’ASCOLTO I Movimento: Kräftig entschieden (Forte e risoluto) E’ il più lungo movimento di tutta la storia della sinfonia, quasi una Sinfonia nella Sinfonia: fu composto per ultimo (tra l'agosto 1895 e l'agosto 1896), quando gli altri erano già compiuti o comunque largamente abbozzati. Dal punto di vista strutturale possiamo definirlo una forma-sonata: un'introduzione, che precede l'esposizione, seguita da uno sviluppo e da una ripresa, anche se questa successione presenta un notevole squilibrio, tanto che sono numerose le ipotesi su dove finisca l'introduzione e cominci l'esposizione e via dicendo; questa difficoltà di analisi è dovuta al fatto che le varie idee tematiche si succedono e si accavallano secondo una logica dell'accumulo, sfruttando continui procedimenti di dissolvenza. Questo monumentale movimento può essere considerato una grande marcia molto articolata e frammentata. L’introduzione è costituita da un tema eseguito dagli otto corni all'unisono, che verrà poi sviluppato per tutto il movimento. L’esposizione si snoda con una gigantesca marcia solenne e dal carattere funebre, contraddistinta da un suono scuro dove spiccano gli archi e i fiati gravi; quindi una seconda serie di frammenti tematici, che prendono l'avvio da una specie di corale dei flauti e in cui spicca una eterea melodia dell'oboe, ripresa successivamente dal violino e che si spengono nel nulla. [47]
Una riesposizione abbreviata dei temi principali conduce a un nuovo tema (secondo alcuni l'esposizione vera e propria), un lungo recitativo del trombone solo, che rielabora con progressiva intensità idee già esposte prima. Lo sviluppo è condotto con estrema libertà: i materiali riappaiono dilatandosi in diverse direzioni, anzi si potrebbe dire che procedano un po' anarchicamente in tutte le direzioni. I gesti musicali si fanno più ampi, ora lamentosi, ora enfatici e quindi grotteschi, per arrivare a un momento idilliaco che precede la conclusione dello sviluppo. È uno dei momenti più densi e inquietanti: il ritmo di marcia riprende, ma l'orchestra sembra afferrata da una forza tellurica e convulsa: si scatena una pazza festa musicale dalle tinte dionisiache che spinge verso il caos fino a sgretolarsi. La contrapposizione fra i due temi è tanto più evidente in quanto tra le due marce si aprono momenti di silenzio glaciale, una sequenza spettrale, enigmatica, trapuntato da un sommesso rombo delle percussioni. Alla ripresa torna la marcia funebre, stavolta conclusa da uno slancio patetico e accorato prima del trombone e poi dei violoncelli che finisce nel vuoto. Gli strumenti dell'orchestra tornano a suonare in ordine sparso, ma lentamente si compattano, sicché la marcia appare meno insubordinata e irridente, e si avvia al crescendo conclusivo più nitida nei suoi contorni. Gli archi danno quindi vita a un serrato ritmo di marcia, che incalza e aggrega i vari gruppi strumentali in una densità parossistica.
II movimento: Tempo di Menuetto. Molto misurato. Rispetto al primo complesso movimento, questo secondo movimento invece ubbidisce a un processo opposto, di distensione. Si tratta di un Tempo di Menuetto, articolato su due sezioni che tornano brillantemente variate secondo il classico schema ABAB, un andamento circolare che naturalmente richiama la forma dei fiori o la ciclicità stagionale della vita delle piante, ricordate nel titolo provvisorio dato a questo movimento. In un paesaggio meno esacerbato risuonano motivi melodici e ritmici arcaici, che ricordano le melodie delle canzoni popolari imparate nell'infanzia, e mai dismesse dal cuore. Il motivo iniziale dell'oboe pare provenire direttamente dalla campagna austriaca. Il tono generale grazioso era molto apprezzato da parte dei contemporanei di Mahler, favorendo molte sue esecuzioni disgiunte dal resto della Sinfonia, il che non piaceva troppo al compositore boemo.
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III movimento: Comodo. Scherzando.
La prima sezione di questa pagina è una rielaborazione del Lied "Ablösung im Sommer", contenuto nei Des Knaben Wunderhorn: oboe, clarinetto e flauti, sul pizzicato degli archi, aprono i dialoghi dell'alata combriccola di usignoli e cucù, ai quali segue un episodio fortemente ritmico, da robusta danza dei contadini. Vi si narra, alla maniera tipicamente feroce di questa famosa antologia di poesie popolari, della morte del cucù: chi canterà al suo posto durante l'estate? Del tutto inopinatamente, e dopo molte discussioni, viene eletto certamente il meno adatto: l'usignolo. Mahler si appropria con la sua musica di effetti come il verso del cucù, il gorgheggio dell'usignolo, il raglio dell'asino. Di qui all'invenzione veramente originale il passo è breve, come accade nel Trio dello Scherzo, preceduto da una transizione ricca di attese nella fanfara della tromba con sordina e sostenuto magicamente dall'a solo della cornetta del postiglione, strumento di larga tradizione popolare e in uso soprattutto nelle bande di paese. Nella stessa prescrizione che esso suoni da dietro il palcoscenico "con libertà e alla maniera di un postiglione", si fa evidente ciò che Mahler vuole evocare: un richiamo, un annuncio misterioso che giunga da un altro mondo, da un'altra dimensione. L'episodio della cornetta del postiglione, in assoluto
il
momento
più
emozionante
e
inafferrabile della Sinfonia, dà origine a una serie di interludi come sospesi sul vuoto, nei quali gli strumenti dell'orchestra dialogano in forma concertante, prima di riconsegnare l'appello alla solitudine e al silenzio. La dilatazione del ritmo, la fonte sonora lontana e il fraseggio più libero degli strumenti provocano un brusco cambio di atmosfera, fino a questo punto un po' campestre. È questo uno dei momenti in cui Mahler sembra rifugiarsi in un "altrove" lontano, rarefatto e nostalgico.
IV Movimento: Molto lento. Misterioso. Si giunge così al primo dei due movimenti cantati, il cosiddetto Mitternacht-Lied ("Canto della mezzanotte") dal penultimo capitolo di Also sprach Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Al di là degli interessi nietzschiani di Mahler, è verosimile che questo testo sia stato scelto per motivi che riguardano esclusivamente la sinfonia, e non il pensiero del filosofo; i versi scultorei e arcani cantano infatti la transizione dal dolore alla gioia. È questa dunque la chiave di passaggio e di volta della sinfonia, dalla sofferenza umana verso la consolazione trascendente, e la veste musicale scelta dal compositore è infallibile; su una definizione timbrica statica e rarefatta si inserisce la voce oracolare del contralto, il cui fraseggio scultoreo, insieme al continuo slittamento minore/maggiore, creano [49]
una sorta di ipnosi. Solo verso la fine della pagina (Lust, Gioia) il canto si anima in vera melodia, parallelamente all'infittirsi delle voci orchestrali, che si spengono poi nel nulla. L'arrivo della voce segna un momento cardine nello svolgimento della Terza: è una riflessione notturna sull'uomo, l'unico tra i viventi a essere dotato di una coscienza che gli permette di vedere nel "profondo" la sua condizione esistenziale (il termine "profondo" ricorre ben sette volte nella poesia), e a di capire come la gioia sia sempre intrecciata al dolore e alla sofferenza. Tre sono gli elementi musicali usati da Mahler per questo Lied: a un accompagnamento sommesso, caratterizzato dagli intervalli di tono e semitono su cui si leva il canto elegiaco, si assomma un intervallo di terza ascendente intonato per la prima volta dall'oboe: un "suono di natura" (come segna Mahler nella partitura) la cui apparizione, subito dopo la parola "mezzanotte", ricorda il verso di un uccello notturno e ha qualcosa di lamentoso e funereo. Mahler non manca di chiarire che la musica della Terza è "sempre e in ogni sua parte "suono di natura", vale a dire il celeberrimo "Naturlaut", indicazione che ricorre non solo in questa Sinfonia ma anche in altre partiture, a indicare non esclusivamente una modalità esecutiva ma atmosfere ben precise. Il terzo elemento interviene nel breve interludio tra le due strofe ed è uno slancio melodico dei violini. Fatto sta che questa melodia riappare nella linea del canto nella seconda parte alle parole "ma ogni piacere vuole eternità", mentre il violino solista fiorisce brevi risposte liriche alla voce solista. L'atmosfera è di tensione sospesa tra gli appelli funerei dei fiati e gli slanci dei violini, un'attesa che suggerisce la dimensione esistenziale cui Mahler probabilmente voleva alludere.
O Mensch! O Mensch! Gibt Acht! Gibt Acht! Was spricht die tiefe Mitternacht? Ich schlief! Ich schlief! Aus tiefem Traum bin ich erwacht! Die Welt ist tief ! Und tiefer als der Tag gedacht! O Mensch! O Mensch! Tief! Tief! Tief! ist ihr Weh! Tief ist ihrWeh! Lust, Lust tiefer noch als Herze leid! Weh spricht: Vergeh! Weh spricht: Vergeh! Doch alle Lust, Will Ewigkeit! will tiefe, tiefe Ewigkeit.
[50]
[O uomo! O uomo! Attenzione! Attenzione! Che dice la profonda notte? Io dormivo! Dormivo! Fui svegliato da un profondo sogno. Il mondo è profondo! E più profondo di quanto il giorno ricordi. O uomo! O uomo! Profondo, profondo, profondo è il suo dolore. Profondo è il suo dolore. Gioia, gioia più profonda ancora di quanto il cuore sopporti. Il dolore dice: passa! Il dolore dice: passa! ma ogni gioia vuole eternità! Vuole profonda, profonda eternità.]
V Movimento: In tempo allegro e impertinente. Con una nuova transizione espressiva, la gioia profetizzata dal testo di Nietzsche arriva nel quinto movimento, una sorta di "canto degli angeli", in cui il testo popolare tratto da Des Knaben Wunderhorn narra come l'apostolo Pietro durante l'ultima cena pianga i suoi peccati e venga invitato da Gesù a pregare e ad amare Dio, così da conseguire la gioia celeste. Il cambiamento di atmosfera è reso in partitura dall'impiego delle campane e del coro di bambini che ne imitano i rintocchi con regolari
sillabe
onomatopeiche
(Bimm-
Bamm): quasi a valorizzare gli effetti della spazialità sonora Mahler prescrive la loro collocazione in alto, mentre il coro femminile che intona col contralto solista le strofe del Lied Es sungen drei Engel è posto più in basso vicino all'orchestra. Motivi semplici e armonie delicate alleggeriscono il tono arcaico della ballata che narra, con una religiosità semplice e popolare, il pentimento di Pietro; la grazia semplice e la purezza angelica della prima sezione si mutano in canto disteso con l'intervento solistico del contralto, per concludersi, dopo la ripresa della strofa corale, in una coda nella quale le voci femminili si congiungono ai bambini nella luminosa imitazione delle "campane del mattino", segnale dell'aurora dopo il sonno della profonda notte. La critica ha talvolta sottolineato l'estrema leggerezza di questo brano, ma non la scrittura arcaica con richiami alla musica religiosa anche protestante - al contempo cristallina e dotata di una orchestrazione brillante e luminosa.
KNABERCHOR. Bimm, bamm, bimm, bamm, Bimm, bamm, bimm, bamm... [CORO DI FANCIULLI. Bimm, bamm, bimm, bamm, Bimm, bamm, bimm, bamm] FRAUENCHOR. Es sungen drei Engel einen süssens Gesang; mit Freuden es selig in dem Himmel klang, sic jauchzten fröhlich auch dabei, dass Petrus sei von Sünden frei. Und als der Herr Jesus zu Tische sass, [51]
mit seinen zwölf Jüngern das Abendmahl ass: Da sprach der Herr Jesus: Was stehst du denn hier? Wenn ich dich anseh', so weinest du mir! [CORO FEMMINILE. Tre angeli cantavano una dolce canzone; di gioia facevan risuonare il cielo, ed esultavano di felicità perché Pietro era senza peccato. E quando Gesù sedette alla tavola coi suoi dodici apostoli per l'ultima cena, così parlò Gesù: perché ancora stai qui? Quando ti guardo tu piangi per me!] ALT. Und sollt ich nicht weinen, du gütiger Gott? [CONTRALTO. E non dovrei io piangere, mio buon Dio?] FRAUENCHOR. Du sollst ja nicht weinen! Sollst ja nicht weinen! [CORO FEMMINILE. Tu non devi piangere! Non devi piangere!] ALT. Ich hab' übertreten die zehn Gebot. Ich gehe und weine ja bitterlich. [CONTRALTO. Io ho infranto i dieci Comandamenti. Io vado e piango amaramente. FRAUENCHOR. Du sollst ja nicht weinen! Sollst ja nicht weinen! [CORO FEMMINILE. Tu non devi piangere! Non devi piangere!] ALT. Ach komm und erbarme dich! Ach komm und erbarme dich über mich! [CONTRALTO. Ah! vieni e pentiti! Ah! vieni e pentiti davanti a me!] KNABENCHOR UND FRAUENCHOR. Bimm, bamm, bimm, bamm Bimm, bamm, bimm, bamm... [CORO DI FANCIULLI E CORO FEMMINILE. Bimm, bamm, bimm, bamm. Bimm, bamm, bimm, bamm...] FRAUENCHOR. Hast du derni übertreten die zehn Gebot, so fall auf die Kniee und bete zu Gott! Liebe nur Gott in alle Zeit! So wirst dü erlangen die himmlische Freud! [CORO FEMMINILE. Tu hai infranto i dieci Comandamenti, quindi cadi in ginocchio e prega Dio! Ama solo Dio in ogni tempo! Così conseguirai la gioia celeste! KNABENCHOR. Liebe nur Gott! Die himmlische Freud' ist scine selige Stadt, die himmlische Freud' die kein Ende mehr hat [CORO DI FANCIULLI. Ama solo Dio! La gioia del cielo è una santa città, la gioia del cielo che è senza fine!] KNABENCHOR UND FRAUENCHOR. Die himmlische Freude war Petro bereit't, durch Jesum und Allen zur Seligkeit. Bimm, bamm, bimm, bamm... [52]
[CORO DI FANCIULLI E CORO FEMMINILE. La gioia del cielo era a Pietro riservata e a noi, grazie a Gesù, in santità. Bimm, bamm, bimm, bamm…]
VI Movimento: Lento. Molto tranquillo ma intenso. La ballata popolare è quasi una sorta di bagno purificatore prima di accedere all'ultima e più alta sezione della sinfonia, l'Adagio conclusivo. Il tema principale del movimento è derivato dal Lento assai del Quartetto op. 135 di Beethoven. Il richiamo alle depurate atmosfere espressive dell'ultimo Beethoven è di per sé esplicito, come anche l'allusione a un modello di composizione che fa un uso libero e avveniristico della forma. Tuttavia la fitta polifonia degli archi che apre il movimento è anche una trasformazione, in veste trasparente e sublimata, del vibrante tema iniziale della partitura, effigie del caos in natura, che segna dunque, attraverso il materiale musicale, una sorta di trasfigurazione e di ritorno ciclico. Nella sua forma piuttosto complessa - una sorta di rondò, che ripropone però i vari temi in ordine libero e con apparizioni di volta in volta variate - questo finale approda a una conclusione basata sull'apoteosi del primo tema; non c'è, tuttavia, quel trionfalismo non esente da un sospetto di retorica delle prime due sinfonie, bensì l'ascesi mistica, che costituisce una filiazione del Parsifal e di certe sinfonie di Bruckner. Le tensioni e gli aneliti di tutta la partitura vengono sublimati in questo Adagio; i sotterranei richiami tematici non solo saldano la partitura sotto il profilo costruttivo, ma ricordano come l'atto di amore che è la conclusione dell'opera si nutre e si sostenta di un fattore sempre presente e vivo nella poetica di Mahler: l'esperienza e la permanente consapevolezza del dolore.
DISCOGRAFIA
Mahler: Sinfonia n° 3 Marjorie Thomas, contralto; Tölzer Knabenchor. Symphonie-Orchester und Frauenchor des Bayerischen Rundfunks. Dir. Rafael Kubelik. Audite L’integrale delle Sinfonie di Mahler di Rafael Kubelik è da molti ritenuta una delle migliori in assoluto, contenente autentici capolavori interpretativi. I tempi di Kubelik sono veloci, mentre con l'avvicinarsi della fine del XX secolo, la maggior parte delle interpretazioni di Mahler di altri direttori sembrano diventare più lente, quasi immerse in una
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marea di suoni. Ascoltando le versioni di Bernstein a New York, noteremo che i tempi sono molto simili a quelli di Kubelik, e probabilmente anche di Mahler. Questa è una performance molto toccante, Kubelik fa eco alla convinzione di Schoenberg secondo la quale nella Terza si scatena una lotta tra il bene e il male musicata con paurosi assoli di tromboni, neri come il destino, e con l’ultimo movimento convincente e coinvolgente come pochi altri, dove si esprime perfettamente il mistero intrinseco della vita e la tristezza della vita e della morte. La lettura di Kubelik è coronata da un suono particolarmente vivace e da un eccellente lavoro d'insieme da tutte le sezioni dell'orchestra. Buona la qualità dell’incisione, anche se datata (siamo alla fine degli anni ’60), il suono è sempre ricco e risonante.
Mahler: Sinfonia n° 3 New York Philharmonic Orchestra. Dir. Leonard Bernstein. Sony La Terza sinfonia di Gustav Mahler ha avuto una grande fortuna nelle mani di Leonard Bernstein e della NYPO quando la Columbia pubblicò questa registrazione nei primi anni '60. A giudizio unanime, Bernstein ha creato un capolavoro assoluto: il tempo, l'equilibrio, la dinamica, il fraseggio e, soprattutto, gli idiomi mahleriani. Il lungo e paradisiaco Adagio (Finale), allungato all'incredibile 25 min. con bruciante intensità e grande attenzione ai dettagli, è il coronamento dell'arte di Bernstein. Tanto più notevole perché era la sua unica seconda volta che eseguiva la sinfonia! La Sony rilascia questa registrazione classica storicamente importante e musicalmente vincente nello splendido formato SACD. Non ha mai suonato meglio. Da possedere assolutamente!
Mahler: Sinfonia n° 3 New York Philharmonic Orchestra. Dir. Leonard Bernstein. Deutsche Grammophon
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In nessun punto di questa registrazione ho la sensazione che stiamo ascoltando Bernstein che cerca di mostrare a Mahler come dovrebbe andare, piuttosto, stiamo ascoltando Bernstein che ci mostra come Mahler vorrebbe che andasse, semplicemente perché tutto sembra così naturalmente perfetto. In ogni momento della performance, Bernstein sa chiaramente dove si trova nel lungo arco complessivo della struttura massiccia della 3a Sinfonia, sa esattamente da dove viene e sa esattamente dove sta andando, e lo individua per noi con ritmo che è assolutamente perfetto in ogni secondo del percorso. Ogni transizione viene eseguita con un tempismo naturale e perfetto e gli importanti punti di arrivo della Sinfonia hanno tutto l'impatto e il dramma che un ascoltatore potrebbe mai chiedere. La performance della New York Philharmonic è sontuosamente impeccabile, forse la migliore di questa orchestra, poiché risponde con entusiasmo a ogni sfumatura che Bernstein lancia loro, senza una singola nota o voce fuori posto. Non hanno la qualità del suono meravigliosamente raffinata dei Berliner Philharmoniker o dal Concertgebuw di Amsterdam, ma la loro esibizione è eccezionale: grandissima la loro sezione di ottoni bassi. Il suono registrato della Deutsche Grammophone è ciò che rende questa versione superiore alla precedente registrazione di Bernstein per la Sony. Questa registrazione ha un impatto maggiore e ha anche molti più dettagli, specialmente nei momenti culminanti.
Mahler: Sinfonia n° 3 Christa Ludwig, contralto. Khun Boys Choir. Czech Philharmonic Orchestra. Dir. Vaclav Neumann. Exton Václav Neumann è stato un illustre direttore ceco e direttore musicale indimenticabilmente carismatico della
grande Czech Philharmonic Orchestra, meno
conosciuto di altri per il suo gravitare quasi esclusivamente all'allora est europeo. La sua lettura della Terza Sinfonia mahleriana è fenomenale. Il suono è diverso da tutti gli altri: brillante, dorato, caldo, pastoso. Ricchissima di sfumature e contrasti, è una lettura che impressiona per la compattezza e la teatralità. Per molti critici è la più bella Terza di sempre ("O mensch ... " di Christa Ludwig da brivido), La qualità del suono è soddisfacente.
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Mahler: Sinfonia n° 3 Norma Procter, contralto. Wandsworth School Boys Choir. Ambrosian Singers. London Symphony Orchestra. Dir. Jascha Horenstein. Unicorn
Questa performance del 1970, con la London Symphony Orchestra e con Norma Procter, è stata considerata uno dei momenti decisivi nella storia delle registrazioni delle sinfonie di Mahler. Jascha Horenstein ebbe una particolare affinità per il compositore boemo (e anche per Bruckner), ma purtroppo non fece un’integrale. Horenstein ha visione molto chiara dell'intera sinfonia che si svilupperebbe a suo avviso in modo organico e drammatico. Secondo le parole di Bruno, Walter Horenstein nel primo movimento dà un giusto risalto alle “trombe del movimento di apertura, ai battiti di tamburi, alle marce infuocate e al maestoso trombone solo che lo conducono verso un culmine finale sconvolgente e un finale frantumante”. Nel Quarto Movimento il direttore adotta un tempo che permette a Noma Procter di cantare con grande espressione e di trasmettere una sensazione di solitudine interiore. Nel Movimento Finale, l’Adagio, Horenstein sa sfruttare le sue emozioni drammatiche ed esaltate per portare il movimento e la sinfonia - e l'ascoltatore - su un piano più etereo. Lascia respirare la musica in un modo che non è presente in nessun'altra registrazione fino alla serie finale di timpani. Le registrazioni più recenti hanno un suono complessivo più impressionante, ma nessuno è impregnato di questo grado di spiritualità interiore. Mahler: Sinfonia n° 3 Waltraud Meier, contralto. Eton College Boys Choir. London Philharmonic Choir & Orchestra. Dir. Klaus Tennsted. Legacy – ica classics
Questa terza fa parte di un grandissimo ciclo di un eccellente direttore senza dubbio sottovalutato. Tennstedt esalta la componente umana di Mahler, la sofferenza dell'esistere, il dramma quotidiano della vita, in una visione dolente
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ed elegiaca di enorme fascino. I tempi sono larghi, indugianti, ma tesi e profondissimi. Un'edizione poco conosciuta, ma fondamentale.
Mahler: Sinfonia n° 3 Jessie Norman, contralto. Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor. Wiener Sängerknaben. Wiener Philharmoniker. Dir. Claudio Abbado Deutsche Grammophon Questa registrazione è degli inizi degli anni '80, con i Wiener Philharmoniker in una forma smagliante: il suono vellutato degli archi dei Wiener é inimitabile e gli ottoni, così importanti in questa sinfonia di Mahler, suonano potenti, precisi e bruniti come non mai. Abbado adotta un tempo molto lento in questa registrazione, 103 minuti rispetto ai 97 della registrazione live 1999 con i Berliner. Nel corso della Sinfonia il grande Maestro milanese aumenta gradualmente l'intensità musicale: l'effetto è un senso di viaggio epico piuttosto che il dramma del mistero cosmico. Struggente il finale, suonato pianissimo. Norman regala una performance molto buona, profonda e sentita, ma anche delicata quando si rapporta al coro gioioso dei bambini. Molto appagante la registrazione digitale.
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La musica organistica tedesca nel Seicento di Paolo Duprè
Nella musica organistica è Bach a farla da padrone: già dalle prime note della celeberrima Toccata in re minore si comprende quale sia lo spessore del maestro di Eisenach. Ma dove attinse e iniziò a nutrirsi il suo genio, quali furono gli stimoli che lo portarono ai vertici della storia della musica, insuperato per profondità intellettuale, padronanza dei mezzi tecnico-espressivi e bellezza artistica? Iniziamo allora un percorso a ritroso nel tempo partendo da Bach. Immaginiamolo ventenne fra le alte navate della Marienkirche di Lubecca, la ricca città anseatica sul Baltico, ad ascoltare il maggior organista dell’epoca: Dietrich Buxtehude.
[La Marienkirche di Lubecca (1940)]
[Dietrich Buxtehude (1637-1707)]
E’ noto che Bach percorse più di 400 km a piedi per andare da Arnstadt a Lubecca, che si fece dare un permesso di quattro settimane per compiere tale viaggio ma rimase lì oltre quattro mesi ed è risaputo infine che non si presentò mai al maestro della Marienkirche: ascoltò di nascosto, comprese, ne carpì i segreti. Raccontano che, tornato in Turingia, suonava diversamente, modulava, arricchiva, volava sulla tastiera in modo nuovo, geniale, unico, tanto da esser addirittura contestato dai prelati della Bonifaziuskirche!!
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[Il viaggio di Bach]
[A stadt: l o ga o della Bo ifaziuski he]
Cosa aveva di particolare nel modo di suonare la tastiera Buxtehude? E da chi aveva imparato? Sicuramente dai fiamminghi e questi attinsero e si ispirarono ad altri, giunti dalle varie scuole e cappelle musicali europee. Buxtehude, uomo colto, ottimo organista, nacque nel 1637 a Helsingborg (allora Danimara ed oggi Svezia) e si spostò in varie città della Germania settentrionale prima di stabilirsi a Lubecca, dove la sua fama raggiunse il culmine, al punto che le sue rappresentazioni erano note in tutto il Paese. Buona parte delle sue composizioni sono giunte fino al XXI secolo grazie a manoscritti e copie, ma delle sue produzioni all'epoca più celebrate, dei concerti vocali noti come Abendmusiken ("Musiche serali"), non si è conservato alcuno spartito. La ricchezza delle sue opere lo porta a essere il massimo compositore tedesco nella generazione fra Heinrich Schütz e Johann Sebastian Bach. La produzione organistica esprime la sua originalità proprio nello stile nuovo, unito alla perfetta pratica del contrappunto, che si manifesta principalmente nei preludi e fughe. Questo “stylus phantasticus”, stile fantastico, è proprio della musica strumentale di quell’epoca ed ammette progressioni, ornamenti, ingegnose colorazioni armoniche con effetti a sorpresa, dissonanze, variazioni del ritmo. Tutto doveva strabiliare l’ascoltatore.
[Esempio di stile fa tasti o i u Preludio di D.Buxtehude] [59]
Continuando il viaggio a ritroso nel tempo incontriamo allora il fondatore della scuola nordica: l'olandese Jan Pieterszoon Sweelinck, (Amsterdam 1562-1621) la cui produzione comprende sia musica sacra che profana, anche se oggi è ricordato soprattutto per i suoi brani per tastiera (fantasie, toccate, variazioni ecc.) che gli resero la fama di “Orfeo di Amsterdam”.
[Jan Pieterszoon Sweelinck]
[L o ga o della Oude Ke k di A ste da ]
A Sweelinck è dovuta principalmente l'invenzione dell'elaborazione del corale popolare tedesco che, trasportato in nuova forma, dà origine ad una nuova composizione fortemente emotiva. Il suo stile è strettamente collegato a quello inglese, essendosi entrambe le nazioni influenzate a vicenda, come dimostrano gli stretti rapporti musicali e affettivi che collegarono lui e musicisti come John Bull, John Dowland e William Byrd. Con lui le conoscenze virginalistiche inglesi vennero diffuse anche nei Paesi Bassi e soprattutto in Germania. Successivamente compositori come Franz Tunder, Georg Böhm e Johann Adam Reincken seguirono armonicamente e ritmicamente complessi stili di improvvisazione, radicati nella tradizione dell'improvvisazione corale. L'influenza di Sweelinck sullo stile organistico nordico fece sviluppare forme come il Preludio per organo (anch’esso stilisticamente affonda le radici nell'influenza dei virginalisti inglesi mostrando grande libertà di invenzione figurativa nei virtuosismi, spesso in stylus phantasticus, con numerosi abbellimenti e fioriture, scale, arpeggi e passaggi virtuosistici) e la Fantasia su corale (una composizione in più sezioni, come i versetti del corale, suddivisa in parti contrastanti), che vennero quasi esclusivamente trattate da organisti di questa scuola. Ma ancora un passo indietro fino a Roma nel giugno 1607. Girolamo Frescobaldi, musicista ferrarese, a breve organista di San Pietro, insieme a Girolamo Piccinini accompagnarono il prelato ferrarese Guido Bentivoglio inviato come nunzio alla corte delle Fiandre. Fu il solo viaggio compiuto da Frescobaldi fuori dell'Italia. Qui, ebbe contatto con la corte asburgica celebre per la ricchezza della vita musicale, presso la quale prestavano servizio musicisti italiani, spagnoli e inglesi, oltre che fiamminghi; tra questi, dovette avere contatti con gli organisti di corte e fece sicuramente conoscere [60]
il suo stile strumentale, di importanza paragonabile a quello della musica vocale. Le sue composizioni per tastiera iniziano a presentare sezioni distinte per ritmo, modalità e dinamica. I virtuosismi vocali sono espressi dallo strumento con scale ascendenti e discendenti, trilli, momenti accordali e passi in stile imitativo.
[Claudio Merulo (1533 – Parma 1604)]
[Girolamo Frescobaldi (1583 - Roma 1643)]
Ed infine, ancora indietro nel tempo arriviamo addirittura alla corte della Serenissima che vantava una cappella musicale, la Marciana, con interpreti di fama internazionale. E’ proprio qui che troviamo come primo organista, nel ventennio fra il 1565 ed il 1585, un certo Claudio Merulo. Giungevano d’ogni dove per ascoltarlo. Molta della fama di Merulo è dovuta proprio alla musica per tastiera, della quale rinnovò la forma della toccata, ricca di gravitas espressiva, nella quale introdusse forme contrappuntistiche. Ecco dunque un possibile percorso evolutivo della musica organistica tedesca nel 600: si parte addirittura da Venezia con Merulo e dalla Roma di Frescobaldi per arrivare nel mare del Nord e nel Baltico alla Lubecca di Buxtehude per completare il percorso un secolo dopo alla Weimar e Lipsia di Bach. Potremmo schematizzare i rapporti fra le vari scuole in questo modo:
Claudio Merulo e Andrea Gabrieli a Venezia
Virginalisti inglesi
Sweelinck, Buxtehude in Olanda e Germania
Johann Sebastian Bach [61]
Girolamo Frescobaldi a Roma
Ed ancora nel seicento organistico tedesco possiamo distinguere tre scuole: Scuola del Nord, la più importante, cui appartengono Sweelinck, Buxtehude, Lubeck, Rheincken, Tunder, Bruhns Scuola della Germania centrale, meno rilevante Scuola meridionale, plasmata da compositori che ebbero molti contatti con l Italia, la ui usi a si o e t a più sulla elodia he sul virtuosismo, ideando armonie semplici, brani con un chiaro lirismo e coltivando le forme arcaiche ereditate dalla tradizione italiana (capricci, canzone). Principali rappresentanti: Froberger, Muffat, Kerll, Steffani Per concludere la produzione organistica, più di ogni altra, procede di pari passo con l’evoluzione dello strumento. Nelle Cattedrali del nord Europa si costruirono organi grandiosi con ricchissimi corpi sonori su due, tre, perfino quattro tastiere ed una pedaliera di oltre due ottave. Gli esecutori avevano a disposizione una grande varietà di timbri che stimolava ulteriormente la loro creatività. Lì le idee di un Frescobaldi avrebbero trovato terreno fertilissimo. Lì uno Sweelinck od un Buxtehude avranno potuto esprimersi in modo diverso dai predecessori e pian piano la musica vocale avrebbe iniziato a trovare nell’organo un degno sostituto. Sarà poi Bach a consacrarlo definitivamente a re degli strumenti.
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Musica classica e cinema: Gravity, di Alfonso Cuaròn Gravity è un film di fantascienza del 2013 di Alfonso Cuarón, che ha aperto la 70ª edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. La pellicola ha ottenuto 10 candidature ai Premi Oscar, aggiudicandosi 7 statuette. Il film racconta una storia di naufraghi nello spazio, che ci ricorda che siamo uomini, piccoli, fragili, che nel reciproco sostegno trovano la forza per esistere e resistere.
La trama del film Gravity racconta la storia della dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock), un ingegnere biomedico che deve affrontare per la prima volta un'importante missione nello spazio; al suo fianco sullo Space Shuttle Explorer c'è l'astronauta Matt Kowalsky (George Clooney), al suo ultimo volo prima di andare in pensione. Durante la missione, i due, mentre sono nello spazio a riparare il telescopio spaziale Hubble, vengono travolti dall'onda d'urto e dai detriti formatisi dopo che un razzo russo ha colpito un satellite ormai in disuso. I detriti distruggono la loro astronave uccidendo
l'intero
equipaggio
ancora
a
bordo
della
navetta: Stone e Kowalsky si ritrovano quindi completamente soli in balia dello spazio e senza aver alcuno modo per comunicare con Houston visto che anche i satelliti per le comunicazioni sono stati gravemente danneggiati. Il comandante Kowalsky riesce a recuperare la dottoressa Stone che fluttuava nello spazio senza controllo dopo l'incidente e a trainarla con sé agganciandola con un cavo. La loro unica speranza è raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, distante pochi chilometri dal punto in cui stavano operando in orbita. I due superstiti riescono a raggiungere la stazione, ma il comandante Kowalsky è costretto a sacrificarsi lasciandosi andare alla deriva nello spazio per evitare la stessa sorte anche alla dottoressa. Ryan Stone riesce allo stremo a penetrare nella Stazione Internazionale e solo dopo altre drammatiche vicissitudini riuscirà a tornare sulla Terra.
La musica Nella maggior parte dei trailer ufficiali del film, Spiegel im Spiegel (Specchio nello Specchio), del compositore estone Arvo Pärt è lo sfondo sonoro in cui galleggiano gli astronauti Stone e Kowalsky. Nel vuoto dello spazio cosmico è il silenzio a regnare, ma ci sono le emozioni degli astronauti che si [63]
fanno sentire, che hanno bisogno di essere accompagnate e sostenute; ecco perché non è il silenzio la “musica” da abbinare. Il brano, composto nel 1978, è il classico esempio di musica minimalista: composto in Fa maggiore, in un tempo di 6/4 fortemente “diluito”, presenta il pianoforte che insiste su un semplice arpeggio di semiminime, mentre il violino sale e scende lentamente la scala di Fa come se non dovesse o volesse finire mai. Oltre all'accompagnamento, la parte di piano include note tintinnabuli (tipiche dello stile del compositore), semplici frammenti di suono, come piccole campane che suonano alternativamente sopra e sotto la linea melodica. Inizialmente, la melodia consiste di solo due note, con un'altra nota aggiunta con ciascuna delle seguenti frasi, creando così un continuum apparentemente infinito: questa struttura contribuisce a dare l'impressione di una figura che si riflette su uno specchio e si muove avanti e indietro verso di esso. Il pezzo è stato originariamente scritto per un singolo piano e violino, anche se il violino è stato spesso sostituito con un violoncello o una viola.
L’Autore Arvo Pärt è un compositore estone (1935). Dopo le esperienze nella musica d'avanguardia, negli anni Sessanta la sua produzione subì una svolta, segnata dall'interesse per la musica medievale e rinascimentale e il canto gregoriano. Pärt si identifica spesso con la scuola del minimalismo e, più precisamente,
quella
del
minimalismo
mistico
o
del
minimalismo santo, cioè di tipo ascetico. È considerato un pioniere di quest'ultimo stile, insieme ai contemporanei Henryk Górecki e John Tavener. Le sue composizioni si compongono di un materiale musicale rarefatto, ridotto a un semplice arpeggio, o scala, o più spesso una triade (accordi le cui tre note che lo compongono non vengono suonate contemporaneamente ma una dopo l'altra). Nella sua musica sono presenti nello stesso tempo semplicità e complessità, densità di assonanze, stasi apparente e molteplicità di armonici. Il riferimento religioso è esplicitato dalla essenzialità delle tecniche impiegate, e si estende a tutta la produzione, vocale (ha scritto anche opere corali) e strumentale.
[64]
Gli antichi strumenti musicali: l’Arpa Madre di tutti gli strumenti a corda (lira, citara, liuto, clavicembalo e, infine, pianoforte), l’arpa è uno strumento musicale antichissimo, e la sua oscura origine è narrata in alcune leggende: secondo la più
diffusa sarebbe opera di Apollo che, sorpreso dal suono che rendeva l'arco di Diana, vi aggiunse altre corde e così ottenne l'arpa. Una delle prime scoperte di strumenti musicali mostra uno strumento che assomiglia ad un'arpa raffigurato su pitture rupestri risalenti al 15.000 a.C. in Francia. Si pensa che le prime arpe derivino dall'arco da caccia, infatti la corda tesa tra i due estremi dell'arco produce un suono.
L'etimologia non ci offre maggiori elementi per precisare l'origine dell'arpa, giacché il vocabolo è di data relativamente recente e con ogni probabilità d'origine germanica. Antico Egitto. L’arpa arcuata era forse lo strumento a corde più diffuso nell’antico Egitto. Era composto da varie corde di metallo (in numero da sei od otto), tese su una struttura arcuata di legno. Questa struttura aveva una forma a L con un angolo più acuto, con l'estremità inferiore a forma di losanga, e aveva una specie di largo uncino sempre di legno che serviva per tenere lo strumento sulla spalla per poterlo suonare anche in piedi. L’arpa era alta circa 1 metro ed il suonatore viene raffigurato accosciato o inginocchiato; nelle epoche successive, lo strumento assume dimensioni più grandi ed il suonatore viene raffigurato in piedi, la cassa sonora appare più ampia ed anche il numero di corde sale fino a venti. Le arpe compaiono nell’iconografia egiziana a partire dal 2550 a.C.
[65]
Dalla testimonianza di Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), storico e generale
ebreo,
sappiamo
che l’arpa egiziana era
enarmonica, cioè basata approssimativamente sulla scala LAFA-MI-DO-SI, con tante ripetizioni nelle ottave più alte e più basse, quante ne permetteva il numero delle corde.
[Musici di Amon, Tomba di Nakht, XVIII dinastia, Tebe]
Mesopotamia. La grande arpa degli Assiri è come un'arpa egiziana rovesciata. La cassa di risonanza è collocata in alto, la colonna, o giogo, è da essa distinta e con essa forma un angolo retto. La si sonava stando in piedi e attaccandola al corpo per mezzo di una cinghia; le corde erano da venti a venticinque e terminavano con una specie di frangia formata da nappe. Alcuni
bassorilievi
sumerici
raffigurano
suonatori di strumenti musicali simili alle arpe o alle lire: queste arpe avevano una forma angolare e montavano da 12 a 15 corde ed erano simili agli strumenti arcuati suonati in Egitto circa alla stessa epoca. Solo pochi strumenti musicali originali di questa civiltà si sono conservati sino ai nostri giorni. I più spettacolari sono le lire e le arpe preziosamente decorate scoperte nel 1928 da Sir Leonard Woolley negli scavi del cimitero reale di Ur, risalenti a circa 2.500 anni prima di Cristo: esse sono ricoperte parzialmente d’oro e d’argento e intarsiate con pietre semi-preziose e conchiglie. Tra i molti servitori che dovevano seguire i loro sovrani nella morte e che erano sepolti accanto ad essi nelle loro tombe, vi sono anche alcuni musicisti che hanno ancora le dita sulle corde dei loro strumenti. Nella foto a destra vediamo uno degli strumenti ritrovati, un’arpa sumera a 11 corde, con la testa di toro dorato, decorata con pietre di lapislazzuli e corniola. Lo strumento è conservato nel Museo Nazionale di Baghdad. [66]
In
quest’altra
immagine
vediamo
un
particolare dello Stendardo di Ur in cui è rappresentato un arpista accompagnato forse da una cantante. L'arpa suonata dal musico è identica a quelle rinvenute nel Cimitero reale di Ur.
Altre civiltà.
Nell’antico biblico testo della Genesi, scritto da Mosé e risalente a circa 5000 anni a.C., è narrato di un tale Iubal, “il padre di tutti coloro che suonano il flauto e l’arpa”.
Nella civiltà ebraica troviamo due termini: uno, kinnôr, è propriamente l'arpa [a sin, una ricostruzione], l'altro, nebhel, indica uno strumento che doveva
rassomigliare piuttosto alla lira o alla cetra dei Greci; ambedue avevano la cassa di risonanza in basso, e da essa partivano i due bracci dell'arco sulla cui sommità si rannodavano le corde. L'uso della lira e della cetra tanto presso i Greci quanto presso i Romani rese quasi nulla, o almeno assai rara, la pratica dell'arpa. In Grecia e in Roma l'arpa assunse la forma triangolare (trigone). In varie
raffigurazioni pittoriche dell'arte romana gli esemplari
dell'arpa sono più piccoli e di forma rigidamente geometrica; e i loro modelli sono varî, analoghi tanto a quelli assiri quanto a quelli egizî dell'ultimo periodo. L’Arpa nel Medioevo. Dopo alcuni secoli di oblio, l’arpa riapparve nella civiltà europea occidentale nel 4° secolo d.C. In quel tempo essa fu lo strumento preferito per accompagnare le voci dei monaci nei canti monastici anteriori ai canti gregoriani: divenne quindi così uno dei pochi strumenti consentiti nella Chiesa antica, dove corno, tamburo e sonagli erano considerati strumenti del diavolo. I primi disegni di arpe a forma triangolare appaiono nel Salterio di Utrecht nei primi anni del IX secolo. E' proprio l'apparizione della colonna, probabilmente nei primi secoli dell'era cristiana, che segnò l'avvento della moderna arpa. La colonna, infatti, risolveva due problemi: consentiva ai [67]
costruttori di aumentare la tensione delle corde senza piegare lo strumento, il che rese anche più facile l'accordatura perché cambiare la tensione di una singola corda non influiva più sulla tensione delle altre corde. Si riuscì dunque a costruire strumenti con più corde e con tensioni più elevate, quindi con tono e volume migliori. [Salterio di Utrecht]
Mondo anglosassone L'arpa celtica proviene dalla Scozia, dove comparve durante l'ottavo secolo; si diffuse successivamente in Irlanda dal XII secolo e poi nel Galles e in Bretagna. E’ usato sia come strumento di accompagnamento della voce o di altri strumenti solisti, sia come strumento solista. E', tra gli strumenti antichi, uno tra i più completi, perché permette di eseguire insieme sia la melodia che l'accompagnamento. L'arpa più tradizionale, l'arpa dei bardi (il bardo è un antico poeta o cantore di imprese epiche presso i popoli celtici), aveva da 30 a 32 corde, e con questo numero di corde era possibile suonare non solo tutta la musica celtica, ma tutta o quasi la musica popolare. Delle arpe scozzesi ci sono rimasti due esemplari singolarissimi: la Queen Mary's Harp e la Lamont Harp. La prima (che è probabilmente anteriore al secolo XIV e che appartenne già alla regina Maria di Lorena) si trova nel Museo di Edimburgo: conteneva 29 corde e nella forma corrisponde all'arpa irlandese di Brian. Lo stesso si dica della Lamont Harp, che è forse di un po' anteriore all'altra.
[A si . la Quee Ma Lamont Harp]
s Ha p; a d . la
Non meno celebri degli arpisti irlandesi e gallesi erano gli arpisti scozzesi; anzi, secondo l'opinione del Giraldo, essi li superavano. Nel
sec.
XII
si
conoscevano
nell'Irlanda due arpe di diverse dimensioni:
l'una
di
piccolo
formato usata dai missionari e dai religiosi, l'altra di grande formato usata dai professionisti laici. L'arpa irlandese era tenuta sulle ginocchia del suonatore mentre il corpo [68]
sonoro era appoggiato
contro il petto verso la spalla sinistra. Le corde si pizzicavano o con le unghie o con l'estremità del polpastrello. Esemplare magnifico per finezza e perfezione di lavoro è l'arpa che si conserva nel Museo di Dublino, e che è conosciuta sotto il nome di Brian Boru's Harp [a sin, lo strumento originale] poiché si credeva che fosse appartenuta al re Brian, ucciso in battaglia nel 1014. Pare invece che essa dati al 1220 circa e che fosse stata inviata dall'Irlanda nella Scozia come prezzo di riscatto di un bardo appartenente alla corte reale. Quest'arpa, che misura 72 cm. d'altezza, conteneva 30 corde. Gli ornamenti sono d'argento finemente cesellato e cosparsi di preziosi cristalli. L’arpa di Brian Boru è uno dei tesori nazionali d'Irlanda, ed è l'arpa da cui è stato preso il simbolo del Paese.
Giraldo Cambrense si profonde in molte lodi sugli arpisti irlandesi del suo tempo (sec. XIII); ne celebra la purezza del suono, l'agilità, l'esattezza delle graduazioni sonore e della misura. L'arpa ebbe una grande parte nella vita irlandese: figurava nelle monete, negli stemmi gentilizi ed entrava anche nei proverbi popolari, uno dei quali, ad esempio, diceva: "Tre cose sono necessarie all'uomo: una donna, un giaciglio e un'arpa". Lo strumento che i Gallesi designavano col nome di telyn era una specie d'arpa irlandese, ma di formato più grande e di linea più slanciata. L'arpa gallese primitiva aveva da dieci a diciassette corde poste tutte su di una sola fila, più tardi si ebbero fino a tre file di corde. Come nell'Irlanda, l'arpa aveva molta importanza anche nella società gallese: Lungi dall’essere una forma elitaria il canto con l’arpa in Galles era diffuso tra la gente del popolo e si svolgevano spesso delle gare canore basate sulla capacità di improvvisazione poetica e armonica su una melodia data. Nasce così quella che oggi è diventata una precisa tecnica consistente nel “cantare” la poesia su una melodia suonata da un’arpista. Chi canta attende alcune battute per poi accordare i suoi versi sulla melodia. [69]
Nella Descriptio Cambriae si racconta che coloro che andavano nelle città gallesi passavano le giornate conversando con le donne e godendosi il suono delle arpe, e che ogni famiglia o tribù del Galles metteva al di sopra di ogni scienza l'abilità nell'arte dell'arpa. Esiste dell'autentica musica gallese per telyn, che risale al sec. XII, e che qualche secolo più tardi fu tradotta e in principio del secolo scorso pubblicata sotto il titolo di Myvyrian Archaiology of Wales: essa è tratta da un manoscritto che si conserva al British Museum di Londra. L'arpa irlandese, come in generale quelle usate da popoli settentrionali, si propagò assai per tempo in tutte le nazioni. L'arpa celtica venne usata nell'area celtica sino al XVII secolo. Turlough [ ell i
O'Carolan
(1670-1738)
agi e], il celebre arpista cieco
irlandese, considerato l'ultimo bardo, compose centinaia di brani di cui ce ne sono giunti poco più di duecento, molti dei quali sono ancora oggi molto popolari.
I trovatori Intorno al XIII secolo, quando il feudalesimo raggiunse il suo culmine, cominciano a comparire i Trovatori, che utilizzavano piccole arpe per accompagnare il proprio canto, la narrazione di storie, la propagazione di notizie e per suonare in gruppi strumentali. Gli arpisti erano secondi solo al capo clan o al re, spesso servivano come consiglieri e guidavano gli eserciti in battaglia. Non portavano armi, ma erano riconosciuti e rispettati da parte del nemico e generalmente godevano di immunità. Le arpe medievali di questo periodo (conosciute sotto il vocabolo di Harte o Harpfe) erano abbastanza piccole da essere tenute in braccio dal suonatore e avevano tra 7 e 25 corde; avevano casse di risonanza strette, spesso ricavate da un tronco solido. Le arpe medievali erano in genere cordate in metallo, ma erano utilizzati anche il budello, il crine di cavallo e i fili di seta. Tra l'XI e il XII secolo, la parte superiore del modiglione (il lato superiore dell'arpa) iniziò ad assumere i contorni di ciò che oggi chiamiamo la "curva armonica", che permette un
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rapporto migliore tra la lunghezza della corda e la sua tensione in relazione con la sua frequenza o altezza tonale. Sugli strumenti di questo periodo si conosce poco altro. A partire dal XIV secolo si diffonde un'arpa un po' più grande delle precedenti, conosciuta come "arpa gotica". Quest'arpa ha mediamente 24 corde di budello, è uno strumento più alto delle arpe precedenti.
L’arpa rinascimentale Durante il Rinascimento, l'arpa continuò a godere del maggior favore nelle corti dell'Inghilterra, della Francia e della Germania; anche in Italia fu molto pregiata per la sua sonorità singolare e delicata e cominciò a far parte delle orchestre dei primi melodrammi. Nelle splendide e numerose nostre corti si facevano ammirare virtuosi e virtuose d'arpa, quali Orazio dall'Arpa, Iacopo da Bologna, Giovanni Battista Giacomelli, Adriana Basile, Laura Peperara, Tarquinia Molza. Nella seconda metà del Cinquecento, G. B. Giacomelli introdusse in Roma un'importante varietà d'arpa: l'arpa doppia, che aveva il notevole vantaggio di rendere la scala cromatica completa. L'invenzione di questo strumento in realtà era in realtà irlandese,
ma l'averla perfezionata e messa in onore è merito di maestri italiani. L' arpa doppia era formata da due arpe incrociate all'estremità superiore e collocate sopra una comune ampia cassa armonica in forma di piramide. Contava 58 corde di budello, delle quali ventinove erano distribuite alla sinistra e ventinove alla destra dell'esecutore. Nella sezione grave le prime sedici corde della parte sinistra formavano la scala diatonica, e quattordici di contro a destra corrispondevano ai relativi suoni cromatici: nella sezione acuta la disposizione era invertita. Accanto all'arpa doppia persistevano arpe di modello più piccolo, cioè arpe semplici, dette anche comuni, a suoni esclusivamente diatonici. Dobbiamo ritenere che la musica d'arpa di quest'epoca fosse più che altro affidata alla facoltà dell'improvvisazione, tanto nelle composizioni a solo, quanto nell'accompagnamento del canto, dove l'arpa fondava sul basso continuo la libera realizzazione armonica. Fanno eccezione a questa consuetudine l'introduzione e l'accompagnamento che il Monteverdi scrisse nell'Orfeo.
L’arpa dal ‘600 in poi.
In seguito si pensò di modificare l’intonazione delle corde, prima mediante uncinetti a mano (1660), poi mediante pedali (1720). Quest’ultimo sistema, perfezionato da molti costruttori, è ancora oggi in uso, resistendo alla concorrenza della cosiddetta arpa cromatica (inventata da G. Lyon della Casa Pleyel), basata sul principio dell’intonazione fissa di ogni corda per ogni suono della serie cromatica.
L'arpa attuale ha un'estensione di sei ottave e mezzo. [71]
La Musica del medioevo
[72]
L’Ars nova italiana: Francesco Landini BIOGRAFIA Francesco Landini, o Landino, conosciuto al suo tempo come Francesco Cieco, Francesco delli Organi, Franciscus de Florentia, è uno dei più famosi compositori della seconda metà del XIV secolo e il più acclamato del suo tempo in Italia. Nonostante la sua celebrità, le notizie sulla sua vita sono scarse: molte informazioni biografiche derivano dalla cronaca del suo coetaneo, lo storico fiorentino Filippo Villani, autore di Vite d'illustri fiorentini scritta intorno al 1385; inoltre recenti ricerche effettuate negli archivi fiorentini hanno permesso di documentare alcuni episodi della sua vita. Secondo il Villani, Francesco nacque nel 1335 circa a Firenze; secondo invece il pronipote e celebre umanista Cristoforo Landino egli sarebbe nativo della vicina città di Fiesole. Francesco era figlio dell’aretino Jacopo del Casentino, noto pittore della scuola di Giotto: il cognome Landini deriva dall'avo Landino di Nato, originario di Pratovecchio nel Casentino, militare al servizio della Repubblica fiorentina, che si distinse contro gli Aretini nella celebre battaglia di Campaldino (1289). Costui sposò una tal Pia, dalla quale ebbe dieci figli, tra cui Jacopo, padre del Landini. Il nome di famiglia e il patronimico non compaiono mai nei manoscritti musicali, ove egli è indicato con una vasta gamma di appellativi (dall'essenziale Franciscus, all'onnicomprensivo magister Franciscus cecushorghanista de Florentia).
[Francesco Landini mentre suona il suo organo portativo. Codice Squarcialupi, foglio 246].
Francesco Landini, secondo l'uso del tempo, avrebbe dovuto seguire le orme del padre se, colpito dal vaiolo, non fosse rimasto cieco in giovanissima età. Racconta sempre il Villani: "Passato gli anni della infantia privato del vedere, cominciando a 'ntendere la miseria della cechità, per potere con qualche sollazo allegerare l'orrore della perpetua notte, cominciò fanciullescamente a cantare". Si pensa che comunque l’avvicinarsi al canto e alla musica non sia stato esclusivamente un motivo di svago o di sfogo: dobbiamo infatti ritenere che egli fosse subito indirizzato a tale disciplina con l'obiettivo di acquisire una solida posizione professionale: quello di strumentista era uno tra i mestieri ai quali, in passato, erano spesso avviati i fanciulli non vedenti.
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Non sappiamo come Landini si accostò alla musica. Essendo il padre membro della corporazione dei pittori (S. Luca), non si può escludere che egli abbia potuto apprendere i rudimenti musicali all'interno di questo contesto: nelle confraternite laicali, sin dal Duecento, vi era l'uso di intonare laudi durante le celebrazioni, e in alcuni casi di pagare maestri affinché le insegnassero. Si può anche ipotizzare che Jacopo, grazie ai frequenti rapporti di lavoro con committenti ecclesiastici, avesse potuto facilmente introdurre il figlio in una scuola per pueri cantores presso qualche chiesa. Quali comunque siano stati i suoi esordi, Francesco ebbe sicuramente a frequentare anche studi di grado abbastanza elevato quanto a cultura generale, poiché nella sua vita si occupò, oltre che di musica, di lettere e filosofia: a lui sono da attribuire, salvo diversa indicazione, i testi poetici delle sue composizioni, ma anche qualche scritto in latino: un poemetto in esametri in lode del filosofo Guglielmo di Occam, ispirato al tema del sogno come viaggio ultraterreno, e alcuni versi moraleggianti contro i costumi corrotti della gioventù fiorentina. Landini si dedicò agli studi musicali, grazie ai quali si affermò come compositore e "Magister". Nonostante la sua cecità, Francesco era in grado di suonare numerosi strumenti: il liuto, la viella ma soprattutto l’organo portativo, del quale divenne talmente virtuoso che secondo le fonti dell’epoca mise in ombra tutti i suoi contemporanei. Filippo Villani nelle sue cronache riferisce che Landini fu anche inventore di strumenti musicali, che progettò e fece realizzare dagli artigiani fiorentini, e cita uno strumento a corda chiamato Syrena syrenarum che combinava le capacità del liuto e del salterio, descritto come un ibrido tra un liuto ed un “mezzo cannone” [nella foto, una ricostruzione moderna]. Francesco divenne cappellano nella Chiesa di San Lorenzo dal 1365, incarico che ricoprì fino alla morte. L’atto notarile di nomina fa espressamente riferimento alle condizioni fisiche del musicista ("idem Francischus […] in suis facultatibus est impotens et cecus") e al fatto che il capitolo dovesse provvedere in tutto al suo sostentamento, pagandogli la somma di 60 lire l'anno e designandolo come "familiarem perpetuum". Nonostante il suo incarico di organista cappellano, non possediamo però alcuna intonazione di brani sacri di sicura paternità landiniana. I concittadini suoi contemporanei lo considerarono una delle glorie di Firenze. Quando Antonio Loschi, che era al servizio di Gian Galeazzo Visconti, mosse una famosa invettiva a Firenze, Cino Rinuccini indicò Francesco come musicista principe della sua città: «Avemo in musica Francesco, cieco del corpo ma dell'anima illuminato, il quale così la teorica come la pratica di quell'arte sapea, e nel suo tempo niuno fu migliore modulatore de' dolcissimi canti, d'ogni strumento sonatore e massimamente d'organi.». Anche Coluccio Salutati ne tesse le lodi al vescovo fiorentino in una [74]
missiva, perché «glorioso nome alla città nostra e lume alla chiesa fiorentina proviene da questo cieco». Descritto come uomo lietissimo, la musica del "divino” Francesco, radunava e incantava folle di spettatori, e «la dolcezza delle sue melodie era tale da far scoppiare di gioia il cuore degli astanti». Landini fu l’inventore di una particolare formula melodica conclusiva, detta cadenza di Landini, divenuta presto diffusissima tra i compositori europei e usata tipicamente nella polifonia dei secoli XIV e XV. Fu una personalità importante nel mondo sociale e culturale di Firenze e prese parte attiva nelle controversie politiche e religiose dei suoi tempi. Ebbe contatti con intellettuali e compositori italiani del Trecento, tra cui Franco Sacchetti e Lorenzo da Firenze, con il quale collaborò a Santa Trinità. Fu amico e influenzò Andrea da Firenze, che egli conobbe intorno al 1370: nel 1379 i due collaborarono ancora alla costruzione del nuovo organo della Basilica Santa Annunziata. Un episodio rilevante, ma anche controverso, della carriera di Landini è il presunto conferimento della corona d'alloro a Venezia dal re di Cipro Pietro di Lusignano, "col parere di tutti i musici". L’evento è narrato dal Villani e ripreso da altri storiografi: "donde seguitò che per comune consentimento di tutti e musici, a lui concedenti la palma di quella arte, che a Vinegia publicamente dallo illustrissimo re di Cipri […] fu coronato d'alloro". Verosimilmente ciò accadde nel 1364, sotto il regno del doge Lorenzo Celsi, in occasione dei festeggiamenti per la vittoria di Venezia sui ribelli di Candia: all’evento era presente anche Francesco Petrarca. Secondo alcuni studi si ritiene invece che l'onorificenza gli sia stata accordata solo come poeta. Indipendentemente dal fatto che fosse o meno musicista "coronatus", Landini fu ampiamente celebrato dai suoi contemporanei: gli elogi a lui tributati trovano una matrice comune nella sua collocazione nella schiera dei personaggi per i quali si voleva che la mancanza della vista avesse favorito l'affinamento di altre facoltà di esame e conoscenza. Una delle ultime notizie riguardanti Landini ci tramanda la sua collaborazione, nel 1387, al progetto del nuovo organo della cattedrale fiorentina. Landini morì a Firenze il 2 settembre 1397 e fu sepolto nella Chiesa di San Lorenzo a Firenze, dove aveva lavorato per 25 anni. Un documento attesta che "Francesco degli organi" intestò alla chiesa un lascito di 300 fiorini per obblighi di suffragi, e continuò a essere commemorato per molto tempo. Il suo monumento funebre, un bassorilievo raffigurante il musicista che suona il suo organetto, fu ritrovato nel XIX secolo ed è ora conservato su una parete della navata destra della chiesa fiorentina. La figura intera a bassorilievo del musicista è sormontata da due angeli musicanti, uno con la viella, l'altro con il liuto, e dallo stemma [75]
della famiglia: una piramide con sei palle d'oro in campo azzurro e tre rami d'albero sporgenti. Tutto intorno, un fregio riporta l'epitaffio: "Luminibus captus Franciscus mente capaci, cantibus organicis, quem cunctis musica solum pretulit, hic cineres, animam super astram reliquit".
L’ARS NOVA Il momento culminante e conclusivo della musica italiana nel Medioevo fu senza dubbio la fioritura dell'Ars nova nel XIV secolo, con caratteri originali rispetto a quella contemporanea francese. Mancò in Italia un centro culturale predominante, una capitale come Parigi: i musicisti dell'Ars nova italiani operarono in diverse sedi in tutta la penisola, in particolare nelle regioni centro-settentrionali (fra i centri maggiori furono Bologna e Firenze). La polifonia del Trecento italiano ebbe carattere quasi esclusivamente profano e si espresse nei generi della ballata, del madrigale e della caccia. La ballata era una sorta di canzone ballabile (da cui deriva il nome) che narrava di storie tratte dal repertorio dei racconti popolari o di carattere storico. Sue peculiari caratteristiche erano le allitterazioni, le ripetizioni, e soprattutto il ritornello che era solitamente ripetuto e cantato anche dagli ascoltatori. Un’altra caratteristica era l’utilizzazione di domande retoriche che si ripetevano ossessivamente fino a diventare quasi un refrain, il che contribuiva a dare un tono di mistero e di attesa a tutta l’atmosfera. I temi della ballata erano vari
e
andavano
dall’amore,
alla
morte,
al
sovrannaturale, a storie di fuorilegge o di eroi, alla religione. In musica, il termine madrigale designa un tipo di composizione vocale profana a più voci. Si calcola che nel periodo compreso fra il 1530 e il 1650 siano state date alle stampe circa 2000 raccolte di madrigali, qualcosa come 35-40 000 composizioni. Il madrigale trecentesco
consiste di due sezioni
musicali (una per le strofe e una per il ritornello); è a 2 o 3 parti, con spiccata preminenza di quella superiore (affidata alla voce, mentre l'altra o le altre fungevano da sostegno strumentale), ed è svolto nello stile di un conductus fiorito,
prevalentemente omoritmico, ma caratterizzato da ricche
fioriture, che rivelano una raffinata sensibilità melodica. La caccia fu la terza forma musicale tipica dell'Ars nova italiana, in uso soprattutto nella prima metà del XIV secolo. Il suo nome deriva da chace, termine usato dall'Ars nova francese per indicare il trattamento delle due voci superiori, che si imitano e si inseguono. Musicalmente la caccia ha infatti la forma di un canone a due voci, sostenute da un tenore per lo più strumentale, che consente effetti di eco e di dialogo. [76]
L’ARTE DI FRANCESCO LANDINI Landini è considerato il più alto esponente della musica italiana del Trecento chiamata Ars nova. Gli si attribuiscono numerosissime composizioni, seconde per quantità solo a quelle del trovatore francese Guillaume de Machaut. Ciò che è giunto a noi è rappresentato da 91 ballate a 2 voci e 49 ballate a 3 voci (8 delle quali in una versione a 2 voci), 12 madrigali, alcuni mottetti incompleti. Queste composizioni rappresentano circa un quarto dell'intera produzione italiana del XIV secolo pervenuta fino a noi. La sua produzione musicale a noi pervenuta è esclusivamente profana, tuttavia esiste una nota di spese del convento di SS. Annunziata dove, accanto agli importi versati per la costruzione di un nuovo organo, ci sono dei pagamenti destinati a Landini per l’accordatura dello strumento e la commissione di cinque mottetti. Questa è una testimonianza importante perché conferma la sua paternità su alcune composizioni di musica sacra che purtroppo non sono sopravvissute al tempo. Ammiratissimo dai suoi contemporanei, in epoca moderna non si conosceva più alcuna sua composizione di quest'artista finché, nella biblioteca imperiale di Parigi, fu scoperto un manoscritto dell'inizio del XV secolo e intitolato Cent quatre-vingt-dixneuf chansons (sic) italiennes à deux et à trois voix, tra cui vi sarebbero cinque opere di Landini. Un altro manoscritto, appartenuto al celebre organista Antonio Squarcialupi, conservato a Firenze nella Biblioteca Medicea Laurenziana,, sembra essere un doppione di quello conservato alla biblioteca imperiale, poiché contiene i medesimi canti degli stessi autori, particolarmente di Landini. Altre composizioni si trovano nel Panciatichiano 26 conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. [Codice Squarcialupi, 1410-1415 circa]
Il musicista si distingue anche come letterato: oltre ad alcuni scritti in latino, è l’autore della maggior parte dei testi poetici delle sue composizioni. Le rime del Landini – nelle quali è spesso evidente l’influenza del Dante della Vita Nova – sono caratterizzate dall’uso dei cosiddetti senhals, figure retoriche tipiche della poesia medievale usate per nascondere nei versi il nome del loro destinatario (come per esempio Cosa per Niccolosa, Lena per Maddalena). Il tema maggiormente frequentato è quello amoroso, ma non mancano - caso assai raro nella produzione poetica per musica coeva - versi moraleggianti o filosofici.
[77]
Lo studio delle composizioni del manoscritto rende giustizia agli elogi fatti a questo autore. Vi si trova più dolcezza e un sentimento dell'armonia più delicato rispetto agli altri compositori della sua epoca. Jacopo da Bologna è il solo che possa reggere il confronto con Landini.
LE PRINCIPALI COMPOSIZIONI In questa sede è impossibile citare tutte le composizioni di Landini che ci sono pervenute. Dal mare magnum landiniano ho pertanto estrapolato alcune sue composizioni, per la gran parte reperibili nei CD in commercio. Il testo (sono mie le trascrizioni in italiano moderno) permette una migliore lettura. ALTE‘A LUC ED ANGELIC A“PETTO Alte a lu ed a geli aspetto, sostegno di mie vita, pietà ti prenda di me, tuo sugetto. Me t e he de t al ie o si as o de l al a da te giammai non si diparte. Tu se uel e e h og i ie duol o fo de ol tuo vago pia e h a e se spa te. D a o se sola il più o ile pa te, sop og alt a g adita, cui ado o et se p ho el ospe to. Alte a lu e… [Superba luce e aspetto angelico, sostegno della mia vita, abbi pietà di me, il tuo soggetto. Anche se nel mio cuore si nasconde l'anima, non si allontana mai da te. Sei tu che confondi tutto il mio dolore con il tuo dolce piacere che si diffonde in me. Tu sei solo la parte più nobile dell'amore, apprezzata più di ogni altra, quella che adoro e che ho sempre prima di me. Superba Luce ..] AMA, DONNA, CHI T AMA IN PURA FEDE A a, do a, hi t a a i pu a fede. O cara luce mia, i so he solo te spe o e zede. No i fa a o de egli occhi tuoi, h alt o pia e o fa ie o o te to, perchè tu sola la mia vita puoi, tanto disio di tuo belleza sento. L al a ia se ve a te di uo tale to: tanto spera e disia quanto ne la tua cara luce vede. Ama, donna... [Ama, signora, che ti ama in pura fede. Oh mia cara luce, io sono quello che spera solo nella tua misericordia. Non ombreggiare i tuoi begli occhi, perché nessun altro piacere appaga il mio cuore, perché [78]
solo tu disponi della mia vita, tanto desidero la tua bellezza. L'anima mia ti serve volentieri tanto spera e deside a ua do vede i tuoi a ati o hi. A a, sig o a…] AMOR, CH'AL TUO SUGETTO OMAI DA' LENA Amor, ch'al tuo sugetto omai da' lena, sotto tuo giogo vivo sanza pena. E così vo' contento sempre stare po' che m'ha' fatto servo a questa dea, ch'a nulla cosa si può aguagliare. Tal la produsse chi tutto potea per che tutta virtù in lei si crea. Oh felice cui leghi a tal catena! [Amor, che a me dai forza, io vivo senza pena sotto il tuo giogo. E così felice voglio sempre stare, poiché mi hai fatto schiavo di questa dea che non può essere paragonata ad alcuna cosa. Così la creò Dio, perché solo in lei nasce virtù. O felice colui che a lei è legato!] ANGELICA BILTÀ VENUT'È IN TERRA Angelica biltà venut'è in terra. Dunque ciascun, c'ama veder belleçça, virtù, atti veçosi e legiadria, vengha veder costei, che sol vagheça. Arà di lei, com'á l'alma mia. Ma non credo con pace tanta guerra. [La bellezza angelica è arrivata nel mondo. Dunque tutti coloro che amano vedere la bellezza, la virtù, gli atti aggraziati e la leggiadria possono venire a vederla, perché solo la ellezza av à da lei, o e l’ha avuta la ia a i a. Non credo che la pace possa venire dalla guerra.]
CHE COSA È QUESTA, AMOR Che cosa è questa, Amor, che'l ciel produce per far più manifesta la tuo luce? Ell'è tanto vezzosa, onest'e vaga, legiadr'e graziosa, adorn'e bella, ch'a chi la guarda subito 'l cor piaga chon gli ochi bei che lucon più che stella. Et a cui lice star fixo a vederla tutta gioia e virtù in sé conduce. [79]
Che cosa è questa, Amor, che'l ciel produce per far più manifesta la tuo luce? Ancor l'alme beate, che in ciel sono, guardan questa perfecta e gentil cosa, dicendo: - (quando) fia che'n questo trono segga costei; dov'ogni ben si posa?E qual nel sommo Idio ficcar gli occhi osa vede come Esso ogni virtù in lei induce. Che cosa è questa, Amor, che'l ciel produce per far più manifesta la tuo luce? [Che cosa è questa, Amor, che il ciel produce per far più splendente la tua luce? Ella è tanto attraente, onesta e pura, leggiadra e piena di grazia, agghindata e bella, che a chi la guarda, subito ti prende il cuore con gli occhi belli che splendono più che una stella. E a chi è concesso di stare fermo a vederla regala gioia e virtù. Che cosa è questa, Amor, che il ciel produce per far più splendente la tua luce? Anche le anime beate che stanno in cielo, quardano questa donna perfetta e gentile e dicono: Qua do avve à he ostei siede à su uesto t o o, dove il e e tutto si posa E hi osa gua da e il so o Dio, lo vede dare a lei ogni virtù. Che cosa è questa, Amor, che il ciel produce per far più splendente la tua luce?] CHI PIÙ LE VUOL SAPER, QUEL MEN LE SA Chi più le vuol saper, quel men le sa. Colui sa poco, 'l qual crede potere alcun bocon aver già ma' perfetto. Dunque stolt'è qual uom vede 'l piacere e nol prende, per dire: - Il vo' più netto -. ché rado un dolce caso tornerà. [Chi più le vuol conoscere, meno lo farà. Sa poco colui che crede di poter avere alcun cibo che sia perfetto. Pe iò stolto uell’uo o he vede il pia e e e o lo p e de, pe di e: Lo voglio iglio e , pe h raramente si ripresenta una simile dolce occasione.] CHOSÌ PENSOSO Così pe soso o A o i guida per la verde rivera passo passo, se ti : «Leva uel sasso!» «Ve l g a hio, ve », «Ve l pes e, piglia piglia» «Quest g a a aviglia». Cominciò Isabella con istrida: «O me, o me!», «Che hai, che hai?» [80]
«I so o sa el dito» «O Lisa, il pesce fugge.» «I l ho, i l ho» «L E elli a l ha p eso», «Tie l e , tie l e », «Quest'è bella peschiera». I ta to giu si a l a o osa s hie a dove vaghe t ova do e ed a a ti, he a holse a lo ho e se ia ti. [Me t e pe soso, guidato da A o , a i o pe le ve di ive del fiu e, se tii: Alza uel sasso! - Vedi il g a hio, vedi? - Vedi il pes e, p e dilo, p e dilo - Questa u a g a de e aviglia . I iziò Isa ella a gridare: Ahi , ahi ! - Che hai, he hai? - Mi ha o so il dito - O Lisa, il pes e fugge - Ce l’ho io, ce l’ho io! - L’ha p eso E elli a - Tie ilo e e, tie ilo e e - Questo stato u el pes a e . Intanto arrivai presso un amoroso luogo dove trovai belle donne e amanti, che mi accolsero tra di loro con molta gioia.] ECCO LA PRIMAVERA Ecco la primavera che 'l cor fa rallegrare; temp'è da 'nnamorare e star con lieta cera. No' vegiam l'aria e 'l tempo che pur chiama allegreza; in questo vago tempo ogni cosa ha vagheza. L'erbe con gran frescheza e fiori copron prati e gli alberi adornati sono in simil manera.
[Ecco la primavera che fa rallegrare il cuor; è tempo di innamorarsi e di essere di lieto umore. Gustiamo l’a ia e il te po he a h’essi i hia a o alleg ia; i uesto lieto te po og i osa legge ezza. Le pia te e i fiori coprono i prati con gran freschezza, e lo sono anche gli alberi, tutti adornati.] FA METTER BANDO E COMANDAR AMORE Fa metter bando e comandar Amore a ciaschedun'amanza over amante. Celato 'l tenga in fatti ed in sembiante; e che niun si rimanga d'amare perch'a lui non ne paia esser cambiato, ch'Amor vuol che chi ama sia amato; e che niun amante si disperi [81]
per lung'amar, ché, giugnendo a l'effetto, ogni suo pena tornerà in diletto, sappiendo chi farà contra la legge sarà privato, se non si corregge. [L'amore bandisce e comanda a chiunque abbia amato o ami ancora di tenerlo nascosto negli atti e nei modi; e che nessuno cessi di amare perché gli sembra che l'amore non sia ricambiato, perché l'amore vuole che l'amante sia amato; e che nessun amante si disperi per amare a lungo, poiché, quando l'obiettivo è raggiunto, tutto il suo dolore sarà trasformato in gioia. Sappiate che chi infrange la legge sarà punito, se non si corregge.] FORTUNA RIA Fortuna ria, Amor e crudel donna son o t a e, pe h io di vita pe a; a pu o te o, h a o o se a. ‘eg a i uest alta do a tal vi tute, h a o dat a o ho lej a da i pe e. Sue fiamme in essa son tutte perdute, ta t du o l suo o e, he più o si o ve e. Con fortuna e amor sempre si tene in un volere al mio dolore intera. Ma pu o te o, h a o o se a. Fortuna ria, Amor e crudel donna so o t a e, pe h io di vita pe a; ma pu o te o, h a o o se a. Più h alt o d alt a, uest a o a e de il o e l al a ia, di sta suggetto a llej: o ve a fe io dolo l a e de. Amor vuol che ciò che sia per força di costej, h à volto o t a e l ielo e li dej. Di vita l ie pe sie se e dispe a. Ma pu o te o, h a o o se a. Fortuna ria, Amor e crudel donna so o t a e, pe h io di vita pe a; a pu o te o, h a o o se a. [U desti o o t a io, l’A o e e u a do a udele so o o t o di e, pe h io uoia; a o li te o, che ancora non son giunto alla fine. Regna in questa nobile donna tanta virtù che unirlo al mio amore mi condanna. Le sue fiamme in essa son tutte perdute, tanto è duro il suo cuore che non ha pari. Destino e amore sempre mi arrecano dolore. Ma pu o te o, o la fi e. U desti o o t a io, l’A o e e u a do a udele so o o t o di e, perché io muoia; ma non li temo, che ancora non son giunto alla fine. Più che per ogni altra donna, questo amor per lei i a e de il uo e e l’a i a ia, vo ei esse e il suo amato: ma ella non mi vuol credere né cede al mio dolore. Amor vuole che ciò avvenga per volontà di lei, che ha volto contro di me il cielo e gli dei. Il mio pensiero di vita si dispera. [82]
Ma pu o te o, o la fi e. U desti o o t a io, l’A o e e u a do perché io muoia; ma non li temo, che ancora non son giunto alla fine.]
GIOVINE VAGHA Giovi e vagha, i non senti giammay amorosa vitute, ma tu, somma salute, el o di e,tuo se vo, essa l a . Qua do egli o hi tuo p i e a e te si spechiaron miey, vi vidi de t o A o e pu a e te in ver di lui mi fey; et non pensando al poter degli dei mi stava pargoletto poi cercandomi el petto lo stra dorato dentro vi trovay. Giovi e vagha, i o se ti gia a amorosa virtute, ma tu, somma salute, nel cor di me, tuo se vo, essa l a .
a
udele so o o t o di
e,
[Leggiadra giovane, io non sono mai stato in possesso della virtù dell'amore, a tu, fo te di ellezza, l’hai portata nel mio cuor, e son tuo servo. Quando per la prima volta i miei occhi si specchiarono nei tuoi, ho visto in loro Amore e verso di lui sono andato; e ignaro del potere degli dei sono rimasto come un bimbo piccolo poi, frugando nel petto, trovai la freccia d’o o. Leggiad a giova e, io non sono mai stato in possesso della virtù dell'amore, a tu, fo te di ellezza, l’hai po tata el io uo , e so tuo se vo.] GIUNTA VAGA BILTÀ Giunta vaga biltà con gentileça or nata di costumi, vedi che volge lumi nel viso che del ciel ne fa certeça. E he i fa d a o fedel suggetto e più che libertà dolce servire, che come son dinançi al suo cospetto in piacer pongho ogni mio disire. Ogni viltà nel cor sento perire e sé virtù destare. Chi l usa di i a e ha e ostu i suoi l a i aveçça. Giunta vaga biltà con gentileça or nata di costumi, vedi che volge lumi nel viso che del ciel ne fa certeça. [83]
[E’ giu ta u a leggiad a ellezza ado a di gesti ge tili, vedi o e dal viso brilli una luce che è senza dubbio divina. E he i fa uo o fedele d’a o e e più he esse e li e o i dol e esse e suo se vo, he appe a so o dinanzi a lei, ogni mio desiderio è farle piacere. Ogni viltà sento morire nel cuore e destarsi ogni virtù. Chi la guarda nei suoi gesti ha nella sua anima colma di gioia. E’ giu ta u a leggiad a ellezza ado a di gesti ge tili, vedi o e dal viso illi u a lu e he se za du io divina.] L'ALMA MIE PIANG' E MAI NON PUÒ AVER PACE L'alma mie piange e mai non può aver pace. da po' che tolto m'hai, donna, 'l vago mirar di ch'i' 'nfiammai. Fu di tanto piacer la dolce vista ch'innamorai nel tuo primo guardare sperando aver la grazia, che s'aquista ispesse volte per virtù d'amare. Or veggio la speranza mia mancare ché 'l viso non mi fai che tu solevi: ond'io sto in pene e in guai. [L’a i a ia pia ge e o pot à ai ave più pa e dopo he i hai negato, donna , il dolce guardare di chi mi innamorai. Fu di tanto piacere la dolce vista che mi innamorai la prima volta che ti vidi, sperando di ricevere il favore che si acquista spesso per valenza amorosa. Ora vedo la mia speranza spegnersi, che il tuo viso non ha la stessa espressione che solevi farmi: per cui io sto in pena e sofferenza.] MUSICA SON CHE ME DOLGO PIANGENDO Musica son che me dolgo piangendo Veder gli effecti mie dolcie profecti Lasciar per frottol' i vagh' intellecti. Perche 'ngnorantia 'n vici ongnun' chostuma Lasciasi 'l buon' e pigliasi la schiuma. Gia' furon le dolcecce mie pregiate Da chavalier', baroni e gran singnori, Or sono 'n bastardita 'n gienti chori. Ma i' musicha sol non mi lamento Ch'ancor l' altre virtu lascia te sento. Ciascun vouli narrar musical note Et compor madria, chaccie, ballate, Tenend' ongnun' in la su autenti charte. Chi vuol d'una virtù venire in loda Conviengli prima giugner' alla proda.
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[Io son musica che, piangendo, mi addoloro veder i miei effetti dolci e perfetti abbandonati per le canzoni popolari. Perché ognuno coltiva ignoranza e vizio, lascia le cose belle e si accontenta delle cose superficiali. In passato le mie dolcezze erano pregiate, da cavalieri, baroni e grandi signori ... Ora i cuori nobili sono distrutti. Ma io, Musica, non mi lamento da solo, perché vedo abbandonate anche le altre virtù. Tutti vogliono scrivere note musicali, e comporre madrigali, caccie e ballate, scrivere, ciascuno ritenendo che il proprio comporre sia perfetto. Colui che vuole essere lodato per una virtù deve prima raggiungere la sua mèta.] NELLA PARTITA PIANGON GLI OCCHI MIEI Nella partita piangon gli occhi miei, piangon e pianger voglion fi h l o e ella to ata las ie à l dolo e. Nell al a ia diletto t uov all o a h i guato gli o hi vaghi e a o ati, et sempre spanderò lagrime fora, fi h i gli ived ò lieti to ati. Ei so o d o g i iltà ado ati, che chi gli guata e non ne prende amore, quel si può dir, che sia sanza valore. Nella pa tita…
[Alla tua partenza i miei occhi hanno pianto, piangono e piangeranno finché il cuore non lascerà il suo dolore al tuo ritorno. Nella mia anima ho trovato gioia nel tempo in cui ho guardato in quegli occhi affascinanti e innamorati, e verserò le mie lacrime, finché non li rivedrò lieti al tuo ritorno. Essi sono adornati di ogni bellezza, che chi li guarda e non se innamora si può dire che manchi di ogni ragione. Alla tua partenza ...] NON AVRÀ MA' PIETÀ Non avrà ma' pietà questa mia donna, se tu non fai, Amore. ch'ella sie certa del mio grande ardore. S'ella sapesse quanta pena i' porto per onestà celata nella mente sol per la sua bellezza, che conforto d'altro non prende l'anima dolente. Forse da lei sarebbono in me spente le fiamme che la pare di giorno in giorno accrescono 'l dolore. Non avrà ma' pietà questa mia donna, se tu non fai, Amore, ch'ella sie certa del mio grande ardore.
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[Non avrà mai pietà questa mia donna, se tu, Amore, non fai che ella sia certa della mia grande passione. Se ella sapesse quale passione io provo, per onestà nascosta nella mia mente, soltanto per la sua bellezza he i o fo ta ell’a i a dole te, fo se lei speg e e e le fia e p ese ti i e he og i gio o accrescono il mio sconforto. Non avrà mai pietà questa mia donna, se tu, Amore, non fai che ella sia certa della mia grande passione.]
NON SO QUAL I' MI VOGLIA (Ballata su testo di Giovanni Boccaccio) No so ual i i voglia, o viver o morir per minor doglia. Mo i vo ei h el vive ' g avoso, veggendo me per altri esser lasciato; et morir non vorrei ché trapassato più non vedrei il bel viso amoroso per chui piango invidioso di hi l ha fatto suo et e e spoglia.
[Non so cosa io voglia, se vivere o morir per soffrire meno. Vorrei morire perché il vivere mi pesa vedendo che io vengo lasciato per altri uomini; e non vorrei morire perché una volta morto non vedrei più il bel viso amoroso per cui piango invidioso per hi l’ha fatto suo e e lo p iva.]
PARTESI CON DOLORE Partesi con dolore el corpo vita mia. Pianghon gli occhi dolenti che da te dilunghati non speran contenti viver, ma tormentati. E ella tuo alia i a l a i e l o e. [Parte con dolore dal mio corpo la mia vita. Piangono sofferenti i miei occhi per la tua lontananza, non sperano di vivere contenti, ma tormentati. E alla tua mercé rimangono l'anima e il cuore.]
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PO CHE DA MO‘TE NE“UN SI RIPARA Po he da o te esu si ipa a, lasciamo star ciascun mondan diletto e seguiam Gesù Cristo benedetto non ci parendo nostra croce amara. Ché chi non è dalla croce diviso nel chor à Cristo e senpre seco l vedee t asfo ato sta el pa adiso. Morte non chura ma lei brama e chiede. In sulla croce, deh, fermiamo il piede in questa vita hor vita di tempo, sì he possia po el du a il te po ista o sa ti i uella vita ha a. Po he da o te esu si ipa a. [Poiché nessuno può sfuggire alla morte, lasciamo ogni gioia mondana e seguiamo Gesù Cristo santificato in modo che la croce non sembri amara. Chi non è separato dalla croce ha Cristo nel suo cuore e lo custodisce e lo vede sempre trasfigurato in paradiso. Non gli importa della morte, ma la desidera ardentemente. Deh, posiamo i nostri piedi sulla croce in questa vita, catturati dal tempo, in modo che possiamo poi nella vita eterna comunicare con i santi nella vita della bellezza. Poiché nessuno dalla morte può essere al riparo. Poiché nessuno può sfuggire alla morte.] QUANTO PIÙ CARO FAI Quanto più caro fai, donna, gua da u po o, più i s a e de l fo o. Da tuo begli occhi non partir giammai. “e pe ost a t a e selvaggia e ova spe i h i las i d a a ti l vole e, el o sa à he l o t a io fa p ova: Più si disia uel h du o ad ave e. Ma vuole l io pia e e, allo he l tuo si ove a igua da alt ove. Da te seguire non partir giammai. [Quanto più prezioso diventa, signora, il tuo sguardo su di me, più divampa il fuoco in me. Dai tuoi begli occhi non me ne andrò mai. Se speri che mostrandoti crudele e strana io perda la mia volontà di amarti; al contrario accadrà: si desidera di più ciò che è difficile ottenere. Ma il mio piacere è desiderare, anche se il tuo è di guardare altrove, non smetterò mai di seguirti.]
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SÌ DOLCE NON SONÒ COL LIR' ORFEO “ì dol e o so ò o li Orfeo quando a sé trasse fiere, uccelli e boschi. d'Amor cantando, d'infante e di deo, come lo gallo mio di fuor da' boschi con nota tale, che già ma' udita non fu da Filomela in verdi boschi. Né più Febo cantò, quando schernita da Marsia fu suo tibia in folti boschi. dove, vincendo, lo spogliò di vita. Di Tebe avanza 'l chiudente Anfione; effetto fa 'l contrario del Gorgone. [Così dolce non suonò con la sua lira O feo, ua do i a tò elve, u elli e os hi, a ta do d’A o e di giovani e di dei, come il mio gallo fuori dai boschi, con una vocalità tale giammai udita da Filomela nei verdi boschi. Nè meglio cantò Febo quando Marsia lo schernì con il suo flauto nei folti boschi, dove vincendo perse la sua vita. Di Tebe avanza il chiudente Anfione, crea do l’effetto o t a io del Go go e.]
DISCOGRAFIA Francesco Landini: Fior di dolceca Micrologus Ensemble. Zig Zag territories L'Ensemble Micrologus è un gruppo vocale-strumentale italiano specializzato nell'esecuzione di musiche medievali sia di tipo profano che religioso. Il gruppo fu fondato nel 1984 e fu tra i primi che si propose di far conoscere la musica medievale a quei tempi riservata ad un pubblico elitario. E’ stato il primo gruppo a diffondere la conoscenza della musica fiorentina ed in particolar modo di Landini. L’approccio al repertorio di questo eccezionale Ensemble si indirizza alla lettura filologica degli spartiti ed al recupero delle sonorità del tempo per mezzo della costruzione di strumenti dell'epoca e dello studio delle vocalità del tempo in cui furono composte le opere da loro rappresentate. Splendida esecuzione, sonorità molto ricche di colori e timbri. La raccomando vivamente.
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Francesco Landini: Ballate Ensemble Camerata Nova. Ensemble Chominciamento di gioia. Dir. Luigi Taglioni. Tactus In questo CD ascoltiamo alcune ballate di Landini nell’interpretazione di due ensemble. L’Ensemble
Camerata
Nova
è
un
gruppo
vocale
con
l’accompagnamento di un suonatore di liuto. E’ specializzato nella musica antica, ma il suo repertorio è vasto, comprendendo musica di altre epoche, anche moderna. L’Ensemble Chominciamento di gioia è un gruppo musicale italiano specializzato in musica europea medievale e rinascimentale. L'ensemble prende il nome da una "istampitta", una danza italiana del XIV secolo. Il gruppo dedica particolare attenzione al repertorio di intrattenimento vocale e strumentale italiano. L'ensemble suona su copie moderne di strumenti utilizzati tra il XII e il XIV secolo. Il CD è un ottimo mix di brani vocali e strumentali, molto ben fatto. Buona la tecnica di registrazione.
A Laurel for Landini XIV e tu Ital s g eatest o pose Gothic Voices. Andrew Lawrence-King (arpa medievale). Avie
Le voci dei cinque componenti della Voce Gotica presentano un'estetica medievale di alto livello e gradevolezza, ancor più valorizzati in alcuni brani dai delicati suoni dell'arpa medievale di Andrew Lawrence-King. Ottima la qualità della registrazione.
D A o agio a do Mala Punica. Arcana L’Ensemble Mala Punica (in latino: melograni, simbolo di fertilità) è un complesso vocalestrumentale internazionale particolarmente versato nella interpretazione della musica dell’Ars Nova. [89]
Fondato e diretto da Pedro Memelsdorff, in questo CD di ballate neostilnoviste in Italia (1380-1415) di Landini e di altri compositori il gruppo dimostra le sue capacità di alto livello.
Altera Luce Ensemble Currentes Lawo
Raccolta antologica di vari Autori con ben 9 composizioni di Landini e altre di Machaut e Dufay. L’Ensemble Currentes è specialista nella esecuzione della musica polifonica dell’Alto Medioevo e del Rinascimento.
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Melomania: la pagina della Lirica
Tosca di
Giacomo Puccini [91]
GENESI DELL’OPERA LA “GIOVINE SCUOLA” A partire dal 1890 la scena del melodramma vide una fase di straordinaria vitalità. Si può fare coincidere l’inizio di questa fase con il successo straordinario dell'opera Cavalleria Rusticana di Mascagni; a seguire esordì una nuova generazione di compositori (Leoncavallo, Franchetti, Cilea, Mascagni, Giordano e lo stesso Puccini) di straordinaria vitalità, tanto da spingere a coniare il termine "Giovine Scuola". Con questo termine non si indicava non tanto un’identità di stile e di gusto (le opere prodotte erano in verità assai diverse tra di loro) quanto una fortunata stagione creativa, improntata alla ricerca di nuovi modelli per rianimare le plurisecolari sorti dell’opera italiana giunta al termine della sua fase romantica. Proprio per venire incontro a tale esigenza di novità e alla necessità di attirare il pubblico con soggetti di forte impatto emotivo, Puccini aveva manifestato l'intenzione di scrivere un'opera basata sul dramma in cinque atti di Victorien Sardou "La Tosca", rappresentata per la prima volta il 24 novembre 1887 al Théatre de la Porte-Saint-Martin di Parigi, il cui successo era legato soprattutto all'interpretazione di Sarah Bernhardt, per la quale era stato concepito.
[A sin. Victorien Sardou, ai tempi di Tosca, a dx Sarah Bernhardt nel ruolo di Tosca, 1887] Puccini assistette a due rappresentazioni de "La Tosca" nel febbraio e marzo del 1889 rispettivamente a Milano, al Teatro dei Filodrammatici, e a Torino, rimanendone profondamente colpito: vi riconobbe subito il soggetto e i personaggi per scrivere un'opera lirica. Ne parlò con Giulio Ricordi, chiedendogli di interessarsi ai diritti per musicarla: l'editore si attivò subito, ma sorsero alcuni problemi con Victorien Sardou che spinsero Puccini a rinunciare e ad orientarsi verso altri soggetti. [92]
Una confessione di Giuseppe Verdi al suo biografo ("Vi sarebbe un dramma che, se io fossi ancora in carriera, musicherei con tutta l'anima, ed è Tosca") spinse Giulio Ricordi a ritentare la strada di un accordo per i diritti del dramma, questa volta con esito positivo. Il primo destinatario dell'incarico di comporre l'opera fu Alberto Franchetti [nella foto], reduce dal recente successo del suo "Cristoforo Colombo" (1892), ma pochi mesi dopo aver ottenuto l'incarico (fine 1893) Franchetti decise di rinunciare all'opera, troppo distante dalle sue preferenza musicali. Fu così che gli subentrò Giacomo Puccini. Luigi Illica preparò l'abbozzo del libretto, che fece approvare da Sardou in presenza di Giulio Ricordi e Giuseppe Verdi, il quale si trovava a Parigi per la prima francese di Otello. Successivamente, per procedere alla versificazione, fu chiamato il drammaturgo Giuseppe Giacosa, che si mise subito al lavoro, nonostante ritenesse che il soggetto fosse poco poetico e che il successo dell'opera fosse legato alla bravura della Bernhardt e non al testo. Puccini cominciò il lavoro qualche mese dopo il successo de La bohème, nella tarda primavera del 1896, intanto aveva cominciato a raccogliere informazioni sulla liturgia romana e sulla intonazione delle campane di San Pietro. Fu solo nel gennaio 1898 che iniziò il lavoro vero e proprio. Il dramma di Sardou fu ridotto da cinque a tre atti e snellito di molti particolari che costituivano la cornice storica realistica del dramma in prosa; vennero inoltre eliminati moltissimi personaggi secondari, tra cui Giovanni Paisiello, che compariva in persona alle prese con Tosca, e la vicenda si concentrò principalmente sul triangolo Scarpia - Tosca - Cavaradossi, delineando le linee principali dei caratteri, anche se a scapito delle concatenazioni logiche degli avvenimenti. Il dramma dell'amore perseguitato interessava Puccini più del grande affresco storico condito di delitti e di sangue. Vi furono contrasti e ripensamenti, tra l’altro Sardou aveva preteso il diritto di essere consultato e partecipò intensamente – a volte anche in modo inopportuno - alle discussioni del libretto. Nell'ottobre 1899 l'opera fu completata e il 14 gennaio 1900 venne rappresentata al Teatro Costanzi di Roma, con il soprano Hariclea Darclée nel ruolo di Tosca, il tenore Emilio De Marchi nei panni di Cavaradossi e il baritono Eugenio Giraldoni come Scarpia. All'evento furono presenti la regina Margherita di Savoia (“ vestita di una leggiadra toilette bianca a trine”) accompagnata dal presidente del Consiglio Luigi Pelloux, Baccelli, ministro della Pubblica Istruzione, Edmondo De Amicis, allora sottosegretario alla Poste e Telegrafi, il sindaco di Roma principe Colonna; inoltre i compositori della Giovine Scuola (Mascagni, Sgambati, Cilea, Marchetti, Spinelli e il rinunciatario Franchetti). Il pubblico era stipato anche nei posti in piedi. La serata fu nervosa: vi fu una minaccia di bomba; il direttore d'orchestra Leopoldo Mugnone fu costretto a interrompere l'esecuzione e ricominciare da capo.
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[I tre interpreti della prima rappresentazione di Tosca: Hariclea Darclèe (Tosca), Emilio de Marchi (Cavaradossi), Eugenio Giraldoni (Scarpia)] Il successo fu subito considerevole, soprattutto nelle sedici successive repliche.
Anche se
inizialmente criticata da una parte della stampa, che si attendeva un lavoro più in linea con le due precedenti opere pucciniane, Tosca si affermò comunque ben presto in repertorio e nel giro di tre anni fu rappresentata nei maggiori teatri lirici del mondo. E’ interessante notare come Tosca, fra tutte le opere di Puccini, sia non solo quella che ha richiesto più tempo dal primo concepimento fino alla stesura finale, ma anche quella che ha subìto meno modifiche. Puccini infatti soleva rivedere tutte le sue opere ancora dopo la prima rappresentazione, spesso in modo radicale, per lo più accorciandole sensibilmente, ma anche riscrivendo singoli passaggi. Non fu così per Tosca, dalla quale Puccini tolse solo qualche dozzina di battute, situate in passaggi diversi dell’opera.
NOTE MUSICALI Tosca è considerata l'opera più drammatica di Puccini, ricca com'è di colpi di scena e di trovate che tengono lo spettatore in costante tensione. Il discorso musicale si evolve in modo altrettanto rapido, caratterizzato da incisi tematici brevi e taglienti, spesso costruiti su armonie dissonanti, come quella prodotta dalla successione degli accordi del tema di Scarpia che apre l'opera. Inoltre non vi è alcuna ouverture iniziale. Puccini guardava alle complesse esperienze maturate nel mondo operistico francese e tedesco (Bizet, Massenet e soprattutto Wagner), il loro uso dei temi ricorrenti (Leitmotiv), ossia associare una [94]
precisa idea musicale (una breve melodia, una serie di accordi, uno schema ritmico) ad un personaggio, un sentimento o una situazione. La figura di Scarpia acquista nell’opera un ruolo centrale: a lui è associato un tema che ricorre per ben ventisette volte nel corso dell’opera. Non solo: alcune cellule del suo tema, opportunamente elaborate, si infiltrano anche in altro materiale melodico dell’opera, ad indicare come la sua figura getti la propria ombra su gran parte dell’azione. L'acme drammatica è costituita dal secondo atto, che vede come protagonista il sadico barone Scarpia, in cui l'orchestra pucciniana
assume
sonorità
che
anticipano
l'estetica
dell'espressionismo musicale tedesco Da rilevare anche l’interazione tra il sinistro Scarpia e l’ambiente romano (soprattutto alla fine del primo atto), quasi a voler dimostrare che la lussuria e la crudeltà di Scarpia nascono e trovano la loro più intima motivazione nel contesto reazionario e bigotto della Roma papalina a cavallo tra il ’700 e l’800, un contesto storico che soffoca ogni tipo di libertà sia politica che sentimentale. Ed è proprio l’elemento sentimentale, l’amore tra Tosca e Cavaradossi, l’altro motore dell’opera. La vena melodica di Puccini ha modo di emergere nei duetti tra Tosca e Mario, nonché nelle tre celebri romanze, una per atto (Recondita armonia, Vissi d'arte, E lucevan le stelle), che rallentano in direzione lirica la concitazione della vicenda.
HARICLEA DARCLÉEE, LA PRIMA TOSCA Hariclea Darclée, vero nome Hariclea Haricli, soprano lirico e drammatico, viene considerata la più grande cantante d’opera tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ed è divenuta famosa per essere stata la prima interprete di Tosca al debutto al Teatro Costanzi di Roma. Le sue eccezionali doti tecniche-drammatiche conquistarono i compositori Giacomo Puccini, Pietro Mascagni, Alfredo Catalani e Giuseppe Verdi, il quale estasiato le conferì il ruolo di Violetta Valery ne “La Traviata”. Hariclea nacque in Romania a Braila, presso Bucarest, nel 1860, il padre era un proprietario terriero,
la madre discendeva dalla famiglia aristocratica greca dei principi bizantini Mavrocordatos. In questa situazione di benessere economico visse un’infanzia felice, con educazione raffinata e molti viaggi. Sposò giovanissima il capitano Hartoulari, dell’esercito romeno, che però dilapidò le fortune economiche della moglie. Incoraggiata anche dalla regina di Romania, che ne apprezzava moltissimo la voce, studiò musica e canto prima a Vienna e successivamente al Conservatorio di Parigi.
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Il suo debutto operistico avvenne nel 1888 all’Opéra Garnier di Parigi, dove interpretò il ruolo di Marguerite nel “Faust” di Charles Gounod. Il compositore francese ne rimase entusiasta. Il successo arrivò l’anno seguente, nel 1889, quando sostituì il noto soprano Adelina Patti nel ruolo di Giulietta in “Roméo et Juliette” di Charles Gounod: pubblico e critica la elogiarono per la sua presenza scenica e per l’eleganza della sua voce. Prende in tal modo avvio la sua straordinaria carriera operistica: è acclamata protagonista sui palcoscenici dei più importanti teatri italiani ed internazionali, in particolare Milano, Roma, Parigi, Berlino, Lisbona, Montecarlo, Buenos Aires, sovente in opere in prima esecuzione assoluta.
E’ dotata di una vocalità particolare che le permette di essere un soprano drammatico d'agilità, in un repertorio eterogeneo di ruoli di coloratura, lirici e drammatici, la voce possiede uno splendido timbro, è omogenea, potente ma anche duttile e agile e sorretta da un'ottima preparazione tecnica. E’ anche una donna avvenente, sul palcoscenico possiede una presenza scenica elegante e raffinata. Puccini la pensa come protagonista ideale di Tosca e a lei, alla sua fisicità, al suo fascino, si ispirò con esaltazione creativa. E naturalmente fu lei ad essere voluta dallo stesso compositore in occasione del debutto dell’opera. La cantante in quel tempo era al culmine della sua popolarità: sui muri i manifesti di Hohenstein la ritraevano nei costumi e gesta di Tosca, in teatro durante la prova generale intervenne anche Ermete Novelli per insegnare quali dovessero essere i gesti di Tosca di fronte a Scarpia ucciso. Fu un grande successo; da allora la Darclée la interpretò numerose volte nei teatri di tutto il mondo. Nel 1918, ancora nel pieno dei suoi mezzi vocali, si ritirò dalle scene per dedicarsi all’insegnamento in Romania (ebbe tra gli allievi anche Gina Cigna), ma a seguito del mancato sostegno delle istituzioni pubbliche fu costretta a vivere tra mille difficoltà economiche. Non possedeva che pochi beni: i suoi lauti guadagni e i suoi gioielli erano stati dilapidati dagli uomini di cui si era innamorata. Hariclea Darclée morì in Romania, a Bucarest, il 12 Gennaio del 1939 in assoluta povertà. I suoi
funerali furono finanziati dall'Ambasciata italiana.
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GUIDA ALL’ASCOLTO ANTEFATTO L'azione si svolge a Roma, in una data ben precisa, il 17 Giugno 1800, qualche giorno dopo la battaglia di Marengo. La Repubblica Romana è caduta e feroci rappresaglie sono in corso verso gli ex-repubblicani simpatizzanti di Napoleone Bonaparte. Cesare Angelotti, bonapartista ed ex console della Repubblica Romana, è fuggito dalla prigione di Castel Sant'Angelo e cerca rifugio nella Basilica di Sant'Andrea della Valle, dove sua sorella, la marchesa Attavanti, gli ha fatto trovare un travestimento femminile che gli permetterà di passare inosservato.
ATTO PRIMO La scena si apre all’interno della Chiesa di Sant’Andrea della Valle a Roma. A destra si vede la Cappella Attavanti. A sinistra un’impalcatura sulla quale si trova un grande quadro coperto da un telo. A terra vari attrezzi da pittore e un paniere. L’opera si apre con tre violenti accordi a piena orchestra, che ritorneranno numerose volte nel corso della partitura, sempre associati alla demoniaca figura di Scarpia. Suonati in assenza del personaggio, sono qui utilizzati in relazione al clima di inquietudine e terrore che incombe sul dramma. Irrompe sulla scena il conte Cesare Angelotti, già console della Repubblica e per questo prigioniero politico, appena fuggito dalle carceri di Castel Sant’Angelo: è lacero, sfinito, terrorizzato, ansimante. Le guardie lo inseguono. Si guarda attorno a se. Il suo scopo è quello di rifugiarsi nella cappella privata della sorella, la marchesa Attavanti, che gli ha lasciato la chiave della cappella di famiglia, per nascondersi. Ai “tre accordi di Scarpia” si accompagna un tema conciso formato da un accordo suonato violentemente dall’intera orchestra, seguito da una scala discendente, ripetuta con una sonorità che va assottigliandosi timbricamente: questo è il leitmotiv che accompagnerà Angelotti nel corso dell’opera. Angelotti introduce la chiave nella serratura, apre la cancellata e scompare dopo averla rinchiusa. Assoluto silenzio sulla scena. Arriva il sagrestano per ripulire i pennelli del pittore Mario Cavaradossi, impegnato nella realizzazione di un affresco raffigurante la Madonna. All’ingresso del sagrestano l’orchestra suona un tema da opera comica frammentato da piccole pause: questo sarà il suo leitmotiv.
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Il sagrestano si aggira per la chiesa brontolando per un mazzo da pennelli da lavare. Si avvicina all’impalcatura e parla a voce alta come se rivolgesse la parola a qualcuno. Suona l’Angelus, e l’uomo si inginocchia. Sopraggiunge il pittore Mario Cavaradossi, incaricato di dipingere la pala dell’altare della Chiesa. Al suono di una melodia dei legni che prefigura quello che sarà il tema d’amore, egli scopre il ritratto della Maddalena da lui raffigurata con occhi azzurri e capelli biondi. Il suo volto mostra un’evidente somiglianza con quello della marchesa Attavanti, che il pittore ha preso a modello all’insaputa dell’interessata, quando la nobile donna si è recata in chiesa a pregare.
[Riccardo Massi (Cavaradossi). Washington National Opera, 2019] Cavaradossi estrae di tasca un medaglione contenente una miniatura con il volto di Floria Tosca, la cantante di cui è innamorato, fa un confronto tra le due donne, confronto che si risolve pienamente a favore di Tosca:
CAVARADOSSI. Recondita armonia di bellezze diverse!... È bruna Floria, l'ardente amante mia... SAGRESTANO. Scherza coi fanti e lascia stare i santi! CAVARADOSSI. E te, beltade ignota, cinta di chiome bionde! Tu azzurro hai l'occhio, Tosca ha l'occhio nero! SAGRESTANO. Scherza coi fanti e lascia stare i santi! CAVARADOSSI. L'arte nel suo mistero le diverse bellezze insiem confonde; ma nel ritrar costei il mio solo pensiero, Tosca, sei tu! Il sagrestano fa per uscire, quando nota che il paniere con il pranzo di Cavaradossi è ancora intatto; pensa ad un digiuno di penitenza, ma il pittore lo rassicura dicendo di non aver appetito. Introdotto dal suo tema musicale (accordo in fortissimo con scala discendente) ricompare da dietro la cancellata Angelotti che, pensando di esser rimasto solo, esce dal nascondiglio. Si ritrova però davanti Cavaradossi, suo vecchio amico e anch'egli simpatizzante per Napoleone Bonaparte. Gli chiede aiuto. I due vengono interrotti bruscamente dall'arrivo di Tosca, che sopraggiunge alla ricerca del suo amato Mario. Angelotti è costretto a nascondersi frettolosamente nella Cappella, non prima di aver preso il paniere di Cavaradossi per sfamarsi, indebolito qual è per la fuga. Una dolce melodia esposta da flauto e violoncello sugli arpeggi dei violini accompagna la comparsa della donna.
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[Maria Callas e Renato Cioni. Covent Garden. Londra 1964] Floria Tosca è per sua indole molto gelosa, ha sentito il suo amato parlare con qualcuno e teme
la
presenza
di
un'altra
donna.
Cavaradossi la rassicura dal di essere l'unica donna da lui amata (riprende il tema suonato dai violini e dal violoncello su arpeggio dei legni). Dopo un delicato gesto di pudore (niente baci davanti all’immagine della Madonna) ed una breve preghiera recitata in ginocchio, la donna invita l’amato ad un incontro notturno nella villa di lui dopo il breve spettacolo serale che l’attende. TOSCA. Non la sospiri la nostra casetta che tutta ascosa nel verde ci aspetta? Nido a noi sacro, ignoto al mondo inter, pien d'amore e di mister? Al tuo fianco sentire per le silenziose stellate ombre, salir le voci delle cose!... Dai boschi e dai roveti, dall'arse erbe, dall'imo dei franti sepolcreti odorosi di timo, la notte escon bisbigli di minuscoli amori e perfidi consigli che ammolliscono i cuori. Fiorite, o campi immensi, palpitate aure marine nel lunare albor, piovete voluttà, volte stellate! Arde a Tosca folle amor! CAVARADOSSI. Mi avvinci nei tuoi lacci, mia sirena, mia sirena, verrò! (guarda verso la parte dove si era rifugiato Angelotti) Or lasciami al lavoro.
Questa richiesta di essere lasciato solo riaccende la gelosia di Tosca che guarda con occhi nuovi la tela dipinta da Cavaradossi: riconosce nello sguardo della Maddalena gli occhi della Marchesa Attavanti, e di nuovo Cavaradossi le proclama il suo unico e incondizionato amore. CAVARADOSSI. Quale occhio al mondo può star di paro all'ardente occhio tuo nero? È qui che l'esser mio s'affisa intero. Occhio all'amor soave, all'ira fiero! Qual altro al mondo può star di paro all'occhio tuo nero!... TOSCA (rapita, appoggiando la testa alla spalla di Cavaradossi).Oh, come la sai bene l'arte di farti amare! (maliziosamente) Ma... falle gli occhi neri!... CAVARADOSSI. Mia Tosca idolatrata, ogni cosa in te mi piace; l'ira audace e lo spasimo d'amor! TOSCA. Dilla ancora la parola che consola... Dilla ancora! CAVARADOSSI. Mia vita, amante inquieta, dirò sempre: "Floria, t'amo!" Ah! l'alma acquieta, sempre "t'amo!" ti dirò! Ogni tensione scompare, e i due amanti si scambiano un bacio senza più remore davanti all’immagine della Madonna. Allontanatasi Tosca, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio e concordare con Cavaradossi il piano di fuga. Racconta che la sorella ha nascosto nella cappella per lui delle vesti femminili; aspetterà che si faccia buio per fuggire dalla caccia del barone Scarpia. Cavaradossi consiglia all'amico di recarsi subito alla sua villa e - in caso di pericolo – di nascondersi nel pozzo. [100]
Durante il dialogo tra i due ritornano nell’orchestra, seppur fugacemente, il tema di Angelotti, il tema d’amore (quando il pittore parla di tener fuori dal piano la sua Tosca), quello di Scarpia (che Cavaradossi definisce con disprezzo “bigotto satiro che affina con le devote pratiche la foia libertina”) e il tema cadenzale che risuona associato alla villa in cui Angelotti si nasconderà. Un colpo di cannone sparato da Castel Sant'Angelo annuncia che la fuga di Angelotti è stata scoperta. I due amici partono rapidamente dalla cappella.
Entra il sagrestano circondato da una folla di chierici, allievi e cantori della cappella, tutti festosi per la notizia della presunta sconfitta a Marengo dello “scellerato” Napoleone da parte degli austriaci e per la veglia di gala che si sta preparando per quella sera stessa a Palazzo Farnese, durante la quale proprio Tosca interpreterà un’apposita nuova cantata. Al culmine dell’eccitazione, il risuonante improvviso dei tre accordi segnala l’ingresso del barone Scarpia, accompagnato da Spoletta e altri sbirri, giunto nella chiesa alla ricerca di Angelotti, il “prigionier di Stato” fuggito da Castel Sant’Angelo. Dopo aver zittito con autorità i presenti, allibiti dalla comparsa di quel personaggio che incute terrore a tutti, fa ispezionare il sacro luogo, dove è sicuro di trovare le tracce del fuggitivo. Entra lui stesso nella cappella della famiglia Attavanti, dove scopre un ventaglio recante lo stemma della marchesa. Quando riconosce la fattezza della nobildonna nel ritratto della Maddalena e apprende essere Cavaradossi l’autore del dipinto, Scarpia sottopone il terrorizzato sagrestano ad un serrato interrogatorio e intuisce che la fuga di Angelotti è avvenuta con la complicità di Cavaradossi. La prova definitiva è data dal paniere che - come racconta il sagrestano - prima era pieno del cibo rifiutato dal pittore e adesso viene ritrovato vuoto, un segno inequivocabile del passaggio del fuggitivo. All’improvviso Tosca torna in chiesa, inattesa da tutti, molto nervosa, per annunciare al suo amato un
cambio
di
programma:
dovrà
presenziare ad un concerto a Palazzo Farnese quella sera stessa, quindi non potrà recarsi alla sua villa. Non trova il suo amante e questo alimenta la sua gelosia.
[Claire Rutter e Mark S Doss. Welsh National Opera, 2018]
Scarpia, che all’ingresso della donna si era nascosto dietro una colonna, le appare all’improvviso. Dapprima i suoi modi sono gentili e cortesi, ostenta una mite religiosità, si profonde in complimenti verso la donna che egli ama in silenzio. Come Jago con Otello, utilizza il ventaglio per instillare il dubbio nella mente di Tosca, che riconosce lo [101]
stemma sul ventaglio e cade nel tranello. Passa prima per un profondo sconforto per poi cedere ad una rabbia feroce.
TOSCA (con grande sentimento, trattenendo a stento le lagrime, dimentica del luogo e di Scarpia). Ed io venivo a lui tutta dogliosa per dirgli: invan stassera, il ciel s'infosca... l'innamorata Tosca è prigioniera... dei regali tripudi. SCARPIA. (Già il veleno l'ha rosa!) (mellifluo a Tosca) O che v'offende, dolce signora?... Una ribelle lagrima scende sovra le belle guancie e le irrora; dolce signora, che mai v'accora? TOSCA. Nulla! SCARPIA (con marcata intenzione). Darei la vita per asciugar quel pianto. TOSCA (non ascoltandolo). Io qui mi struggo e intanto d'altra in braccio le mie smanie deride! SCARPIA. (Morde il veleno!) TOSCA (con grande amarezza). Dove son? Potessi coglierli, i traditori! (sempre più crucciosa) Oh qual sospetto! Ai doppi amori è la villa ricetto! (con immenso dolore) Traditor! Oh mio bel nido insozzato di fango! (con pronta risoluzione) Vi piomberò inattesa! (rivolta al quadro, minacciosa) Tu non l'avrai stasera. Giuro!
Tosca, convinta che Cavaradossi abbia una relazione con la Marchesa, corre alla villa del pittore per poter cogliere i due sul fatto. Scarpia la fa seguire da Spoletta e da alcune guardie. Mentre si svolge la scena tra Tosca e Scarpia, una folla di fedeli si è intanto raccolta nel fondo della Chiesa in attesa del cardinale per il Te Deum di ringraziamento.
[Teatro alla Scala di Milano. Inaugurazione stagione 2019-2020. 7 dicembre 2019. Direttore Riccardo Chailly] [102]
La scena si evolve su due piani paralleli. Il primo rappresenta il barone che avanza sul proscenio svelando le sue mire: avere per sè Floria Tosca, che desidera possedere più di ogni altra cosa e catturare Angelotti. Il declamato di Scarpia si snoda su una sinuosa melodia di viole e violoncelli. Il secondo è il rito liturgico che si snoda in una processione che accompagna il cardinale verso l’altare maggiore tra due ali di folla. Preceduta da un lento ostinato suono di campane, la musica si infittisce sempre di più con l’ingresso dei fiati, dei colpi di cannone in lontananza, dell’organo, dalle voci improntate dal canto gregoriano. Al culmine sonoro, quando i fedeli intonano a piena voce il Te Deum, Scarpia, riavendosi dal suo sogno erotico, grida: “Tosca, mi fai dimenticare Iddio!” Sul ritorno dei tre accordi demoniaci del suo tema cala rapidamente il sipario.
ATTO SECONDO La scena si svolge all’interno di Palazzo Farnese, E’ notte. La camera di Scarpia al piano superiore; la tavola è imbandita e il barone è seduto a tavola a cena. Irrequieto, interrompe più volte il pasto guardando l’orologio. Dalla finestra aperta giungono gli echi della festa con la musica del concerto, a cui deve partecipare Tosca, che però non è ancora giunta. Questo secondo atto si apre con un preludio strumentale imperniato su una breve melodia discendente che ritornerà più volte in scena in questo atto. Sulle note di una gavotta eseguita da flauto, viola ed arpa, Scarpia scrive un biglietto a Tosca, invitandola a raggiungerlo dopo il concerto. Consegna il biglietto al suo fido gendarme Sciarrone. Ritornano anche i tre sinistri accordi che gli sono propri. Scarpia intona quindi un’aria in cui esprime la sua cinica filosofia di vita: SCARPIA. Ella verrà... per amor del suo Mario! Per amor del suo Mario... al piacer mio s'arrenderà. Tal dei profondi amori, è la profonda miseria. Ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso. Io di sospiri e di lattiginose albe lunari poco mi appago. Non so trarre accordi di chitarra, né oroscopo di fior (sdegnosamente) né far l'occhio di pesce, o tubar come tortora! (s'alza, ma non si allontana dalla tavola) Bramo. La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto... volto a nuova esca. Dio creò diverse beltà e vini diversi... Io vo' gustar quanto più posso dell'opra divina! (beve)
Ad interrompere la sua meditazione entra Spoletta che racconta di aver pedinato Tosca sino alla villa di Cavaradossi (e qui si ripete il motivo cadenzale che ad ella richiama, già udito nel primo atto), ma di non avere trovato tracce di Angelotti. Ha comunque arrestato il pittore per il suo atteggiamento sospetto. Meditabondo, Scarpia si affaccia alla finestra e ascolta la voce di Tosca che quindi è arrivata. Ordina di far entrare Cavaradossi. [103]
Inizia un altro efficacissimo montaggio da parte di Puccini di piani sonori: all’ingresso del pittore si sovrappone dalla finestra il canto di Tosca e del coro con una lamentosa melodia dei legni (dapprima il flauto solo, poi assieme al clarino) che più volte risuonerà durante l’interrogatorio; anche le voci dei protagonisti si alzano per farsi udire sopra la musica e l’effetto è di una grandissima tensione. Scarpia cerca di fare confessare a Cavaradossi dove si è nascosto il suo amico, senza però riuscirvi. Tosca entra nella stanza; vedendo Cavaradossi, si avvicina a lui che la implora di non dire nulla. Scarpia ordina ai suoi gendarmi di portare il pittore nella stanza accanto dove verrà torturato per carpirgli la verità. Tosca e Scarpia rimangono soli. Su una melodia degli archi sincopati, anticipati da flauto e clarinetto e ripresa più volte, Scarpia, per ottenere da Tosca le informazioni che desidera su Angelotti, cerca di rinfocolarne la gelosia con la storia del ventaglio, ma la donna è sicura dell’amore del suo Mario, Scarpia passa allora alle maniere forti e le fa udire i gemiti del suo amante sottoposto a tortura, legato mani e piedi, il capo stretto da un cerchio che viene sempre più stretto alla tempie ogni qualvolta egli nega. Fa in modo che i due amanti, da una stanza all’altra, si scambino sguardi e parole, certo che la visione della sofferenza faccia cedere Tosca. Cavaradossi incita la donna a non parlare. Scarpia incalza implacabile Tosca che, vinta dalla tragedia che si sta consumando davanti a suoi occhi, cade prostrata a terra e con voce singhiozzante supplica un impassibile e silenzioso Scarpia di avere pietà.
[Anna Netrebko (Tosca), Francesco Meli (Cavaradossi), Luca Salsi (Scarpia). Teatro alla Scala di Milano, 7.12.2019]
Cavaradossi viene portato nella camera di tortura mentre Scarpia, rimasto solo con Tosca, cerca di farle rivelare il nascondiglio di Angelotti. Per convincerla a parlare le fa sentire le urla di dolore di Cavaradossi, provenienti dalla stanza attigua. Tosca cerca di resistere, sopportando le urla strazianti del pittore, finché non cede: urla a Scarpia che Angelotti è nascosto nel pozzo del giardino. Cavaradossi, sanguinante e fisicamente provato, viene condotto in stanza (su un doloroso motivo di fagotti e viole) dai gendarmi che lo depongono sul canapè, E’ svenuto, Tosca corre a lui, ma l'orrore della vista dell'amante insanguinato è così forte, ch'essa sgomentata si copre il volto per non vederlo, poi, vergognosa di questa sua debolezza, si inginocchia presso di lui, baciandolo e piangendo. Cavaradossi scopre che il suo segreto è stato svelato e maledice Tosca che ha parlato. [104]
Mentre Spoletta va a catturare Angelotti, irrompe nella stanza Sciarrone con una notizia preoccupante dal fronte: quella che sembrava essere una sconfitta pesante per Napoleone, in realtà si è trasformata in una vittoria decisiva. L'esercito austriaco è stato sconfitto a Marengo. Cavaradossi ritrova le forze e urla alla vittoria, facendosi beffe di Scarpia. Quest'ultimo non tollera l'affronto del rivale e lo condanna a morte. Scarpia rimane di nuovo solo con Tosca, mentre nell’orchestra risuona la melodia discendente che ha aperto il II atto. La donna lo implora di salvare il suo Mario e gli chiede il prezzo dei suoi favori. Scarpia, su un motivo ascendente dei legni che si accompagnerà sempre alla sua libidine, le rivela tutta la sua passione. Vi è una svolta radicale nei suoi rapporti con Tosca, confermata dal passaggio all’uso del “tu”.
[Lianna Haroutounian, Mark Delevan. San Francisco Opera. 2014]
SCARPIA. (ride) Già - Mi dicon venal, ma a donna bella (insinuante e con intenzione) non mi vendo a prezzo di moneta. Se la giurata fede devo tradir... ne voglio altra mercede. Quest'ora io l'attendeva! Già mi struggea l'amor della diva! Ma poc'anzi ti mirai qual non ti vidi mai! (eccitatissimo, si alza) Quel tuo pianto era lava ai sensi miei e il tuo sguardo che odio in me dardeggiava, mie brame inferociva!... Agil qual leopardo ti avvinghiasti all'amante; Ah! In quell'istante t'ho giurata mia!... Mia! (si avvicina, stendendo le braccia verso Tosca: questa, che aveva ascoltato immobile, impietrita, le lascive parole di Scarpia, s'alza di scatto e si rifugia dietro il canapè) TOSCA. Ah! SCARPIA. (quasi inseguendola) Sì, t'avrò!... TOSCA. (inorridita corre alla finestra) Piuttosto giù mi avvento! SCARPIA. (freddamente) In pegno il Mario tuo mi resta!... TOSCA. Ah! miserabile... l'orribile mercato! Tosca è spaventata, fissando Scarpia si lascia cadere sul canapè, poi distoglie lo sguardo dall’uomo con un gesto di estremo disgusto e odio. Da lontano suonano i tamburi, segnale della prossima esecuzione. Scarpia frena la sua foga libidinosa e propone a Tosca il suo estremo ricatto: o Tosca si darà a lui o Mario morirà. La donna esprime tutto il suo dolore e la sua disperazione in una toccante preghiera, in cui risuona al flauto il tema che aveva contrassegnato la sua entrata al primo atto.
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TOSCA. (nel massimo dolore) Vissi d'arte, vissi d'amore, non feci mai male ad anima viva!... Con man furtiva quante miserie conobbi, aiutai... Sempre con fe' sincera, la mia preghiera ai santi tabernacoli salì. Sempre con fe' sincera diedi fiori agli altar. (alzandosi) Nell'ora del dolore perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così? Diedi gioielli della Madonna al manto, e diedi il canto agli astri, al ciel, che ne ridean più belli. Nell'ora del dolore, perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così? (singhiozzando)
[Annalisa Rospigliosi. Teatro Priamàr. Savona 2014]
All’improvviso irrompe Spoletta con la notizia della morte di Angelotti: il fuggiasco, pur di non farsi catturare, si è tolto la vita. E’ rimasto solo Cavaradossi, pronto per essere impiccato. A questo punto, Tosca, al colmo della disperazione, piangendo dalla vergogna, acconsente a offrirsi a Scarpia, ma esige l’immediata liberazione del suo Mario. Il barone ordina a Spoletta di predisporre per Cavaradossi una fucilazione simulata, ma fa con il suo gendarme un gesto di intesa che la fucilazione avverrà davvero. Tosca, che non si è accorta dell’inganno, chiede a Scarpia che le firmi un salvacondotto per fuggire via da Roma con il suo amato Mario. Mentre Scarpia scrive, Tosca si avvicina alla tavola imbandita del barone, scorge un coltello, se ne impossessa e lo nasconde dietro di sé. Scarpia ha finito di scrivere il salvacondotto e gli appone il sigillo, quindi aprendo le braccia si avvicina a Tosca per avvincerla a sé.
SCARPIA. Tosca, finalmente mia!... (ma l'accento voluttuoso si cambia in un grido terribile - Tosca lo ha colpito in pieno petto) (gridando) Maledetta! TOSCA. (gridando) Questo è il bacio di Tosca! SCARPIA. (con voce strozza) Aiuto! muoio! (Scarpia stende il braccio verso Tosca avvicinandosi barcollante in atto di aiuto. Tosca lo sfugge ma ad un tratto si trova presa fra Scarpia e la tavola e, vedendo che sta per essere toccata da lui, lo respinge inorridita. Scarpia cade) Soccorso! Muoio! [106]
TOSCA. (con odio a Scarpia) Ti soffoca il sangue? (Scarpia si dibatte inutilmente e cerca di rialzarsi, aggrappandosi al canapè) E ucciso da una donna! M'hai assai torturata!... Odi tu ancora? Parla!... Guardami!... Son Tosca!... O Scarpia! SCARPIA. (fa un ultimo sforzo, poi cade riverso) (soffocato) Soccorso, aiuto! (rantolando) Muoio! TOSCA. (piegandosi sul viso di Scarpia). Muori dannato! Muori! Muori! Muori! La donna senza togliere lo sguardo dal cadavere di Scarpia, va al tavolo, prende una bottiglia d'acqua e inzuppando un tovagliolo si lava le dita, poi si ravvia i capelli guardandosi allo specchio. Vede il salvacondotto nella mano raggrinzita di Scarpia e lo prende. Prima di uscire prendere le due candele che sono sulla mensola a sinistra e le accende, mettendole accanto alla testa di Scarpia. Vedendo un crocefisso va a staccarlo dalla parete e portandolo religiosamente si inginocchia per posarlo sul petto di Scarpia. Si alza e con grande precauzione esce, richiudendo dietro a sé la porta.
[Maria José Siri, Alberto Gazale. Teatro Carlo Felice. Genova, 2019]
ATTO TERZO Dopo l’unisono iniziale dei quattro corni, un diafano preludio orchestrale (con ottavini, flauti, arpa e violini) immette nella scena finale del dramma. In lontananza un giovane pastore canta una malinconica canzone in romanesco in cui fin dalle prime batture si insinua la cadenza di Scarpia, a testimonianza della tragedia che sta per accadere. E’ notte, cielo sereno, prossimo ai chiarori dell’alba. La scena è sulla piattaforma di Castel Sant’Angelo, sullo sfondo il Vaticano e San Pietro. Accompagnato dai violini che suonano il tema d’amore, appare Cavaradossi, accompagnato dai suoi carcerieri per l’esecuzione. [Placido Domingo (Cavaradossi)] [107]
Rifiutati i conforti religiosi, il pittore corrompe il carceriere per avere carta e penna, vuole scrivere un'ultima lettera alla sua amata Tosca. Ma dopo poche righe, straccia il foglio e ripensa ai momenti felici trascorsi con lei (risuona ancora il tema dell’amore). Il clarinetto anticipa la celeberrima melodia dell’aria finale di Cavaradossi, in cui la nostalgia di una notte d’amore raggiunge accenti accorati che culminano in un lancinante addio alla vita sulle parole “E muoio disperato!”, che Puccini impose al librettista.
CAVARADOSSI. (rimane alquanto pensieroso, quindi si mette a scrivere... ma dopo tracciate alcune linee è invaso dalle rimembranze, e si arresta dallo scrivere) (pensando) E lucevan le stelle... ed olezzava la terra... stridea l'uscio dell'orto... e un passo sfiorava la rena... Entrava ella, fragrante, mi cadea fra le braccia... Oh! dolci baci, o languide carezze, mentr'io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio d'amore... L'ora è fuggita... E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita!... (scoppia in singhiozzi, coprendosi il volto colle mani) Tosca fa il suo ingresso nella cella accompagnata da Spoletta (il quale ancora non è a conoscenza della morte di Scarpia).
[Anna Netrebko, Francesco Meli. Teatro alla Scala di Milano, 7.12.2019.
La donna, agitatissima, vede il suo amato piangere e si slancia verso di lui, e non potendo parlare per la grande emozione gli solleva con le due mani la testa. Tosca confessa a Cavaradossi il suo crimine e gli mostra il salvacondotto firmato da Scarpia prima che lei lo uccidesse.
TOSCA. (scattando) Il tuo sangue o il mio amore volea... Fur vani scongiuri e pianti. Invan, pazza d'orror, alla Madonna mi volsi e ai Santi... L'empio mostro dicea: già nei cieli il patibol le braccia leva! Rullavano i tamburi... Rideva, l'empio mostro... rideva... già la sua preda pronto a ghermir! "Sei mia!" - Sì. - Alla sua brama mi promisi. Lì presso luccicava una lama... Ei scrisse il foglio liberator, venne all'orrendo amplesso... Io quella lama gli piantai nel cor. CAVARADOSSI. Tu!?... di tua man l'uccidesti? - tu pia, tu benigna, - e per me! TOSCA. N'ebbi le man tutte lorde di sangue! CAVARADOSSI. (prendendo amorosamente fra le sue le mani di Tosca). O dolci mani mansuete e pure, o mani elette a bell'opre e pietose, a carezzar fanciulli, a coglier rose, a pregar, giunte, per le sventure, dunque in voi, fatte dall'amor secure, giustizia le sue sacre armi depose? Voi deste morte, o man vittoriose, o dolci mani mansuete e pure!... TOSCA. (svincolando le mani) Senti... l'ora è vicina; io già raccolsi (mostrando la borsa) oro e gioielli... una vettura è pronta. Ma prima... ridi amor... prima sarai fucilato - per finta - ad armi scariche.. Simulato [108]
supplizio. Al colpo... cadi. I soldati sen vanno... - e noi siam salvi! Poscia a Civitavecchia... una tartana... e via pel mar! CAVARADOSSI. Liberi! TOSCA. Chi si duole in terra più? Senti effluvi di rose?!... Non ti par che le cose aspettan tutte innamorate il sole?... CAVARADOSSI. (colla più tenera commozione) Amaro sol per te m'era morire, da te la vita prende ogni splendore, all'esser mio la gioia ed il desire nascon di te, come di fiamma ardore. Io folgorare i cieli e scolorire vedrò nell'occhio tuo rivelatore, e la beltà delle cose più mire avrà sol da te voce e colore. TOSCA. Amor che seppe a te vita serbare, ci sarà guida in terra, e in mar nocchier... e vago farà il mondo riguardare. Finché congiunti alle celesti sfere dileguerem, siccome alte sul mare a sol cadente, (fissando come in una visione) nuvole leggere!... Suonano le 4 del mattino. Al suono di una lenta marcia intonata prima dai legni e poi via via dal resto dell’orchestra giunge il plotone, Cavaradossi viene portato sul ponte di Castel Sant'Angelo e quando i soldati sparano cade a terra.
[Teatro Regio di Parma. 2018]
Tosca attende che i soldati se ne siano andati, prima di accorrere verso il suo amato e aiutarlo a rialzarsi; solo allora capisce che, quella che avrebbe dovuto essere una simulazione, in realtà è stata una vera fucilazione. Il suo strazio è immenso. Dalle stanze di Castel Sant'Angelo si odono intanto le urla di Spoletta e dei soldati che hanno trovato il corpo di Scarpia; si recano in fretta sul ponte per arrestare Tosca. Lei con un gesto repentino sale sul parapetto del ponte e si getta nel vuoto, non prima di aver lanciato un'ultima impossibile sfida al suo carnefice: “O Scarpia, davanti a Dio!”
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DISCOGRAFIA Tosca ha il nome di più interpreti, poiché l'opera consente di privilegiare differenti risvolti interpretativi. In un’ipotetica graduatoria metterei al primo posto Maria Callas e Leontyne Price, con una personale preferenza per la prima; qualche gradino più basso Renata Tebaldi. Ognuna di esse ha inciso quest’opera più volte, non sempre con risultati ottimali. Ho recensito quella reputate migliori dalla critica specializzata. Altre interpretazioni eccellenti (ma a mio parere inferiori a queste tre) sono quelle di Magda Olivero, Montserrat Caballè, Mirella Freni, e, in epoca attuale, di Angela Gheorghiu. Giacomo Puccini: Tosca Maria Callas (Tosca), Giuseppe di Stefano (Cavaradossi), Tito Gobbi (Scarpia). Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, dir. Victor De Sabata. Warner Questa Tosca del 1953, probabilmente la più bella edizione di Tosca mai registrata, è una pietra miliare nella storia della musica registrata. Diretta con bruciante intensità da Victor de Sabata, riunisce la Callas con due dei suoi colleghi più stretti, il tenore Giuseppe di Stefano e il baritono Tito Gobbi, un artista che poteva competere con la Callas per potenza e sottigliezza drammatica. L’aria di Tosca “Vissi d’arte” è stata considerata il manifesto personale della Callas. Sono passati 67 anni e questo gioiello è ancora cercato! Maria Callas tratteggia il personaggio sia vocalmente che psicologicamente in maniera tale che nessuna Tosca è altrettanto appassionata, gelosa, innamorata, certamente le più tragica! Ma anche tutto il resto del cast vocale è all'altezza, ad iniziare da Tito Gobbi, con lo Scarpia più sadico e crudele mai apparso su palcoscenico o su disco, e da un Di Stefano amante ardente e patriota democratico convinto. E come non citare il grande direttore italiano De Sabata, persona schiva tanto che ha inciso assai poco, ma di una grandezza non inferiore ai giganti del suo tempo (da Toscanini e Furtwängler)! Una nota infine sulla tecnica di registrazione: è una registrazione mono dei primi anni '50, ma la EMI ha fatto un vero miracolo.
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Giacomo Puccini: Tosca Leontyne Price (Tosca), Giuseppe di Stefano (Cavaradossi), Giuseppe Taddei (Scarpia). Wiener Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan. Decca – The Originals Se la regina del capolavoro pucciniano in mono è senz'ombra di dubbio la Divina Callas - che non interpretava Tosca, ma “era” Tosca - , nella "moderna" versione in stereo (siamo nel 1964) il cast riunito attorno a Herbert von Karajan è difficilmente battibile: la voce calda e sensuale di Leontyne Price, star della lirica allora appena scoperta dal Maestro austriaco (con cui inciderà anche una versione di riferimento di "Carmen"), dipinge una Tosca assolutamente convincente, sia dal punto di vista attoriale (per essere americana ha una pronuncia eccellente) che canoro, con un'estensione vocale impressionante mista ad una rara sensibilità, che germoglia nel tenero momento dell'incontro in chiesa con Cavaradossi nel primo atto e sboccia (chiaramente) in "Vissi d'arte". In vero stile belcanto, è uno dei pochi soprano la cui voce non cambia quando si sposta da un registro all'altro e non diventa più strillante quando raggiunge le note alte. Straordinario. Può essere un'attrice minore di Callas a volte (questo è più evidente nell'atto III), ma canta divinamente. Scarpia interpretato da Giuseppe Taddei è semplicemente favoloso, riesce ad essere perfetto in ogni frase, in ogni contesto, in ogni parola. Dall'ingresso fino alla morte si assiste ad uno Scarpia che non sbaglia mai un accento, ora cattivo, dolce, insinuante, tutta la varietà di voce e mezzavoce Taddei la esprime con molta naturalezza ed è a mio parere uno degli Scarpia di sicuro riferimento in tutta la discografia Il Cavaradossi di Giuseppe Di Stefano appare qui (ma solo a tratti) vocalmente più affaticato rispetto alla versione mono del 1953, ma è sempre piacevole all'ascolto. Nelle fasi e nei duetti dove d'amore riesce, seguendo le indicazioni di Karajan, ad essere dolcissimo, a smorzare ed eseguire col suo timbro vellutato delle stupefacenti mezzevoci, vedi il duetto iniziale con Tosca e l’aria E lucevan le stelle. Grandissimo Piero De Palma nell'interpretazione di Spoletta, e corona il cast lo storico e caratteristico Sagrestano di Fernando Corena. La vera ricchezza di quest'incisione, però, è celata negli splendidi Wiener Philharmoniker sapientemente guidati da von Karajan, che, a differenza di quella serrata e vibrante di De Sabata, offre una direzione morbida e lenta: il suono è ricco, pieno, scintillante fin dalle primissime battute, sempre limpido grazie alla stupefacente qualità del suono Decca, grazie alla quale l'azione appare realmente collocata in ampi spazi. [111]
Accompagna questa immortale ripresa un libretto completo, che ci documenta sulla realizzazione dell'incisione e sulle riflessioni pucciniane di Karajan, qui in una delle sue più grandi prove di sempre. Giacomo Puccini: Tosca Renata Tebaldi (Tosca), Eugene Tobin (Cavaradossi), George London (Scarpia). Staatsoper Stuttgart, dir. Franco Patanè. Vai (DVD) Per apprezzare le performance di Renata Tebaldi nel ruolo di Tosca, tra le varie edizioni in commercio, ho scelto questa produzione in edizione DVD dell'Opera di Stoccarda del 1961. Questo è un documento storico in bianco e nero e in mono, con tutti i limiti di una trasposizione: il tono è però ancora abbastanza accettabile e dà una visione chiara di un importante evento di canto che non ha perso nulla del suo fascino. La messa in scena è nello stile degli anni '60. Renata Tebaldi canta una Tosca unica per varietà di colori e fraseggio, decisamente più lirica, giocata sulla qualità di un mezzo vocale di qualità rara. La sua voce è assolutamente superba, la sua Vissi d'arte è affascinante come quella della Callas. Visivamente è una donna tozza e non attraente come Callas o nei tempi moderni Angela Gheorghiu, tuttavia la sua voce è spettacolare. Eugen Tobin canta un Cavaradossi di buon livello, molto coinvolgente. George London come Scarpia è a dir poco superbo: non solo il suo canto (la sua voce è scura, ricca e penetrante) ma anche la sua presenza teatrale sa trasmettere la natura malvagia del cattivo più famoso dell'opera e deve essere quello che Puccini aveva in mente quando ha creato questo personaggio. Franco Patanè dirige con notevole intensità emotiva. Film in bianco e nero? Negli anni quaranta, Hollywood girava regolarmente un dramma in bianco e nero; in qualche modo, trasmetteva la natura più seria di un dramma, al contrario di un musical o di una commedia. Per me, il bianco e nero funziona perfettamente in quest'opera, e sinceramente, data la scelta del colore o del bianco-nero, sceglierei quest'ultimo per questa particolare produzione. Non c'è stereo qui, ma il suono monofonico è ad alta fedeltà.
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Giacomo Puccini: Tosca Hildegard Behrens (Tosca), Placido Domingo (Cavaradossi), Cornell McNeills (Scarpia). Metropolitan Opera Orchestra & Chorus, dir. Giuseppe Sinopoli. Pioneer Classics - PC [DVD] Un secondo DVD da acquistare! Metropolitan Opera Theatre, marzo 1985, va in scena una Tosca indimenticabile. Hildegard Behrens - grande soprano drammatico (Fidelio, Wagner, La Femme sans ombre...) - è una Tosca appassionata: anche se si avverte la sua pronuncia germanica, svolge il suo ruolo in modo molto convincente ed eccelle nelle parti drammatiche del secondo atto. Placido Domingo è all’apice dei suoi mezzi vocali e della sua maturità come interprete. E’ il Cavaradossi degli anni '70 e '80 (quasi 200 volte...), perfettamente credibile sul palco. Cornell McNeills nel ruolo di Scarpia è superbo, sia musicalmente che visivamente, una performance appassionata e stellare. Un elogio al Sagrestano di Italo Tajo. Giuseppe Sinopoli, nella sua unica presenza al Metropolitan, restituisce la tinta tagica della partitura sottolineando la straordinaria modernità del suo tessuto orchestrale Lo spettacolo si distingue anche per la regia di Franco Zeffirelli, monumentale e funebre. Visivamente stupendo! Ecco come dovrebbe apparire una Tosca tradizionalmente messa in scena. Scene e costumi senza possibili paragoni. Sia l'immagine che la qualità del suono sono eccellenti.
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