GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 14 – Gennaio 2021
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista quadrimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 14 – Gennaio 2021
Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa
A questo numero ha collaborato il M. Paolo Duprè
In questo numero: 1a Copertina: Johannes Brahms [3] Le Danze Ungheresi, di Johannes Brahms [14] I g a di Di etto i d o hest a del 900: Rafael Kubelik [23] Gli Amici del grammofono: W.A. Mozart – Concerto per violino n° 5 in la maggiore K 219; Sinfonia concertante in mi bemolle maggiore K 364 [37] Wolfgang e Nennerl Mozart [43] Le sinfonie di Mahler: la Quarta in sol maggiore [57] La musica organistica francese (di Paolo Duprè) [63] Gli antichi strumenti a fiato [76] Musica classica e cinema: Il Divo, di Paolo Sorrentino [78] John Cage e la sua avventura nella Televisione italiana [83] La Musica del Medioevo: Marcabru [119] Melomania: Andrea Chénier, di Umberto Giordano [150] 4a Copertina: Umberto Giordano
Gli articoli e le immagini presenti in questa Rivista sono di dominio pubblico, a uso didattico e a titolo gratuito senza alcun riutilizzo commerciale. Ci scusiamo per eventuali e non volute carenze od omissioni nelle indicazioni degli autori di porzioni di testi non virgolettati, o di immagini fotografiche, pittoriche e disegnate, o delle eventuali proprietà editoriali o © o ®, che verranno, se contestate, prontamente rimosse. Per ogni comunicazione: raggius@tim.it
[2]
Le danze ungheresi, di Johannes Brahms LA MUSICA UNGHERESE Le danze in voga nell’Ungheria ottocentesca erano prevalentemente di origine italiana o tedesca mentre la musica ungherese autentica, quella delle popolazioni magiare, era praticamente sconosciuta e pochissimo eseguita fuori dai contesti contadini e rurali. Il folklore magiaro veniva confuso con la diffusa tradizione tzigana, portata dalla popolazione nomade: quando Schubert compose il Divertissement à la hongroise e Liszt le Rapsodie ungheresi, probabilmente i due compositori avevano in mente proprio questo tipo di musica. Per conoscere le vere origini della musica ungherese, si dovette attendere il Novecento e gli studi di due compositori in particolare, Zoltan Kodàly e Bela Bartòk, che riscoprirono gli autentici canti popolari ungheresi dei contadini magiari.
LA STORIA DELLE DANZE UNGHERESI DI BRAHMS Brahms, da giovane [nella immagine], per guadagnarsi da vivere, suonava con piccoli complessi che si esibivano nel porto della sua città natale, Amburgo.
Nel 1853, appena ventenne, iniziò a
collaborare assiduamente con il violinista ungherese Ede Reményi facendo dei concerti in diverse città della Germania come accompagnatore al pianoforte; Reményi era un celebre virtuoso ungherese che proponeva una numeroso repertorio di canti del suo Paese, riscuotendo un grande successo presso un pubblico eterogeneo, sia quello borghese delle sale da concerto sia quello dei locali popolari. Brahms aveva accettato volentieri l'incarico sia per motivi economici sia per un vivo interesse personale nei confronti di quella letteratura musicale che, a dispetto della relativa bassa considerazione di cui poteva godere presso gli ambienti accademici, lo aveva appassionato profondamente. Dell'autenticità di tale passione il musicista amburghese iniziò a dar prova iniziando già dall’anno precedente la composizione delle 21 Danze ungheresi per pianoforte a quattro mani: come detto prima, non si tratta di musica ungherese vera e propria, ma di musica tzigana. Egli riadattò questo materiale etnico, spesso di carattere libero e improvvisativo, costringendolo in uno schema compositivo di matrice colta, strutturato in forma tripartita, senza però perderne l'espressività [3]
originaria. Non mancò, inoltre, di inserire con coerenza stilistica sue idee originali a volte a discapito del puro folklore. Brahms non vi si dedicò mai in modo sistematico, e anche i manoscritti non recano indicazioni chiare circa la loro reale datazione: le prime notizie certe risalgono al 1858, quando Clara Schumann iniziò ad eseguirne alcune nei suoi concerti, le ultime risalgono invece al 1869, quando Brahms si accordò con il suo editore Simrock per dare il via alla pubblicazione di queste composizioni. Nelle sue memorie, la figlia di Schumann, Eugenia, ricordava Brahms che suonava melanconiche melodie ungheresi per i bambini di Schumann, ma non ne trovò mai traccia nelle opere pubblicate.
[Clara Schumann e Johannes Brahms]
Brahms trascrisse di suo pugno i primi due quaderni delle Danze ungheresi per pianoforte che raccoglievano le prime dieci composizioni. Simrock li pubblicò e le danze conobbero da subito in tutta Europa un notevole successo, tanto che l’editore decise di pubblicare nel 1880 a Berlino il terzo ed il quarto quaderno che erano composti rispettivamente da sei e cinque danze e che esaurivano la serie. La pubblicazione delle Danze provocò il risentimento di Ede Reményi che lo accusò di essersi indebitamente appropriato della sua tradizione musicale. Brahms non si firmò mai come autore delle Danze, ma, a testimonianza
della
sua
onestà
intellettuale,
si
dichiarò
"adattatore": non diede pertanto mai un regolare numero d'opera a queste composizioni, anche se, come indicano alcuni studiosi, dalla danza n° 11 in poi cominciano ad emergere temi originali brahmsiani a discapito dell'elemento folkloristico. Nel 1873, il favore accordato dal pubblico a queste musiche indusse l'editore a commissionare la loro trascrizione per orchestra. Brahms [4]
preferiva di gran lunga le originali a 4 mani e riservò il lavoro di orchestrazione limitatamente alle Danze nn. 1, 3 e 10; altri compositori (Dvorak, Parlow, Hallén, Juon, Gál e altri) si occuparono delle altre. L'orchestrazione di Brahms ha il pregio di apparire semplice e immediata, come annotò il celebre compositore russo Nikolaj-Rimskij Korsakov: sapendo che il violino è lo strumento ufficiale del folklore ungherese, Brahms scelse di affidare i temi principali quasi sempre agli archi. Gli ingredienti musicali che si rintracciano più frequentemente nelle 21 Danze ungheresi di Brahms sono le improvvise accelerazioni di tempo, i cambi di atmosfera, l'alternanza tra motivi baldanzosi e malinconici, le particolari accentuazioni ritmiche, le improvvise modulazioni, le sfasature, gli originali ritmi di verbunkos (un ritmo militare) e di czàrdàs (canti d'osteria che partono lenti e finiscono velocissimi). Lo stesso Brahms ci ha lasciato numerose indicazioni ritmiche e dinamiche, in modo che gli interpreti di queste musiche avessero modo di poter riprodurre il modo di suonare delle orchestre tzigane (la musica di questo popolo veniva spesso tramandata di padre in figlio in modo orale senza spartiti). Dal punto di vista formale ogni danza ha una forma tripartita ABA: viene presentato un primo tema a cui ne segue un secondo contrastante con il primo nell'espressione e nel ritmo; conclude ogni composizione la ripresa del primo movimento svolto in modo variato. .
GUIDA ALL’ASCOLTO Danza n° 1
È una delle tre danze (assieme alle nn. 3 e 10) orchestrate da Brahms stesso per archi, fiati, trombe, timpani e triangolo. E’ una delle più popolari per il suo lirismo impetuoso. Il tema principale di questa danza si ispira all’ungherese Isteni Czárdás (Czárdás sacra) di Gyorgy Sárközy. Le indicazioni “rubato” e “leggiero” sono da intendersi come suggerimento volto a lasciare grande libertà espressiva all’interprete, soprattutto nei passaggi ritmicamente incalzanti. Come tutte le czàrde è divisa in due sezioni contrastanti: la prima lenta e malinconica, la seconda scattante e giocosa. La melodia iniziale è un tema dolente, affidato agli archi e al fagotto, mentre flauti e clarinetti suonano un leggero contrappunto sotto forma di arpeggio. In tutta questa prima parte c’è un gioco ritmico creato dall’alternanza di crescendo e decrescendo. Al primo tema si aggiunge una nuova idea melodica affidata agli oboi e ai violini; l’ottavino li accompagna con fioriture. La sezione centrale ripropone la prima idea dapprima con un andamento marziale, la seconda idea è invece più estrosa. Riappare infine tutta la prima sezione in tono minore fino all’esplosione finale.
[5]
Esistono numerosi diversi arrangiamenti di questo lavoro estremamente popolare: tra questi, vi è un'eccellente rarissima registrazione del 1903 del violinista Joseph Joachim [nella foto], intimo amico di Brahms. Joachim è il primo violinista conosciuto a registrare musica: il suo modo di suonare offre una rara visione della pratica esecutiva del tardo diciannovesimo secolo. Danza n° 2 Presenta un tema tratto dalla raccolta Emma Czárdás (“Le Czárdás di Emma”) di Mér Windt. Questa seconda danza è conosciuta nella celebre strumentazione del compositore svedese Andreas Hallén pubblicata nel 1884. La prima parte enuncia il tema, dall’andamento discendente, con passione. La parte centrale è gioiosa e ritmata, presenta diverse idee e variazioni ritmiche, tra cui una corsa indiavolata iniziata dagli oboi e dagli altri legni cui si aggiungono gli archi (questa sezione richiama una canzone popolare ungherese che Brahms potrebbe aver visto nella raccolta di canzoni popolari di Lgnac Bognar pubblicata nel 1858). Questo crescendo piano piano si placa e sfuma, e subentra la ripresa del tema iniziale. Anche di questa danza esiste una rara registrazione di Joseph Joachim. Danza n° 3 La danza inizia con una parte dolce e gioiosa, un tema pastorale e infantile (grazioso, nella partitura) che riprende la stravagante danza nuziale Tolnai Lakadalmas di József Rizner, usata anche da Liszt come parte della sua ottava Rapsodia Ungherese. Il tema dapprima limpido è affidato all’oboe (si è ipotizzato che potrebbe averla composta lo stesso Brahms), poi diventa più minaccioso affidato ai corni e ai clarinetti, sostenuto dall’incremento ritmico di tutta l’orchestra. Il tutto sfocia nel fortissimo della parte centrale, una sezione corta, brillante ed intensa. Nella versione orchestrale è riconoscibile il cimbalon, la caratteristica cetra a corde percosse della tradizione tzigana. [Suonatore tzigano di cimbalon (metà del 1800)]
La parte finale della danza ricalca la prima parte ma a ruoli invertiti: dapprima appare il tema oscuro dei corni e dei clarinetti, che sfumano lasciando il posto al dolce tema iniziale dell’oboe, cui si associa il flauto sino alla fine.
[6]
Danza n° 4 Questa danza si ispira alla melodia Kalocsay Emlék. Il compositore è probabilmente N. Mérty, in una raccolta di canzoni popolari con le parole: "Repill a szén, busul a lény", ancora ben note e cantate in Ungheria. La melodia si trova anche nella Rapsodia ungherese n° 8 di Liszt. Danza n° 5 La danza n° 5, dal carattere rapsodico, è la più famosa tra quelle scritte da Brahms. Assieme alla sesta, fu arrangiata per orchestra dal compositore tedesco Albert Parlow e pubblicata nel 1876. Si ispira alla melodia Bartfai Emlék (“Ricordo di Bartfai”) scritta dal compositore ungherese Béla Kéler nel 1858. Si tratta di un brano abbastanza veloce e vivace, dove il modo maggiore e minore si alternano continuamente così come spesso ci sono cambi di tempo e velocità e improvvise sospensioni. In questa danza si alternano elementi tipici della musica romantica e della musica popolare slava: vivacità, allegria, esuberanza, passione e, a volte, leggera nostalgia. La prima parte, Allegro, è formato da due temi molto appassionati: il primo più triste e lirico, il secondo più capriccioso con accompagnamento degli ottoni. Questo secondo tema viene ripetuto due volte (con un ritornello). La sezione centrale è una canzone popolare ungherese, molto ritmica e briosa; vi compare anche un tema dal carattere alternante che continua sino alla fine di questa sezione. La parte finale riprende la tonalità minore, ridando uniformità al carattere della danza, cupa e tenebrosa. Gli amici cinefili potranno ascoltare questa danza in una divertente scena del film Il grande dittatore di Charlie Chaplin, in cui il grande attore e regista britannico, nel ruolo di un barbiere, rade la barba al suo cliente seguendo fedelmente il ritmo di questo brano. Danza n° 6 Trae motivo dal tradizionale Rózsa Bokor (“Il roseto”) di Adolph Nittinger. E’ una delle danze ungheresi più notevoli per le ricorrenti esitazioni e pause del suo primo tema, nonché per i suoi frequenti cambi di tempo. Danza n° 7 Prende spunto da una melodia del violinista-compositore Ede Reményi. La danza è giocosa, ritmata, e i suoi colori timbrici evocano la fisarmonica tanto quanto il violino. Danza n° 8 E’ un adattamento di Louisa-csárdás di Szadaby-Frank, a sua volta basato sui temi dell’opera Lucia di Lammermoor di Donizetti. [7]
Danza n° 9 Trae spunto da Maké-Csardas di János Travnik, che si trova nella raccolta di canzoni popolari Fùredy-Bognar del 1851. In questa danza Brahms ha arrangiato solo la parte veloce delle csàrdàs. Danza n° 10 E’ l'opera di chiusura delle prime dieci danze pubblicate per pianoforte, la successiva orchestrazione per archi ed orchestra fu opera dello stesso Brahms. E’ ripresa da una danza nunziale di Jòzsef Rizner, la Tolnai Lakadalmas. Il brano è molto breve, non presenta le classiche tre sezioni e si presenta ricco di vitalità tzigana, esuberanza e virtuosismo, con un lungo e scatenato crescendo conclusivo.
Il secondo volume di Danze ungheresi è generalmente considerato una raccolta più sottile, più introspettiva, meno dipendente da fonti preesistenti. Armonicamente e strutturalmente più ricca e forse di carattere più vario, questa seconda serie di danze rappresenta il vertice dell'arte "ungherese" di Brahms. Danza n° 11 Probabilmente è opera dello stesso Brahms, il quale confermò in una conversazione con Ignaz Brull di essere l’autore di alcune delle danze. Il suo amico e grande violinista Joachim considera i nn. 11, 14 e 16 come composizioni originali. Questa melodia non è stata trovata in nessun’altra composizione, quindi l'ipotesi potrebbe essere vera. La prima sezione è quasi una marcia funebre, caratterizzata dal suono di due oboi che propongono un motivo discendente dal carattere triste.
[8]
La sezione centrale è caratterizzata da un’atmosfera malinconica e più solenne, fino a quando ritorna il tema della prima sezione. Danza n° 12 La prima parte è una canzone di Szentirmay, con le parole scritte dal poeta ungherese Sandor Petòfi. La sezione centrale fa parte del Welkknown Souvenir di Galgocz. Brahms ha composto una linea ornata molto veloce intorno alla prima melodia, che qui troviamo in una parte di cembalo obbligato che suona all'unisono con strumenti diversi. Danza n° 13 La prima melodia è una canzone composta da Laszlò Zimay su un poema di Làszlò Losonezy, Foles rézsam. È uno dei due componimenti ungheresi pubblicati da Zimay per il famoso baritono Luigi Bignio. La parte veloce della danza la ritroviamo nell'album della canzone ungherese del 1880 di Elemér Limbay. Danza n° 14 Nessuna informazione è disponibile eccetto il suggerimento di Joachim che questa danza possa essere una delle composizioni originali di Brahms. Danza n° 15 Probabilmente composto da Béni Egressy, la prima canzone compare anche nella ventesima edizione della Rapsodia ungherese di Liszt. Le parole sono state scritte da Imre Vahot per il suo Singspiel Camiva! Schook "Hei, haj, magyar ember" ". Il trio potrebbe essere stato composto da Brahms stesso.
[9]
Danza n° 16 Secondo Joachim anche questa danza potrebbe essere stata composta da Brahms, anche se la prima melodia molto libera ha un vero carattere ungherese, Brahms deve essere stato ispirato da una triste canzone eseguita da musicisti zingari. Danza n° 17 Questa danza è composta da tre melodie. La prima è sconosciuta. La seconda è stata composta da Kalman Simonffy con le parole di Laszlò Szelestey. La terza melodia è una composizione di Jòzsef Szerdahelyi pubblicata nella sua collezione Four lovely Hungarian Folk Songs. Danza n° 18 Le parole di questa canzone sono "Harom alma, meg egy fél" (tre mele e mezza), la melodia è stata stampata nel 1851 nella collezione di 700 canzoni popolari ungheresi di Mihaly Fuùredy. In questa danza un'introduzione leggera e veloce si alterna con un tema di carattere militare. Danza n° 19 La prima melodia deve essere stata composta da Brahms. La sezione centrale è ben nota con le parole "Kis szekeres, nagy szekeres”(piccolo carrello, grande carrello). Questa danza presenta un passo saltellante e giocoso. Danza n° 20 La prima melodia fa parte del ballo Souvenir di Galgocz. La seconda canzone appare nell'edizione Treichlinger di Two Soldier Songs e Csardés per piano. Il tema principale è assai nostalgico. Danza n° 21 La prima parte è probabilmente composta da Brahms, la seconda è la canzone popolare Helyre Kati. Il tema principale scorre rapido e festoso, così come la brillante virtuosistica chiusura in modo maggiore.
[10]
DISCOGRAFIA Johannes Brahms – 21 Ungarische Tänze Wiener Philharmoniker, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon Brahms è conosciuto soprattutto come il grande poeta della malinconia, ma le sue danze ungheresi invece ci dimostrano un altro suo lato, la sua capacità d'entusiasmare e di far gioire. Come si è già detto prima, le Danze Ungheresi hanno chiaramente due componenti: quello della genesi dalla melodia popolare tzigana e l'aspetto appunto di "danza". Entrambi gli aspetti vengono resi da Abbado con maestria: la vena ritmica e melodica sono evidenziate senza mai entrare in contrasto, la musicalità fluisce libera ma naturale, il tutto in uno schema globale che mantiene un incedere incalzante e preciso di danza. La direzione di Abbado è sempre chiara, vivace ed elegante. Poi ci sono i Wiener Philharmoniker, un’orchestra meravigliosa, con una timbrica peculiare e un approccio unico al rubato ed ai vibrato: suonano con la consueta raffinatezza e grazia, ineguagliabili in questo repertorio. Segnalo la danza n.4 che è veramente un meraviglioso gioiello. Questo CD è considerato la registrazione di riferimento assoluto. Imperdibile! Johannes Brahms – Hungarian Dances n. 1-21 Budapest Festival Orchestra, dir. Ivàn Fischer. Philips L'orchestra e il direttore sono forse quanto di più aderente allo spirito di queste danze sia oggi rintracciabile. L'incisione è quindi di assoluto riferimento. Le orchestrazioni di questo disco sono, oltre che quelle dei vari arrangiatori storici (Brahms, Dvorak e altri), anche dello stesso direttore d’orchestra, Ivàn Fischer. La musica è varia in modo interessante: melodie struggenti di amore e malinconia, ritmi di danza sincopati e danze rustiche e pesanti in contrasto con danze gentili e delicate, Ivàn Fischer porta il tema "zingaro" all'ennesima [11]
potenza. Su questo disco, oltre all'orchestra, si esibiscono due autentici violinisti zingari virtuosi, un suonatore di cimbalom e un taragato (un grande clarinetto gitano); Fischer li scatena con cadenze e ornamenti improvvisati. Entusiasmante! L'orchestra suona con grande passione e con un eccezionale suono di fiati e archi. Vale la pena di acquistare il disco per chi ama il Brahms "zingaro", un Brahms forse più vicino ai suoni che il compositore sentiva dalle bande itineranti di zingari della sua epoca. Potreste al proposito considerare di ascoltare le letture "gitane" di Fischer delle Rapsodie ungheresi di Liszt su Philips. La resa del suono è purtroppo ovattata e questo risalta ancor di più in brani così brillanti, tuttavia, questo CD è un acquisto interessante. Johannes Brahms – Hungarian dances n. 1-21 Budapest Symphony Orchestra, dir. Istvàn Bogàr. Naxos Questo disco del 1988, ben registrato, contiene le 21 versioni orchestrali delle Danze Ungheresi. In questo CD troviamo arrangiamenti di Brahms (3), Dvorak (5), Parlow (6), Schmelling (3), Gal (2), Hallen e Juon (1 ciascuno). Senza eccezioni, Bogar sceglie esattamente il tempo giusto per ogni danza in modo che tutte fluiscano in modo efficace. C'è una palpabile sensazione di piacere e gioioso divertimento nell'esecuzione dell'eccellente Orchestra Sinfonica di Budapest. Johannes Brahms – Ungarische Tänze n. 1-21 Alfons & Aloys Kontarsky (pianoforte). Deutsche Grammophon Galleria Una splendida esecuzione delle Danze ungheresi di Brahms per quattro mani è questa suonata dai fratelli Alfons e Aloys Kontarsky. L’esecuzione è vivace e brillante, virtuosistica, ben dentro lo spirito ungherese che Brahms aveva voluto trasmettere in queste composizioni.
[12]
Johannes Brahms – Ungarian Dances n. 1-21 Duo Tal & Groethuysen (pianoforte). Deutsche Grammophon Galleria Rispetto all'edizione dei Kontarsky, questa di Tal & Groethuysen è più briosa, più moderna, simile in qualche modo a quella orchestrale molto bella di Ivàn Fischer e della Budapest Festival Orchestra (recensita prima) e distante dalle esecuzioni classiche (Abbado). La caratteristica notevole di questa registrazione delle danze e dei valzer ungheresi di Brahms è il modo in cui i due pianisti si fondono. Questo duo è così sincronizzato che si fa fatica a credere che siano davvero due persone a suonare. I due esecutori nelle danze enfatizzano i frequenti cambi di tempo e volume, e questo offre un ascolto interessante. Johannes Brahms – Ungarische Tanze Gewandhaus Orchestrer Leipzig, dir. Kurt Masur. Katia & Mariella Labeque (pianoforte). Decca Questo doppio CD offre una prestazione davvero equilibrata e e di buon livello: da un lato, l’interpretazione orchestrale delle danze ungheresi di Johannes Brahms, diretta da un ispirato Kurt Masur (1983), dall'altro la versione per pianoforte a quattro mani di Katia e Marielle Labeque del 1981. Divertente, vario e frizzante di idee, l'Allegro in Fa maggiore (danza n° 7), superato solo dalla malinconia del Poco sostenuto (danza n° 4) e dal noto Allegro della danza n° 1. Brahms così selvaggio, appassionato e avvincente! Bella la interpretazione dell’Orchestra di Lipsia che preferisco alla versione pianistica delle sorelle Labeque, probabilmente perché io personalmente ho un debole per la grande orchestra piuttosto che per la (anche se appassionata) interpretazione al pianoforte. [13]
I grandi Direttori del ‘900: Rafael Kubelik CENNI BIOGRAFICI Rafael Kubelik nacque il 29 giugno 1914 a Býchory (nei pressi di Praga), in un territorio che all'epoca faceva parte dell'Impero austro-ungarico. Il padre era Jan Kubelik [nella foto] uno dei più eminenti violinisti del primo Novecento. Racconta lo stesso Kubelik che, quando stava imparando a leggere e scrivere, chiese in dono ai genitori per il suo compleanno una partitura tascabile delle sinfonie di Beethoven, perché aveva già deciso che da grande avrebbe fatto il direttore d’orchestra. Una volta ottenutele, era solito leggerle sotto il banco di scuola come gli scolari normali fanno coi fumetti. Kubelik tenne decisamente fede ai suoi propositi fanciulleschi, tanto che a diciannove anni esordiva alla testa della Filarmonica Ceca, imponendosi subito come una personalità di levatura internazionale. Si distinse subito anche per la sua statura morale, che egli esternava manifestando un insopprimibile culto della libertà e una profonda sensibilità per i diritti umani: queste sue idee ne fecero prima un avversario dei nazisti e poi un instancabile sostenitore del dissenso cecoslovacco. Dal punto di vista musicale, venne presto in contatto con le musiche di Mahler, Dvorak, Janacek, Zemlinsky, dal cui ascolto trasse lo stimolo per comporre musica egli stesso, benché la
sua attività di musicista lo portasse
prevalentemente ad esibirsi come pianista e direttore d'orchestra al seguito del padre. Divenne successivamente, succedendo al grande Vaclav Talich, direttore della Orchestra Filarmonica Ceca, che guidò dal 1936 al 1939 e dal 1942 al 1948. A causa dell'avvento del comunismo, lasciò nel 1948 la Cecoslovacchia ed emigrò negli Stati Uniti, ripromettendosi di non tornarci più fino alla caduta del regime. A chi gli chiedeva di questo suo esilio volontario egli rispose: “Ho abbandonato la mia patria per non abbandonare il mio popolo. Non credo che la libertà artistica possa coesistere con un regime totalitario”. Nella sua lunga carriera diresse numerose orchestre sinfoniche: assunse dapprima la direzione della Chicago Symphony Orchestra (1950-1953), quindi quella del Covent Garden di Londra (1955-1958); dal 1972 al 1974 fu direttore al Metropolitan di New York; fu infine direttore stabile dell’Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese dal 1961 al 1979, incarico nel quale succedette a Eugen Jochum, un sodalizio che durò fino al 1979, quando dovette lasciare il suo posto per motivi di salute. [14]
Con l'orchestra bavarese, da lui trasformata in una delle migliori compagini orchestrali del mondo, compì numerose tournée in tutto il mondo, realizzando importantissimi progetti discografici, che rimangono nella storia della musica classica in disco. Molto intensa fu anche la collaborazione che Kubelik ebbe con i Wiener Philharmoniker, i Berliner Philharmoniker e l'Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam. Afflitto da gravi problemi reumatici e cardiocircolatori, si ritirò definitivamente nel 1982, interrompendo il silenzio solo per tornare nel 1990 nell'amata Praga, finalmente libera dal regime sovietico, dirigendo sulla piazza centrale della città i Sei Poemi Sinfonici della Mia Patria, con l'Orchestra Filarmonica Ceca e l'Orchestra Filarmonica Slovacca riunite. Il video in cui lo si vede dirigere Mà Vlast sulla Piazza San Venceslao il 9 giugno del 1990, [foto a dx] al ritorno in patria nei giorni della
“rivoluzione di velluto” dopo oltre quaranta anni di volontario esilio, fa perfettamente il paio con quelli leggendari di Bernstein e di Rostropovic sulle rovine del muro di Berlino. Rafael Kubelik morì l’11 agosto 1996
a
Lucerna. La sua morte venne quasi del tutto ignorata, e non solo dai media.
L’ARTE DIRETTORIALE DI KUBELIK Si è sempre parlato molto poco di Rafael Kubelik, considerato da molti un interprete superficiale e approssimativo, non compreso, troppo legato alla sua terra d'origine e ingiustamente relegato al repertorio musicale cecoslovacco. Fu invece un direttore superbo, moderno, profondo, umile, poco legato all'industria discografica e allo star system, dal vastissimo repertorio, capace di infondere alla partitura quel vigore e quello smalto inconfondibili, come se l'opera fosse stata composta in quell'istante. Direttore dotato d’innato carisma e amato dai suoi musicisti, Kubelik sapeva irradiare nell’orchestra la sua spontaneità musicale e una gioia quasi impulsiva.
[15]
Ha lasciato di se stesso l'immagine di un musicista gioioso, pieno di ardore ma mai fuori misura, che amava molto i timbri orchestrali senza indulgere a compiacimenti alla Karajan, un interprete che aveva il coraggio di affrontare Mahler perfino con un piglio giocoso e con dei tempi piuttosto rapidi, come nella Quarta. Ha lasciato un corpus molto vasto di registrazioni che spaziano dal barocco (Händel) fino ai contemporanei, e quasi sempre con risultati degni di nota, quando non di assoluto riferimento.
DISCOGRAFIA Rafael Kubelik Complete recording on Deutsche Grammophon. Deutsche Grammophon Nel 2018, la Deutsche Grammophon pubblicò un box con ben 64 CD e due DVD corredati di copertine originali, che rappresenta la serie completa delle incisioni realizzate dal maestro praghese all’insegna dell’etichetta gialla. Una panoramica monumentale, eppure ben lontana dal rispecchiare per intero il lascito di questo attivo e versatile gigante del podio: basti pensare che, fra i capisaldi del repertorio, non vi troviamo le sinfonie di Brahms (realizzate per la Decca con i Wiener e per la Orfeo con la Radio bavarese), le ultime sei di Mozart (incise per la Sony con la Radio bavarese, mentre qui abbiamo soltanto il video della Praga con i Wiener), i concerti di Beethoven (l’integrale live con Serkin e la Radio bavarese, pubblicata da Orfeo, è una delle più riuscite che si conoscano). La valenza artistica dell'opera è comunque indiscutibile, Kubelìk è stato un grande. La raccolta contiene l'integrale delle sinfonie di Beethoven, Schumann, Dvorak, Janacek, Mahler e opere liriche quali Rigoletto, Lohengrin e Oberon di Weber; sono presenti anche opere di autori contemporanei, dai classici Schoenberg, Bartok, Stravinsky, ad autori quasi sconosciuti come Tcherepnin, Martinon, Martinu, lo stesso Kubelìk, Hartmann e Pfitzner. Insomma un programma intenso e non banale che permette di ascoltare opere non sempre arcinote eseguite da uno degli interpreti che le ha adottate e divulgate.
[16]
BEETHOVEN Negli anni Settanta Kubelik scelse in modo geniale di realizzare l’integrale delle Sinfonie beethoveniane salendo sul podio di nove orchestre diverse, una per ciascuna sinfonia: si sa che ogni orchestra ha un suo suono peculiare e per questo Kubelik decise di restituire interpretazioni ancora una volta originali di questi capolavori, sfruttando i tratti distintivi di ciascuna orchestra. Così, in ordine dalla Prima alla Nona Sinfonia, si avvicendano la London Symphony Orchestra, l’Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam, i Berliner Philharmoniker, la Cleveland Orchestra, la Israel Philharmonic Orchestra, l’Orchestre de Paris, la Boston Symphony, i Wiener Philharmoniker e l’immancabile ed amata Bayerischen Rundfunks. In ciascuna di queste letture, Kubelik centra perfettamente l’obiettivo, regalando interpretazioni spumeggianti, riflessive, drammatiche, in una parola perfettamente beethoveniane in ogni dettaglio. Spiccano su tutte l’Eroica coi Berliner, una fulgida Quinta con la Israel Philharmonic, una delicatissima Sesta (la sua Scena al Ruscello tocchi momenti di lirismo forse superiori a quelli di Furtwängler) con l’Orchestre de Paris ed ovviamente le ultime tre Sinfonie. La maestria di Kubelik raggiunge l’apice nella lettura della Settima (sicuramente una fra le cinque più belle sul mercato) e di una splendida Ottava con l'orchestra di Cleveland: una delle migliori, se non la migliore, che abbia mai sentito (chi vuole, può cimentarsi in un interessante confronto con l’interpretazione di Böhm alla testa dei Wiener). Nella Nona, assieme alla Bayerischen Rundfunks, Kubelik ricorre ad un quartetto di solisti che per gli anni Settanta rappresentava quasi il “non plus ultra”, ossia Helen Donath (soprano), Teresa Berganza (mezzosoprano), Wieslaw Ochman (tenore) e Thomas Stewart (basso), affiancati nell’impresa dal meraviglioso Coro della Radio Bavarese. Anche in questo caso, si tratta di interpretazioni di altissimo livello, che la critica pone giustamente al fianco delle più classiche integrali realizzate in modalità “un direttore-un’orchestra” (si pensi a Karajan-Berliner, a Bohm-Wiener, a Bernstein-Wiener e a Abbado-Wiener/Berliner). Quel che può dirsi con certezza è che il cosmopolitismo degli organici utilizzati non ha per nulla inciso sulla coerenza della concezione interpretativa, che si presenta più che mai unitaria e costantemente improntata a un senso di augusta grandiosità dove la tensione epica dell’insieme si sposa all’analitica esattezza dei dettagli. DVORÀK Il ciclo delle nove sinfonie di Dvoràk interpretate alla testa dei Berliner nel 1977 (e mai uscito dal catalogo della Deutsche Grammophon!) è da sempre il ciclo discografico di riferimento, insieme a quello di Kertész per la Decca. E giustamente perché il Dvoràk di Kubelik è un mix di spontaneità e di raffinatezza, con una capacità di far suonare l'orchestra di Berlino come se fosse "un'orchestra [17]
slava", specie nel settore degli archi e dei legni, fatto che ancora lascia piacevolmente sorpresi e meravigliati anche a distanza di così tanti anni dalle incisioni! La concorrenza è rappresentata dall’altra meravigliosa integrale incisa da Istvàn Kertész per la Decca, ma è praticamente impossibile scegliere quale sia la migliore, perché entrambe trovano il loro punto di forza in quei dettagli e in quelle peculiarità interpretative che i due Maestri - ciascuno a proprio modo - hanno saputo trarre dalle orchestre. Certo, l’integrale realizzata dal Kubelik spicca forse per il fatto che l’orchestra protagonista è la Berliner Philharmoniker, incredibilmente concessa in prestito al Maestro ceco dal direttore-padrone Herbert von Karajan a più riprese tra gli anni Sessanta ed il 1977. Lo spirito nazionale di cui le sinfonie
sono
imbevute
è
perfettamente
restituito dall’orchestra sotto la guida di Kubelik, che ovviamente raggiunge l’apice nelle ultime tre (le sue versioni della Settima, dell’Ottava e della Nona figurano sicuramente tra le più belle in assoluto e sono un riferimento assoluto da oltre quarant’anni), ma che lascia interpretazioni incomparabili anche della Quinta e della Sesta, nonché di quel capolavoro giovanile che è la Prima Sinfonia, recante il solenne soprannome “Le campane di Zlonice” e dell’emblematica Quarta. Oltre alle sinfonie, la collana rende omaggio a Dvoràk con un amplissimo ventaglio di composizioni: la prediletta Orchestra della Radio bavarese affronta il monumentale Stabat mater (con Edith Mathis e altre voci di gran lusso), la serie completa delle Danze Slave, le Variazioni sinfoniche, l’assortimento di poemi sinfonici (Scherzo Capriccioso, l’Ouverture Carnival e La colomba selvatica), ouvertures e affini, mentre all’English Chamber Orchestra sono affidate le pagine di taglio miniaturistico come le sei Leggende e l’incantevole Serenata per archi. Le registrazioni sono tutte in ADD, ed il grande lavoro dei tecnici della Deutsche Grammophon ci ha restituito un suono meraviglioso. MAHLER A Rafael Kubelik, grande interprete dei classici e dei romantici di scuola viennese, si deve soprattutto la valorizzazione di Gustav Mahler. All'inizio degli anni Sessanta egli era stato, assieme a Leonard Bernstein, il primo direttore della generazione successiva ai discepoli di Mahler - cioè Bruno Walter e Otto Klemperer -, a porre attenzione a questo compositore, intuendone la rivoluzionaria modernità. Kubelik con l'orchestra della Radio Bavarese registrò integralmente le sinfonie mahleriane ponendo una pietra miliare sul cammino della conoscenza di questo autore. Limpidezza, riferimento ideale agli equilibri classici, [18]
intensità di emozioni mai travalicanti sono le caratteristiche di queste interpretazioni, ancora oggi di piena attualità, seconde (se non pari) soltanto a quelli di Bernstein, Tennstedt e Abbado. Un Mahler meno analitico di quello di altri interpreti ma attentissimo in compenso alle suggestioni timbriche ed evocative della partitura, ed impreziosito da contributi vocali di primo ordine. Forse Kubelik non raggiunge il suono bello e avvolgente che riesce ad ottenere Bernstein, e neppure la raffinata essenzialità che tocca Abbado nelle sue ultime incisioni, eppure i risultati finali sono davvero ragguardevoli in tutto il ciclo, tanto che la sua prima sinfonia "Titano" rimane, a parere unanime, la più bella versione mai incisa ed appare al primo posto nelle preferenze dei critici internazionali più accreditati. Anche per questo ciclo la qualità sonora è discreta, ma niente di eccezionale. La qualità audio complessiva è infatti un po’ il tallone di Achille di questa raccolta, anche perché in ogni caso si tratta di incisioni analogiche rimasterizzate, in ADD, e il suono che ne emerge è sempre un po’ troppo secco e con poca dinamica. Ma la qualità artistica globale è così elevata da far dimenticare (o quasi....) queste limitazioni tecniche. SCHUMANN L’integrale delle Sinfonie di Schumann, realizzata da Kubelik coi Berliner Philharmoniker a metà anni Sessanta, ha purtroppo goduto di una accoglienza poco trionfale, forse perché soppiantata dalle due successive incisioni di Karajan con la medesima orchestra e di Bernstein coi Wiener. Tuttavia (come danno prova anche le incisioni realizzate con la Sony), Kubelik dimostra di essere perfettamente a proprio agio nelle partiture sinfoniche del grande compositore romantico. La Seconda e la Quarta rappresentano due tra le più alte interpretazioni di Kubelik, che sembra scandagliare a fondo la psiche di Schumann (estremamente compromessa e scossa da un turbinio di passioni, follia e romanticismo), come testimoniano la nevrosi dello Scherzo della Seconda e l’incandescenza dello Scherzo della Quarta. Di Schumann abbiamo anche le due principali ouvertures, Manfred e Genoveva, sempre coi Berliner, e in duplice versione il Concerto per pianoforte, con Kempff e la Orchestra della Radio bavarese e con Anda e i Berliner Philharmoniker (abbinati, rispettivamente, al Konzertstück op. 92 e al concerto gemello di Grieg). GIUSEPPE VERDI: RIGOLETTO Il Rigoletto del 1964 con Dietrich Fischer-Dieskau, realizzato alla Scala, è dai più ritenuto la più bella versione mai incisa della celebre opera verdiana, e costituisce un sicuro punto di riferimento. Incredibile come il miglior Rigoletto della storia del disco sia firmato in direzione da un maestro al di fuori della tradizione italiana: eppure Kubelik in maniera per niente stereotipata accompagna con eccellenza i cantanti con magnifici colori orchestrali, e se qui e lì manca di forza in qualche [19]
accompagnamento di maggiore drammaticità, o rallenta troppo i tempi, in compenso è magnifico in tutto l'impianto lirico e nei concertati, cosa non da poco vista la natura dell'opera. Bergonzi in questa esecuzione è valido interprete ma soprattutto grande cantante; gli sfugge in parte l'istinto predatorio e cinico del personaggio, ma quando al cinismo del seduttore si sostituisce l'afflato, anche momentaneo, del padre innamorato, siamo di fronte ad una prestazione veramente egregia (ad esempio ascoltate l’aria "Parmi veder le lacrime"). Renata Scotto è stata assieme a Maria Callas e Joan Sutherland la maggior interprete di Gilda che esulava dalla categoria del soprano lirico leggero. Supera la prima per compiutezza del canto in questo ruolo, e la seconda per espressività. Fisher-Dieskau non sarebbe a rigor di termini il Rigoletto ideale, soprattutto per due motivi: non copre gli acuti che quindi suonano aperti e privi di squillo, e scivola sovente dalla mezza voce al falsetto. A questo si aggiunga un modo non proprio idiomatico di articolare la frase italiana, con una certa pedissequità liederistica. Il senso della frase però è sempre rispettato ed espresso, la gamma dinamica e di colori enormemente ampia, la vigoria nei momenti drammatici apprezzabile, il lirismo del padre amoroso assolutamente soggiogante. Quindi senza dubbio una grande interpretazione. Con questa direzione, questo baritono e questo soprano, i due duetti Gilda-Rigoletto contenuti nella registrazione sono assolutamente magnifici e godibilissimi anche dai melomani meno raffinati. La registrazione si difende bene nonostante gli anni, ma nel remastering volto a toglierle un po' di rumore ha perso un pizzico della sua luminosità originaria, pur continuando a produrre un buon suono accettabile. ALTRO REPERTORIO Quanto al resto, l’assortimento spazia dal Settecento al Novecento inoltrato. Il Barocco (inteso in senso decisamente non filologico) è incarnato soprattutto da Händel, con un florilegio di arie cantate da Fritz Wunderlich e con la celeberrima, trionfale e coloritissima incisione berlinese dei due capolavori sinfonici Musica sull’acqua e Musica per i fuochi d’artificio. Poco ma di gran lusso Mozart, rappresentato da una storica Serenata Haffner con Rudolf Koeckert negli assoli violinistici, dal video viennese della Praga, dal Concerto per clarinetto con Karl Leister e dalla Messa dell’Incoronazione (ancora una volta con cast vocali extralusso). Del tutto
assenti
Haydn e Schubert,
mentre
Mendelssohn è rappresentato da una delle selezioni ideali del Sogno di una notte di mezza estate. [20]
Di gran peso, ovviamente, la rappresentanza della scuola nazionale boema. Oltre al già citato Dvoràk, spicca la versione ideale di Mà Vlast di Smetana, incisa nel 1977 con la Boston Symphony (ne esiste anche una del 1959 coi Wiener, per la Decca), cui si affiancano gli ulteriori poemi sinfonici, Hakon Jarl, Riccardo III, Il campo di Wallenstein e Il carnevale di Praga (tutti con l’Orchestra della Radio Bavarese). La terza forza, Janacek, è presente sia coi capolavori sinfonici (Sinfonietta, Taras Bulba), che con quelli concertistici (Concertino e Capriccio) e quelli vocali sacri e profani (Messa Glagolitica, Diario di uno scomparso). Il che ci introduce a un altro capitolo decisivo, quello del rapporto di Kubelik con il Novecento, che in questa raccolta occupa circa un quinto dello spazio, ed è rappresentato nella più sfaccettata delle maniere: troviamo capisaldi assoluti come il Concerto per orchestra di Bartòk (targato Boston), il Concerto per violino di Berg (con Szeryng) e i Concerti per violino e per pianoforte di Schönberg (rispettivamente con Gitlis e Brendel), una delle versioni ideali dei Gurre-Lieder di quest’ultimo, ma anche due Sinfonie, Quarta e Ottava, di un grandissimo compositore sconosciuto quale Karl Amadeus Hartmann, due concerti di Tcherepnin interpretati dall’autore, il Concerto per violino di Martinon (ancora con Szeryng) e la Fantasia concertante di Martinu. Né viene lasciato in ombra il volto meno progressista del Novecento, dando spazio all’Edipo Tiranno di Orff e addirittura offrendoci la miglior versione possibile di quel manifesto (e capolavoro) del Novecento conservatore che è il Palestrina di Pfitzner (con Nicolai Gedda nel ruolo del protagonista e Fischer-Dieskau in quello di San Carlo). Beethoven: Die Klavierkonzerte. Choralfantasie op.80. Rudolf Serkin (pianoforte). Bavarian Radio Symphony Orchestra & Chorus Orchestra, dir. Rafael Kubelik. Orfeo Questo disco raccoglie le esibizioni dal vivo in tre concerti nell'autunno del 1977. Il 75enne Rudolf Serkin, il 64enne Rafael Kubelik, artisti leggendari, e la Bavarian Radio Symphony Orchestra (una delle migliori orchestre in Europa) si ritrovarono insieme producendo performances che brillano per intensità e passione. Serkin offre una profonda musicalità e un eccezionale fraseggio: questo è particolarmente vero per l'Imperatore, che è una delle migliori registrazioni del brano, e l’interpretazione di Serkin del movimento lento è per me la più sublime. Anche l'esecuzione orchestrale nel largo del terzo concerto è senza alcun dubbio la migliore che sia mai stata registrata.
[21]
Il suono registrato di Orfeo ha colto perfettamente l'occasione, rendendolo una raccomandazione facile ed entusiasta.
Brahms: Symphonies n. 1-4 Wiener Philharmoniker, dir. Rafael Kubelik Decca Eloquence
Un grande Brahms, veemente e pieno di sfumature, come tutte le interpretazioni degli anni 50 e 60 di Rafael Kubelik, rese ancora più grandi da un'orchestra sempre al massimo. Una registrazione tecnicamente eccellente.
[22]
Gli Amici del‌ grammofono
Wolfgang Amedeus Mozart: Concerto per violino n° 5 in la maggiore K. 219 Sinfonia concertante in mi bemolle maggiore K. 364
[23]
Concerto per violino n° 5 in la maggiore K. 219 Quando nel 1775, all’età di 19 anni, Mozart compose a Salisburgo cinque Concerti per violino e orchestra, era - come suo padre Leopold - da tempo al servizio del Principe Arcivescovo Colloredo di Salisburgo in qualità di musicista dell'orchestra (al clavicembalo, all'organo, poi anche al violino) e di compositore per le cerimonie sacre e le feste di corte. Nel 1772 si era insidiato un nuovo Arcivescovo, Hieronymus, conte di Colloredo, uomo colto, sicuro di sé, dispotico, a cui il giovane genio e suo padre non piacquero (né lui piacque ai Mozart, ma non piaceva neppure ai salisburghesi). Colloredo concedeva a stento i congedi e Mozart fu costretto a rimanere a Salisburgo: era insofferente e scontento, guardava alle capitali del mondo musicale (Vienna, Monaco, Parigi, Londra, Milano, Napoli), che pensava l'aspettassero, si sentiva chiuso in una provincia al servizio di un padrone che non riconosceva i suoi meriti musicali. Tuttavia il nostro giovane compositore continuava a lavorare alacremente, e con molti lavori e capolavori - Messe, litanie, Concerti, Divertimenti, Serenate, Sonate, Quartetti, Trii - si guadagnava un assegno annuale non proprio misero (a corte solo gli italiani guadagnavano più di lui, perché così si usava anche nel resto dell'Austria). Alla fine un invito dell'elettore di Baviera invito che farà nascere il primo dei capolavori compiuti del teatro di Mozart (Idomeneo) – fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso: avvenne un’accesa occasione di scontro tra Colloredo e Mozart, che il 9 maggio 1781 fu malamente insultato e, con sua gioia, cacciato da palazzo e da Salisburgo.
[Jean Louis Ernest Meissonier: Mozart suona il violino. Collezione privata] Sebbene considerasse il pianoforte come il suo primo strumento, Mozart padroneggiava la tecnica violinistica in maniera eccellente. Anche il padre Leopold era un valentissimo violinista ed aveva scritto un celebre trattato di tecnica per questo strumento. Oltre al clavicembalo e all'organo nei quali eccelleva con genio, Mozart nell'infanzia aveva studiato anche il violino, e già a otto anni Leopold aveva fatto stampare a Parigi quattro Sonate Pour clavier avec accompagnement de violon: sono i primi numeri dei suoi lavori pubblicati, op. 1 e 2, cui seguirono nel 1765 e nel '66 altri due gruppi di Sonate. Poi egli perfezionò la tecnica del violino nell'adolescenza e nel 1773, a diciassette anni, improvvisava magistralmente in pubblico. La sua abilità come violinista era richiesta dal suo incarico di Konzertmeister presso la corte salisburghese (nel quartetto, peraltro, preferiva suonare la viola; e tale versatilità, più che al genio, va attribuita alla poliedricità artigianale del musicista nel Settecento). [24]
E' piuttosto singolare, dunque, che al genere del Concerto per violino e orchestra egli si sia dedicato esclusivamente in un periodo estremamente limitato della sua esistenza, fra l'aprile e il dicembre del 1775, all'inizio di un lungo soggiorno a Salisburgo (il penultimo) e subito dopo la redazione delle mirabili (e ai nostri giorni misconosciute) partiture operistiche della Finta giardiniera e del Re pastore. In questo lasso di tempo Mozart scrisse i cinque Concerti violinistici a lui sicuramente attribuibili, K. 207, 211, 216, 218, 219; altri due posteriori Concerti (K. 268 e 271a), se sono autentici, ci sono comunque giunti in versioni rimaneggiate Non sappiamo a quale necessità pratica o mondana dell'orchestra di corte si debba il ciclo dei cinque Concerti del 1775 composti nel giro di pochi mesi, né sappiamo se siano stati concepiti davvero come un ciclo o se siano state cinque occasioni differenti. È probabile che uno dei destinatari sia stato Antonio Brunetti, il primo violino dell'orchestra, col quale Mozart strinse proprio in quell'anno una cordiale amicizia, dopo che vennero superati alcuni segni di gelosa diffidenza da parte dell'italiano. Brunetti aveva una grande ammirazione per il giovane compositore che egli ammirava anche come violinista.
Guida all’ascolto Questo 5° ed ultimo concerto per violino datato 20 dicembre 1775, sicuramente attribuibile a Mozart si presenta, rispetto ai quattro concerti composti nei mesi precedenti, come il più elaborato e imponente, e in certo senso rivela un grado di maturazione ancor più elevato soprattutto per quanto riguarda l'originalità del linguaggio.
♫ 1° movimento: Allegro aperto E’ un movimento in forma-sonata che presenta un'abbondanza di temi, seppur omogenei. L'introduzione del primo movimento è eccezionalmente estesa, con due temi: uno è ritmato e danzante, e ad esso risponde il secondo con elegante ironia. Nel giro di poche battute l'incrocio dei due temi va verso una cadenza che prepara la vera esposizione sinfonica. L'animata introduzione orchestrale si interrompe improvvisamente per l'apparizione inattesa del solista con un breve Adagio lirico, disteso sul sussurro degli archi. Questa strana parentesi sembra essere un pensiero improvviso di Mozart o una sua dedica speciale a qualcuno. È un passaggio enigmatico, che esula completamente dalla tradizione; è il momento del libero eloquio del solista, che pare aver bisogno di un attimo di preparazione prima di attaccare, senza interrompersi, il tema principale carico di slancio (l’indicazione espressiva di Mozart è un bizzarro Allegro aperto, cioè schietto, ardito), accompagnato dal disegno danzante dei violini, con il quale si era iniziata l'Introduzione. Nuove idee fioriscono poi senza sosta per tutto il movimento, nel quale non viene mai meno la straordinaria freschezza dell'inventiva mozartiana.
♫ 2° movimento: Adagio L'Adagio è un'espansione melodica di eccezionale bellezza, una purissima linea melodica del solista, che crea un'ambientazione assai contemplativa e pensosa, senza che mai, neppure in una battuta, si [25]
indeboliscano l'intensità e la concentrazione del sentimento. Solo a tratti la calma contemplativa del canto è turbata da una segreta agitazione.
[Violino appartenuto a Mozart, realizzato da Pietro Antonio dalla Costa a Treviso, nel 1764. La parte superiore è in abete e il fondo in acero]
Questo, Adagio fu giudicato troppo complesso dal violinista Antonio Brunetti: venne quindi sostituito l'anno seguente dall'autore con l’Adagio K. 261, assai meno ambizioso.
♫ 3° movimento: Rondò-sonata Il Rondeau finale, che, come indica anche il nome, risente maggiormente dell'influenza francese, si avvale di un garbato refrain in tempo di minuetto. La struttura di questa forma è "ciclica" e classicamente codificata ABACABA, in cui A è un primo tema, B il secondo e C il terzo. Il secondo e il terzo tema sono intercalati dal primo che chiude la composizione e ne costituisce l'elemento ritornante. Una nuova sorpresa ci attende con il bellissimo Trio, Allegro in la minore, una specie di mascherata fantastica di tutti gli strumentisti, in abiti turchi o zigani, con chiare reminiscenze delle Gelosie del serraglio, un balletto per il Lucio Silla lasciato incompiuto tre anni prima. Era un tipo di esotismo allora di moda (spesso presente anche in Haydn), ma qui l'idea ha una sua spavalderia insolita e irresistibile, allusione infallibile per sedurre il pubblico. Dopo la ripresa del Minuetto il Concerto con sorridente eleganza si conclude con i due segmenti con i quali si era iniziato.
[26]
Sinfonia concertante per violino, viola e orchestra in mi bemolle maggiore K. 364 Il 1779 fu uno degli anni più difficili e penosi della vita di Mozart. L'ex-fanciullo prodigio aveva ormai 23 anni e era dovuto tornare a testa bassa a Salisburgo, dopo un viaggio di sedici mesi che aveva avuto come tappe intermedie Mannheim e Monaco e come meta finale Parigi. Profondamente provato dalla morte della madre Anna Maria Pertl che era avvenuta mentre si trovava solo con lei a Parigi, rifiutato da Aloysa Weber, di cui s'era invaghito a Mannheim, amaramente deluso nella speranza di trovare una collocazione professionale più rispondente alle sue aspirazioni, si era dovuto rassegnare al soffocante ambiente salisburghese, riassumendo il suo ruolo di servitore del principearcivescovo. Al rientro a Salisburgo, Mozart era dunque profondamente cambiato. D'ora innanzi, la cittadina natale gli starà stretta, fino a soffocarlo: umanamente, per le umiliazioni di un impiego che non riconosce il suo genio e per la presenza del padre che gli impone un'autorità ormai per lui insopportabile; ma anche musicalmente, perché le esperienze di questo viaggio hanno aperto a Mozart gli orizzonti del grande teatro - che a Salisburgo gli è impraticabile - e del moderno sinfonismo, quale ha potuto conoscere a Mannheim dalla frequentazione della celebre orchestra di corte.
[Anna Maria Pertl e Leopold Mozart]
[27]
L'insoddisfazione e la rabbia fortunatamente non spensero ma anzi stimolarono la sua voglia di comporre. Tra le musiche scritte in quei mesi spiccano la Messa dell'Incoronazione K.317 (23 marzo), la Sinfonia n. 33 in si bemolle maggiore K. 319 (9 luglio), la Serenata "Posthorn" K. 320 (3 agosto) e, subito dopo, la Sinfonia concertante in mi bemolle maggiore per violino, viola e orchestra K. 364 (K. 320 d), la più ambiziosa e perfetta di tutte le sue creazioni di quel periodo, destinata alla straordinaria orchestra di Mannheim, da poco trasferitasi a Monaco al seguito del duca Karl Theodor: se non lo rivelassero i documenti, ne sarebbero un chiaro indizio lo stile serio ed elevato, l'ampia architettura e la profondità d'espressione, che la distinguono dalla musica scritta per Salisburgo, dove aveva l'impressione di scrivere "solo per le sedie", come egli stesso ebbe a dire. Per gli eccellenti musicisti di quell'orchestra, molti dei quali erano suoi amici personali, si sentiva invece stimolato a dare il meglio di sé, libero di scrivere senza costrizioni, sicuro di essere capito e apprezzato. Nell'epoca dello stile galante, quando la musica doveva essere soprattutto piacevole, leggera ed elegante, la Sinfonia concertante consentiva di incrociare Sinfonia e Concerto, alleggerendo il serioso stile sinfonico con le divagazioni brillanti e virtuosistiche dello stile concertante. Generalmente il tono di questo genere di composizioni era piuttosto vivace e leggero, ma Mozart preferì dare a questa sua seconda Sinfonia concertante (ne aveva già composta una a Parigi, nell'aprile 1778) un carattere serio e severo: il timbro scuro della viola attenua la luminosità del violino, il primo movimento si tiene lontano dai vivaci temi da opera buffa presenti nei tempi veloci di molte sinfonie mozartiane di quegli anni, il meditativo tempo lento centrale ha una dimensione e un ruolo ben superiori al consueto.
Aspetti musicali La Sinfonia concertante K. 364 è un concerto doppio in piena regola. Mozart non concepisce una struttura nella quale ai solisti vengano riservate ampie possibilità individuali ma piuttosto di creare un dialogo tra violino e viola e tra questi e l'orchestra. La logica è quella cameristica post-haydniana, dove non esiste prevalenza tra i componenti e il cui antagonismo viene intelligentemente definito "amichevole rivalità". La composizione dimostra fin dall'inizio il suo carattere serio e severo, del tutto propizio alla presenza di uno strumento come la viola, agli antipodi della brillantezza e dell'esibizionismo virtuosistico, di voce assai più scura e velata che non il violino, con il quale tuttavia essa è in grado di convivere in piena pariteticità. L'attenzione che Mozart prestò alla viola - è del tutto probabile che abbia pensato per sé la parte dello strumento in questa sinfonia - è testimoniata anche dalla cura che le è riservata nella partitura orchestrale, dove la suddivisione della fila delle viole porta a cinque il numero delle parti d'arco. Una curiosità è il fatto che la parte della viola solista sia scritta in Re maggiore con l'indicazione "accordata un mezzo tono più alto"; questo accorgimento ha lo scopo di rendere la viola più brillante grazie alla maggiore tensione delle corde e all'utilizzo delle corde vuote mentre il violino nella tonalità [28]
di mi bemolle, a causa dell'impossibilità di utilizzare frequentemente le corde vuote, assume una sonorità più velata. In questo modo si eviterebbe che il violino sovrasti la viola; normalmente però oggi i violisti preferiscono suonare con lo strumento accordato normalmente. Mozart ha avuto inoltre cura di scrivere egli stesso le cadenze, di cui quella del secondo movimento è di incredibile bellezza. Altro elemento imprescindibile della partitura è l'importanza dell'orchestra; grazie all'eloquenza dello stile orchestrale di Mannheim e al dominio di una concezione formale più articolata, ci troviamo di fronte a una composizione veramente "sinfonica".
Guida all’ascolto
♫ 1° movimento: Allegro maestoso In Mozart la tonalità di mi bemolle maggiore corrisponde spesso a un'aspirazione alla felicità e alla pienezza interiore: ne è una conferma il primo movimento. È pieno di vita e di speranza e presenta una grande ricchezza tematica: il tema esposto nell'introduzione orchestrale da oboi, corni e archi s'affermerà come il tema principale, ma ha un bel rilievo anche il tema immediatamente successivo, disseminato di trilli, che con un crescendo prepara l'entrata dei due solisti. Modulazioni a tonalità minori velano quest'atmosfera luminosa nello sviluppo, che culmina in un nuovo tema ricco di pathos introdotto dal violino. La ripresa della parte iniziale porta alla cadenza, che solitamente era lasciata all'improvvisazione dei solisti ma in questo caso scritta da Mozart di suo pugno, sfruttando principalmente il gioco d'eco tra violino e viola.
♫ 2° movimento: Andante L'ampio Andante, nella cupa tonalità di do minore, è un canto emozionante e patetico, mormorato inizialmente dai violini e ripreso dai due solisti, che ingaggiano un dialogo intenso e serrato. L'orchestra ha funzione di accompagnamento dei due strumenti solisti che senza soluzione di continuità alternano e compenetrano temi di soave bellezza e irresistibile poesia. E’ un Andante tra i più belli mai scritti in tutta la musica di ogni tempo.
♫ 3° movimento: Presto Il presto che conclude la sinfonia concertante è un rondò dal ritmo pieno di vita, di gioia, instancabile e luminoso, la cui allegria traboccante spazza via d'un colpo solo il tono raccolto e intenso del movimento precedente.
[29]
DISCOGRAFIA Mozart: Violin Concertos (complete) Arthur Grumiaux (violino), Arrigo Pellicia (viola). London Symphony Orchestra, dir. Sir Colin Davis. New Philharmonia Orchestra, dir. Raymond Leppard. Philips Questo doppio CD contiene i cinque Concerti per violino di Mozart insieme alla Sinfonia Concertante. Registrate tra il 1961 e il 1964, queste registrazioni sono considerate tra quelle di assoluto riferimento. Il suono è molto ma molto buono nonostante la sua età, e tutte le abilità interpretative di Arthur Grumiaux sono in evidenza: purezza e precisione della linea, tono ineffabilmente dolce e intonazione impeccabile; rara finezza nei suoi fraseggi e accenti. Molti lo definiscono l’interprete ideale di Mozart. Di gran pregio la Sinfonia K 364, una celebre incisione citata addirittura da Arthur Rubinstein nelle sue memorie, Splendido l’affiatamento col violista Arrigo Pelliccia.
Mozart: The 5 Violin Concertos; Sinfonia Concertante Gidon Kremer (violino), Kim Kashkashian (viola). Wiener Philharmoniker dir. Nikolaus Harnoncourt. Deutsche Grammophon Questi 5 concerti per violino sono prestazioni eccellenti: Kremer suona in modo brillante e l’orchestra è agile e coinvolgente nella sua gioiosità. La registrazione è molto trasparente e mantenuta leggermente fresca nel carattere sonoro con uno spettro luminoso di toni nelle corde. Qui si sente ogni dettaglio. Il violino di Kremer è ben integrato nel tono orchestrale con un tono brillante e conciso. Kim Kashkashian si unisce a Kremer in un'esibizione della Sinfonia Concertante. Lei è splendida, e suona con grande sentimento e sensibilità. Questa Sinfonia è un capolavoro che merita di essere ancora più conosciuto di quanto non lo sia già.
[30]
Mozart: Violin Concertos Yehudi Menuin (violino). BBC Symphony Orchestra, London Mozart players. Ica
Storica e splendida interpretazione di Yehudi Menhuin dei 5 concerti mozartiani registrati presso gli BBC Studio nel Gennaio 1956. Nonostante l’età e i limiti tecnici della registrazione anni ‘50 rimane una delle incisioni di riferimento.
Mozart: The Violin Concertos. Sinfonia concertante Anne-Sophie Mutter (violino e direttore), Yuri Bashmet (viola). London Philharmonic Orchestra. Deutsche Grammophon Le prime registrazioni mozartiane di Anne-Sophie Mutter furono il 3° e il 5° concerto per violino, eseguite quando era adolescente con Karajan e la Filarmonica di Berlino (Deutsche Grammophon Original). Continuò a registrare gli altri concerti e la Sinfonia Concertante pochi anni dopo a Londra. Due decenni dopo, nel 2005, realizzò - in preparazione del 250° anniversario di Mozart - queste registrazioni di tutti e cinque i concerti per violino più la Sinfonia Concertante con la London Philharmonic sotto la sua direzione. Anne-Sophie Mutter, vera e propria diva nel firmamento concertistico mondiale per la sua bravura e, lasciatemelo scrivere, per la sua bellezza, in questa esecuzione dà il meglio di sé. Si tratta di un’interpretazione molto brillante, caratterizzata da un suono molto penetrante ed intenso e, allo stesso tempo, trasparente
nei
momenti
più
lirici,
coinvolgente
e
assolutamente piacevole all’ascolto. La Mutter offre alcune cadenze virtuose e suona con una notevole varietà tonale. Inoltre le ultime tre tracce del secondo CD ospitano l’esecuzione della Sinfonia Concertante per violino e viola K 364 con la [31]
partecipazione di un grandissimo artista, Yuri Bashmet. Virtuosismo e interpretazione eccezionali, ricchi di magica atmosfera! La Sinfonia Concertante appare dettagliata in tutte le sue sfaccettature: abbagliante, sorprendente, edificante, energica, appassionato, giocosa, riflessiva... L’orchestra è la London Philharmonic che mette in mostra 27 archi suonati con una lucentezza lucida, vibrato in abbondanza, è tutta la sua attenzione è rivolta alla star solista che esalta il fascino e la freschezza dei concerti. Il direttore è la stessa Anne-Sophie Mutter, assoluta regina (come sempre) di questa nuova produzione mozartiana firmata Deutsche Grammophon. Da avere assolutamente!
Mozart: The Violin Concertos Anne-Sophie Mutter (violino e direttore). Camerata Salzburg Orchestra. Deutsche Grammophon – Unitel [DVD] Un DVD musicale eccezionale di una musicista di eccezionale talento al culmine della sua arte interpretativa. Da non confondere con la registrazione parallela 2-CD dove la Mutter dirige la London Philharmonic mentre sul DVD dirige l'orchestra da camera Camerata Salzburg. I DVD e i CD condividono la stessa copertina, quindi c'è spazio per la confusione. Anne-Sophie Mutter dà l’ennesima prova di eccezionale virtuosismo: la violinista scoperta da Karajan “canta” come non mai il genio di Mozart,
i suoi movimenti lenti
respirano
profondamente e c'è energia in abbondanza quando la musica lo richiede. Vedere e sentire il suo trasmettere questa musica senza tempo in performance dal vivo è davvero qualcosa di speciale. La grande violinista conferma ancora una volta la sua eccezionale qualità, talento, finezza espressiva e genio; sa attaccare il violino con la forza richiesta dai passaggi forti e quasi, diciamo, accarezzare i suoi strumenti nei passaggi più delicati. L'organico della Camerata Salzburg Chamber Orchestra è relativamente piccolo, ma questo porta maggiore chiarezza e sottolinea l'importanza dello strumento solista. La Camerata svolge molto bene il suo ruolo, senza la necessità di gesti 'registi' da parte del solista. Il suono perfetto e la piacevole registrazione visiva permette di apprezzare la maestria virtuosa della Mutter, l'espressione dei suoi movimenti e gesti facciali, in una parola il fascino indiscutibile che suscita la sua figura. La qualità dell'immagine è buona, anche se un filtro soft-focus dà alla sala concerti una tonalità fumè, grigio/blu... ovviamente, questo non influisce sulle prestazioni! Consigliato senza alcun dubbio: questo DVD è un must sublime! [32]
Mozart - The Violin Concertos Isaac Stern (violino). Columbia Symphony Orchestra, dir. Alexander Schneider & George Szell. CBS Odissey Isaac Stern registrò i Concerti nn. 1, 3 con 5 Szell, mentre i nn. 2 e 4 furono diretti da Alexander Schneider. Purtroppo, questo album non include tutte le opere di Mozart per Violino e Orchestra, omettendo il Rondo Concertante, K. 269. Isaac Stern in queste registrazioni si conferma uno dei più grandi violinisti del XX secolo. Tono forte inconfondibile e vibrato caldo, eccezionalmente espressivo. Ottimo il suono analogico.
Mozart: The Violin Concertos. Sinfonia concertante Giuliano Carmignola (violino). Danusha Wasliewicz (viola). Orchestra Mozart, dir. Claudio Abbado. Archiv Nel 2008, la Deutsche Grammophon ha pubblicato questo doppio CD della serie Archiv, che comprende registrazioni di altissimo valore artistico, i 5 concerti per violino e orchestra e la magnifica "Sinfonia Concertante" per viola, violino e orchestra nelle esecuzioni della giovane e talentuosa "Orchestra Mozart", guidata splendidamente dal Maestro Claudio Abbado. Il violino solista è un eccezionale Giuliano Carmignola, che in questi concerti, si dimostra, ancora una volta, un grande interprete della musica settecentesca. Dei 5 concerti sicuramente sono da citare le esecuzioni del numero 3 e 5. In particolare si rimane colpiti dalla musicalità che esprime tutta l'orchestra che comprende pure due suonatori di violone (il padre del moderno contrabbasso). Nella Sinfonia Concertante, in cui le parti soliste della viola sono eseguite dalla brillante Danusha Wasliewicz, la viola e il violino solisti e l'orchestra mostrano le loro grandi qualità espressive emozionando l'ascoltatore che rimane stordito da tanta bellezza musicale. Tutti i tre movimenti della sinfonia sono meravigliosi, avvolgenti.
[33]
Il disco risulta inoltre indispensabile in particolare perché Giuliano Carmignola usa pure un noto violino di Antonio Stradivari (il "Baillot" del 1732), uno degli ultimi violini costruiti dal grande liutaio cremonese.
Mozart: Violin Concertos nn. 3 & 5 Oleg Kagan (violino). Moscow Philharmonic Symphony Orchestra, dir. David Oistrakh. Melodiya Molti critici sono concordi nel ritenere che lo straordinario talento di Oleg Kagan (1946-90) lo fece diventare uno dei rari musicisti in grado di condizionare il panorama musicale che li circonda, senza subirne passivamente l’influsso. Purtroppo questo giudizio lascia solo presagire quanto Kagan avrebbe potuto fare se la morte non ne avesse troncato la carriera all’apice del successo. Questi due concerti di Mozart ci offrono una limpida immagine dell’arte sublime di questo grande violinista, il cui virtuosismo non si ridusse mai a un semplice sfoggio di bravura, ma era un’arma meravigliosa per esaltare sempre le opere che eseguiva. Un disco di grande bellezza, che non può assolutamente mancare nella collezione di ogni serio appassionato di violino.
Mozart: Sinfonia Concertante. Brahms: Doppio concerto. Bach: Doppio Concerto Jascha Heifetz (violino), William Primrose (viola). RCA Victor Orchestra dir. Izler Solomon. RCA Victor Red Seal Di questo imperdibile disco storico del 1956 recensisco naturalmente solo la parte mozartiana dedicata alla Sinfonia Concertante. I musicisti della RCA Victor Orchestra guidati magistralmente da un ottimo Izler Solomon suonano con grande entusiasmo nei movimenti esterni, un entusiasmo che corrisponde a quella dei solisti, e con una superba trasparenza delle trame, con gli oboi e i corni importantissimi mai coperti e che aggiungono un grande carattere timbrico. C'è, come sempre succede con Heifetz, una frenesia nel suonare e questa Sinfonia è suonata così velocemente che lo stesso Mozart lo riconoscerebbe a malapena come la sua musica. Non c'è quasi mai un attimo di riflessione; [34]
Risalta però il modo con cui Heifetz suona il movimento centrale, per una volta (finalmente!) preso come l'Andante quale ha scritto Mozart, e non come un romantico e solenne "Adagio", parente dell'Adagio & Fuga massonico. La registrazione è stereo e vivida, nonostante l’età.
Mozart: Sinfonia Concertante KV 364; Concertone KV 190; Adagio KV 261; Rondò KV 269 Igor Oistrakh (violino), David Oistrakh (viola e direttore). Berliner Philharmoniker. EMI Studio In questa storica incisione mozartiana troviamo i due Oistrakh, il padre David (viola e direzione) e il figlio Igor (violino). L’interpretazione è vivace nei movimenti esterni, l'Andante è trasformato in un romantico adagio di grande nobiltà con un tocco di languore: trovo l'approccio sicuramente emozionante. Il tono della viola di David non è bello come quello di William Primrose (con Heifetz), ma si fonde bene con il violino, che ha un suono assai radioso.
Mozart: Sinfonia Concertante for violin & viola; Concertone for 2 violins Jean-Jacques Kantorow (violino), Olga Martinova (viola). Netherlands Chamber Orchestra, dir. Leopold Hager. Denon L'abbinamento della Sinfonia Concertante di Mozart con il Concertone unisce quelli che penso siano i due migliori concerti per archi che ha scritto. Questa performance del violinista Jean-Jacques Kantorow è vivace e piacevole dappertutto, rendendolo un disco molto bello. Kantorow è affiancato dalla violista Olga Martinova, una russa che ha goduto di una lunga carriera nei Paesi Bassi. L'Allegro di apertura è suonato appena un po' più veloce del normale, e anche se non credo che l'Andante raggiunga le vette che può - devo ancora sentire una performance che ne sfrutta il potenziale – questa è una versione ricca di espressività ed emozione. [35]
Mozart: Sinfonia Concertante K 364; Concertone K 190 Itzah Perlman (violino), Pinchas ZuKerman (viola). Israel Philharmonic Orchestra, dir. Zubin Metha. Deutsche Grammophon Questo è certamente una splendida performance in cui Perlman e Zukerman si fondono insieme per produrre un effetto gioioso in questo concerto di Mozart. Si tratta di una registrazione dal vivo, ma non vi è alcuna riduzione della qualità del suono o interferenze da parte del pubblico. Semplicemente meraviglioso fare (ed ascoltare) musica di questo altissimo livello.
[36]
Wolfgang e Nannerl Mozart Desidero per prima cosa ringraziare il caro amico prof. Corrado Balistreri Trincanato1 che mi ha fatto conoscere un introvabile libretto edito da Arnoldo Mondadori nel 1968, intitolato “Lettere di W.A. Mozart”, che mi è stato Musa ispiratrice di questo scritto. Nel libretto sono contenute varie lettere del compositore salisburghese a familiari ed amici, e mi è sorta l’idea, consultando naturalmente altri e più corposi volumi, di far conoscere ai miei… venticinque lettori il rapporto fra i due fratelli attraverso alcune delle loro lettere. [Wolfgan e Nannerle, Mozart Museum, Salisburgo]
Quarta e unica figlia sopravvissuta a sette di fratellini scomparsi prematuramente alla nascita o con pochi mesi di vita, Maria Anna Walburga Ignatia Mozart, chiamata affettuosamente Nannerl, era nata nel 1751 e morì nel 1829, dunque fu assai più longeva di Wolfgang (che, come è noto, morì nel 1791 a soli 35 anni). Da bambini, Wolfgang e Nannerl erano un duo affiatato di enfants prodiges e condivisero esperienze esaltanti quali le esibizioni musicali per i re e i principi d’Europa. Il loro impresario era il padre Leopold, che sfruttò il talento dei suoi figli ancora bambini. La carriera di concertisti iniziò quando Nannerl aveva 11 anni e Wolfgang 6: suonavano presso le corti, i palazzi della grande aristocrazia principesca, le sale da concerti di mezza Europa. Il duo era molto affiatato: Nannerl fungeva solo da "spalla", mentre il piccolo Wolfgang era il vero protagonista. Senza conflitti apparenti, i ragazzi erano molto uniti: oltre al legame di sangue, l'apprendistato musicale e i numerosi viaggi comuni avevano cementato un rapporto profondo fino all' identificazione, come dimostra il sovrapporsi continuo della penna di Wolfgang a quella della sorella nelle pagine del diario. Così scriveva il padre Leopold: "A soli 12 anni, la mia piccola ragazza è tra i migliori pianisti d'Europa". Lo stesso Wolfgang aveva ben chiaro il talento della sorella: "Sono stupefatto! Non sapevo fossi in grado di comporre in modo così grazioso. In una parola, il tuo Lied è bello. Ti prego, cerca di fare più spesso queste cose". Purtroppo, le cose andarono diversamente, e in modo fin troppo prevedibile: a quel tempo, infatti, era dato per scontato che le donne suonassero gratis; soltanto le famiglie molto ricche potevano permettersi di investire su una pianista. Docente universitario Emeritus, - Dipartimento di Progettazione Architettonica presso lo IUAV di Ve ezia. E Coordinatore editoriale della Rivista Fogli. T a seu te edita on-line nella stessa catena editoriale ISSUU alla quale appartiene Gli A i i del Loggio e . 1
[37]
Nannerl aveva quanto meno lo stesso talento del fratello, ma fu costretta a smettere di suonare per imparare a cucire e trovare un marito. Il padre Leopold aveva deciso di sacrificare il talento della giovane Nannerl per puntare tutto su Wolfgang: i soldi non bastavano per finanziare i tour europei di entrambi, e così a 18 anni la carriera di Maria Anna fu interrotta. Il destino di Nannerl era un altro: sposare un ricco barone, diventare una buona moglie e una buona madre. Per parte sua Nannerl, dopo l'inevitabile scissione del duo e una scelta di vita affidata a una routine di pianista senza sbocchi, prese a seguire con solidarietà fedele i successi del fratello, raggiungendolo da Salisburgo per festeggiarne i debutti importanti, come la prima rappresentazione di Idomeneo a Monaco nel 1781.
Dall’epistolario tra i due fratelli trapela una sensazione di affetto e genuino interesse per le condizioni, i pensieri, lo stato d’animo l’uno dell’altra. Spesso era lo stesso Wolfgang a prendere in mano la penna, il più delle volte fingendosi la sorella, quindi scrivendo al femminile e parlando di sé come di "mio fratello": questa è la caratteristica più notevole del diario, il massimo motivo del suo interesse. Ed è davvero clamorosa la distanza di livello tra i due autori, le cui identità risultano chiare e distinte dalla diversità delle calligrafie (riprodotte nei facsimili che corredano il volume). Tanto piattamente descrittive sono le parti compilate da Nannerl, volonterosa e metodica nell' esporre gli accadimenti anche più insignificanti della vita familiare quotidiana, quanto originali e matte, irridenti nella loro insolenza, sono le pagine di Wolfgang. Come nei suoi trasgressivi carteggi, già noti e pubblicati, abbondano i giochi verbali, gli intrecci surreali di lingue e dialetti, le oscenità puerili e imbarazzanti tipo "leccami nel culo", [38]
espressione frequente sia nelle lettere di Amadé che nelle sue incursioni nel diario dell'incolpevole Nannerl. Quest' ultima, presumibilmente, era una fanciulla mite e studiosa, capitata come per caso nelle vampate di genio conturbante del fratello. [Wolfgang e Nannerl Mozart in un ritratto di famiglia di Johann Nepomuk della Croce] Wolfgang rivolgeva volentieri alla sorella espressioni affettuose e burlesche, come in questa lettera da Milano del 17 febbraio 1770, nella quale la chiama “Mariandel” (un altro vezzeggiativo, come “Nannerl”): E o i a h’io, so o tutto pe te, Ma ia del, e so o feli e o tutto il io ulo he tu ti sia osì o e da e te dive tita; […] ti a do e to a i, g a di e pi oli, sulla tua e avigliosa fa ia da avallo. A volte si profondeva in elogi altisonanti e ironici, come in una lettera da Vienna del 14 agosto 1773:
Spero, o mia regina, che tu goda di ottima salute e che tuttavia di tanto in tanto, o piuttosto di quando in quando, o meglio talvolta o ancor meglio qualche volta, come dicono gli italiani, tu voglia sacrificarmi qualcuno dei tuoi importantissimi e urgentissimi pensieri, che in ogni momento discendono dal più bello e dal più saldo degli intelletti, che tu possiedi a fianco della tua bellezza, e benché nulla quasi di quanto sopra in sì teneri anni e da una donna si pretenda, tu, o regina, in tal misura lo possiedi da confondere ogni uomo e finanche i vecchi. Talvolta invece si prendeva la libertà di scherzare sulla vita amorosa di Nannerl, che, a quanto sembra, lasciava languire i propri spasimanti. Così le scrisse da Milano, il 26 gennaio 1770:
Gioisco con tutto il cuore che tu ti sia divertita a correre sulla slitta e ti auguro mille altre occasioni di divertimento, così che tu possa avere una vita allegra. Una cosa sola mi dispiace: che tu abbia fatto sospirare e struggere Herr von Mölk e poi non sia andata in slitta con lui, temendo che ti facesse ribaltare. Quanti fazzoletti egli avrà inzuppato quel giorno, piangendo per causa tua! Sicuramente prima avrà preso u ’o ia di ta ta o, pe spu ga e le s hifezze he i festa o il suo o po.
Per inciso, Joseph von Mölk (1756-1827), pretendente di Nannerl così malamente rifiutato, si fece prete. Con il passare degli anni, il tono canzonatorio scompare dalle lettere di Mozart alla sorella e ne traspare invece la nostalgia per l’affettuosa complicità dei tempi dell’infanzia. Il 20 luglio 1778, da [39]
Parigi, Wolfgang scrive a Nannerl scusandosi di averle mandato in ritardo gli auguri per il suo onomastico:
So bene che, come me del resto, tu non ami le parole altisonanti e sei certa che ti auguro con tutto il cuore la feli ità he deside i, o solo oggi, a og i gio o, e he te l’augu o si e a e te, ua to può esse e sincero un fratello che tiene al bene della propria sorella. Mi spiace non poter scrivere un brano musicale i tuo o o e, o e al u i a i fa. “pe o, d’alt a pa te, he o si sia allo ta ato uel o e to feli e i cui un fratello e una sorella, un tempo così uniti e affezionati, possano di nuovo dirsi quello che pensano e hanno nel cuore. Per intanto addio, stammi bene, e voglimi bene come io voglio bene a te. Ti abbraccio con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima e rimango per sempre il tuo fratello sincero e leale.
Il brano musicale al quale Mozart fa riferimento è il Divertimento “Nannerl Septett” K 251, che aveva composto per l’onomastico di sua sorella nel 1776. Queste dichiarazioni di tenerezza furono ripetute diverse volte. Wolfgang si premurava di rassicurare la sorella del fatto che la distanza fisica non aveva intaccato il suo affetto per lei, e si preoccupava per la sua salute spesso precaria; inoltre, più si affrancava dalla famiglia di origine e cercava una propria strada autonoma nella vita, più esortava lei a fare lo stesso. Anni dopo, giunse a pregarla di seguire il proprio esempio nel sottrarsi allo schiacciante controllo del padre e trasferirsi a Vienna con il suo innamorato, il maggiore dell’esercito Franz Armand d’Ippold. Così le scrisse dalla capitale, in una commovente lettera del 19 settembre 1781:
Credimi, carissima sorella, che sono oltremodo serio nel dirti che la cura migliore per te sarebbe un marito, e vo ei o tutto il uo e he tu ti sposassi p esto. […] A “alis u go, pe te e d’Ippold i so o po hissi e prospettive; a zi, di ei essu a. Ma d’Ippold o pot e e ius i e a t ova e ual osa ui? I agi o he egli non sia completamente privo di mezzi. Chiediglielo, e se trova questa idea in qualche modo attuabile, non deve far altro che dirmi quali passi intrapre de e pe aiuta lo […]. “e il p ogetto ies e, pot este se za dubbio sposarvi; infatti, credimi, anche tu potresti guadagnare bene qui a Vienna, per esempio suonando in concerti privati e dando lezioni. Saresti assai richiesta e ben pagata. Purtroppo, così come non aveva seguito il consiglio del fratello di dedicarsi alla composizione, neanche in questo caso Nannerl gli diede retta: non sposò d’Ippold (che pare non fosse gradito a Leopold proprio perché la sua posizione non era abbastanza agiata) e non si mosse da Salisburgo. Nel 1784, a 33 anni, finalmente prese marito: un uomo di grandi mezzi, il barone Johann Baptist von Berchtold zu Sonnenburg, vedovo due volte e padre di cinque figli. E’ assai probabile che si sia trattato di un mero matrimonio di convenienza. Nannerl Mozart si trasferì a Sankt Gilgen (un villaggio a sei ore di carrozza da Salisburgo), nella casa del barone, e abbandonò del tutto le attività musicali per prendersi cura della famiglia.
[40]
Non esistono tracce di un evento particolare che abbia provocato una frattura nel rapporto tra fratello e sorella, ma una frattura evidentemente ci fu. Forse fu dovuta solo al reiterarsi di piccole incomprensioni e disaccordi, dovuti a una smaccata differenza di carattere, che negli anni si accentuò e si attuò nelle rispettive scelte di vita. Nannerl non fu mai capace, come Wolfgang, di anteporre i propri interessi a quelli del gruppo famigliare né di mettersi in aperto contrasto con il padre, e questo dovette creare tra i due risentimenti e conflitti più o meno espliciti.
[Nannerl Mozart. Ritratto controverso] In qualche modo lei non si affrancò mai dal ruolo di figlia, forse perché l’infanzia dorata delle tournée europee era stata il periodo più felice della sua vita ed evitare di crearsi un’autonomia psicologica era un modo di farlo perdurare; era inoltre un tentativo di riscattarsi dalla predilezione che il padre aveva sempre nutrito per il figlio maschio. Sia d’Ippold che il barone Berchtold zu Sonnenburg, peraltro, erano più vecchi di lei e potevano evocare una figura paterna. Per di più, Leopold Mozart, uomo molto abile nel mantenere il controllo dei famigliari attraverso il ricatto emotivo, non esitò a mettere i figli l’uno contro l’altra per i propri scopi: quando Wolfgang faceva qualcosa che non gli andava a genio, gli scriveva che il suo comportamento sconsiderato faceva soffrire orribilmente la sorella. Ad esempio, nel 1778 Mozart era in viaggio alla volta di Parigi in compagnia della madre, così come il padre aveva accuratamente disposto e organizzato; incontrata sulla via una famiglia di musicisti, i Weber, l’irrequieto giovane aveva però provato il desiderio di cambiare programma, recarsi con loro in Italia e rispedire la mamma a casa. [Wolfgang Amadeus Mozart. Ritratto autentico]
Il 12 febbraio, per dissuaderlo da quella che gli pareva una pura follia, Leopold scrisse a suo figlio una lunga, terribile lettera (una delle più famose dell’intero epistolario mozartiano) nella quale, in sostanza, rispolverò il sempiterno adagio: “Così mi tratti, dopo tutto quello che ho fatto per te?”. E gli comunicò nel post scriptum che Nannerl aveva pianto a calde lacrime per due giorni interi, disperata per la sconsideratezza di suo fratello.
[41]
Fu il matrimonio di Mozart a segnare la loro separazione. Nannerl si mostrò subito ostile alla cognata Constanze [ ell i
agi e a si ], e non
a caso: erano temperamenti diametralmente opposti. Seria e disciplinata, plasmata da un tirocinio severissimo, Nannerl era una professionista rigorosa della musica; l'altra arrivava da studi musicali scarsi e dilettanteschi, ed era spensierata e sensuale, complice delle folli dissipazioni del marito. Dopo l’irruzione di Costanze nella vita di Wolfgang, Nannerl ne viene praticamente cancellata, evocata solo in rapporti epistolari freddi e sporadici. Il risultato di tutto questo, in ogni modo, fu che nessuno dei due fratelli si peritò di presenziare al matrimonio dell’altro, e nessuno dei due conobbe i figli dell’altro (Nannerl incontrò Franz Xaver, figlio minore di Mozart, solo molti anni dopo la sua morte). E quando il padre morì nel 1787, Nannerl non ne informò personalmente Wolfgang; anzi, non gli fece neppure sapere che stava male. Da quel momento in poi la conflittualità divenne esplicita e si espresse nella forma piuttosto comune dei contrasti per l’eredità. Wolfgang scrisse alla sorella di essere impossibilitato a lasciare Vienna poiché stava lavorando al Don Giovanni e la pregò di fargli avere una copia accurata della dispositio paterna inter liberos (il testamento), non potendo rinunciare a prenderne visione, poiché, probabilmente, non si fidava; inoltre dichiarò di approvare la proposta della sorella di vendere all’asta gli oggetti di maggior pregio. Nannerl però gli fece sapere che poteva anche scordarsi di ottenere la metà del ricavato. Il 16 giugno lui le inviò poche, secche righe:
Se tu fossi ancora senza una sistemazione, come ho detto già mille volte, ti lascerei tutto con vero piacere. Ma giacché ora tu non hai, per così dire, alcun bisogno materiale, mentre io ho delle precise necessità, ritengo mio dovere pensare a mia moglie e a mio figlio. Iniziò quindi una trattativa tra Mozart e il cognato, al termine della quale i beni furono più o meno equamente ripartiti. Nannerl si tenne però numerosi oggetti di valore, tra i quali alcuni strumenti musicali e i gioielli ricevuti in dono durante le tournée degli anni dell’infanzia; fece inoltre molta resistenza nel restituire al fratello le partiture delle sue composizioni. Da allora in poi, i contatti epistolari tra i due si fecero sempre più freddi e radi e negli ultimi tre anni della vita di Mozart cessarono del tutto. Dopo la morte del fratello, però, Nannerl collaborò con i suoi biografi e con gli editori delle sue musiche immortali, contribuendo così alla creazione del suo mito.
[42]
Le Sinfonie di Gustav Mahler
[43]
Gustav Mahler: Sinfonia n° 4 in sol maggiore GENESI La Quarta sinfonia occupa un posto particolare nella produzione sinfonica di Gustav Mahler: da un lato conclude il ciclo delle Wunderhorn-Symphonien (sinfonie in cui vengono messi in musica testi provenienti dalla raccolta di canti medioevali tedeschi intitolata Des Knaben Wunderhorn), chiudendo, in definitiva, la prima fase del sinfonismo mahleriano; dall'altro inaugura un nuovo stile, più essenziale nella severità del contrappunto e meno incline alla monumentalità. Non è difficile individuare i tratti più immediatamente evidenti di questo ciclo: la Seconda, la Terza la Quarta accolgono al proprio interno dei canti vocali su testi poetici, a differenza delle sinfonie immediatamente successive, che segnano un ritorno verso la musica "pura". Sinfonie con canto, dunque, in cui la parola rende esplicito il momento saliente di un percorso poetico-musicale, così articolato: la Prima si nutriva del conflitto fra natura e individuo, la Seconda portava l'individuo-eroe alla morte e alla resurrezione, la Terza costituiva un «sogno d'un mattino d'estate», con la Quarta vi è una riflessione sui temi della morte e dell'infanzia. Mahler compose la sua Quarta Sinfonia nelle estati del 1899 e 1900 (ulteriori revisioni seguirono dopo la pubblicazione della partitura nel 1901). La genesi della Quarta è direttamente legata all'originario progetto della Terza; questa sinfonia, infatti, si componeva nel suo disegno originario di sette movimenti, l'ultimo dei quali, intitolato Ciò che un bambino mi dice, si avvaleva di un Lied, Das himmlische Leben (“La vita celestiale”) tratto dalla raccolta popolare Des knaben wunderhorn (“Il corno magico del fanciullo”), fonte prediletta per tutta la liederistica mahleriana. In questa raccolta il Lied fa da contraltare a un altro Lied, Das himmlische Leben (“La vita terrena”), che narra di come un bambino muoia per fame in attesa che il raccolto maturi e che il pane venga impastato. Lo stesso bambino descrive in Das himmlische Leben la vita celestiale, secondo una visione ingenua, infantile, austriaca e cattolica. Mahler tolse successivamente il Lied dalla Terza Sinfonia, e ne fece la base della Quarta. La prima esecuzione avvenne sotto la direzione dello stesso Mahler il 25 novembre 1901 a Monaco; poco dopo la Sinfonia venne ripresa a Berlino e Vienna. L'accoglienza iniziale non fu unanimemente positiva, ma dopo la morte del compositore e sino ai nostri giorni la Quarta è divenuta una delle Sinfonie mahleriane più eseguite. ETICA DELLA SINFONIA Sebbene Mahler non volesse pubblicare il programma della Sinfonia, esso venne esposto da Bruno Walter, nella funzione di portavoce del compositore, in una lunga lettera del 1901 al musicologo [44]
Ludwig Schiedermair. Secondo Walter dunque «i primi tre tempi potrebbero ritrarre una vita celeste: nel primo tempo si potrebbe pensare all'uomo che comincia a conoscerla; vi predomina un'inaudita serenità, una gioia non terrena, che attrae quanto allontana, una luce e un'aria prodigiosa, dove certo non mancano anche suoni umani e commoventi. Il secondo tempo era intitolato Freund Hein (termine tedesco che indica la Morte), la quale suona per accompagnare la danza sfregando in modo assai singolare le corde del suo violino (nella partitura Mahler ha indicato che il primo violino deve accordare lo strumento un tono sopra, in modo da ottenere un suono stridulo e spettrale) e con quel suono ci spinge su in cielo. [...] Anche “Sant'Orsola ride” sarebbe il titolo del terzo tempo; la più seria delle sante ride, tanto serena è questa festa; [...] una pace solenne, felice, una serenità seria e dolce è il carattere di questo tempo, cui pure non mancano anche contrasti profondamente dolorosi come reminiscenze della vita terrena e un crescendo dalla serenità fino alla vivacità». ASPETTI STRUTTURALI La Quarta Sinfonia fa da cerniera tra la produzione sinfonica degli anni Novanta dell'Ottocento e quella della decade successiva, costituendo un caso esemplare, poiché in essa ricorrono molti dei fattori che caratterizzano la musica di Mahler: la pluralità e la mescolanza di stili, con influenze provenienti tanto dalla musica colta quanto da quella popolare o di consumo; l'ironia, la sovrapposizione di stati d'animo contrastanti e le brusche svolte espressive; le autocitazioni e le citazioni stilistiche; le reminiscenze interne tra i singoli movimenti della Sinfonia e l'irruzione improvvisa del mondo esterno, cioè di sonorità tratte dalla vita reale (i sonagli che compaiono nel primo e nell'ultimo movimento della Quarta); il mondo dei ricordi, deformato dalla distanza temporale; il candore della visione infantile contrapposto alla consapevolezza disillusa dell'adulto; lo slancio ideale e l'abbattimento disperato, l'esaltazione utopica e l'angoscia della sconfitta, l'incombenza della morte.. Tutte queste caratteristiche presenti in questa sinfonia sono facilmente spiegabili tenendo presente il carattere "infantile" della partitura. E dunque ecco che per la prima volta Mahler rinuncia all'elefantiasi dell'organico sinfonico impiegato fino a quel momento, per scegliere un organico "normale", senza tromboni e basso tuba, né raddoppi dei fiati; dunque una orchestrazione più leggera, che è anche funzionale a un contenuto musicale che, in parte, recupera stilemi settecentisti. Mancano dalla Sinfonia quegli impulsi emozionali e quelle studiate discontinuità che sono alla base di altre partiture. [45]
GUIDA ALL’ASCOLTO Nella sua forma definitiva la sinfonia è divisa in quattro movimenti: 1. Bedächtig, Nicht eilen, recht gemächlich (Riflessivo, Non affrettato, Molto comodo) 2. Im gemächlicher Bewegung (Con movimento tranquillo, Senza fretta) 3. Ruhevoll (Poco adagio) 4. Sehr behaglich "Das himmlische Leben" (Molto comodamente "La vita celeste") per soprano solo. ♫ I Movimento. Troviamo già nel primo movimento quella commistione di melodie classiche e popolari che definiscono l'essenza della poetica mahleriana. Il movimento si apre con dei suoni di campanelli, cui segue una melodia derivata da Schubert (Sonata per pianoforte op. 120) che ha una sembianza classica, viennese, sembra quasi derivare da Mozart o Haydn. Dopo una breve Marcia di transizione, compare il secondo tema, una distesa melodia che i violoncelli eseguono cantando largamente. Nella frenetica animazione dello Sviluppo trova spazio una melodia che quattro flauti intonano all'unisono, in tono acuto, tali da sembrare simili a una ocarina (timbro di un ideale strumento infantile); attraverso una festosa sezione di chiassose fanfare, le idee musicali vengono quindi progressivamente elaborate. A chiusura dello Sviluppo gli squilli penetranti di una tromba preannunciano una pausa ad libitum che sospende suggestivamente la musica. Dopo un episodio di transizione, il secondo tema ritorna con ancora più slancio; infine, sullo struggente indugio dei violini, che ne ritardano l'entrata, il tema principale viene eseguito un'ultima volta prima della precipitosa chiusa finale. ♫ II Movimento. Il secondo movimento è uno scherzo in do minore, ed è una danza macabra (Mahler stesso userà quest'espressione nel programma di sala di Amsterdam, nel 1904) dal tempo di Ländler lento e con due Trii, ed è una visione della vita terrena e della sua ineluttabile fine, vista con sguardo nostalgico e ironico. Inizialmente Mahler aveva concepito in questa posizione il Lied Das irdische Leben, poi stralciato dalla Sinfonia.
[46]
Questo movimento è caratterizzato dalla presenza del suono stridulo di un violino solista, accordato un tono sopra quella che sarebbe l'accordatura canonica, a imitazione della fiedel, vecchio strumento popolare dei suonatori ambulanti. Il sinistro gracchiare del violino rinvia simbolicamente alla morte, qui rappresentata idealmente nella persona dell'amico Hein (il motto, poi espunto, del secondo tempo era in origine: Freund Hein spielt auf [«sta suonando l'amico Hein»]), un menestrello dal volto familiare, che, al suono del suo violino, conduce i bambini all'aldilà. ♫ III Movimento. E’ un Adagio ed è la sezione più lunga della partitura. Secondo la testimonianza di Natalie Bauer-Lechner, Mahler considerava il terzo movimento della Quarta Sinfonia «la sua cosa in assoluto migliore, la più grande mescolanza di colori mai apparsa»; il brano è suddiviso in cinque sezioni ed è percorso, come dichiarava il compositore «da una melodia divinamente serena e profondamente triste, che vi farà piangere e ridere». La struttura ricorda quella del tema con variazioni, che coinvolge due motivi principali: il primo, estatico e appena sussurrato, è esposto nelle prime battute dagli archi, il secondo, delicato e nostalgico, viene intonato poche battute dopo dall'oboe. Entrambe le idee principali sono di carattere lirico ed estatico, e connotano l'intero tempo, nel senso di una purificazione espressiva, continuamente rinnovata per l'avvicendarsi delle situazioni. L'Adagio, il cui carattere intensamente lirico presenta chiare affinità col Finale della Terza sinfonia, si articola in una successione di cinque sezioni e può essere considerato come un seguito di variazioni su due temi diversi che, contenendo, sia nella melodia che nell'accompagnamento, elementi fra loro comuni, consentono un più articolato procedimento di variazioni interne. La prima sezione, in sol maggiore, è pervasa da un diffuso sentimento di quiete, mentre l'ostinato del basso, fatto anch'esso oggetto di variazioni, fa pensare a una passacaglia. Nella seconda, in mi minore, l'oboe, dolente e molto espressivo, apre spazi di infinita mestizia, in cui si trova pure una prefigurazione di un motivo del secondo dei Kindertotenlieder, coi quali questo movimento ha molti elementi in comune sia nell'espressione che nella concezione timbrica. La terza si presenta come una variazione in un tempo più rapido della prima. Con la quarta sezione la musica torna a ripiegarsi nell'elegiaco modo minore, producendo contrasti più desolanti. La quinta e ultima sezione alterna tempi diversi nella successione: Andante - Allegretto - Allegro Allegro molto - Poco adagio. Ai primi tre tempi corrispondono altrettante variazioni del primo tema; la quarta sezione, corrispondente all'Allegro molto, viene interrotta bruscamente da un breve interludio dei corni apparso nella prima sezione. L'Adagio si conclude con una coda di rarefatta leggerezza strumentale, come una sorta di transizione verso la vita celestiale; un drammatico gesto [47]
espressivo in fff al termine, quando il brano sembra concluso, anticipa ai corni e alle trombe il tema della “musica celeste” dell'ultimo movimento. ♫ IV Movimento. Nel tempo conclusivo troviamo il Lied popolare, affidato alla voce candida del soprano (l'autore avrebbe preferito una voce bianca); e vi troviamo anche quel suono di campanelli e alcuni tratti strumentali e tematici uditi in precedenza e che ora chiariscono la loro funzione di "presagi" rispetto a questa conclusione. A dir la verità, nel leggere il testo poetico queste gioie celestiali sembrano alquanto modeste: danze di angeli e piaceri di un banchetto campagnolo. E anche la musica, con gli intrecci dei fiati, i campanelli, l'armonia, sembra contraddire a tratti l'andamento contemplativo ed estatico dell'inizio, che si impone anche nelle ultime sussurrate battute. La vita celestiale viene descritta con occhi infantili come una sorta di luogo paradisiaco, nel quale si beve vino a volontà, si mangiano asparagi e fagioli, i santi sono intenti a macellare gli animali e a cucinare, e persino la seria Sant'Orsola ride osservando le ragazze ballare al suono della musica eseguita da Santa Cecilia in persona [nel dipinto di Michael van Coxcie – Museo del Prado. Madrid] e dai suoi musicisti di corte.
È una visione ironica e grottesca, nella quale si mescola una smaliziata interpretazione dei dogmi del cattolicesimo (San Giovanni che macella l'agnello, simbolo di Cristo) e la tragedia della morte per fame dei bambini, che abbandonano senza rimpianti la vita terrena per essere felici in quella celeste. Le quattro strofe del Lied si concludono con un verso finale, intonato a modo di Corale e in funzione di ritornello, che chiude ogni volta una sezione musicale. In ciascuna di esse viene illustrato un aspetto della vita celeste: nelle prime due strofe il piacere delle gioie paradisiache, nella terza la lode della musica celeste, infine nella quarta la presentazione di Santa Cecilia e dei suoi musicisti. La parte del soprano ha un carattere popolaresco e vagamente infantile, nella partitura si legge la seguente indicazione: "La voce con espressione allegramente infantile; assolutamente senza parodia!". La conclusione riserva un'ultima sorpresa, con gli strumenti che progressivamente tacciono e l'arpa che intona in pianissimo un intervallo di quarta. "Se l'uomo meravigliato chiede che cosa significa tutto ciò – scriveva Bruno Walter - gli risponde un bambino: questa è la vita celeste". DAS HIMMLISCHE LEBEN [LA VITA CELESTIALE] Wir geniessen die himmlischen Freuden, Drum tun wir das Irdische meiden, Kein weltlich Getümmel [48]
Hört man nicht im Himmel, Lebt alles in sanftester Ruh; Wir führen ein englisches Leben, Sind dennoch ganz lustig daneben, Wir tanzen und springen, Wir hüpfen und singen; [Noi godiamo le gioie celesti, quel che giù in terra è gioia, ci è molesto; di nessun mondano frastuono s'ode qui in cielo il suono. Tutto vive in pace dolcissima. La nostra è una vita d'angeli, e siamo in tutto felici, danziamo e saltiamo, balziamo e cantiamo;] Sankt Peter im Immel sieht zu Johannes das Lämmlein auslasset, Der Metzger Herodes drauf passet, Wir führen ein geduldigs, Unschuldigs, geduldigs, Ein liebliches Lämmlein zum Tod. Sankt Lukas den Ochsen tut schlachten Ohn einigs Bedenken und Achten, Der Wein kost kein Heller Im himmlischen Keller, Die Engel, die backen das Brot. [San Pietro nel cielo ci guarda fìsso. Giovanni lascia l'agnello in libertà, Erode il beccaio sta all'erta: noi portiamo un paziente, un innocente, un paziente, un caro agnellino alla morte. San Luca manda al mattatoio il bue, senza pensarci troppo, senza scrupoli. Il vino non costa un quattrino nella celeste cantina; gli angeli hanno messo il pane in forno.] Gut Kräuter von allerhand Arten, Die wachsen im himmlischen Garten, Gut Spargel, Fisolen, Und was wir nur wollen, Ganze Schüssel voll sind uns bereit. Gut Äpfel, gut Birn und gut Trauben, Die Gärtner, die alles erlauben. Willst Rehbock, willst Hasen? [Erbe buone e verdure d'ogni genere crescono qui nel celeste giardino, buoni asparagi, buoni fagiolini, e tutto quello che più ci va a genio. Pieni e pronti, ecco, son tutti i vassoi. Ottime mele e pere, uve rare, e gli ortolani, qui, lasciano fare. E caprioli, e lepri, chi li vuole?] Auf offener Strassen Zur Küche sie laufen herbei. Sollt ein Fasttag etwa kommen, Alle Fische glech mit Freuden angesckwommen! Dort läuft schon Sankt Peter Mit Netz und mit Köder Zum himmlischen Weiher hinein; Sankt Martha die Köchin muss sein.
[49]
[Dal mezzo della strada, le bestiole corron dentro in cucina qui da noi. E se un giorno di magro poi verrà, tutti i pesci, con gioia, a galla nuoteranno! Già là San Pietro pesca con la rete e con l'esca nel vivaio celeste: e Santa Marta sia la cuoca, presto!] Kein Musik ist ja nicht auf Erden, Die unsrer verglichen kann werden, Elftausend Jungfrauen Zu tanzen sich trauen, Sankt Ursula selbst dazu lacht, Cäcilia mit ihren Verwandten, Sind treffliche Hofmusikanten, Die englischen Stimmen Ermuntern die Sinnen, Dass alles für Freuden erwacht! [Nessuna musica giù in terra suona, che stia qui con la nostra a paragone. Undicimila vergini preclare si fan coraggio ed osano danzare. Anche Sant'Orsola ride, a quei gesti. Cecilia con i parenti sono musici di corte eccellenti. Le voci angeliche scuotono i sensi dal gelo, perché tutto alla gioia si desti!]
DISCOGRAFIA Gustav Mahler: Symphonie n° 4 Irmgard Seefried (soprano). Wiener Philharmoniker, dir. Bruno Walter. Diapason L'occasione di ascoltare Bruno Walter nelle sinfonie mahleriane si presenta subito interessante anche perché il grande direttore fu per diversi anni assistente ed amico personale di Mahler ,del quale diresse in prima esecuzione il Lied von der Erde e la Nona sinfonia). Era anche accanto al compositore boemo quando questi morì. Walter ha trascorso il resto della sua vita a promuovere Mahler e a contribuire alla scoperta del suo lavoro da parte del pubblico di tutto il mondo: fu in effetti l'unico degli interpreti di massimo livello a dirigere costantemente l'opera del compositore austriaco nella prima parte nel secolo scorso, in quanto Mahler era stato di fatto ostracizzato sia dai direttori tedeschi per motivi razziali (essendo egli di origine ebraica) sia da Arturo Toscanini per i forti dissapori risalenti alla scomoda convivenza comune negli Stati Uniti agli inizi del '900. Non si trova un interprete migliore dei capolavori di Mahler! L'ascolto non delude certo le aspettative, anche se l'interpretazione data da Walter alle composizioni di Mahler diverge sensibilmente dalle esecuzioni che da ultimo vanno per la maggiore. In effetti le integrali dirette da Bernstein si presentano più esuberanti ed espansive, quelle di Abbado più intime [50]
e sofferte, le esecuzioni di Boulez più complesse e cerebrali, ma tutte difettano di un elemento fondamentale: la naturalezza, la facilità di esecuzione, in altri termini l'essenzialità che rende le composizioni di Mahler più fluide e scorrevoli. Irmgard Seefried è una splendida soprano, grande interprete di Lieder, oltre che di opera e musica sacra. La performance dei Wiener Philharmoniker è come sempre di altissimo livello, con gli archi che offrono una prova eccezionale per naturalezza e splendore timbrico. La registrazione, mono, è del 1950. Presenta un enorme valore storico oltre che artistico. Gustav Mahler: Symphony n° 4 Elisabeth Schwrzkopf (soprano). Philharmonia Orchestra, dir. Otto Klemperer. Warner Classics Fra le registrazioni "storiche" delle sinfonia di Mahler, sono imperdibili quelle di Otto Klemperer negli anni '60 con la Philharmonia Orchestra di Londra. Esse rappresentano l'omaggio di un grande allievo verso un grandissimo maestro: come Bruno Walter, anche Klemperer fu amico e allievo del grande boemo, e aveva assistito alle esecuzioni delle opere di Mahler dirette dallo stesso compositore. Ma tutto questo non basterebbe a rendere irrinunciabile l'ascolto di queste registrazioni, se non fosse per il fatto che Klemperer (e lo stesso vale per Walter) è stato un musicista sublime e un direttore d'orchestra straordinario! Klemperer ha avuto la fortuna rispetto a Walter di avere a sua disposizione un'orchestra formidabile, la Philharmonia di Londra (orchestra diretta in quegli stessi anni da direttori come von Karajan e Giulini!), che insieme a soliste d'eccezione (la Schwarzkopf, la Ludwig e la Wunderlich) fanno sì che ancora oggi le sue direzioni della seconda sinfonia, della quarta e dei Das Lied von der Erde siano di riferimento assoluto e ancora fra le tre più belle versioni mai realizzate. Incisioni storiche con il vantaggio di un bel suono in stereofonia. Gustav Mahler: Symphonie n° 4 Elsie Morison (soprano). Bavarian Radio Symphony Orchestra, dir. Rafael Kubelik. Deutsche Grammophon
[51]
C'è una rinfrescante schiettezza nell'approccio di Kubelik, il quale ci dona un Mahler minimale e senza fronzoli. Questa performance arriva direttamente a chi ascolta, ha calore e allegria, e Kubelik cattura il vero spirito di questa sinfonia. L'orchestra suona meravigliosamente. Disco imperdibile, di assoluto riferimento.
Gustav Mahler: Symphonie n° 4 Judit Raskin (soprano). Cleveland Orchestra, dir. George Szell. Sony - Essential Classics. La quarta è la sinfonia meno nevrotica di Mahler e l'approccio preciso, caloroso e generoso di Szell la esalta. Questa versione con la Cleveland è impeccabile, non riesco a trovare difetti, è di una bellezza mozzafiato dall'inizio alla fine. Si apre in modo delizioso, con il luccichio della Cleveland Orchestra che splende in modo sereno. L'adagio è puro e bello, lento, cattura l'immaginazione, anche se Szell è per sua natura l’antiromantico per eccellenza. Il quarto movimento con il suo splendido assolo di soprano, cantato magnificamente qui da Judith Raskin, ci trascina nel mondo puramente mahleriano! "Songs of a Wayfarer" è un perfetto bonus per questo disco, ed è un piacevole compagno dell'assolo di soprano nel movimento finale del 4 ° (con la meravigliosa voce di Frederica von Stade). Disco altamente raccomandato. Mahler: Symphony n°4 Sylvia Stahlman (soprano). Concertgebouw Orchestra, dir. Sir Georg Solti. Decca London Jubilee Un disco bello e raro. Un disco bello per il fascino suscitato dalla musica mahleriana e per la passione degli interpreti (un grande disco non si fa solo con un grande direttore, ma con grandi musicisti, con un ambiente di registrazione adeguato alla massa orchestrale e con un ingegnere del suono che conosca quello che si sta incidendo). Per inciso, Kenneth Wilkinson è stato il più grande o almeno tra i più grandi ingegneri del suono di casa Decca e non solo). [52]
E' un disco raro perché fa parte di una particolare selezione in casa Decca, la Jubilee, caratterizzata da esecuzioni ed incisioni storiche. Qui sembra essere tutto esemplare, ed il disco può essere definito audiofilo: il suono è chiaro, godibile, non vi è sovrapposizione degli strumenti ed anche nei pieni orchestrali questa registrazione - di oltre 50 anni fa - regge il confronto con le registrazioni più recenti. Ma la bellezza audiofila di questo disco sta nel movimento finale, e qui nessuna descrizione può rendere l'idea della bellezza dell'ascolto quando la voce della soprano Silvia Stahlman (a mio parere la voce giusta per questo lied, coerente nel tono con l'impianto dell'intera sinfonia) lascia spazio ai violini ed all'arpa che piano piano si spengono fino ad un silenzio totale di indescrivibile bellezza. Mahler: Symphony No. 4 Magdaléna Hajóssyová (soprano). Czech Philharmonic Orchestra, dir. Václav Neumann. Supraphon Dopo la partenza di Ancerl nel 1968, Neumann assunse il ruolo di direttore principale della Czech Philharmonic Orchestra. Neumann è stato un bravissimo direttore, meno conosciuto di altri per il suo gravitare quasi esclusivamente nell'allora est europeo. Ha fatto cose egregie su Dvoràk e Mahler. La sua cifra interpretativa si pone lungo la linearità della tradizione ceca, lontana da ridondanze di qualche interprete più "occidentale". In questo disco, tra le migliori incisioni della 4a, risalta il calore dell'orchestra, che produce un suono davvero stupendo, e soprattutto i tempi sono perfettamente mantenuti. Eccellente la voce del soprano slovacco Magdaléna Hajòssyovà. Mahler: Symphony No. 4 Helmut Wittek (voce bianca). Concertgebouworkest Amsterdam, dir. Leonard Bernstein. Deutsche Grammophon Dopo l’integrale che pubblicò tra il 1960 e il 1967 per l’etichetta CBS (alla guida della Filarmonica di New York, la stessa orchestra che Mahler guidò durante un breve mandato tra il 1909 e la sua morte nel 1911) , negli anni ‘80 Leonard Bernstein registrò per la Deutsche Grammophon un secondo ciclo completo delle sinfonie di Mahler con la New York Philharmonic (2a, 3a e 7a), con la Wiener [53]
Philharmonic Orchestra (5a, 6a e 8a) e con la Concertgebouworkest Amsterdam (1a, 4a e 9a). Quest'ultima orchestra ha su quella newyorkese il vantaggio della bellezza del suono e sulla Wiener Philharmoniker il vantaggio di una tradizione mahleriana ininterrotta. Sebbene ci siano molte somiglianze tra i due cicli, il successivo stile di direzione di Bernstein è spesso più lento e fortemente espressivo del suo approccio più giovanile negli anni '60. Nella piena maturità musicale dei suoi ultimi anni. Bernstein non esita ad espandere il tempo per espandere meglio lo spazio, in modo che il mistero dell'universo possa arrivare integralmente all’ascoltatore. Questa caratteristica avrebbe potuto essere fatale per la quarta sinfonia di Mahler, la sinfonia più leggera, ma le dà una bellezza tutta sua. Una singolarità nell'ultimo movimento è la scelta di un ragazzo e non di una donna per cantare la parte del soprano. La scelta di Lenny è molto più vicina all'ingenua innocenza del testo di quanto una cantante adulta possa ottenere, e dà all'ultimo movimento il carattere e la leggerezza dell'essere che manca in altre versioni. Mentre la tecnica del giovane Wittek non è sempre perfetta (è vero che ci sono note deboli qua e là) c'è un'innocenza essenziale per lui, probabilmente perché è un bambino, dopo tutto, e questi versi sono stati fatti per essere cantati da qualcuno della sua età. Mahler: Symphonie No. 4 Frederika von Stade (soprano). Wiener Philharmoniker, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon Abbado con i Wiener Philharmoniker produce una performance eccezionale. Nessuna delle altre sinfonie di Mahler è nello spirito più viennese di questa, e l'Orchestra Filarmonica di Vienna è del tutto a suo agio nell’esprimere questa radiosa atmosfera. Suggestiva ed ingenua la voce di Frederica von Stade. Il suono è ben superiore alle precedenti edizioni di riferimento ed è una delle migliori registrazioni in assoluto: indispensabile per gli amanti di Mahler e del bel suono. Mahler: Symphonie No. 4 Kiri Te Kanawa (soprano). Boston Symphony Orchestra, dir. Seiji Ozawa. Philips [54]
Seiji Ozawa ha lasciato un apprezzabile ciclo Mahler con la Boston Symphony Orchestra tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90. Un’eccellente 4a sinfonia che ben si adatta al temperamento mite di Ozawa che ha la tendenza a chiarire i dettagli a scapito di far emergere potere e impatto. Quindi, eccola, una Quarta di Mahler che procede piena di grazia, soavità e tocchi poetici che sostituiscono la nevrosi e l'angoscia mahleriane. Il che è positivo considerando che l'intera sinfonia è adattata al Finale in cui il compositore cerca di trasmettere la vita in Paradiso. Il suono orchestrale non potrebbe essere più soddisfacente: ogni sezione dell'orchestra è stellare, gli archi risplendono di fascino bucolico e serenità nel grande Adagio, il suono degli fiati meraviglioso e gli ottoni semplicemente superbi. Questa lettura diventa completa e fascinosa quando Kiri Te Kanawa entra per il suo assolo nel finale: la voce e il tono infantile sono ipnotizzanti. Mahler: Symphony No. 4 Kathleen Battle (soprano). Vienna Philharmonic, dir. Lorin Maazel. CBS Records Masterworks Questa è sempre stata una favolosa registrazione della Quarta sinfonia della Filarmonica di Vienna durante il mandato di Maazel. La migliore del suo ciclo e una delle migliori Quarte mai registrate, sia tecnicamente in termini di suono sia artisticamente in termini di forma delle emozioni in tutti i movimenti. Il ciclo Mahler di Maazel pubblicato con la CBS è stato meno che stellare e l'ingegneria del suono della CBS era una meraviglia di chiarezza e bellezza in quei primi mesi in cui esordiva il digitale. Adesso è un po’ dimenticato, anche se tra quelle registrazioni cadute nell’oblio spicca questa 4a assolutamente incredibile e stupefacente per la sua bellezza e grazia. L'interpretazione di Maazel qui è davvero notevole. Evoca efficacemente una vivacità e un delizioso senso di nostalgia dalla Filarmonica di Vienna quando la musica lo richiede. L'orchestra suona in un modo fresco e perfetto: il terzo movimento lascia stupiti nella sua passione ardente e amorevole; e verso la fine, una fanfara fff e un ruggito dagli ottoni manderanno i brividi lungo la schiena.
[55]
Il punto di forza della performance di Maazel è Kathleen Battle. È assolutamente perfetta per il finale: si immedesima totalmente, ha la voce angelica di una bambina fantasiosa e giocosa. Non è mai sembrata così convincente come qui.
VIDEO Mahler: Symphony No. 4 Maria Ewing (soprano). Royal Concertgebouw Orchestra, dir. Bernard Haitink. Art House Music (DVD) Questo concerto dal vivo della Quarta Sinfonia di Gustav Mahlers trova il grande direttore Bernard Haitink sul podio alla guida della Royal Concertgebouw Orchestra, un'orchestra con quasi un secolo di illustri esecuzioni e dedizione a Mahler, a cominciare da Willem Mengelberg, Haitink diresse per la prima volta il Concertgebouw nel 1956 e ne fu il direttore principale per 25 anni, durante i quali le sue interpretazioni di Mahler e Bruckner produssero una notevole impressione a livello mondiale. In questa registrazione la Concertgebouw Orchestra è, come sempre, magnifica, capace di trasmettere con grande abilità e destrezza gli inquietanti momenti grotteschi e sublimi della musica di Mahler. Haitink ha Mahler nel suo sangue, e trasmette egregiamente l'ironia, la dualità dell'esistenza e l'effimero presenti nell’anima di questa sinfonia. Eccellente la prestazione di Maria Ewing. Questa registrazione è di quasi 40 anni fa (1982), ma presenta un’acustica incredibile e ben bilanciata.
[56]
La musica organistica francese di Paolo Duprè Vorrei aprire anche questo argomento con Bach, stavolta non immaginandolo giovane musicista, nascosto dietro i pilastri della Marienkirche di Lubecca, ammirato dal modo di suonare del maestro Buxtehude, bensì ormai famoso organista e Kappelmeister. Siamo a Dresda nella prima metà del settecento e questo è l’episodio: sempre senza farsi riconoscere Bach ascoltò Louis Marchand, organista e cembalista parigino giunto qui per un concerto. Dopo gli applausi per la sua esecuzione Jean Baptiste Volumier, Konzertmeister di Dresda, invitò Bach ad esibirsi al cembalo. Bach riprese a memoria l’aria e tutte le variazioni che Marchand aveva eseguito, e ne aggiunse altre dodici più brillanti e complesse di quelle del collega; quando poi propose a Marchand una “disputa” all’organo pare che questi abbia fatto i bagagli, preso una carrozza e si sia diretto veloce alla sua Parigi. Un episodio che riassume bene come la scuola organistica tedesca dell’epoca superasse incontrastata quella francese. Anche il famosissimo Louis Marchand, che in patria era un idolo, doveva nascondersi di fronte a Bach. A conferma di questo, sappiamo che la scuola organistica francese che si sviluppò da fine ‘500 a tutto il ‘700, come sempre parallelamente all’arte di grandi organari (Cliquot, Dom Bedos, Lefebre), ebbe cembalisti ed organisti che non lasciarono opere scritte paragonabili a quelle di un Buxtehude o di un Bach. In pratica quasi tutti i musicisti usavano improvvisare su temi gregoriani e l’organo aveva un uso quasi esclusivamente liturgico di accompagnamento e dialogo coi cantori. Il Re stesso nominava per il suo servizio alla corte maestri di incontestabile valore che comunque rimanevano in servizio soli tre mesi, troppo poco tempo da dedicare alle opere scritte.
[Organo della Cappella reale di Versailles]
[57]
[Organo Dom Bedos della Cattedrale di Aire]
Se però la relativamente poca letteratura organistica di questi due secoli è sia qualitativamente che quantitativamente povera rispetto a quella tedesca, vedremo come i transalpini si prenderanno col tempo una rivincita giungendo nell’ottocento e nel novecento a superare i musicisti germanici. Una “rinascita” ed un “rinnovamento” che procedono di pari passo con la costruzione di nuovi strumenti dalle sonorità orchestrali, primi fra tutti quelli di Aristide Cavaillé-Coll.
Generi nella musica organistica francese del 600 e 700 Le principali forme coltivate dai compositori francesi furono le Messe, gli Inni, i Nöel varié e le Suite per organo. I Nöel sono variazioni su canti natalizi (si ascolti la raccolta dei 12 Nöel di Louis Claude Daquin [ ell i
agi e a d ]). Nelle altre
composizioni citate si alternano brani in cui emerge una voce solista (récit) che può esser al soprano (dessus), tenore, (taille) basso (basse), con registri ad ancia quali il cromorno, la tromba o di mutazione (cornet, tierce), con brani in cui si alternano due o più piani sonori (dialogue) o con altri polifonici a due o tre voci (duo, trio). Poi ancora fughe, di stile mai complesso ed elaborato quali quelle di Bach, preludi, solitamente con ricchezza timbrica del ripieno italiano (plein jeu) o registri di fondo più mutazioni ed ance senza il ripieno (grand jeu).
[Messa di François Couperin - Suite dell ottavo to o di Nicolas Antoine Lebègue]
[58]
La semplicitĂ della struttura delle composizioni citate viene ampiamente compensata dalla ricchezza timbrica degli strumenti presenti in Francia: imponenti, con famiglie di registri suddivisi in nutriti corpi sonori, raccolti in buffets sempre ornati da torrette (tourrelles).
[Il grandioso uffet dell o ga o della Cattedrale di Albi, con 9 tourrelles sul corpo principale e 5 al corpo tergale, 63 file di canne per un totale di 3213 canne]
Le famiglie di registri si compongono nel seguente modo: - registri ad anima (principali, flauti, bordoni, dulciane, viole): danno spirito grave e severo ai brani, vengono chiamati registri di fondo (fonds) e possono esser usati da soli o nell’accompagnamento di registri solistici; - registri ad ancia (trompette, clarinet, cromorne, ranquette, regal, hautbois) hanno sia funzione solistica che di arricchimento sonoro nel tutti o nel grand jeu (senza i ripieni); - registri di mutazione (cornet, tierce, nazard, larigot, septiÊme..) sempre con funzione solistica però accoppiati ad un registro ad anima (fond).
[Esempio di canne ad anima]
[Esempio di ance]
[59]
L’evoluzione della musica organistica classica francese distingue tre periodi: - il primo in cui si sviluppa la polifonia che vede fra i principali rappresentanti: Jean Titelouze (considerato il padre della musica organistica francese) a Rouen, Louis Couperin a Parigi (ritrovati almeno 70 manoscritti) e Nicolas Gigault (autore di Nöel varié). - il secondo, dello stile classico, nel secondo seicento, con Nicolas Lebegue, Giullaume Nivers, André Raison, François Roberday, Jacques Boyvin, Nicolas de Grigny, François Couperin e Louis Marchand (protagonista sconfitto della famosa disputa con Bach).
[ L ope a o ga isti a di A d é ‘aiso ]
[Louis Marchand]
- il terzo periodo, della maturità in pieno 700, ci fa incontrare autori quali Jean-François Dandrieu, Louis-Nicolas Clerambault, Michel Corrette, Louis Archimbaud, Jean-Jacques BeauvarletCarpentier, Claude Balbastre. Gli ultimi organisti del 18° secolo si divertono ad imitare la tempesta, il tuono, riprendono arie militari e rivoluzionarie di moda, forse per provare la loro adesione al nuovo potere e salvare gli strumenti dalla depredazione. In questo periodo, del virtuosismo barocco con la rivoluzione scompare il clavicembalo e si accantona l’organo, poco adatto alla nuova estetica romantica.
[Jean Francois Dandrieu, autore di 12 Noel varié]
[60]
[Claude Balbastre]
La rinascita di fine ‘800 Per un lungo periodo, nel primo ottocento, la scuola organistica francese non ebbe alcun apprezzamento anche se non mancarono teorizzatori e musicologi di valore. Fra questi ricordiamo AlexandreEtienne Choron che ne fu una sorta di iniziatore; Pierre-François Boely, Charles Simon e François Benoist, che furono organisti di rilievo. In seguito verrà una nuova generazione che saprà trarre profitto dalle innovazioni dell’organo romantico. Sarà il periodo del rinnovamento, nella costruzione con Aristide Cavaillé-Coll [nella foto] e nella letteratura musicale, con César Franck. A quest’ultimo farà seguito una nuova generazione di organisti e compositori che daranno nuovo prestigio facendo entrare l’organo in una splendida fase, che definiremo romantica e sinfonica.
[Il Cavaillé-Coll della Cattedrale di Rouen. A dx, la leva Barker]
Aristide Cavaillé-Coll (1811 –1899), il più grande esponente dell'organaria romantica francese, può esser considerato uno dei più importanti organari di tutti i tempi. Grazie alle sue conoscenze scientifiche, presto assunse un ruolo di costruttore di strumenti guidato da solidi principi di matematica e fisica, raggiunti anche con la sperimentazione, nei suoi atelier di Parigi. La sua prima grande opera è stato l'organo della Basilica di Saint-Denis, costruito tra il 1837 e il 1841, dove fece uso per la prima volta della leva Barker, una leva pneumatica per alleggerire la trasmissione meccanica. Grazie alla fama raggiunta con la costruzione di tale strumento, gliene furono commissionati molti altri, oltre 600, alcuni dei quali per interessamento di Napoleone III. Le sue più celebri realizzazioni sono gli organi maggiori della Chiesa di Saint-Sulpice (1862) e della Cattedrale di Notre-Dame (1867) a Parigi e della Chiesa abbaziale di Saint-Ouen a Rouen, quest'ultimo considerato la sua migliore opera. [61]
Cavaillé-Coll si è distinto per le sue alte capacità tecniche, per le innovazioni da lui introdotte e l'utilizzo sistematico della cassa espressiva anche su piccoli organi. È inoltre rimasto celebre per la sua intonazione puramente romantica, specialmente del flauto armonico e dei registri ad ancia, che ha ispirato grandi compositori come César Franck, organista titolare della Basilica di SainteClotilde-et-Sainte-Valère a Parigi, Charles-Marie Widor, organista titolare di Saint-Sulpice, e Louis Vierne, organista titolare di Notre-Dame.
[Co solle ad a fiteat o dell o ga o più g a de ost uito da Cavaillé-Coll a Saint-Sulpice, Parigi]
Dei musicisti e della rinascita e del rinnovamento della musica organistica francese del XIX e XX secolo ci occuperemo nel prossimo numero della Rivista.
[62]
Antichi strumenti musicali a fiato Flauto di Divje Babe Il flauto di Divje Babe è un frammento di diafisi femorale di un orso delle caverne piuttosto giovane (2 anni d'età al massimo), rinvenuto nel parco archeologico di Divje Babe presso Circhina, nella Slovenia occidentale. L'osso, spezzato a entrambe le estremità, presenta sul lato posteriore due fori completi e quelli che potrebbero essere altri due fori incompleti, uno per ogni estremità spezzata; stando così le cose, l'osso dovrebbe aver avuto almeno 4 fori, se non di più, prima della sua rottura. Il reperto è lungo 11,36 cm (in origine, l'intera diafisi doveva misurare sui 21 cm) e i diametri dei due fori completi variano da 9 a 9,7 mm. La distanza fra i centri dei due fori è di 3,5 cm. Potrebbe essere un flauto paleolitico (55.000 anni fa circa, epoca dell’uomo di Neanderthal) e, di conseguenza, sarebbe lo strumento musicale più antico che si conosca, ma l'interpretazione è ancora controversa. Il Museo nazionale di Lubiana lo espone comunque al pubblico come “flauto neandertaliano”. Flauto di Pan (o Syrinx) Il Flauto di Pan è uno strumento musicale aerofono a fiato, costituito da più canne il cui numero può variare, di lunghezza diversa e legate o unite tra loro. Nella forma più utilizzata, le canne vengono disposte a zattera, e le canne più corte devono essere alla sinistra del suonatore; per ottenere il suono si soffia trasversalmente sulle aperture superiori delle canne. Il suo uso era diffuso tra i pastori dell’Antica Grecia. La sua origine è fra le più antiche. Secondo la mitologia greca il creatore del "flauto di Pan" è appunto Pan, un dio silvestre, figlio di Zeus o di Ermes e della ninfa Driope, che subito dopo averlo messo al mondo, lo abbandonò inorridita dalla sua bruttezza. Pan era un satiro, metà capra e metà umanoide, il corpo coperto da un ispido pelo, dalla bocca spuntavano delle zanne ingiallite, Il mento era ricoperto da un folta barba, in fronte aveva due corna e al posto dei piedi aveva due zoccoli caprini.
[63]
[Gilles-Lambert Godecharle: Pan insegue Syrinx Musées royaux des beaux-Arts de Belgique, Bruxelles]
Un giorno Pan si innamorò perdutamente di Syrinx (Siringa), una Ninfa naiade, figlia della divinità fluviale Ladone. La fanciulla però non solo non condivideva questo amore ma quando vide Pan fuggì inorridita, terrorizzata dal suo aspetto caprino. Resasi conto che non poteva sfuggirgli, Syrinx iniziò a pregare il proprio padre perché le mutasse l’aspetto in modo che Pan non potesse riconoscerla. Ladone, sconvolto dalle preghiere della figlia, la trasformò in una canna nei pressi di una grande palude. Pan invano cercò di afferrarla ma la trasformazione avvenne sotto i suoi occhi. Afflitto, tagliò la canna in tanti pezzetti di lunghezza diversa e li legò assieme e ci soffiò dentro, consolandosi con la musica che da esso fuoriusciva. Da allora Pan tornò a vagare nei boschi correndo e danzando con le ninfe e a spaventare i viandanti che attraversavano le selve (donde l’etimologia del termine “panico”) [Pan che suona il flauto. Reggia di Caserta]
Presso l’Università di Padova, custodito nella raccolta del Dipartimento dei Beni culturali, si trova un rarissimo reperto egizio di flauto di Pan, del VI-VIII sec. d.C., fragilissimo, composto da 14 canne palustri legate con corda e rivestite di materiale composito. Accanto alla teca che lo conserva è stata realizzata una postazione interattiva che permette di poter suonare virtualmente lo strumento, restituendo voce e melodia alle antiche canne, rimaste mute per migliaia di anni.
[64]
Bùccina Il suo principale utilizzo è stato per scopi militari. Egiziani e romani, infatti, la usavano per far partire le cariche delle proprie truppe di fanteria da lunga distanza e udibile in modo distinto a tutti. Era originariamente un cilindro stretto, lungo circa 3 metri e mezzo in bronzo, ripiegato a forma di un'ampia "C" ed era rinforzato con una barra che collegava le curve e che serviva per l'impugnatura del suonatore stabilizzandone l'uso e il movimento. Veniva messa a tracolla del suonatore e si appoggiava alla spalla. Era senza pistoni, così da avere un suono monofonico. Veniva suonato soffiando in una imboccatura.
[A sin. Pa ti ola e del sa ofago del G a de Ludovisi - Palazzo Atemps, Roma. A dx, particolare della Colonna Traiana]
Chiarina La Chiarina (chiamata anche clarina, clarino, chiarino) è una tromba di concezione molto semplice in uso sin dall’epoca romana, dove veniva impiegata per comunicare segnali di guerra o festività. Era diffusa anche nel Medioevo, come dimostrano le molte miniature tramandateci.
Lo strumento ha un corpo piuttosto lungo, può essere con o senza pistoni, e presenta un tipico suono acuto, limpido e chiaro che gli è valso il nome.
[65]
La chiarina ad un pistone è stata ideata appositamente per l'esecuzione della Marcia trionfale dell'Aida di Giuseppe Verdi ed ha, anche dal punto di vista scenografico, il vantaggio di contenere l'unico pistone all'interno della mano. Ai nostri attuali tempi la chiarina è utilizzata nelle rievocazioni di epoca medievale, suonata dagli araldi che precedono il corteo.
Flauto medievale Nel Medio Evo venivano chiamati flauti i Flauti diritti, in legno di vario tipo, capostipiti della famiglia dei moderni flauti dolci. Qui a sinistra la Tavola IX della Sciagraphia di Praetorius (che è in realtà un'appendice al Theatrum Instrumentorum - che a sua volta è il secondo volume del Syntagma Musicum - che consiste in 42 splendide tavole delle famiglie strumentali considerate nel trattato) raffigura l'intera famiglia dei flauti dolci (1 e 2), i flauti traversi (3), il fiffaro militare (4), i flauti a 3 buchi (5) e il tamburino che viene suonato insieme al flauto a 3 buchi (6).
A dx è raffigurato il cosiddetto flauto Dordrecht, l'esemplare più antico sopravvissuto della famiglia dei flauti diritti, risalente alla metà del XIII sec. I flauti medievali avevano dai tre ai sei-sette fori; la produzione del suono avveniva attraverso il labium, una specie di linguetta affilata e sagomata sul corpo dello strumento contro la quale veniva convogliato il soffio dello strumentista. L'aria insufflata si infrangeva contro il labium producendo una vibrazione che poi veniva modulata dal corpo e dai fori dello strumento diventando suono. I modelli si sono trasformati nel tempo, dal medievale, con fori e canale larghi, al barocco, con fori e canale più stretti. Il flauto era utilizzato ad esempio per accompagnare il canto, oppure risultava particolarmente utile per eseguire improvvisazioni, cui la musica medievale lasciava ampi spazi; veniva usato particolarmente nelle feste, per accompagnare le danze, spesso insieme ad altri strumenti (cornamuse o tamburi, l'iconografia dell'epoca ne dà ampia testimonianza).
[66]
Il Flauto a tre buchi (in Provenza conosciuto anche come galoubet) è un flauto diritto, a becco, dalla caratteristica
imboccatura
a
fischietto;
la
sua
caratteristica è la presenza un ridotto numero di fori posizionati presso l’estremità inferiore: 2 sul davanti, 1 dietro. La caratteristica fondamentale di questo flauto è la sua facilità nel produrre suoni armonici al variare della pressione del fiato. Il nome abor-pipe (letteralmente flauto e tamburo) evidenzia la tecnica del suono di questo flauto, che veniva suonato utilizzando una sola mano mentre l’altra contemporaneamente effettuava un accompagnamento percussivo con un tamburino a tracolla, appeso all’anca o al polso della mano che tiene il flauto. La pratica del flauto a tre buchi e tamburino ebbe ampia diffusione tra i musici girovaghi del Medioevo (i giullari), ma fu usato anche da altri musici del tempo come strumenti prettamente adatti all’esecuzione di danze durante momenti di intrattenimento conviviale ed in presenza di danzatori. [Miniatura dalle Cantigas de Santa Maria]
In qualche caso lo strumento del ritmo al quale il flauto si associa non è un “tamburo a pelle” ma un “tamburo a corde” (il Tambourin du Béarn), o Altobasso, un salterio oblungo a percussione munito di 34 corde di budello, intonate con il flauto ad intervalli armonici (ottava, quinta e quarta) che vengono percosse con una bacchetta, così da ottenere accompagnamento. [67]
armoniosi
ritmi
di
Il Doppio flauto era contraddistinto da due flauti singoli accoppiati e suonati contemporaneamente dallo stesso suonatore. I due flauti potevano essere di canna, legno, sambuco o osso, e sono sostenuti e suonati tenuti uno con la mano dx e l’altro con la sinistra. Talvolta le due canne sono incollate tra di loro a livello dell’imboccatura. Le canne melodiche possono essere di lunghezza uguale oppure la sinistra più lunga della controlaterale. Anche le intonazioni sono diverse. In alcuni casi la canna sinistra è priva di fori digitabili, in tal caso lo strumento viene detto Doppio flauto bordone.
[A sin, flauto doppio (ricostruzione). A dx, Simone Martini: Investitura di San Martino (dettaglio dei musici), Cappella di San Martino, Basilica inferiore di Sa F a es o d Assisi] Il Flauto traverso, o traversiere, era chiamato "flauto tedesco", perché la sua diffusione in Europa sembra sia iniziata proprio dalla Germania. Il flauto traverso era presente nell'area mediterranea già all'epoca dei romani. Da allora, però, per avere nuove immagini che confermino l'uso del traverso nell'Europa Occidentale, dobbiamo risalire al Basso Medioevo nel XII sec.; solo nel Rinascimento lo strumento iniziò ad essere protagonista delle scene musicali in tutta Europa e a fare il suo ingresso nei trattati strumentali. [Coppia di flautisti, miniatura delle Cantigas de Santa Maria, XIII sec., Madrid, Biblioteca dell'Escorial]
Il traversiere era un semplice cilindro di legno (o di bambù o di avorio) lungo all’incirca come lo strumento moderno, sul quale vi erano 6 fori (tre per la mano destra e tre per la sinistra) oltre al foro [68]
dell'insufflazione. Spesso alle estremità venivano inseriti degli anelli metallici di rinforzo. Purtroppo non è stato ritrovato nessun strumento di questo periodo. In molte immagini dell’epoca si vedono i flauti tenuti al contrario di come si tengono oggi (cioè da destra verso sinistra invece che da sinistra verso destra), una postura evidentemente diffusa fra i flautisti dell'epoca.
I flauti traversi, di varie grandezze e timbro, erano strumenti dalle sonorità più delicate e di migliore fattura, adatti ad una corte e ai suoi rituali nelle danze e nei convivi». Fischiotto (Flagioletto) Lo strumento del Fischiotto (o Flagioletto) non si discosta molto dal flauto dolce. Il suono è sempre prodotto da un fischietto, mentre il corpo dello strumento (costruito in legno ma anche in avorio), ha una leggera conicità inversa o essere cilindrico. Presenta quattro fori anteriori e due posteriori per modificare il suono dello stesso. Fu molto utilizzato come accompagnamento ai tamburi militari in Francia intorno al XII secolo ed era ancora prodotto in varie scale intorno al XIX secolo. Il suo utilizzo andò poi calando, fino a sparire dall’uso comune.
Bombarda La bombarda è uno strumento musicale a fiato ad ancia doppia; l'ancia non veniva stretta tra le labbra del suonatore, come ai nostri giorni, ma era innestata sulla pirouette e tenuta completamente in bocca.
Il nome le è dovuto per la sua potenza sonora (in associazione all'arma da fuoco). [69]
Originaria del Medio Oriente, ebbe notevole diffusione in Europa già a partire dal tardo Medioevo divenendo uno degli strumenti ad ancia doppia più rilevanti nella cultura dell'epoca. Fu molto utilizzata e diffusa anche durante il Rinascimento, finché cadde in disuso soppiantata gradualmente dall’oboe. Nel medioevo, le bombarde venivano utilizzate nell'ensemble detto alta cappella. Tra la fine del XIV secolo e la metà del XV secolo, l'alta cappella era composta prevalentemente da tre strumenti: ciaramella, bombarda e tromba da tirarsi. L'alta cappella, spesso accompagnata da percussioni, animava processioni e balli di corte, e sovente era impiegata nelle cerimonie religiose, prendendo posto nelle balconate più alte delle cattedrali. La bombarda medievale era generalmente intonata una quinta sotto la ciaramella e per questo era dotata di una chiave, parzialmente celata dalla presenza di una fontanella, con la quale era possibile chiudere l'ultimo foro.
Dulciana La Dulciana (detta anche dolciana o dulzaina) è uno strumento a fiato rinascimentale ad ancia doppia, uno dei più versatili, completi ed espressivi della storia della musica. [ Dul ia e , da “ tag a Musi u , Mi hael Praetorius, 1619. A dx schema della cameratura interna]
Si ha notizia dello strumento nella sua forma compiuta
solo
dagli
inizi
del
1500,
probabilmente ha origine da altri strumenti ad ancia doppia, come la bombarda. L'etimologia del nome è incerta. Veniva impiegata nell'esecuzione di musiche per la danza, assieme alla ciaramella ed al trombone, nella musica da camera e nel grande repertorio policorale. Dal punto di vista morfologico, lo strumento è ottenuto semplicemente da un unico blocco di legno forato longitudinalmente da 2 camerature coniche parallele, collegate tra loro al fondo da un raccordo a gomito. Sulla parte sommitale, nel foro di entrata, si inserisce un tubo di ottone ripiegato a S per comodità, all'imboccatura del quale viene inserita l'ancia doppia. Alla sommità del secondo foro, quello in uscita, quindi vicino all'inserto della S, è posta la campana dello strumento, che può essere anche parzialmente occlusa da un tappo forato per addolcirne il suono. E’ considerata l'antenata del moderno fagotto.
[70]
Tromba da tirarsi La Tromba da tirarsi è uno strumento musicale aerofono, usato durante il tardo medioevo e il Rinascimento (XIV-inizio XV sec.); diversamente dalla tromba naturale (di lunghezza fissa), può suonare tutte le note della scala. E’ costruttivamente del tutto diversa dalla moderna tromba a pistoni, ma è più simile al trombone. Lo strumento era costituito da un tubo diritto solidale al bocchino, su cui scorreva la tromba vera e propria: in questo modo si poteva variare la lunghezza totale dello strumento. Era suonata tenendo il bocchino premuto sulle labbra con le dita di una mano, mentre con l'altra mano veniva spostato l'intero strumento (campana compresa) a seconda delle note da suonarsi. [Gli "A geli
usi a ti di Ha s Me li g pa ti ola e ]
Veniva normalmente usata nelle feste di corte per l'accompagnamento delle danze ma anche in chiesa durante le celebrazioni solenni delle più importanti feste religiose.
Corno Il corno, più che essere uno strumento musicale vero e proprio, è da considerarsi uno strumento da segnalazione. Essendo costituito unicamente da un risonatore, la generazione della vibrazione è lasciata all’esecutore, il quale, facendo vibrare le proprie labbra, produce il suono che in seguito viene amplificato dallo strumento. La semplicità del corno riduce di molto le possibilità espressive dell’esecutore, limitando, il più delle volte, l’utilizzo ad un'unica nota o poco più. Il corno ha origini preistoriche: oltre che con le corna dei bovini, venne fabbricato con corna di capre e montoni, cortecce d’alberi, conchiglie, metallo, ossa animali e femori umani. Nell’antichità, i corni assunsero un ruolo militare: infatti con i loro potenti segnali consentivano di manovrare le truppe e impartire ordini. La Bibbia, nel Libro di Giosuè, ci narra della presa di Gerico da parte dell’esercito israelita: le mura della città assediata, crollarono al grido di battaglia del popolo ebraico e al suono di sette corni particolari, detti šofar.
[71]
Lo šofar (o Shofar) è un semplice corno di capro o di montone che viene raddrizzato a vapore e che produce due sole note. È l’unico strumento antico che si conservi ancor oggi nel culto ebraico. In epoca medievale, i corni bovini continuarono ad esser utilizzati da guerrieri, cacciatori e sentinelle, ma anche nelle corti come dimostra la miniatura qui in basso tratta dalle Cantigas di Santa Maria.
Un nuovo tipo di strumento, proveniente da Bisanzio, si aggiunse agli altri a partire dal X secolo. Era costruito in avorio ricavato dalle zanne degli elefanti e perciò gli fu attribuito il nome di Olifante. Serviva ugualmente per dare segnali nelle caccie, nelle adunanze e nelle battaglie, ed era (per il suo valore economico) di possesso esclusivo e prezioso di principi e di cavalieri in Europa. L'olifante è caratterizzato da decorazioni a rilievo, suddivise in tre fasce circolari riproducenti scene di caccia e di lotta fra animali. Ogni fascia è
separata
dall'altra
da
elementi
decorativi geometrici. Sono presenti tre supporti per appenderlo a tracolla. Si conserva tuttora nel museo del Duomo di Praga un corno che la leggenda vuole che sia quello che il paladino Rolando
[72]
suonò nella disfatta di Roncisvalle, avvenuta nel 778 d.C. Rolando, comandante della retroguardia di Carlo Magno, aveva con sé proprio un olifante e lo suonò fino a farsi esplodere le vene delle tempie e sanguinare le orecchie per avvertire il suo Re, Carlo Magno, del sacrificio compiuto dai suoi fedeli guerrieri. Esitò fino all'ultimo prima di dare l'allarme al re, e alla fine cominciò a suonare con tutte le sue forze, perdendo la vita. Il messaggio arrivò a Carlo, ma ormai era troppo tardi.
Con gran pesanza e affanno e con gran duolo soffia ne l’olifante Orlando. Il sangue spiccia da la sua bocca e pulsan forte a le tempia le vene; il suono vola lontano, acuto, altissimo. Il re Carlo l’ode a le fonde gole, e Namo e i Franchi. (La canzone d’Orlando, vv. 1753-58)
La Chanson de Roland è il testo in cui troviamo per la prima volta la parola olifante, ma non certo l’unica testimonianza sull’uso di questo strumento: ad esempio, lo ritroviamo come attributo degli angeli in alcune rappresentazioni del Giudizio Universale.
Cornetto Il Cornetto è uno strumento musicale della famiglia degli aerofoni, di forma ricurva e di sezione conica internamente, ma esternamente profilato generalmente a forma ottagonale, impiegato nel Medioevo fino al periodo tardo barocco. Il cornetto è universalmente considerato lo strumento principe del Rinascimento – ebbe la sua fortuna tra il XVI secolo e la prima metà del XVII – considerato tale per la sua versatilità e la sua incredibile capacità di imitare la voce umana, canone estetico predominante in tutto il periodo sopracitato. Il cornetto è costruito da due assi di legno scavate separatamente che vengono fatte combaciare e poi tenute insieme da una guaina di pelle o pergamena che seccando, oltre a tenerle unite, sigilla efficacemente le fessure tra le due metà. Eccezionalmente poteva essere costruito in avorio.
[73]
Il bocchino simile a quello della tromba, ma molto più piccolo, viene innestato nella sommità acuta del cono ed era generalmente tornito da un pezzo di corno di bovino. L’imboccatura
maggiormente
usata
era
laterale: il bocchino veniva poggiato "nel canto della bocca", in genere al centro del lato destro delle labbra. L'effetto di questa tecnica non è stato ancora del tutto esplorato al giorno d'oggi, perché i cornettisti attuali preferiscono per lo più suonare col bocchino al centro o vicino al centro delle labbra. Lo strumento presenta sei fori anteriori ed uno posteriore. Il timbro è molto affascinante e riesce a coniugare agilità e morbidezza di suono. La sua versatilità permetteva al cornetto di essere impiegato tanto nella musica colta (musica sacra, sonate) quanto in quella profana (danze), tanto nelle chiese e nelle corti quanto all’aperto. Possedeva sonorità vicine a quelle della tromba quanto a dolcezza ed eleganza che gli permettevano di suonare insieme alle voci, ai flauti e alle viole. Il suonatore di cornetto era straordinariamente remunerato e tenuto in altissima considerazione in ambito sociale: Benvenuto Cellini riferisce che il favore di cui godeva presso il Papa Clemente VII venne a seguito di una sua esecuzione di alcuni mottetti con questo strumento.
Serpentone Il Serpentone (o serpente) è uno strumento musicale a fiato facente parte della famiglia dei cornetti. Lo strumento era realizzato da un tubo forato dalla forma serpentina, con due valve di castagno tenute insieme da strisce di cuoio. All'estremità superiore vi era un lungo bocchino in corno o avorio. La curvatura a serpente permetteva al suonatore seduto di sostenere lo strumento tra le ginocchia e di raggiungere agevolmente i sei fori per le dita. Non vi era un foro posteriore per il pollice. Il serpentone nacque nel 1500 circa, probabilmente in Francia, con lo scopo di sostenere il suono del coro in chiesa, in particolare nel canto gregoriano: oltre all'uso in chiesa era utilizzato come basso per accompagnare i cori e nella musica da camera.
Cromorno Il Cromorno (cornamuto torto, storta) è uno strumento della seconda metà del XV secolo.
[74]
Il suo nome deriva dal tedesco Krummhorn, termine composto da "Krumm" che significa curvo e "Horn" che significa corno, perciò significa “corno ricurvo”.
Il Cromorno è costruito in legno d'acero o di bosso, la canna ha una foratura cilindrica (ripiegata a caldo a forma di "manico d'ombrello") con sei o sette fori di diteggiatura, e il suono è prodotto da un'ancia doppia incapsulata. A volte ha pure una campana. Nel Rinascimento e nella prima metà del XVII secolo il cromorno era lo strumento più diffuso fra quelli ad ancia incapsulata, e veniva utilizzato sia nella musica sacra che in quella profana.
Nota. Altri due antichi strumenti musicali a fiato sono stati già descritti in numeri precedenti delle Rivista, ai quali rimando. ♫ Aulos: Amici del Loggione n° 7, pagg. 75-80 ♫ Zampogna medievale: Amici del Loggione n° 10, pagg. 69-70
[75]
Musica classica e cinema: Il divo, di Paolo Sorrentino Il divo è un film biografico del 2008 scritto e diretto da Paolo Sorrentino, che racconta la vita di Giulio Andreotti nel periodo tra 1991 e 1993.
Trama del film A Roma, all'alba, mentre tutti dormono c'è un uomo che è sveglio: Giulio Andreotti. Non dorme perché deve lavorare, scrivere libri, fare vita mondana e, alla fine, anche pregare. Calmo, sornione, impenetrabile, in Italia, Andreotti da 40 anni è «il» potere. All'inizio degli anni '90, senza arroganza e senza umiltà, ambiguo e rassicurante, avanza inesorabilmente verso il suo settimo mandato di Presidente del Consiglio. A quasi settanta anni fa parte di quella gerontocrazia che non ha paura di nessuno. Abituato a essere ossequiato e a vedere il timore reverenziale sul volto dei suoi interlocutori, ha un compiacimento freddo. Ama il potere, con il quale vive in simbiosi. Un potere immutabile in cui tutto, battaglie elettorali, attentati terroristici, accuse infamanti, gli scivola addosso senza lasciare traccia, lasciandolo sempre uguale a se stesso.
[Toni Servillo nel ruolo di Giulio Andreotti] Accusato di collusione con la mafia, il senatore respinge categoricamente le accuse, negandole a se stesso e perfino al suo confessore, e opponendo ai pentiti di mafia la sua vita da "sorvegliato speciale" da parte della scorta, con movimenti costantemente controllati. Il film termina con l'inizio del primo processo per associazione mafiosa.
Colonna sonora Nella ricca colonna sonora del film, accanto a musiche moderne, composte per gran parte da Teho Teardo, troviamo due brani di musica classica, rispettivamente di Vivaldi e Faurè. [76]
1° Movimento Allegro dal Concerto per flauto, archi e basso continuo, in re maggiore, op. 10 No. 3, RV 428, detto «Il Cardellino», o meglio «Il Gardellino» come lo intitolò lo stesso Autore, il veneziano Antonio Vivaldi. In questo concerto il flauto ha un ruolo predominante e sembra imitare il canto degli uccelli in un gioco di invenzione melodica di straordinaria poesia della natura. Fin dalle prime battute di questo concerto, Vivaldi sottolinea le capacità virtuosistiche del flauto per imitare il cardellino, consegnandoci la spensierata canzone dell’uccellino trillante. Segue un’evocazione più formale, ma Vivaldi non abbandona mai quest’idea della natura gioiosa. Il 2° movimento, l’Adagio, trasmette una sensazione di tranquillità profonda, ma il movimento finale del brano, anch’esso un Allegro, è veloce e animato, fino alla gioiosa conclusione. Pavane, in fa diesis minore op.50 di Gabriel Faurè. Gabriel Faurè è un musicista raffinato, un poeta dal tono sommesso, che alla luminosità preferisce la penombra, alla dovizia la castigatezza e la purezza dei mezzi espressivi. Il suo linguaggio si è andato man mano raffinando per i nuovi valori di un'armonistica interessata alla modalità ed eserciterà il suo ascendente sul giovane Ravel, suo discepolo. Fra le sue composizioni, la Pavane è una pagina minore. La versione originale della Pavane venne scritta per pianoforte e coro alla fine del 1880 e conobbe da subito in Francia un pronto consenso per la suasiva cantabilità, tanto che l’Autore la trascrisse in versione per orchestra e per coro ed orchestra. Le note della Pavane accompagnano Andreotti nella consueta camminata a Via del Corso per la confessione mattutina (“i preti votano, Dio no…” dice il politico al sacerdote che gli ricorda di quando arrivava in chiesa insieme a De Gasperi). ♫♫♫ Nel film l’Allegro vivaldiano è interpretato dall’Orpheus Chamber Orchestra diretta da Patrick Gallois, mentre la Pavane di Faurè è interpretata da Choeur de l'Orchestre Symphonique de Montréal e The Montreal Symphony Orchestra, diretti da Charles Dutoit.
[77]
John Cage e la sua avventura nella televisione italiana John Cage (1912-1992) è considerato una delle personalità più rilevanti e significative del Novecento, collocabile nell'ambito dell'avanguardia americana della seconda metà del XX secolo, influente in entrambe le tendenze sperimentali dell'arte contemporanea degli Stati Uniti e dell’America Latina. Nella sua musica, Cage si pone di là di qualsiasi categoria predeterminata, compresa la dodecafonia. Dopo aver sperimentato diversi aspetti dell'ambito musicale, l'uso non ortodosso di strumenti tradizionali lo porta alla scoperta di suoni inediti. Nel 1938 ideò il "piano preparato", che consiste nella creazione di suoni inaspettati ponendo tra le corde di un pianoforte tradizionale oggetti dissacranti come dadi e bulloni, in modo da ottenere effetti timbrici mai sentiti prima. Inoltre divenne celebre per l'adozione del silenzio come parte integrante della partitura musicale, famoso in questo senso il suo 4'33’’ (1952), che lascia penetrare in 4 minuti e 33 secondi di silenzio i suoni ambientali. Anarchico convinto, il suo pensiero lo ha portato a trasformare la sua opera come un grande specchio nel quale ognuno può vedere e guardare cose diverse. Cage utilizza la musica per far comprendere che ogni individuo dovrebbe esser libero di fare quello che vuole, a patto che non interferisca nella vita altrui, e per questo egli non intese mai imporre a nessuno una rigida interpretazione delle sue composizioni. La sua sconfinata produzione, per gran parte basata sul più genuino concetto di sperimentazione, proprio perché si apre ad un numero quasi infinito di interpretazioni, è un orizzonte talmente immenso da spaventare anche i più volenterosi, i quali si ritrovano a non sapere da dove incominciare per farsi un'idea soddisfacente del compositore. Di Cage in questo numero vorrei ricordare una sua avventura italiana, la sua partecipazione nel 1959 al quiz della RAI “Lascia o raddoppia?”, condotto da Mike Bongiorno, in cui si presentò come esperto in micologia, e approfittò di questa situazione per fare conoscere la sua figura musicale. La passione di Cage per i funghi nacque negli anni della grande depressione, quando, non avendo nulla da mangiare, andava nei boschi a procurarseli. Una volta addirittura rischiò la vita avendo cucinato e mangiato dei funghi velenosi. Scrisse anche un trattato di Micologia e insegnò questa materia all’Università. John Cage si trovava a Milano, ospite di Luciano Berio che lavorava allora nello Studio di Fonologia della RAI (dove si occupava di ricerche nel campo dei suoni). Sylvano Bussotti, Umberto Eco, Bruno Maderna, Roberto Leydi, Marino Zuccheri, Peggy Guggenheim e la moglie di Berio, Cathy Berberian, affiancavano Cage in quei giorni (tra la fine del 1958 e l'inizio del 1959) e, secondo alcune voci non confermate, grazie a dei legami con la RAI di [78]
qualcuno tra questi personaggi, si dice che si riuscì a far sì che Cage fosse selezionato per il quiz. Cage in quel periodo versava in condizioni economiche precarie e si presentò allettato dall’idea di poter vincere del denaro. Nelle sue cinque apparizioni allo show (la prima apparizione avvenne il 29 gennaio 1959 e poi le altre furono il 5, 12, 19 e 26 febbraio per la puntata finale), Cage
intrattenne
il
pubblico
con
alcune
sue
composizioni (più precisamente Amores, Water walk e Sounds of Venice). Purtroppo non è rimasto alcun reperto video a testimonianza di queste esibizioni. Tuttavia esistono diverse fotografie, ve n'è una in particolare in cui un attonito Bongiorno fissa perplesso l'inusuale apparato strumentale di Cage. Ho qui preparato una cronistoria della partecipazione di John Cage al quiz, estrapolando dei brani apparsi su alcuni giornali (La Stampa di Torino, il Corriere della Sera, il Radiocorriere TV); ho anche utilizzato alcune foto - pubblicate sul sito Johncage.it - provenienti dall’ Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo, dall’ Archivio Storico del Corriere della Sera e dall'Archivio dello Studio di Fonologia Rai. Ringrazio gli autori e i curatori delle fonti sopracitate e l’amica Maria Vittoria Maddaloni che mi ha segnalato l’argomento.
30 gennaio 1959 «Un'ottima impressione ha lasciato il secondo concorrente, l’americano John Cage, esperto di funghi velenosi e commestibili, compositore ed esecutore di strane musiche avveniristiche, allievo di Schönberg. L'allampanato concorrente ha detto di avere cominciato a studiare i funghi quando andava a passeggio per i boschi, attorno alla sua casa nei pressi di New York; ora si trova in Italia per tenere alcuni concerti di musica sperimentale. Seduto ad uno speciale pianoforte modificato nell'interno con viti, chiodi ed elastici si è esibito in una sua stranissima composizione fatta di cupi rimbombi, di strida e di squilli acuti: il pezzo era intitolato Amores e sembrava una marcia funebre. [29 Gennaio 1959. John Cage in procinto di suonare il suo brano per piano preparato Amores. Foto di Lorenzo Pizzamiglio. Archivio dello Studio di Fonologia Rai]
[79]
Bongiorno ha detto subito che tale genere di esecuzione gli ricordava unicamente un pianoforte scordato. Comunque il signor Cage, un giovanotto alto, dal viso forte e segnato da righe profonde come cicatrici sulle guance (un viso da cinema hollywoodiano) non ha perso per nulla il suo aplomb.»
6 febbraio 1959 «Conquista le 640 mila lire l'americano John Cage, compositore di musiche avveniristiche e conoscitore di funghi, che pare un “incrocio tra un giocatore di baseball e un marine”. Cage, giunto da poco in Italia per dare alcuni concerti della sua musica sperimentale, tempo addietro è stato una specie di istituzione nei circoli universitari di New York. Ovunque egli arrivasse, gli studenti dai capelli tagliati alla Jerry Lewis e le loro compagne in blue jeans, abbandonavano il pacco dei libri e si raggruppavano intorno a un juke-box. Qui Cage dava la misura delle sue incredibili possibilità: strabuzzava gli occhi in una smorfia di comico disappunto, allargava le smisurate braccia e apriva la bocca lasciandone uscire strani suoni gutturali. Attorno a lui i giovani danzavano felici, abbandonandosi ai ritmi del rock and roll. La interminabile figura di Cage, le sue gambe alla Gary Cooper, assumevano aspetti fantastici, riuscivano a creare una scena concepibile soltanto in un clima americano. Una volta si tirò dietro tutta la banda degli studenti per le strade di New York, arrischiando una fantasiosa imitazione di quello che doveva essere il jazz ai primordi: soltanto l'intervento della polizia riuscì a frenare gli scatenati paladini di Cage. Prima di affrontare la domanda da 640 mila lire – che ha poi superato con estrema disinvoltura – John Cage si è esibito in un concertino di musica sperimentale da lui espressamente composta per i telespettatori italiani. Per eseguirlo il fantasioso americano ha usato: una pentola in bollore con valvola di sfogo e relativo sibilo, una vaschetta da bagno colma d'acqua, un frullatore, un’ochetta di gomma, un petardo, un innaffiatoio, una bottiglia di seltz, un mazzo di rose, un fischietto, un paio di apparecchi radio (destinati a fornire sibili e miagolii). Con questi e altri mezzi musicali (gomitate sulla tastiera del pianoforte, ad esempio) il signor Cage ha eseguito una Passeggiata sull'acqua (Water walk). Risultato: un baccano carnevalesco. Il pubblico accetta lo scherzo e applaude. Sembra che John Cage abbia intenzione di ripetere il brano in tutte le città italiane dove si recherà per eseguire dei concerti. «Poi – ha detto scherzosamente l'americano fra le quinte – potrò sicuramente avviarmi al commercio degli ortofrutticoli.»
13 febbraio 1959 «Poi c'è stato il Gran finale con l'americano John Cage che, dopo avere annunciato che al suo ultimo concerto, tenuto la settimana scorsa a Padova, c'erano 180 spettatori, ha presentato una spiritosa registrazione della sua ultima esibizione a Lascia o raddoppia. È stata soprattutto una divertente presa in giro di Mike Bongiorno che si è udito esclusivamente esclamare: “Ho capito... ho capito”. A Cage è stata chiesta la misura in micron di un fungo dal nome incomprensibile, e l'americano, dopo aver riflettuto pochi secondi, ha risposto preciso: “Dai 12 ai 15 micron.”» [80]
20 febbraio 1959 «Molto meno rischiosa la prova, sempre per due milioni e mezzo, del compositore americano John Cage che sa tutto sui funghi e che non ha messo molto tempo per riconoscere fra sette fotografie quella del polipolus frondosus e per dire che si tratta di un fungo mangereccio che cresce sul legno. Ma per quanto riguarda il signor Cage, la curiosità degli spettatori si rivolge, piuttosto che alla materia presentata al telequiz, alla musica di cui s’è fatto banditore e soprattutto agli strumenti con cui la esegue. Ieri sera schierati lungo il proscenio abbiano notato: a) un mollone collegato a un microfono che percosso con un leggero buffetto crepitava come una mitragliatrice, b) un corno da caccia, c) una specie di putipù, d) una caraffa di acqua e vasca supplementare, e) una scopa di saggina, f) un pianoforte, g) un campanaccio, h) due registratori, i) un involto coperto da un lenzuolo che s’è rivelato poi per una gabbia piena di uccelli (e abbiamo elencato solo gli elementi più vistosi). Con questo materiale musicale il signor Cage ha eseguito il suo brano (potremo ancora chiamarlo così?) ispirato a Venezia. Si tratta di una musica che ha bisogno di essere vista oltre che udita: durante l’esecuzione il signor Cage ha infatti acceso e fumato una sigaretta, gesto che evidentemente doveva avere la sua ragione espressiva nel quadro del concerto. Comunque si voglia prendere queste esibizioni, è l’interessato stesso ad alleggerirle di ogni peso polemico. Bongiorno guardando il volto angoloso, quasi sempre aperto al sorriso, del signor Cage, gli ha chiesto: “Ma perché ride sempre?”. “È una situazione spiritosa” ha risposto candidamente Cage (o era un candore con un po’ di veleno?)»
27 febbraio 1959 (con due trascrizioni del nastro originale della registrazione. Rivista musicale italiana Gong, Ottobre 1975) « MB: Dunque, io stavo spiegando ai nostri ascoltatori che questo personaggio che si è ritirato adesso ha la testa sul collo perché si è ritirato, perché tutti giocano sempre i cinque milioni; allora volevo sapere se anche lei ha la testa sul collo, cioè se ha deciso di ritirarsi o se si vuol giocare questi cinque milioni. JC: Raddoppio. MB: Ah va be'. Dopo tutto questo discorso che ho fatto per convincerlo! (Ride) [81]
Cage ha dovuto completare la chiave analitica delle poliporacee (una specie di funghi) da cui erano stati cancellati quattro nomi. Il concorrente lo ha fatto senza difficoltà, così come ha saputo precisare, subito dopo, il nome scientifico, il colore, la forma, la lunghezza e la larghezza di un fungo che gli è stato mostrato in fotografia. L'ultima domanda, quella che dava libero accesso ai cinque milioni, ha messo a dura prova anche il sangue freddo e i nervi saldi dell'americano. John Cage doveva pronunciare i nomi dei ventiquattro generi di agarici a spore bianche. Ventiquattro domande in una, praticamente: un quesito da fare tremare le vene e i polsi anche al più grande esperto del ramo. John Cage non ha battuto ciglio, ha abbassato appena la voce ed ha avvertito che avrebbe detto i nomi in ordine alfabetico. E’ qui l’ammirabile, il signor Cage non ha chiesto mai un attimo di pausa, di meditazione, prima di rispondere esattamente. Sudava per tutto il viso, ma le sue repliche alle domande di Bongiorno erano fredde, tranquillissime, pronte.
Se la micologia non s’è rivelata un argomento proprio spettacolare, spettacolare è stata tuttavia la prova del signor Cage, accolto da fitti applausi all’uscita vittoriosa dalla cabina. Il concorrente aveva ripreso il sorriso generoso dimesso nell’entrare nella gabbia di vetro (unico segno esteriore della solennità del momento) e s’inchinava più volte con uno scatto del busto. Tempo di improvvisare un concertino non ce n’è stato. MB: Bravo sig. Cage arrivederci e buon viaggio, torna in America o resta qui? JC: ...mia musica resta. MB: Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio che la sua musica andasse via e lei restasse qui. [Risate e applausi]
[82]
La Musica del medioevo
[83]
I Trovatori: Marcabru Biografia Marcabru (o Marcabrun, o Marcabruno) è stato un trovatore occitano originario della Guascogna. Egli appartiene alla prima generazione di trovatori, e visse tra la Provenza e la penisola iberica, sotto la protezione di vari signori, tra i quali Guglielmo X di Aquitania e, probabilmente, Alfonso VII di Castiglia. Gran parte della biografia di Marcabru è ignota: mentre per gli altri trovatori abbiamo biografie relativamente particolareggiate, per Marcabru le notizie sono rarissime e sintetiche. [Marcabru in un manoscritto del XIII secolo]
Le notizie sulla vita di Marcabru le troviamo in due vidas, scritte all’incirca un secolo dopo la vita del trovatore e contenute in altrettanti manoscritti. Nella prima vida alcuni cenni biografici sono desunti dall’opera stessa di Marcabru e in particolare da alcune strofe della Lirica IX intitolata Dire vos vuoill ses doptanssa:
Marcabruns si fo de Gascoigna, fils d u a pau a fe a ue a o si com el dis en son chantar:
Ma a u a,
[Ma a u o fu o igi a io di Guas og a, figlio d’u a pove a do stesso disse in una sua poesia:]
a he si hia ava Ma a u a, o ’egli
Marcabruns, lo filhs na Bruna, fo engendraz en tal luna u el saup d A o u deg u a, – Escoutatz! – que anc non amet neguna, i d aut a o fo a atz. [Marcabru, figlio di donna Bruna, nacque sotto una stella tale he e – Ascoltate! – sicché non amò mai nessuna né da alcuna fu amato.]
o o
e le dege e azio i d’A o e,
T o ai e fo dels p e ie s o se e o t. De caitivetz vers e de caitivetz serventes fez, e dis al de las fe as e d a o . [Fu tra i primi trovatori di cui si abbia memoria. Compose tristi versi e cupi sirventesi, e disse male delle do e e dell’a o e.] [84]
La seconda vida è un compendio di notizie che riguardano vari aspetti della vita di Marcabru:
Ma a us si fo gitatz a la po ta d u i ho e, i a o saup ho ui.l fo i do . E. Ald i s del Vila fetz lo o i . Ap es estet ta t a u t o ado ue avia o Ce a o , u el o e sset a t o a . Et ado s el avia o Pa pe dut, as d a ui e a a nom Marcabrun. Et en aqel temps non appellava hom cansson, mas tot qant hom cantava eron vers. E fo mout cridatz et ausitz pel mon, e doptaz per sa lenga, car el fo tant maldizens que a la fin lo desfeiron li castellan de Guiana, de cui avia dich mout gran mal. [Ma a u fu a a do ato sulla po ta d’u i o sig o e, e essu o seppe ai hi fosse do de ve isse. Lo allevò il signor Aldric del Vilar; poi stette tanto con un trovatore di nome Cercamondo, che cominciò anche lui a comporre. Fino allora il suo nome era Panperduto; ma da allora in poi fu chiamato Marcabru. A quel tempo non si parlava di canzoni, ma di versi. Fu molto rinomato e ascoltato per il mondo e temuto per la sua lingua; perché fu tanto maldicente che alla fine i castellani di Guienna, di cui aveva detto un gran male, lo ammazzarono.] Dalle due testimonianze riprodotte è possibile quindi dedurre alcuni elementi della vita dell’autore. Ci troviamo ad Auvillar, un piccolo paese occitano che nel XII secolo era sotto il controllo di un ricco signore di nome Audric del Vilar, appartenente alla famiglia signorile di Auvillars en Lomagne, nella provincia di Moissac). Castellano e trovatore, Audric componeva canzoni e poesie ispirate alla natura e all’amore, come erano soliti fare anche i trovatori suoi contemporanei. Una notte venne abbandonato davanti al portone del suo castello un bambino, di cui nessuno seppe mai da dove veniva. Audric lo prese con sé e lo allevò. Lo sfamò, gli insegnò l’arte della musica e della poesia. Pan-Perdut, lo chiamava. Passarono gli anni, fino a che Pan-Perdut crebbe e partì dal castello di Audric per soggiornare presso quello di un famoso trovatore: Cercamon. Cambiò anche il suo nome in Marcabru, dal nome di sua madre. Aveva un carattere arrogante e difficile, una personalità decisamente controcorrente. Le sue prime composizioni prendono vita proprio negli anni in cui soggiornò da Cercamon: Marcabru iniziò a farsi un nome all’interno delle corti sino a frequentare la corte di Eleonora d’Aquitania in compagnia di altri trovatori suoi contemporanei come Bertrand de Born, Jaufré Rudel e Bernard de Ventadorn. Eleonora d’Aquitania nel 1137 si trovava in Francia e teneva corte a Parigi in quanto era ancora sposata con Luigi VII, e la sua corte era una delle più vivaci oltre che la più importante a livello artistico. La poesia moralizzatrice ed arrogante di Marcabru iniziò a spingersi oltre ogni limite sia in fatto di misantropia, sia a causa di una inestinguibile vena moralizzatrice che lui lasciava esplodere con una volgarità e rabbia, e ciò gli costò l’allontanamento dalla corte su ordine del re. Marcabru fu costretto a viaggiare verso la Spagna per poter continuare a vivere della sua arte. I francesi lo avevano deluso, li riteneva gente degenerata e vigliacca che non si dedicava interamente [85]
alla causa della guerra contro gli infedeli preferendo invece servire solo le vicende d’amore. La politica e la religione ormai sono le sole cose che vivono nel cuore di Marcabru e con questi pensieri scrisse una composizione destinata a diventare una delle sue canso più famose ed apprezzate: “Pax! In nomine domini”. Paragonava la Spagna ad un grande “lavatoio” nel quale i cavalieri sarebbero dovuti andare a mondare i propri peccati combattendo gli islamici e riconsegnando la penisola spagnola alla gente cristiana. Una canso di crociata intrisa di dettagli politici e consigli rivolti verso i signori ai quali Marcabru si rivolge continuamente incitandoli a combattere i saraceni. Questo atteggiamento lo si trova anche in molte altre sue composizioni, ad esempio “Emperaire, per mi mezeis” dove egli si pone come messaggero di Gesù che convoca l’imperatore sul campo di battaglia. La fama di Marcabru ormai era ormai enorme, le sue canzoni venivano cantate da giullari e menestrelli di molti paesi ed il peso politico delle sue parole iniziava ad essere notevole, così notevole che gli costò la vita. Nella sua “vida” leggiamo che: “Fu molto conosciuto e ascoltato per il mondo, ma a causa della sua schiettezza, poiché aveva una lingua sempre pronta, alla fine i castigliani di Guion lo accopparono perché aveva detto ciò che in male pensava di loro.” Così si concluse la vita di Marcabru, uno dei primi trovatori che “compose poveri versi e sirventes e disse male delle femmine e dell’amore e come egli stesso usava cantare”:
L’arte trobadorica di Marcabru Il periodo d’attività di Marcabru è compresa tra il 1135 e il 1150 in un’area geografica tra l’Occitania (Guascogna e Poitou) e la Spagna del nord (Castiglia e Catalogna). Fu un importante innovatore all’interno del movimento poetico dei trovatori, a lui si deve l’invenzione del “trobar clus”, una forma di poesia ermetica del tutto inconsueta per il suo tempo. A Marcabru vengono attribuite 43 poesie, erudite, spesso difficili, talvolta oscene; solo di 4 ci è pervenuta la musica. Di lui inoltre ci resta la più antica tenzone provenzale pervenutaci (Amics Marchabrun,
del 1133 circa), in cui l'autore
discute con Uc Catola, un altro poeta dell'epoca, sulla
natura
dell'amore
e
il
declino
del
comportamento cortese. La bassa nascita e il nobile mecenatismo si riflettono nel suo punto di vista e nella varietà del suo stile. Nessuno lo eguagliava nel furore con cui denunciava la lascivia delle donne e la depravazione dell'amore cortese, e i suoi componimenti sono spesso caratterizzati da un aspro spirito polemico e moraleggiante. Sono caratterizzati da una estrema varietà del lessico, di soluzioni sintattiche, strofiche e metriche, tipiche dell’occitano, ed esercitarono un notevole influsso sui trovatori successivi. [86]
Le principali composizioni Non è stata semplice la scelta dei brani, infatti non tutte le sue composizioni possono essere riportate in questo articolo, avrei riempito oltre metà della Rivista, e anche la traduzione in lingua italiana è complessa e richiede molto tempo. Ho scelto quelle che, a mio avviso, sono le più rappresentative dell’arte poetica di Marcabru. Per una maggiore facilità di ricerca, i brani sono in ordine alfabetico. ♫♫♫
A LA FONTANA DEL VERGIER A la fontana del vergier, On l'erb' es vertz josta·l gravier, A l'ombra d'un fust domesgier, En aiziment de blancas flors E de novelh chant costumier, Trobey sola, ses companhier, Selha que no vol mon solatz. [P esso la so ge te el f utteto, dove l’e a ve de a a to all’a gi e, all’o a di u al e o da f utto, con i suoi graziosi fiori bianchi e il consueto canto di uccelli in primavera, trovai quella giovane donna che, sola e senza compagno, non voleva la mia compagnia.] So fon donzelh'ab son cors belh Filha d'un senhor de castelh! E quant ieu cugey que l'auzelh Li fesson joy e la verdors, E pel dous termini novelh, E quez entendes mon favelh, Tost li fon sos afars camjatz. [Era una bellissima giovane fanciulla, figlia del signore di un castello; e p op io e t e pe savo he il ve de e gli u elli l’av e e o alleg ata e che, a causa del dolce clima primaverile, avrebbe ascoltato il mio proposito, il suo atteggiamento improvvisamente cambiò.] Dels huelhs ploret josta la fon E del cor sospiret preon. Ihesus, dis elha, reys del mon, Per vos mi creys ma grans dolors, Quar vostra anta mi cofon, Quar li mellor de tot est mon Vos van servir, mas a vos platz. [87]
[Accanto alla sorgente, piangeva e singhiozzava dal profondo del cuore; «Gesù», diceva, «re del mondo, a ausa vost a il io g a de dolo e au e ta, poi h l’olt aggio he vi fa o la ia ovi a: il eglio di questo mondo partirà per servirvi, poiché questa è la vostra volontà.] Ab vos s'en vai lo meus amicx, Lo belhs e·l gens e·l pros e·l ricx! Sai m'en reman lo grans destricx, Lo deziriers soven e·l plors. Ay mala fos reys Lozoicx Que fay los mans e los prezicx Per que·l dols m'es en cor intratz [Il mio amore, colui che è bello, cortese, coraggioso e nobile, parte con voi; una grande angoscia, una continua nostalgia e le lacrime restano qui con me. Oh! sia maledetto re Luigi, che ha ordinato la chiamata alle armi e la predicazione, che sono la causa di questo dolore che pervade il mio cuore!»] Quant ieu l'auzi desconortar, Ves lieys vengui josta·l riu clar: Belha, fi·m ieu, per trop plorar Afolha cara e colors! E no vos cal dezesperar, Que selh qui fai lo bosc fulhar, Vos pot donar de joy assatz. [Quando udii il suo lamento, la raggiunsi presso il limpido ruscello. «Graziosa signora», dissi, «il troppo piangere vi sciupa il viso e il colorito, e non dovete disperarvi, poiché Colui che fa rinascere le foglie sui rami può darvi molta gioia».] Senher, dis elha, ben o crey Que Deus aya de mi mercey En l'autre segle per jassey, Quon assatz d'autres peccadors! Mas say mi tolh aquelha rey Don joys mi crec! mas pauc mi tey Que trop s'es de mi alonhatz. [«Signore», disse lei, «io edo he Dio av à pietà di e pe se p e ell’aldilà, o e fa à o olti alt i peccatori! Ma ora qui Egli sta portandomi via la sola persona che mi dava gioia, Egli mi disdegna!, perché si è troppo allontanato da me». ] ♫♫♫
AMICS MARCHABRUN Amics Marchabrun, car digam Un vers d'Amor, que per cor am, [88]
Q'a l'hora qe nos partiram En sia loing lo chanz auziz. [Marcabru, amico mio, componiamo una poesia d'amore, perché ci ho messo il cuore, quando ci separiamo la sua melodia possa essere ascoltata lontano.] Uc Catola, er fazam, Mas de faus' amistat me clam, Q'anc pos la serps baisset lo ram No foron tant enganairiz. [Uc Catola, facciamola ma ti accuso di falsa amicizia poiché, da quando il serpente ha abbassato il ramo (ad Eva), non ci sono state tante donne ingannevoli.] Marcabrun, ço no m'es pas bon Qe d'Amor digaz si ben non! Per zo·us en mou e[u] la tenson, Qe d'Amor fui naz e noiriz. [Marcabru, non mi piace che dici tutt'altro che bene sull'amore! Inizio questa tenso perché l'Amore mi ha dato la vita e mi ha cresciuto.] Catola, non entenz razon, Non saps d'Amor cum trais Samson? Vos cuidaz e'ill autre bricon Qe tot sia vers quant vos diz. [Catola, non ascolti la ragione. Non sai come l'amore ha tradito Sansone? Tu e gli altri idioti pensate che tutto ciò che [l'amore] ti dice sia vero?] Marcabrun, no·s troban auctor De Sanso·l fort e de sa'uxor Q'ela n'avia ostat s'amor A l'ora que ce fo deliz. [Marcabru, non troviamo persone che dicono, del forte Sansone e di sua moglie, che aveva rimosso il suo amore al momento la sua vita finì.] Catola, qar a sordejor La det e la tolc al meillor, Lo dia perdet sa valor, Qe'l seus fo per l'estraing traiz. [Catola, che pessima cosa, ha dato [il suo amore] e l'ha portato via al meglio, e ha perso il suo valore, chè suo marito è stato tradito per lo straniero.] [89]
Marcabrun, si cum declinaz Qu'Amors si' ab engan mesclaz, Dunc es lo almosna pechaz, La cima devers la raiz? [Marcabru, dal momento che implichi che l'Amore si mescola all'inganno, è l'elemosina del peccato e la parte superiore sotto la radice?] Catola, l'Amors dont parlaz Camja cubertament los daz, Aprop lo bon lanz vos gardaz, Co diz Salomons e Daviz. [Catola, l'Amore di cui parli cambia segretamente i dadi. Fermati dopo un buon tiro, dicono Salomone e Davide.] Marcabrun, amistaz dechai, Car a trobat Joven savai! Eu n'ai al cor ir' et esclai, Qar l'en a levaz tan laiz criz. [Marcabru, l'amicizia decade perché ha trovato la gioventù rozza! Ho rabbia e repulsione nel mio cuore perché ha causato grida tanto brutte.] Catola, Ovides mostra chai E l'ambladura o retrai Que non soana brun ni bai, Anz se trai plus aus achaiz. [Catola, Ovidio ost a ui, e l'aspetto delle ose lo o fe bianchi, ma fa appello soprattutto ai degenerati.]
a, he l’A o e
o dis i i a i
oioi
Marchabrun, anc non cuit t'ames L'Amors, ves cui es tant engres, Ni no fo anc res meinz prezes D'aitals joglars esbaluiz. [Marcabru, non credo tu l'abbia mai amato l’Amore, verso il quale sei così veemente, né che abbia mai stimato qualcosa di meno di certi giullari senza cervello.] Catola, anc de ren non fo pres Un pas, que tost no s'en loignes, Et enquer s'en loingna ades, E fera, tro seaz feniz. [Catola, l'amore non ha mai preso un passo [verso di me] senza fuggire subito, e ancora fugge instancabilmente e lo farà finché non sarà annullato.] [90]
Marcabrun, quant sui las e·m duoill, E ma bon'amia m'acuoill Ab un baisar, quant me despuoill, M'en vau sans e saus e garitz. [Marcabru quando sono stanco e triste e il mio buon amico mi saluta con un bacio mentre mi spoglio, me ne vado bene, al sicuro e guarito.] Catola, per amor deu truoill Tressaill l'avers al fol lo suoill, E puois mostra la via a l'uoill Aprop los autres escharniz. [Catola, per amore del torchio, il denaro fa varcare la soglia allo sciocco e poi mostra all'occhio la via verso le altre persone ridicole.] ♫♫♫
ANS QUE-L TERMINIS VERDEI Ans que.l terminis verdei Chantarai et ai ben drei! Qui que d'Amor s'esbaudei, Eu no.n ai ni so ni quei. A nuill home que dompnei No quier pejor malavei! Be mor de fam e de frei Qui d'Amor es en destrei. [Prima che la stagione diventi verde, canterò e lo farò a buon diritto! Gli altri posso o esse e allietati dall’a o e, io o e otte go ie te. A u uomo che fa il galante io non auguro una malattia peggiore. Sta certamente morendo di fame e di freddo chiunque si trovi sotto la tirannia di Amore.] Amor no vueill ni dezir, Tan sap d'engan ab mentir! Per aiso vos ho vueill dir C'anc d'Amor no.m puec jauzir. Tan l'en vueill mal e l'azir Can m'en membra.m fai languir. Fols fui per Amor servir, Mas vengut em al partir. [Io non voglio Amore né lo desidero, tanto sa ingannare e mentire! Ve lo dico per questa ragione, e cioè che non ho mai potuto trovare alcuna gioia in Amore. Lo odio e lo detesto moltissimo per questo, al punto che quando ci penso mi fa star male. Sono stato a h’io s io o el se vi e l’Amore, ma ora la società è sciolta.] [91]
Per Amor sueill esser guais, Mas eu no.n serai jamais C'una.m n'enguanet e.m trais Per que m'en gurp e m'en lais. Ben es cargatz de fol fais Qui d'Amor es en pantais. Senher Deus quan mala nais Qui d'aital foudat se pais. [E o solito esse e gioioso a ausa dell’a o e, a o a o lo sa ò ai più; u a volta u a o e i ha i ga ato e t adito, e o a io l’a a do o e vi i u io. Chiunque sia sconvolto per Amore è oppresso da un folle peso! Signore Dio, è davvero nato sotto una cattiva stella colui che si nutre di una tale follia.] C'Amors es plena d'enguan, Per aver se vai camjan, E.ls plus pros torn' en soan, Que.l malvatz l'aura enan. Ja non anetz domnejan Ses deners et ab afan. Amors que vai mercadan A diables la coman. [I fatti l’Amore è pieno di inganno a causa dei soldi ed è mutevole e incostante, e disprezza gli uomini più deg i, osì he hi alvagio l’av à pe p i o. No sp e hi e e gie el o teggia e to hi è senza soldi in o ta ti! L’Amore che diventa commercio è buono per i diavoli.] D'Amors vos dirai com es: Si valiatz un marques Ja no.us en fasatz cortes, Pos d'aver non auretz ges. Si n'avetz donat e mes No.us er prezat un poges! Ja no.us hi valra merces Pos vos er faillitz l'avers. [Vi di ò o e fu zio a o l’A o e: a he se avete la dig ità di u a hese, o se vitevi di uesto pe vantarvi nei corteggia e ti ua do la vost a i hezza stata dissipata. “e l’avete egalata e spesa, il vostro titolo non vi servirà ad ottenere neppure un centesimo a credito; neppure la misericordia vi sarà utile qui, se non avete più soldi.] Qu'ieu dic als dompnejadors Que van d'Amor consiros No s'en fasson cobeitos! E poiri'esser lur pros C'asatz es ben abduros Qui d'amar es talantos, [92]
Que qui trop es amoros Ben torna del caul au tros. [Perciò io dico ai corteggiatori che vanno in giro tormentati dall'Amore di non rendere evidente il loro desiderio. E lo dico nel loro interesse perché colui che è (soltanto) desideroso di amore è abbastanza fortunato, mentre colui che è troppo ossessionato passa dal cavolo cappuccio (la parte migliore) al gambo (la peggiore)]. La chansoneta rema No.n dic plus a en Perma! Tal s'en fan d'Amor casla Deurion trichar de pla. Drutz que.s fai semblar Baza Per Amor que fols i fa. Ja el nos senh ab sa ma Cui Amors enguanara. [La canzone è finita; non dico altro su questa questione al “ig o Pe a. Colui he si fa astella o d’a o e dovrebbe ingannare [il suo signore] senza indugi. Un innamorato che si comporta come Bazan per amore è un pazzo. Colui che si farà ingannare da Amore non dovrebbe mai diventare un Crociato.] ♫♫♫
BEL M’ES CAN S’ESCLARZIS L’ONDA Bel m'es can s'esclarzis l'onda E qecs auzels pel jardin S'esjauzis segon son latin! Lo chanz per los becs toronda, Mais eu trop miels qe negus. [Mi pia e ua do l’o da si fa li pida e og i u ello el gia di o giois e el suo proprio linguaggio! Il canto sgorga dai loro becchi ma io so comporre (canzoni) meglio di tutti loro.] Qe scienza jauzionda M'apres c'al soleilh declin Laus lo jorn, e l'ost' al matin, Et a qec fol non responda Ni contra musart no mus. [Infatti una scienza gioiosa i ha i seg ato a loda e il gio o al t a o to e l’ospite al atti o, a o rispondere ad ogni folle, e a non stare a guardare imbambolato chi mi guarda imbambolato.] Car l'Avolenza recoinda A semblan del flot marin, Per q'ieu segnhorei mon vezin, [93]
E no vueil ges de mi bonda So don hom m'apel caus. [Poiché egli vive nei propri escrementi alla maniera del porco marino; ecco perché tratto il mio vicino con rispetto e non voglio che tonto mormori qualcosa su di me in modo che la gente possa chiamarmi a agia i .]
La non er mais sazionda Enveia tro en la fin, Ni Cobezeza atressi, Q'evejos e dizironda Vai e reven al pertus. [Il deside io o sa à ai soddisfatto fi o alla fi e, e ea he la upidigia, poi h l’uo o he a de di desiderio diventa infedele e la donna bramosa vende se stessa nel pertugio del muro.] Ni non cug mai que·s resconda Malvestatz, c'a plen camin Segon ja li ric son train, E canc Avolez' ablonda Es Malvestatz crup de sus. [No pe so eppu e he l’e pietà si asconderà perché, con la faccia di bronzo, i potenti la stanno già segue do el suo o teo, e pe ua to la viltà possa sp ofo da e i asso, l’e pietà o ti ue à ad esse e accovacciata sopra di lei.] A greu aura ia vergonda Putia de gros bosin, Mas nafrot baldit baboin Ja acueilh, car li aprionda Soven, qi qe s'en graus. [La puttaneria difficilmente proverà vergogna davanti a un enorme fallo, dal momento che Madama Sfrontatezza accoglie a braccia aperte il mandrillo, per il fatto che lo affonda a più riprese dentro di lei, i u a te dell’alt ui ip ovazio e.] [94]
Car el n'a la clau segonda Per qe·l segner, so·us afin, Porta capel cornut conin, C'ab sol un empeut redonda Si donz, lo ditz Marcabrus. [Egli infatti ha un doppione della sua chiave, ed ecco perché il signore, te lo giuro, indossa un cappello cornuto di fica, poiché con u a sola otta egli il a d illo addo esti a “ua “ig o ia – è Marcabruno che lo dice.] E non puesc mudar non gronda Del vostre dan moillerzin, E pos res non reman per mi Si l'us pela l'autre tonda E reuerc contra raus. [E io non posso smettere di rimproverarvi il danno che causate, voi donnaioli, e siccome nessuno desiste pe uello he di o, allo a se u o st appa le piu e, he l’alt o p e da le esoie e io i hia o fuo i.] Que·l vostre domneis sobronda E sembla joc azenin E de loc en loc ris canin E qer com Dieus lo confonda Qi sobre tot be vol plus. [Se un uomo va oltre il vostro libertinaggio, questo è un esempio perfetto di gioco asinino e, ora come allora, di riso canino; colui che, oltre a tutto ciò che ha di buono, desidera ancora di più, sta chiedendo a Dio di punirlo.] Se·l segnorius de Gironda Poia, encar poiara plus, Ab qe pense com confonda Paias, so·ilh manda Jhezus. [Se il signore di Gerona è in ascesa, salirà ancor di più, purché cominci a pensare a sconfiggere i pagani, poiché Gesù gli ordina di farlo.] ♫♫♫
BEL M'ES QUAN SON LI FRUICH MADUR Bel m'es quan son li fruich madur E reverdejon li gaim, E l'auzeill, per lo temps escur, Baisson de lor votz lo refrim, [95]
Tant redopton la tenebror! E mos coratges s'enansa, Qu'ieu chant per joi de fin' Amor E vei ma bon' esperansa. [Amo il tempo dei frutti maturi ua do i ve dis e l’e a uova e l’u ello, pe i gio i os u i, è di voce un trillo più basso prova, tanto ha della tenebra timore! Ed allora il mio cuore si avanza ché canto gioia di fine amore e vedo la mia buona speranza.] Fals amic, amador tafur, Baisson Amor e levo·l crim, E no·us cuidetz c'Amors pejur, C'atrestant val cum fetz al prim! Totz temps fon de fina color, Et ancse d'una semblansa! Nuills hom non sap de sa valor La fin ni la comensansa. [Falsi amici, amanti traditori, l’Amore discende e sale il vizio e non credo che Amore peggiori, vale anzi alt etta to he all’i izio; era sempre di un unico colore e ognor di medesima sembianza! Nessun uomo sa del suo valore dove finisce né donde avanza. ] Qui·s vol si creza fol agur, Sol Dieus mi gart de revolim Qu'en aital Amor m'aventur On non a engan ni refrim! Qu'estiu et invern e pascor Estau en grand alegransa, Et estaria en major Ab un pauc de seguransa. [Chi vuol creda al folle presagio: Dio solo mi guarda da scompiglio perché mi avventuro in Amor tale che non ha inganno né travaglio! D’estate, i ve o o te po pasquale, mi ricolma una grande allegrezza, che potrebbe diventar totale se avessi un poco di sicurezza.] Ja non creirai, qui que m'o jur, Que vins non iesca de razim, Et hom per Amor no meillur! C'anc un pejurar non auzim, Qu'ieu vaill lo mais per la meillor, Empero si·m n'ai doptansa, Qu'ieu no·m n'aus vanar, de paor De so don ai m'esperansa. [Non crederò, chiunque me lo giuri, he il vi o dall’uva o dis e da, e non migliori uomo per Amore! Mai sentimmo che lo renda peggiore! Ed io più valgo con il migliore: ma invero su questo ho titubanza, non oso vantarmi, per timore di quel da cui vien la mia speranza.] [96]
Greu er ja que fols desnatur, Et a follejar non recim E folla que no·is desmesur! E mals albres de mal noirim, De mala brancha mala flor E fruitz de mala pensansa Revert al mal outra'l pejor, Lai on Jois non a sobransa. [E’ arduo al buffone non impazzare, ché di mutar natura egli è schivo, e alla sciocca evitare gli eccessi! Cattivo seme, albero cattivo, cattivo il ramo, cattivo il fiore, e il frutto dei cattivi disegni ritorna in male, forse peggiore, dove Gioia su tutti non regni.] Que l'Amistats d'estraing atur Falsa del lignatge Caim Que met los sieus a mal ahur, Car non tem anta ni blastim, Los trai d'amar ab sa doussor, Met lo fol en tal erransa Qu'el non remanria ab lor Qui·l donavan tota Fransa. [Della stirpe di Caino il danno chi con la falsa amicizia affronta i suoi sospinge a certo malanno, perché non te e la olpa o l’o ta; con la mollezza, fugge l'amore e il buffone in tale inganno lancia che non vuol restare col signore da cui avrebbe tutta la Francia. ♫♫♫
CORTESAMEN VUOILL COMENSAR Cortesamen vuoill comensar u ve s, si es i l es outa ; e pos ta t e sui e t e es, veirai si.l poirai afinar, e a voill o ha es e a , e dirai vos de mantas res. [Voglio cominciare una lirica i odo o tese, se ’ ual u o he l’as olte à, e si o e i ha p eso osì tanto, voglio vedere se posso perfezionarlo, voglio purificare il mio canto e parlarvi di molte cose.] Assatz pot hom vilaneiar, qi Cortesia vol blasmar; qe<.l> plus savis e.l meils apres no.n sap tanta dire ni far o o li puos a e seig a petit e pro, tals hora es. [97]
[Colui che vuole criticare la cortesia può davvero svilirsi, perché anche il più saggio e il più colto degli uomini non può dire o fare così tanto a tale riguardo che non gli di possa occasionalmente insegnare qualcosa.] De Cortesia.is pot vanar qui ben sap Mesura esgardar; e qui tot vol auzir cant es ni tot qant ve cuida amassar, lo tot l es ops a esu a , o ia no sera trop cortes. [Colui che sa bene come rispettare la moderazione può vantarsi di possedere la cortesia, e chiunque voglia ascoltare tutto ciò che viene detto o desideri possedere tutto ciò che vede deve necessariamente moderare questo tutto, o non sarà mai davvero cortese.] Mesura es en gent parlar e o tesia es d a a ; et qui no vol esser mespres de tota vilania · is gar, d es a i e de foleia , puois sera savis, ab que? ill pes. [La moderazione consiste nel parlare nobilmente, e la cortesia viene dall’a a e; e chi non vuole essere giudicato male deve guardarsi da ogni comportamento vile, disonesto e eccessivo, e solo così, anche se questo non lo renderà necessariamente più felice, potrà essere saggio.] C aissi pot savis ho eg a e bona dompna meillurar, mas cella e p e dos o t es e per un no si vol fiar; ben deu sos prez asordeiar e sa valors a chascu mes. [In questo modo infatti, un uomo saggio può vivere bene e una brava dama può migliorarsi, ma colei che prende due o tre amanti e non vuole mantenersi fedele a uno solo, beh, la sua reputazione e il suo valore finiranno per svilirsi ogni mese che passa.] Aitals amors fai a prezar que si mezeissa ten en car; e s ieu e di uill vila es, pe lleis, ue o tei g a a a ; be · ill lauzi fassa · m pro musar, u eu au ai so e · es p o es. [Va sti ato uell’a o e do a he ha u a del p op io o o e, e se io, a ausa sua, dovessi di e ual he villania sul suo conto, lasciate che lei lo attribuisca ad un falso amore in me; anzi, le suggerisco di mantenermi in vana attesa a lungo, così che io non abbia da lei ciò che mi è promesso.] [98]
Lo vers e · l son voill enviar a · n Jaufre Rudel, oltramar, e voill ue l aio li F a es per lor coratges alegrar, que Dieus lor o pot perdonar, o sia peccaz o merces. [Voglio mandare questa lirica e la melodia al Signor Jaufre Rudel, che è oltremare, e voglio che lo abbiano i Francesi per allietare i loro cuori, perché Dio possaconcedere loro (almeno) questo, che sia un peccato o una buona azione.] ♫♫♫
DIRAI VOS DE MON LATIN Dirai vos de mon latin, de so ue vei e eu vi: lo setgles non cuig dur gaire, sego u Es iptu a di, e as fail lo fils al pai e, e · l pai al fill aut essi. [Vi dirò con la mia lingua cosa vidi e cosa vedo: questo mondo ha da finire, come dice la Scrittura, perché il figlio manca al padre, ed il padre al figlio suo.] Desviat a son cami, Jove s e to a de li, e Do a s e a sos f ai e vai s e fuge a tapi, a do z Costa z l e gig ai e Iois ni Iovenz non jauzi. [“e ’ a data fuo i strada, Gioventú che va al declino, e il fratello suo, Donare, di nascosto va fuggendo: di Costanza l’i oglio a non godono Gioia e Gioventú.] Sovenz de pan e de vi noiris rics hom mal vezi; E s il te gues de al ai e segurs es de mal mati, si no i ment lo gazagnaire don lo reprochers issi. [Chi è ricco, spesso pane e vino dà al suo brutto vicino; se capisse che è maligno, non sarebbe un bel mattino, sempreché non menta il contadino da cui venne questo detto.] Lo oli e s iutg al oli, «Qui ben lia ben desli», [99]
e · l «vila s ditz t as l a ai e», «Bons fruiz eis de bon iardi», et «avols fils d avol pai e», e, «d avol aval, o i». [Al uli o fa il ug aio, «Chi e lega, e e slega», e «all’a at o il o tadi o», « uo gia di o e uo i frutti», e «bestia il padre e bestia il figlio», e «di caval fiacco fa ronzino.»]
A a eisse dui poilli, beill, burden, ab saura cri; pois van volven de blanc vaire e fant semblan aseni. Jois e Jove s es t i hai e, e Malvestatz es d a i. [Ora vengon fuori due puledri, belli, bardotti, dal crine u o; ’e a il ia o, o a il aio, e a me sembrano somari. Gioia e Gioventú son bari, e Malevolenza ne viene.] Moilleratz a sen cabri, a tal pa a lo ossi, de lo cons esdeven laire; que tals diz: «Moz fills me ri» qe anc re no.i ac affaire: ga datz s e e edoi! [O mariti cuor di capra, il cuscino è tanto gonfio che la fica si fa agra! Dici: «Il figlio mi deride!», e da parte tua non hai nulla: osservate questo matto!] Re no val si eu los chasti, ades eto o ai i; e pos un non vei estraire olle at d a el t ahi, an lo tondres contra · l raire, Marcabruns, del ioc coni. [100]
[È va o h’io li atta, pe h ui to a o a o a. E o vedo i u ia e hi a tonsura col rasare, Marcabru, al gioco di fica.]
ogliato ello s a
io di
♫♫♫
DIRAI VOS SENES DUPTANSA Dirai vos senes duptansa D'aquest vers la comensansa! Li mot fan de ver semblansa! –Escoutatz!– Qui ves Proeza balansa Semblansa fai de malvatz. [Vi di ò, se z’al u a esitazio e, o e comincia questo mia vers! Le mie parole mostrano il vero! Ascoltate! Chi sta sul valore in bilico dà un esempio di viltà.] Jovens faill e fraing e brisa, Et Amors es d'aital guisa De totz cessals a ces prisa, –Escoutatz!– Chascus en pren sa devisa, Ja pois no·n sera cuitatz. [Giove tù i f a ta, s’ las iata a da e, e Amore è cosiffatto da vessare tutti coloro che può dominare. Ascoltate! Ognuno deve fare la sua parte e certo poi non sarà abbandonato.] Amors vai com la belluja Que coa·l fuec en la suja Art lo fust e la festuja, –Escoutatz!– E non sap vas qual part fuja Cel qui del fuec es gastatz. [L’A o e agisce come la scintilla che cova nella cenere e poi brilla, e poi pur la legna brucia e sfavilla. Ascoltate! E non sa dove fuggire chi dal fuoco è divorato.] Dirai vos d'Amor com signa! De sai guarda, de lai guigna, Sai baiza, de lai rechigna, –Escoutatz!– Plus sera dreicha que ligna Quand ieu serai sos privatz.
[101]
[Dell’A o vi di ò l’azio alig a! Di qua guarda, di là ghigna,e qua bacia e là digrigna, ascoltate! sarà più d itto d’u egolo quando mi troverò con lui in privato] Amors soli' esser drecha, Mas er'es torta e brecha Et a coillida tal decha –Escoutatz!– Lai ou non pot mordre, lecha Plus aspramens no fai chatz. [Amore era un tempo dritto, adesso invece è contorto e intaccato ed ha preso questo vizio, Ascoltate! Se non riesce a mordere, leccaruvido come mai gatto ha leccato.] Greu sera mais Amors vera Pos del mel triet la cera Anz sap si pelar la pera! –Escoutatz!– Doussa'us er com chans de lera Si sol la coa·l troncatz. [Amore mai è più vero, poi che dal miele separò la cera; anzi, sa bene sbucciare la pera! Ascoltate! è dolce come un canto di capinera se la coda gli tagliate.] Ab diables pren barata Qui fals' Amor acoata, No·il cal c'autra verga·l bata! –Escoutatz!– Plus non sent que cel qui·s grata Tro que s'es vius escorjatz. [Con il diavolo contratta chi brama falso Amore: non gli serve u ’altra frusta! Ascoltate! E’ o e u o he si gratta finchè è scorticato vivo.] Amors es mout de mal avi! Mil homes a mortz ses glavi, Dieus non fetz tant fort gramavi! –Escoutatz!– Que tot nesci del plus savi Non fassa, si·l ten al latz. [Amor è discendente d’avi alvagi! Mille ne uccise senza spada, Dio non ne creò sì potente! Ascoltate! Egli idu e l’uo o più sapie te a uno stolto, se lo tiene legato a se.] Amors a uzatge d'ega Que tot jorn vol c'om la sega E ditz que no·l dara trega –Escoutatz!– [102]
Mas que puej de leg'en lega, Sia dejus o disnatz. [Amore è come una cavalla che tutto il giorno vuole la si segua, e dice che non gli darà alcuna tregua. Ascoltate! Vuol la monta lega a lega, sia che tu sia sazio oppure affamato.] Cujatz vos qu'ieu non conosca D'Amor s'es orba o losca Sos digz aplan'et entosca, –Escoutatz!– Plus suau poing qu'una mosca Mas plus greu n'es hom sanatz. [Pensate forse voi che io non sappia se Amor sia orbo o losco? Il suo parlare addolcisce ma intossica. Ascoltate! Se punge è più dolce di una mosca, ma chi è punto è ben raro sia sanato.] Qui per sen de femna reigna Dreitz es que mals li·n aveigna, Si cum la letra·ns enseigna! –Escoutatz!– Malaventura·us en veigna Si tuich no vos en gardatz! [Chi ha per signore una donna deve andare a finire male, così o e la “ ittu a ’i seg a! Ascoltate! Che vi tocchi la sventura se non ve ne siete difesi!] Marcabrus, fills Marcabruna, Fo engenratz en tal luna Qu'el sap d'Amor cum degruna, –Escoutatz!– Quez anc non amet neguna, Ni d'autra non fo amatz. [Marcabru, figliolo di Marcabruna venne al mondo nacque sotto una luna tale che ben conobbe le dege e azio i d’A o e. Ascoltate! Perché non ha mai amato nessuna do a e da essu ’alt a fu ai amato.] ♫♫♫
EMPERAIRE, PER MI MEZEIS Emperaire, per mi mezeis, Sai quant vostra proeza creis, No·m sui jes tarzatz del venir, Que Jois vos pais e Pretz vos creis, E Jovens vos ten baud e freis [103]
Que fai vostra valor doucir. [Imperatore, dato che la vostra prodezza sta crescendo, non ho certo esitato a venire qui di mia iniziativa, infatti la gioia vi nutre, il merito aumenta e la gioventù, che fa crescere il vostro ardimento, vi mantiene vigoroso e gaio.] Pois lo fills de Dieu vos somo Que·l vengetz del ling Farao, Ben vos en devetz esbaudir! Contra·ls portz faillon li baro, Li plus de conduich e de do, E ja Dieus no·ls en lais jauzir [Dal momento che il figlio di Dio vi convoca per vendicarlo contro i discendenti di Faraone, dovreste davvero rallegrarvene; poiché al di là dei Pirenei, la maggior parte dei baroni vengo o e o all’ospitalità e alla generosità, e mi auguro che Dio non permetta loro di trarne beneficio.] Mais en cels de lai es remas Ad ops d'Espaigna e del vas, En devetz ben l'afan soffrir, E·ls Sarrazis tornar atras, E de l'aut orguoill forvenir, E Dieus er ab vos al fenir. [Siccome gli uomini di laggiù lo stanno trascurando, voi dovreste davvero portare questo peso per il bene della Spagna e del Santo Sepolcro, e ricacciare indietro i Saraceni, abbassare il loro orgoglio altero e allora Dio sarà con voi alla fine]
Als Amoravis fai conort Per las poestatz d'outra·l port Qu'ant pres una tel' ad ordir De drap d'enveia e de tort, E ditz cadaus qu'a sa mort S' fara de sa part desvestir. [104]
[Gli Almoravidi riprendono coraggio a causa dei potenti signori al di là dei Pirenei, che hanno cominciato a tessere una tela di invidia e ingiustizia, e ciascuno di loro continua a dire che cederà la sua parte solo dopo la morte.] Mas de lai n'ant blasme li ric C'amon lo sojorn e l'abric Mol jazer e soau dormir. E nos sai, segon lo prezic, Conquerrem de Dieu per afic L'onor e l'aver e·l merir. [Ma la colpa di questo è di quei ricchi signori laggiù, che amano la comodità e i loro posti accoglienti e riparati, i letti soffici e il dolce dormire. E noi qui, come dice la predicazione, conquisteremo da Dio, con il nostro sforzo, l’o o e e il merito.] Trop s'en van entr'els cobeitan Aicill que vergoigna non an, E·s cuion ab l'aver cobrir! Et ieu dic lor, segon semblan, Que·l cap derrier e·ls pes denan Los coven dels palaitz issir. [Quegli uomini senza vergogna continuano a concupire avidamente gli uni i beni degli altri, e pensano di potersi giustificare facendosi lodare! E io dico loro che, secondo ogni evidenza, dovranno lasciare i loro palazzi con i piedi davanti e la testa indietro (morti). Per pauc Marcabrus non trasaill De Joven, can per aver faill, E cel qui plus l'am' acuillir, Quan venra al derrier badaill, En mil marcs non dari' un aill, Si li fara la mortz pudir. [Marcabruno è quasi fuori di sé per la giovinezza, che viene meno a causa delle ricchezze, eppure anche l’uo o più ava o, ua do giu ge al suo ulti o espi o, o side e à ille a hi alla st egua di u a i iola, a tal punto la morte lo renderà disgustato da essa (la ricchezza).] Ab la valor de Portegual E del rei Navar atretal Ab sol que Barsalona·s vir Ves Toleta l'emperial, Segur poirem cridar : reial E paiana gen desconfir. [Co la fo za del Po togallo, e uella del e di Nava a, se solo Ba ello a si volge à ve so l’i pe iale Toledo, saremo in grado di gridare «Reial!» e di sconfiggere i pagani.] Si non fosson tant gran li riu Als Amoravis for' esquiu! [105]
E pogram lor o ben plevir, E s'atendon lo recaliu E de Castella·l seignoriu, Cordoa·il farem magrezir. [Se i fiumi non fossero così alti, gli Almoravidi se la vedrebbero brutta, e potremmo certamente garantiglierlo; e se aspettano il rinnovato fervore del signore di Castiglia, noi risponderemo affamando Cordoba!] Mas Franssa Peitau e Beiriu Aclina un sol seignoriu, Venga sai Dieu son fieu servir [Poiché la Francia sottopone il Poitou e il Be y ad u ’u i a giu isdizio e, egli ve ga qui davanti a Dio a meritarsi il suo feudo!] Qu'ieu non sai per que princes viu S'a Dieu no vai son fieu servir. [Davvero io non so perché debba vivere un principe se non va da Dio per meritarsi il suo feudo. ] ♫♫♫
IVERNS VAI E · L TEMPS S’AIZINA Ive s vai e · l te ps s aizi a ve s vai e.l te ps s aizi a i que verdeion li boisso, e · l flo s pa eis e l espi a e s esiauzo l auzello;.ai!, ja deve ho d a o gai, has us vas sa pa s at ai.hoc, segon plassensa corina. [L’i ve o va, il te po si p epa a: i espugli i ve dis o o, spu ta il fio e al ia ospi o, e giois ono gli uccelli; ah! per amore ti rallegri: tutto va verso il suo simile, si, come piace al cuore.] Lo freiz firm e la bruina contra la gentil sazo; pe · ls plais e per la gaudina auch i del chant la contensso,.ai!, ieu.m met de trobar en plai e di ai d a o o vai,.hoc, si.m voill, e com revolina. [Contro la bella stagione il freddo fermo, poi la brina. Là, per siepi e foreste, sento la contesa dal canto, ah!, e p e do a o po e e di ò o e va l’a o e, si, se mi vuole, e come turbina!] [106]
Amars creis et atayna ab ric coratge gloto per una dolssor conina e is o p e d u fue fello. Ai! Ja non er nulls sens chai, daveras o per assai,.oc, o lais del pel e l a zi a. [A a e es e e s uove o u o ile ise o uo e he s’i fia a di a aglies o fuo o pe dol ezza di fica. Ah! Mai non ci sarà uomo che non cada, per prova o per davvero, si, e non lasci nella fiamma il pelo.] Bo A o s po ta eizi a per guerir son compagnio; amar los senz disciplina e · l met en perdicio..Ai!, Ta t ua t l ave s du a, fai al fol se la d a o gai,.oc, e a t l ave s faill, uzi a. [Buon Amor dà medicina per guarire il suo compagno; un falso amore lo conduce a perdizione. Ah! Finché du a la i hezza, al folle l’a o se a gioioso, si, e strepita quando viene meno]. Coind cembel fai cor trayna tro capell abrico, del i t o e la a i a entrebescat oc e no..Ai! «Tal amei blanc, bru o bai, ainsi farai! non farai!», oc, fai al fol ag a l es hi a. [Grazioso zimbello attira il cuore fino alla punta rincalzata, dalla cima alla radice, mescolato il si col no. Ah! «Amai talmente bianco, bruno e baio: farò così! no, non farò!», si, fa magra la schiena al folle.] Do a o es d A o Fi a a a gi aut de aiso, e sa voluntatz la mastina o fai le ei a gosso..Ai!, d a i aisso · il i savai, u o. o duetz i plai,.oc, si cum Marcabruns devina. [No do a d’A o Fi o olei he a a il se vo di asa, e la volo tà l’i asta dis e o e o otolo levriero. Ah!, donde nascono i nobili malvagi: nessuno di loro fa ospitalità o placito, si, come annuncia Marcabru.] A est, i t a e la ozi a, cuitar lo fuoc e · l cuco e beu lo fum e · l con tina de sa dons, na Bona-fo..Ai!, [107]
jeu sai u soio e jai e part lo gran del blat lai;.oc, son seignor engirpaudina. [Questo h’e t a i u i a, soffia il fuo o e il fie o e eve il fu o, offus a la fi a della sua donna, dama Buona-fu! Ah!, so ben io come ci si corica e riposa, e come dal loglio si separa il grano; si, e svaluta il suo signore.] Cill ui a o A o fi a e viu de sa liurazo, Ho o s e Valo s l a li a, e Pretz, ses nuill ocaio..Ai!, ta t l afai an dic verai e no.ll cal aver esmai,.oc, del trut-lu ut de Aigli a. [Chi p e de da uo A o e e vive della sua azio e, i dis uti il e te l’esalta o O o , Valo e e P egio. Ah!, ta ta la p epa azio e, o pa ola ve itie a, e o gl’i po ta del la e to, si, del trut-lurut di donna Aiglina.] Ia non farai aplevina jeu pe la t o a E lo e s e te ssa follati a manten en contra razo..Ai!, u ieu dis e di e di ai que Amars et Amors brai,.oc, et qui blasma Amor bozina. [Non sarò mallevadore del poetar di messer Eblo, che avversando ragione continua il folle sforzo: ah!, diss’io, e di o e di ò he lui st illa A a e A o , si, e ringhia a chi biasima Amore.] ♫♫♫
L'AUTRIER JOST' UNA SEBISSA Autore della più antica pastorela mai attestata, "L'autrier, jost'una sebissa", Marcabru con questo nuovo genere pone in rilievo la futilità della lussuria, dove la tematica è quella dalla pastorella che osteggia le avances dell'interlocutore, oppure quella della donna che, avendo il marito alle Crociate, respinge fermamente i tentativi del seduttore.
L'autrier jost' una sebissa Trobei pastora mestissa, De joi e de sen massissa, Si cum filla de vilana, Cap' e gonel' e pelissa Vest e camiza treslissa Sotlars e causas de lana. [108]
[L’alt o gio o a a to a u a siepe trovai u ’u ile pasto ella, piena di gioia e di giudizio, ed era figlia di contadina: mantella e gonnella di pelle, veste e camicia di tela grossa, scarpe e calze di lana.] Ves lieis vinc per la planissa. Toza, fi·m ieu, res faitissa, Dol ai car lo freitz vos fissa. --Seigner, so·m dis la vilana, Merce Dieu e ma noirissa, Pauc m'o pretz si·l vens m'erissa, Qu'alegreta sui e sana. [Verso di lei venni per la pianura: Ragazza , dissi io, eatu a g aziosa, mi dispiace per il freddo che vi pu ge. “ig o e , ispose la villana, g azie a Dio e alla ia alia, poco mi importa se il vento mi scompiglia i capelli, pe h so o alleg etta e sa a. ] --Toza, fi·m ieu, cauza pia, Destors me sui de la via Per far a vos compaignia! Quar aitals toza vilana No deu ses pareill paria Pastorgar tanta bestia En aital terra, soldana. [ Ragazza , dissi esse e dol e, mi sono allontanato dal mio cammino per farvi compagnia, perché una ragazza di campagna come voi non deve senza una compagnia adatta pascolare tanto bestiame in uesta te a solita ia. ] --Don, fetz ela, qui que·m sia, Ben conosc sen e folia! La vostra pareillaria, Seigner, so·m dis la vilana, Lai on se tang si s'estia, Que tals la cuid' en bailia Tener, no·n a mas l'ufana. [ “ig o e , fe e lei, uale he io sia, so distinguere bene tra il senno e la stupidità. La vost a o pag ia , questo disse la villana, stia lì dove o vie e, pe h ’ hi ede di te e la al suo o a do, ma non ne ha alt o he l’appa e za. ] --Toza de gentil afaire, Cavaliers fon vostre paire Que·us engenret en la maire, Car fon corteza vilana. Con plus vos gart, m'etz belaire, E per vostre joi m'esclaire, Si·m fossetz un pauc humana [109]
[ Ragazza di o ile o dizio e, vostro padre fu un cavaliere, che vi generò in vostra madre, perché fu una cortese villana. Quanto più vi guardo, più mi sembrate bella, e ’illu i o pe la gioia he i aspetto da voi, se solo foste u po’ e evola. ] --Don, tot mon ling e mon aire Vei revertir e retraire Al vezoig et a l'araire, Seigner, so·m dis la vilana! Mas tals se fai cavalgaire C'atrestal deuria faire Los seis jorns de la setmana. [ “ig o e tutto il io lig aggio e la ia fa iglia vedo che risale e che appartiene alla va ga e all’a at o, sig o e , disse la villa a; a hi si spa ia pe avalie e dovrebbe farlo sei gio i alla setti a a. ] --Toza, fi·m ieu, gentils fada, Vos adastret, quam fos nada, D'una beutat esmerada Sobre tot' autra vilana! E seria·us ben doblada, Si·m vezi' una vegada, Sobira e vos sotrana. [ Ragazza , io fe i, u a fata gentile vi dotò, quando nasceste, di una bellezza meravigliosa, superiore a qualsiasi altra villana; e vi sarebbe raddoppiata se una volta potessi vedermi io di sop a e voi di sotto. ] --Seigner, tan m'avetz lauzada, Que tota·n sui enojada! Pois en pretz m'avetz levada, Seigner, so·m dis la vilana, Per so n'auretz per soudada Al partir : bada, fols, bada, E la muz'a meliana. [ “ig o e, i avete fatto ta te lodi che dovrei essere molto invidiata per questo. E poiché mi avete esaltata ei iei e iti , disse la villana, di iò av ete o e i o pe sa alla partenza: aspetta e spera sciocco, e u ’i utile pe dita di te po a ezzogio o. ] --Toz', estraing cor e salvatge Adomesg' om per uzatge. Ben conosc al trespassatge Qu'ab aital toza vilana Pot hom far ric compaignatge Ab amistat de coratge, Si l'us l'autre non engana.
[110]
[“Ragazza, un cuore schivo e selvaggio si doma con la consuetudine. Ben capisco, andando avanti, che con tale ragazza di campagna si può fare una buona compagnia con amicizia di cuore, senza che ci si inganni a vicenda. ] --Don, hom coitatz de follatge Jur' e pliu e promet gatge: Si·m fariatz homenatge, Seigner, so·m dis la vilana! Mas ieu, per un pauc d'intratge, Non vuoil ges mon piucellatge, Camjar per nom de putana. [ “ig o e, l’uo o he è preso nella sua stupidità giura e garantisce e promette ricompense; così mi rendereste omaggio, sig o e , uesto disse la villa a; a pe u ise o guadag o io non voglio scambiare la mia verginità o il o e di putta a. ] --Toza, tota creatura Revertis a sa natura: Pareillar pareilladura Devem, ieu e vos, vilana, A l'abric lonc la pastura, Car plus n'estaretz segura Per far la cauza doussana. [ Ragazza, og i eatu a ritorna alla natura; noi dobbiamo prepararci a fare coppia, io e voi, villana,a riparo della siepe lungo il pascolo, dove sarete più sicura pe fa e la dol e osa. ]
--Don, oc! mas segon dreitura Cerca fols sa follatura, Cortes cortez' aventura, E·il vilans ab la vilana! En tal loc fai sens fraitura On hom non garda mezura, So ditz la gens anciana. [ “ig o e, sì; a a uo di itto lo stupido cerca la stupidità, il cortese l’avve tu a ortese, e il villano la villana! Viene meno il giudizio là dove non si conserva la misura, osì di o o i ve hi. ] --Toza, de vostra figura Non vi autra plus tafura Ni de son cor plus trefana. [ Bella, o ho visto essu ’alt a della vostra bellezza più perfida e più t adit i e el suo uo e. ] --Don, lo cavecs vos ahura, [111]
Que tals bad' en la peintura Qu'autre n'espera la mana. [ “ig o e, la ivetta vi dà il malaugurio, pe h manna. ]
’
hi si i a ta dava ti a u dipi to e chi aspetta la
♫♫♫
LO VERS COMENS QUAN VEI DEL FAU Questa è una composizione politico-moralizzante, nella quale Marcabru teorizza quello stile e quel modo di essere che egli stesso definisce trobar na-turau. Il vero tratto caratterizzante del brano è la saldatura fra poetica e morale: dopo l’esordio stagionale, nella seconda cobla il poeta apre un’inaspettata polemica contro i menut trobador bertau entrebesquill (“i piccoli insignificanti trovatori mistificatori intrecciatori di versi”), ai quali imputa un chiacchiericcio fastidioso quanto superficiale. Si tratta della prima volta che Marcabru lancia i suoi strali contro altri trovatori accusandoli di diffondere una morale sbagliata, anzi di inquinare la poesia con una anti-morale. Lo vers comens quan vei del fau Ses foilla lo cim e·l branquill, C'om d'auzel ni raina non au Chan ni grondill, Ni fara jusqu'al temps soau Qu·el nais brondill. [Comincio il vers quando vedo senza foglia la cima e i rami del faggio, quando d’u ello o di a a o s’ode il canto né gracidio, e non co sarà fino alla stagione soave, quando il nocciòlo mette le foglie nuove.] E segon trobar naturau Port la peir' e l'esc' e'l fozill, Mas menut trobador bergau Entrebesquill, Mi tornon mon chant en badau En fant gratill. [Come richiede il poetare schietto, porto la piet a e l’es a e l’a ia i o, ridicolo il mio canto in baia e ne fanno beffe.]
a poetucoli miserabili mettono in
Pretz es vengutz d'amont aval E casegutz en l'escobill, Puois avers fai Roma venau, Ben cuig que cill Non jauziran, qui·n son colpau D'aquest perill. [Il merito è disceso da monte a valle e caduto nella spazzatura, poiché il denaro fa Roma venale; ben credo che non ne godranno quelli che sono colpevoli di questo danno!] [112]
Avoleza porta la clau E geta Proez' en issill! Greu parejaran mais igau Paire ni fill! Que non aug dir, fors en Peitau, C'om s'en atill. [Viltà è padrona, e smanda in esilio Prodezza. Difficilmente accadrà i figli diventeranno uguali ai padri,perchè non sento dire, tranne che in Poitou, che alcuno se ne dia cura.] Li plus d'aquest segle carnau Ant tornat joven a nuill, Qu'ieu non trob, de que molt m'es mau, Qui maestrill Cortesia ab cor leiau, Que noi·s ranquill. [I più di questo secolo carnale han volto Giovinezza in schiamazzo, poiché io non trovo, e di ciò molto mi duole, qualcuno che insegni loro la cortesia con cuore leale, che non sia diventato zoppo.] Passat ant lo saut vergondau Ab semblan d'usatge captill! Tot cant que donant fant sensau, Plen de grondill, E non prezon blasme ni lau Un gran de mill. [Han passato i limiti della vergogna: a si iglia za di o e usa pe l’acaptum, tassano tutto quanto ciò che donano, pieni di scontrosità, e non danno a biasimo o lodeil valore di un chicco di miglio.] Cel prophetizet ben e mau Que ditz c'om iri' en becill, Seigner sers e sers seignorau, E si fant ill, Que·i ant fait li buzat d'Anjau, Cal desmerill. [Ben fu profeta del bene e del male chi disse che il mondo andrà alla rovescia: il signore comportarsi da servo e il servo da signore; e così fanno essi: poiché le poiane d’A giò calarono come sparvier.] Si amars a amic corau, Miga nonca m'en meravill S'il se fai semblar bestiau Al departill, Greu veiretz ja joc comunau Al pelacill. [“e l’amar sensuale habun cuore amico, non me ne meraviglio se sembra una bestia al momento della separazione: o ved ai ai u gio o o ale el gio o d’a o e!] Marcabrus ditz que noil l'en cau, Qui quer ben lo vers e·l foill [113]
Que no·i pot hom trobar a frau Mot de roill! Intrar pot hom de lonc jornau En breu doill. [Marcabru dice che non gliene importa se alcuno scavi il suo verso con una lama, poichè non vi si può scoprire una parola impura nascosta anche se con una lunga giornata di fatica si entri nel più minuto meandro.] ♫♫♫
PAX IN NOMINE DOMINI In questa Pax in nomine Domini, meglio conosciuta con il nome dei Vers del lavador (“Versi o della canzone del lavatoio”), Marcabru paragona la partecipazione alle Crociate a un “lavatoio” in cui qualsiasi cavaliere e combattente cristiano poteva, anzi doveva, "lavarsi", cioè purificarsi dai peccati. Messo alla prova della sua vera fede ma anche della purificazione dell'anima con la certezza di guadagnarsi lì il Paradiso, Marcabru sottolinea i peccati di lussuria e la mancanza di fede dei suoi contemporanei. Riguardo ai nobili e ai signori a cui il poeta medievale allude in questo canzone, per identificarli dobbiamo considerare innanzitutto la datazione della composizione, che secondo molti sarebbe la seconda metà dell'anno 1149. Un anno prima, la seconda Crociata si era arenata davanti a Damasco e, all'inizio dell'anno 1149, il re francese Luigi VII revocò l'assedio ponendo in tal modo fine alla spedizione: questo probabilmente spiega le critiche che Marcabru rivolse ai francesi, nella sua ultima strofa. Da parte spagnola, il conte di Barcellona Raimond-Berenguer IV intorno al 1147 aveva riconquistato ai Mori Tortosa, ereditando così il titolo di marchese di Tortosa. È senza dubbio di lui che il trovatore ci parla nella penultima strofa di questa poesia. Per quanto riguarda il conte defunto del quale Marcabru parla alla fine della canzone, gli storici suppongono che sia Raimondo di Poitier (1098-1149), anche se il suo titolo nobiliare era principe di Antiochia e non Conte come citato nella canzone. A favore della tesi, Raimondo d'Antioca morì durante la battaglia di Inab (29 giugno 1149), durante la presa di Antiochia da parte del sultano Nur ad-Din. Marcabru avrebbe scritto i suoi versi poco dopo aver appreso la [114]
tragica notizia, e ciò spiegherebbe la frase: “Antiochia, il tuo prezzo e il tuo valore sono pianti qui da Guyenne e Poitou." Riguardo al luogo in cui il trovatore ha scritto i suoi versi, anche qui le opinioni non sono chiare: potrebbe averli scritti mentre era alla corte spagnola (probabilmente al servizio di Alfonso VII) o, come potrebbe suggerire la canzone, mentre era ancora in Aquitania.
TESTO: Pax in nomine Domini! Fetz Marcabrus los motz e · l così. Aujatz que di: Cum no a fait, per sa doussor, Lo Seingnorius celestiaus Probet de nos un lavador, Dai, fors outramar, no · fon taus, En de lai deves Josaphas: E l'aquest de sai vos conort. [Pace nel nome di Dio! Marcabru ha scritto il testo e la musica. Ascolta quel che dice: Come il Signore celeste ci ha fatto con la sua bontà, così ha creato per noi un lavatoio come mai non esistito, tranne che oltremare, a Giosafat: ed è da quello che vi esorto.] Lavar de ser e de maiti Nos deuriam, segon razo, Ie · us o afi. Chascus a del lavar legor! Domentre qu'el es sas e saus, Deuri 'anar al lavador, Que · ns es verais medicinaus! Que s'abans anam a la mort, D'aut en sus aurem alberc bas. [Dovremmo lavarci la mattina e sera, se fossimo ragionevoli, te lo assicuro. Tutti hanno il tempo di lavarsi! Finchè si è ancora vivi, tutti dovrebbero andare al lavatoio, che è un vero elisir di salute! Perché se moriamo prima di allora invece che in alto, abiteremo in profondità.] Mas Escarsedatz e No-fes Parte Joven de son compaigno. Ai cals dols es, Que tuich volon lai li plusor, Don lo gazaings es enfernaus! Sanz non correm al lavador C'ajam la boca ni · ls huoills claus, non i a un d'orgoill tan gras c'al morir non trob contrafort. [115]
[Ma la cattiva volontà e la mancanza di fede dividono i giovani dai propri compagni. Ahimè! Che dolore è che il maggior numero vola dove la i o pe sa l’I fe o! Se non corriamo al lavatoio prima che la nostra bocca e gli occhi siano chiusi, non c'è uomo così gonfio di orgoglio che non troverà ila sua corrispondenza nella Morte.] Que · l Seigner que sap tot quant es E sap tot quant er e c'anc fo, No prometto Honor e nom d'emperador. E · il beutatz sera, --sabetz caus-De cels qu'iran al lavador? Inoltre que l'estela gauzignaus! Ab sol que vengem Dieu del tort Que · ill fan sai, e lai vas Domas. [Perchè il Signore, che sa tutto ciò che è, e tutto ciò che sarà ed è stato, ci ha promesso onore in nome dell'imperatore. E sai cosa, che la bellezza sarà quella di chi andrà al lavatoio? Più grande di quella della stella del mattino, a condizione che vendichiamo Dio per il torto che è stato fatto qua e là, verso Damasco.] Probet del lignatge Cai, Del primeiran home felho, A tans aissi C'us a Dieu non porta honor! Veirem qui · ll er amics coraus! C'ab la vertut del lavador Nos sera Jhezus comunaus! E tornem los garssos atras Qu'en agur crezon et en sort. [Certo della razza di Caino, di quel primo criminale, eccone tanti qui che non onorano Dio! Vedremo chi sarà il suo sincero amico perché, in virtù del lavatoio, Gesù sarà con tutti noi. E respingiamo da noi i miserabili che credono nei presagi e negli incantesimi.] E · il luxurios corna-vi, Coita-disnar, bufa-tizo, Crup-en-cami Remanran inz el felpidor! Dieus vol los arditz è sua madre Assajar a son lavador! E cil gaitaran los ostaus! E trobaran fort contrafort, Quindi, per qu'ieu a lor anta ls chas. [E quei lussuriosi bevitori di vino, divoratori di pasti, soffiatori di brace, accovacciati sulla strada, rimarranno sul letame. Dio vuole mettere alla prova l'audacia nel suo lavatoio! E quelli veglieranno sulle loro case! E troveranno un avversario difficile, per cui, con loro vergogna, li scaccio via.] [116]
En Espaigna, sai, lo Marques E cill del temple Salamo Sofron lo pes E · l fais de l'orguoill paganor, Per que Jovens cuoill avol laus. E · l critz per acquest lavador Versa sobre · ls plus rics captaus Fraitz, faillitz, de proeza las, Que non amon Joi ni Deport. [In Spagna, qui, il Marchese e quelli del tempio di Salomone subiscono l'onere e il peso dell'orgoglio dei pagani in modo che i giovani ricevano cattive lodii. E la colpa, a causa di questo lavatoio, cade sui più potenti signori, distrutti, falliti, privi di prodezza, che non amano né gioia né dispiacere.] Desnaturat son li Frances, Si de l'afar Dieu dizon no, Qu'ie · us ai arriva. Antiocha, Pretz e Valor Sai plora Guiana e Peitaus. Dieus, Seigner, al tieu lavador E sai gart Peitieus e Niort Lo Seigner qui ressors del vas. [I francesi sono depravati se si rifiutano di sostenere Dio, poiché io li ho esortati. Antiochia, il tuo prezzo e il tuo valore sono pianti qui da Guyenne e Poitou. Dio, Signore, nel tuo lavatoio, dai pace all'anima del conte, e qui, possa il Signore che è risorto dalla tomba custodire Poitiers e Niort.]
DISCOGRAFIA Non esiste, che io sappia, un disco in commercio in Italia dedicato esclusivamente alla musica di Marcabru. Nelle raccolte discografiche dedicate alle musiche dei trovatori ho trovato (e non sempre) una o al massimo due sue composizioni e quasi sempre sono gli stessi brani… Vedo di dare qualche indicazione.
♫ L'autrier jost'una sebissa La mia incisione preferita, ben registrata, è quella dell’Ensemble La Reverdie, un gruppo vocalestrumentale italiano che esegue musiche polifoniche medioevali e rinascimentali. La musicalità dei [117]
componenti di La Reverdie è eccezionale, e le abilità vocali della cantante Elisabetta de Mircovich sono di prim'ordine. Album: Bestiarium - Nuova Era.
♫ Lo vers comens Raccomando la versione di Ensemble Céladonn diretta dal controtenore Paulin Bündgen, che qui è la voce solista. Album: Nuits occitanes, Troubadours' Songs - Ricercar.
♫ Bel mes quan son li fruch madur Molto interessante e ben suonata l’interpretazione del trio medievale Ensemble Tre Fontane. Album: Le chant des troubadours vol.1: Aquitains - Alba musica.
♫ Pax in nomine Domini Inarrivabile l’interpretazione di Jordi Savall con La Capella Reial De Catalunya, Hespèrion XXI e Montserrat Figueras. Album: Jérusalem - Alia Vox
[118]
Melomania: la pagina della Lirica
Andrea ChĂŠnier di
Umberto Giordano
[119]
GENESI DELL’OPERA La figura storica di Andrea Chénier Andrea Chénier è un personaggio storico realmente esistito. Nacque a Costantinopoli il 30 Ottobre 1762. Poeta ed appassionato patriota, al tempo della Rivoluzione francese
fu un autorevole
membro del Club dei Feuillants (Foglianti), un movimento nato all’indomani dell’arresto del re Luigi XVI a Varennes. Favorevole ad una monarchia costituzionale, il gruppo disponeva tra l’altro di un organo di stampa, “Le Journal de Paris”, sul quale comparivano anche gli articoli antirivoluzionari di Chénier. Il movimento prendeva nome dal Convento dei Feuillantes, luogo dove si svolsero le loro prime riunioni. Chénier venne arrestato a Parigi nel 1794 durante il periodo del Terrore. Nella prigione di Saint-Lazare, dove era stato portato per essere processato, nonostante i capi di accusa si andassero accumulando contro di lui, egli continuò a scrivere i suoi Vers contro gli uomini che insanguinavano la Francia. Il poeta fu condannato a morte la mattina del 7 termidoro, come partigiano del tiranno, e giustiziato mediante ghigliottina il pomeriggio, due giorni prima della caduta di Robespierre. In seguito la sua figura venne assurta a simbolo di libertà e di purezza.
La travagliata nascita dell’0pera Umberto Giordano (1867-1948) viene comunemente compreso fra i musicisti facenti parte della cosiddetta Giovane Scuola, che nel decennio dal 1890 al 1900 - racchiuso tra lo strepitoso successo di Cavalleria Rusticana (seguita due anni dopo da Pagliacci di Ruggero Leoncavallo) e Tosca di Giacomo Puccini - misero in scena una lunga serie di opere che terminavano con morti violente per amore o per onore, sulla scia del verismo letterario. L’esordio di Giordano come compositore fu stentato. Nel 1888 l’editore Edoardo Sonzogno indisse un concorso per compositori esordienti per una nuova opera in un atto. La vicenda è nota perché a vincere fu Cavalleria Rusticana del venticinquenne Pietro Mascagni che con quell’opera, vero manifesto del nascente verismo, conobbe fama e onori. Tra i 73 musicisti che parteciparono al concorso c’era anche Umberto Giordano, la cui opera Marina si classificò sesta, suscitando comunque l’interesse di parte della giuria “per la qualità di una musica che appariva forte, originale, affermazione di un ingegno brillantissimo”; fu invece bocciato il libretto definito “senza vita drammatica, senza tipi e senza ambiente”. [120]
L’editore Sonzogno [ ell i
agi e] volle quindi proporre a Giordano di
scrivere una nuova opera. Nacque così nel 1892 Mala vita, tratta da un dramma di Salvatore Di Giacomo, che narra di un lavoratore che fa voto di recuperare una prostituta sposandola, in cambio della guarigione dalla tubercolosi. L’opera abbondava di folklorismo, con canti alla napoletana e danze caratteristiche ambientate nei bassofondi partenopei, che ne facevano il perfetto esempio di un esotismo mediterraneo da esportazione. Mala vita ebbe un successo controverso: osannata a Vienna e a Berlino, fu poco apprezzata a Napoli tanto da costringere il librettista napoletano Nicola Daspuro a riscrivere parte del libretto, eliminando vari personaggi e riducendo l’aspetto folkloristico. L’opera comunque cadde rapidamente nel dimenticatoio. Nonostante l’insuccesso di Mala vita, Sonzogno volle continuare a puntare su Giordano, anche se i rapporti fra i due si erano fatti progressivamente più tesi. Giordano compose Regina Diaz (1894) di soggetto più romantico, ma anche in questo caso l’opera ebbe un’accoglienza assai tiepida, sufficiente a fare perdere le staffe a Sonzogno, il quale affrontò il compositore a muso duro, rinfacciandogli di essere completamente privo di talento, e lo licenziò. Giordano, a quel punto, pensò addirittura di abbandonare la carriera operistica per dedicarsi al suo sogno di diventare direttore di una scuola di scherma. Il compositore foggiano riuscì però a ottenere una ulteriore prova di appello grazie all'interesse dell'amico Alberto Franchetti, intervenuto presso lo stesso Sonzogno e capace di ricomporre i "pezzi" del contratto da 300 lire al mese. L'opzione di Franchetti sul libretto che narrava del poeta rivoluzionario Chénier convinse l'editore, anche perché si stava parlando di un testo curato da Luigi Illica [nella foto a dx] che in quel momento era uno dei librettisti più ricercati in Italia e in assoluto il più impegnato: oltre ad Andrea Chénier, stava preparando per Franchetti anche Tosca, successivamente passata nelle mani di Puccini, e per lo stesso Puccini stava ultimando, assieme a Giuseppe Giacosa, la Bohème. Per sfruttarne al meglio il lavoro, Giordano si trasferì a Milano, prendendo alloggio addirittura nello stesso stabile dove alloggiava Illica, anche se, non potendosi permettere un affitto dignitoso, trovò una modesta sistemazione nel magazzino di un’agenzia di pompe funebri, uno stanzone nel quale dormiva, mangiava e lavorava. Quando Illica gli consegnò il libretto, Giordano ne fu molto contento perché esso aveva un ampio respiro storico e aveva quell’autonomia drammatica consono al suo stile compositivo. Infatti egli prediligeva che il testo avesse una sua libertà, affidando all’orchestra il compito di commentare, interpretare e ridefinire ciò che accade nella scena, quasi che la parte strumentale rivestisse il ruolo [121]
che nella tragedia greca ricopriva il coro. Giordano lavorò alla partitura dalla primavera del 1894 alla fine del gennaio 1896, apportando solo qualche modifica al libretto originale. Malgrado il parere sfavorevole di Amintore Galli, allora consulente di Casa Sonzogno, l’opera andò in scena al Teatro alla Scala il 28 Marzo 1896. Il successo dell'opera fu indiscusso. Fu un trionfo per il tenore Giuseppe Borgatti, chiamato all’ultimo momento per sostituire il protagonista prescelto Alfonso Garulli. Sembra che i precedenti insuccessi di Borgatti abbiano avuto un ruolo essenziale nella scelta del nuovo tenore, voluto fortemente da Illica. Borgatti, infatti, era "abituato" ai fischi dei teatri e quindi non avrebbe avuto problemi ad affrontarne altri in una prima rappresentazione così rischiosa. Borgatti strappò il libretto dalle mani di Illica e corse a studiare la parte senza indugiare oltre. In base a quanto è stato ricostruito, gli furono necessarie sei ore per imparare tutto quello che serviva. Oltre a Borgatti, chiamato a bissare l'"Improvviso" del primo atto, il trionfo venne garantito dalla direzione d'orchestra di Rodolfo Ferrari, dal soprano Evelina Carrera nel ruolo di Maddalena, e dal baritono Mario Sammarco, in quello di Gérard. Per Giordano le chiamate alla ribalta furono una ventina, mentre Illica aveva preferito non partecipare alla prima rappresentazione, visto che alcuni tagli al libretto lo avevano indispettito.
[Giuseppe Borgatti – Evelina Carrera - Mario Sammarco] [Nota. Borgatti riuscì a completare una carriera di tutto rispetto, impreziosita da importanti partecipazioni alle prime esecuzioni italiane delle opere di Richard Wagner. Nel 1904 venne addirittura invitato al Festival di Bayreuth, diventando il primo cantante di origini latine a ricevere questo onore. Il ritiro dalle scene avvenne nel 1915, a 44 anni, dato che la cecità non gli dava più [122]
scampo. Dopo aver dedicato tanti anni all'insegnamento con una sua scuola a Bologna, morì nel 1950 a Reno di Leggiuno, sul Lago Maggiore.] Andrea Chénier è rimasto tuttora uno dei titoli immancabili e stabili dei teatri di tutto il mondo, l’unica tra le opere di Giordano. Chénier è un grande affresco dove brulica l'umanità della Francia rivoluzionaria sotto il Terrore.
Nella caratterizzazione dei comprimari Giordano dimostra l'autenticità del suo istinto teatrale: lo svenevole Abatino che narra gli oltraggi ricevuti a Parigi dalla statua di Enrico IV, la Contessa che depreca i guasti del leggere gli enciclopedisti, la mulatta Bersi che si prostituisce per salvare la padrona in disgrazia, il rozzo sanculotto Mathieu che impreca contro le coalizioni antifrancesi, l'ironia dell'Incredibile, la spia-moralizzatrice di Robespierre (anzi osservatore dello spirito pubblico), la vecchia Madelon che offre alla Rivoluzione anche il suo ultimo figlio, la malafede degli alti magistrati che comminano la ghigliottina ad libitum, la ferocia delle tricoteuses, la magliaie giacobine eccitate dal macello degli ex-padroni, i poveri che muoiono di fame e rovinano il ballo della Contessa.
Il romanzo di Joseph Mery Joseph Méry (1797-1866) [nella foto] fu giornalista, romanziere, poeta, drammaturgo e librettista. In collaborazione con Camille du Locle scrisse il libretto del Don Carlos per Giuseppe Verdi (1867. Nel 1849 pubblicò a puntate sul giornale Le Pays il romanzo André Chénier, che uscì nello stesso anno in tre volumi e che ebbe in seguito sette edizioni dovute al successo riscosso presso i lettori. André Chénier narra una storia d’amore fra un personaggio storico, della cui vita ripercorre alcuni momenti (l’abbandono di Parigi diventata per lui pericolosa a causa dei suoi scritti contro le violenze giacobine, il rifugio a Versailles in oscura solitudine, l’arresto fortuito, [123]
il processo e la condanna alla ghigliottina) e una giovane nobile, Marguerite contessa di Pressy (personaggio di fantasia), che morirà di dolore come una eroina di melodramma, nel momento in cui la mannaia tronca la testa del poeta. In un romanzo d’amore non può mancare il rivale, impersonato in questo caso dal governatore di Versailles, Claude Mouriez, un accanito giacobino preso da sfrenata e violenta passione per la fanciulla. Questo personaggio dà luogo a qualche pagina ironica, quando il nipote Adrien, ben più assennato dello zio, gli rivolge aspri rimproveri poiché si lascia vincere dalle passioni amorose invece di dedicarsi solo ai destini della Francia rivoluzionaria, rimproveri accolti benevolmente dall’uomo, molto affezionato al giovane. La figura di Chénier viene molto esaltata da Méry, anch’egli contrario alla violenta e sanguinaria tirannia di Robespierre come il poeta, visto come nobile e ultima vittima necessaria perché brillasse l’alba del 9 termidoro, che ad essa mise fine. Non manca però nell’ultimo capitolo del romanzo un elogio al patriottismo dei francesi, che difesero il loro paese sul campo di battaglia, come Mouriez e il nipote Adrien i quali, abbandonata la politica dopo la morte di André e di Marguerite, lasciano Parigi e si arruolano come soldati semplici: “Quelle admirable époque pour la vie des camps!” è la frase che conclusiva (Epoca mirabile per la vita sui campi di battaglia!). Il romanzo di Méry appartiene alla categoria del romanzo storico, infarcito di avventure sentimentali, per il quale l’autore raccolse un’abbondante documentazione e nel quale il protagonista è dipinto più come amante cavalleresco e generoso, che disprezza la morte, che come poeta: la sua opera poetica è evocata solo con una citazione dei suoi ultimi versi e con una strofe, improvvisata quando vede Roucher salire sulla carretta, che è un “médiocre patiche” (mediocre imitazione).
Il libretto di Luigi Illica Andrea Chénier fu il primo saggio di melodramma verista storico-avventuroso. Illica volle ricostruire con cura e dovizia di particolari l’ambiente e gli avvenimenti storici, e in ciò fu aiutato dall’Histoire de la Société française pendant la Révolution (1854) dei fratelli Ėmile e Edmond Goncourt. La sua fonte di ispirazione della vicenda fu però il romanzo André Chénier di François-Joseph Méry: i quattro quadri dell’opera di Umberto Giordano riprendono infatti quattro episodi del romanzo. Nel romanzo l’incontro tra Chénier e Marguerite (che nell’opera diverrà Maddalena) avviene a una festa nel 1788, cui partecipano il musicista Luigi Cherubini, l’abate Delille (poeta di una certa rinomanza, anch’egli autore di poemi in cui esalta la natura) e un certo Florian con le sue bergeries allora di moda in Francia. Questo primo incontro dei due giovani è messo in scena nel primo atto dell’opera, nel castello dei Coigny. Nel quarto capitolo del romanzo Chénier rivela all’amico Jean Antoine Roucher (poeta anch’egli, che ottenne una certa notorietà col poema in dodici canti Les Mois [124]
[“I Mesi”], che si rifanno alla poesia della natura, allora molto in voga; in realtà i due poeti si conobbero in prigione) di aver ricevuto una lettera senza firma da una donna, che gli rimprovera di aver abbandonato la sua vera vocazione, la poesia, per la politica, scrivendo “pamphlets vulgaires” e intavolando “tristes querelles” col fratello Marie-Joseph. Roucher ha procurato a Chénier, ormai inviso ai giacobini, un passaporto affinché possa espatriare, ma che egli rifiuta. Questo episodio è stato ripreso da Illica nel secondo atto dell’opera, dove avviene l’incontro fra Andrea e la donna sconosciuta (Maddalena di Coigny), il loro riconoscersi e il duello del poeta con Carlo Gérard. Il duello nel romanzo ha luogo fra il marito di Marguerite e Mouriez, l’accanito giacobino innamorato di lei, governatore di Versailles, ove i protagonisti hanno trovato rifugio. Mouriez corrisponde al Gérard dell’opera, ambedue convinti rivoluzionari, ma ambedue trascinati da una violenta passione: “trop sensuel” è definito Mouriez, “un servo obbediente di violenta passione” dice di se stesso Gérard. Lo scontro fra l’innamorato Mouriez e l’orgogliosa nobildonna ormai rimasta vedova e che vorrebbe aiutare André arrestato, avviene nel cap. XXXIV e corrisponde all’incontro fra Gérard e Maddalena nel terzo atto dell’opera. Sia Mouriez sia Gérard ritrovano la loro dignità di fronte all’amore della donna per Chénier e tentano invano di salvarlo. Nel romanzo il poeta, durante il processo, contesta l’atto d’accusa, che contiene inesattezze, come quella relativa alla sua partecipazione alle azioni antirivoluzionarie del generale Dumouriez (il tribunale ha confuso André con suo fratello Louis Sauveur). Nell’opera Illica affida ad Andrea versi coi quali rivendica orgogliosamente di aver servito la patria con le armi (ma Chénier non è mai stato soldato, salvo un breve periodo di formazione, alla fine del quale non riuscì ad ottenere la nomina a sottotenente) e con la penna, versi che ci ricordano le invettive dei giambi scritti dal poeta durante la prigionia: “Ho fatto di mia penna arma feroce contro gli ipocriti!”. Lo uccidano, ma non gli tolgano l’onore. In questo episodio Illica affida al suo eroe il verso “passa la vita mia come una bianca vela”. Il finale dell’opera si stacca dal romanzo, nel quale Marguerite assiste alla morte del suo amato sulla ghigliottina. Nell’opera invece librettista e musicista danno un risalto appassionato e vocalmente entusiasmante al destino dei due giovani: mentre l’alba incomincia ad illuminare la prigione, essi travolgono lo spettatore col loro duetto e si avviano assieme alla morte. Da sottolineare alcuni errori nel libretto. Il processo fa seguito immediato all’arresto del poeta, e non cita i mesi di prigionia che egli trascorse prima di essere condannato. Il processo ebbe luogo al mattino e la sentenza fu eseguita alle sette del pomeriggio, non all’alba come appare, con effetto scenico più evidente, nell’opera. Nella realtà i condannati passavano la loro ultima notte prima del processo alla Conciergerie, per poi essere condotti al mattino direttamente al tribunale, nei cui locali, dopo essere stati privati degli effetti personali, subivano il taglio dei capelli e del collo della camicia. Nell’opera inoltre Roucher al quarto atto non appare come condannato, ma come amico, presente per dare l’estremo addio a Chénier e riceverne gli ultimi versi.
[125]
Anche il personaggio dell’eroina, Maddalena di Coigny, non corrisponde alla verità storica: Françoise-Aimée de Coigny,
arrestata nel febbraio 1794, conobbe effettivamente in prigione Andrea Chénier - che a lei dedicò La jeune captive, simbolo della giovinezza che ama disperatamente la vita - , ma nella realtà la
giovane prigioniera non fu innamorata del poeta, né salì sul patibolo: liberata col 9 Termidoro, scampò alle purghe del Terrore e morì nel 1820, dopo una vita intessuta fra intrighi politici e morali.
“Io esprimo, a malincuore, questa fatale verità, ma Luigi deve morire perché la Patria viva”. (Maximilien de Robespierre)
[126]
[Cartellone dell A d ea ChĂŠ ie . I augu azio e del Teat o alla â&#x20AC;&#x153; ala di Mila o stagio e
[127]
-2019]
GUIDA ALL’ASCOLTO QUADRO I E’ il 1789, poco tempo prima dell’estate che vedrà l’avvento della Rivoluzione francese con la presa della Bastiglia. L’atmosfera delle tensioni sociali ormai pronte ormai pronte ad esplodere è pienamente manifesta: la musica la sottolinea con sonorità a tratti vibrante. L’azione non si svolge a Parigi, bensì in campagna nel Castello dei Conti di Coigny, luogo nel quale storicamente il vero Chénier veniva spesso invitato in ragione dei suoi legami di amicizia e di parentela con gli ambienti aristocratici francesi. Una rapida introduzione sottolinea, con i veloci disegni ornamentali dei violini e dei flauti alternati, l’atmosfera ancora galante e serena. Sono in corso i preparativi per la festa che la contessa di Coigny intende dare nel suo castello. Un fraseggio più scuro dei flauti sottolinea il mutamento emotivo della scena. Il giovane servitore Gérard è intento a rassettare il sofà e rimugina fra sé il disprezzo per i padroni. Solo un membro della famiglia si salva dal suo odio: la contessina Maddalena, della quale è segretamente innamorato. Gli ottoni introducono cupamente una melodia espressiva, intonata da flauti e oboi, e con gli archi a complemento: serve ad accompagnare la comparsa dell’anziano padre di Gérard, anch’egli servitore e pateticamente costretto al lavoro malgrado l’età avanzata. GERARD. Son sessant'anni, o vecchio, che tu servi! A' tuoi protervi, arroganti signori hai prodigato fedeltà, sudori, la forza dei tuoi nervi, l'anima tua, la mente, e, quasi non bastasse la tua vita a renderne infinita eternamente l'orrenda sofferenza, hai dato l'esistenza dei figli tuoi. Hai figliato dei servi! (asciuga le lagrime poi torna a guardare fieramente intorno a sè la gran serra). T'odio, casa dorata! L'immagin sei d'un mondo incipriato e vano! Vaghi dami in seta ed in merletti, affrettate, accellerate le gavotte gioconde e i minuetti! Fissa è la vostra sorte! Razza leggiadra e rea, figlio di servi, e servo, qui, giudice in livrea, ti grido: È l'ora della morte! Il canto di Gérard è carico di rabbia e furore, alcune note vengono raddoppiate dai corni, a rimarcare la drammaticità non convenzionale del suo grido di dolore e rivolta; nella chiusa finale del canto compaiono anche minacciosi i timpani, su un accompagnamento più scandito degli archi. (Da notare che Illica mette in bocca a Gérard alcuni versi scritti dal vero Chénier nel suo Hymne à la Justice). Dopo la durezza che conclude l’invettiva del giovine servitore, il suono diventa improvvisamente più vaporoso ed etereo. Appaiono in scena, al di là dell’ingresso della serra, la Contessa di Coigny, sua figlia Maddalena e la cameriera Bersi. Su un accompagnamento di archi leggerissimo Maddalena contempla il tramonto e la quiete che ad esso si associa. Ascoltandola in disparte, guardandola ammirato, le fa eco un commosso Gérard. E’ una sorta di duetto a distanza, nel quale i personaggi incrociano la voce senza interagire in scena, concluso da
[128]
una cadenza del flauto e dell’arpa che commenta, lasciandole spegnere in dissolvenza, le parole “Eterna canzon!” Questo clima assorto è interrotto dall’arrivo dei violini, cambia l’atmosfera, riprende la cornice mondana e salottiera, con la Contessa che controlla altezzosa che i preparativi siano senza imperfezioni. I dialoghi con Gèrard sono sottolineati da una scala ascendente dell’oboe cui fanno eco i violini con guizzi e pizzicati. La Contessa rimprovera la figlia ancora in vestaglia e poi va a controllare che nulla manchi anche nelle sale superiori. Rimangono Maddalena e Bersi: la prima manifesta la sua insofferenza per il mondo che la circonda (“Soffoco, moro tutta chiusa”), e corre via a vestirsi. Gli ospiti stanno arrivando.
[Andréa Chenier, quadro I. Teat o dell Ope a di ‘o a.
]
La Contessa accoglie con affettazione le dame e i cavalieri che entrano a coppie accompagnati da una pagina orchestrale che sottolinea il clima festoso. Sono gli archi a condurre il discorso, con un crescendo che coinvolge i fiati, la tromba e le percussioni. Poi il suono si acquieta con l’intervento dell’oboe per dare voce alla Contessa che rivolge agli invitati frasi di circostanza. Entrano in scena il romanziere Fléville, d’età avanzata, il giovane poeta Andrea Chénier e il musicista Fiorinelli. L’orchestra si accende per l’arrivo dell’Abate e accompagna con un timbro scuro e minaccioso le informazioni che questi dà sull’evolversi inquieto della situazione sociale. Fléville invita comunque a passare la serata in allegria, ma la sua è una voce flebile, senza alcun sostegno orchestrale. Entrano quindi in scena alcune pastorelle che si mettono attorno al vecchio romanziere e intonano il coro pastorale composto da Fléville stesso, che scoppia quasi in lacrime per la commozione. [129]
CORO. O Pastorelle, addio, addio, addio! Ci avviamo verso lidi ignoti e strani! Ahi! Ahi! sarem lungi diman! Questi lochi abbandoniamo! Ahi! Ahi! Non avrà fino al ritorno più gioie il cor! Ahi! Ahi! sarem lungi diman! O pastorelle addio, o pastorelle addio! Ah! Ah! Sarem lungi diman! Ah! Addio! Addio! Ah! Ah! Addio! Ah! Ah!
[Coro delle pastorelle. Teatro comunale di Bologna. 2006]
La Contessa invita Chénier a recitare propri versi davanti gli ospiti, ma egli rifiuta. Maddalena scommette allora con le amiche che riuscirà a farlo parlare d’amore. Intanto il musico Fiorinelli accetta di intrattenere gli ospiti prendendo posto al clavicembalo (nell’orchestra sostituito dall’arpa), e Maddalena, riprendendo la melodia del clavicembalo, invita il giovane poeta a declamare una poesia d’amore, ma questi, riprendendo la stessa melodia, rifiuta ancora. Maddalena lo schernisce quindi davanti agli ospiti, e allora Chénier, colpito nell’amor proprio, decide di controbattere. CHÉNIER. Colpito qui m'avete ov'io geloso celo il più puro palpitar dell'anima (accenna al cuore). Or vedrete, fanciulla, qual poema è la parola "Amor", qui causa di scherno! L’aria che segue è nota come Improvviso (così è indicata nella partitura), il suo testo è una parafrasi della poesia Himne à la Justice, già citata prima. Aperta da un arioso che la introduce con ampio lirismo e con la voce spinta verso l’acuto, l’aria inizia con un accordo dell’arpa e poi si svolge con frasi musicali di pura bellezza lirica. La prima parte tocca il suo culmine sulle parole “T’amo”, pronunciate in acuto aperto e rivolte, contrariamente alle attese di tutti gli ospiti, alla Patria. Quindi Chénier racconta alcuni avvenimenti di cui è stato testimone, e ricorda l’alterigia del clero insensibile alla sofferenza del popolo, in un crescendo che culmina nelle parole “le lagrime dei figli”. Infine torna a rivolgersi a Maddalena, invitandola (a piena voce) a rispettare un sentimento gentile come l'amore, ormai disprezzato dalla società. [130]
CHÉNIER. Un dì all'azzurro spazio guardai profondo, e ai prati colmi di viole, pioveva loro il sole, e folgorava d'oro il mondo: parea la terra un immane tesor, e a lei serviva di scrigno il firmamento. Su dalla terra a la mia fronte veniva una carezza viva, un bacio. Gridai vinto d'amor: T'amo tu che mi baci, divinamente bella, o patria mia! E volli pien d'amore pregar! Varcai d'una chiesa la soglia; là un prete ne le nicchie dei santi e della Vergine, accumulava doni, e al sordo orecchio un tremulo vegliardo invan chiedeva pane e invano stendea la mano! (L'Abate ed altri si levano scandalizzati) Varcai degli abituri l'uscio; un uom vi calunniava bestemmiando il suolo che l'erario a pena sazia e contro a Dio scagliava e contro agli uomini le lagrime dei figli. (Tutti si sono arrabbiati contro Chénier. Gérard solo lo ascolta dal fondo della serra, agitatissimo. Gli altri fingono non udirlo.) In cotanta miseria la patrizia prole che fa? (a Maddalena) Sol l'occhio vostro esprime umanamente qui un guardo di pietà, ond'io guardato ho a voi si come a un angelo. E dissi: Ecco la bellezza della vita! Ma, poi, a le vostre parole, un novello dolor m'ha colto in pieno petto. O giovinetta bella, d'un poeta non disprezzate il detto: Udite! Non conoscete amor, amor, divino dono, non lo schernir, del mondo anima e vita è l'Amor!
[Yusif Eyvazov (Andrea Chénier) e Anna Netrebko (Maddalena). Teatro alla Scala Milano. 2017]
Maddalena gli chiede perdono, e Chénier esce dalla scena, commiserato dalla Contessa che con superficiale benevolenza lo perdona. Si ode il suono di una gavotta, a segnalare che la festa ha raggiunto il momento delle danze, ma la musica lentamente viene sovrastata da un canto scandito, ritmato dai tamburi sino a quando viene interrotta dall’ingresso di un gruppo di mendicanti che Gérard ha fatto entrare e che presenta agli ospiti come “Sua grandezza la miseria!” La contessa rimprovera il suo servo e lo caccia via. Gérard, si toglie la livrea e si allontana con i suoi amici poveri. Porta con se anche il vecchio padre che si era gettato ai piedi della sua padrona a chiedere perdono per il figlio. [131]
[Dimitri Platanias (Gérard) - Royal Opera House. Londra. 2019]
GERARD. Sì, me ne vo, Contessa! Questa livrea mi pesa ed è vile per me il pane che qui mi sfama! La voce di chi soffre a sé mi chiama! Vien padre mio, vien con me! Perché ti curvi ai piè di chi non ode voce di pietà? (strappandosi la livrea di dosso) Dalle mie carni giù, giù questa viltà!
Una volta uscito il gruppo dei mendicanti, su un lugubre accompagnamento dei violoncelli e dei contrabbassi, la Contessa profferisce parole di disprezzo per Gérard. La festa riprende e gli invitati danzano la gavotta.
QUADRO II La scena si svolge a Parigi nelle vicinanze del ponte Peronnet, presso il Convento dei Feuillants nel periodo del terrore di Robespierre. Chénier, diventato un bersaglio del governo rivoluzionario, viene continuamente pedinato da un "Incredibile" (una spia di Robespierre) messogli alle costole da Gérard, divenuto ormai un capo della rivoluzione. L’introduzione orchestrale è anche stavolta rapida e brillante, più disinibita e meno socialmente convenzionale rispetto a quella più mondana del Quadro I. L’energia rivoluzionaria corre ormai da tempo per le strade di Parigi ed è già precipitata verso gli eccessi del Terrore, così come dimostra l’eco della “Carmagnola”, il canto rivoluzionario suonato dall’orchestra sin dall’inizio. Tra la folla spunta Bersi, ormai non più al servizio dei Conti di Coigny. La donna si accorge, con paura, di essere spiata da un Incredibile, lo guarda negli occhi e si affretta a dichiararsi conquistata dal credo rivoluzionario. Ottoni e percussioni conferiscono un piglio energico ma sinistro. [132]
BERSI. Temer? Perchè? Perchè temer dovrò? Non sono, come te, una vera figlia autentica della Rivoluzione? Amo viver così! Vivere in fretta di questa febbre gaia d'un godere rapido, acuto e quasi incosciente! Qui il gioco ed il piacere, là la morte! Qui il suon delle monete e il Biribisso! Laggiù il cannone e il rullo dei tamburi! Qui inebria il vino, laggiù inebria il sangue! Qui riso e amore, (indica il palazzo dei Cinquecento) là si pensa e s'odia! Qui la meravigliosa che brinda collo sciampagna, le mercantine là e le pescivendole e la carretta di Sanson che passa! L’Incredibile non si lascia ingannare e, prendendo nota dei propri sospetti, fa capire non solo di essere alla ricerca di una “bella bionda” (che altri non può essere che Maddalena), ma anche lo stesso Chénier è tra i sorvegliati. Chénier, che siede tutto solo in un tavolino a disparte, viene avvicinato dal suo amico Roucher, che, sapendolo in pericolo, gli ha procurato un passaporto e lo invita a fuggire per evitare di essere
catturato dai rivoluzionari, ma il giovane poeta rifiuta manifestando la sua fede nel destino. CHÉNIER. No! Credi al destino? Io credo! Credo a una possanza arcana che benigna o maligna i nostri passi or guida or svia pei diversi sentieri de l'esistenza umana. Una possanza che dice a un uomo: Tu sarai poeta. A un altro: A te una spada, sii soldato! Or bene, il mio destino forse qui vuolmi. Se quel che bramo mi si avvera, resto. ROUCHER. Se non si avvera? CHÉNIER. Allora partirò! E questo mio destino si chiama amore. Io non ho amato ancor, pure sovente nella vita ho sentita sul mio cammin vicina la donna che il destin fa mia; bella, ideale, divina come la poesia; passar con lei sul mio cammin l'amor! Sì, più volte ha parlato la sua voce al mio cuore; udita io l'ho sovente con la sua voce ardente dirmi: Credi all'amor; Chénier, tu sei amato! Chénier ha cantato ripetendo su ogni sillaba la stessa nota, accompagnato dai suoni degli ottoni, così che le sue frasi ricordano più una preghiera sacra che un’aria tenorile vera e propria. Ma quando parla del destino d’amore (Io non ho amato ancor) la voce esplode in un intenso lirismo. Giordano sorprende non portando l’aria a concludersi completamente (il che permetterebbe l’applauso a scena aperta per il tenore) ma facendola trapassare in un recitativo. In esso Chénier racconta all’amico che una donna sconosciuta gli scrive da tempo; nell’ultima lettera gli ha dato
appuntamento proprio in quel luogo e fra poco finalmente si incontreranno. Roucher esamina la lettera e conclude che proviene da una “Meravigliosa”, una delle cortigiane alla moda che imperversano in quei giorni agitati, e mette in guardia l’amico dall’insincerità, dall’inganno, dal pericolo di una trappola. Alla conclusione di Roucher segue un duetto fra i due amici che esprime la disillusione di Chénier: un passaggio musicale di notevole chiarezza ed efficacia, nel quale l’addio ai sogni del giovane poeta è ricco di forza, sincerità e commozione autentica miste a delusione e a rabbia. Intanto presso il ponte si accalca gran folla nell'attesa dell'uscita dei Rappresentanti, i Cinquecento, e il capo assoluto, Robespierre, il “nuovo Iddio” a cui Chénier allude con parole sprezzanti.
Sullo sfondo i violini intonano anche la cadenza conclusiva della “Marsigliese”. [133]
L’Incredibile dialoga con Gérard (divenuto un’autorità rivoluzionaria) che gli descrive con parole da innamorato la donna da cercare; Chénier con Roucher commenta con disprezzo l’uscita de rivoluzionari; la folla al contrario acclama i nomi più noti del governo rivoluzionario, fra cui anche Robespierre. Non si è ancora allontanato il corteo dei capi della Rivoluzione, che, su un colore orchestrale con flauti e oboi in evidenza, giunge una schiera di Meravigliose. Tra loro è anche Bersi, che, sforzandosi di sfuggire alla sorveglianza dell’Incredibile, conferma a Chénier l’imminente arrivo della misteriosa donna delle lettere. Roucher teme un agguato, ma il poeta è ormai di nuovo preda del suo sogno di un destino d’amore; decide quindi di vegliare sulla sorte dell’amico. Scende la notte. Si accendono i lampioni del ponte e quelli dell'imboccatura del Cours-la-Reine. Appaiono tre pattuglie da diverse direzioni, percorrendo lentamente le vie. Il sanculotto Mathieu appare cantando la “Carmagnola” e viene a dar lume alla lanterna dell'altare di Marat. L’Incredibile è ben nascosto per spiare l’incontro di Chénier. Sul ponte Pérronet appare Maddalena, che avanza cauta. Una frase cantilenante ed esitante degli archi, nel registro grave accompagna il suo ingresso in scena. Scorge Andrea Chènier avvolto in un ampio mantello e lo riconosce. Per l’emozione non riesce a parlare. Anche l’orchestra tace. Chénier, che non ha riconosciuto la donna, le chiede chi ella sia. Maddalena si svela intonando le frasi rivoltele da Chénier al tempo del loro incontro al castello di Coigny. Chénier riconosce quindi la donna e invoca il suo nome.
MADDALENA. Ecco l'altare... (si guarda intorno, impaurita da quel silenzio) Ancor nessuno... Ho paura... (L'Incredibile guarda, ritraendosi giù per l'ex Cours-la-Reine. Infatti di là appare l'ombra di un uomo avvolto in un ferraiolo a pellegrina.) MADDALENA. È lui! Andrea Chénier! CHÉNIER. Son io. (Maddalena tenta parlare, ma la commozione sua è grande e non può profferir parola.) CHÉNIER (sorpreso dal silenzio). Deggio seguirti? Sei mandata? Di', chi mi brama. MADDALENA (appoggiandosi tremante all'altare). Io! CHÉNIER (ingannato dall'abbigliamento). Tu? Ebben chi sei? (L'Incredibile cautamente si porta più vicino ai due, nascondendosi dietro un albero.) MADDALENA. Ancor ricordi! CHÉNIER (cerca nella memoria). Sì, mi ricordo. (Per richiamarglisi alla mente, Maddalena ricorda le parole che Chénier le ha rivolto la sera del loro incontro al castello di Coigny:) MADDALENA. "Non conoscete amor!"... CHÉNIER (a quel soave ricordo, sorpreso si entusiasma). Nuova questa voce non mi parla! MADDALENA. "... Amor, divino dono non lo schernir". CHÉNIER. Ch'io vi vegga! MADDALENA. Guardatemi! (scostando la mantiglia si avanza sotto la luce della lampada che arde davanti all'altare di Marat) [134]
CHÉNIER. Ah, Maddalena di Coigny! ... Voi? Voi! Nell’udire il nome di Maddalena di Coigny, l’Incredibile corre via ad avvertire Gérard, lasciando dietro di sé la percezione di un’ombra che i due giovani colgono con paura. Ma bastono pochi istanti perché i due si ritrovino. Maddalena racconta all’uomo le sue pene, i suoi rimorsi, il suo esser spiata e il suo desiderio di affidarsi alla protezione di Chénier. La voce della donna è trattata da Giordano con naturalezza, il fraseggio scorre lirico, diventando più concitato con la tensione del racconto.
MADDALENA. Eravate possente, io invece minacciata; pur nella mia tristezza pensai sovente d'impetrar da voi pace e salvezza, ma non l'osai! E ognora il mio destin sul mio cammin vi sospingea! Ed io vi vedeva e ognor pensavo voi come a un fratello! E allora vi scriveva quanto il cuore o il cervello dettavami alla mente. Il cuor che mi dicea che difesa avreste quella che v'ha un giorno offesa! Al mondo Bersi sola mi vuol bene - è lei che m'ha nascosta. Ma da un mese v'ha chi mi spia e m'insegue. Ove fuggir? Fu allora che pure voi non più potente seppi... e son venuta. Udite! Son sola! Son sola e minacciata! Son sola al mondo! Ed ho paura! Proteggermi volete? Spero in voi!
[Hovhannes Ayvazyan (Chénier) e Amarilli Nizza (Maddalena). Teatro Massimo Bellini di Catania. 2018]
La replica di Chénier si lega alle ultime parole di Maddalena e si risolve in un’aria romantica. Segue un breve e trascinante duetto con un crescendo sentimentale e drammatico, che sfocia nell’acuto nell’ultima parola “Insiem”, quasi a chiamare l’applauso a scena aperta.
CHÉNIER. Ora soave, sublime ora d'amore! Possente l'anima sfida il terrore! Mi fai puro il cuore d'ogni viltà! Bramo la vita e non temo la morte! Ah rimani infinita! MADDALENA. Vicina nei perigli? Vicina nel terror? CHÉNIER. Al braccio mio non più timore! Fino alla morte insieme? [135]
MADDALENA, POI CHÉNIER. Fino alla morte insieme! MADDALENA. Ah! Ora soave, sublime ora d'amore! Possente l'anima sfida il terrore! CHÉNIER, MADDALENA. Mi fai puro il cuore. Non temo la morte, non temo! Ora soave! Fino alla morte insiem!
Scortato dall’Incredibile, accorre Gérard ad interrompere l’idillio. Roucher, che si era appostato a difesa dell’amico, interviene in soccorso e si preoccupa di portare in salvo Maddalena. L’Incredibile dapprima li insegue, ma spaventato dalle pistole che Roucher gli punta, scappa per chiamare soccorsi.
[Kristian Benedikt (Chénier) e Devid Cecconi (Gérard). Teatro Verdi di Trieste. 2019]
Rimasti soli in scena, Chénier e Gérard duellano tra di loro, e quando Chénier lo ferisce, l’ex servitore riconosce il giovane poeta. Rivelando un animo più nobile di quanto ci si potesse attendere, lo invita a fuggire, poiché s che il suo nome è sulla lista dei prossimi arresti; in più gli affida la protezione di Maddalena.
Richiamate dall’Incredibile, accorrono le guardie e una folla inferocita, ben sostenuta da tutta l’orchestra. Ai suoi soccorritori, Gérard, prima di perdere conoscenza, dichiara di non conoscere l'uomo che lo ha ferito. La folla si abbandona allora a minacce ed invocazioni di morte.
QUADRO III Al suono brunito e solenne degli ottoni, la scena si sposta nella Sezione Prima del Tribunale Rivoluzionario. Sulla tavola della presidenza è collocata una colossale urna di legno dipinto. Dietro la tavola un gran drappo tricolore, steso su due picche, portante scritto: “Cittadini, la patria è in [136]
pericolo!”. Il sanculotto Mathie, con voce stentorea chiede oro e soldati, alternando richiami patriottici a minacce. Appare Gérard, ormai guarito, salutato festosamente da tutti; anch’egli cerca di convincere la folla a fare una donazione per la guerra che l'intera Europa muove contro la nazione. L’appello di Gérard è sottolineato da un’orchestrazione che accentua le sue parole. Mentre le cittadine consegnano denaro e piccoli monili, si fa avanti anche una vecchia popolana cieca, Madelon, che offre alla patria il suo unico nipote quindicenne (“l'ultima goccia del mio vecchio sangue!”). I violini commentano con frasi dolcissime l’accettazione del ragazzo da parte di Gérard, mentre nell’ addio che gli rivolge Madelon, emerge una melodia suonata dai violoncelli. Mentre Madelon si allontana tra la commozione generale, si odono fuori scena le voci del popolo che intona il canto rivoluzionario della “Carmagnola”.
[Teatro alla Scala Milano. 2017]
L’Incredibile, rimasto da solo con Gérard, gli comunica l’arresto di Andrea Chénier e lo costringe ad accusarlo. Anche degli strilloni annunciano l’arresto del giovane poeta e la spia spera che questo porti allo scoperto Maddalena. Gérard è incerto, ma prova meno rimorso per il fatto che il nome di Chénier appare già negli elenchi dell’accusatore pubblico Fouquier-Tinville. Nella sua esitazione compare la disillusione del rivoluzionario che si vede trasformato in un assassino. Sono ancora gli ottoni, e poi brevi sferzate degli archi, a sottolineare la sua collera impotente. Inizia così la sua aria intrisa di malinconia, ben supportata dai violini e i flauti. A mano a mano che l’aria procede, all’accompagnamento orchestrale si aggiungono l’arpa e gli ottoni carichi di inquietudine.
GÉRARD. Nemico della Patria?! È vecchia fiaba che beatamente ancor la beve il popolo. (scrive ancora). Nato a Costantinopoli? Straniero! Studiò a Saint Cyr? Soldato! (riflette ancora, poi trionfante d'una idea [137]
subito balenatagli scrive rapidamente) Traditore! Di Dumouriez un complice! E poeta? Sovvertitor di cuori e di costumi! (a quest'ultima accusa diventa pensoso e gli si riempiono gli occhi di lacrime; si alza e passeggia lentamente) Un dì m'era di gioia passar fra gli odi e le vendette, puro, innocente e forte. Gigante mi credea ... Son sempre un servo! Ho mutato padrone. Un servo obbediente di violenta passione! Ah, peggio! Uccido e tremo, e mentre uccido io piango! Io della Redentrice figlio, pel primo ho udito il grido suo pel mondo ed ho al suo il mio grido unito... Or smarrita ho la fede nel sognato destino? Com'era irradiato di gloria il mio cammino! La coscienza nei cuor ridestar delle genti, raccogliere le lagrime dei vinti e sofferenti, fare del mondo un Pantheon, gli uomini in dii mutare e in un sol bacio, e in un sol bacio e abbraccio tutte le genti amar! Or io rinnego il santo grido! Io d'odio ho colmo il core, e chi così m'ha reso, fiera ironia è l'amor! (con disperazione) Sono un voluttuoso! Ecco il novo padrone: il Senso! Bugia tutto! Sol vero la passione! A conclusione di questa riflessione, Gérard firma l’atto e lo consegna al Cancelliere del tribunale. Ad acuire il tormento di Gérard arriva una sconvolta Maddalena, che manifesta all’uomo la sua identità e lo supplica di salvare Chénier. In un concitato duetto, condotto su sonorità sferzanti, Gérard le confessa di averla sempre desiderata. La musica segue in modo descrittivo le sue parole e i suoi ricordi al Castello di Coigny, dove nacque la sua infatuazione, una vera romanza d’amore, per poi esplodere quando l’uomo cerca di possedere Maddalena. Dopo un disperato tentativo di resistenza, la donna gli offre di concedersi in cambio della vita di Chénier.
[Sondra Radvanovsky (Maddalena) Dimitri Platanias (Gérard) Royal Opera House. Londra. 2019]
Introdotta da un disegno languido e doloroso del primo violoncello, e contornata dai registri intermedi degli archi, Maddalena racconta le sventure dei suoi ultimi anni, dal momento in cui la madre è morta per difenderla dalle violenze dei rivoluzionari. Racconta poi della fuga con la fedele Bersi, del castello in fiamme, e infine della luce dell’amore appena ritrovato. L’aria di Maddalena è una pagina commovente, di grande varietà espressiva, che si spegne sulla resa di una donna che si sente già morta. [138]
MADDALENA. La mamma morta m'hanno alla porta della stanza mia; moriva e mi salvava! Poi a notte alta io con Bersi errava, quando ad un tratto un livido bagliore guizza e rischiara innanzi a' passi miei la cupa via! Guardo! Bruciava il loco di mia culla! Così fui sola! E intorno il nulla! Fame e miseria! Il bisogno, il periglio! Caddi malata, e Bersi, buona e pura, di sua bellezza ha fatto un mercato, un contratto per me! Porto sventura a chi bene mi vuole! (ad un tratto, nelle pupille di Maddalena si effonde una luce di suprema gioia) Fu in quel dolore che a me venne l'amor! Voce piena d'armonia e dice: "Vivi ancora! Io son la vita! Ne' miei occhi è il tuo cielo! Tu non sei sola! Le lacrime tue io le raccolgo! Io sto sul tuo cammino e ti sorreggo! Sorridi e spera! Io son l'amore! Tutto intorno è sangue e fango? Io son divino! Io son l'oblio! Io sono il dio che sovra il mondo scendo da l'empireo, fa della terra un ciel! Ah! Io son l'amore, io son l'amor, l'amor!" E l'angelo si accosta, bacia, e vi bacia la morte! Corpo di moribonda è il corpo mio. Prendilo dunque. Io son già morta cosa! Un disegno irridente del fagotto ricorda che il tribunale va avanti inesorabilmente senza badare ai sentimenti degli uomini. La musica dell’orchestra diventa sempre più tesa, evocando anche la marcia militare con i tamburi; Gérard, commosso dalle parole di Maddalena, le promette che farà di tutto per salvare il giovane. Una musica festaiola accompagna il cambio di ambiente, con il pubblico che entra nella sala. Solo quando Mathieu annuncia l’arrivo dei giudici, il timbro dell’orchestra si fa cupo, presago di ciò che accadrà. Sullo stesso accompagnamento si inserisce anche il breve dialogo tra Gérard e Maddalena, mentre un breve inciso dei violini segna il momento in cui ella posa, non vista, lo sguardo su Chénier. Un improvviso fragore orchestrale dà infine inizio alla litania dei giudici, inframezzata dalle esplosioni di collera e dalle grida di scherno della folla.
[Jonas Kaufmann (Andrea Chénier). Teatro del Liceu di Barcellona, 2018]
Davanti alle accuse del procuratore Fouquier-Tinville e della folla, Chénier si lancia in un’appassionata ricostruzione della sua vita, tesa a dimostrare l’onestà e il patriottismo del suo agire: che il Tribunale lo condanni pure, ma non che lo si accusi di tradimento.
[139]
CHÉNIER. Si, fui soldato e glorioso affrontato ho la morte che, vile, qui mi vien data. Fui letterato, ho fatto di mia penna arma feroce contro gli ipocriti! Con la mia voce ho cantato la patria! Passa la vita mia come una bianca vela: essa inciela le antenne al sole che le indora e affonda la spumante prora ne l'azzurro dell'onda ... Va la mia nave spinta dalla sorte a la scogliera bianca della morte? Son giunto? Sia! Ma a poppa io salgo e una bandiera trionfale sciolgo ai venti, e su vi è scritto: Patria! A lei non sale il tuo fango! Non sono un traditore. Uccidi? Ma lasciami l'onor! Alla convocazione dei testimoni si fa avanti Gérard e contesta non solo l’accusa da lui stesso vergata e che dichiara essere falsa, ma l’intero tribunale e la sua tirannia. La folla si agita e protesta contro la sua perorazione, mentre l’orchestra dispiega in fortissimo ottoni e percussioni a sottolineare la drammaticità del momento. Tutto si quieta quando Gérard afferma che non è una patria quella che uccide i suoi poeti. Finita la testimonianza Gérard abbraccia Chénier e gli dice che Maddalena è tra la folla. Rientrano i giudici che pronunciano la sentenza, con la parola “Morte” brutalmente recitata per due volte su un tappeto di note gravi. Sui singhiozzi disperati di Maddalena, l’orchestra intona i suoi ultimi drammatici accordi di chiusura.
[Svetla Vassileva (Maddalena) Teatro Giuseppe Verdi. Trieste. 2019]
QUADRO IV La scena si è spostata nel cortile della prigione di San Lazzaro. E’ notte alta. Violoncelli, contrabbassi, tromboni e corni introducono la scena con gli accordi ritmati di una marcia funebre, sulla quale emerge un triste accenno melodico del corno inglese. Andrea Chénier è seduto sotto alla finestra a scrivere i suoi ultimi versi. Gli è accanto Roucher, l’amico di sempre, che gli chiede di recitarglieli in un ultimo saluto. L’aria che segue è accompagnata inizialmente dal flauto e dall’arpa, quindi intervengono i fiati a raddoppiare la linea di canto della voce che si innalza a vette liriche. (Per quest’aria di congedo del personaggio Illica prese a prestito una poesia di Chénier, Comme un dernier rayon).
[140]
CHÉNIER. Come un bel dì di maggio che con bacio di vento e carezza di raggio si spegne in firmamento, col bacio io d'una rima, carezza di poesia, salgo l'estrema cima dell'esistenza mia. La sfera che cammina per ogni umana sorte ecco già mi avvicina all'ora della morte, e forse pria che l'ultima mia strofe sia finita, m'annuncerà il carnefice la fine della vita. Sia! Strofe, ultima Dea! ancor dona al tuo poeta la sfolgorante idea, la fiamma consueta; io, a te, mentre tu vivida a me sgorghi dal cuore, darò per rima il gelido spiro d'un uom che muore. I due uomini si abbracciano e si separano commossi. Sullo sfondo le note della “Marsigliese”. Battono alla porta della prigione: la guardia apre, è Gérard, e con lui Maddalena, che è venuta non solo per avere un colloquio con il suo amato, ma anche per offrirsi volontaria per un drammatico scambio di persona: sarà lei, al momento dell’ultimo appello, a rispondere al posto di Idia Legray, un’altra condannata a morte, e salirà sulla carretta che porta al patibolo, mentre l’altra donna verrà salvata. La guardia inizialmente esita, ma l’autorità di Gérard e i gioielli e il denaro che Maddalena gli offre lo convincono. Gérard porge, su una melodia degli archi, un commosso addio alla donna, anche se spera di ottenere clemenza da Robespierre in persona. Segnalato da un possente introduttivo dell’orchestra, Chénier entra in scena e riconosce Maddalena, intonando subito un canto d’amore, nel corso del quale emergono, di volta in volta, le sonorità dell’arpa, dei fiati e degli archi. E’ un duetto di grande intensità e passione fra personaggi che vivranno la loro unica notte d’amore proprio alla vigilia della morte che li unirà per sempre.
[Martin Muehle (Chénier), Saioa Hernández (Maddalena). Teatro Pavarotti di Modena. 2019]
CHÉNIER. Vicino a te s'acqueta l'irrequieta anima mia; tu sei la meta d'ogni desio, d'ogni sogno, d'ogni poesia! (la guarda amorosamente) Entro al tuo sguardo l'iridescenza scerno de li spazi infiniti. Ti guardo; in questo fiotto verde di tua larga pupilla erro coll'anima! MADDALENA. Per non lasciarti son qui; non è un addio! Vengo a morire con te! Finì il soffrire! La morte nell'amarti! Ah! Chi la parola estrema dalle labbra raccoglie, è Lui, l'Amor! CHÉNIER. Tu sei la meta dell'esistenza mia! CHÉNIER, MADDALENA. Il nostro è amore d'anime! MADDALENA. Salvo una madre. Maddalena all'alba ha nome per la morte Idia Legray. (guardando nel cortile) Vedi? La luce incerta del crepuscolo giù pe' squallidi androni già lumeggia. (colle braccia avviluppando stretto a sè Chénier gli si abbandona tutta sul petto) Abbracciami! Baciami! Amante! CHÉNIER. (baciandola con violenza) Orgoglio di bellezza! (la bacia ancora) Trionfo tu, de l'anima! Il tuo amor, sublime amante, è mare, è ciel, luce di sole e d'astri ... ... È il mondo! È il mondo! [141]
MADDALENA. Amante! Amante! CHÉNIER, MADDALENA. La nostra morte è il trionfo dell'amor! CHÉNIER. Ah benedico, benedico la sorte! MADDALENA. Nell'ora che si muore eterni diveniamo! CHÉNIER. Morte! MADDALENA. Infinito! MADDALENA, CHÉNIER. Amore! Amore! Un rullo di tamburi annuncia l’arrivo della carretta. I due amanti si dirigono sereni verso la morte, rapiti nell'estasi del loro amore. In un angolo Gerard piange amaramente, mentre in una mano tiene il biglietto sprezzante scritto da Robespierre come risposta alla sua richiesta di grazia "Perfino Platone bandì i poeti dalla sua Repubblica".
[142]
DISCOGRAFIA Il fascino che Chénier ha esercitato sui grandi tenori (da Gigli a Pertile e Bergonzi, da Del Monaco a Corelli, da Carreras a Domingo e Pavarotti fino a Jonas Kaufmann) non proviene solo dai momenti solistici, ma riguarda l’opera nella sua interezza. Chénier è sempre in scena, protagonista in dialoghi e duetti drammatici: tra le parti più ispirate dell'opera ci sono i duetti fra Chénier e la giovane aristocratica, Maddalena di Coigny, la beneamata con cui condividerà la ghigliottina. Umberto Giordano: Andrea Chénier Beniamino Gigli (Chénier) Maria Caniglia (Maddalena), Gino Bechi (Gérard), Giulietta Simionato (Contessa di Coigny). Coro e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, dir. Oliviero de Fabritiis. Naxos Historical Registrato alla Scala di Milano nel novembre 1941 (durante la guerra!), questa versione di Andrea Chenier di Giordano è una rivelazione sotto molti aspetti. Beniamino Gigli e Gino Bechi nel 1941 erano probabilmente al loro acme
vocale,
e
questa
registrazione
è
una
dimostrazione
impressionante del loro valore. Chènier è stato uno dei ruoli preferiti di Gigli, grande (e forse irraggiungibile) interprete del belcanto, e nella figura del giovane poeta sa esprimere l’ardore e il senso drammatico che questo personaggio richiede. Maria Caniglia, invece, aveva solo trentasei anni all'epoca di questa registrazione, e la sua voce è splendida; aggiungete a questi Simionato, Bechi e Taddei e la performance si rivela di altissimo livello. Dato che la registrazione è del 1941, la qualità del suono non è male ma non brillante. Ma già solo per l’indiscutibile valore storico vale la pena acquistarla. Umberto Giordano: Andrea Chénier Carlo Bergonzi (Chénier) Angeles Gulin (Maddalena), Sherril Milnes (Gérard). New Philharmonic Orchestra, Ambrosian Chorus, dir. Anton Guadagno. Myto
[143]
Vi sono bene cinque registrazioni con Bergonzi, dal '60 al '77, tutte dal vivo, questa (del 1970) è considerata la migliore. Secondo molti critici Bergonzi è complessivamente il migliore Chénier di cui si abbia traccia. Quello che mi piace di Bergonzi è la linea di canto perfetta e l'eleganza del porgere le frasi, senza retorica, pur con quel minimo di enfasi e di passione necessarie nel repertorio verista. Il timbro di Bergonzi è comunque più bello di quello di Pertile, l'interpretazione è più asciutta di quella di Gigli, e meno enfatica di quella di Corelli e Del Monaco. Umberto Giordano: Andrea Chénier Mario Del Monaco (Chénier) Fiorenza Cossotto (Maddalena), Michele Cazzato (Gérard). O hest a e Co o dell A ade ia di “a ta Ce ilia, dir. Gianandrea Gavazzeni. Decca Tra le grandi interpretazioni di Mario Del Monaco, quella del protagonista nell’ Andrea Chénier di Umberto Giordano è sicuramente una delle più complete e significative. Un ruolo in cui la straordinaria personalità e il temperamento drammatico del cantante potevano esprimersi al meglio. La forza espressiva del fraseggio di Del Monaco, il declamato stupendamente scolpito e l’esplosività degli acuti fanno di questa interpretazione un modello assoluto di riferimento. Uno di quei casi in cui si può fare diversamente ma è difficile, quasi impossibile, fare meglio. Mario Del Monaco aveva studiato la parte direttamente con Umberto Giordano, a cui era stato presentato dal direttore d’ orchestra Antonino Votto e che volle prepararlo personalmente in occasione del suo debutto nel ruolo a Valdagno nel 1946. Il compositore annotò sul suo spartito modifiche e consigli interpretativi e Del Monaco tenne da allora e fino alla morte sul suo pianoforte nel salone di Villa Luisa a Lancenigo la foto autografata di Giordano, con la dedica: “Al mio caro Chénier”. Del Monaco sviluppa una voce davvero straordinaria e impressionante. Di gran livello la prestazione della Tebaldi, che cantava magnificamente nel 1961, quando aveva ancora quella bellezza della voce che affascinava tanti, anche se in questa registrazione è spesso sovrastata dalla personalità prorompente di Del Monaco. Buona la prestazione di Ettore Bastianini, ancora in piena voce. Gavazzeni un grande della bacchetta. Registrazione stereo del 1957, il suono non è eccezionale. [144]
Umberto Giordano: Andrea Chénier Mario Del Monaco (Chénier) Maria Callas (Maddalena), Aldo Protti (Gérard). Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, dir. Antonino Viotto. Warner Classics Nel 1955 l’opera di Giordano non rientrava tra quelle scelte per la stagione scaligera, ma il grande successo dello Chénier al MET di New York assieme alla Tebaldi convinse la direzione del Teatro a sostituire il Trovatore di Verdi con quest’opera. Alla Callas bastarono cinque giorni per imparare la parte. L’8 Gennaio del 1955 l’Andrea Chénier andò in scena sotto la direzione del temibile Antonino Votto, storico assistente di Arturo Toscanini negli anni ’20 e maestro di Riccardo Muti. La coppia Callas-Del Monaco fece faville, ma durante l’esecuzione dell’aria più attesa, «La mamma morta», un folto gruppo di ammiratori della Tebaldi scatenò una baraonda di fischi e insulti: non perdonavano che la soprano greca avesse usurpato il ruolo della loro beniamina. La Callas, disturbata dall’ostilità, perse il controllo ed emise un si troppo alto e vacillante venendo travolta da ulteriori fischi. La gran parte del pubblico però le regalò un sincero tripudio. Al termine dello spettacolo la Callas ricevette una visita speciale: nel suo camerino volle entrare l’ex arpista Sara De Cristofaro, vedova del compositore, per congratularsi ed esprimerle una sincera stima. Le due stelle Mario del Monaco e Maria Callas sono grandi protagonisti, e Antonino Votto è un direttore d'orchestra molto emozionante. In questa registrazione la Callas, all’apice vocale e drammatico negli anni Cinquanta, ripercorre lo sviluppo del suo personaggio - da una giovane aristocratica viziata a una donna altruista innamorata - in dettagli avvincenti e commoventi. La possente voce di Del Monaco offre la solita eccelsa prestazione. C'è un buon equilibrio tra voci e orchestra. Il rovescio della medaglia è il suono registrato. La distorsione è molto fastidiosa in gamma alta, per renderla meno udibile l’unica soluzione è attenuare (non amplificare) la gamma di frequenze ove essa è più udibile. I medio alti di tutta la registrazione all’ascolto sono aggressivi oltre il dovuto. Il suono è freddo, aspro e in molti punti, tra cui il pezzo focale «La mamma morta», i brani sono inascoltabili. Giudizio complessivo: suono sgradevole. È deplorevole che una performance così memorabile non possa essere stata catturata 30 anni dopo con una più moderna e migliore tecnologia di registrazione. Questa è, tuttavia, l'unica testimonianza integrale della Callas in questo lavoro.
[145]
Umberto Giordano: Andrea Chénier Franco Corelli (Chénier) Antonietta Stella (Maddalena), Mario Sereni (Gérard). O hest a e Co o del Teat o dell Ope a di ‘o a, di . Ga iele “a ti i. Warner Registrazione del 1964, rimasterizzata dalla EMI nel 1994, ora commercializzata dalla Warner. Corelli è quasi sicuramente il miglior Andrea Chénier della storia del disco. Il 2' atto è memorabile e credo inarrivabile. Una grande emozione. Tutta la registrazione è improntata sullo strapotere vocale di Corelli. Le ottime voci della Stella e di Sereni non sempre sono ben evidenziate dalla direzione di Santini, che a volte sembra non esprimere in toto l'anima dello spartito, pur di esaltare al massimo la vocalità strabordante del tenore protagonista. Più che buona la prova dell'Orchestra e Coro del Teatro dell' Opera di Roma: nel complesso un'ottima edizione che, ancor oggi, ha ampia divulgazione ed ottima resa commerciale Umberto Giordano: Andrea Chénier Luciano Pavarotti (Chénier) Montserrat Caballé (Maddalena), Leo Nucci (Gérard). National Philharmonia Orchestra, dir. Riccardo Chailly. Decca Uno splendido trio: Pavarotti all’apice della forma vocale (anche se vi sono Cheniér migliori in commercio, leggasi Corelli), una grande Montserrat Caballé, anche se non nel suo repertorio preferito, infine una delle migliori registrazioni di Leo Nucci . Ineccepibile e di spessore la direzione di Riccardo Chailly, che completa questo eccellente cast. Non va comunque considerata una scelta primaria.
[146]
VIDEO Umberto Giordano: Andrea Chénier Josè Carreras (Chénier) Eva Marton (Maddalena), Piero Cappuccilli (Gérard). Orchestra e coro Teatro alla Scala, dir. Riccardo Chailly. Kulture (DVD) Una tradizionale scaligera in costumi storici, che nel suo design scenico classico si rivolge probabilmente alla maggior parte dei veri intenditori di opere liriche. Nel complesso, un eloquente documento vocale dell'ancora potente Carreras, che rende comprensibile la sua appartenenza ai principali tenori di quel tempo. Josè Carreras, ancora nello massimo
della
sua
capacità
vocale,
è
un
Chénier
meravigliosamente timbrato. Anche se è forzata, la voce è ancora centrata e piena, non come negli anni successivi, dopo la terribile malattia quando divenne sfilacciata. Anche fisicamente è totalmente credibile, trasuda un certo fascino. Eva Marton convince come soprano drammaticamente coinvolto quale è Maddalena. I successivi segni di usura sulla sua voce non sono ancora presenti. Nella famosa aria del terzo atto «La mamma morta» la Marton emoziona con i singhiozzi nella sua voce, l'occhio bagnato e una delicatezza che ti porta alle lacrime. Il modo in cui canta il suo risveglio all'amore è commovente e romantico all'estremo, sottolineato da un vibrato ben controllato. E che purezza nei suoi alti! L'accordo tra Eva Marton e José Carreras è perfetto nei superbi duo come quello del secondo atto in cui esprimono, miste tra loro, passione e disperazione, paura e speranza. Piero Cappuccilli canta un Gérard convincente con brillantezza baritonale. Ascoltate solo la sua grande aria del 3° atto «Nemico della patria», consegna tutto ciò che ha in lui, i suoi dubbi, la sua delusione, il suo malessere, il suo sogno di amore universale, il suo sogno di amore per Maddalena, l’uomo che alla fine indossa una maschera tragica per gridare «Amor!». E’ straordinario; l'ovazione che raccoglie dal suo pubblico milanese è eccezionale e meritata, si ha l'impressione che questo pubblico non smetterà mai di esprimergli la sua ammirazione. Riccardo Chailly, giovane direttore d'orchestra in quell'epoca, porta tutta la sua freschezza e spontaneità per far cantare l'orchestra, sa liberare colori particolarmente piacevoli e melodiosi. Infine, una perfetta messa in scena, con scenografie e costumi mozzafiato specifici per la Rivoluzione Francese. Il primo atto è splendido con interludi di danze molto fresche, aggraziate, gli abiti di nobili donne molto eleganti. Di ottimo livello la registrazione. Consigliato. [147]
Umberto Giordano: Andrea Chénier Luciano Pavarotti (Chénier) Maria Guleghina (Maddalena), Juan Pons (Gérard). The Metropolitan Opera Orchestra and Chorus, dir. James Levine. Decca (DVD) Questo live del Met dell'ottobre 1996 è un vero piacere da guardare e ascoltare e lo consiglio vivamente. La produzione di Nicholas Joel è estremamente elegante e allo stesso tempo semplice e ordinata. Il primo atto, ad esempio, è dominato da un enorme specchio dalla cornice dorata precariamente inclinato. Presumo che sia una metafora dell'imminente caduta dell'aristocrazia decadente alla festa data dalla Contessa di Coigny. I costumi disegnati da Hubert Monloup sono fantastici. Il suono dorato del lirico-spinto di Luciano Pavarotti lo rende ideale per il ruolo del poeta condannato. Tutte le sue arie compreso l'«Improvviso» nell'Atto I, il suo «Credo a una possanza arcana» nell'Atto II, il suo «Si, fui soldato» davanti al tribunale rivoluzionario e il suo adorabile «Come un bel di Maggio» nell'Atto IV sono splendidamente cantati senza uno sforzo apparente e la sua voce suona piena e fresca. L'unico piccolo inconveniente è che mentre l'abilità recitativa di Pavarotti era veramente eccellente, i numerosi primi piani di lui non erano affatto lusinghieri mostrandolo pesantemente truccato, spesso coperto di sudore facciale e con una parrucca inadatta. L'alchimia tra lui e Guleghina era però molto buona e l'appassionato duetto d'amore con Guleghina nell'atto II e il duetto «Vicino a te» che chiude l'opera hanno avuto momenti sublimi. Maria Guleghina nei panni di Maddalena è convincentemente giovanile per il ruolo ed è sempre elegante e bella. Anche il suo canto è piuttosto squisito e il suo «La mamma morta» nell'atto III viene accolto dal pubblico in estasi. Juan Pons nei panni di Carlo Gérard ritrae in modo convincente un personaggio pieno nel primo atto di odio per gli eccessi dell'aristocrazia francese, ma in seguito pieno di rimpianto per gli eccessi della rivoluzione che lui stesso ha contribuito a realizzare. Il suo canto è molto bello: la sua interpretazione di «Son sessant’anni» nel primo atto è piena di passione e potere tuttavia, è il suo «Nemico della patria» nell'atto III a sublimare la scena. James Levine dirige in modo eccellente. Il DVD è di ottima qualità. L'illuminazione del palco è ben realizzata e l'audio è superbo. Umberto Giordano: Andrea Chénier Pla ido Do i go Ché ie , Ga iela Bě ačkovà Maddale a , Pie o Cappu illi Gé a d . Chor und Orchester der Wiener Statsoper, dir. Nello Santi. Deutsche Grammophon (DVD) [148]
È una notevole registrazione live (Aprile 1981) dal palco del grande Teatro dell'Opera di Vienna, con tutto il carisma che questo famoso Teatro porta a qualsiasi lavoro vi sia rappresentato. La cinepresa sfrutta appieno le ricchezze a sua disposizione: ben ripreso l'ampio palco che consente molta azione (e con una rivoluzione in corso è necessario ogni centimetro!). Gli allestimenti e i costumi corrispondono al periodo nella sua alternarsi di grandezza e squallore. Il coro può permettersi solisti vocali permanenti che farebbero invidia alla maggior parte degli altri teatri d'opera. A tutto questo si aggiungano il più grande tenore dell’epoca (Domingo come Chénier), colto in uno dei momenti più felici della sua lunghissima carriera, un baritono altamente qualificato nel ruolo ambivalente del suo aguzzino e successivamente salvatore fallito (Piero Capuccilli come Gérard), un'eroina vocalmente competente e dotata drammaticamente (Gabriela Benackova come Maddalena), un navigato direttore d'orchestra (Nello Santi) proveniente dalla Scala e profondo conoscitore dell’opera. L'unica delusione è la performance rauca dell'ex grande Fedora Barbieri nel ruolo minore di Madelon ormai alla fine della sua illustre carriera. Un grande merito va anche al regista, Otto Schenk, che ha catturato ogni sfumatura emotiva del periodo turbolento della Rivoluzione francese, gestisce le scene della folla come un coreografo e attinge dai cantanti una recitazione di alto livello. Tecnicamente, la fotografia è brillante e il suono piuttosto sorprendente. Umberto Giordano: Andrea Chénier Jonas Kaufmann (Chénier) Eva-Maria Westbroek (Maddalena), Zeljk Lucic (Gérard). Royal Opera House, dir. Antonio Pappano. Warner Classics (DVD) Il DVD è ottimo sia per quanto riguarda l'audio che per quanto riguarda il video. Da elogiare per la regia, per la direzione di Antonio Pappano, per l'ottima performance di Eva-Maria Westbroek e per la grande interpretazione di Jonas Kaufmann che con Andrea Chénier ha aggiunto un altro importante ruolo al suo ampio repertorio confermando di essere il miglior tenore del momento. Un grande Pappano, come sempre!, alla guida di Royal Opera House in grande forma. Allestimento scenico tradizionale, finalmente senza le inutili e di pessimo gusto trovate degli attuali registi.
[149]
Umberto Giordano [150]