GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 9 – Settembre 2019
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista quadrimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 9 - Settembre 2019
Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa
In questo numero: 1° Copertina: Franz Listz 4° Copertina: Amilcare Ponchielli [3] Editoriale [6] Serate degli Amici del Vinile: Il crepuscolo degli dèi – Il Romanticismo tedesco [28] L A ello del Ni elu go, di ‘i ha d Wag e [40] I grandi direttori del 9 : Nikolaus Harnoncourt [47] Gli a i i del… g a ofono: Concerti per pianoforte e orchestra nn. 20-21-22-23 di Wolfgang Amedeus Mozart [56] Musica classica e cinema: La danza delle ore, da Fantasia di Walt Disney [60] La Musica del Medioevo: Il Llibre Vermell [80] Strumenti musicali antichi: La Cetra e la Cithara [83] Melomania: La Gioconda, di Amilcare Ponchielli
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Presentazione della serata “Il Crepuscolo degli Dei” Serata Amici del Vinile (22.2.2019). Con l’incontro di stasera (intitolato Il Crepuscolo degli dei in onore di Richard Wagner) continuiamo il ciclo dedicato alle grandi pagine musicali del Romanticismo europeo, ripercorrendone le musiche nella terra dove esso è nato. Conosciamo ormai i valori principali del Romanticismo: l’esaltazione del sentimento e della fantasia in contrapposizione alla ragione esaltata dall’Illuminismo; l’esaltazione dell’individualità, per cui ogni uomo è considerato unico, irripetibile, dotato di una propria creatività e libertà; il titanismo romantico, cioè la ribellione dell’eroe romantico ai valori borghesi a cui non crede: da questa ribellione egli può uscirne sconfitto, ma sarà proprio la sconfitta a nobilitarlo; il rifiuto delle regole e delle convenzioni; l’amore di patria e la coscienza nazionale; la rinascita del sentimento religioso; il ritorno alla natura primitiva; la rivalutazione della storia antica, in particolare il Medioevo (quest’epoca è considerata la radice storica del Cristianesimo in Europa). E infine la passione ed il tormento: la passione amorosa intesa come una forza primitiva che dà origine ad una vita inquieta tormentata, avventurosa, sempre in balìa di contraddizioni.
[Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818. Amburgo, Kunsthalle]
Sono numerose le composizioni di questo fecondo periodo musicale, e per il nostro incontro ho dovuto fare delle scelte, talora dolorose; una seconda “cesura” (e non censura!) la fa alla fine il poco tempo a disposizione del relatore, ma penso che la varietà dei capolavori degli Autori che vi presento ci permetterà di farci una idea abbastanza sufficiente sul periodo musicale trattato. Nella Rivista troverete, come al solito, tutto il contenuto musicale programmato per questo incontro, e non solo quanto sono riuscito a farvi ascoltare.
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Re della serata, come vuole la musica romantica, sarà il pianoforte, lo strumento “romantico” per eccellenza, e non solo perché le sue caratteristiche tecniche (grande dinamica e sonorità, notevole estensione, cantabilità e possibilità timbriche) corrispondono alle esigenze espressive del musicista romantico, ma anche perché esso diviene elemento costante nell'arredamento delle case borghesi e protagonista, così, di quella pratica musicale amatoriale che prende il nome di “musica da salotto”.
E’ proprio nei salotti borghesi del primo Ottocento che prende forma la vasta letteratura pianistica del periodo romantico, costituita soprattutto da brevi composizioni dalla forma e struttura libera frutto della creatività istintiva e travolgente tipica dell'artista romantico, il cui stesso titolo (Notturno, Improvviso, Scherzo, Scena infantile, Serenata) ne definisce il carattere intimo e salottiero. Parallelamente, nelle sale da concerto, un diverso uso del pianoforte viene finalizzato a evidenziare le capacità tecniche dell'esecutore, il suo “virtuosismo”. In questa serata, ascolteremo due “immensità” del pianismo del ‘900, Arthur Rubinstein e Vladimir Horowitz, ma ammireremo alcune nuove giovani stelle del pianismo internazionale attuale. Tra gli autori, ho sempre il rammarico di non poter farvi conoscere a fondo due titani romantici quali Wagner e Mahler: la grandiosità delle loro opere si scontra con i tempi poco dilatati (o, meglio, dilatabili) delle nostre serate, oltre all’impegno non indifferente richiesto all’ascoltatore… poco “allenato”.
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“Il Crepuscolo degli Dei” Il Romanticismo musicale tedesco
RICHARD WAGNER - IL CREPUSCOLO DEGLI DEI, MARCIA FUNEBRE DI SIGFRIDO AUDIO: I Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan. Abbiamo iniziato la serata con un intenso e drammatico brano di Richard Wagner, la Marcia Funebre di Sigfrido, tratta dal Crepuscolo degli dei, il quarto e ultimo dei drammi musicali che costituiscono la tetralogia L'anello del Nibelungo, della quale parleremo in maniera più approfondita nel successivo articolo (pagg. 28-39) Sigfrido (Sigfreid) è un eroe nordico, figlio di Odino e di Sieglinde, una donna mortale; si innamora della valchiria Brunilde ma viene ucciso a tradimento da Hagen, trafitto nel suo punto vulnerabile. Subito dopo questa violenta morte, un tragico corteo funebre si muove nella notte, immerso nelle ombre paurose della grande foresta. Poiché al momento della morte Sigfrido stava rievocando il suo incontro con Brunilde, la musica si rifà letteralmente a quell’episodio del Sigfrido. Questa marcia è uno dei brani più impressionanti e sublimi che Wagner abbia mai concepito. Il colore cupo e allucinante e il senso profondo della tragedia già avvenuta e che verrà caratterizzano l’atmosfera drammatica di questa composizione. Sono ben dieci i leit-motive1 che Wagner attinge da tutto il ciclo dell’Anello per sottolineare questo momento: tutta la nobile vita dell’eroe, i suoi atti di generosità, la sua spada invincibile, il motivo di Brunilde, la donna di cui si innamora. Wagner ha costruito in queste pagine un canto solenne ma velato dalla mestizia della morte: si esalta la virtù e la forza dell’eroe, contrapposta alla malvagità e alla bassezza di chi l’ha tradito. In questo brano è indimenticabile e violento il tema del tradimento e del lutto scandito con veemenza dai violoncelli e dai timpani.
L’uso dei otivi o dutto i (in genere di 4 battute) i uesto i lo è l’aspetto musicale più evidente e particolare: Wagner associa a ogni personaggio, o a un particolare sentimento (amore, tradimento, odio, castigo, ecc.), o a situazioni un particolare tema che si ripresenta ogni volta coerentemente. Ce ne sono oltre 400 in tutta la tetralogia!
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LUDWIG VAN BEETHOVEN – SONATA “APPASSIONATA”, 3° MOVIMENTO Ludwig van Beethoven (1770-1827) può essere a ragione definito il musicista protoromantico,.
Molti dei valori principali del Romanticismo li ritroviamo in numerose sue composizioni. Nel Fidelio beethoveniano riecheggia l'anelito, tutto romantico, verso l'infinito, e la fiducia nella capacità dell'uomo di superare ogni ostacolo. Il culto dell'individuo viene trasceso nel mito dell'Eroe, e non a caso la Terza sinfonia (1803) del compositore tedesco prende il titolo di Eroica. In essa la sinfonia settecentesca acquista una nuova dimensione, con un primo movimento che spezza quasi i confini della forma sonata, una marcia funebre per la morte dell'eroe, uno scherzo che riafferma l'energia dell'ideale eroico e un finale di variazioni su un tema che Beethoven associa a Prometeo: l'eroe che sfida gli dei portando il fuoco all'umanità. La Quinta sinfonia (1808) rappresenta una sfida dell'uomo al destino, e l'elementare tema iniziale emana tanta energia da animare l'intera composizione. La religione della natura trova la sua forma di espressione più alta nella Sinfonia Pastorale (1808). La Nona (1824) fa esplodere lo schema sinfonico quando il coro erompe nel finale poetico dell'Ode alla gioia (An die Freude) di Friedrich Schiller. Noi, esse i fi iti, pe so ifi azio i di u o spi ito i fi ito, sia o ati pe ave e i sie e gioie e dolo i; e si pot e quasi di e he i
e
iglio i di oi aggiu go o la gioia att ave so la soffe e za. (Beethoven)
Abbiamo già dedicato una serata a Beethoven e – anche se sono trascorsi alcuni anni da allora - volevo evitare di ripetere un brano già sentito in quella occasione. La mia scelta è quindi caduta sul 3°
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movimento, Allegro ma non troppo, della Sonata per pianoforte n° 23 “Appassionata”, che poteva vantarsi d'essere stata la sonata preferita da Beethoven fino a quando egli compose l’Hammerklavier. E’ il capolavoro più rappresentativo del periodo eroico, il culmine drammatico di un trittico composto dalle sonate Patetica e Al chiaro di luna. Il titolo "Appassionata" non venne dato da Beethoven ma gli fu posto astutamente dall'editore Cranz di Amburgo, per incoraggiare il pubblico ad ascoltare la sonata come una sorta di confessione autobiografica di stampo romantico-sentimentale: l'appassionato amore di Beethoven per la misteriosa "immortale amata". Protagonista è il pianoforte, lo strumento “romantico” per eccellenza, che Beethoven portò a grande dinamica e sonorità, ne aumentò l’estensione, la cantabilità e le possibilità timbriche a livelli sinora mai percorsi. ♫♫ Dei 3 movimenti ci cui è composta la Sonata, il 3° e conclusivo Allegro ma non troppo è uno dei pezzi più irruenti, energici e ricchi di sentimento di tutto l’universo beethoveniano, immerso in un oceano tempestoso ora di disperazione ora di ribellione. A differenza del primo movimento, che nacque faticosamente attraverso un complesso lavoro di elaborazione del materiale tematico e ritmico, questo movimento finale fu scritto rapidamente, quasi di getto, senza bisogno di abbozzi preparatori. In diretta continuazione con il 2° movimento, preceduto da una serie di accordi in fortissimo, l’ Allegro ma non troppo è caratterizzato da un tragico e possente perpetuum mobile sviluppato comunque nell'ambito della forma-sonata e secondo lo stile del rondò2. Il perpetuum si placa soltanto per alcuni brevi istanti per poi riprendere forte come prima. La Sonata si conclude con un Presto frenetico, quasi demoniaco, che non sembra concludersi ma piuttosto infrangersi contro le note finali ribattute con brutale violenza. L’interpretazione che vi presento è quella splendida e stupefacente di Arthur Rubinstein, il più grande pianista del ‘900 e tra i massimi di tutti i tempi. La registrazione è del 15.1.1975, il Maestro aveva la veneranda età di 88 anni, ma la performance è sconvolgente, indimenticabile: guardate la potenza delle dita, la facilità con la quale scorrono sui tasti, la memoria prodigiosa, il sentimento, la passione e l’energia musicale che traspaiono da tutta l’esecuzione. E la sua umiltà di esecutore è assoluta, nessuna interfaccia rispetto ai “divi” dell’attuale generazione. Come è successo con la Callas, sono emozionatissimo nel farvelo ascoltare (Potete dire: “Stasera ho sentito Rubinstein!”). E’ un rarissimo video (l’ultimo della sua prodigiosa
attività)
all’Ambassador
di
College
un
concerto
Auditorium
tenuto
(Pasadena,
California). Tecnicamente il video ha delle imperfezioni sonore, il nostro Presidente Nicola mi urla alle orecchie che Il o dò è u a figu a usi ale a atte izzata dal pe iodi o ito o di u ’idea p i ipale, a he se o lusa, lu go tutta la composizione.
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questo è un Club di audiofili dal suono vinilico perfetto, io continuo con la mia anarchia musicale fino a quando mi cacceranno con ignominia… Rubinstein continuò a esibirsi in concerti sino all’anno successivo, il 1976, quando dovette abbandonare le apparizioni pubbliche a causa del grave deterioramento della vista. Il Maestro morì a Ginevra nel 1982 all'età di novantacinque anni. Le sue ceneri sono state traslate in Israele.
VIDEO: Al pianoforte Arthur Rubinstein.
FRANZ SCHUBERT – IMPROMPTUS N° 3 Dal tu a e della olo
a allo s os ia e della te pesta, dall'i piego sottile degli a tifi i al tremendo limite in
cui la cultura si perde nel tumultuante caos della natura, egli ovunque è passato, tutto ha sentito. Chi verrà dopo di lui non continuerà, dovrà ricominciare, perché questo precursore ha condotto l'opera sua fino agli estremi confini dell'a te. (Franz Grillparzer, Orazione funebre per Beethoven).
Il 26 marzo 1827 si spegneva Beethoven, il simbolo musicale della città e dell’impero, il genio che aveva oscurato tutti i possibili rivali. Franz Schubert fu uno degli otto musicisti scelti per accompagnare la sua bara durante il funerale, portando le fiaccole celebrative, non immaginando che, 20 mesi dopo, la morte avrebbe colto anche lui. La breve vita di Schubert fu completamente permeata di musica. Egli fu uno dei più grandi compositori del primo Ottocento, capace di esprimere come pochi altri, con una semplice vena melodica, la “sehnsucht”, cioè lo struggimento malinconico, l’anelito all’infinito che caratterizza l’esperienza romantica. Schubert visse sempre ai margini della società “ufficiale”, amava circondarsi di amici con cui cantare e suonare anche attorno ad un bicchiere di buon vino. E questa stabile compagnia che si formò fu chiamata degli Schubertiadi, stesso nome dato a quelle allegre serate. La sua mancata integrazione nella società del tempo
deriva
da
un
accentuato
disagio
esistenziale e da un sostanziale rifiuto delle istituzioni; per tutto l’arco della sua breve esistenza Schubert condusse una vita precaria, alternando periodi in cui esercitava la professione di maestro ad altri in cui era un insegnante privato alle temporanee dipendenze di un aristocratico, ad altri ancora in cui veniva ospitato da amici. In questo, Schubert incarna perfettamente il modello dell’artista romantico, in conflittuale rapporto con la realtà.
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E qui va ricordata la fine infelice di Schubert, morto in solitudine a soli 31 anni, affetto da sifilide, allora particolarmente ghettizzante, e vittima di una febbre tifoidea, scomparso senza essersi reso conto del destino immortale delle proprie composizioni. Nell’ultima parte della vita, Schubert scrisse 8 Improvvisi: nel 1800 l’Impromptu (tradotto in italiano con improvviso, ma più correttamente occorrerebbe chiamarla improvvisazione) indicava una composizione musicale, soprattutto pianistica, derivata dalla pratica dell’improvvisazione strumentale, che poteva assumere la forma del Lied, del minuetto, del tema con variazioni, dello scherzo o della sonata. Schubert non ebbe, in vita, successo come sinfonista: fu solo nella intimità della musica pianistica che egli trovò se stesso e riuscì ad esprimere al meglio la poesia che si rifletteva nella sua musica. Il pianoforte diventò quasi un diario su cui sfogare le ambizioni represse, le frustrazioni, la felicità agognata e mai realizzata, perché oscurata dalla sofferenza e dall’inquietudine. ♫♫ L’Improvviso n° 3 dell’Op. 90 è uno dei più amati, certamente il più celebre della raccolta: è un brano sconsolato, di profonda tristezza senza via d’uscita, pennellata da un colore brunito, di rassegnazione, di rimpianto per una felicità che sta “lì, dove tu non sei”, come amava dire Schubert. Ascoltando l’Improvviso No. 3 Op. 90, ciò che balza subito all’attenzione è il meraviglioso ricamo di arpeggi, che accompagna il canto della melodia. Non ci sono contrasti dinamici forti come in altri Improvvisi, non ci sono quei “silenzi” dai quali spesso Schubert fa sgorgare le idee musicali più cupe: eppure la malinconia di questo brano, nonostante la tonalità maggiore (che dunque dovrebbe essere brillante e solare) emerge in tutta la sua tragica bellezza. Ho scelto l’interpretazione della giovane pianista lettone Olga Jegunova, (nata nel 1984), passionale ed impetuosa: le mani di questa giovane ma già affermata pianista si muovono come un’onda marina a volte placida a volte impetuosa, gli occhi socchiusi, concentrata sulla partitura.
VIDEO: Al pianoforte Olga Jegunova. Live, Londra, 2012.
FRANZ SCHUBERT - LIED “IM FRÜHLING” (IN PRIMAVERA) Composizione caratteristica dell'Ottocento tedesco, il Lied (= canzone o romanza) testimonia il felice incontro tra le due espressioni artistiche più tipicamente romantiche: la musica e la poesia. La forma musicale del Lied, un canto in lingua tedesca eseguito da una voce solista con l'accompagnamento, generalmente del pianoforte, segue l'andamento dei versi e delle strofe di un testo poetico, tratto dall'opera di grandi poeti romantici, ma spesso anche dal vasto patrimonio di canti e poesie popolari che proprio allora, nello spirito del recupero delle tradizioni nazionali, venivano raccolti. Anche
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il Lied, per le sue particolari caratteristiche musicali, ha come ideale ambiente di diffusione il salotto romantico borghese. Fra i più noti autori di Lieder vi sono Schubert, Schumann, Mendelssohn e Brahms. Tra i 386 Lieder scritti da Schubert, per questa serata ho scelto “Im Frühling” (In primavera), lied composto nel 1826 su un poema di Ernst Schulze. Il poeta canta l’amore perduto e raffronta il proprio dolore con il gioioso splendore della primavera, intatto e luminoso come allora; e vorrebbe essere un uccellino nascosto tra le fronde degli alberi, e cantare il suo amore per lei. Il messaggio del Lied è che la vitalità della natura, se da un lato accresce la nostalgia per un tempo che non può ritornare, dall’altro allevia la sofferenza colmando il cuore di incanto e meraviglia. La musica, così dolce e avvolgente, rafforza questa verità e offre anche a noi conforto dal male e dalla malinconia.
IM FRÜHLING (IN PRIMAVERA) Still sitz ich an des Hügels Hang, / Der Himmel ist so klar, Das Lüftchen spielt im grünen Tal, / Wo ich beim ersten Frühlingsstrahl Einst, ach so glücklich war. (In silenzio siedo sul declivo del colle. Il cielo è così luminoso, scherza un venticello per la verde vallata, dove un tempo al primo raggio di primavera, ahimè, ero tanto felice.) Wo ich an ihrer Seite ging / So traulich und so nah, Und tief im dunklen Felsenquell / Den scnen Himmel blau und hell Und sie im Himmel sah. (Dove camminavo al suo fianco, così vicino ed amichevole, e vedevo nel profondo delle fonti oscure il bel cielo azzurro e chiaro, e lei stessa nel cielo.) Sieh, wie der bunte Frühling schon / Aus Knosp und Blüte blickt! Nicht alle Blüten sind mir gleich, / Am liebsten pflückt ich von dem Zweig, Von welchem sie gepflückt! (Guarda, come la primavera multicolore già occhieggia fra le gemme e i fiori! Non tutti i fiori amo ugualmente, preferisco raccoglierli dai rami da dove lei li raccoglieva!) Denn alles ist wie damals noch,/ Die Blumen, das Gefild; Die Sonne scheint nicht minder hell, / Nicht minder freundlich schwimmt im Quell Das blaue Himmelsbild. (Poiché tutto è rimasto come allora, i fiori, i campi; il sole non risplende meno chiaro, non meno allegro si rispecchia nella fonte l'azzurro quadro celeste.) Es wandeln nur sich Will und Wahn,/ Es wechseln Lust und Streit, Vorüber flieht der Liebe Glück, / Und nur die Liebe bleibt zurück, Die Lieb und ach, das Leid.
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(Cambiano solo la volontà e l'illusione, l'allegria ed il conflitto; rapida trascorre la felicita dell'amore, soltanto l'amore rimane, l'amore e, ahimè, il dolore.) O war ich doch ein Vöglein nur / Dort an dem Wiesenhang, Dann blieb ich auf den Zweigen hier, / Und säng ein süßes Lied von ihr, Den ganzen Sommer lang. (Oh, se io fossi un uccellino, là sul pendio del prato, allora me ne resterei qui sui rami, a cantare di lei una dolce canzone, per tutta la durata dell'estate.) Il video di questa serata è un monumento multimediale all’arte di uno dei più grandi interpreti dei Lieder schubertiani, il baritono tedesco Dietrich Fischer-Dieskau (nel registro femminile svetta l’immensa Elisabeth Schwarzkopf), accompagnato da uno dei massimi interpreti del pianoforte del 1900, Sviatoslav Richter. Il tandem formato da Fischer-Dieskau alla voce e da Sviatoslav Richter al pianoforte è davvero straordinario. La voce del baritono è una rocciosa meraviglia che sempre ha caratterizzato la sua arte espressiva; il pianoforte di Sviatoslav Richter commuove per l’intensità del supporto dato al canto e la resa vivissima della melodia schubertiana.
VIDEO: Dietrich Fischer-Dieskau (baritono), Sviatoslav Richter (pianoforte).
FRANZ SCHUBERT – AVE MARIA Franz Schubert compose un nutrito numero di opere sacre, non molto conosciute, la cui produzione coprì tutto l'arco della sua breve vita: facendo il paragone per quantità con i suoi contemporanei più famosi, la sua musica sacra è di poco inferiore a quella di Mozart e di gran lunga superiore a quella di Beethoven. La religione fu una presenza costante nella vita di Schubert. Sin da bambino era stato avviato alla pratica religiosa dal padre e, oltre che da questi, aveva ricevuto i primi rudimenti di musica da Michael Holzer, organista e Kapellmeister presso la parrocchia degli Schubert a Lichtental. Studiò per cinque anni presso il Kaiserlich-königliches Stadtkonvikt (Seminario Imperiale e Reale) sotto la guida dei monaci Scolopi. Curiosamente, di tanta ricchezza compositiva oggi si conosce soprattutto un brano che non fu scritto come musica sacra: la famosissima Ave Maria. Nel 1810 Sir Walter Scott aveva scritto un lungo poema narrativo intitolato ''The Lady of the Lake'' (La donna del lago), ispirato alle saghe scozzesi. Nel racconto, l'eroina Ellen Douglas, che per fuggire ai pericoli si nasconde in una grotta, prega cantando ''Hymn to the Virgin'', un inno alla Vergine (canto 3, stanza 29 del poema). Quando il poema venne tradotto in tedesco, Schubert ne prese ispirazione per un ciclo di 7
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Lieder, e l'Inno alla Vergine diventò "Ellens dritter Gesang" ("Terza canzone di Ellen"). In seguito il brano prese ad essere eseguito con le parole della preghiera latina Ave Maria. Nonostante la sua enorme popolarità, questo brano trova difficilmente una collocazione nelle liturgie dove non è sempre tollerata, data la sua origine ''profana'': già, perché sull’Ave Maria di Schubert aleggia anche una “leggenda nera”, cioè che l’autore abbia scritto il brano mentre si struggeva tra pene d’amore per una prostituta che era diventata la sua amante. Ai nostalgici del bel canto e ai tradizionalisti, propongo l’Ave Maria nella interpretazione classica del grande Luciano Pavarotti.
VIDEO: Lu ia o Pa a otti a ta l A e Ma ia i u Co e to dei T e te o i a Los A geles, nel 1994.
FRANZ SCHUBERT – IL CANTO DEL CIGNO D. 957, SERENATA Schubert nel 1828 assistette alla lettura di un libro di poesie di Heine, un poeta suo coetaneo che si affacciava in quel momento nei salotti viennesi, ne trasse ispirazione e scrisse un ciclo di 14 Lieder per voce e pianoforte, “Schwanengesang, D. 957, in due libri. Tra i brani della raccolta ho scelto la celeberrima Serenata, dalla lirica delicatissima e molto cantabile. La propongo nella trascrizione per pianoforte solo di Franz Listz, nella interpretazione “sentimentale” (e femminile) di Khatia Buniatshvili, giovane pianista georgiana con cittadinanza francese, nata nel 1987, tra le pianiste più interessanti della nuova generazione.
VIDEO: Al pianoforte Khatia Buniatishvili.
FRANZ SCHUBERT - TRIO OP.100 D 929, ANDANTE CON MOTO Questo trio è un brano straordinariamente bello, dalla durata cospicua che lo fa rientrare nelle "celestiali lunghezze" schubertiane, secondo una famosa definizione di Robert Schumann. E’ particolarmente celebre il secondo movimento, Andante con moto, contraddistinto da un carattere cupo e tragico: si apre con uno stentato ritmo di marcia, eseguito dal violoncello che ha in sé qualcosa di
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funereo, su cui dopo due battute entra un tema di penetrante malinconia, ispirato da un Lied del compositore svedese Isaac Berg: «Vedi, il sole declina». L'oscillazione tra modo maggiore e modo minore
che
inquietante,
pervade
la
l’andamento
è
melodia
è
sinistro
e
presenta un colore cupo, dalla intensità dolorosa e ossessiva. Il tema principale del secondo movimento fu usato come uno dei temi musicali centrali nel film di Stanley Kubrick del 1975 Barry Lyndon.
VIDEO: Una suggestiva interpretazione del trio formato da Jean-Philippe Collard al pianoforte, Augustin Dumay al violino, Frédéric Lodéon al violoncello.
FELIX MENDELSSHON-BARTHOLDY - SINFONIA N° 4 “ITALIANA”, 1° MOVIMENTO Dalle atmosfere brunite e sognanti di Schubert passiamo ad un brano adrenalinico di Felix Mendelsshon, enfant prodige del suo tempo. Di origine ebrea, conobbe in vita dei periodi di emarginazione sociale, che si ripeté anche nel periodo nazista. A Mendelsshon si deve il grande merito della riscoperta della musica di Bach, caduta nell’oblio. Il «romanticismo felice», come fu ben definito quello di Mendelssohn, trova una delle sue più perfette espressioni nella Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90, detta “Italiana” perché abbozzata durante il soggiorno dell'autore nel nostro paese. Una sinfonia dal carattere vagamente popolaresco, con certi suoi andamenti di danza e col suo sapore mediterraneo. Come ogni artista tedesco, Mendelssohn subì il fascino della nostra terra, e tra il 1830-31 compì il suo viaggio in Italia, fermandosi a Roma, dove strinse amicizia con Berlioz, a Napoli e a Venezia. Ascoltando questa musica mendelssohniana possiamo affermare che essa, soprattutto nei due movimenti estremi, ci appare irradiata di luce mediterranea e animata da una esuberante gioia di vivere: «la musica più gaia che io abbia composto», ebbe a dire, del resto, lui stesso. Quella gioia che esplode nella “partenza” festosissima dell'Allegro vivace. La sinfonia fu eseguita nel maggio del 1833 dalla Filarmonica di Londra diretta dallo stesso autore e fu accolta in modo molto lusinghiero, suscitando però sin d'allora e per molto
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tempo ancora diverse discussioni in sede critica circa la classificazione dell'opera nel genere romantico o classico. Discussione piuttosto artificiosa e completamente superata, perché questa sinfonia è l'espressione di un felicissimo equilibrio spirituale, in cui i termini di classico e di romantico si fondono e si integrano magnificamente in una sintesi di vivaci colori mediterranei e di autunnali sentimenti nordici. ♫♫ Il carattere della sinfonia si rivela subito nello slancio e nella solarità dell'Allegro iniziale, che si apre con un attacco risoluto e irruento enunciato dagli archi e dagli strumenti a fiato. Subentra quindi il secondo tema più dolcemente disteso, esposto dai clarinetti e dai fagotti, quindi dai flauti e dagli oboi con il sostegno degli archi: i vari motivi si incrociano fra di loro e nella riesposizione degli elementi tematici il secondo tema viene suonato dalle viole e dai violoncelli, mentre l'accompagnamento passa ai flauti e ai clarinetti. Si impongono di nuovo gli strumenti a fiato in un atteggiamento di fanfara, fino a cedere il passo agli archi che riassumono e concludono brillantemente il tempo.
VIDEO: La spumeggiante interpretazione di Riccardo Muti che dirige i Wiener Philharmoniker, in occasione dei 150 anni della fondazione della grande orchestra viennese. La sala è Il Musikwerein, dove si svolge ogni anno il Concerto di Capodanno. Live, 1992.
ROBERT SCHUMANN – KINDERSZENEN: TRAUMEREI Robert Schumann (1810-1856) è stato uno dei più grandi compositori di musica romantica. Fu poco compreso in vita, e la sua fama si deve alla moglie, Clara Wieck, anch'ella pianista e compositrice, la quale dopo la morte del consorte continuò ad esibirsi per circa quarant'anni ai più alti livelli (è considerata la maggiore pianista donna dell'Ottocento), portando in repertorio la musica del marito.
[Schumann in un dagherrotipo del 1850]
Schumann non poté coronare il sogno di diventare un grande pianista a causa di esperimenti insensati, ai quali si sottopose per perfezionare la sua tecnica pianistica: il risultato finale fu la perdita dell'uso del dito medio della mano destra. Nel 1850 si aggravarono i sintomi della sua instabilità mentale, già manifestati in precedenza; soffriva di amnesie, di allucinazioni sonore, restava assorto per ore, assente fino al punto che venne licenziato dal lavoro (copriva allora la carica di direttore generale della musica a Düsseldorf). Nel febbraio del 1854 tentò il suicidio gettandosi nel Reno, e fu fortunatamente salvato da barcaioli. Fu pertanto internato nel manicomio di Endenich, una città nei pressi di Bonn, dove visse ancora per due anni, appena rischiarati da fuggevoli lampi di lucidità, sempre assistito da Brahms e da altri amici che andarono ripetutamente a trovarlo, fino a quando morì, nel 1856, a soli 46 anni.
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I disturbi nervosi che accompagnarono Schumann per lunghi anni della sua vita e della sua attività compositiva sarebbero attribuiti ad un'infezione di sifilide, contratta molti anni prima della morte; anche il suo decesso fu probabilmente causato da un progressivo e letale avvelenamento da mercurio, usato allora come trattamento per la sifilide. Un segno dell’instabilità mentale di Schumann fu la sua idea di scomporre la propria personalità in due personaggi, Eusebio e Florestano, il primo contraddistinto da un carattere contemplativo, dolce, sognante e fragile; Florestano rappresenta invece il lato fantastico e battagliero della sua natura. Con questi due nomi Schumann, a seconda del suo stato d'animo, usava firmare la sua musica e i suoi scritti sulla Neue Zeitschrift für Musik, la rivista di progresso musicale da lui fondata e che fu il manifesto di un'intera generazione di musicisti romantici. Le opere di Schumann sono un esempio raro di passionalità focosa, e di sentimenti intimi, delicati, sensuali, lacrimevoli. Il suo stile è contrassegnato da un uso dell'armonia assai personale, che, come avviene per i suoi grandi contemporanei (in particolare Chopin e Liszt), si rende immediatamente riconoscibile all'orecchio dell'ascoltatore, soprattutto nei piccoli e numerosissimi brani per pianoforte per i quali è giustamente noto. Ed è forse in questi ultimi, piuttosto che nelle sue pur mirabili grandi composizioni per orchestra e strumento solista, che Schumann raggiunge la vetta più alta e più tipica della sua arte. Composti nel 1838, i Kinderszenen (in italiano Scene infantili) costituiscono una delle opere più celebri di Robert Schumann. La moglie Clara (nella foto) aveva più volte sottolineato, nelle sue lettere, lo spirito fanciullesco del marito (“…A volte mi sembri un bambino.”) e pare siano state proprio tali epistole a ispirare la composizione dei Kinderszenen. Disse lo stesso Schumann: “Sono tredici delicati brani scritti per i piccoli fanciulli da un fanciullo grande”. ♫♫ Tra i 13 brani ho scelto il celeberrimo Träumerei (in italiano Sogno o Fantasticheria), una composizione caratterizzata da un tema semplice, lineare, che rievoca la dolcezza della dimensione onirica e che, inserita in una raccolta dedicata all'infanzia, acquista la sfumatura delicata dell'innocenza. La ascolteremo nella versione sognante di Vladimir Horowitz, ritenuto da tutti critici uno dei più grandi virtuosi del pianoforte che siano mai esistiti. Era genero di Arturo Toscanini, avendone sposata la figlia Wanda. La sua tecnica era e rimane inimitabile, in quanto frutto di un controllo assoluto sullo strumento, non solo per la capacità di esprimere una stupefacente combinazione di potenza, leggerezza e agilità, ma soprattutto per la caleidoscopica varietà timbrica di cui egli era capace persino nei passi più rischiosi. Nella seconda metà degli anni ottanta il modo di suonare di Horowitz cambiò notevolmente. Non essendo più capace, se non per brevi tratti, del travolgente
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virtuosismo giovanile, il pianista maturò uno stile rilassato, in cui l'urgenza drammatica lasciava posto a sonorità crepuscolari e atmosfere sognanti.
VIDEO: Al pianoforte Vladimir Horowitz.
ROBERT SCHUMANN – CARNIVAL: CHOPIN E’ una fantasiosa raccolta giovanile di venti brani, composti durante la stagione del Carnevale del 1835, da cui il titolo posto dallo stesso Schumann. L’opera è una galleria di ritratti fantastici, di vario genere: le maschere di Pierrot, Arlecchino, Pantalone e Colombina; musicisti quali Chopin e Paganini e naturalmente lo stesso compositore nella personificazione dualistica del proprio io (Eusebio e Florestano); vi troviamo anche
personaggi
importanti della sua esistenza, come Estrella, il nome con il quale Schumann aveva ribattezzato Ernestine von Fricken, oggetto all'epoca delle sue attenzioni amorose; infine anche personaggi presi dalla letteratura, quali i «Fratelli di Davide», che nel brano conclusivo marciano baldanzosamente contro i Filistei.
[Robert e Clara Schumann]
Nei 20 brani della raccolta si avverte con molta chiarezza il mondo musicale di Schumann, fatto di slanci ardenti e di improvvisi ripiegamenti, di impeti e di tenerezze, di introspezioni psicologiche e di sogni fantastici, contrassegnati da un idealismo di pura marca romantica. Un mondo poetico punteggiato da stati d'animo diversi e più volte contrapposti, espressi sempre con una straordinaria freschezza melodica. ♫♫ Tra i brani della raccolta, ho scelto Chopin, breve composizione che richiama l’atmosfera delicata e contemporaneamente malinconica del grande compositore polacco.
VIDEO: Al pianoforte Wilhelm Kempff, considerato uno dei più grandi pianisti del XX secolo, uno dei massimi esecutori della musica di Schumann.
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ROBERT SCHUMANN – IL CONTRABBANDIERE Di tutt’altro spirito è il Lied Der Kontrabandiste (Il contrabbandiere) qui nella versione solo pianistica, un perpetuum di breve durata, gioioso, dal ritmo frenetico, banco di prova per virtuosi.
VIDEO: Al pianoforte Steinway la pianista cinese Yuja Wang.
LE PIACE BRAHMS? Il capitolo su Brahms è preceduto da un breve spezzone del film “Le piace Brahms?”, del 1961, diretto da Anatole Litvak, tratto dall'omonimo romanzo di Françoise Sagan del 1959. E’ il racconto di una solitudine: Paule (39 anni) è sentimentalmente legata a Roger, un uomo della sua età. Sotto le sembianze di Simon, ragazzo di 25 anni, l’amore entra nella sua vita. Ma la donna matura non si lascia ubriacare dal profumo di giovinezza di questa avventura e finirà col scegliere un sentimento sicuro; tornerà al primo amore, più confortevole nella sua abitudine. Le tentazioni, i dubbi, le lacerazioni di Paule sono accompagnati da una sinfonia di Brahms. Il film fu interpretato da Ingrid Bergman, Yves Montand e Anthony Perkins.
JOHANNES BRAHMS – DANZA UNGHERESE N° 1 Opere di straordinaria brillantezza e vivacità inventiva, capaci di nascondere sotto una fresca immediatezza un raffinatissimo studio timbrico e armonico, le ventuno Danze Ungheresi nacquero tra il 1852 e il 1869 per essere eseguite originariamente al pianoforte a quattro mani. La Danza Ungherese n.1 si ispira alla Isteni Czárdás (o”Czárdás sacra”) dell’ungherese Gyorgy Sárközy; lo stile è quello appassionato e trascinante delle melodie zigane, caratterizzato da una netta contrapposizione tra episodi lenti e malinconici e temi ritmicamente impetuosi e gioiosi.
VIDEO: Versione orchestrale. Gustavo Dudamel dirige la Gothenburg Symphony. Gothenburg Concert Hall, “ ede . No e e . L ese uzio e è frizzante, coinvolgente i colori musicali sono vivi e caldi.
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JOHANNES BRAHMS – SINFONIA N° 3, III MOVIMENTO “POCO ALLEGRETTO” Nel 1883, l'anno in cui compone la Terza Sinfonia, Brahms era all'apice della fama e della maturità creativa: scomparso Wagner nel febbraio di quello stesso anno, egli era considerato unanimemente il maggior musicista tedesco vivente. Dalla sua parte si schierarono non soltanto gli estimatori di vecchia data, come Clara Schumann, Hans Richter e Joseph Joachim, ma anche neofiti insospettabili come Hans von Bülow, il quale nel 1879 scriveva a un'amica, la contessa von Char, che «dopo Bach e Beethoven egli è il più eminente, il più grande dei compositori». Brahms a quel tempo si presentava come un “omaccione pesante e barbuto come un patriarca” – scrive il musicologo Massimo Mila in un celebre saggio – che d’inverno se ne stava a Vienna, o in tournée in Germania, a suonare nelle taverne dei porti o a dare concerti, e d’estate, ai primi di giugno, saliva in montagna, si rifugiava sulle Alpi austriache o svizzere, tra albe, tramonti, laghi e foreste, a scrivere nuovi lavori. D’inverno esecutore, d’estate compositore. Così per tutta la vita. Il “Brahms delle montagne” era un uomo che conosceva assai bene il dolore, a cominciare da quello della solitudine, della malinconia, della tristezza. Brahms vivrà e morrà celibe, pieno di nostalgie per la dolcezza d’un focolare domestico, di una carezza femminile, sognando le gioie di una felicità che non volle volontariamente cogliere per amore di un’irrinunciabile libertà privata. ♫♫ Il 3° movimento della terza sinfonia brahmsiana è un momento lirico letteralmente indimenticabile: Brahms esalta la potenza di un canto sublimato dal più intenso struggimento romantico, abbandonando la consueta complessità formale per approdare a una struttura di limpida e classica chiarezza. Il tema che apre il Poco allegretto, in do minore, cantato dai violoncelli a mezza voce, è una gemma ineguagliata dell'invenzione melodica brahmsiana. Da notare l'episodio centrale del "Trio", che viene a interrompere l'incedere nostalgico e meditativo di questo terzo tempo con un andamento di danza stilizzata presago addirittura di Mahler. Il ritorno della sezione principale riporta l’intensità lirica che caratterizza il movimento.
VIDEO: Vi propongo la celebre ed intensa interpretazione di Leonard Bernstein alla guida dei Wiener Philharmoniker.
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JOHANNES BRAHMS - CONCERTO PER VIOLINO, 2° MOVIMENTO Poche righe a Joseph Joachim del 21 agosto 78 rivelano in Brahms il desiderio di cointeressare l'illustre violinista alla prima nascita del suo Concerto per violino: «Caro amico, vorrei mandarti un certo numero di passaggi per violino; mi domando se non sei tanto sprofondato in Mozart e forse in Joachim stesso, da poter disporre di un'oretta per guardarli. Mi basta che tu dica una parola o ne scriva qualcuna sopra la parte: difficile, scomodo, impossibile e così via». Il Concerto per violino op. 77 è oggi universalmente considerato come una delle composizioni più riuscite di Johannes Brahms e rappresenta uno dei concerti per violino più famosi nella storia della musica. Tecnicamente è difficile e richiede l’esecuzione da parte di un virtuoso dello strumento. E’ suddiviso in 3 movimenti: noi ascolteremo il 2°, l’Adagio in fa maggiore. ♫♫ Una grande compattezza tematica contraddistingue questo Adagio, una pagina dal carattere estatico. L'apertura è un canto dolce e malinconico, che a volte riecheggia melodie popolari, intonato dall’oboe con l’accompagnamento dai soli legni. La parte successiva è dominata dagli archi e dal violino solista che disegna ampi arabeschi che percorrono tutta l’estensione dello strumento.
VIDEO: Una grande interpretazione di Yehudi Menuhin, tra i più grandi violinisti dello scorso secolo. Suonano i Berliner Philharmoniker diretti da Rudolph Kempe.
FRANZ LISTZ - RAPSODIA UNGHERESE N° 2 Franz Listz (1811-1886), ungherese di nascita, fu uno dei più grandi virtuosi del pianoforte dell'Ottocento, se non il più grande. Fu legato a Frèdèric Chopin e a Robert Schumann da amicizia e stima. Era il suocero di Richard Wagner, avendo quest'ultimo sposato sua figlia Cosima. [Franz Listz, foto di Franz Hanfstaengl, 1858]
Le Rapsodie Ungheresi (S. 244) sono una raccolta di 19 brani per pianoforte composti da Franz Liszt. Hanno una forma libera ispirata ai moti patriottici ungheresi del 1848. Sei rapsodie sono poi state riadattate dallo stesso autore per orchestra e alcune di esse sono brani diventati celebri, come le nn. 2, 6, 9, 12, 14 (Fantasia Ungherese), 15 (Marcia Rákóczi) e 19.
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In queste composizioni Liszt mostra tutta la sua capacità virtuosistica: possiamo notare i contrasti tra modi e sonorità, i periodi di calma e di turbolenza e le forme libere che danno una sorprendente libertà di esposizione dei temi. La Rapsodia n. 2 è di gran lunga il brano più celebre della raccolta ed è dedicato al conte László Teleki. E’ considerata uno dei pezzi più famosi per pianoforte e uno dei più riusciti di Liszt; allo stesso tempo è ritenuta uno dei brani più difficili mai scritti nella storia pianistica, questo grazie alle numerose difficoltà tecniche quali trilli, accordi in elevata velocità, numerosi ribattuti, grandi distanze da coprire in gran velocità e passaggi di grande virtuosismo. ♫♫ L'opera consta di due parti distinte: il Lassan e il Friska (dell'ungherese: lassú - lento; friss - fresco, veloce). Inizia con un Lento a Capriccio in Fa che introduce il tema e confluisce immediatamente ad un Andante mesto, costituente il tema del Lassan (specificato dallo stesso compositore molto espressivo). Sia il primo tempo che il lassan presentano un carattere quasi "spiritoso" ma contemporaneamente solenne e assai arricchito (come consueto nelle composizioni lisztiane). Per breve il lassan torna al primo tempo del brano, marcato e "fiero", ma da lì subito riprende il tema dominante, questa volta variato prima nel registro grave e poi di nuovo in quello acuto, spegnendosi infine con dei lunghi accordi in diminuendo. La friska copre una gran parte del brano, inizia con un Vivace di introduzione al tema, dapprima con dei dolci arpeggi, ma che poi incalza in un crescendo sempre più rapido che sfocia nel celeberrimo tema della rapsodia. Da qui il brano si sviluppa con ogni tipo di abbellimenti, controtemi e fantasie. Ho scelto per voi l’interpretazione della pianista ucraina Valentina Lisitsa, che in questo brano dà prova di un virtuosismo eccezionale. La sua meraviglia è manifesta nelle mani: le dita affusolate, magre, toniche, delicate, in grado di trasformarsi in martelletti sicuri, veloci, a volte impetuosi a volte aggraziati: il suono generato è affascinante
ed
avvolgente,
la
tecnica
è
entusiasmante.
VIDEO: Valentina Lisitsa al pianoforte
FRANZ LISTZ - LIEBESTRÄUME Franz Listz era una vera star all’epoca. Enfant prodige e padre del virtuosismo, aveva una capacità di suonare il pianoforte fuori dal comune, e incantava (letteralmente) gli ascoltatori.
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Rivoluzionò il modo di suonare e di fare concerti: con lui nacque l’idea del recital moderno (esibizione solistica di un attore o di un musicista); inoltre era famoso per esprimere con le espressioni del volto e la gestualità il carattere del brano; infine, dimostrava spesso la sua abilità tramite improvvisazioni. Liszt era adorato dalle donne: era un uomo molto affascinante, e le dame del tempo impazzivano per lui. Si racconta che spesso le dame si prendevano a schiaffi per accaparrarsi un fazzoletto da tasca o un bicchiere usato da lui. Frequenti erano gli svenimenti durante i suoi concerti. Un altro aneddoto afferma che Liszt, stufo delle continue richieste di avere una ciocca dei suoi capelli da mettere in un medaglione, iniziò a donare alle postulanti ciocche di peli di cane. Nulla di strano se Listz, per la gioia delle sue ammiratrici, scrisse Liebesträume (Il sogno d'amore), un gruppo di tre composizioni per pianoforte solo. ♫♫ La terza, destinata a diventare celeberrima, è un notturno in la bemolle maggiore che inizia in "poco allegro" con un dolce tema cantabile, per poi crescere sempre più in un animato molto appassionato. Come è tipico di Listz, non mancano virtuosismi, cadenze, scale e invenzioni melodiche. Ve la propongo nella appassionata e sensuale interpretazione di Daniel Berenboim, uno dei più grandi pianisti del nostro tempo.
AUDIO: Al pianoforte Daniel Barenboim. Woher sind wir geboren? (Da dove siamo nati?) di Johann Wolfgang Goethe Da dove siamo nati? Dall'amore. Come saremmo perduti? Senza amore. Cosa ci aiuta a superarci? L'amore. Si può trovare anche l'amore? Con amore. Cosa abbrevia il pianto? L'amore. Cosa deve unirci sempre? L'amore.
FRANZ LISTZ - ÉTUDE S.141 IN SOL DIESIS MINORE N° 3 “LA CAMPANELLA” Fu nel 1831 che Liszt ebbe occasione di udire, in un concerto a Parigi, l'infernale violinista Nicolò Paganini, e restò profondamente colpito dalla virtuosità interpretativa del musicista genovese, virtuosità senza precedenti e sino allora senza eguali. Listz si sentì spinto a emulare il violinista genovese, e per realizzare questo suo disegno ricostruì completamente la propria tecnica pianistica, cercando di trasportare sul pianoforte la “diabolica tecnica” paganiniana, anche per mezzo di «trascrizioni». Nacquero così i Grandes
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études de Paganini: cinque studi costruiti su cinque Capricci, e uno sul Rondò «La campanella» movimento finale del Concerto per violino e orchestra n. 2 di Paganini. Le composizioni del più grande violinista-virtuoso, Paganini, commentate dal più grande pianista-virtuoso del tempo, Liszt! Nella trascrizione per pianoforte il motivo ha mantenuto intatti brio e virtuosismo.
VIDEO: Al pianoforte Evgeni Kissin.
FRANZ LISTZ – CONSOLAZIONE N° 3 Le Consolazioni sono un insieme di sei opere per pianoforte solo di Franz Liszt. Ascoltiamo la celeberrima Consolazione n° 3, che sembra essere stato ispirata dal Notturno op. 27 n° 2 di Chopin. La somiglianza tra le due opere è stata interpretata come un tributo di Listz a Chopin che morì nel 1849, un anno prima che venissero pubblicate le Consolazioni.
VIDEO: Al pianoforte Wladimir Horowitz (1987).
RICHARD WAGNER – TANNAHUSER, OUVERTURE Richard Wagner (1813-1883) è considerato uno dei più importanti musicisti di ogni epoca, e l'artista culminante del Romanticismo musicale non solo tedesco. Attinse, per le sue idee, all'intera storia della musica romantica, cogliendo ciò che gli occorreva per formulare un linguaggio di inabile sottigliezza, vastità intellettuale e intensità emotiva. Da allora, quasi nessun compositore poté ignorare le sue idee e la sua arte. Richard Wagner si prefisse di fondere nel teatro ogni aspetto tematico dell'arte, onde dare vita alla cosiddetta “opera d'arte totale”, dove le arti si sarebbero unificate in una sintesi di poesia, musica e dramma, con un'orchestra nascosta che articolava e sviluppava il dramma psicologico che si andava svolgendo sulla scena. Questo ideale trovò realizzazione - dopo grandi difficoltà - con l'apertura del Festspielhaus di Bayreuth nel 1876. Tannhäuser (Tannhäuser und der Sängerkrieg auf Wartburg, Tannhäuser e la gara dei cantori della Wartburg) è un'opera in tre atti ispirata alle due leggende tedesche di Tannhäuser e delle gare poetiche dei cantori della Wartburg. I temi chiave sono l'opposizione fra amore sacro e profano, e la redenzione tramite l'amore (tema presente in molte opere di Wagner).
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Il capolavoro wagneriano è incentrato sulla figura mitologica del Minnesänger (trovatore) medievale Tannhäuser, un personaggio presente in molte leggende germaniche, che rappresenta l’uomo in drammatico conflitto tra il Bene e il Male, tra l’amore spirituale e quello profano carnale. Trama. Tannhäuser vive da tempo sul Venusberg, ammaliato dalla dea Venere, che era stata bandita dall’Olimpo dopo l’avvento del cristianesimo e trasfigurata nella figura di un demone tentatore, si era rifugiata sul monte Hörsel, presso Eisenach, circondata da una corte di spiriti infernali. Il menestrello è desideroso di tornare alla sua vita di prima, dove lo attende Elisabetta (la nipote del Langravio di Turingia) che lo ama: dopo molte suppliche Venere alfine lo congeda maledicendolo. Giunto a Wartburg, nella dimora principesca, Tannhäuser deve partecipare ad una gara dove i contendenti devono cantare l’amore: chi vincerà la gara sposerà Elisabetta. Il cavaliere Wolfram von Eschenbach canta un’ode che celebra l’amore spirituale, mentre Tannhäuser canta un inno a Venere e all’amore sensuale, suscitando l’indignazione dei presenti. Elisabetta salva l’amato Tannhäuser dalla punizione che i cavalieri della corte vorrebbero infliggergli: la condizione è che si rechi a Roma per ottenere il perdono del Papa. Passa molto tempo, e quando un gruppo di pellegrini è di ritorno da Roma, Elisabetta non trova Tannhäuser tra di loro, e, vinta dal dolore, offre la propria vita per la redenzione dell’amato. Siamo giunti all’epilogo: Tannhäuser torna stanco e disperato perché il Papa ha negato l'assoluzione a meno che il suo bastone da pellegrino fiorisca nuovamente. Elisabetta è però ormai prossima alla morte. Il menestrello invoca Venere, che giunge immediatamente, ma all’improvviso si profila all’orizzonte una processione, il funerale di Elisabetta. Tannhäuser, sprofondato ormai nel dolore, si getta sul suo corpo e, dopo averla invocata come santa, muore redento: il suo bastone fiorisce come simbolo del perdono divino. ♫♫ Di questa complessa opera ho scelto di farvi ascoltare la bellissima Ouverture, il più lungo preludio operistico mai scritto e uno dei più belli in assoluto, un vero capolavoro musicale. E’ una delle pagine sinfoniche più intense, simboleggia la lotta tra il bene e il male e la vittoria finale del bene. Ho scelto di farvi vedere una delle versioni più acclamate degli ultimi anni, quella rappresentata alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera il 21 maggio 2017, diretta da Kirill Petrenko, direttore russo naturalizzato austriaco, che dalla stagione 2019-2020 sarà il nuovo direttore musicale dei Berliner Philharmoniker, succedendo a Simon Rattle. La scenografia è di Romeo Castellucci che, mentre si svolge la musica dell’Ouverture, porta sul palco una trentina di bellissime amazzoni che lanciano le loro frecce prima contro un occhio e poi contro un orecchio.
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Scena tanto suggestiva da vedere quanto tormentata da decifrare! L’arco simboleggia l’arpa del menestrello, e, in parafrasi, la sua anima divisa tra l’amore puro e quello sensuale; le
frecce lanciate sono le sue pulsioni, i suoi dubbi, i suoi rimorsi; occhio ed orecchio
rappresentano quel mondo esterno, nel quale Tannhäuser (rappresentato dal ballerino che “scala” l’immagine proiettata sullo sfondo del palcoscenico) vive la sofferenza del suo tormentato amore; la supererà e sparirà, ed allora apparirà l’immagine di una rosa, simbolo del trionfo dell’amore puro e della redenzione finale. Anche gli archi saranno raccolti e spariranno, simbolo del trionfo finale del bene. ♫♫ I temi musicali principali di tutta l’opera sono la contrapposizione fra amore sacro e profano, e la redenzione grazie all’amore (Elisabetta, morendo per Tannhäuser diverrà santa e lo redimerà), tema molto caro a Wagner, dato che comparirà in altre sue opere. La pagina si apre con il tema della salvezza (il canto dei pellegrini), suonato dai clarinetti, corni e fagotti: è il tema religioso della purezza spirituale, lento e commosso. Sembra suonare da lontano, per poi avvicinarsi, facendosi sempre più forte. Ad esso si sovrappone lentamente il tema della vita, irruento e coinvolgente, affidato agli archi, che simboleggia il risveglio delle passioni. Il canto dei pellegrini scompare, lasciando che la tensione religiosa diventi sempre più debole e infine svanisca in lontananza, mentre cala la notte. Al suo posto irrompe impetuoso il tema del Venusberg, il monte di Venere: suoni magici riempiono l'aria, si odono grida esultanti e il frenetico baccanale è segnato da danze vorticose e sensuali che rappresentano il principio del male. Tannhäuser, sotto l'influenza di questa seduzione, canta il suo giubilante inno d'amore: gli viene risposto, dapprima con strani e tumultuosi richiami, e poi con la seducente voce di Venere stessa – a piena orchestra - che appare e promette di realizzare i suoi più selvaggi sogni di beatitudine.
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Si insinua un pensiero malinconico che attenua l’esaltazione del momento: il clarinetto esprime il rimorso di Tannhäuser di fronte a questo amore proibito, poi di nuovo prendono vigore urla ancora più tumultuose e grida selvagge di gioia. Finalmente Venere trascina Tannhäuser nella sua dimora di piacere. La tempesta si posa e solo una leggera brezza sembra muovere l'aria della notte con una strana voluttà. Compare l’alba. Ancora una volta il canto dei pellegrini si sente in lontananza, poi sempre più vicino mentre il sole sale; a voce sempre più forte, suonato dalle trombe, appare il tema della redenzione, il destino che attende Tannhäuser.
VIDEO: Kirill Petrenko dirige una splendida Bayerisches Staatsorchester: il suo Wagner risplende per la vocazione antiretorica e pe la ellezza e la pie ezza del suo o he ies e a otte e e dall o hest a.
RICHARD WAGNER – LE VALCHIRIE, LA CAVALCATA Nella mitologia scandinava le Valchirie erano nove divinità femminili minori, figlie di Odino (Wotan), il più antico degli dèi, il creatore del mondo e di tutte le cose, signore della sapienza, conoscitore delle cose antiche e profonde; egli non solo conosceva i misteri dei Nove mondi e l'ordine delle loro stirpi, ma anche il destino degli uomini e il fato stesso dell'universo. Odino era anche Sigrföðr ("padre della vittoria"), perché decideva nelle battaglie a chi dovesse andare la vittoria, e Valföðr, ("padre dei caduti"), perché sono suoi figli adottivi tutti coloro che cadevano in battaglia. Con questi due nomi egli distribuiva in battaglia la vittoria e la morte: entrambi doni graditi ai guerrieri. Le Valchirie avevano il compito di scegliere i più eroici tra i caduti e portarli nel Valhalla, dove venivano accolti da Odino e preparati all’ultima battaglia da combattere assieme agli dèi contro le forze del caos alla fine del mondo. Le Valchirie vengono spesso rappresentate come aitanti fanciulle dai lunghi capelli biondi, in sella a cavalli alati, armate con elmo e lancia; in realtà la leggenda vuole che le loro cavalcature fossero i branchi di lupi che si aggiravano tra i cadaveri dei guerrieri morti in battaglia, e che le Valchirie stesse apparissero simili ai corvi che volavano sopra i campi di battaglia. Secondo tale visione fantastica, i branchi di lupi e i corvi che spazzavano un campo dopo una battaglia venivano rappresentati come mezzo per scegliere i corpi degli eroi caduti combattendo.
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♫♫ La Cavalcata delle Valchirie è un celeberrimo brano presente all'inizio del terzo atto de La Valchiria, ed è senza dubbio il brano musicale più conosciuto di Wagner. Si distingue particolarmente per i suoi riferimenti nella cultura popolare, e soprattutto viene abbinata a tutto ciò che è attinente all'arte della guerra. La scena è quasi tutta occupata dalle Valchirie, in sella ai loro cavalli. Ai suoni dell’orchestra, dove il tema principale è affidato agli ottoni, si aggiungono
le
voci
delle
Valchirie, con i loro “Hojotoho”, che sfociano anche qui in salti di un’ottava all’insù (sul SI e sul DO) creando un effetto trascinante ed entusiasmante. Il tema della cavalcata (tutto in 9/8) viene via via riproposto in tonalità diverse,
per
creare
proprio
l’impressione del volo, con i cavalli alati che si librano nell’aria in volute sempre più alte.
VIDEO: Vi propongo l elettrizzante interpretazione della Metropolitan Opera Orchestra diretta da James Levine. Nella foto la spettacolare scenografia allestita in quella rappresentazione.
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Ferdinand Leeke: L addio di Wotan a Brunilde (1875)
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L’anello del Nibelungo, di Richard Wagner In occasione della serata dedicata al Romanticismo tedesco, alcuni degli amici presenti, affascinati dalle possenti musiche di Wagner tratte dal ciclo de L’anello del Nibelungo, mi hanno chiesto delucidazioni sul contesto letterario (storia e libretto) delle stesse. Li accontento volentieri con questo articolo. L'anello del Nibelungo (Der Ring), noto anche come Tetralogia di Wagner, è un insieme di quattro drammi musicali che Wagner compose (musica e libretto) nell’arco di 26 anni tra il 1848 ed il 1874. Si tratta di una gigantesca veduta artistica che racconta dell'inizio e della fine del mondo. Le figure preminenti sono Alberico e Wotan. Alberico (lo gnomo nibelungo da cui la storia prende nome) è la personificazione del male assoluto, il quale si impossessa dell'oro e lo fonde forgiando un anello magico che lo rende il padrone del mondo. Wotan (l'Odino della mitologia nordica, il re degli dèi che dimora tra le nubi del Valhalla) gli si contrappone come figura inizialmente ambigua (ambisce anche lui alla potenza, inconsapevole artefice della propria rovina), ma successivamente diventa sempre più conscia della necessità di ripristinare l’ordine del cosmo. Tra di loro, gli eroi Sigfrido e Brunnhilde, che dovrebbero rappresentare la luce della speranza e che invece cadono vittima della loro stessa innocenza. Solo Brunnhilde, all'ultimo momento, determinerà il riscatto delle colpe commesse, immolandosi nel grande incendio distruttore e riconsegnando l'anello maledetto alle limpide acque del fiume Reno, da dove Alberico l'aveva strappato. Il ciclo costituisce un continuum narrativo che si svolge nell'arco di un prologo e tre "giornate", ed è composto da: L'oro del Reno (prologo) - La Valchiria (prima giornata) - Sigfrido (seconda giornata) - Il crepuscolo degli dei (terza giornata). E’ impossibile cogliere nella sua interezza L'Anello del Nibelungo, opera d'arte totale, solo attraverso la mera lettura del libretto, ma sarebbe necessario vederlo ed ascoltarlo integralmente (nonostante la sua lunghezza), per apprezzare e comprendere in pieno la sua bellezza esaltante, il suo respiro ammaliatore, il livello della visione del mondo che esso esprime. E se proprio volessimo il must, luogo
privilegiato
rappresentato
dal
il
sarebbe Teatro
di
Bayreuth [a sinistra, in un disegno dell epo a], appositamente costruito proprio per la rappresentazione dei drammi wagneriani.
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L’ORO DEL RENO Scena I. Le tre ninfe Woglinde, Wellgunde e Flosshilde (che sono figlie del Reno ed hanno il compito di proteggerne l'oro), giocano, spensierate, attorno allo scoglio dove riposa l'oro. Il nano Alberico, un orrido Nibelungo, fuoriesce dalle viscere della terra: egli vorrebbe sedurre una delle Ondine, non importa quale, per soddisfare la sua sete di piacere; ma le fanciulle, una dopo l'altra, si sottraggono e si burlano di lui, con l'innocente crudeltà della gioventù e della bellezza. Il sole intanto, trafiggendo i flutti, fa risplendere l’oro alla sommità dello scoglio immerso nelle acque. Le tre Ondine non temono di svelare il segreto potere del tesoro che custodiscono: chiunque sarà capace di forgiare con esso un anello, dominerà il mondo; per farlo però deve rinunciare all'amore. Alberico, infuriato dal rifiuto delle fanciulle a piegarsi al suo desiderio, non esita: se non potrà ottenere l'amore, avrà la potenza dell'oro e le voluttà che esso procura, e perciò strappa il prezioso metallo dallo scoglio.
[Alberico e le Figlie del Reno, illustrazione di Arthur Rackham]
Terrorizzate, le figlie del Reno fuggono precipitosamente. La loro fuga annuncia la sventura universale: l'oro, il tesoro sacro che in seno al Reno era il pegno di una giusta spartizione delle ricchezze della terra secondo il valore di ciascuno dei viventi, è caduto nel potere di mani egoiste ed indegne; l'armonia universale, che solo l'amore garantiva e preservava, è rotta! Scena II. Al sogno di potenza e di dominio di Alberico fa eco - dalle cime montagnose ove si erge, appena compiuto, il Walhalla, la fortezza degli Asi - il sogno di Wotan, che aspira anch’egli a una potenza assoluta. Nel suo disegno, lo strumento di questa potenza è rappresentato dal Walhalla, per costruire il quale Wotan ha dovuto fare ricorso al lavoro di Fafner e Fasolt, i giganti, forze brute naturali. Nel giorno che si leva Wotan si appresta a prendere possesso del Walhalla. Ha dimenticato (o finge di dimenticare) che ad ogni diritto corrisponde un dovere: aveva promesso un prezzo ai giganti, in cambio della loro fatica, Freya, sorella della moglie Fricka e dea dell'amore e della gioventù eterna. Freya infatti possiede le mele d’oro che, mangiate ogni giorno, assicurano l’eterna giovinezza.
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Fricka, temendo per la sorella, ricorda a Wotan la promessa e gli rimprovera la leggerezza con la quale ha stipulato il contratto con i giganti. Wotan le ribadisce che non rispetterà il contratto, per lui senza valore: pensa che Fafner e Fasolt non saprebbero cosa farsene della dolce Freya e che accetteranno sicuramente un altro compenso, che Logi, il dio saggio consigliere, si è impegnato a trovare. Wotan si inganna. I giganti, sopravvenendo sui passi di una Freya spaventata e prostrata, si ostinano a pretendere il prezzo convenuto per il loro lavoro e non accettano che lo si cambi; anch'essi sognano di sovvertire l'ordine del mondo, conquistando l'eterna giovinezza, garantita dalle mele di Freya. Arriva Logi che, furbescamente, finge di non aver trovato alcuna soluzione: secondo il fido consigliere, solo il Nibelungo Alberico, rubando l'oro alle Figlie del Reno, possiede un tesoro più prezioso che la «grazia di una donna». Lui, Logi, è venuto solo per trasmettere al dio la preghiera delle tre ondine. Propone a tutti una soluzione: rubare l'oro al nano Alberico che, nel frattempo, è riuscito a forgiare l'anello, e pagare con esso il debito. I giganti, sentendolo parlare, ora che ne conoscono il potere, sentono il desiderio di impossessarsene. Preoccupati della potenza che ora Alberico possiede, cambiano idea e decidono di rinunciare a Freya in cambio del tesoro del Nibelungo. Portano via con loro la dea, la terranno fino a che non avranno l'oro, e danno appuntamento all'indomani a Wotan.
[I giganti Fasolt e Fafner rapiscono Freia, illustrazione di Arthur Rackham ]
Partiti i giganti, gli dèi si accorgono improvvisamente, con orrore, di invecchiare: quel giorno, in effetti, non hanno mangiato i pomi dell'eterna giovinezza di Freya. Wotan decide di accettare l'affare proposto da Fafner e Fasolt. Scena III. Nel suo regno sotterraneo Alberico ha costretto in servitù i Nibelunghi e se ne serve per accumulare ricchezze. Perfino suo fratello Mime è picchiato e torturato, sebbene abbia realizzato per Alberico un elmo magico chiamato Tarnhelm, che dona a chi lo indossa il potere di mutarsi in qualunque cosa, o di diventare invisibili. Wotan e Loge con un inganno riescono tuttavia a fare prigioniero Alberico e lo portano con loro in superficie. Scena IV. Per essere liberato Alberico dovrà consegnare il suo tesoro, compreso l'anello. Una volta liberato egli maledice l'anello affinché conduca alla rovina chiunque ne sia il possessore. Wotan ignora la maledizione e indossa l'anello, intenzionato a tenerlo per sé. I giganti arrivano all'appuntamento, accompagnati da Freya. Fasolt, che ha rinunciato a malincuore alla dea, chiede che venga ammassato oro a sufficienza da celare completamente la dea.
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Ma l'oro non basta: attraverso un'ultima piccola superficie rimasta scoperta, Fasolt intravede ancora l'occhio di Freya; reclama perciò l'anello, che si trova ora al dito di Wotan. Questi rifiuta, benché, non avendo mangiato le mele dell'immortalità, la giovinezza lo sta abbandonando. Ma improvvisamente la terra si fende ed appare Erda, la Urmutter, la Madre di tutte le cose, colei che sa «tutto di ciò che fu, di ciò che diviene e di ciò che sarà». Erda mette in guardia Wotan, gli predice un infausto destino, la seconda volta che avrà l'anello in mano. Wotan scuote allora la lancia, come in segno di decisione, strappa l'anello dal suo dito e lo getta a Fasolt. Freya è liberata.
La
maledizione
comincia
subito il suo effetto: Fafner e Fasolt immediatamente
intraprendono
con
avidità la divisione dell'oro, e non tardano ad affrontarsi brutalmente per il possesso dell'anello. Alla fine Fafner uccide Fasolt e fugge col tesoro. Dopo una tempesta, il dio Froh fa sorgere l'arcobaleno che conduce sino al Walhalla, ad Asgard. Gioiosi, di nuovo sicuri di sé, gli dèi si dirigono verso il Walhalla e passano sul ponte dell’arcobaleno, al di sopra del Reno, ignorando il lamento lontano delle Ondine. Logi sente nel suo cuore la voglia di abbandonare questi Asi divini che corrono alla loro rovina senza saperlo, e di trasformarsi in fiamma divoratrice per distruggerli, loro che, un tempo, l'hanno domato ed asservito.
LA VALCHIRIA Antefatto. Contro la minaccia che pesa ormai sul mondo, Wotan nulla può: solo un eroe può intraprendere l’opera redentrice di riprendere l'oro e l'anello per restituirli alle Figlie del Reno Wotan prende una forma umana, e, sotto le spoglie di un viandante col nome di Wälse si unisce con una mortale, dalla quale ha due gemelli, Siegmund e Sieglinde,. E’ l’inizio della stirpe dei Velsunghi, in cui il dio identifica gli “uomini liberi” in grado di rigettare l'anello nel Reno e di riportare l'amore nel mondo. I figli non conoscono però la vera identità del padre. Un giorno Wotan, ritornando con il figlio da una caccia, trova la sua casa bruciata dai suoi nemici, che hanno parimenti ucciso sua moglie e rapito sua figlia.
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Wotan abbandona Siegmund al suo destino, facendogli questa promessa: un giorno, allorché dovrà affrontare una prova pericolosa, egli troverà una spada invincibile, che suo padre ha forgiato per lui.
Atto I. Siegmund sogna amore e pace, ma semina, senza volerlo, la guerra e l'odio. Per soccorrere una fanciulla, ha ucciso i suoi fratelli. Nella lotta, ha perso la sua arma ed ha dovuto darsi alla fuga, inseguito dai suoi avversari. In una notte di tempesta, disarmato, il giovane trova rifugio in una capanna dove trova Sieglinde, la donna del selvaggio Hunding, la quale lo conforta. Siegmund non sa che la donna è la sua giovane sorella, rapita da bambina. Al primo sguardo, una medesima passione divorante si impadronisce dei loro esseri. Sopraggiunge Hunding, l'uomo che la donna ha dovuto sposare contro la sua volontà, e Siegmund gli racconta la sua avventura. Hunding riconosce immediatamente in lui il nemico della sua stirpe cui sta dando la caccia da tampo, Hunding gli offre ospitalità per la notte, come esigono le usanze, ma lo sfida a duello per l'indomani mattina. Rimasto solo nella sala, Siegmund invoca suo padre e gli ricorda la sua promessa. Sieglinde, torna presso di lui, dopo aver addormentato Hunding con l'aiuto di una pozione. Gli rivela che il giorno delle sue tristi nozze un vegliardo, certamente suo padre, ha conficcato nel frassino intorno a cui è costruita la capanna di Hunding una spada, che secondo la sua predizione soltanto il più grande degli eroi potrà estrarre. Trascinati dalla passione, i due si riconoscono come fratelli, ambedue figli di Wälse. Siegmund strappa la spada piantata nel frassino: è l’arma invincibile che il padre gli aveva promesso nel supremo momento del pericolo. Dà all’arma il nome di Notung (Necessità) e la offre a Sieglinde come regalo di fidanzamento. Poi, votati l'uno all'altra da un appello del sangue che è anche appello dell'amore, i due fratelli fuggono di notte.
Atto II. La scena riproduce una montagna rocciosa e selvaggia. Wotan chiama a sé Brunilde, la prediletta delle sue Valchirie, le fanciulle che egli ha generato con Erda, incaricate di condurre al Walhalla gli eroi morti in duello e in battaglia; le ordina di aiutare e far vincere Siegmund nell’imminente duello con Hunding.
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Ma sopraggiunge Fricka: come può Wotan dare il suo appoggio ad una coppia adultera e incestuosa? Egli è il custode dei patti scritti sulla sua lancia, che assicurano l’ordine del cosmo, e non può infrangere così la legge degli dèi, anche se è per proteggere il figlio mortale. Vinto dalle sue stesse leggi divine, Wotan deve cedere. Dà a Brunilde l'ordine di abbattere Siegmund. Ma la Walkiria non capisce. Vede l'immenso sgomento che si è impadronito del padre, osserva la sua disperazione. Confidandole il suo tormento, Wotan rivela alla diletta figlia il suo sogno, ormai infranto: che dalla coppia dei Velsunghi potesse nascere un eroe assolutamente libero, in grado di compiere ciò che Wotan non può, cioè riprendere l’anello del dominio. Il dio ingiunge di nuovo alla Walchiria, sempre recalcitrante, di compiere la missione ricevuta. Allontanatisi gli dei, entrano Siegmund e Sieglinde in fuga. La donna è sfinita, travolta dalla vergogna di essere stata posseduta senza amore da Hunding, ma poi si addormenta. Entra Brunilde e annuncia a Siegmund la sua prossima morte: egli così salirà al Walhalla tra gli eroi e là rivedrà suo padre. Ma Siegmund si rifiuta di morire e lasciare Sieglinde: affronta coraggiosamente il duello con Hunding, nonostante sappia oramai che gli dèi non lo proteggono più. Toccata dalla forza dell’amore dei fratelli-sposi, Brunilde, disobbedendo a Wotan, si interpone per difenderlo, ma Wotan stesso interviene: spezza Notung con la sua lancia, permettendo a Hunding di uccidere Siegmund. La ribelle Brunilde, pur terrorizzata dal cruccio di Wotan, raccoglie i pezzi della spada e porta via con sé Sieglinde, mentre Wotan con il suo cenno maestoso fulmina Hunding che cade morto a terra.
Atto III. Sulla vetta di un monte roccioso, le Valchirie, sapendosi attese da Wotan, cavalcano impetuosamente per radunarsi con il loro consueto carico di cadaveri di eroi. Manca solo Brunilde, che sopraggiunge sul suo cavallo Grane recando una donna esanime, Sieglinde. La valchiria racconta alle sorelle la sua ribellione a Wotan e implora il loro aiuto. Le Valchirie, terrorizzate dalla sua disobbedienza e dall’ira del padre Wotan, non hanno il coraggio di aiutarla; consigliano però la sorella di far fuggire Siegliende verso la foresta dove hanno rifugio Alberico e Fafner, che lì protegge il suo oro, perché anche Wotan teme quel luogo. Ma Sieglinde non vuole scappare, vuole raggiungere Siegmund nella morte; a questo punto Brunilde rivela alla donna che deve vivere perchè è in attesa di un figlio di Siegmund. Raggiante, Sieglinde accetta la protezione e fugge, portando con sé i frammenti della spada di Siegmund, che Brunilde ha raccolto sul campo di battaglia.
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Dopo che Sieglinde si è allontanata, sopraggiunge Wotan e condanna Brunilde: non sarà più una valchiria ma una semplice donna mortale, e cadrà in un lungo sonno magico, da cui potrà risvegliarla solo un eroe che non conosce la paura. La condanna colpisce profondamente le altre Valchirie che, temendo anche per loro il castigo, si allontanano. Brunilde invoca il padre che almeno cinga il suo sonno di un’impenetrabile cortina di fuoco tale da poter essere attraversata solo da un eroe che sia degno di risvegliarla. Dopo un ultimo struggente addio alla figlia prediletta ma disobbediente, Wotan addormenta la fanciulla, e evocando Loge fa comparire tutt’intorno dalla roccia un cerchio di fiamme.
SIGFRIDO Atto I. Sono passati alcuni anni dagli eventi de La Valchiria. Sieglinde, accolta da Mime, il fratello di Alberico, è morta dando alla luce Sigfrido. Il nano ha in mente di impossessarsi dell'anello servendosi di Sigfrido, che in questi anni ha cresciuto perché uccidesse Fafner per lui: in tal modo Mime si impossesserà del tesoro di Fafner e si procurerà il dominio del mondo. Ma Sigfrido non ha alcun sentimento di affetto per Mime, che sa non essere suo padre. Sigfrido un giorno, tornando dai suoi vagabondaggi nella foresta, chiede a Mime di parlargli delle sue origini: Mime gli racconta di come, anni prima, avesse trovato nella foresta sua madre, Sieglinde, che era morta dandolo alla luce; il padre, di cui il nano ignora il nome, è stato ucciso in combattimento, e i frammenti di spada conservati dal nano sono quelli dell'arma di suo padre. Sigfrido comanda allora a Mime di forgiargli con questi pezzi una nuova spada. Sigfrido si allontana, lasciando Mime sconsolato, perché non è in grado di riparare la spada. Un vecchio Viandante (lo stesso Wotan travestito) giunge all'improvviso alla sua porta. Al termine di un crudele gioco di enigmi, il Viandante predice al Nibelungo una morte prossima: il suo uccisore sarà un uomo che non conosce la paura e che saprà riforgiare Nothung. Quindi se ne va. Ritorna Sigfrido, e subito si irrita al vedere che Mime non ha fatto alcun progresso nel forgiare la spada. Il giovane decide di provarci da solo: riunisce i frammenti di metallo, li fonde insieme e fabbrica così una nuova spada. Il nano sa che l'unica cosa che in quegli anni non ha insegnato a Sigfrido è la paura: lo guida quindi verso la caverna di Fafner, affinché lo uccida. Mime si è ricordato delle parole del Viandante e sa che sarà ucciso da Sigfrido: non visto, prepara allora una bevanda avvelenata da offrire al giovane subito dopo che egli avrà ucciso Fafner. Atto II. Il Viandante giunge all'ingresso della caverna di Fafner, dove, trasformato in drago, il gigante veglia sul suo tesoro: lì si trova anche Alberico, deciso a riprendersi l'anello.
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I due antichi nemici si riconoscono subito. Alberico annuncia a Wotan i suoi piani di dominio del mondo non appena avrà rimesso le mani sull'anello; Wotan, invece, replica che egli non ha alcuna intenzione di tentare di impossessarsene. Con grande sorpresa del Nibelungo, Wotan sveglia il drago e gli dice che sta per giungere un eroe per combatterlo, il quale lo ucciderà se non si disfa del suo tesoro. Fafner si fa beffe di quella minaccia, rifiuta di riconsegnare l'anello ad Alberico che gli promette salva la vita in cambio del gioiello, e torna a dormire. Partito il Viandante, Alberico si nasconde dietro una roccia. All'alba, giunge Sigfrido accompagnato da Mime che gli indica la caverna del drago per poi allontanarsi. In attesa che il drago si mostri, Sigfrido si addormenta ai piedi di un albero. Quando si sveglia, è solo, e la foresta mormora dolcemente. Sigfrido si interroga come in sogno sulle sembianze della madre; poi il canto di un uccello lo distrae, e il giovane eroe cerca di imitarne il canto con una canna, poi con un corno, ma riesce solo a risvegliare il drago, che cerca di divorarlo. Dopo un breve scambio di frasi, i due combattono, e Sigfrido trafigge al cuore il drago con la sua nuova spada. Prima di morire, Fafner si fa dire da Sigfrido il suo nome, e lo avverte di guardarsi dal tradimento. Quando Sigfrido estrae la lama dal corpo del drago, le sue mani sono ricoperte del sangue di Fafner, ed egli istintivamente le porta alla bocca, assaggiandolo. Dopo averlo bevuto, riesce a comprendere il canto dell'uccello della foresta: facendo come questi gli suggerisce, prende dall'antro del drago l'anello e il Tarnhelm, l'elmo magico che consente di mutare forma e divenire invisibile. Ricompare Mime, e Sigfrido si lamenta con lui perché ancora non ha imparato cosa sia la paura. Ansioso di mettere mano sull'anello, Mime offre al giovane il veleno, ma tra i poteri del sangue del drago che il giovane eroe ha bevuto vi è anche quello di leggere il pensiero: Sigfrido intuisce le malvagie intenzioni del nano, e lo uccide. L'uccello della foresta canta di una donna addormentata su una roccia circondata dal fuoco. Sigfrido, pensando di poter forse apprendere il significato della paura da costei, si dirige verso la sommità della montagna.
Atto III. Il Viandante compare lungo il sentiero che conduce alla roccia di Brunilde ed evoca Erda, la dea della terra. Ella dice a Wotan di non poterlo aiutare, ma il dio l'informa di non temere più la fine degli dei, anzi, la desidera: la sua eredità passerà a Sigfrido che ben presto si unirà a Brunilde e compirà l'impresa di redimere il mondo. Erda sprofonda di nuovo nelle viscere della terra. Non appena Erda è scomparsa, Sigfrido fa la sua apparizione. È solo: l'uccello che lo ha accompagnato fino a là è partito. Altero ed impetuoso, il giovane ingiunge al Viandante di togliersi dalla sua strada, ma questi gli blocca il passo. I due si affrontano ma Sigfrido spezza la lancia dell’avversario con un colpo della sua spada.
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Con calma, Wotan ne raccoglie i pezzi e scompare. Sigfrido giunge infine di fronte al cerchio di fuoco e lo attraversa. Vede una figura in armatura che giace addormentata, e dapprima pensa che sia un uomo. Ma, dopo che ha rimosso l’elmo e l'armatura, si rende conto di trovarsi in presenza di una donna. Quella vista per lui sconosciuta lo colpisce, non sa cosa fare, e per la prima volta nella sua vita sperimenta la paura. Bacia Brunilde, svegliandola dal suo sonno. La Walchiria, finalmente risvegliata, saluta il sole e la luce del giorno, poi lascia esplodere la sua gioia alla vista di Sigfrido. Il ricordo della sua divinità perduta turba Brunilde un breve istante: la passione di Sigfrido spaventa la vergine guerriera, poi anche in essa la passione esplode selvaggiamente. Uno slancio irresistibile unisce la coppia meravigliosa in una promessa di amore eterno.
IL CREPUSCOLO DEGLI DEI Prologo. Le tre Norne, figlie di Erda, si riuniscono sulla rocca di Brunilde, tessendo il filo del Destino. Cantano del passato, del presente e del futuro, di quando Wotan darà fuoco al Valhalla per dare il segnale dell'inizio della fine degli dei. All'improvviso, il filo si spezza. Piangendo la perdita della loro saggezza, le Norne scompaiono.
[Le tre Norne tessono il filo del destino, illustrazione di Arthur Rackham]
All'alba, Sigfrido e Brunilde escono dalla loro caverna. Brunilde
ha
trasmesso all’amato la scienza delle "rune sacre" e lo esorta a nuove imprese eroiche e a nuove vittorie. Nel salutarlo la donna lo prega di ricordarsi del loro amore. Come pegno di fedeltà, Sigfrido le lascia l'anello che ha preso a Fafner. Portando con sé lo scudo di Brunilde e montando il cavallo di lei, Grane, il giovane eroe parte.
Atto I. Hagen, il figlio di Alberico, spera di sconfiggere Sigfrido e di recuperare l'anello, e con questo fine tesse la sua trama: il suo fratellastro, Gunther, re dei Gibichungen, non ha moglie, perché non ne trova alcuna
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che sia degna di lui; Hagen gli consiglia di trovare al più presto una moglie per sé e un marito per sua sorella Gutrune, e gli suggerisce rispettivamente i nomi di Brunilde e Sigfrido. Hagen ha preparato e consegnato a Gutrune una pozione che farà dimenticare a Sigfrido Brunilde e lo farà innamorare della donna; sotto l'effetto della pozione, Sigfrido sottometterà Brunilde e la consegnerà a Gunther. Sigfrido arriva alla corte dei Gibichungen e Gunther gli offre la propria ospitalità. Gutrune gli offre la pozione e l'eroe, ignaro dell'inganno, brinda a Brunilde e al loro amore, e la beve. Perde così il ricordo dell'amata, e si innamora subito di Gutrune, chiedendola in sposa. Sotto l'effetto della pozione magica, Sigfrido si offre di conquistare una sposa per Gunther, che gli parla di Brunilde. Sigfrido accetta di aiutare Gunther, i due giurano un patto di fratellanza di sangue, e partono per la roccia.
[Brunilde a colloquio con la sorella Waltraute, illustrazione di Arthur Rackham] Sulle alture montagnose, Brunilde vive nell'attesa del ritorno di Sigfrido. Un'altra Walchiria, sua sorella Waltraute, appare di fronte a lei e la supplica di rendere l'anello alle Figlie del Reno, poiché la sua maledizione sta colpendo anche il loro padre Wotan. Waltraute le racconta l'infinito sgomento di Wotan, da quando è tornato nel Walhalla con in mano i pezzi della sua lancia. Ai guerrieri riuniti nel Walhalla, ha ordinato di abbattere Yggdrasill, il frassino perno del mondo, e di farne un immensa catasta ardente tutto intorno al recinto sacro; poi, in quel recinto, ha riunito il consiglio degli dèi, e da allora attende in silenzio, senza più toccare i pomi della giovinezza, mentre un terrore infinito opprime gli dèi e gli eroi. Ma Brunilde rifiuta di separarsi dal pegno d'amore che Sigfrido le ha lasciato, e Waltraute si allontana disperata. Scoppia una tempesta. Le fiamme circondano le alture che salgono verso il cielo, più furiose che mai. Un guerriero si avvicina, è Sigfrido, che ha assunto l'aspetto di Gunther grazie all’elmo magico Tarnhelm. Avvicinatosi a Brunilde, le ingiunge di seguirlo e di divenire sua moglie. Nonostante la donna opponga una violenta e fiera resistenza, Sigfrido la sconfigge, strappandole l'anello dal dito e infilandolo sul suo.
Atto II. Di fronte al palazzo dei Gibischungen, dove monta la guardia, Hagen vede in sogno apparire Alberico. Costui, ricordandogli l'"ingiustizia" di cui è stato vittima, reclama vendetta. Chiede a Hagen di uccidere Sigfrido e di impadronirsi dell'anello. Hagen lo rassicura: ha giurato a se stesso di impadronirsi dell'anello fatale, e di tenerlo per sé. All'alba fa ritorno Sigfrido, che ha assunto di nuovo il suo aspetto e cambiato posto con Gunther. Hagen riunisce il popolo dei Ghibicunghi per accogliere il re Gunther e la sua sposa. Giunge Gunther conducendo con sé Brunilde, che rimane sconvolta al vedere Sigfrido, l'anello al dito di lui le rivela la sconvolgente verità: è Sigfrido, non Gunther, che l'ha vinta! A tutti i presenti, la Walchiria grida la verità; denuncia la frode, il tradimento, e rivela anche di essere stata moglie di Sigfrido. Ma questi
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nega, non ha più alcun ricordo del suo primo incontro con Brunilde, e quando Hagen lo invita a prestare giuramento sulla sua lancia, non esita un istante. Trascinata da un furore selvaggio, Brunilde giura a sua volta di aver detto il vero. Sigfrido si allontana quindi con Gutrune e gli altri cavalieri, lasciando soli Brunilde, Gunther e Hagen. Pieno di rabbia e vergogna, pur sapendo perfettamente i fatti, Gunther è d'accordo con il fratellastro che Sigfrido debba morire perché lui riacquisti il suo onore. Brunilde, desiderosa di vendicarsi del tradimento di Sigfrido, si unisce alla congiura e rivela ad Hagen l'unico punto debole dell'eroe: sebbene ella lo avesse reso invulnerabile tramite la sua magia, aveva tralasciato la sua schiena, sapendo che non sarebbe mai fuggito di fronte a una minaccia, essendo egli privo di paura. Viene deciso che se ne incaricherà Hagen, nel corso di una caccia, così che sarà possibile dire a Gutrune che Sigfrido è stato ucciso da un cinghiale. La vendetta è decisa: Gunther, Hagen e Brunilde lo giurano solennemente.
Atto III. Là dove il Reno, ai piedi di un massiccio scosceso, traversa una vallata ricoperta di foreste, le Figlie del Reno cantano nostalgicamente, sulla superficie delle acque, la perduta purezza delle origini. Improvvisamente, Sigfrido appare. Si è perduto durante la caccia, inseguendo un orso. Le ninfe lo implorano di restituire loro l'anello sfuggendo così alla sua maledizione, ma Sigfrido le ignora. Esse si allontanano nuotando, predicendo che Sigfrido, se rifiuta di dare l'anello, morirà prima del tramonto.
[La morte di Sigfrido, illustrazione di Arthur Kampf]
Sigfrido si riunisce agli altri cacciatori, fra cui Gunther e Hagen. In un momento di riposo, racconta loro le sue avventure giovanili. Hagen gli dà una pozione che gli fa recuperare la memoria, e Sigfrido racconta di quando aveva trovato Brunilde e l'aveva risvegliata con un bacio. Improvvisamente, due corvi escono da un cespuglio e, mentre Sigfrido li guarda volare via, Hagen lo trafigge alla schiena con la sua lancia. Gli altri assistono alla scena con orrore. Hagen si allontana nella foresta. Colpito dal dolore, Gunther si china su Sigfrido che, prima di morire, come trasfigurato, evoca un'ultima volta il suo incontro con Brunilde ed il bacio che la svegliò. Il suo corpo viene trasportato in una solenne processione funebre. Nell'atrio del palazzo dei Ghibicunghi, Gutrune attende il ritorno del marito. Improvvisamente risuona il tetro appello del corno di Hagen, che presto appare, annunciando che Sigfrido è stato ucciso da un cinghiale. Sopravviene poi Gunther, con il corteo funebre che circonda la spoglia dell'eroe.
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L'azione precipita. Accorgendosi che Sigfrido è stato ucciso da un colpo di lancia, Gutrune, resa folle dal dolore, accusa suo fratello di assassinio. Il re si schernisce e rigetta la colpa su Hagen che da parte sua non esita a rivendicare l'uccisione ed a rivendicare l'anello facendo valere il suo sacro diritto al bottino. Gunther, desideroso a sua volta di prenderlo, cerca di impedirglielo, ma Hagen lo uccide; ma, quando si china sul corpo per afferrare l'anello, la mano dell'eroe morto si alza minacciosa, ed egli arretra terrorizzato. Ed è allora che si avanza Brunilde, di ritorno dal Reno; ella, la vera sposa di Sigfrido, saprà vendicare l'eroe. Gutrune, apprendendo la verità sul primo incontro di Brunilde e di Sigfrido, maledice Hagen che ha ordito il complotto, e si getta sul corpo di suo fratello.
[Brunilde si getta fra le fiamme, illustrazione di Arthr Rackham]
Brunilde ordina che una grande pira funebre venga accesa accanto al fiume, rimandando i corvi da Wotan con le tanto attese notizie. Prende l'anello e chiede alle Figlie del Reno di venire a riprenderlo dalle sue ceneri, una volta che il fuoco lo avrà purificato della maledizione. Viene accesa la pira, e Brunilde, montata a cavallo, si getta sulla pira ardente: si unirà così a Sigfrido con una potente forza d’amore. L'incendio raggiunge la reggia dei Gibichungen. Tutto crolla, le acque del Reno si gonfiano, invadono la terra. Le Figlie del Reno si allontanano a nuoto, portando l'anello trionfanti: esse torneranno a custodire, come era in origine, l’oro del potere e della maledizione. Hagen fa un ultimo tentativo di impadronirsi dell'anello, ma le Ondine lo trascinano con loro negli abissi del fiume, ed egli annega. Nel cielo, a sua volta il Walhalla prende fuoco. Le fiamme circondano Wotan e gli altri dei riuniti in assise. Tutto è finito: è il crepuscolo degli dei.
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I grandi direttori d’orchestra del ‘900: Nikolaus Harnoncourt Biografia e stile direzionale Nikolaus Harnoncourt, una delle più eminenti autorità nello studio e nell'esecuzione della musica antica, è considerato il "padre" della rinascita della musica barocca. Nikolaus nacque a Berlino nel 1929, da famiglia di alta nobiltà: visse a Graz e studiò a Vienna. Divenuto violoncellista, fu ammesso nel 1952, per diretta volontà
dell’allora
direttore
Herbert
von
Karajan,
nell'Orchestra Sinfonica di Vienna. Lì conobbe
Alice
Hoffelner, anch’essa musicista della Orchestra Sinfonica viennese, che divenne sua moglie, e con la quale, nel 1953, fondò il Concentus Musicus Wien, il primo ensemble che si è dedicato al repertorio rinascimentale e barocco con strumenti d’epoca. Harnoncourt è stato tra i primi, insieme con Leonhardt, Brüggen e un manipolo numeroso di seguaci, a introdurre la filologia nel panorama esecutivo. Egli applicava una lettura rigorosa alle musiche che interpretava, seguendo fedelmente le intenzioni dei compositori del tempo: il suo stile era fatto di nude articolazioni, prive del vibrato e delle gamme dinamiche proprie di epoche posteriori. Metronomi dimezzati, suono piccolo e nervoso, timbri asprigni, intonazione mai perfetta per la perdita di tensione delle corde di budello degli archi: l’effetto fu sconvolgente, tale da spaccare il mondo musicale in due.
[Concentus Musicus Wien]
Alla fine degli anni anni ‘70 il suo lavoro con il suo ensemble lo rese famoso in tutto il mondo.
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Fu molto importante il suo contributo nell'interpretazione delle opere di Monteverdi e soprattutto di Johann Sebastian Bach:
le Passioni,
l’Oratorio di Natale e il ciclo monumentale delle Cantate di Bach rappresentano il vertice esecutivo della sua arte interpretativa. La sua posizione, portata avanti con assoluto rigore, si poneva contro una visione della musica antica di derivazione romantica convinto che un musicista non potesse limitarsi alla riproduzione e alla ricerca del bel suono, ma dovesse, prima di tutto, comunicare le idee del compositore all’epoca in cui viveva. Direttore libero da pregiudizi e da rigidi assolutismi, guidò compagini moderne ed antiche, dalla Chamber Orchestra of Europe, con cui registrò le integrali delle sinfonie di Beethoven e Schumann, ai Berliner Philharmoniker, coi quali invece si dedicò all’integrale delle Sinfonie di Brahms, fino al Concertgebouw di Amsterdam, con cui reinterpretò le sinfonie di Mozart nonché l’integrale delle sinfonie di Schubert. Nel 2001 e nel 2003 diresse da Vienna il Concerto di Capodanno. Nel suo ultimo concerto tenutosi al Musikverein di Vienna il 6 dicembre 2015, dedicato a pagine celebri di Johann Sebastian Bach (data che coincideva con il suo 86º compleanno), annunciò al pubblico, mediante un manoscritto autografo distribuito nella sala, il proprio ritiro: "Caro pubblico, le mie forze fisiche mi costringono a rinunciare ai progetti futuri. Subentrano in me grandi pensieri: una relazione incredibilmente profonda si è stretta tra noi, sulla scena, e voi, nella sala, noi siamo divenuti una felice comunità di pionieri! Di questo, resterà molto. Il ciclo di questo anno è ancora nel mio spirito. Restategli fedeli!". Con lui si ritirò anche Alice, costante compagna della sua lunga, ricchissima e impareggiabile attività musicale. A soli tre mesi dall'annuncio del ritiro, il 5 marzo 2016, il Maestro si spense nella sua casa di Sankt Georgen im Attergau.
Arte interpretativa e filologia Con (e dopo)
Harnocourt il recupero della prassi esecutiva antica ha conosciuto uno sviluppo
impensabile, divenendo una vera e propria scuola, ricca di anime, approcci differenti, scontri, resistenze, talvolta anche degenerazioni e mode. Innumerevoli i progetti musicali da lui condotti in una carriera lunghissima. Il grande e pionieristico lavoro su Bach, di cui fu il primo - insieme a Gustav Leonhardt - a rivedere l’approccio esecutivo: un Bach demonumentalizzato e desacralizzato, per portarne alla luce l’ossatura musicale (e anche oggi la sua integrale delle Cantate è una pietra miliare). E dopo Bach, Monteverdi: Harnoncourt per primo ne studiò l’opera, valorizzandone la singolarità e non cercando di ricondurla ai più ristretti canoni dell’opera seria o, peggio, del melodramma. Le sue incisioni
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di Orfeo, Ritorno d’Ulisse in Patria e Incoronazione di Poppea hanno aperto la via alla rinascita dell’interesse attuale per Monteverdi, culminata nelle esecuzioni nei teatri e nel geniale connubio con Ponnelle (anche alla Scala). E poi Mozart, depurato da certi autocompiacimenti romantici che ancora ne fraintendevano il significato, a costo di scelte difficili che nulla concedevano all’edonismo dell’ascoltatore. E poi ancora fino a Beethoven, a Schubert, a Schumann, a Dvorak, a Bruckner, a Brahms, sino al Verdi umanissimo di un’Aida unica per rigore musicale e profondità, al Gershwin catapultato tra i grandi del ‘900 di Porgy and Bess e ai Valzer di Strauss del Concerto di Capodanno.
Discografia L'eredità che Nikolaus Harnoncourt lascia è a dir poco monumentale: non solo in termini di idee e di originalità di approccio ai diversi repertori affrontati nel corso di una carriera lunghissima, che fin dall'inizio degli anni ‘70 lo impose come uno dei precursori della moderna prassi esecutiva su strumenti d’epoca, ma anche - e forse ancor più - per i suoi innumerevoli scritti e soprattutto per le incisioni discografiche e le registrazioni video. Pochi artisti hanno potuto incidere quanto Harnoncourt. Nel corso della sua vita Harnoncourt ci ha lasciato infatti oltre 500
incisioni e
video
che,
viste
nel
loro
insieme,
rappresentano uno dei più completi e sorprendenti viaggi musicali che un interprete abbia mai potuto compiere in un repertorio che dal primo ‘600 arriva fino a Gershwin. Ad aiutare il sottoscritto a districarsi nel mare magnum (anzi maximum) di queste incisioni, è intervenuta la Sony Classical che ha messo in commercio un consistente cofanetto (61 CD e 3 DVD) che raccoglie le registrazioni che Harnoncourt realizzò dal 2001 alla sua scomparsa: quindici anni di continuo lavoro e di inesauribile desiderio di esplorare, ancora una volta, nuovi terreni musicali o di ritornare sulle partiture di una vita. Non recensirò tutta questa discografia (impresa immane e, per quel che mi riguarda, impossibile!), ma mi limiterò a porre l’accento sulle sue interpretazioni dei maggiori autori. ♫♫ JOHANN SEBASTIAN BACH
Non posso parlare dell’integrale delle Cantate di J.S. Bach edite dalla Sony senza prima citare quella precedente edita dalla Teldec [Teldec 7580388 – 60 Cd] realizzata tra il 1971 e il 1989, con Harnoncourt alla guida del Concentus Musicus Wien e Gustav Leonhardt con il Leonhardt Consort: complessivamente, Leonhardt diresse 70 cantate mentre Harnoncourt 120.
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Questi due grandi direttori furono fra i primi ad interrogarsi su quale potesse essere il suono udito da Bach e da chi ne ascoltava la musica. E la ricerca, già allora, fu accuratissima. Protagonisti assoluti della Bach renaissance, i due direttori lavorarono in modo parallelo sulla base di una sostanziale condivisione di intenti: l'articolazione del fraseggio, la cura per la retorica del suono, l'adozione di tempi ariosi e misurati. E’ stata la più grande impresa discografica del Novecento, un'immensa opera pioneristica non solo perché propone la prima registrazione integrale delle 200 cantate sacre di Bach, ma anche perché applica rigidamente, con esiti sorprendenti, la prassi esecutiva storica. Di qui l'utilizzo di voci maschili anche per le parti di contralto e soprano (voci femminili sono usate solo nelle cantate 51 e 199), oltre che di strumenti originali, alcuni dei quali scoperti nel corso del lavoro: è il caso dell'affascinante oboe da caccia modello Eichentopf, artigiano di Lipsia contemporaneo
di
Bach,
individuato
da
Harnoncourt in un museo di Stoccolma e usato per la prima volta in un'aria della cantata BWV 27. Sono sopraggiunte altre integrali (Koopman, Suzuki etc.) tutte di grande valore, ma nessuna trasmette l’emozione di questa integrale veramente impareggiabile. Nell'insieme, si tratta di una raccolta di una tale bellezza che è quasi impossibile riuscire a fare confronti. Gli strumenti hanno una dovizia di timbri mai udita: la dolcezza delicata dell'oboe d'amore, la voce calda e squillante delle trombe naturali, la sonorità essenziale e definita degli archi, le ricercate combinazioni, quale quella del flauto traversiere barocco e l’oboe da caccia, costituiscono un mondo sonoro che lascia il segno. Le voci offrono momenti di immenso piacere. Sublime e irripetibile la prova delle voci bianche: basti ascoltare - per fare uno dei numerosissimi esempi possibili - l'aria per soprano della Cantata BWV 68, prestando attenzione alla soavità cristallina del canto accompagnato dal violoncello piccolo e dal basso continuo, con l'intervento finale di un violino e di un oboe. Tra i cantanti di spicco segnalo i controtenori Esswood e Jacobs, il tenore Equiluz, i bassi van Egmond e Holl. Parliamo adesso dell’incisione Sony: qui emergono il mutare dell’approccio e l’evoluzione del pensiero del direttore viennese: uguale il rigore e l'attenzione al dettato musicale, ma maggiore libertà interpretativa, pur nel filone filologico. I cantanti non sono necessariamente specializzati nella musica barocca, con una preferenza spiccata per interpreti di provenienza liederistica o addirittura operistica, dotati di una vocalità piena: i solisti, tra cui la Schäfer, la Fink, Güra, Finley, Gerhaher, sono davvero eccellenti.
Un’edizione di riferimento è poi l’incisione dell’Oratorio di Natale (2007), raggiante, luminosa, sensibile nel ritrarre il paesaggio pastorale della natività e nel mettere in evidenza certi andamenti popolareschi presenti tra le note del maestro di Eisenach.
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♫♫ FRANZ JOSEPH HAYDN Spicca la bella registrazione dal vivo (Graz, 2007) dell’oratorio Die Jahreszeiten (Le Stagioni), di cui si ammira la serenità e gioiosa condotta delle arie e dei cori intonati ad una radiosa luminosità.
Un compositore, Haydn, cui Harnoncourt ha dedicato non poca attenzione, incidendone una altrettanto intensa versione de La Creazione, un Orlando Paladino di riferimento, portato all’altezza dei capolavori teatrali mozartiani, e il ciclo delle Sinfonie "Parigine" (nn. 82-87). Il Concentus Musicus in stato di grazia asseconda le mille suggestioni delle partiture haydniane tra umori cangianti, tenerezze e sfaccettature di colori abbaglianti. ♫♫ WOLFGANG AMEDEUS MOZART
Segnalo le esecuzioni delle ultime tre Sinfonie (K 543, K 550 e K 551), che Harnoncourt (al momento di queste registrazioni mozartiane aveva già 83 anni!) riunisce sotto il titolo Instrumental Oratorium, considerando questi capolavori, composti nell’estate del 1788, non come una trilogia ma come un unico vasto lavoro. A sostegno di questa singolare tesi, Harnoncourt spiega che l’unitarietà delle tre Sinfonie si basa sul "sofisticato impiego degli stessi tre temi e motivi nelle tre sinfonie", e sul fatto che né la Sinfonia n. 39 né la n. 40 presentano un proprio finale. Sorprendono gli stacchi dei tempi per la loro lentezza o al contrario per la rapidità, non tutto si capisce a primo acchito ma le idee certo non mancano.
Due DVD della rappresentazione salisburghese del Flauto magico (2012) per la regia di Jens-Daniel Herzog, live al Festival di Salisburgo nel 2012, dove per la prima volta approdava un’esecuzione di un’opera di Mozart su strumenti originali: una prova di profonda umanità, di gioia teatrale con una particolare attenzione agli aspetti maggiormente popolareschi del capolavoro mozartiano. ♫♫ LUDWIG VAN BEETHOVEN Beethoven fu un autore su cui per oltre vent’anni Harnoncourt è ritornato a più riprese, dalla prima esecuzione, nel 1988, del Fidelio e della Missa Solemnis fino agli ultimi concerti.
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Del progettato nuovo ciclo delle Sinfonie restano le registrazioni della Quarta e Quinta con il Concentus Musicus: in esse risalta la trasparenza della conduzione, l’evidenza data alle soluzioni strumentali, la tensione vibrante che corre nei movimenti veloci. Vero testamento spirituale l'interpretazione della Missa, di cui riesce a mettere in risalto le derivazioni bachiane, chiudendo in una sorta di cerchio perfetto l’inizio e la fine della propria parabola artistica. ♫♫ MUSICHE DELL’800 Segnalo una superba registrazione dell’oratorio Das Paradies und die Peri, di Robert Schumann, che guarda dritto a Bach passando per Mendelssohn. Ancora, la Nona Sinfonia di Bruckner con i meravigliosi Wiener Philharmoniker: di essa esegue i primi tre movimenti, mentre del Finale incompiuto fa ascoltare circa 18 minuti di frammenti, palesando la difficoltà del compositore a dar corpo definitivo a questo straordinario edificio musicale. Arriviamo quindi a Bedrich Smetana con l’intero ciclo Ma vlast affrontato all’insegna della malinconia e della tristezza e con un’attenzione particolare nel rievocare le voci della natura; al Brahms del Deutsche Requiem tratteggiato come fosse un vasto affresco corale barocco o lo Stabat Mater di Dvorak dipinto come una drammatica scena d’opera. Del suo accostamento a Verdi è testimone il Requiem proposto in una versione fedelissima alla lettera, ma lontana dallo spirito verdiano. ♫♫ MUSICHE DEL ‘900 Spicca fra tutte Porgy and Bess, di George Gershwin . Harnoncourt si immerge nel mondo del capolavoro del teatro americano e lo ripropone in una versione filologica che ripristina l’originale del 1935. Affascinato dai legami di Gershwin con le avanguardie culturali e musicali europee, Harnoncourt volle fortemente riportare alla luce la ricchezza musicale della prima versione, che alle suggestioni della musica popolare americana univa una viva consapevolezza degli sviluppi del linguaggio musicale del Novecento. Non a caso Gershwin, che incontrò Alban Berg a Vienna nel 1928, pensava che Porgy and Bess dovesse assomigliare a un Wozzeck americano. Harnoncourt non si limita alla fedeltà alla partitura, ma si sforza di ricreare le intenzioni dell’autore ricercando i timbri giusti, incluse le percussioni africane richieste da Gershwin (djembe e dum dum) in luogo degli strumenti occidentali utilizzati di solito.
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Gli Amici del‌ grammofono
Concerti per pianoforte e orchestra nn. 20 - 21 - 22 - 23 di Wolfgang Amadeus Mozart
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Cenni biografici. Siamo nell’anno 1781, Mozart era alle dipendenze dell’Arcivescovo Geronimo Colloredo in qualità di organista del duomo e della corte. Negli anni precedenti Mozart si era lamentato più volte, nelle sue lettere, della scarsa considerazione in cui Colloredo teneva la musica e i musicisti e del fatto che a Salisburgo non si potessero rappresentare né ascoltare opere liriche; inoltre l’alto prelato trattava Mozart come un servo. Il 16 marzo 1781 Mozart giunse a Vienna: accusò apertamente l'avarizia e l'ingiustizia dell'arcivescovo, chiedendo rispetto per la sua dignità d'artista e soprattutto non intendendo più accettare che Colloredo lo trattasse in modo così prepotente e dispregiativo. Agli inizi di maggio, dopo l’ennesimo litigio con l'arcivescovo, Mozart presentò per iscritto a quest'ultimo le proprie dimissioni. Sulle prime, le dimissioni non furono accettate; il camerlengo dell'arcivescovo, il conte Karl Joseph Felix Arco, d'accordo con Leopold Mozart, tentò più volte di convincere Wolfgang a ritirare le proprie dimissioni, ma senza successo; alla fine, in un ultimo, teso colloquio, lo spazientito conte Arco cacciò letteralmente fuori Mozart con una pedata nel fondoschiena. Mozart decise comunque di rimanere a Vienna, città che lo aveva sempre affascinato per il vivace fermento culturale di stampo europeistico, rafforzatosi negli anni dell'illuminismo giuseppino. Scelse la vita dell’artista libero e indipendente, e, accettando le conseguenze della nuova situazione che Io privava di uno stipendio annuo fisso, il giovane musicista salisburghese ideò delle iniziative che avrebbero dovuto assicurargli un benessere economico: organizzò (a proprie spese) una serie di concerti su sottoscrizione, e cominciò a dare lezioni private di pianoforte e composizione. Infine pubblicò un consistente gruppo di lavori. Nel periodo compreso fra l'inverno 1782-83 e la primavera del 1786, i concerti per pianoforte e orchestra furono la più rilevante fonte di introiti per Mozart. In tale arco di tempo, Mozart ne compose quattordici, che egli stesso eseguì in una serie di concerti a Vienna, in veste di pianista e direttore d'orchestra, riscuotendo notevole successo; ne è prova che nel marzo 1784 la lista degli abbonati ai suoi concerti comprendeva 106 persone, fra cui molti esponenti dell'aristocrazia e facoltosi borghesi, numerosi alti burocrati statali nonché gli intellettuali più importanti della città. Mozart si era affermato rapidamente presso il pubblico della capitale dell'impero, nella veste però non tanto di compositore quanto di pianista, come virtuoso alla moda: non deve stupire dunque che nei primi Concerti viennesi la preoccupazione prioritaria dell'autore fosse quella di confezionare dei prodotti in cui egli stesso potesse figurare, come solista, nel modo più accattivante possibile. Il concerto per pianoforte e orchestra era considerato come il genere di intrattenimento e svago per eccellenza, ma gli ascoltatori
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venivano comunque irresistibilmente attratti dagli aspetti di novità del pianismo mozartiano, ossia la scorrevolezza brillante e non cembalistica, le inedite escursioni dinamiche, i controllati effetti percussivi del tocco.
Questo momento di fortuna, anche economica, si interruppe dopo il maggio 1786, in coincidenza con l'allestimento viennese de Le nozze di Figaro: tale opera infatti, con i suoi fermenti di critica sociale, alienò a Mozart i favori del pubblico aristocratico e alto-borghese della capitale, il quale, da allora, iniziò a preferirgli musicisti magari meno geniali, ma artisticamente e politicamente meno inquietanti, come ad esempio Leopold Kozeluch. I quattordici Concerti per pianoforte e orchestra hanno in comune numerosi caratteri espressivi e formali così caratterizzati dallo stesso Mozart in una lettera di quegli anni: « ... sono esattamente una via di mezzo tra il troppo difficile e il troppo facile; brillanti, gradevoli all'orecchio, naturali senza cadere nel vuoto. Qua e là potranno soddisfare gli intenditori ma sempre in modo tale che anche gli incompetenti ne provino piacere senza sapere perché». Oggi porremo la nostra attenzione sui concerti più celebri ed eseguiti.
Guida all’ascolto. Concerto per pianoforte n. 20 in re minore, K 466 Il Concerto per pianoforte K 466 fu composto a Vienna da Mozart nel 1785, ed è il decimo dei Concerti scritti dopo il trasferimento nella capitale austriaca. Esso appartiene a quel gruppo di componimenti classificati come "sinfonie dialoganti" per lo stretto rapporto contrappuntistico esistente tra l'orchestra e il pianoforte.
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Per la prima volta il genere del concerto per pianoforte, che per sua natura era brillante e festoso, vedeva Mozart scegliere una tonalità minore e muovere decisamente verso un drammatico patetismo: in tal senso va letta la presenza in orchestra di trombe e timpani. Amatissimo da Beethoven, che compose per esso le cadenze lasciate in bianco da Mozart, il Concerto in re minore ebbe grande fortuna per tutto l'Ottocento, come simbolo di un Mozart precursore del romanticismo in musica. E’ tuttora uno dei più frequentemente eseguiti dai grandi concertisti. Il primo movimento Allegro è aperto da un ritmo sincopato in tono grave dell'orchestra sfociante in un forte su cui si innesta il secondo tema esposto dagli oboi e dai fagotti; ad essi risponde il flauto, per poi passare ai violini in un clima di energica tensione espressiva. Interviene il pianoforte, e da questo momento ha inizio quella che è forse la più grande sinfonia dialogante tra pianoforte e orchestra che sia mai stata scritta. Il pianoforte si presenta con una frase in risposta all'ultima idea proposta dai primi violini e si appropria di un inciso del ritornello iniziale; ritorna quindi il secondo tema e di nuovo il pianoforte sviluppa un elegante discorso melodico tra suoni arpeggiati e delicate modulazioni strumentali. Di straordinaria purezza e morbidezza lirica è il 2° movimento, Romance, in cui il pianoforte espone una melodia dolce e riposante, accompagnata con discrezione dall'orchestra. Al primo tema cantabile ne subentra un altro più mosso e vivace, su armonie più marcate e scorrevoli. A conclusione si ritorna allo stesso tema poetico d'inizio, in un'atmosfera di sognante estraneità dalla realtà. Il pianoforte attacca quindi con impeto e vigore il terzo movimento, un Rondò, leggero e spigliato nel dialogo con l'orchestra e nel gioco delle imitazioni con il passaggio dalla tonalità minore a quella maggiore: una vera e propria festa di suoni gioiosi e allegri. Così si conclude in pensieri festosi ed esaltanti ciò che s'era iniziato sotto un segno tragico. Aveva ragione Busoni nel dire «spaventosa» la imprevedibilità di Mozart, e ben si comprende Rossini quando sotto un ritratto di Mozart dedicato a un giovane amico scrisse: «Egli fu l'ammirazione della mia giovinezza, la disperazione della mia maturità, e la consolazione della mia vecchiaia».
Concerto per pianoforte n° 21 in do maggiore, K 467 Il Concerto in do maggiore K 467 fu pubblicato da Mozart nel 1785 ma era stato presentato al pubblico durante la quaresima dell'anno precedente. Il concerto si divide in tre movimenti. Il primo tempo Allegro maestoso si presenta come una sorta di marcia solenne, intervallata da silenzi, che presto concede ai primi violini il privilegio di presentare il primo tema; poi, dopo un dialogo tra archi e fiati, spetta ai legni di presentare un secondo tema finché, dopo una drammatica modulazione in minore,
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si apre la strada all'intervento del «solo» il quale, su una tonalità di sol maggiore, più che presentare un tema si lancia in un tentativo di «cadenza» che dà l'avvio al lungo dialogo tra solista e orchestra. L'Andante segna il momento della riflessione lirica, dell'abbandono intimistico. Si apre con il pizzicato dei violoncelli e dei contrabbassi, su un mosso disegno di terzine e sestine affidato a violini secondi e viole, mentre i violini primi, in sordina, intonano un canto di suggestiva e rarefatta bellezza, ripreso e sviluppato dal pianoforte. Gran parte del fascino di questo movimento si basa sul suo colorito sempre cangiante e sulle straordinarie sonorità frutto di una ricchissima e sapiente strumentazione. Strutturalmente si riconoscono in questo movimento tre parti distinte: un preludio orchestrale, una parte centrale nella quale è il solista a prevalere ed una «coda». E’ da notare che questa magica atmosfera è costruita da Mozart cambiando continuamente la tonalità del pezzo che comincia in fa maggiore e conclude,
naturalmente,
nella
stessa
tonalità ma che contiene in 102 battute ben 20 modulazioni verso tonalità diverse. Il concerto si conclude con l’Allegro vivace assai, un rondò caratterizzato dal dialogo costante tra «solo» e «tutti» basato sulla utilizzazione sapiente di frammenti del tema principale che passa continuamente da una sezione all'altra dell'orchestra e con protagonista virtuosistico il pianoforte, con il risultato di creare una gioiosa atmosfera che cancella definitivamente la intima e triste meditazione dell’Andante. NOTA. Questo concerto, nei tempi moderni, è noto anche con la dicitura Elvira Madigan a causa dell’uso del 2° movimento nell’omonimo film svedese del 1967 che racconta la storia d’amore di questa funambola circense danese e di un ufficiale di cavalleria, finita tragicamente con la morte violenta di entrambi.
Concerto per pianoforte n. 22 in la maggiore, K 482 Questo concerto porta la data del 16 dicembre 1785 e fu eseguito a Vienna la prima volta il 23 dicembre dello stesso anno ottenendo un grande successo da parte del pubblico che volle la replica dell'Andante. Si trattava del resto di un periodo - forse il solo periodo - fortunato nella vita viennese del musicista. Le poche lettere di quegli anni giunte fino a noi rispecchiano uno stato d'animo sollevato ed euforico, vivaci istantanee dell'ambiente musicale viennese in quell'epoca in cui gli artisti lavoravano personalmente a contatto col pubblico. «Ora come potete immaginare - scrive Mozart al padre - devo necessariamente suonare - e quindi scrivere cose nuove. L'intera mattinata la dedico agli allievi e quasi tutte le sere ho da suonare». E in un'altra lettera a Leopoldo dice: «Eccovi l'elenco di tutti i miei abbonati. Io da solo ne ho trenta di più che Richter e Fischer insieme. Il primo concerto è andato benissimo. La sala era piena zeppa
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e il nuovo concerto da me eseguito è piaciuto straordinariamente. Ovunque si sente lodare questa accademia...». Il suo organico orchestrale (flauto, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi) prevede, per la prima volta nei concerti di Mozart, l'utilizzo dei clarinetti al posto degli oboi; questo favorisce l'impiego concertante dell'intera sezione dei fiati, permettendo a Mozart di ottenere affascinanti impasti timbrici. Il primo movimento, Allegro, è ricchissimo di idee tematiche, a partire dal caratteristico «motto» iniziale al quale risponde per due volte una fluida melodia discendente esposta dai legni prima, dai violini poi. Senza soluzione di continuità appaiono poi una seconda idea, che si muove fra le diverse famiglie orchestrali, e un terzo spunto tematico dolce e cantabile affidato a flauto, corni e violini. L'ingresso del solista avviene su un tema nuovo dal carattere galante e dalla ricca ornamentazione: la lunga effusione lirica del pianoforte, interrotta solo sporadicamente dai brevi interventi dell'orchestra, presenta un carattere quasi «toccatistico»,
traccia
improvvisazioni che
sbiadita
delle
straordinarie
Mozart amava fare
nel corso
dell'esecuzione pubblica dei suoi concerti. Il nuovo impiego dei fiati inaugurato da questo concerto è testimoniato dall'episodio che precede l'ultima semplice e delicata melodia di questa ricca esposizione, episodio animato dalle voci intrecciate di flauto e fagotti. L'Andante, nella tonalità di do minore, è di certo tra le pagine esistenzialmente più sconvolgenti lasciateci dal maestro salisburghese per la sua immediatezza espressiva così facilmente leggibile nella chiave di un arco di sentimenti che porta dal dolore e la disperazione fino alla rassegnazione: una prefigurazione dei drammatici temi che saranno al centro delle opere degli ultimi anni mozartiani. L'Andante presenta una originalissima forma di Tema con variazioni: al tema principale Mozart giustappone cinque quadri contrastanti per colore armonico, orchestrazione, tonalità e melodia che conservano solo qualche riferimento, a volte molto labile, col motivo principale. Quest'ultimo, nella tonalità di do minore, non presenta quelle qualità di intensa cantabilità tipiche dei movimenti lenti, ma ha un andamento esitante e dolente che lo fa assomigliare piuttosto a un drammatico recitativo. Nella prima variazione è assoluto protagonista il pianoforte, che si distacca però dal tema in una sorta di romantico preludio. La seconda variazione, in tonalità maggiore, è affidata ai legni e rappresenta un'oasi di serenità e di quiete, subito interrotta dal ritorno del solista che, nella terza variazione, riprende i toni fantastici e un poco sognanti del tema principale. Con la quarta variazione Mozart ci introduce nella solare tonalità di do maggiore: il disteso dialogo fra flauto e fagotto ricorda il clima spirituale del futuro Flauto magico. La quinta variazione riunisce solista e orchestra in un serrato e intenso dialogo, quasi beethoveniano nel pathos espressivo; lo stesso clima, quasi rassegnato, troviamo nella coda conclusiva, nella quale Mozart inserisce anche un nuovo nostalgico motivo in tonalità minore, esposto come un dialogo fra legni e solista.
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La straordinaria intensità emotiva e il respiro quasi romantico di questa pagina non sfuggirono ai primi ascoltatori che, cosa assai rara per quei tempi, ne chiesero la ripetizione. Lo apprendiamo da una lettera che il padre Leopold scrisse alla figlia informandola che Wolfgang nel Concerto in mi bemolle «aveva dovuto (cosa davvero straordinaria) ripetere l'Andante». L'Allegro conclusivo è scritto in forma di rondò-sonata. Il tema principale del rondò, in ritmo di giga, ha la semplicità e lo spirito dell'ultimo Mozart: nelle note ribattute, prima dal solista poi dall'orchestra, e negli spunti tematici ripetuti a turno dai legni sembra veramente di sentire l'eco di una gioiosa «scena di caccia trasfigurata in un girotondo» (Einstein). Dopo il primo episodio, che presenta due nuovi brillanti motivi, e la ripresa del rondò, Mozart ci riserva una sorpresa degna del suo amico e maestro Haydn: il secondo episodio è un Andantino cantabile in la bemolle maggiore, nel quale emerge caldo ed espressivo il timbro dei clarinetti. Probabilmente è stato il desiderio di mettere in evidenza questo nuovo strumento e di riservargli un ruolo da protagonista a spingere Mozart a incastonare questo estatico minuetto all'interno del rondò. Il ritorno al clima spensierato del tema principale avviene con un episodio di straordinario fascino timbrico: sopra le morbide armonie dei legni, si levano gli eterei arpeggi del pianoforte, spezzati fra mano destra e mano sinistra e sostenuti dal pizzicato degli archi uniti. Poco prima della cadenza conclusiva, il solista riprende il tema all'inizio del movimento e lo ripete prima della travolgente coda finale.
Concerto per pianoforte n. 23 in la maggiore, K 488 Pubblicato nel marzo 1786, fu eseguito per la prima volta a Vienna il 7 aprile 1786 in una delle consuete Accademie che vedevano Mozart acclamato protagonista nella duplice veste di autore e interprete: fu quella la sua ultima apparizione come solista sul palcoscenico del Burgtheater. Il K 488 presenta una dimensione intima e raccolta, sia riguardo alla scrittura che all'organico orchestrale, il che conferma la sua appartenenza alle composizioni che Mozart riservava per sé o per un piccolo circolo di intenditori. Il suo colore timbrico, soffuso e delicato, è anche dovuto all'uso dei clarinetti - recente scoperta di Mozart - (al posto degli oboi) impiegati per creare un colore di fondo più dolce
e
pastoso,
insieme
morbido
ed
evocativo, e alla tonalità di la maggiore, che verrà utilizzata ancora per il Quintetto con clarinetto K 581 e per il Concerto K 622 per clarinetto e orchestra. Mancano invece i timbri marziali ed eroici di trombe e timpani Già
dal
primo
movimento,
Allegro,
la
composizione si annuncia come un concerto fra i più preziosi e intimisti mozartiani. Il movimento inizia con una lunga ed elaborata introduzione orchestrale, che si sviluppa sull'esposizione dei due temi assai affini tra loro, delicati e sereni. Il solista riprende poi regolarmente i due temi
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precedenti e conclude l'esposizione. Si presenta quindi un nuovo tema, più serio. La ripresa, condotta congiuntamente da solista e orchestra, è regolare ma viene interrotta da una pausa sospensiva, la stessa che aveva preceduto lo sviluppo: ecco riapparire infatti il tema principale che viene ora utilizzato in un breve sviluppo secondario dal carattere nostalgico, reso ancor più struggente dal timbro dei due clarinetti che dialogano col solista. La parte finale presenta la cadenza interamente scritta da Mozart stesso nella partitura autografa, contrariamente all'uso di lasciarne l'improvvisazione al solista. L'Adagio è breve ma molto intenso: al tema principale del solista, un ritmo in siciliana in fa diesis minore (tonalità abbastanza inconsueta per Mozart), dominato quasi da un senso di dolorosa rassegnazione, fa seguito la triste e desolata risposta dell'orchestra, con una melodia che si può senz'altro definire romantica. Dopo una pausa dolce nell’intermezzo in tonalità maggiore, nel quale ancora una volta Mozart si affida al timbro dei clarinetti, assistiamo alla ripresa della sezione iniziale, in cui gli ampi intervalli nella linea melodica del solista, ricordo dello stile operistico italiano, vengono contrappuntati dal pizzicato espressivo degli archi: sarà proprio l'infinita malinconia e il profondo lirismo di questo momento della composizione che colpisce in modo indelebile chi lo ascolta. Tanta tensione patetica, quasi inavvertitamente accumulata sull'esile filo di un nudo canto del pianoforte, contrasta con il versante brillante e virtuosistico dell'Allegro assai conclusivo, in forma di rondò-sonata: la pagina è ricca di temi e di spunti semplici e briosi, e si sviluppa in un continuo rincorrersi e sovrapporsi di frasi tra pianoforte e strumenti, ora spinti anch'essi quasi al rango concertante di solisti: il finale è brillantissimo e vivace, e ricorda l'atmosfera brillante e spensierata delle Nozze di Figaro, opera alla quale Mozart stava lavorando proprio in quel periodo.
Discografia. Secondo me oggi per potersi orientare nell'interpretazione mozartiana sia dei concerti per pianoforte ma anche di tutte le sue opere, occorre comprendere quale è la nostra idea di Mozart, perché ad oggi di Mozart su tastiera ce ne sono almeno due. Uno è il Mozart di tradizione, tutto volto all'apollineo, al bel suono, con dinamiche contenute, brillantezza di tocco, una certa generica serenità di fraseggio. Nessuna introduzione di variazioni nella riproposizione dei ritornelli, e quindi o esecuzione integrale senza introduzione di variazioni o tagli del/dei ritornelli; rigore ritmico all'interno del movimento e coerenza nel rapporto tra le velocità staccate nei vari movimenti. Essendo il Mozart della tradizione novecentesca è certo un Mozart prevalentemente pianistico. Seguaci di questa concezione sono grandi interpreti quali Walter Gieseking, Clara Haskil, il primo Claudio Arrau, Svatoslav Richter, Vladimir Horowitz, Mitsuko Uchida, Daniel Barenboim, Geza Anda, Aldo Ciccolini, Alfred Brendel, Murray Perhaia. Rudolf Serkin. Queste interpretazioni sono tutte raccomandabili, Gieseking però spicca su tutti.
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Il secondo Mozart è quello dell'interpretazione filologica, e quindi un Mozart illuminato partendo dalla espressione musicale barocca, e non dalla espressione musicale successiva classica beethoveniana. Questo Mozart ha una differente dinamica (anche se il volume massimo ottenibile è ovviamente e comunque minore di quello del piano, visto che gli interpreti di questa scuola eseguono al fortepiano), un maggior mordente nel fraseggio, l’uso di variazioni nella ripetizione dei ritornelli (come di prassi all'epoca). Tra questi interpreti vanno annoverati i fortepianisti veri e propri quali Malcom Bilson (una delle più belle interpretazione in assoluto), Badura Skoda, Ronald Brautigam, ma anche quei pianisti che pur non abbandonando lo strumento moderno hanno però abbracciato alcune linee interpretative della scuola filologica: tra questi Friedrich Gulda, che però aveva questa interpretazione più per derivazione dalla prassi jazz che per mero scrupolo filologico, e Andreas Schiff.
Per quanto riguarda un mio parere personale su una integrale dei concerti, di impostazione tradizionale ma praticamente perfetta dal punto di vista pianistico per la varietà incredibile di sfumature, la giocosità ma anche il mordente, il lirismo ma anche la drammaticità, consiglierei l'edizione di Alfred Brendel con l’Academy of St. Martin in the Fields diretta da Sir Neville Marriner. Da avere senza dubbio alcuno. [Decca]
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Musica classica e cinema: Walt Disney e la “Danza delle ore” In questo numero della Rivista, nella sezione Melomania, troverete l’opera “Gioconda” di Amilcare Ponchielli, nota anche per la sua celeberrima “Danza delle ore”. Questo brano fu, tra l’altro, utilizzato ben due volte da Walt Disney nei suoi cartoni animati. La prima volta fu nel 1929 in "Springtime" (della serie Silly Symphonies), il primo cortometraggio di una quadrilogia dedicata alle quattro stagioni che troverà compimento l'anno successivo. Springtime è senza dubbio il migliore dei quattro corti stagionali di Walt Disney, il più ritmato e quello con maggior verve comica. Il cortometraggio evoca un idilliaco quadretto naturalistico, nel quale vediamo piante e animali di vario tipo danzare sulle note di alcuni brani di musica classica e popolare. Dopo una prima parte basata sul Mattino di Edvard Grieg e sul valzer Whispering of the Flowers di Franz von Blon, viene dato un grandissimo spazio alla Danza delle Ore. La seconda volta che Disney utilizzò questo brano fu nel film Fantasia del 1940. Utilizzando la musica di Ponchielli, il grande Walt elaborò con il suo staff un balletto di animali che fanno la parodia di un balletto classico. Lo divise in quattro parti con quattro diverse specie animali come protagonisti: M.lle Upanova e i suoi struzzi (mattino); Hyacinth l'ippopotamo e le sue servitrici (pomeriggio); Elephanchine e la sua compagnia di elefantesse che soffiano bolle di sapone (sera); Ben Ali Gator e il suo gruppo di alligatori (notte). Infine, nel finale, quando vengono scacciate le Ore della Notte, riappaiono tutti i personaggi che ballano insieme finché il loro palazzo non crolla. “La grande incongruenza - disse Disney - sarà nel far fare a elefanti e ippopotami ciò che fa la gente ricca di grazia”. Venne affidato a Deems Taylor il compito di spiegare al pubblico lo scenario del balletto, inserendo all’inizio la sua voce: "E’ il passaggio lento e processionale delle ore del giorno. Tutto ciò ha luogo nel grande ingresso, con il giardino al di là, del Palazzo del Duca Alvise, un nobile veneziano". Potrà forse apparire strano raccontare la storia di questo cartone animato; ma lo diventa molto meno quando ci accorgiamo delle vere intenzioni che quel grandissimo maestro della cinematografia che fu Walt Disney aveva quando cominciò a ideare il lungometraggio di Fantasia. All’epoca, Disney era conosciuto più come un cartoon-maker – un fabbricante di cartoni animati – piuttosto che come un artista, ma naturalmente egli aveva molte idee in testa, e aveva capito che attraverso un lungometraggio, sia pure di cartoni animati, ideato e prodotto con attenzione, si potevano veicolare anche messaggi molto profondi e duraturi. Disney era convinto che la musica classica avrebbe avuto una
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maggiore diffusione se fosse stata accompagnata dalle immagini. Questa idea, quindi, fu la spinta fondamentale per la produzione del lungometraggio, che fu il primo della storia ad avere il suono stereofonico. Accanto a Disney e al suo staff di animatori, si aggiunse il maestro Leopold Stokowski e un ricco cast di musicisti, coreografi e ballerini. Alle prime uscite del film, nel 1940 e nel 1946, il pubblico non gradì l’opera. Il successo arrivò quando essa venne riproposta, nella forma integrale che oggi conosciamo, nel 1956, e da allora è apprezzata in tutto il mondo.
Mattino: Balletto dello Struzzo La scena inizia con eleganti cancelli di ferro battuto che si aprono verso una sala, con diafane tende bianche, che si aprono per rivelare la ballerina M.lle Upanova, uno struzzo, addormentata in cima a una scala. M.lle Upanova si sveglia, si stira, si alza, con tormentosa grazia piroetta sopra altri struzzi addormentati, svegliandoli. Le ballerine-struzzo vengono svegliate, fanno una riverenza e si sorridono a vicenda – tranne una, chiaramente imbronciata. Alcuni momenti di riscaldamento alla sbarra – con una ballerina struzzo che si porta una zampa tesa fino al naso, in un improbabile stretching - sono seguiti da un tutti al centro.
Raccogliendo una cornucopia, getta frutti ai componenti del gruppo, che li ingoiano interi. Arance, banane, ananas danno origine a forme interessanti sui loro colli. Quando le danzatrici tentano di sottrarre un grappolo d’uva alla prima ballerina, lei fugge e loro le danno la caccia all’esterno, verso una pozza d’acqua. Nell’inseguimento, la solita ultima del gruppo va a sbattere contro una colonna dello scenario. Alcune sequenze sono piccole raffinatezze: tutto il balletto degli struzzi si confronta con le cinque posizioni di base della danza, che sono costruite sull’extra-rotazione esagerata dei piedi, ovviamente nel modo in cui uno struzzo potrebbe eseguirle. Il punto massimo figurativo della sequenza si raggiunge quando M.lle Upanova esegue una pirouette, con la quale salta su, in aria, in una caricatura dinamica della famosa formula di Nijinsky per gli jeté: "Devi andar su e fare una piccola pausa". Upanova dopo un po’ scende
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lentamente, sventolando le piume delle ali, torce le zampe e piomba a terra con una spaccata. Un assolo sulle punte, dimostrativo – con la solita allieva che si illumina e comprende solo dopo alcune sequenze – è reso buffo dalla piegatura delle ginocchia, che negli struzzi avviene all’incontrario rispetto agli umani. L’Alba termina con il lancio dei frutti, che doveva comunque richiamare la soavità di un lancio di fiori, con l’ananas a imitazione del lancio di un bouquet da sposa. Pomeriggio: Balletto dell’Ippopotamo La prima ballerina è un ippopotamo di nome Hyacinth. Emerge dalla profonda pozza in cui il grappolo d’uva di M.lle Upanova si è sventuratamente inabissato, finendo ovviamente nella sua bocca. Scrollandosi di dosso l’acqua, graziosamente appoggiata sulle punte, sorretta miracolosamente dallo specchio d’acqua, Hyacinth viene raggiunta dalle ancelle ballerine, che le portano il tutù e il necessario per incipriarsi il naso e sotto le braccia allo specchio. Rassicurata la sua vanità, abbandona il piumino da cipria e viene tirata fuori dalla pozza da due ippopotami del corpo di ballo. A questo punto, Hyacinth Hippo, vestita solo del suo tutù trasparente, inizia il suo assolo di danza, tra cui ben dieci pirouette in punta. Lo sforzo la fa già sbadigliare,
sfregare
gli
occhi,
stirare,
afflosciarsi con i piedi e cadere nelle braccia degli ippopotami, che la scortano al suo giaciglio e a un sonno riposante.
Sera: Balletto degli Elefanti Gli elefanti appaiono con scarpette da ballo, vanno alla pozza e soffiano grandi bolle rosa, che usano come sostegni per danzare. Segnando il tempo, le bolle
si
accumulano
sotto
il
giaciglio
dell’ippopotamo dormiente. Si alza il vento, che trasporta elefanti e ippopotami, dentro le bolle, fuori
dal
giardino.
Le
bolle
hanno
anche
trasportato in alto il giaciglio di Hyacinth, ma ora esso scende a spirale verso la terra; le bolle e gli elefanti – le ore della sera - volano via e Hyacinth si trova sola, ancora addormentata, mentre scende la notte.
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Notte: Balletto degli Alligatori Dal buio spuntano occhi gialli che guardano Hyacinth dormire. Un
controluce si accende
all’improvviso, rivelando le presenze notturne degli alligatori che scivolano giù dalle colonne e strisciano verso Hyacinth, le bocche azzannanti, le code in contorsione. Improvvisamente appare il loro leader, Ben Ali Gator, la cui camminata presuntuosa, vanitosa e impudente indica che lui è il capo. Curvandosi sopra Hyacinth, Ben la sbircia; lei si sveglia e si comporta come le ballerine della tradizione romantica: si schermisce e, a un approccio più diretto di lui, fugge via … salvo cambiare evidentemente idea, e tornare di corsa, spiccando un grand jeté che la porta perfettamente a spiaccicare a terra l’amoroso alligatore. Ben si produce in una caricatura dell’inseguimento impazzito, tipico del balletto romantico, nei confronti della riservata prima ballerina. E’ il risveglio dell’amore nel selvaggio petto dell’alligatore. A questo punto i due primi ballerini iniziano il loro numero di danza. E’ un adagio spettacolare, un amoroso passo a due che improvvisamente esplode nel più selvaggio inseguimento di tutti contro tutti della storia del balletto. Alligatori e ippopotami giocano a nascondino intorno a colonne di marmo; gli alligatori cavalcano gli struzzi; un elefante cavalca un alligatore; gli alligatori fanno girare gli elefanti sopra la testa; gli ippopotami fanno girare gli alligatori intorno alle loro code. Ben Ali Gator fa ruotare Hyacinth, l’afferra ed entra anche lui nel vortice. Poi, su un accento musicale, la lancia giù, assumendo una postura di trionfo sopra di lei. La cinepresa è trasportata
indietro
velocemente,
attraverso
l’anticamera da cui siamo entrati. Il cancello sbatte violentemente e le porte si staccano dai cardini. La Danza delle Ore, iniziata quietamente, finisce così in modo folle.
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La Musica del Medioevo
“Il Llibre Vermell”
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Cenni storici. Nel Medioevo, in tutta Europa, era evento frequente che si creassero dei luoghi di culto là dove i corpi dei Santi erano seppelliti, o vi erano loro reliquie, o erano conservate immagini della Madonna che in quel luogo avevano operato miracoli. In questi luoghi “sacri” veniva edificata una cappella votiva e spesso, nelle vicinanze, sorgeva un convento che si incaricava della cura e custodia del Santuario, ricavandone anche quei vantaggi economici legati alle donazioni dei pellegrini. In Spagna, a quel tempo, due erano i Santuari più famosi, mete di numerosissimi pellegrinaggi: il primo era quello di Santiago di Compostela, dove erano conservati i resti mortali dell’Apostolo Giacomo, l’altro era il Monastero di Montserrat, fondato nel 1027, dedicato alla Madonna di Monte Serrano, centro di culto della Vergine Maria in tutta la Catalogna. Le origini di questo secondo Santuario non sono ben definite: si narra che all'inizio dell'XI secolo, un monaco benedettino, proveniente da Ripoli, fondasse un monastero sulla montagna di Montserrat, a 720 metri di altezza, nel comune di Monistrol de Montserrat, in Catalogna, dove esisteva già un antico eremo. Fulcro del culto mariano era la statua della Vergine di Montserrat (tuttora lì conservata), dallo stile romanico, scolpita in legno di ebano. Datata tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, misura circa 95 cm di altezza e rappresenta la Beata Vergine Maria con Gesù Bambino: nella mano destra la Madonna regge una sfera che simboleggia l'universo; poggiato sul suo grembo, Gesù benedice con la mano destra mentre nella sinistra regge una pigna. Ad eccezione dei volti e delle mani, l'immagine è dipinta d'oro: la Vergine è rappresentata con volto di carnagione scura, cosa che le è valsa il soprannome popolare di moreneta. La strada che i pellegrini dovevano fare per vedere questa statua era impervia e ricca di difficoltà. La prima fase del pellegrinaggio, il sacrificio, era scandita dal pericolo degli stretti sentieri stesi su ponticelli aperti a profondi calanchi, e le cui tracce si andavano perdendo, su per l'altipiano, in percorsi tra loro incrociati che richiamavano il labirinto. Qualcuno rinunciava, altri si aggregavano a pellegrini più scaltri, dei quali dovevano, per espiazione, avvolgersi lo scapolare intorno alle spalle, procedendo come muli dietro al loro padrone. La seconda fase, l'attesa, si traduceva in una veglia all'addiaccio tra i ricoveri di pietra aperti nelle guglie montuose intorno al Monastero, nella cui cappella i monaci facevano nel frattempo eseguire inni sacri al celebre coro di ragazzi da essi addestrato. L'ultima parte del pellegrinaggio, la speranza, prevedeva la genuflessione davanti alla statua, mentre se ne invocavano le virtù taumaturgiche secondo formule di scongiuro e di desiderio. La lunga salita che portava a Montserrat acquistava così il carattere di un'iniziazione alle vie dell'anima, cui si accedeva attraverso il sacrificio, l'attesa e la speranza.
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Il Monastero di Montserrat assunse nel tempo una notevole importanza grazie anche alla sua impervia posizione: arroccato sugli aguzzi profili delle montagne catalane, la sua leggendaria resistenza alle orde visigote gli meritò la fama di baluardo della Cristianità primitiva, «pietra massima tra quelle di Pietro». Purtroppo nulla poté nel corso del XIX secolo quando fu incendiato e saccheggiato per ben due volte dalle truppe napoleoniche, nel 1811 e nel 1812: dei manoscritti in esso conservati, l’unico testo che si salvò fu il Manoscritto n° 1, meglio conosciuto come Llibre Vermell, - così chiamato dal colore rosso del velluto della copertina con cui venne rilegato nel XIX secolo - che ci documenta sui miracoli della Madonna di Montserrat e sul pellegrinaggio alla montagna sacra. I miracoli della Vergine Nera erano certamente già conosciuti nel secolo precedente: infatti sei delle Cantigas de Santa Maria, della fine del XIII secolo, ci raccontano nell’antica lingua gallego-portoghese di come la Madonna Nera di Montserrat avesse salvato dei pellegrini e miracolato sia i monaci che la stessa Chiesa da furti e distruzioni. Era tale la sua fama di Vergine pietosa e riconoscente che sempre un maggior numero di pellegrini salivano fino a Lei per lodarla o per chiederle perdono. Così Montserrat divenne nel Medioevo luogo di visita per ogni pellegrino d’Europa che si recava in Spagna e che a volte raggiungeva anche la meta finale di Santiago de Compostela “lì dove finiva il mondo”. I pellegrini, oltre a pregare la Vergine e a pentirsi fortemente, esprimevano la loro gioia di essere in quel luogo con canti e danze. Il Llibre Vermell ci dice che potevano essere intonati e danzati solo quei canti devoti e rispettosi, come i dieci in esso conservati, e che si vietavano espressioni sconvenienti durante l’andata, la sosta e il ritorno dal monastero. Il copista volle ben sottolineare diligentemente questi doveri in coda al primo di essi: “Quando i pellegrini vegliano nella Chiesa di Santa Maria di Monserrat, sono talvolta presi dal desiderio di cantare e fare festa, e ciò avviene anche di giorno sul sagrato; e siccome in questo luogo si devono innalzare solo canti sacri e religiosi, a tal proposito vengono qui riportati, prima e dopo di queste note, canti adatti alla circostanza. E di
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questi canti devono servirsi in modo conveniente e moderato, per non disturbare chi è intento nelle preghiere e nelle devote meditazioni, nelle quali tutti devono parimenti mantenersi e dedicarsi con devozione.” Qualche pagina dopo, una nuova raccomandazione del copista sull’atteggiamento da assumere da parte dei pellegrini: “Parlare con discrezione sia durante il cammino che durante la loro permanenza in Abbazia, rinunciando alle canzoni leggere e profane e alle danze indecenti.” Per preparare i pellegrini al giusto comportamento devozionale all’interno della chiesa vi erano dei pueri cantores che intonavano appositi canti: questi cantori avevano una notevole preparazione musicale; erano a conoscenza della polifonia colta francese e usavano numerosi di strumenti musicali. Gli stessi sovrani di quel periodo (Juan I e Martin El Humano) erano esperti musicisti e avevano sempre alla loro corte numerosi musici che andavano e venivano da Montserrat a seconda dell’importanza delle celebrazioni. Come ci documenta il Llibre Vermell, ai fedeli era permesso di danzare sul sagrato della chiesa e a volte anche all’interno, con musiche aventi forti connotati popolari, semplici da cantare e da ballare in tondo.. Per la lode e il pentimento si raccomandavano due melodie, Laudemus Virginem e Splendens Ceptigera,due canoni che potevano cantarsi a due o tre voci.
Il manoscritto. Il manoscritto risale alla fine del XIV secolo. Inizialmente conteneva 172 fogli di pergamena scritti sulle due facciate, di questi se ne sono perduti 35; dei 137 restanti, solo sette (fra il 21 e il 27) contengono musica. I canti, tutti anonimi, sono in catalano, occitano e latino. I canti del Llibre Vermeill sono scritti secondo la notazione introdotta in Francia nel 1320 da Philippe de Vitry, quindi dell’Ars Nova francese. Dal punto di vista formale, i canti Stella splendens, Cuncti simus concanentes, Polorum Regina, Mariam matrem e Ad morte festinamus sono dei virelais, specie di canzone narrativa francese medievale, molto affine al rondeau, dal quale a volte è difficile fare una distinzione. Il virelai è articolato in varie strofe, inframezzate da un ritornello; i canti sopra accennati iniziano tutti con un ritornello di due versi al quale succedono due quartine che terminano con la melodia del ritornello al quale si concatenano. I canti O Virgo splendens, Laudemus Virginem e Splendens centigera sono invece canoni a due o tre voci, trattandosi di una melodia che si ripete con diverse entrate successive, sovrapponendosi tra loro. Tre delle composizioni hanno anche indicazione di danze: Stella splendens deve essere eseguita ad tripudium rotundum, cioè come un girotondo molto vivace e festante, mentre Los set goyts e Polorum Regina portano le indicazioni a ball retond, cioè ballando al tondo.
Il pellegrinaggio a Montserrat nei tempi moderni. Andare in pellegrinaggio al Santuario di Montserrat é oggi, come una volta, un’esperienza di forte rinnovamento spirituale.
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Partendo da Barcellona e dirigendosi verso l’interno, la montagna sacra di Montserrat svetta tra tutti i colli e si nota per la sua particolare forma, così diversa da quelle dei monti adiacenti, tanto che sin dall’antichità si pensava che questo fosse un luogo magico. Per arrivare in cima c’è ancora oggi il vecchio sentiero che i pellegrini percorrevano a piedi o con l’aiuto di animali: il camin de l’angel, una piccola strada che parte non distante dall’ultima fonte dell’antico borgo situato ai piedi della montagna e che si arrampica snodandosi per alcuni chilometri. Naturalmente oggi si può salire con l’automobile, per una moderna strada asfaltata, oppure con la “via area”, la funivia, che giunge fino ad una stretta gola, appena un po’ sotto al monastero di Montserrat; ma quell’antico sentiero, il camin de l’angel, ci ricorda, grazie al suo nome, tutto il fascino di un percorso verso la purificazione interiore, offrendo al pellegrino, durante il suo viaggio-elevazione, un panorama di grande bellezza. Il monastero non appare subito alla vista; è nascosto tra le pieghe della montagna sacra, come se fosse contenuto in uno scrigno: è esso stesso scrigno per la preziosa statua lignea della Madonna Nera. Ben più grande di quello medievale, ampliato in varie parti per contenere un sempre maggior numero di fedeli, fu restaurato dopo i bombardamenti della guerra napoleonica che distrussero parte dei preziosissimi codici della biblioteca.
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[L A
azia di Mo tserrat ai giorni nostri]
I Canti. I pezzi della collezione a noi pervenuti sono dieci: tre canoni, due composizioni polifoniche e cinque danze. O Virgo splendens è una melodia di derivazione gregoriana, che può essere eseguita a canone, ovvero la prima voce comincia a cantare, la seconda voce subentra quando la prima voce inizia la seconda frase, mentre la terza attacca il suo canto quando la prima inizia la terza frase, e così via. L’effetto è di una complessità crescente e suggestiva.
O Virgo splendens (fol. 21v-22) - Antiphona dulcis armonia dulcissime virginis Marie de Monteserrato. Caça de duobus vel tribus. [O splendida Vergine - Antifona in dolce armonia per la dolce Vergine Maria di Montserrat. Canone a due o tre voci Canone a due .] O Virgo splendens hic in monte celso miraculis serrato fulgentibus ubique quem fideles conscendunt universi. [O splendida Vergine, su questo monte, dove i miracoli sorgono ovunque, dove salgono i fedeli del mondo intero.] Eya pietatis occulo placato cerne ligatos fune peccatorum ne infernorum ictibus graventur sed cum beatis tua prece vocentur.
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[Guarda con occhio misericordioso coloro che sono imprigionati nelle funi del peccato, perché non dive ti o p eda delle fia e dell’i fe o, ma siano chiamati da te tra i beati.] ♫♫♫
Stella Splendens è un celebre virelai, con indicazione di danza. Vi si alternano due sole idee musicali: una è quella del ritornello, destinato probabilmente a essere cantato da tutti, l’altra è presente nelle varie strofe, affidati a voci soliste oppure, a turno, alle soli voci maschili e alle soli voci femminili. Nelle immagini le pergamene originali:
Dai versi emerge un mondo – quello di una civiltà cristiana – in cui non solo i singoli, ma l’intera società riconosceva la regalità di Cristo e della sua Santissima Madre. Sono molti gli artisti che si sono cimentati nella sua esecuzione, ognuno proponendo un diverso organico strumentale, anche se non è facile individuare quella filologicamente più corretta. Ci sono versioni più intime che privilegiano gli strumenti a corda (liuto, arpa gotica, ribeca e salterio); e ce ne sono di più festose, dove sono più in evidenza percussioni e strumenti aerofoni “chiassosi” (cornetti e bombarde). C’è anche chi ha provato a ricostruire i medievali passi di danza di questo canto. La scritta Sequitur alia cantilena… appare in rosso sul f. XXIIr: se mai ci fosse il dubbio che la danza fosse nel Medioevo indissolubilmente legata al canto, e anche a quello sacro, ecco la testimonianza scritta che lo dissolve. E’ noto che la Chiesa osteggiava la danza, perché con essa si faceva un uso improprio del corpo, ma con il tempo questo atteggiamento conobbe una naturale evoluzione. San Bonaventura, per esempio, a proposito della danza scrive nei suoi Commentaria in quattuor libros Sententiarum: "Dico pertanto che lo spettacolo di danza non è cattivo in se, ma diviene cattivo per quattro cause, cioè per il modo, quando è un modo lascivo; per il fine, quando è per provocare libidine; per il tempo, perché non sia in tempo di tristezza; per la persona, perché non venga fatto da un religioso. Al di là di ciò, è ammissibile".
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Nel ‘300 il concetto di danza e canto accostava gli esseri umani agli angeli, la cui attività prediletta, come scriveva San Basilio, era di lodare incessantemente il Signore manifestando la gioia con entrambe le espressioni artistiche. Angeli danzanti o cantanti in cerchio sono fra i soggetti dipinti per celebrare le solennità cristiane, in particolare l’incoronazione di Maria.
[Gaudenzio Ferrari: Il Pa adiso he a oglie l Assu ta, o os iuta o e Co e to degli A geli (particolare). Santuario della Beata Vergine dei Miracoli, Saronno. 1535]
Stella splendens (fol. 22r) Sequitur alia cantilena omni dulcedine plena eiusdem Domine nostre ad trepudium rotundum [Stella splendente. Segue un altro canto, pie o d’og i dol ezza della Nost a “ig o a, pe la da za i girotondo festante] Stella splendens in monte ut solis radium miraculis serrato exaudi populum. Concurrunt universi gaudentes populi divites et egeni grandes et parvuli ipsum ingrediuntur ut cernunt oculi et inde revertuntur gracijis repleti. [Stella che splendi sul monte, illuminata - come da un raggio di sole - dai miracoli, ascolta il tuo popolo. Dal mondo intero, tutti accorrono gioiosamente, ricchi e poveri, grandi e piccoli. Con i nostri occhi, li vediamo arrivare e ripartire pieni della tua Grazia.] Principes et magnates extirpe regia saeculi potestates obtenta venia peccaminum proclamant tundentes pectora poplite flexo clamant hic: Ave Maria. Prelati et barones comites incliti religiosi omnes atque presbyteri milites mercatores cives marinari burgenses piscatores praemiantur ibi. Rustici aratores nec non notarii advocati scultores cuncti ligni fabri sartores et sutores nec non lanifici artifices et omnes gratulantur ibi. [Principi e grandi, di stirpe reale, potenti del secolo, toccati dalla Tua grazia, confessano i loro peccati, olpe dosi il petto e p op io ui, i gi o hio, es la a o: Ave Ma ia! . P elati, a o i, o ti illust i, religiosi tutti e anche preti, soldati, commercianti, cittadini, marinai, borghesi, pescatori, portano qui le 67
loro offerte. Contadini, aratori ed anche notai, avvocati, tagliapietre, falegnami, sarchiatori e calzolai, ed anche tessitori, artigiani, tutti tendono grazia qui.] Reginae comitissae illustres dominae potentes et ancillae juvenes parvulae virgines et antiquae pariter viduae conscendunt et hunc montem et religiosae. Coetus hic aggregantur hic ut exhibeant vota regratiantur ut ipsa et reddant aulam istam ditantes hoc cuncti videant jocalibus ornantes soluti redeant. [Regine, contesse, donne illustri, padrone e domestiche, bambini piccoli, vergini e vecchie donne, ed anche vedove e religiose, salgono su questo monte. Tutti si radunano qui per presentare le loro offerte, e, rendendo grazia, le depongono, arricchendo, agli occhi di tutti, questo luogo che lasciano assolti dalle loro colpe.] Cuncti ergo precantes sexus utriusque mentes nostras mundantes oremus devote virginem gloriosam matrem clementiae in coelis gratiosam sentiamus vere. [Tutti quindi, donne e uomini, purificando le nostre anime, preghiamo devotamente la Vergine gloriosa Madre clemente. Possiamo noi vedere in cielo Colei che è veramente piena di grazia.] ♫♫♫
Laudemus Virginem è un canto di derivazione gregoriana.
Laudemus Virginem (fol. 23) Caça de duobus vel tribus. [Cantiamo le lodi della Vergine – Canone a due o tre voci] Laudemus virginem mater est et ejus filius Ihesus est. Plangemus scelera acriter, sperantes in Ihesum jugiter. [Cantiamo le lodi della Vergine madre, e di suo figlio Gesù. Piangiamo amaramente sui nostri peccati e riponiamo la nostra fiducia in Gesù.] [Simone Martini: Annunciazione (particolare). Gallerie degli Uffizi. 1333]
♫♫♫
Maria, matrem virgine, attolite è tra i canti più belli dell’intera raccolta. Quest’inno alla Vergine Maria ha la struttura di un virelai, con le strofe affidate alla voce soliste ed i ritornelli all’insieme delle voci femminili e degli strumenti musicali. Anche eseguito senza gli strumenti non perde nulla del suo suggestivo fascino.
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Mariam, matrem virginem, attolite (fol. 25r) (canción polifónica) [Esaltate Maria, madre e vergine – Canto polifonico] Mariam Matrem Virginem attolite Ihesum Christum extollite concorditer. Maria seculi asilum defende nos. Ihesu tutum refugium exaudi nos. Iam estis nos totaliter diffugium totum mundi confugium realiter. [Esaltate Maria, madre e vergine. Esaltate Gesù Cristo con una sola voce. Maria, asilo nostro quaggiù, difendici! Gesù, nostro più sicuro rifugio, ascoltaci! Siete, nella nostra miseria, l’u i o ifugio si u o al mondo, in verità!] Ihesu suprema bonitas verissima. Maria dulcis pietas gratissima. Amplissima conformiter sit caritas ad nos quos pellit vanitas enormiter. Maria facta saeculis salvatio, Ihesu damnati hominis redemptio, pugnare quem viriliter per famulis percussus duris iaculis atrociter. [Gesù, suprema e verissima bontà, Maria, pietà tanto graziosa e tanto dolce. Sia grandissima la vostra a ità ve so di oi, sotto essi all’i mensa vanità delle cose di questo mondo. Maria, umile vergine, ti onoriamo, Gesù, aspirazione delle nostre anime, ti imploriamo, e vogliamo, un giorno in cielo, godere delle felicità eterna assieme agli angeli santi.] ♫♫♫
Polorum regina è una danza che inneggia al mistero della verginità della Madonna. Il concepimento verginale di Gesù da parte di Maria, avvenuto per volontà divina, è considerato verità di fede da tutte le confessioni cristiane, le quali fondano la propria dottrina sui Vangeli. [Antonello da Messina: L A u iata. Palazzo Abatellis, Palermo. 1475]
Polorum Regina (fol. 24v) - A ball redon [Regina di tutti i cieli- Danza in girotondo] Polorum regina omnium nostra, stella matutina dele scelera. Ante partum virgo Deo gravida semper permansisti inviolata. Et in partu virgo Deo fecunda semper permansisti inviolata. Et post partum virgo mater enixa semper permansisti inviolata. [Nostra regina di tutti i cieli, stella del mattino, cancella i nostri peccati. Prima del parto, vergine pregna di Dio sempre rimanesti inviolata. E durante il parto, vergine feconda di Dio, sempre rimanesti inviolata. E dopo il parto, vergine fatta madre, sempre rimanesti inviolata.]
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♫♫♫
Cuncti simus concanentes è un virelais, strutturato cioè a strofe con un ritornello. Viene
introdotto
da
un
flauto
soprano
con
l’accompagnamento delle percussioni e, a tratti, anche da strumenti a corde. La sua melodia è particolarmente adatta ad essere danzata. Questo brano celebra l’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele alla Madonna: si esortano i pellegrini ad innalzare un canto e una danza in comune, uniti nella fede. [Beato Angelico: Annunciazione. Cortona, Museo Diocesano,1433-34)]
Cuncti simus concanentes (fol. 24) - A ball redon [Cantiamo tutti uniti – Danza in tondo] Cuncti simus concanentes Ave Maria. Virgo sola existente en affuit angelus Gabriel est appellatus atque missus celitus. Clara facieque dixit: Ave Maria. Clara facieque dixit: audite karissimi. En concipies Maria Pariesque filium audite karissimi Vocabis eum Ihesum. [Cantiamo tutti uniti: Ave Maria! Ve gi e u i a t a tutte, e o, dava ti a te, l’A gelo, il suo o e Ga iele, a dato dal ielo. Con viso radioso, ti dice: Ave Maria. Con viso radioso, ti dice - sentite carissimi -: Concepirai, Maria, partorirai un figlio, e lo chiamerai Gesù. ♫♫♫
Splendens ceptigera è un canone a tre voci, in cui i pellegrini confessano la loro essenza di peccatori, ed implorano Dio attraverso l’intercessione della Madonna.
Splendens ceptigera , Caça de duobus vel tribus [Rifugio splendente, canone a 3 voci] Splendens ceptiger, nostris sis advocata Virgo puerpera. Tundentes pectora crimina confitentes Simus Altissimo. Rifugio splendente degli abbandonati, sii nostra avvocata, tu che sei vergine e madre. Colpendo il nostro petto, confessando i nostri peccati, i plo ia o l’Altissi o.
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Los set gotxs (Le sette gioie della Vergine) è un insieme di momenti nella vita della Vergine spesso rappresentate nell'arte e nella letteratura devozionale. Le sette gioie sono: l'Annunciazione, la Natività di Gesù Cristo, l'Adorazione dei Magi, la Risurrezione del Cristo, l'Ascensione di Cristo al cielo, la Pentecoste (ossia la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e Maria) ed infine l'Incoronazione della Vergine nei cieli. Altre liste includono la Visitazione e il Ritrovamento di Gesù al Tempio, come nel rosario francescano (o meglio, corona francescana) che usa le sette gioie, ma omette Ascensione e Pentecoste.
[Duccio di Boninsegna: La Pentecoste. Museo dell Ope a di “ie a. 1311]
Esiste un corrispettivo alla lista delle sette gioie, e cioè i sette dolori della Vergine: la profezia di Simeone sulle difficoltà che Gesù avrebbe incontrato, la fuga in Egitto, la sparizione di Gesù nel Tempio, l'incontro con Gesù sulla via Crucis, la crocifissione, la deposizione, il seppellimento. Los set gotxs presenta chiarissima l’influenza araba nella struttura della melodia, cosa molto comune in quel periodo nella penisola iberica. Il testo è in lingua catalana arcaica, ad eccezione del ritornello in latino (Ave Maria gracia plena, Dominus tecum Virgo serena), che è cantato sulla melodia degli ultimi due versi delle strofe.
Los set gotxs de Nostra Dona (fol. 23v) - En vulgar cathallan, a ball redon. [Le sette gioie della Madonna – In catalano volgare, ballando in tondo.] Los set gotxs recomptarem et devotament xantant humilment saludarem la dolça verge Maria. Ave Maria gracia plena, Dominus tecum Virgo serena. [Le sette gioie contiamo e devotamente cantiamo per salutare umilmente la dolce vergine Maria. Ave Maria piena di grazia, Dio è con te, Vergine serena] Verge fos anans del part pura e sans falliment en lo part e prés lo part sens negun corrumpiment. Lo Fill de Déus Verge pia de vós nasque verament.
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[Vergine eri, prima del parto, pura e senza peccato, nel parto e dopo il parto, senza nessun peccato, Il figlio di Dio, in verità, nacque da te Vergine] Verge tres reys d'Orient cavalcant amb gran corage al l'estrella precedent vengren al vostré bitage. Offerint vos de gradatge Aur et mirre et encenç. [Vergine: tre re d'Oriente cavalcarono con grande ardire alla tua dimora, guidati da una stella, e ti offrirono liberamente oro, incenso e mirra.] Verge estant dolorosa per la mort del Fill molt car romangues tota joyosa can lo vis resuscitar. A vos madre piadosa prima se volch demostrar. [Vergine: stavi dolorosa a contemplare la morte del Figlio sì caro e tanto ti facesti gioiosa quando lo vedesti infine resuscitare A te, madre pietosa, si volle Egli per prima mostrare.] Verge lo quint alegratge que'n agues del fill molt car estant al munt d'olivatge Al cell l'on vehes puyar. On aurem tots alegratge si per nos vos plau pregar. [Vergine, la quinta gioia la conoscesti accanto al tuo caro Figlio. Era sul monte degli Ulivi, lo vedesti salire al cielo. Tutti, saremo pieni di gioia, se vorrai pregare per noi.] Verge quan foren complitz los dies de pentecosta Ab vos eren aunits los apostols et de costa. Sobre tots sens nuylla costa devallà l'espirit sant. [Vergine, quando furono compiutii giorni di Pentecoste a te si unirono muti gli apostoli. sulle vostre anime discese lo Spirito Santo.] Verge'l derrer alegratge que'n agues en aquest mon vostre Fill ab coratge vos munta al cel pregon. On sots tots temps coronada regina perpetual. [Vergine, l'ultima gioia che avesti in questo mondo fu la volontà del tuo figlio che tu ascendessi in cielo. E ti ha incoronata Regina fino alla fine dei tempi.] Tots donques nos esforcem en questa present vida que peccats foragitem de nostr'anima mequina. e vos dolce Verge pia vuyllats nos ho empetrar.
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[Così, quaggiù, in questa vita, ci sforziamo tutti di cacciare via il peccato dalle nostre povere anime, e tu, dolce e pia Vergine, aiutaci, te lo imploriamo.] ♫♫♫
Imperayritz de la ciutat joyosa è uno dei primi esempi di contrappunto della storia della musica. Molto suggestiva l’introduzione con la melodia eseguita dal flauto soprano con l’accompagnamento dell’arpa.
Imperayritz de la ciutat joyosa (fol. 25v) (canción polifónica) [Imperatrice della città gioiosa – canto polifonico] Imperayritz de la ciudad joyosa de paradis ab tot gaug eternal neta de crims de virtutz habundosa mayres de Dieu per obra divinal verges plasen ab fas angelical axi com sotz a Dieu molt graciosa placaus estar als fizels piadosa preyan per lor al rey celestial. [Imperatrice della città gioiosa del paradiso dove la gioia è eterna, senza crimini, ricca di virtù, Madre di Dio per opera divina, vergine piacente al viso angelico, così graziosa a Dio, vi piaccia di essere misericordiosa verso i fedeli, pregando per loro il re del cielo.] Ve ell de patz, o o a d espe a a, port de salut, be segur de tot ven vos merexetes de tenir la balanca on es pesat be dreytureramen e pesa mays votre fill excellen, mort en la crotz per nostra deliuranca uels pe ats d o e fa t e o ega a al be fizel confes e peniden. [Vascello di pace coronato di speranza, porto di salvezza al riparo da ogni vento, voi meritate di tenere la bilancia dove tutto è pesato giustamente. E Gesù, vostro figlio beneamato, morto sulla croce per la nostra salvezza, pesa di più del pe ato di upidigia dell’uo o, per il fedelissimo pentito e penitente.]
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Verges ses par misericordiosa de vos se tany quens defenatz de mal e no siats devas nos endenyosa pels fallimentz que fem en general, mas quens cubratz ab lo manto real. De pietat pus quen etz cupiosa; a totz e fa ts d a ol pasta fangosa per quel fallir es de carn humanal. [Vergine ugualmente misericordiosa, aspettiamo da Voi che ci difendiate dal male e non siate verso di noi indignata per gli smarrimenti che abbiamo in generale ma che ci copriate con il mantello reale. Siate molto più benevola di pietà per noi, perché siamo fatti di una cattiva pasta fangosa ed il male è proprio della carne umana.] Rosa flagran de vera benenanca fons de merce jamays no defallen palays d'onor on se fech l'alianca de deu e d'hom per nostre salvamen e fo ver Dieus es hom perfetamen ses defallir en alcuna substanca e segons hom mori senes dubtanca e com ver Dieus levech del monimen. [Rosa profumata della felicità, sorgente di pietà che mai inaridisce, palazzo d’o o e dove si o pie l’allea za f a Dio e l’uo o pe salva i, e fu vero Dio ed insieme perfetto uomo, e senza che manchi nessuna di queste due sue nature, e come uomo è morto, senza dubbio, e come vero Dio è risorto dal sepolcro] Flor de les flor dolca clement et pia l'angel de Dieu vesem tot corrocat e par que Dieus lamandat qu'ens alcia don el es prest ab l'estoch affilat. Donchos placa vos que'l sia comandat qu'estoyg l'estoch e que remes nos sia tot fallimen tro en lo presen dia ens done gaug e patz e sanitat. [Fiore tra i fiori, dolce, clemente e pia, dava ti alla uale s’i hi ò l’a gelo di Dio, a ui Dio o di ò di a di e l’affilata spada. Per la tua volontà essa si allontani da noi,
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possano i nostri peccati essere rimessi e in questo giorno possano esserci date gioia, pace e salute.] Estel de mar qui los perillans guia Els fay venir a bona salvetat, si Jhesu Christ obesir no volia co que per vos li sera supplicat ost atz lils pitz d o l a etzz alletat et totz los santz ab la gran irerarchia de paradis quius faran companya tot quan volretz vos er ben autreyat. [Stella del mare che guida i viaggiatori in pericolo e li fa giungere in porto, se Gesù Cristo non volesse ascoltare quello che, tramite voi, gli sarebbe chiesto, ost ategli la a ella o ui l a ete allattato e tutti i santi e la grande gerarchia del paradiso che vi faranno corteo e tutto ciò che vorrete vi sarà concesso.] ♫♫♫
Ad mortem festinamus è un virelai, strutturato quindi in strofe e ritornello, è in lingua latina, e destinato alla danza. È un inno alla morte, probabilmente ispirato dalla pestilenza del 1347-48 che sconvolse l’intera Europa. Sebbene numerose siano le raffigurazioni pittoriche e le narrazioni di queste danze macabre, questo é l’unico canto a noi giunto completo di notazione musicale: il testo è un invito agli uomini a riconoscere la sovranità della morte affinché smettano di peccare e soprattutto si pentano dei propri peccati in vista del suo inevitabile (e prossimo) sopraggiungere.
[Giacomo Borlone de Buschis: Danza macabra. Oratorio dei Disciplini di San Bernardino. Clusone, Bergamo. 1485]
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Gli studiosi ritengono che il testo riprenda il soggetto di un canto latino più antico “Scribere proposui” strutturandolo secondo i modi propri del virelai, una forma musicale da danza tipicamente duecentesca. Si ritiene si tratti di un contraffactum ovvero che l’anonimo monaco compositore abbia sostituito il testo originale con quello di propria invenzione mantenendo però la musica originaria di ambito popolare.
Ad mortem festinamus (fol. 26v) (danza) [Verso la morte corriamo] Ad mortem festinamus peccare desistamus. Scribere proposui de contemptu mundano ut degentes seculi non mulcentur in vano. Iam est hora surgere a sompno mortis pravo. Vita brevis breviter in brevi finietur mors venit velociter quae neminem veretur. [Verso la morte corriamo, cessiamo di peccare. Mi propongo di scrivere sullo sprezzo del mondo affinché non cedano alla vanità quelli che qui vivono. E’ o a di sveglia i dal nefasto sonno della morte. La vita è breve, la morte arriva in fretta e non teme nessuno.] Omnia mors perimit et nulli miseretur. Ni conversus fueris et sicut puer factus et vitam mutaveris in meliores actus intrare non poteris regnum Dei beatus. Tuba cum sonuerit dies erit extrema et iudex advenerit vocabit sempiterna electos in patria prescitos ad inferna. [La morte annienta tutto e non risparmia nessuno. Se non ti converti e non sarai come un fanciullo. e non cambi la tua vita per diventare migliore, non potrai entrare nel regno di Dio beato. Qua do suo e à la t o a, a ive à l’ulti o gio o ed il giudi e o pa i à e hia e à, pe la vita ete a, gli eletti a d a o el Reg o dei Cieli, gli alt i ell’i fe o.] Quam felices fuerint qui cum Christo regnabunt facie ad faciem sic eum adspectabunt Sanctus Dominus Sabaoth conclamabunt. Et quam tristes fuerint qui eterne peribunt pene non deficient nec propter has obibunt. Heu heu miseri numquam inde exibunt. [Quanto saranno felici quelli che regneranno con il Cristo e contempleranno da vicino il Signore sa tissi o e lo p o la e a o l’Altissi o. E quanto saranno afflitti quelli che patiranno la morte eterna, e non potranno sfuggire al castigo. Ahimè, ahimè, disgraziati, non ne ritorneranno mai.] Cuncti reges seculi et in mundo magnates advertant et clerici omnesque potestates fiant velut parvuli dimitant vanitates. Heu fratres karissimi si digne contemplemus passionem Domini amara et si flemus ut pupillam oculi servabit ne peccemus. [Che tutti i re, i grandi di questo mondo, i clerici ed i potenti, facciano attenzione, che diventino come bambini, che rifiutino le vanità.
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Ahimè, carissimi fratelli, potessimo contemplare la passione del Signore e versare amare lacrime finché la pupilla dei nostri occhi non veda che non pecchiamo più.] Alma Virgo virginum in celis coronata apud tuum filium sis nobis advocata Et post hoc exilium occurens mediata. Vila cadaver eris cur non peccare vereris. Cur intumescere quearis. Ut quid peccuniam quearis. Quid vestes pomposas geris. Ut quid honores quearis. Cur non paenitens confiteris. Contra proximum non laeteris. [Dolce Vergine, coronata nei cieli, sii nostra avvocata presso tuo figlio e dopo il nostro esilio quaggiù, intercedi per noi. Un giorno morirai, perché non te i il pe ato? Pe h vuoi go fia ti d’o goglio? E uali i hezze e hi? Quali ricchi vestiti porti? E quali onori ricerchi? Perché non confessi i tuoi peccati? E non ti rallegri della tua sorte prossima?] 3
Discografia. LLibre Vermell de Montserrat Hespérion XX, dir. Jordi Savall EMI (1979) – Alia Vox (2016) La prima registrazione del Llibre da parte dell’Heperion XX con Jordi Savall risale al 1979: stupore, commozione, estasi, rapimento mistico... e potrei aggiungere un'infinità di altri sostantivi e aggettivi.Una vera pietra di paragone per ogni registrazione di questa meravigliosa raccolta di musica medievale dedicate alla Madonna di Montserrat. Questa del 2016 è ugualmente splendida: l'esecuzione è eccelsa, sapientemente diretta dal sommo Savall che nella sua vasta produzione ha il merito inestimabile di aver fatto rivivere capolavori nascosti o dimenticati dell'arte musicale mediterranea antica e non solo. L’approccio, rispetto alla registrazione del 1979, è però meno intenso, meno popolaresco, quasi accademico (il che molto nuoce alla musica medievale), anche se comunque I musicisti e i cantanti offrono una prestazione di altissimo livello. La registrazione è anch’essa impeccabile: il suono ci giunge puro e limpido come la luce che filtra dalle vetrate di un'antica abbazia, e coinvolge nell'ascolto fino all'ultima nota. Il cofanetto di questa interpretazione comprende sia il cd che il dvd del concerto, nel quale possiamo apprezzare la magnifica architettura gotica della chiesa di Santa Maria
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Le traduzioni in lingua italiana di tutti i brani sono di Giuseppe Ragusa
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del Pi, i dettagli degli strumenti utilizzati, il sempre più sacerdotale Savall, con la consueta sciarpa e impegnato col suo archetto
LLibre Vermell de Montserrat Ensemble Micrologus Discant I musicisti dell’Ensemble Micrologus sono stati tra i primi a contribuire alla riscoperta della musica medievale. Il bagaglio professionale dei componenti, tutti esperti di musica medievale, li spinge ad esplorare, in particolare, la musica sacra dal XII al XIV secolo con un occhio di riguardo alle forme della sacra rappresentazione e del dramma sacro. Il loro approccio al repertorio si indirizza alla lettura filologica degli spartiti ed al recupero delle sonorità del tempo a mezzo della costruzione di strumenti dell'epoca e dello studio delle vocalità del tempo in cui furono composte le opere da loro rappresentate Nel 2002, il Micrologus ha avuto l’opportunità di registrare il LLibre Vermell direttamente, primo gruppo nella storia, nella basilica dell’antico monastero di Montserrat, in Catalogna, producendo una performance eccezionale per timbro musicale e sonorità, un’incisione di riferimento decisamente tra le migliori.
LLibre Vermell de Montserrat Alla Francesca Opus 110 Il repertorio musicale di questo gruppo francese copre il periodo che va della fine del Duecento (con l'arte lirica dei trovatori) fino al Cinquecento (con le frottole di origine italiana4). In questo "Vermel di Llibre", l'Ensemble Alla Francesca ci offre un disco in cui la bellezza del vibrato discreto delle voci rivaleggia con quella degli strumenti antichi. I timbri degli strumenti, in particolare quelli delle cornamuse e dei flauti di Emmanuel
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In campo musicale, la frottola è il genere predominante di canzone popolare italiana nel corso di tutto il XV secolo e degli inizi del XVI secolo. Generalmente una frottola è una composizione per tre o quattro voci (più frequentemente verso la fine del periodo) con la voce dal tono più alto che conteneva la melodia; spesso le voci erano accompagnate da uno strumento musicale.
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Bonnardot, sono ben calibrati senza alcuna tendenza a salire sugli acuti. Inoltre, l'immagine stereofonica è un modello del suo genere.
LLibre Vermell de Montserrat Capella de Ministrers Licanus Dalla sua creazione nel 1987, il gruppo Capella de Ministrers, diretto dal violoncellista Carles Magraner, ha sviluppato un'importante attività di ricerca e musicologia per recuperare il patrimonio musicale ispanico, dal Medioevo al XIX secolo, con rigore storico e sensibilità musicale. In questo disco la Capella de Ministrers dimostra ancora una volta l’eccellenza della sua preparazione musicale e l’estrema sensibilità tecnica,
in
un
repertorio, come
quello
medievale, spesso
sottovalutato. Questa è un’ottima interpretazione di un gruppo che riesce ad esprimere un proprio inconfondibile suono.
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Gli antichi strumenti musicali: Cetra e Cithara Molti pensano che Lira e Cetra siano nomi diversi di uno stesso strumento: invero, pur essendo simili di forma, presentano una storia ed una struttura differenti. La storia della cetra si perde nei tempi antichi, sin nella Bibbia: venne ampiamente usata dal re Davide per i suoi salmi, ed in molti di essi appare il nome di questo strumento musicale.
[Il re Davide rappresentato mentre suona la cetra, da un manoscritto della Bibbia del XV secolo]
Fu uno degli strumenti fondamentali del mondo classico, suonato a pizzico o con plettro. Nell'antica Grecia la cetra ( θάρα, kithára) venne utilizzata generalmente per accompagnare i racconti delle leggende degli dei e degli eroi. La cetra
era ritenuta sacra al culto di Apollo, dio della bellezza, e simboleggiava una diversa idea della musica, molto più razionale di quella orgiastica associata al dio Diòniso.
[Apollo citaredo. Museo nazionale. Roma]
Vi è un mito che mostra la superiorità che acquistò, per i greci, la poesia accompagnata dalla cetra. Si tratta del mito di Atena, dea della sapienza, la quale gettò via l'aulòs perché la costringeva a contorcere il viso per suonare, e scelse la cetra. La cetra veniva utilizzata molto spesso sia negli atenei che nelle corti reali, ed era suonata da musicisti professionisti, chiamati citaredi. Sappiamo anche che la cetra era utilizzata anche dai cretesi, per dare la cadenza dei passi ai soldati mentre entravano in battaglia. Dopo la Grecia, il suo uso prese corpo anche a Roma. Di grandi dimensioni, tanto da superare in alcuni casi la metà dell'altezza di un uomo, la cetra era generalmente di forma trapezoidale, talvolta anche o profilo arrotondato, in legno.
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La cassa armonica si continuava direttamente nei due bracci laterali (vuoti all'interno), che erano tagliati nello stesso pezzo di legno. La parte più alta, a prisma, era attraversata dal giogo ed era collegata da uno specie di spirale alla parte mediana, nella quale erano due "anse", cioè due montanti ricurvi di ineguale misura, dei quali non si conosce l’uso. Dal giogo alla base della cassa erano tese le cinque corde, il cui materiale era il budello di montone. Le corde, come nella lira, avevano uguale lunghezza, cosicché la differenza di suono era dato dal diverso spessore che le caratterizzava e dalla loro tensione: la corda più spessa dava pertanto il suono più grave, mentre la tensione, come nella lira, era regolata dai piroli sistemati sul giogo. Il giogo poteva essere fatto ruotare mediante due chiavi all’estremità, che regolavano anch’esse la tensione delle corde. [Paul Jourdy: Homère chantant ses vers Parigi, Scuola nazionale delle Belle Arti. 1834]
Poiché lo strumento aveva un peso notevole, il suonatore utilizzava una cintura in cuoio, talvolta riccamente decorata: questa veniva fissata da un'estremità ad un perno inserito davanti alla cassa di risonanza, mentre il suonatore infilava il polso sinistro nell'altra estremità, il che consentiva di mantenere la cetra in posizione verticale.
Nel corso dei secoli la struttura della cetra conobbe sostanziali modifiche. In epoca rinascimentale si intendeva per cetra (o più correttamente cithara) uno strumento musicale cordofono simile morfologicamente al liuto. La cetra rinascimentale era formata da una cassa armonica a fondo piatto e forma di pera, al centro un'apertura traforata detta rosa, e da un manico lungo, all’estremità del quale era presente la tastiera con delle traversine con le divisioni dei tasti. Le dimensioni erano variabili e così pure il numero delle corde, metalliche, generalmente doppie, che andavano da 4 a 12: potevano essere pizzicate sia con le dita che con un plettro. L'accordatura delle dieci corde permette di suonare accordi in modo semplice. La musica destinata alla cetra era intavolata in maniera affine a quella per liuto. La cetra era impiegata come strumento solista oppure in coppia con il liuto o in complessi strumentali di vario tipo. Ebbe grande successo e per questo motivo ne vennero prodotti di vari tipi che assunsero svariati nomi a seconda della loro tipologia: pandora, orpharion, arcicetra e penorcon. La cetra rinascimentale fu utilizzata soprattutto dal XVI fino al XVIII secolo.
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Del XIX secolo è, infine, la Cetra da tavolo, o Zither, usata specialmente nei paesi tedeschi meridionali. Si tratta di uno strumento piatto, dal profilo variamente disegnato, formato da una cassa armonica piatta in cui viene creata un'apertura ellittica o circolare (rosone) e una tastiera. E’ costituito da una cassa armonica piatta, con un lato diritto e l’altro ricurvo. Nel lato diritto si tendono su di una tastiera 5 corde metalliche che sono pizzicate dal pollice (munito di un uncino) per la melodia. Subito dopo sono tese, senza tastiera, da 27 a 40 e più corde che sono pizzicate dall’indice, dal medio e dall’anulare, per l’accompagnamento. Viene appoggiato orizzontalmente su una superficie o sulle ginocchia del suonatore.
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Melomania: la pagina della Lirica
Amilcare Ponchielli La Gioconda
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Genesi dell'opera Nel 1874, dopo il successo alla Scala di Milano delle opere I Lituani e I promessi sposi, che consacrarono, a quel tempo, Ponchielli come il più grande compositore italiano dopo Verdi, l’editore Giulio Ricordi commissionò al musicista una nuova opera ma con l’imposizione di avvalersi di un nuovo librettista, Arrigo Boito [nella foto], un protagonista della stagione letteraria della scapigliatura. Il soggetto proposto, il dramma di Victor Hugo Angélo, tyran de Padue. lasciò in un primo tempo perplesso il compositore, che temeva il raffronto con Il giuramento di Saverio Mercadante, una fortunata riduzione operistica del medesimo soggetto che aveva debuttato alla Scala l'11 maggio 1837. Boito decise di adattare il soggetto con estrema libertà, introducendo la figura di Barnaba e dando nuova fisionomia a tutti gli altri personaggi. Nel novembre 1874 i primi due atti del libretto erano pronti e Ponchielli si apprestò ad iniziare il lavoro di composizione, pur tra notevoli perplessità, che lo accompagneranno fino al debutto dell'opera. Nonostante l'ammirazione incondizionata per Boito, Ponchielli non era d’accordo con il crudo realismo con il quale il librettista interpretava la sua drammaturgia, ma preferiva – sul modello donizettiano - un maggiore abbandono lirico. La collaborazione tra Ponchielli e Boito fu molto travagliata, con il librettista che non volle cedere su nessuna delle osservazioni mosse dal compositore. Boito, esasperato da queste incomprensioni, volle firmarsi non conil suo nome, ma con lo pseudonimo di Tobia Gorrio. Malgrado questi contrasti, l’opera esordì l’8 Aprile 1876 a Milano, riportando un lusinghiero successo, grazie anche ad un ottimo cast, il grande soprano Maddalena Mariani-Masi5 (dedicataria dell’opera), il tenore Giuliano Gayarre e il basso Ormondo Maini; sul podio Franco Faccio.
[Amilcare Ponchielli seduto tra gli interpreti della prima rappresentazione de La Gioconda - Teatro alla Scala, Milano. 1876]
Marianna-Masi e tusias ò pu li o e iti a, pa te ipa do a tutte le fasi he i uatt o a i, po ta o o l’ope a ad assumere la sua veste definitiva; ed anche dopo monopolizzò il ruolo, finché non intervenne un rapido declino, causato da un repertorio oneroso e alla lunga sfibrante
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Lo spettacolo fu però giudicato troppo lungo (l'ultimo atto fu eseguito intorno all'una di notte), e il pubblico, stanco, applaudì i primi due atti più degli ultimi due, destinati nel tempo a diventare quelli di maggior successo. Le chiamate degli artisti al proscenio furono 27. L'opera, che a causa del ritardo nella consegna della partitura chiuse la stagione lirica della Scala, fu rappresentata solo per quattro serate; a maggio Ponchielli era di nuovo al lavoro per modificare le parti che meno l'avevano convinto e per ridurne la durata complessiva. La nuova versione venne rappresentata nel 1876 al Teatro Rossini di Venezia e nel 1877 a Roma. Non ancora soddisfatto di questa secondo rifacimento, Ponchielli con l’aiuto del librettista Angelo Zanardini - scrisse una terza (ed ultima) versione, rappresentata nel 1879 a Genova e il 13 Febbraio 1880 alla Scala di Milano, affermatasi una volta per tutte come la versione definitiva. Ponchielli morì, appena cinquantunenne, nel 1886, in seguito ad una polmonite, e La Gioconda rimase il suo unico capolavoro, quello con cui finisce per coincidere la figura stessa del compositore.
Caratteri drammaturgici e musicali Con la sua drammaturgia sontuosa, spettacolare, ricca di danze effetti e di colpi di scena, La Gioconda è un tipico esempio di grand-opèra italiano, che mutua dall’originario francese i tratti principali: la grande spettacolarità, l’ambientazione storica, il libretto complesso e articolato, la suddivisione in 4-5 atti, l’inserimento di ballabili, la presenza costante di pezzi chiusi e di passaggi virtuosistici. Al centro dell’opera si staglia la figura di Gioconda, su cui Ponchielli riversa una scrittura vocale di grande ricchezza ma anche di grande difficoltà (così come molte eroine verdiane); la più bella melodia dell’opera è però affidata ad un altro personaggio femminile, quello della Cieca, madre della protagonista, a cui tocca quel Tema del rosario che compare in molti passaggi dell’opera. Anche il libretto è una componente fondamentale di quest’opera. Grazie alla versificazione operata da Boito l’opera propone una forte caratterizzazione a tratti violenta e morbosa, una lotta fra il bene e il male, sostenuta, ognuno per la propria storia personale, dai singoli personaggi. L’effetto scenografico rappresentato da una Venezia seicentesca è parimenti di grande efficacia: il mare, i campielli e le calli, i canali della città, le stanze dei palazzi incorniciano splendidamente le varie vicende, e anche alcuni personaggi piuttosto poveri dal punto di vista di approfondimento psicologico, come la spia Barnaba e lo stesso Enzo sono caratterizzati grazie al turbinio scenico dell’ambientazione che li avvolge. Il merito del successo dell’opera va dunque diviso tra il compositore e il poeta, nonostante la non facile collaborazione da cui l'opera aveva preso vita.
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[Hayez, Francesco (1791-1882) Accusa segreta (1847-8) - Musei Civici di Pavia. Quadreria dell'Ottocento]
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Guida all’ascolto Preludio Il breve Preludio si apre su una figura dei violoncelli, a cui ne segue una dei violini, che esita in un tema lirico di grande cantabilità, affidata prima al clarinetto e va via ripreso e sviluppato dall’intera orchestra: si tratta del tema del rosario (detto anche Canto della cieca), una delle melodie più toccanti e spontanee dell’intera opera. Ad esso si sovrappone a tratti un tema accidentato, che si accompagnerà d’ora in avanti al personaggio di Barnaba (come il leit-motive nelle opere di Wagner). L’orchestra già in questo Preludio presenta la sua marcata funzione di protagonista dell’opera, pronta a creare, rafforzare e amplificare gli avvenimenti, gli stati d’animo, le emozioni.
ATTO I - La bocca dei leoni. Scena I. L’azione si svolge a Venezia nel XVII secolo. Il sipario si alza su un primo atto che sarà incentrato sui movimenti gioiosi e danzanti della folla veneziana, accompagnati da note orchestrali coloratissime e con la preminenza degli interventi corali. La scena mostra il cortile del Palazzo Ducale di Venezia parato a festa; nel fondo la Scala dei Giganti e il Portico della Carta con il portone che conduce nell'interno della Chiesa di San Marco. Su un lato del cortile una bocca di leone riporta incisa sul marmo la scritta: «Denontie secrete per via d'inquisizione contra cada una persona con l'impunita secreteza et benefitii giusto alle leggi» (“Denunce segrete all’Inquisizione contro chi occulterà donazioni o benefici, contrari alle leggi”). Nelle vicinanze si trova lo scrittoio di uno scrivano.
[Scenografia I atto - Deutsche Oper di Berlino, 2014]
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In uno splendido pomeriggio di primavera, popolani e maschere danzano festosi. In un angolo Barnaba, con una chitarra ad armacollo, addossato ad una colonna, osserva la folla festante. Tra il volteggiare prima del suono dell’orchestra e poi delle voci del coro, il cantastorie Barnaba esorta la folla, eccitata dal clima di festa, ad affrettarsi per assistere alla regata delle gondole. La folla esce, e la musica si acqueta.
Scena II. Rimasto solo, Barnaba si presenta accompagnato dagli archi: è una maschera sotto cui si nasconde una spia al servizio del Consiglio dei Dieci e dell’Inquisizione. La sua voce si addolcisce al pensiero della donna che ama, ma deve interrompersi per l’ingresso di due figure femminili, Gioconda e sua madre che è cieca.
Scena III. La madre intona una dolce cantilena che si dispiega lentamente sul canto degli archi e dei legni: se la figlia si guadagna da vivere come cantante, ella è tutta presa dal fervore religioso e da una serena rassegnazione.
CIECA. Figlia he eggi il t e ulo pie he all a el già piega, beata è questa tenebra che alla tua man mi lega. Figlia! Tu canti agli uomini le tue canzoni, io canto agli angeli le mie orazioni, e edi e do l o a e il desti , e sorridendo sul mio cammin. GIOCONDA. Vien! per securo tramite da me tu sei guidata. Vien! ricomincia il placido corso la tua giornata. Tu canti agli angeli le tue orazioni, io canto agli uomini le mie canzoni e edi e do l o a e il desti e sorridendo sul mio cammin. Mentre le due donne cantano, si intreccia la voce di Barnaba, che le osserva di nascosto, pieno di desiderio per Gioconda.
[Maria Callas nel ruolo di Gioconda. Teatro La Scala di Milano, 1952]
Dopo aver fatto accomodare la madre sulla scalinata della Chiesa, Gioconda fa per allontanarsi in cerca di Enzo, il principe genovese del quale è innamorata, ma Barnaba le si para davanti bruscamente e le rinnova le sue profferte amorose, come già fece un tempo senza essere ricambiato. Gioconda lo respinge irritata e, dopo un breve alterco riesce a sfuggirgli. Barnaba si ritira innervosito dal rifiuto, e di
nuovo
risuona
la
breve
figurazione
degli
archi
che
contraddistingue la sua figura. La cieca, sentendo le urla della figlia, grida, ma non ricevendo alcuna risposta, ritorna a sedersi sui gradini, imprecando contro la sua sorte, e affidandosi alla fede inizia a recitare il rosario.
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Barnaba ora concepisce il proposito di servirsi della cieca per piegarne la figlia al suo volere, ma il suo disegno è interrotto dalle voci gioiose dei veneziani che accompagnano il vincitore della regata.
Scena IV. Dilaga nuovamente la gioia del popolo che accompagna con canti e danze il vincitore della regata che esibisce il segno del trionfo, un palio verde. E’ una pagina musicale corale di forte effetto pittorico. Barnaba avvicina il gondoliere Zùane, che è di pessimo umore per essere stato battuto alla regata, e gli suggerisce che la causa della sua sconfitta è stato il malocchio gettato dalla cieca sulla sua imbarcazione: lui stesso l’ha vista compiere il maleficio. Insinua poi che la Cieca non è tale, anzi vede benissimo, e che sia una strega portatrice di sfortuna e malefici. La bugia percorre i marinai e il popolo, che credono che questa sia la verità: tutti sono adesso minacciosi ed inferociti attorniano la vecchia con l’intenzione di linciarla, ed, in un crescendo di voci e dell’orchestra, invocano il rogo per la presunta strega.
[Teatro municipale di Piacenza. Marzo 2018]
A quel punto, in aiuto della madre, rientra in scena Gioconda con accanto Enzo (vestito da marinaio dalmata), il quale, snudando la spada e al grido di “assassini!” ferma con coraggio la folla protesa contro la vecchia indifesa. La folla, dapprima sorpresa da questo atto di Enzo, si riprende quasi subito (con un fugato del coro) e pretende rumorosamente la morte della Cieca. La massa della folla si incrocia con la virile difesa di Enzo e l’angoscia disperata di Gioconda e della madre, con una conclusiva ascesa di tutte le voci all’acuto.
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Scena V. Ad interrompere il tragico momento, dall’alto della scala del Palazzo Ducale scende Laura Adorno, moglie di Alvise Badoero, uno dei capi dell’Inquisizione. Indossa una maschera di velluto nero. Accanto a lei Alvise, altero e solenne. La sua voce autoritaria denota il suo potere spietato, capace di riportare all’istante il popolo all’ordine e al silenzio. Alvise cerca di conoscere i motivi della sommossa, e mentre da un lato il coro chiede di punire la Cieca, dall’altro Laura implora la grazia. Alvise sembra credere alle menzogne di Barnaba (che è una spia al suo servizio) e ordina che la donna sia processata. Interviene Gioconda che, gettandosi ai piedi di Alvise, chiede pietà professando l’innocenza della madre. La vocalità di Gioconda spazia su ampie arcate vocali, dai toni gravi a improvvise ascese acute (in ciò si prefigura non più il modello verdiano quanto quello verista).
[Teatro dell Ope a di ‘o a,
]
GIOCONDA. Pietà... ch'io parli attendete... ora infrango Il gel che m'impietrava... e sgorga l'onda del cor... Costei della ia i fa zia io da l a gelo fu... Sempre ho sorriso... or piango. Mi chiaman la Gioconda. Viviam cantando ed io canto a chi vuol le mie liete canzoni, ed essa canta a Dio le sue sante orazioni... Anche Enzo interviene alla testa dei suoi marinai, ma la situazione viene risolta da Laura che scorge il rosario in mano alla Cieca e lo addita a tutti come prova risolutiva che la vecchia non possa essere una strega. A quel punto Alvise cede e, malgrado Barnaba insista ad aizzare la folla, ordina che la Cieca sia liberata. Introdotta dal suono dell’arpa e accompagnata dal corno inglese e dal pizzicato degli archi, la Cieca inizia una dolce cantilena di ringraziamento per Laura. La cantilena si muta poi in una preghiera con l’offerta in dono proprio di quel rosario come augurio di fortuna e segno di benedizione. Il tema del rosario verrà ripreso più volte, anche negli atti successivi. La Cieca, nel donare il suo rosario a Laura, segna il destino di Gioconda, costretta moralmente da quel momento ad aiutare la rivale.
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CIECA. Voce di donna o d'angelo le mie catene ha sciolto; mi vietan le mie tenebre di quella santa il volto. Pure da me non partasi senza un pietoso don! (Si toglie il rosario dalla cintola) A te questo rosario che le preghiere aduna. Io te lo porgo, accettalo, ti porterà fortuna; sulla tua testa vigili la mia benedizion. Sul finire della preghiera, alla voce della Cieca si unisce quella del coro, riconoscendo tutti i segni della protezione accordata dal cielo alla donna. Gli unici a non partecipare sono Alvise e Barnaba, che, a parte, parlano tra loro di una missione della spia sulle tracce di un importante personaggio. Nel mentre Laura si avvicina alla Cieca e prende in mano il rosario; la Cieca stende le mani come per benedire, e Laura, presa dalla commozione, fa per inginocchiarsi.
[Teatro municipale di Piacenza. Marzo 2018]
Alvise vede la scena, non accetta questo atto di umiltà della moglie, le afferra il braccio e la costringe a rialzarsi, quindi dona a Gioconda una borsa con dell’oro. Gioconda ringrazia riconoscente e chiede a Laura chi ella sia per poterla ricordare nelle sue preghiere. Laura rivela il suo nome, provocando il turbamento di Enzo che così ha riconosciuto la donna di cui è innamorato. Gioconda non si accorge dei sentimenti di Enzo e prorompe in un’ampia frase lirica di amore per l’uomo, sostenuta dall’arpa e dagli archi, con una vocalità sugli acuti. La scena si conclude con il tema della Cieca proposto ed amplificato dall’orchestra. Tutti si dirigono quindi in Chiesa, solo Enzo giunto alla porta del tempio si ferma assorto nei suoi pensieri, mentre Barnaba lo fissa.
Scena VI. Barnaba rivela ad Enzo di conoscere la sua vera identità: non è un marinaio dalmata ma un nobile genovese, il principe di Santa Flora, bandito dalla Repubblica veneta, tornato a Venezia sotto mentite spoglie per ritrovare il suo antico amore, Laura, prima che la donna fosse costretta a sposare Alvise. Con
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tono misterioso, sottolineato dai violini che accompagnano il suo canto, Barnaba mostra di conoscere tutto di Enzo, il quale dapprima nega, dicendosi innamorato di Gioconda, ma alla fine cede ai sentimenti e si abbandona al ritrovato amore per Laura.
ENZO. O grido di quest'anima, scoppia dal gonfio core! Ho ritrovato l'angelo del mio celeste amore.
Barnaba rivela a Enzo di essere al servizio del Consiglio dei Dieci e di non averlo denunciato perché vuol stringere con lui un accordo: egli vuole spezzare il cuore a Gioconda facendo fuggire il suo amato Enzo con Laura, perciò quella notte stessa porterà la sposa di Alvise sulla sua nave. Enzo è combattuto ma alla fine cede, accetta e fugge via. I due si scambiano rabbiose e reciproche maledizioni.
Scena VII. Barnaba è rimasto solo e si abbandona ai suoi biechi pensieri: gli archi accompagnano le sue frasi sprezzanti disegnando il tema che sempre accompagna l’uomo. Chiama quindi Isépo, uno scrivano a lui fedele, e gli fa scrivere una denuncia anonima al Capo dell’Inquisizione in cui svela il piano di fuga notturna di Laura ed Enzo. Gioconda, apparsa assieme alla madre, ascolta, non vista, le parole di Barnaba. E’ sconvolta e si rifugia in Chiesa.
Scena VIII. Barnaba, da solo, si abbandona ai suoi cupi pensieri. Gli archi vengono bruscamente interrotti dagli ottoni, mentre l’orchestra si tinge di cupo. Egli descrive l’apparente gloria e bellezza del Palazzo Ducale, simbolo del potere di Venezia, che però dentro nasconde gli orrori del delitto e dell’oppressione. La sua vocalità spazia dai toni acuti in fortissimo ai toni più gravi. Getta infine la delazione nella bocca del leone, la feritoia in cui si inseriscono le denunce anonime.
BARNABA O monumento! Regia e bolgia dogale! Atro portento! Gloria di questa e delle età future; ergi fra due torture il porfido cruento. Tua base i pozzi, tuo fastigio i piombi, sulla tua fronte il volo dei palombi, i marmi e l'ôr. Gioia tu alterni e orror con vece occulta, quivi un popolo esulta, quivi un popolo muor. Là il Doge, un muto scheletro coll'acìdaro in testa; sovr'esso il Gran Consiglio, la Signoria funesta; sovra la Signoria, più possente di tutti, un re: la spia. O monumento! Apri le tue latèbre, (vicino alla bocca del leone) spalanca la tua fauce di tenèbre, s'anco il sangue giungesse a soffocarla! Io son l'orecchio e tu la bocca: parla. Scena IX. Entra nel cortile un corteo di maschere, seguito dal popolo festante che si scatena in una breve furlana, una brillante danza seicentesca di origine friulana, tipica dei giorni di carnevale o delle feste del raccolto; all’orchestra si aggiunge una banda, che concorre - con una vivace pulsazione ritmica - alla gaiezza rustica della danza.
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POPOLO. Viva il doge e la repubblica! La baldoria e il carnevale! Baccanale! Baccanale! Gaia turba popolana, su! correte al torneamento! su! danzate la furlana! Chiome al sol! zendàdi al vento. Fate un chiasso da demoni co' le palme e coi talloni! Tuoni il portico ducale sovra il pazzo baccanale! La danza si interrompe per lasciare posto ad un lontano coro di preghiera, proveniente dall’interno della Chiesa e accompagnato dall’organo; si ode la voce di un uomo. E’ l’ora del vespro. Sul coro si staglia la voce angosciata di Gioconda, con il cuore gonfio di pena per il tradimento del suo amato. La sua voce spazia dai toni più acuti a quelli più gravi, di intensa forza drammatica. Al suo canto dolente si unisce quello della vecchia madre, che tenta di consolarla. Gioconda prende la mano della madre e la porta al cuore, glia archi riecheggiano ed amplificano dolcemente il tema del dolore di Gioconda, conferendo ulteriore enfasi e drammaticità alla conclusione dell’atto.
ATTO II – Il rosario. Scena I. E’ notte, rapide figure dei legni sugli accordi dei violoncelli, con gli strumenti che dialogano a varie altezze sul pentagramma, disegnano il paesaggio notturno e marino. Ponchielli restituisce attraverso l’orchestra la quiete notturna, il dondolare delle barche all’ormeggio e lo sciabordio delle acque. Sullo sfondo un brigantino il cui nome è Hecate (la divinità greca della notte). Il cielo è stellato, con la luna che tramonta dietro una nube. Sul davanti una riva deserta d’isola disabitata nella laguna di Fusina. Alcune lanterne sul ponte, vi è anche un altarino della Vergine con una lampada rossa accesa. All’alzarsi della tela alcuni marinai sono seduti sulla tolda, altri in piedi, aggrappati, molti mozzi sono arrampicati, o seduti, o sospesi alle sarte degli alberi e stanno cantando una marinaresca. Il coro si arresta sul canto di Barnaba, il quale preannuncia il suo arrivo lanciando, come fosse un richiamo, un’allegra barcarola.
[Teatro municipale di Piacenza. Marzo 2018]
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Scena II. L’uomo entra in scena camuffato da pescatore, dialoga bonariamente con i marinai del brigantino di Enzo e ne guadagna la fiducia. In tal modo capisce da spia le informazioni che gli servono; ordina quindi ad Isèpo di preparare quanto necessario per contrastare le forze dell’avversario. Barnaba prosegue quindi il suo canto sul leggero accompagnamento degli archi, nascondendo così il suo malvagio progetto.
BARNABA. Pescator, affonda l'esca, a te l'onda sia fedel, lieta sera e buona pesca ti promette il mare e il ciel. Va', tranquilla cantilena, per l'azzurra immensità; questa notte una sirena nella rete cascherà. […] Pescator, propizio è il vento, tenta il mare, o pescator. Là, fra l'alighe e l'argento, guizzan pinne d'ambra e d'ôr. Brilla Venere serena in un ciel di voluttà. Questa notte una sirena nella rete cascherà. Scena III. Barnaba esce. Accolto con gioia dal coro dei marinai, arriva baldanzoso Enzo che dà le istruzioni perché la nave possa salpare. Riprendono brevemente i cori dei marinai, che poi tacciono e scendono sotto il ponte. Scena IV. Enzo è rimasto solo. Una breve introduzione orchestrale dipinge l’immobile paesaggio notturno ed arresta il tempo. Enzo guarda il mare dimenticando la sua condizione di ricercato ed il pericoloso rapimento che ha accettato di compiere.
ENZO. Cielo e mar! L'etereo velo splende come un santo altare. L'angiol mio verrà dal cielo?! L'angiol mio verrà dal mare?! Qui l'attendo, ardente spira oggi il vento dell'amor. Quel mortal che vi sospiravi conquide, o sogni d'or! Cielo e mar! Per l'aura fonda non appar né suol, né monte. L'orizzonte bacia l'onda! l'onda bacia l'orizzonte! Qui nell'ombra, ov'io mi giacio coll'anelito del cor, vieni, o donna, vieni al bacio della vita incantator... L’orchestra fa udire un rapido battere di remi: giunge la barca che conduce Laura, e con Barnaba che ancora finge di assecondare la fuga degli amanti. Enzo accoglie l’amata con l’entusiasmo passionale dell’amante e la tranquillizza sulle intenzioni del bieco Barnaba. Scena V. Tra i due si apre un lungo ed articolato canto d’amore.
ENZO. Deh! non turbare con ree paure di questo istante le ebbrezze pure; d'amor soltanto con me ragiona, è il cielo, o cara, che schiudi a me! LAURA. Ah! del tuo bacio nel dolce incanto celeste gioia diventa il pianto, a umano strazio Dio non perdona se perdonato amor non è. ENZO. Ma dimmi come, angelo mio, mi ravvisasti? LAURA. Nel marinar, Enzo conobbi. ENZO. Al pari anch'io te al primo suono della parola... LAURA. Enzo adorato! Ma il tempo vola. All'erta! All'erta!
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ENZO. Deh! non tremar! Siamo in un'isola tutta deserta, tra mare e cielo, tra cielo e mar! Vedrem pur ora tramontar la luna. Quando sarà corcata, all'aura bruna noi salperem; cogli occhi al firmamento, coi baci in fronte e colle vele al vento! LAURA e ENZO. Laggiù nelle nebbie remote, laggiù nelle tenebre ignote, sta il segno del nostro cammin. Nell'onde, nell'ombre, nei venti, fidenti, ridenti, fuggenti, gittiamo la vita e il destin. La luna discende, discende ricinta di roride bende, siccome una sposa all'altar. E asconde la spenta parvenza nell'onde; con lenta cadenza la luna è discesa nel mar! Scena VI. Rimasta sola mentre Enzo prepara la partenza, Laura si raccoglie in preghiera (questo sentimento religioso conferma la qualità positiva di Laura, non più adultera ma solo donna innamorata ed indifesa).
LAURA. Stella del marinar! Vergine santa, tu mi difendi in quest'ora suprema, tu vedi quanta passione e quanta fede mi trasse a tale audacia estrema! Sotto il tuo velo che i prostrati ammanta ricovera costei che prega e trema. Scenda per questa fervida orazion sul capo mio, madonna del perdon, una benedizion... Laura non ha ancora terminato la preghiera che in tolda appare Gioconda, furiosa di gelosia e desiderosa di vendetta. Indossa una maschera per non farsi scoprire.
Scena VII.
GIOCONDA. Chi son tu chiami? Sono un'ombra che t'aspetta! Il mio nome è la vendetta. Amo l'uomo che tu ami! Le due donne rivendicano l’unicità del loro amore per Enzo.
LAURA. L'amo come il fulgor del creato! come l'aura che avviva il respiro! come il sogno celeste e beato da cui venne il mio primo sospir. GIOCONDA. Ed io l'amo siccome il leone ama il sangue, ed il turbine il vole, la folgor le vette, e l'alcione le voragini, e l'aquila il sol! LAURA. Pe 'l suo bacio soave disfido della pallida morte l'orror! GIOCONDA Pe 'l suo bacio soave t'uccido, son più forte, più forte è il mio amor! In quest’appassionato confronto è la voce di Gioconda a risaltare, con passaggi vocali di estrema difficoltà, con impressionanti salti sul tono acuto delle note. L’atmosfera è tesa e Gioconda estrae un pugnale, determinata a trafiggere la rivale, ma si arresta di colpo vedendo la barca degli uomini di Alvise Badoero che vengono a sventare al fuga. Li guida Barnaba, la cui figura è sempre annunciata dal tema che lo distingue suonato dagli archi in grave. Laura invoca l’aiuto della Vergine, e lo fa stringendo in mano il rosario. Gioconda riconosce il dono che sua madre aveva fatto alla nobildonna che l’aveva salvata, capisce che quella donna è Laura (nel mentre l’orchestra intona il tema del rosario) e di doverla salvare. Svela quindi alla donna il suo nome, si leva la maschera dal volto per coprire quello di Laura, chiama i suoi barcaioli e fa salire la donna sulla barca che sta attendendo lei. Tutto si consuma in pochi istanti.
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Scena VIII. Laura riesce a fuggire, mentre Barnaba tenta invano di raggiungerla nel buio. Rimasta sola, Gioconda si abbandona alla disperazione (ritorna il tema del rosario) e, con un acuto liberatorio, prorompe in una invocazione alla madre, per la quale ha sacrificato il suo sogno d’amore.
Scena IX. Enzo torna sul ponte ma, al posto dell’amata Laura, trova Gioconda, rabbiosa e amara. La donna cerca di fargli credere che Laura sia fuggita in preda al rimorso dell’adulterio, al contrario di lei che rimanendo ha dato prova di un amore più grande. Enzo non le crede e sta per lanciarsi verso la riva per raggiungere l'amata quando all’improvviso si leva la voce del coro: stanno arrivando le navi di Venezia per catturare l’Hecate ed il suo equipaggio. Gioconda gli svela il tradimento di Barnaba e lo invita a fuggire. Sui colpi di cannone i marinai si danno alla fuga mentre Enzo, in un finale concitatissimo di sapore verdiano, dà fuoco al suo vascello e si slancia in mare pronunciando il nome di Laura, per l’estrema disperazione di Gioconda. La nave affonda.
ATTO III – Ca’ d’Oro Scena I. Una stanza della Cà d’Oro. Dopo un breve e fosco preludio orchestrale, compare Alvise Badoero che medita la vendetta sulla moglie infedele che decide di uccidere con il veleno. Alternando una vocalità morbida con accenti torvi, con cupi interventi di ottoni e legni, Alvise svela il suo piano atroce e raffinato: gli spasimi agonici della moglie saranno nascosti dalla baraonda della festa che si terrà in palazzo.
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Scena II. Entra Laura, già vestita per la festa; Alvise prima l’accoglie e dialoga con lei con gentilezza (che l’orchestra sottolinea con una leggerezza quasi settecentesca), poi bruscamente le rivela di aver scoperto il suo tradimento e che per questo dovrà morire. La getta quindi a terra violentemente. Laura implora il perdono, ma Alvise la trascina in una stanza dove ha preparato un macabro catafalco. A interrompere il tragico momento si leva un’allegra canzone (una barcarola) cantata fuori scena da un coro a cappella quattro voci. Alvise consegna torvo alla moglie una fiala di veleno e le ordina di berlo prima che finisca la canzone. Gioconda, in disparte, assiste alla drammatica scena.
Scena III. Uscito Alvise, Gioconda rivela la sua presenza, incita l’atterrita Laura a bere un potente sonnifero in luogo del veleno, come unica possibilità di salvezza, quindi travasa il veleno nella fiala del sonnifero e lascia l’ampolla vuota sul tavolo. Quindi si nasconde.
[Teatro comunale Pavarotti di Modena, marzo 2019]
Sullo sfondo il coro continua la sua canzone.
Scena IV. Mentre la canzone sta scemando in pianissimo, Alvise rientra, vede l’ampolla del veleno vuota e crede la moglie morta, non accorgendosi che è solo profondamente addormentata.
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Scena V. Alvise è uscito, e Gioconda ricompare dal suo nascondiglio. La donna ricorda a se stessa che l’atto da lei compiuto è il generoso ringraziamento per la donna che ha salvato sua madre: le renderà anche la felicità di potersi ricongiungere a Enzo.
GIOCONDA. O madre mia, nell'isola fatale frenai per te la sanguinaria brama di reietta rival. Or più tremendo è il sacrifizio mio... o madre mia, io la salvo per lui, per lui che l'ama! L’orchestra accompagna questo drammatico sfogo dapprima con il clarinetto che intona il tema del dolore di Gioconda, e prima di spegnersi fa udire ancora il tema del rosario, legato alla Cieca.
Scena VI. In un cambio drastico (e macabro, caratteristico della poesia scapigliata), la scena si apre in una suntuosissima sala, attigua alla cella funeraria, splendidamente parata a festa. Entrano gli invitati – cavalieri, dame e maschere – accolti con viva ospitalità e ricercata cordialità da Alvise, mentre l’orchestra sottolinea questo gioioso momento disegnando arabeschi che creano un clima di galanteria settecentesca. Gli invitati ringraziano in coro e ad essi fa eco Alvise che dà il via allo spettacolo di danza. Inizia la celeberrima Danza delle ore, uno degli ultimi brani ad essere inseriti nella partitura e mai ritoccato durante i vari rifacimenti dell’opera.
[Chiara Orsini: La danza delle ore]
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Il librettista Arrigo Boito immaginò dodici ballerine che, danzando in cerchio, rappresentassero le dodici ore, e due ballerini che, danzando nel mezzo, raffigurassero le lancette. La funzione di questa danza è quella di creare un’ampia parentesi tra l’azione drammatica precedente e quella seguente, creando un clima irreale, di brillante e leggera gaiezza. Dopo un'introduzione in sol maggiore, con interventi del coro di dame e cavalieri (omessi nella versione sinfonica), assistiamo in sequenza alle danze delle ore dell'aurora, delle ore del giorno, delle ore della sera e delle ore della notte.
[Letizia Giuliani e Angel Corella. Coreografia di Gheorghe Iancu. Gran Teatre de Liceu - Barcellona. 2013]
L'episodio dedicato alle ore dell'aurora funge da estesa introduzione a quello dedicato alle ore del giorno, di cui anticipa l'inciso tematico di quattro note. Il punto di raccordo tra i due episodi, l'istante della nascita
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del giorno, coincide con l'intervento in fortissimo del coro («Prodigio! incanto!») cui segue un lento passaggio cromatico. Dopo il breve episodio dedicato alle ore della sera, basato su figurazioni in staccato, una melodia legata ed espressiva affidata alla voce brunita dei violoncelli introduce le ore della notte. Una nuova patetica melodia si distende infine in un'ampia frase cantabile. Un effetto di dissolvenza sonora prepara l'attacco della coda conclusiva: un efficace galop ricco di brio e leggerezza irresistibili.
Scena VII. Alla fine dello spettacolo di danza, irrompe Barnaba trascinando la Cieca, introdottasi nel palazzo insieme alla figlia. La donna afferma di essere lì a pregare per chi muore, e le sue parole vengono accolte con sbigottimento. Si odono i lenti rintocchi della campana degli agonizzanti. Enzo, reso irriconoscibile da una maschera, si avvicina preoccupato a Barnaba e gli chiede chi stia morendo. Alla notizia che si tratta di Laura, Enzo si toglie la maschera e rivela ad Alvise la sua vera identità.
Il tuo proscritto io sono, Enzo Grimaldo, prence di Santafior! Patria ed amore tu m'hai rubato un dì...or compi il tuo delitto! Uno sgomento totale cala gelido sulla festa e ognuno commenta turbato quanto sta accadendo.
ENZO. Già ti vedo immota e smorta tutta avvolta in bianco vel, tu sei morta, tu sei morta angiol mio dolce e fedel! Su di me piombi la scure, s'apra il baratro fatal, e mi guidin le torture all'imene celestial GIOCONDA. Scorre il pianto a stilla a stilla nel silenzio del dolor. Piangi o turgida pupilla mentre sanguina il mio cor. Nel turbamento generale, Gioconda si avvicina a Barnaba e gli promette di concedersi a lui in cambio della libertà di Enzo: la spia accetta. L’orchestra e le voci sviluppano in maniera parossistica la melodia del canto
di
Enzo,
che
viene
bruscamente interrotta da Alvise che, tirata la tenda della camera mortuaria,
mostra
Laura
sul
catafalco, e grida con voce terribile di essere stato lui ad ucciderla.
[Gran Teatre de Liceu - Barcellona. 2018]
Il coro grida con orrore; Enzo, brandendo il pugnale, si avventa contro Alvise, ma viene fermato dalle guardie.
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Preludio Il breve preludio orchestra disegna sin dalle prime note il clima intimo e notturno dell’ultimo atto, che si svolge nel rifugio di Gioconda alla Giudecca. Al suono sinistro dei corni avvolto dal rullare dei tamburi si ode per due volte, frammentato, un nuovo tema discendente suonato dagli archi. Questo tema quindi si sviluppa per esteso: è il tema del dolore, già sentito nell’atto III, affidato ancora una volta dal clarinetto, che distende la sua dolente melodia sulle note degli archi.
ATTO IV – Il Canal orfano Scena I. Gioconda è nel suo rifugio, nell’atrio di un palazzo diroccato nell’isola della Giudecca. Dal fondo della buia calle a destra del palazzo appaiono due uomini che portano in braccio il corpo ancora narcotizzato di Laura avvolta in un mantello nero. Gioconda apre la porta, li fa entrare, e li ringrazia per il loro aiuto (non vogliono essere neanche pagati, per amicizia); li implora infine di ritrovare anche sua madre, che ella ha smarrito nel tumulto della Ca’ d’Oro. A svelare gli intimi pensieri di Gioconda, si leva il suono del clarinetto, che riprende il tema dell’infanzia di Gioconda (già ascoltato nella scena V del I atto), ricordo vivo della bontà della madre. Dopo aver fissato un incontro per l’indomani, gli uomini si dileguano.
Scena II. Gioconda è sola, guarda il pugnale, lo tocca, poi prende l’ampolla del veleno. Inizia l’aria più celebre dell’opera. Preceduta dall’attacco in pianissimo dei corni cui seguono i violoncelli e i contrabbassi, che così creano immediatamente un senso di angoscia, Gioconda pronuncia la parola “Suicidio!” come se quest’idea le fosse balenata in quel momento: l’orchestra intona, subito dopo, il tema del suicidio, vibrato dagli archi e rafforzato dai corni. La donna quindi dà spazio ai sentimenti più violenti, espressi da una vocalità tesa e frammentata, che ben disegna lo stato di angoscia. Si apre quindi una parentesi lirica (E un dì leggiadre), prima elegiaca poi più travagliata, in cui Gioconda ripensa all’amore perduto e alla madre scomparsa. L’aria muore in un pianissimo, sulla richiesta di pace per la sua anima. Poi il suo stato cambia di nuovo: prima vorrebbe bere il veleno destinato a Laura, poi ha l’impulso di uccidere la rivale che in quel momento è inerme ed indifesa.
GIOCONDA: Suicidio!... In questi fieri momenti tu sol mi resti, e il cor mi tenti. Ultima voce del mio destino, ultima croce del mio cammin. E un dì leggiadre volavan l'ore; perdei la madre, perdei l'amore, vinsi l'infausta gelosa febre! or piombo esausta fra le tenèbre! Tocco alla mèta...domando al ciel di dormir queta dentro l'avel... (guardando ancora l'ampolla) Ecco il velen di Laura, a un'altra vittima era serbato! io lo berrò! Quand'esso questa notte qui giunga, io non vedrò il loro immenso amplesso; ma chi provvede alla lor fuga?... ah! no!(getta il veleno sul tavolo) No, tentator, lungi da me! Conforta anima mia, le tue divine posse! Laura è là... là sul letto... viva... morta...no 'l so... Se spenta fosse!!! Io salvarla volea, mio Dio, lo sai! Pur, s'ella è spenta!?... un indistinto raggio mi balena nel cor... vediam... coraggio.(prende la lanterna, fa per avviarsi al letto e poi si pente) No... no... giammai, giammai! No, non mi sfugga questo dubbio arcano! Ma s'ella
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vive? ebben... Laura è in mia mano...(biecamente)siam soli. ~ È notte. ~ Né persona alcuna saper potria... profonda è la laguna.. Scena III. Enzo, liberato da Barnaba come pattuito da Gioconda, entra in scena. Chiede a Gioconda che cosa ella vuole.
GIOCONDA Ridarti il sol, la vita! la libertà infinita! la gioia e l'avvenir! l'estatico sorriso, l'estatico sospir! l'amor... il paradiso!! Gran Dio! fammi morir! Enzo è disperato, pensa anch’egli al suicidio, desidera solo morire sulla tomba di Laura. Gioconda gli dice di aver trafugato il corpo di Laura, ma l’uomo fraintende pensando che sia stata una profonda profanazione verso la rivale morta. Snuda perciò il pugnale per uccidere Gioconda.
Scena IV. Dal letto celato dietro il paravento si ode all’improvviso la voce di Laura che invoca Enzo: i brevi richiami di Laura si susseguono mentre i violini ripropongono in pianissimo, e via via l’orchestra amplifica il tema dell’amore di Laura. I due amanti, finalmente riuniti e al colmo della gioia, ringraziano la loro salvatrice. Riappare da lontano la barcarola (Ten va serenata…) che aveva segnato gli attimi drammatici dello scambio di veleno con il sonnifero. Gioconda svela ai due di aver già predisposto la loro fuga, e, una volta giunta la barca che li porterà in salvo, copre Laura con il suo mantello, in un estremo gesto di solidarietà. Gioconda scopre d’improvviso il rosario addosso a Laura e constata che la profezia della madre (…accettalo, ti porterà fortuna) si è avverata. Nel mentre l’orchestra intona ancora una volta il tema del rosario. Laura ed Enzo partono dopo aver ringraziato Gioconda. L’orchestra riprende in fortissimo e grandioso il tema dell’addio a chiudere la scena. Scena V. Gioconda afferra l’ampolla del veleno, è decisa a porre fine ai suoi giorni, ma è colta dall’angoscioso pensiero di ritrovare la madre. Entra Barnaba (il suo tema è suonato dalle viole) senza farsi vedere da Gioconda che supplica la Madonna di tenere l’uomo lontano da lei.
Scena ultima. Mentre Gioconda fa per fuggire, Barnaba irrompe nel rifugio, chiedendo alla donna il rispetto del patto. Gioconda non si oppone, anzi all’esultanza dell’uomo risponde con una gaia melodia accompagnata dai flauti, chiedendo solo di potersi adornare per lui. Gioconda dice quindi di essere pronta, secondo i patti, a dargli il suo corpo; cava dalla veste un pugnale e si uccide, trafiggendosi nel cuore. Barnaba fa ancora in tempo a gridare all’orecchio della donna di averle già ucciso la madre, affogandola. Ma Gioconda ormai non può più udirlo, ed è l’urlo furioso della spia a chiudere l’opera con una rapida stretta finale.
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Discografia Amilcare Ponchielli – La Gioconda Maria Callas (Gioconda), Fedora Barbieri (Laura), Gianni Poggi (Enzo), Paolo Siveri (Barnaba) Giulio Neri (Alvise) CETRA Chorus. Orchestra Sinfonica della RAI di Torino, dir. Antonino Votto Naxos – Great Opera recording Maria Callas incise la sua prima Gioconda nel 1952 e la replicò sette anni più tardi, con l’etichetta EMI. La critica è pressoché unanime nell’affermare che Gioconda fu un personaggio chiave nell’itinerario artistico del soprano greco, e non solo perché ne costituì il celebre debutto in terra italiana (Arena di Verona, 3 agosto 1947) ma anche perché, con il personaggio di Gioconda, poté sfoggiare tutte le sue qualità “belcantistiche” che sarebbero state la base dei primi anni della sua fulgida carriera. La registrazione di Cetra del 1952 della prima opera completa con Maria Callas è stata ristampata molte volte dall'uscita originale, ma la ristampa dell’etichetta Naxos, progettata da Ward Marston, è in uno straordinario suono monofonico. Tutte le voci suonano meravigliose. Gianni Poggi, nonostante molte critiche nel corso degli anni, è un Enzo più che competente. Paolo Silveri dimostra perché è stato uno dei più rispettati baritoni italiani di quell'epoca. Giulio Neri è un Alvise impressionante. E Fedora Barbieri è una delizia per l'ascoltatore. Amilcare Ponchielli – La Gioconda Maria Callas (Gioconda), Fiorenza Cossotto (Laura), Pier Miranda Ferraro (Enzo), Piero Cappuccilli (Barnaba), Ivo Vinco (Alvise), Irene Companeez (Cieca). Coro ed Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, dir. Antonino Votto. Warner Nei tre CD della Warner troviamo un ottimo riversamento dell’originale EMI del 1959. Questa perfomance non è affatto perfetta o impeccabile, ma rimane una delle migliori sul mercato. Pier Miranda Ferraro ha affrontato Enzo Grimaldo in modo stentoreo ma piuttosto lamentoso; Piero Cappuccilli, all'inizio della sua considerevole carriera, interpreta un Barnaba poco mordente. Per fortuna abbiamo la gioia di ascoltare la divina Callas in quello che forse è il suo più grande ruolo registrato (lei stessa ha considerato questa la sua registrazione migliore), insieme a un'altra grande cantante, anche all'inizio della sua carriera, Fiorenza Cossotto, e infine forse anche la migliore esecuzione del direttore d'orchestra.
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Ci sono alcuni grandi nomi nel cast di supporto, specialmente il basso dalla voce nera Ivo Vinco e il contralto Irene Companeez.
Amilcare Ponchielli: La Gioconda Anita Cerquetti (Gioconda), Giulietta Simionato (Laura), Mario del Monaco (Enzo), Ettore Bastianini (Barnaba), C Siepi (Alvise) Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, dir. Gianandrea Gavazzeni Questa incisione del 1957 rimane una pietra miliare dell’interpretazione di questa opera. Anita Cerquetti è molto brava, tra le migliori Gioconde mai sentite, la sua è una voce oscura e piena, ma è anche sorprendentemente agile e fluente nei toni più acuti: la sua interpretazione è piena di risorse e avvincente e la sua voce potente coglie splendidamente l’alta drammaticità del suo ruolo. Mario Del Monaco è all'altezza della protagonista: non solo il canto è possente, ma l'interazione con Cerquetti crea una tensione e una energia raramente sentita. Giulietta Simionato è superba come Laura. Ettore Bastianini riesce quasi a trasformare il suo Barnaba in uno dei grandi cattivi della storia dell'opera. Ottimi Siepi e Sacchi, nei loro ruoli minori. Un elogio speciale va al Maestro Gianandrea Gavazzeni, che conserva il necessario slancio melodrammatico ma fa anche assaporare lo scintillio lirico delle note veneziane di Ponchielli. Sebbene sia stato registrato nel 1957, il suono in stereo è davvero molto buono, ben bilanciato, chiaro e spazioso.
Amilcare Ponchielli: La Gioconda Montserrat Caballè (Gioconda), Agnes Baltsa (Laura), Lu ia o Pa a otti E zo , “he il Mil es Ba a a , … Ghiaurov (Alvise), Afreda Hodgson (Cieca). London Opera Chorus. National Philharmonic Orchestra, dir. Bruno Bartoletti Decca Quando fu pubblicata, nel 1981, questa Gioconda fu giudicata molto negativamente, sia dalla critica nostrana che da quella internazionale, soprattutto con riguardo alla parte vocale. La protagonista era Montserrat Caballè, corretta nella tessitura centrale e bravissima negli acuti, ma completamente a disagio nelle note gravi, emettendo suoni e forzando attacchi talora decisamente sgradevoli.
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Accanto a lei un Luciano Pavarotti che non sfoggia la forma migliore, ma che comunque è cantante pur sempre generoso e regala più di un'emozione, soprattutto nei momenti di passione per Laura nel secondo atto e nell'ira verso Gioconda nel quarto. Gli altri ruoli principali sono comunque di ottimo livello: Agnes Baltsa è una Laura molto forte e appassionata, Sherril Milnes interpreta un prepotente e sprezzante Barnaba, Afreda Hodgson è assolutamente superba nel ruolo della Cieca. Solo Ghiaurov è un po’ sottotono di voce nel ruolo di Alvise Una nota decisamente convincente è rappresentata dalla direzione di Bruno Bartoletti, dotato di innato senso teatrale, che guida la National Philharmonic Orchestra con grande maestria, sfoggiando bei colori e tempi giusti.
Amilcare Ponchielli: La Gioconda Giannina Arangi-Lombardi (Gioconda), Ebe Stignani (Laura), Alessandro Granda (Enzo), Gaetano Viviano (Barnaba). Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, dir. Lorenzo Molajoli. Naxos – Great Opera Recordings Per chi ama le interpretazioni storiche, la Naxos ha operato questo raffinato riversamento. La registrazione, affascinante e molto bella, risale al 1931 ma la performance smentisce la sua età. Protagonista è una sublime Arangi-Lombardi, una delle voci più belle di tutti i tempi, con un registro ricco e vellutato, un bell'esempio di stile italiano oggi svanito, una grande cantante che dovrebbe essere meglio conosciuta dai collezionisti moderni. Questa non è l’interpretazione drammatica per antonomasia, ma la sua "Gioconda" è una bellissima esperienza di ascolto. Alessandro Granda è un tenore di grande incisività. Nonostante il risalto del suo veloce vibrato e l'occasionale mancanza di ispirazione del canto, l'ormai dimenticato Viviano crea un personaggio davvero vivido di Barnaba; è anche un piacere ascoltare la grande Ebe Stignani all'inizio della sua lunga carriera. La conduzione è frizzante, energica e mette in risalto le belle qualità della partitura. Si vocifera che il direttore Lorenzo Molajoli fosse un direttore d'orchestra più noto che registrava sotto uno pseudonimo per evitare di violare gli obblighi contrattuali Il suono è straordinariamente buono per la sua età, mantiene parte del sibilo superficiale, in quanto altrimenti si eliminerebbero troppe frequenze.
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