Volume 8, Numero 3 - OTTOBRE 2010 • AJIDD - Edizione Italiana
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Introduzione alla sezione speciale sulle pratiche basate sulle evidenze per le persone con disabilità intellettive e dello sviluppo
Introduzione Quando il concetto di pratiche basate sulle evidenze venne introdotto, gli atteggiamenti degli stessi autori erano connotati da un forte livello di sospetto e cinismo. Gli psicologi che si formarono negli anni ’60 e ’70 (almeno nel panorama internazionale) vivevano infatti in modo diretto gli interventi come necessariamente collegati alle metodologie sperimentali, ritenendo pertanto che l’intera pratica clinica psicologica fosse basata su approcci sperimentalmente validati: di conseguenza il concetto stesso di “basato sulle evidenze” sembrava ridondante o irrilevante. Probabilmente il contesto italiano si distingueva (anche in questo caso). Seppure già nel 1942 Virgilio Lazzeroni introduce in Italia il comportamento come oggetto della ricerca psicologica, per i 50 anni successivi la psicologia clinica e gli approcci scientifici in Italia sono stati oggetto di forti lotte interne, monopolizzate dalle diverse scuole di pensiero. Rimane il fatto che i primi articoli scientifici che discutevano delle evidenze scientifiche erano dedicati proprio all’ambito delle disabilità intellettive: ne è esempio il lavoro di Wolf, Risley e Mees (1964) sull’impiego del condizionamento operante nel trattamento di disturbi del sonno, aggressività e altri disturbi del comportamento in bambini con autismo. Oppure il lavoro di Miller, Patton e Davis (1972) dove l’uso delle strategie di modificazione del comportamento consentiva a bambini con ritardo gravissimo di stare in piedi autonomamente e di alimentarsi da soli; e dove gli autori mostravano che la semplice inversione della condizione sperimentale faceva decadere le prestazioni positive. Se le terapie comportamentali, per riprendere gli esempi sopra, non fossero state validate scientificamente, sarebbero ben presto state abbandonate. Tuttavia, sebbene una solida base di evidenze sia necessaria e indispensabile per ogni forma di sostegno e intervento (fortunatamente non solo per quello psicologico e per le disabilità), molto spesso sono altre le forze che sospingono i vascelli delle teorie e degli approcci terapeutici. Infatti, ancora oggi, troviamo che sia piuttosto una sorta di “zelo evangelico” a sostenere molti colleghi nel promuovere pratiche e nel corroborarne le convinzioni correlate (Lindsay, & Sturmey, 2007), probabilmente perché il rigore scientifico ha sempre avuto (in particolar modo in Italia) un condizionamento avversivo: tutto ciò che toccava sembrava quasi essere “freddo” e non affascinante, qualcosa da “lasciare ad altri”… Questo processo ha portato nella scienze psicosociali un effetto opposto e paradossale: a seconda del contesto in cui gli utenti si trovavano, ricevevano un certo tipo di trattamento, condizionato forse per lo più dall’opinione di chi era responsabile di quel servizio, piuttosto che dalla formazione e dalla scuola di pensiero degli