Sindrome dell’X-fragile nell’adolescenza e nell’età adulta L.E. Smith et al.
56
Non fare niente J.L. Taylor et al.
72
Stress genitoriale e comportamenti problema C.L. Neece et al.
97
Protocollo “Mirror” per l’Imitazione Generalizzata F. Casarini et al.
125
Frequenza dei disturbi mentali e dei comportamenti problema V. Moretti et al.
136 Editoriale
P. Moderato
141
Analisti del comportamento: una professione emergente F. Dell’Orco et al.
146
Topografia e funzione nel comportamento verbale
F. Pozzi
163
Formarsi, riscoprirsi e scegliere la Qualità di Vita Équipe SENOI Cooperativa Insieme
168
Origini della Personal Outcomes Scale R. Franchini
180
Qualità di vita e diritto al voto
L.S. Di Paola et al.
ISSN 2036-220X
AJIDD edizione italiana
35
Metodologia sperimentale a soggetto singolo
febbraio 2012 volume 10 numero 1
L. Cottini
154
AJIDD
L.J. Moskowitz et al.
Video modeling e autismo
edizione italiana
107
Interventi nella sindrome dell’X-fragile
American Journal on Intellectual and Developmental Disabilities
febbraio 2012 – volume 10 – numero 1 – 1-192
7
D. Carnevali
Vannini • Editoria Scientifica
AJIDD
Informazioni per gli Autori Italiani Pubblicato da
American Association on Intellectual and Developmental Disabilities
Redazione Americana Editor Leonard Abbeduto, MIND Institute and Department of Psychiatry and Bahavioral Sciences, University of California, Davis, School of Medicine Managing Editor Stephanie Dean, American Association on Intellectual and Developmental Disabilities Associate Editors W. Ted Brown, New York State Institute for Basic Research on Developmental Disabilities; Eric Carter, Vanderbilt University; Eric Emerson, Lancaster University; Deborah J. Fidler, Colorado State University; Richard P. Hastings, Bangor University; Ann P. Kaiser, Vanderbilt University; Sandra M. Magaña, University of Wisconsin-Madison; Laura Lee McIntyre, University of Oregon; Gael Orsmond, Boston University; Rose A. Sevcik, Georgia State University; Tony J. Simon, University of California, Davis; Frank Symons, University of Minnesota, Twin Cities; Marc J. Tassé, University of South Florida Consulting Editors Michael G. Aman, Ohio State University; Donald B. Bailey, Jr., University of North Carolina, Chapel Hill; Bruce L. Baker, University of California, Los Angeles; Jan Blacher, University of California, Riverside; Daniel M. Bolt, University of Wisconsin-Madison; Sharon Borthwick-Duffy, University of California, Riverside; Jacob A. Burack, McGill University; Michael Carlin, Shriver Center; Kim Cornish, McGill University; Laraine Masters Glidden, St. Mary’s College of Maryland; Kylie M. Gray, Monash University; Randi J. Hagerman, University of California, Davis; Dougal Julian Hare, University of Manchester; Anne Bradford Harris, University of Wisconsin-Madison; Lucy Henry, King’s College London; Susan Hepburn, University of Colorado at Denver Health Sciences Center; Robert M. Hodapp, Vanderbilt University; Robert H. Horner, University of Oregon; Carolyn Hughes, Vanderbilt University; Andrew Jahoda, University of Glasgow; Chris Jarrold, University of Bristol; Craig Kennedy, Vanderbilt University; Jee-Seon Kim, University of Wisconsin-Madison; Marty W. Krauss, Brandeis University; Barbara Landau, Johns Hopkins University; Nancy Raitano Lee, National Institutes of Health; Mark H. Lewis, University of Florida; Bruce McCandliss, Weill Medical College of Cornell University; Edward Merrill, University of Alabama; Carolyn Mervis, University of Louisville; Melissa M. Murphy, College of Notre Dame of Maryland; Gael Orsmond, Boston University; Susan L. Parish, University of North Carolina at Chapel Hill; Amy Philofsky, University of Colorado at Denver Health Sciences Center; Joe Reichle, University of Minnesota; Jane E. Roberts, University of South Carolina; Johannes Rojahn, George Mason University; Mary Ann Romski, Georgia State University; Richard R. Saunders, University of Kansas; Gaia Scerif, University of Oxford; Laura E. Schreibman, University of California, San Diego; Marsha M. Seltzer, University of Wisconsin-Madison; Paul T. Shattuck, Washington University; Wayne P. Silverman, Kennedy Krieger; Patricia A. Snyder, University of Florida; Roger Stancliffe, University of Sidney; Helen Tager-Flusberg, University of Massachusetts, Boston; James Thompson, Illinois State University; Michael Wehmeyer, University of Kansas; Jennifer Zarcone, University of Rochester Medical Center.
Contact Information: American Journal on Intellectual and Developmental Disabilities (Print ISSN 1944-7515; Online ISSN: 1944-7558). Published bimonthly by the American Association on Intellectual and Developmental Disabilities, 501 3rd St., NW, Suite 200, Washington, DC 20001-2760. Printed by The Sheridan Press, 450 Fame Ave., Hanover, PA 17331.
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Abbreviazioni e terminologia Le abbreviazioni devono essere ridotte al minimo. I nomi di gruppi o condizioni sperimentali non devono essere abbreviati. I nomi dei test devono essere indicati per esteso la prima volta che vengono citati, riportando l’eventuale sigla tra parentesi. Quando il contesto rende chiaro se l’autore si stia riferendo a persone con disabilità intellettiva, o quando invece non sia necessario fare riferimenti al livello intellettivo o alla categoria diagnostica, gli autori dovrebbero usare termini generici più descrittivi, come ‘bambino’, ‘studente’ o ‘persona’, senza usare termini qualificativi come “con handicap”, o “con problemi di sviluppo”. Il termine ‘ritardato’ come sostantivo non deve essere usato. Costrutti proposizionali come “studenti con disabilità intellettiva” o “individui che hanno disabilità intellettiva” sono preferibili a costrutti aggettivali come “persone mentalmente ritardate”. Il vocabolo normale non deve essere usato, poiché, avendo molteplici significati, potrebbe implicare inappropriatamente a-normale quando non applicato. Al contrario possono essere utilizzati termini descrittivi più operazionali come “allievi a sviluppo tipico”. Tabelle, figure e bibliografia Il sistema di misurazione metrico decimale dovrebbe essere usato per tutte le espressioni di misura lineare, di peso e di volume. Tabelle e figure devono essere ridotte al minimo funzionale e presentate una sola volta, evitando inutili ripetizioni. All’interno delle tabelle tutte le colonne devono avere una intestazione. Stampe patinate o disegni originali di figure possono rimanere all’autore fino a che la redazione non le richiede dopo l’accettazione del manoscritto. Non si accettano fotocopie. Le didascalie delle figure devono essere riportate su un foglio diverso, ma numerazioni o lettere possono apparire sulla figura stessa. Questo tipo di indicazioni devono essere di qualità professionale (non dattilografata) e di dimensioni sufficienti per sopportare una riduzione di circa il 50% delle dimensioni. Le fotografie di persone devono essere accompagnate da moduli di liberatoria (firmati e datati). Se possibile va fatta attenzione a tutelare l’identità delle persone ritratte. Gli autori si assicurino inoltre di avere i permessi di utilizzare ogni tabella e figura protetta da copyright. La bibliografia va redatta in base alle norme apposite dell’APA e devono essere indicati i dati sia dei testi originali che delle eventuali edizioni italiane. Note a piè di pagina Devono essere ridotte al minimo. Vanno poste nella prima pagina dell’articolo le note: (a) che riconoscono sostegno e aiuto nello sviluppo della ricerca o nella preparazione del manoscritto; (b) che notificano il cambio di affiliazione di un autore; (c) che informano della disponibilità di informazioni supplementari.
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Responsabili scientifici
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Serafino Corti
Anffas Brescia
Fondazione Sospiro, Università Cattolica Brescia
Luigi Croce
Università Cattolica Brescia, Anffas Brescia
edizione italiana
AJIDD Lucio Cottini
Università di Udine
Paolo Moderato
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Mauro Leoni
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2012 presso Arti Grafiche Vannini - Bagnolo Mella (BS)
Per i professionisti, per i servizi, per i familiari e per gli operatori. FORMAZIONE
FORMAZIONE IN SEDE Prevede l’attivazione di master (di durata generalmente annuale) e di corsi specialistici (la forma privilegiata è quella del workshop intensivo su uno o più week-end).
FORMAZIONE IN LOCO Prevede l’attivazione di corsi presso le singole strutture, studiati e organizzati per rispondere alle esigenze specifiche della struttura stessa.
PROGRAMMA DI CONSULENZA Prevede, su richiesta, la definizione di un percorso di supervisione che affianchi all’approfondimento teorico lo studio di casistiche reali.
PROGRAMMI FORMATIVI
DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO Uso dello strumento più accreditato per l’assessment del funzionamento, dei bisogni e del potenziale di sviluppo dei soggetti con autismo, disturbi generalizzati dello sviluppo e deficit comunicativi.
AUTONOMIE PERSONALI Uso delle strategie di modificazione del comportamento e delle relazioni per valutare il funzionamento del soggetto con disabilità e strutturare il successivo progetto riabilitativo centrato sullo sviluppo delle autonomie.
QUALITÀ DELLA VITA Uso dello strumento più valido e funzionale per tracciare un profilo qualitativo e quantitativo dei bisogni di sostegno della persona disabile, indicando – in termini di frequenza, durata quotidiana, tipologia di sostegno – la quantità di assistenza o sostegno non ordinario di cui un soggetto ha bisogno.
DISABILITÀ INTELLETTIVE Sulla base di esigenze specifiche, vengono organizzati corsi ad hoc relativi alle diverse tipologie di disabilità per fornire risposte concrete, pratiche e immediatamente spendibili, ai bisogni quotidiani delle persone con disabilità.
Per informazioni contattare:
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edizione italiana
AJIDD
American Volume 10, Numero 1 Journal on Febbraio 2012 INTELLECTUAL AND DEVELOPMental DISABILITIES
indice sezione scientifica 07
Lauren J. Moskowitz, Edward G. Carr e V. Mark Durand Intervento comportamentale per i comportamenti problema nei bambini con sindrome dell’Xfragile
35
Leann E. Smith, Erin T. Barker, Marsha Mailick Seltzer, Leonard Abbeduto e Jan S. Greenberg Fenotipo comportamentale della sindrome dell’X-fragile nell’adolescenza e nell’età adulta
56
Julie Lounds Taylor e Robert M. Hodapp Non fare niente: adulti con disabilità senza attività quotidiane e i loro fratelli
72
Cameron L. Neece, Shulamite A. Green e Bruce L. Baker Stress genitoriale e comportamenti problema del figlio: una relazione transazionale attraverso il tempo
97
Fabiola Casarini, Vanessa Artoni, Rachele Cascavilla e Anna Fondacaro Protocollo “Mirror” per l’Imitazione Generalizzata: induzione dell’abilità di emettere risposte imitative spontanee per soggetti con autismo
107
Lucio Cottini Video modeling e autismo: caratteristiche, efficacia, prospettive
125
Valentina Moretti, Francesca Villanti, Daniele Marchetti, Anna Maria Agostini, Stefano Mimmi e Ciro Ruggerini Frequenza dei disturbi mentali, dei comportamenti problema e delle prescrizioni farmacologiche in una popolazione di 290 adulti con Disabilità Intellettiva
segue
edizione italiana
AJIDD American Journal on Intellectual and Developmental Disabilities
sezione
ABA-Italia
Analisi comportamentale applicata in collaborazione con IESCUM Redazione: Davide Carnevali Francesco Dell’Orco Melissa Scagnelli
Volume 10, Numero 1 - FEBBRAIO 2012 • AJIDD - Edizione Italiana
Editoriale Riflessioni a margine delle critiche sulle linee guida relative ai trattamenti sull’autismo: fra rilievi critici e lallazioni pseudoscientifiche Paolo Moderato Ordinario di Psicologia, Senior Behavior Analyst, Presidente IESCUM, Italian Chapter ABA International
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Per contattare l’autore scrivere a: Paolo Moderato, Università IULM, Istituto di Comunicazione, comportamento e consumi “Giampaolo Fabris”,Via Carlo Bo, 1, 20143, Milano E-mail: paolo.moderato@iulm.it
L’uscita delle linee guida sui trattamenti per i disturbi dello spettro autistico, pubblicate recentemente dall’Istituto Superiore di Sanità, ha provocato alcune reazioni. Siamo stati inondati di ripetute email con richieste di sottoscrizione di appelli per la riapertura del tavolo sulle linee guida, appelli che hanno trovato eco anche sui quotidiani (v. articolo di Gilberto Corbellini sul Sole 24ore e relative risposte). Prima di commentare le critiche vediamo schematicamente che cosa si dice nel documento dell’ISS. Gli obiettivi dichiarati nella presentazione delle linee guida (LG) sono quelli di produrre, attraverso gli strumenti della ricerca scientifica, risultati trasferibili alla pratica clinica, nonché fruibili da tutti i soggetti interessati, in modo da fornire un orientamento su quali siano gli interventi per cui sono disponibili prove scientifiche di efficacia. In altre parole permettere a genitori e operatori di orientarsi tra le molte “offerte” terapeutiche disponibili, per garantire una risposta adeguata ai bisogni dei soggetti con autismo e delle loro famiglie. L’interrogativo di partenza è analizzare gli interventi che abbiano prove di efficacia e indagare l’esistenza di trattamenti migliori di altri. I criteri di efficacia si basano sull’analisi delle ricerche pubblicate nella letteratura internazionale. Sono stati analizzati: •• studi clinici randomizzati controllati (randomized controlled trials, RCT) •• rassegne sistematiche di RCT e di studi osservazionali •• studi osservazionali di coorte, con coorti concorrenti •• studi osservazionali di prognosi. Non sono invece presi in considerazione gli studi a soggetto singolo che sono invece considerati fondamentali nella metodologia di ricerca ABA. I trattamenti che seguono il modello comportamentale o cognitivo comportamentale risultano quelli di elezione. Tuttavia l’ABA è descritta prevalentemente come sinonimo di applicazione alla Lovaas, ignorando l’evoluzione dell’analisi comportamentale applicata che si declina nello sviluppo e applicazione di strategie ecologiche naturalistiche e flessibili, che intervengono rispettando le esigenze e i ritmi naturali dei bambini, e potenziando le loro attitudini: Natural Environment Teaching (NET) e Verbal Behavior Teaching (VBT), e tutti gli interventi finalizzati all’apprendimento delle abilità sociali (Social Skills Training), al coinvolgimento consapevole e competente dei genitori (Parent Training), al potenziamento della risorsa dei pari (Peer Tutoring), tutte procedure queste che rappresentano il core dell’ABA. Addirittura l’intervento mediato dai genitori viene contrapposto all’intervento ABA. Insomma, un “non addetto ai lavori” farebbe fatica a capire che cosa è realmente l’ABA. Ci siamo limitati a toccare velocemente solo un paio di punti, perché lo scopo di questo articolo non è l’analisi delle LG ma delle reazioni ad esse. La prima in ordine di tempo è quella dell’Istituto di Ortofonologia (www.ortofonologia. it/allegati/AUTISMO_petizione.pdf), che per mano del suo presidente critica “le Linee guida sull’autismo da parte dell’Istituto Superiore di Sanità che raccomandano alle Regioni, come unico strumento terapeutico, l’adozione della Tecnica neo-comportamentale ABA (Applied Behavior Analysis) derivata dal metodo Lovaas”, con la motivazione che “più di un secolo di tradizioni psicodinamiche vengono a essere improvvisamente cancellate, negando la fondamentale rilevanza dell’affettività alla base dello sviluppo della personalità”.
Volume 10, Numero 1 - FEBBRAIO 2012 • AJIDD - Edizione Italiana
Editoriale
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Volume 10, Numero 1 - FEBBRAIO 2012 • AJIDD - Edizione Italiana
P. Moderato
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Difficile trovare tanta confusione e sciatteria concentrata in così poche righe. •• L’ABA non è una tecnica. Le applicazioni di una scienza (Behavior Analysis) costituiscono il suo corpus tecnologico Applied Behavior Analysis, che si articola in tante tecniche, procedure (vedi sopra), •• “neo-comportamentale” è una parola priva di significato in questo contesto (forse si intendeva neo-comportamentista per definire il quadro epistemologico di riferimento, cioè quello delle scienze naturali), •• quello di Lovaas non è un metodo (il “metodo di Lovaas” si chiama Discrete Trial Teaching – DTT), •• l’ABA non è derivata dal “metodo” Lovaas, ma viceversa: Lovaas applica per primo all’autismo una serie di metodologie di analisi e modificazione del comportamento messe a punto anni prima (Baer, Wolf e Risley, 1968; www.abautismo.it ). In un documento pubblico di questo genere, quando si affronta un argomento, soprattutto quando lo si affronta in termini critici, è necessario curare una minima correttezza terminologica, altrimenti si corre il rischio di essere accusati di non sapere di che cosa si sta parlando. Poi ci sono altri due punti: la frase successiva “Più di un secolo di tradizioni psicodinamiche vengono a essere improvvisamente cancellate, negando la fondamentale rilevanza dell’affettività alla base dello sviluppo della personalità” è anch’essa oscura. E perché mai si dovrebbe negare la “fondamentale rilevanza dell’affettività alla base dello sviluppo della personalità”? Ma soprattutto che cosa c’entra quest’affermazione con gli interventi di provata efficacia nell’autismo? È noto a tutti coloro che operano nel settore, e ormai anche al grande pubblico, che la teoria psicogenetica dell’autismo è stata abbandonata (da 30 anni nel mondo, da un po’ meno in Italia) perché priva di evidenze che la sostengano. Sebbene a tutt’oggi non si conoscano ancora con precisione le cause dell’autismo, vi è un generale accordo dei ricercatori sul fatto che si tratti di una compromissione neurologica di tipo organico e non dipenda da una patologia della relazione madre-bambino, come sostenevano le teorie psicodinamiche, vedi una per tutte quella di Bruno Bettelheim. Quindi che c’entra il richiamo allo sviluppo della personalità? Vero è che personalmente ho sentito un solo collega di formazione psicodinamica riconoscere pubblicamente, con molto coraggio e grande onestà intellettuale, che la teoria sopramenzionata non ha più alcuna validità. E che la disconferma di tale teoria non è scevra di effetti importanti che si ripercuotono, minandola, su tutta l’architettura psicodinamica dello sviluppo affettivo. Certamente qualcosa di più di quanto en passant si ammette nel manifesto che mette insieme scuole diverse (Repubblica 22.2.12) Uniti a favore di “una scienza a statuto speciale” di Stefano Bolognini, Simona Argentieri, Antonio Di Ciaccia, Luigi Zoja, in cui si afferma che “certamente le patologie psichiatriche gravi, come alcune sindromi autistiche, richiedono adattamenti di tecnica specifici e mirati, e molto spesso la terapia che ne risulta non è affatto un trattamento psicoanalitico. Ci vuol ben altro che “adattamenti di tecnica specifici e mirati” quando una teoria è disconfermata. L’Istituto Freudiano per la clinica, la terapia e la scienza presenta poche variazioni sul tema per contrastare “l’adozione della tecnica neo-comportamentale ABA (Applaied (sic!) Behaviour Analysis) derivata dal metodo Lovaas” (v. sopra per il merito). http://istitutofreudiano.blogspot.com/2012/02/richiesta-di-riapertura-delle-linee.html
La critica metodologica verte sul fatto che nella metodologia utilizzata dal panel non sono state prese in considerazione tutte le esperienze cliniche italiane ed estere che si rivolgono all’individuo nella sua complessità (?) e che utilizzano metodologie diverse per validare i propri studi […con la conseguenza] che in ambito clinico si imporrà l’attuazione di una sola linea di trattamento senza possibilità di scelta né da parte del paziente, né dell’operatore. Il problema delle metodologie diverse va posto in ben altra sede. La comunità scientifica internazionale ha scelto, a ragion veduta, i trial clinici randomizzati (RCT) come metodologia per verificare l’efficacia (between subjects per precisione l’efficacy, che misura la significatività statistica del confronto tra due elementi) di un farmaco, di un intervento, di una procedura. Come detto in apertura, vi sono altri metodi scientificamente validi (quelli noti come N=1 within subjects) e vi sono altre definizioni di efficacia (l’efficacia applicata, o effectiveness, misurata dall’effect size, o grandezza dell’effetto, che misura la quantità di cambiamento prodotto). C’è anche l’efficacia percepita, un indicatore utile ma purtroppo inficiato da tutti i bias cognitivi e le fallacie umane). Detto questo, le agenzie governative che si occupano di salute non possono che adeguarsi a questo criterio per approvare, accettare o sconsigliare qualunque elemento, materiale o immateriale, che abbia un effetto sulla salute pubblica. Il motivo è molto semplice: il metodo scientifico non può impedire che si commettano errori, in buona o cattiva fede (sempre a proposito di autismo si veda il caso Wakefield), ma è l’unico che ci (= la comunità scientifica) mette in grado di individuarli e correggerli. Per questo si dice che il metodo è autocorreggente. Passiamo al problema della libertà di scelta. Il problema non è nuovo. Qualche lettore si ricorderà l’affaire Di Bella1 che nel 1997 vide una parte di questo paese, anche in quel caso (mal) sostenuta politicamente, scatenare una campagna per “la libertà di cura”. Sarebbe bene chiarire, una volta per tutte, che nessuno intende mettere in discussione la libertà di scegliere la propria cura. Altra cosa è pretendere di essere curati a spese del servizio pubblico con terapie, farmacologiche o psicologiche non fa differenza, che non abbiano superato le prove di efficacia in base ai protocolli riconosciuti e condivisi internazionalmente (ricordiamoci che facciamo parte dell’OMS). Per concludere vorrei dare rilievo a un documento passato purtroppo sotto silenzio. Si tratta delle Considerazioni sul comunicato stampa dell’Ordine degli Psicologi della Regione Lazio del 24 gennaio 2012, firmato da Flavia Caretto e altri professionisti, per la maggior parte psicologi e afferenti all’Ordine del Lazio, che si occupano di Autismo. http://www.culturautismo.it/joomla/notizie/considerazioni-sul-comunicato-stampa-dell-ordine-degli-psicologi-della-regione-lazio-del-24-gennaio-2012-sulla-linea-guida-21-delliss.html Caretto e colleghi prendono le distanze dal comunicato stampa dell’Ordine degli Psicologi della Regione Lazio del 24 gennaio u.s. dal titolo ’Luci ed ombre sulle linee guida sull’autismo’ che critica la linea guida dell’ISS giudicandolo un documento con “gravi lacune”, sostanzialmente sposando la tesi obsoleta cara all’approccio psicodinamico sugli stati mentali che determinano la condizione del bambino con Autismo. Questa, affermano gli estensori, sembra la Il prof. Luigi Di Bella era un fisiologo dell’Università di Modena che sosteneva di aver messo a punto un cocktail di sostanze (già note in farmacologia) efficace nella cura dei tumori e che presentavano minori effetti collaterali rispetto alla chemioterapia. Il pretore di Maglie emise un’ordinanza che obbligava il SSN a fornire gratuitamente la cura che, al momento, era priva di ogni criterio di validazione scientifica. La sperimentazione che venne avviata sull’onda delle richieste della piazza, non confermò alcun effetto terapeutico della sostanza. Nessuno dei pazienti del gruppo sperimentale Di Bella sopravvisse in modo significativo al tumore.
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Editoriale
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Volume 10, Numero 1 - FEBBRAIO 2012 • AJIDD - Edizione Italiana
P. Moderato
considerazione personale di chi aderisce a uno specifico approccio, più che una affermazione, da parte di un organo istituzionale, rappresentativa di una categoria. Ma Caretto e altri sollevano correttamente un altro forse ancor più grave problema: come mai gli psicologi non sono stati coinvolti in questo tavolo di lavoro (e anzi risultano sostanzialmente assenti anche in altre consensus conference, come quelle sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento)? Il modello terapeutico cognitivo-comportamentale è un modello psicologico, non neuropsichiatrico; la scienza comportamentale applicata è un modello psicologico, non psichiatrico. Gli autori stranieri citati nelle linee guida come rappresentanti di questo orientamento sono tutti psicologi. Eppure nessun rappresentante psicologo CBT o ABA, neanche chi ricopre cariche istituzionali, faceva parte del panel. Potremmo chiederci come mai, cioè grazie a chi, la psicologia abbia questo scarso riconoscimento nell’ambito scientifico. Certo, essere assimilati a chi chiede di collocarsi fuori dagli standard scientifici internazionalmente riconosciuti non rende un buon servizio né alla psicologia, né ai bambini e alle loro famiglie.
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Bibliografia Baer, D.M., Wolf, M.M., & Risley, T.R. (1968). Some current dimensions of applied behavior analysis. Journal of Applied Behavior Analysis, 1, 91-97. Keenan, M., Dillenburger, K., Moderato, P. & Röttgers, H. (2010). Science For Sale: But At What Price? Behavior and Social Issues, 19, 126-143. Moderato, P. (2011). Ole Ivar Lovaas: un importante contributo allo sviluppo di trattamenti efficaci per l’autismo. Autismo e disturbi dello sviluppo, 9, 2, 101-104. Moderato, P., & Copelli, C. (2010). L’Analisi comportamentale applicata (ABA): teoria, metateoria e fondamenti. Autismo e disturbi dello sviluppo, 8-1. Moderato, P., & Copelli, C. (2010). L’Analisi comportamentale applicata (ABA). Autismo e disturbi dello sviluppo, 8-2.
Francesco Dell’Orco Università IULM, Milano IESCUM (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano), Parma Melissa Scagnelli Università IULM, Milano IESCUM (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano), Parma
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Analisti del comportamento: orientarsi in una professione emergente
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Riassunto La professione dell’analista del comportamento in Italia non è ad oggi giuridicamente normata. Il riferimento più autorevole nel definire i criteri di formazione è quello del BACB (Behavior Analyst Certification Board). La sempre maggior richiesta di trattamenti basati sull’Analisi Comportamentale Applicata, specialmente nel campo dei disturbi generalizzati dello sviluppo, ha spinto molti professionisti, appartenenti a varie discipline, alla ricerca di formazione in quest’ambito e di riflesso ha generato il proliferare di corsi di formazione. L’obiettivo di questo articolo è provare a tracciare il profilo professionale dell’analista del comportamento, delineandone bisogni formativi, abilità e caratteristiche di azione.
Abstract The profession of behavior analyst is not formally normed in Italy. The BACB (Behavior Analyst Certification Board) is the most authoritative reference in defining training criteria. A growing demand for treatments based on Applied Behavioral Analysis, especially in the field of autism and pervasive developmental disorders, has led many professionals, from various disciplines, to seek training opportunities in this area and has consequently generated a proliferation of training courses. Objective of this article is to trace a behavior analyst’s professional profile, highlighting training needs, abilities and characteristics of action.
Per contattare gli autori scrivere a: Francesco Dell’Orco E-mail: francesco.dellorco@iulm.it Melissa Scagnelli E-mail: melissa.scagnelli@gmail.com
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Trent’anni di ricerca e di applicazioni hanno dimostrato l’efficacia dell’Analisi Comportamentale Applicata (ABA) in diversi contesti di vita: ergonomia, organizzazioni, clinica, educazione normale e speciale (Anderson, Avery, DiPietro, Edwards e Christian, 1987; Sallows e Graupner, 2005; Eldevik, Hastings, Hughes, Jahr, Eikeseth e Cross, 2009; Gresham, 2009). Nel contesto italiano, a differenza di quanto avvenuto in altri Paesi, l’Analisi Comportamentale Applicata si è fatta strada più tardi ed è rimasta pressoché confinata alle disabilità evolutive e intellettive in genere, in particolar modo all’autismo e ai disturbi generalizzati dello sviluppo. Nel corso degli ultimi anni si è assistito a un crescente interesse nei confronti di questo approccio, che si è riflettuto in un cospicuo aumento della richiesta, da parte di genitori di bambini con autismo, di professionisti che potessero applicare i principi dell’Analisi Comportamentale con il proprio figlio. L’aumento della domanda ha provocato inizialmente (fine anni ’90 e seguenti) una crescente “invasione” da parte di specialisti ABA provenienti da diversi Paesi, dove l’ABA si era maggiormente sviluppata (Norvegia, UK e poi Stati Uniti). Tra questi ad esempio gli specialisti del UK Young Autism Project (YAP) e del Center of Early Autism Treatment (CEAT). Oggi si assiste a un incremento della domanda in questa direzione anche da parte di psicologi ed educatori italiani. Questo ha comportato il proliferare di corsi di formazione, rivolti a diverse figure professionali (psicologi, educatori e terapisti del linguaggio). Non sempre, tuttavia, l’offerta di formazione si rivela realmente abilitante e questo, oggi, a nostro avviso, incide in maniera significativa sulla qualità degli interventi offerti all’utenza. Ciò che sembra non essere ancora ben definito per l’analista del comportamento è dunque una chiara esplicitazione delle competenze e del percorso formativo necessario ad acquisirle. L’intento di questo articolo è dunque quello di provare a tracciare il profilo professionale dell’analista del comportamento, delineandone bisogni formativi, abilità e caratteristiche di azione. L’etimologia stessa della parola suggerisce in modo semplice che l’analista del comportamento sia colui che conosce e applica con padronanza il corpus di procedure e tecniche finalizzate all’analisi dei fattori che favoriscono il cambiamento comportamentale. L’aspetto di conoscenza e quello applicativo sono complementari e inscindibilmente connessi, al punto che le tecniche da sole risulterebbero sterili strumenti esecutivi. La definizione dello status di analista del comportamento è un processo relativamente recente, anche al di fuori del contesto italiano. Negli anni ’80 e ’90 nessuno pensava fosse necessario un “titolo formale”, bastava l’esperienza. Solo successivamente venne la necessità negli USA della certificazione. In quel Paese, dove i titoli non hanno automaticamente valore legale, al contrario dell’Italia (almeno finora, le cose stanno cambiando anche qui), sorse la necessità di “un bollino di qualità” che consentisse ai clienti dell’Analista del Comportamento, e soprattutto alle assicurazioni che pagavano il trattamento, di capire se il professionista che si proponeva come esperto fosse qualificato. Ecco nascere la prima certificazione in Florida e poi quella del BACB che si estende a livello internazionale. Il BACB (Behavior Analyst Certification Board) è una organizzazione non profit indipendente nata nel 1998 per garantire agli analisti del comportamento e ai clienti che beneficiano di questo modello alti standard di qualità. La sua missione è quella di sviluppare, promuovere e applicare, a livello nazionale e internazionale, un programma di certificazione di qualità per gli analisti del comportamento.
Sono tre i gradi di certificazione proposti dal BACB: Il BCaBA (Board Certified assistant Behavior Analyst) corrisponde alla funzione di assistente in analisi del comportamento. Può essere conseguito dopo il completamento di un corso di master di primo livello in ABA secondo un programma approvato dal BACB, e il superamento del relativo esame, per ora in inglese. Il BCBA (Board Certified Behavior Analyst) corrisponde alla funzione di consulente in analisi del comportamento. Può essere conseguito dopo il completamento di un corso di master post graduate (di secondo livello) in ABA secondo un programma approvato dal BACB, e il superamento del relativo esame, anch’esso per ora in inglese. Implica inoltre lo svolgimento di un vasto lavoro clinico sotto la supervisione di un professionista già certificato BCBA. Per ultimo, il BCBA-D (Board Certified Behavior Analyst-Doctoral) è il livello più elevato, conseguito da quei professionisti già certificati BCBA che hanno completato la loro formazione con il conseguimento del dottorato di ricerca (PhD). La procedura di certificazione del BACB non è un titolo definitivo, ma è sottoposta a una periodica revisione. Chi la consegue è pertanto tenuto a un costante aggiornamento che gli garantisca il conseguimento dei crediti formativi (CE) necessari al mantenimento. Nel contesto italiano la professione dell’analista del comportamento non è giuridicamente normata (né lo sarà presumibilmente mai, se solo si pensa all’iter seguito dell’albo degli psicologi). Questo significa che non è definito un univoco percorso formativo abilitante a quella che oggi sembra delinearsi come una vera e propria nuova professione, salvo fare riferimento alla normativa internazionale. In Italia l’unico Master che soddisfa i requisiti formativi internazionali relativi al coursework per sostenere l’esame di Board Certified Behavior Analyst, è quello organizzato da IESCUM - Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano (chapter italiano dell’ABAI e dell’EABA). Presso IESCUM ha sede anche il registro italiano dei consulenti e degli operatori ABA che a regime coinciderà con il registro dei Board Certified Behavior Analyst-BCBA e acquisirà tutte le caratteristiche di quello internazionale. Nell’intento di fare ulteriore chiarezza su questi aspetti ci è parso utile riprendere alcuni estratti dell’autorevole contributo di G. L. Shook, purtroppo scomparso prematuramente nell’autunno 2011, fondatore del BACB che, intervenendo alla XXXIV edizione del Congresso Annuale dell’ABAI, a Chicago nel 2008 ci ha rilasciato una video intervista (disponibile al link http://www.abautismo.it/doceboCms/index.php?special=changearea&newArea=63) in cui spiega l’importanza a livello professionale della certificazione. All’epoca Gerry Shook era il direttore esecutivo del Board. Descrivendone il funzionamento, ne metteva in luce la mission, ovverosia “la cura e la realizzazione di un esame di qualità professionale, seguendo degli specifici standard in linea con i criteri della National Organization for Competency Assurance e la sua somministrazione in duecento sedi negli Stati Uniti, e in altre 150 al di fuori degli Stati Uniti, compresa l’Italia”. Secondo Shook, per un analista del comportamento l’importanza di avere una certificazione è che essa dimostra il raggiungimento di una preparazione certa e adeguata nel campo dell’Analisi del Comportamento. “Abbiamo visto che in molti posti, in giro per il mondo, ci sono persone che dicono di essere Analisti del Comportamento o di avere esperienza in questo settore. In realtà non l’hanno. Può essere che abbiano acquisito dell’esperienza, ma noi ci assicuriamo che questa sia completa e a tutto campo a livello accademico. Allo stesso tempo il Board verifica che la loro pratica sia stata supervisionata da persone preparate, che i loro programmi
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e corsi siano stati realizzati correttamente e che abbiano svolto e superato l’esame”. Shook definisce quindi i criteri necessari all’approvazione di un corso. “Approviamo i corsi valutando ogni programma di insegnamento. Il board specifica quale dovrebbe esserne il contenuto. Ci assicuriamo che in tutti siano presenti i contenuti che richiediamo e pretendiamo anche che le persone abbiano un’esperienza appropriata nell’applicare ciò che hanno imparato in aula”. Per ultimo Shook descrive le linee di sviluppo del board per gli anni avvenire. “Attualmente credo che la richiesta maggiore sia fuori dagli Stati Uniti. Abbiamo 125 corsi approvati. Circa 28 di questi sono all’estero, compresi corsi in Italia, Spagna e altri Paesi Europei, in particolare Inghilterra e Irlanda. Credo che continueremo a crescere a livello internazionale. In questo momento circa il 5% dei nostri analisti certificati provengono da Paesi diversi dagli Stati Uniti, credo che nel giro di dieci anni saranno molti di più”. Le parole di Shook mettono chiaramente in risalto l’importanza della certificazione che a nostro avviso, tuttavia, pur essendo un importante requisito di qualità, non può rappresentare l’unico elemento di riferimento a cui affidarsi incondizionatamente nella formazione. Tutte le certificazioni, infatti, sono attestati che testimoniano, con il superamento di un esame, il possesso di alcuni requisiti formali: se si supera l’esame della patente si può guidare, ma non è detto che si sappia guidare bene. D’altro canto esistono grandi analisti del comportamento, da Charles Catania a Jack Marr a Steve Hayes che, pur non essendo certificati, solo per il proprio curriculum scientifico, rientrano a pieno titolo tra i maggiori conoscitori della scienza comportamentale. Skinner morì nel 1990 senza essere certificato BACB. Inoltre, a nostro avviso, la certificazione del board presenta anche alcune ombre. L’attestato di classe inferiore, il BCaBA (Board Certified Associate Behavior Analyst) è molto discutibile, sia a livello internazionale ma ancor più alla luce della legislazione italiana. In base al sistema accademico anglosassone può infatti essere conseguito da persone in possesso di qualsiasi diploma di laurea triennale (ad esempio, storia, lingue o matematica) e non solo da laureati in psicopedagogia e psicologia. In altre parole, non è richiesta alcuna conoscenza psicopedagogica pregressa. Secondo il nostro punto di vista, occuparsi di autismo o più in generale di sviluppo atipico significa essere in grado di considerare i contributi sviluppati dalle discipline (medicina, psicologia, scienze dell’educazione) che studiano scientificamente il bambino analizzandone le idiosincrasie e le peculiarità del profilo di sviluppo. Ci sentiamo allo stesso tempo di affermare che, in una scienza non unificata e non paradigmatica come la psicologia, l’Analisi del Comportamento sia psicologia, una psicologia scientifica. Alla luce di tutto questo, pensiamo sia fortemente auspicabile che l’analista del comportamento possieda un bagaglio di competenze che lo mettano nelle condizioni di cogliere il soggetto nella complessità del suo funzionamento psicologico e sociale all’interno del contesto di riferimento. Non da ultimo, capacità relazionali, creatività operativa e conoscenza delle direttive sull’etica sono ulteriori requisiti che definiscono questa nuova figura professionale come poliedrica e non solo come un esecutore meccanico di tecniche e procedure. Riaffermiamo quindi l’importanza della certificazione come condizione necessaria, ma non sufficiente a garantire la qualità del consulente.
Bibliografia Anderson, S.R., Avery, D.L., Dipietro, E.K., Edwards, G.L., & Christian, W.P. (1987). Intensive home-based early intervention with autistic children. Education and Treatment of Children, 10, 352 - 366. Bijou, S. W. (1979). Some clarifications on the meaning of behavior analysis of child development. Psychological Record, 29, 3-13. Eldevik, S., Hastings, R. P., Hughes, J. C., Jahr, E., Eikeseth, S., & Cross, S. (2009). Meta-analysis of early intensive behavioral intervention for children with autism. Journal of Clinical Child and Adolescent Psychology, 38, 439-450. Gresham, F.M. (2009). Evolution of the Treatment Integrity Concept: Current Status and Future Directions. School Psychology Review, 33, 533-540. Martin, N.T., & Shook, G.L. (2011). The Behavior Analyst Certification Board and International Credentialing for Behaviour Analyst, European Journal of Behavior Analysis, 12, 41-47. Sallows, O.G., & Graupner, D.T. (2005). Intensive Behavioral Treatment for Children with Autism Four-Year Outcome and Predictors. American Journal on Mental Retardation, 110, 417-438.
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Teoria e tecniche dell’analisi del comportamento Topografia e funzione nel comportamento verbale: visione Skinneriana e post-Skinneriana
Davide Carnevali Università IULM, Milano IESCUM - Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano, Parma
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Riassunto B.F. Skinner affermò che “Verbal Behavior” (1957) rappresentava la sua più autentica eredità intellettuale, poiché trattava l’analisi dei processi umani ad alto funzionamento, come il linguaggio e il pensiero. Il presente articolo esamina l’analisi del comportamento verbale all’interno della Behavior Analysis a partire dalla concettualizzazione sviluppata da B.F. Skinner nel 1957. Nella prima parte viene introdotta la distinzione tra topografia e funzione all’interno dell’analisi del comportamento in generale e del comportamento verbale in particolare. Nella seconda parte si argomentano gli sviluppi successivi all’analisi skinneriana del comportamento verbale (visione “post-Skinneriana”) con un’ottica di riguardo per la Relational Frame Theory (Hayes, Holmes, Barnes, Roche, 2001), una sofisticata teoria analiticocomportamentale della mente e del linguaggio che anima i più recenti dibattiti sia in ambito teorico che sperimentale. L’articolo si conclude con una trattazione panoramica di tale visione e delle sue implicazioni sia in campo clinico che educativo.
Abstract B.F. Skinner claimed that Verbal Behavior was his intellectual legacy and was meant as an analysis of human higher functioning, including language and thought. The paper reviews the Behavior Analitic approach to the analysis of verbal behaviour starting from the conceptualization developed by B.F. Skinner in 1957. In the first part distinction between topography and function in the analysis of behaviour in general, and particularly of verbal behavior, is introduced. Based on the operant analysis that Skinner sketched in his book, on the distinction made by Skinner himself in the mid ’60s on contingency-shaped and verballygoverned behaviour and on the equivalence literature from the early ’80s of the 20th century, Relational Frame Theory (Hayes, Holmes, Barnes, Roche, 2001) recently elaborated a more sophisticated behaviour analytic theory of the Mind. This theoretical view is fostering new ways of conceptualizing the analysis of verbal behavior (a “post-Skinnerian” vision), animating the most recent theoretical and experimental debate. An overview of this vision and its implication in the clinical and educational field is given in the second part of the paper.
Per contattare l’autore scrivere a: Davide Carnevali E-mail: davide.carnevali@iulm.it
Introduzione ai concetti di topografia e funzione nell’Analisi del comportamento La distinzione fra topografia e funzione di un comportamento permea l’intero corpus teorico e sperimentale dell’analisi del comportamento (Skinner, 1953); è la premessa e la condizione sine qua non da cui partire per rendere possibile e comprensibile qualsiasi studio di matrice comportamentale (Danahoe e Palmer, 1994). La topografia fa riferimento alle proprietà formali di uno specifico comportamento emesso. In analisi comportamentale applicata osservare la topografia di un comportamento significa definire il comportamento in termini oggettivi ovvero poterlo misurare (operazionalizzare). La funzione di un comportamento, invece, fa riferimento alla relazione che intercorre tra quel comportamento (a prescindere dalla specifica topografia con cui si manifesta) e le variabili ambientali (antecedenti e conseguenti) che agiscono in quel dato contesto di osservazione (Catania, 1998). Il livello di analisi utilizzato in psicologia comportamentale per descrivere la realtà fenomenica osservata è quello dell’operante (Skinner, 1953). Un operante è una classe di risposte che condividono le medesime proprietà funzionali: il comportamento è quindi funzione delle stesse variabili contestuali (è funzionalmente identica la relazione che lega quella classe di risposte agli eventi antecedenti e conseguenti). In quest’ottica l’operante non è usato per descrivere risposte unitarie ma per analizzare sequenze di interazioni comportamento-ambiente (Skinner, 1953). Studiare la funzione di un comportamento significa quindi concettualizzare le interazioni organismo-ambiente che rendono possibile il comportamento stesso (Moderato, 2010). Se è vero che per ogni comportamento è sempre possibile individuare specifiche proprietà strutturali/formali, una tale analisi risulterebbe di fatto incompleta: il comportamento, infatti, si sviluppa come processo, è in sé funzione (Darwin, 1859), è dinamico (ongoing), vivo e agito all’interno di un contesto intrinsecamente mutevole (Hayes, 1986; Kantor, 1959). Pertanto, sinteticamente, possiamo affermare che sebbene il comportamento possa essere descritto in modo topografico, la sua effettiva comprensione richiede un’analisi di tipo funzionale. Al fine di cogliere la distinzione fra topografia e funzione del comportamento, Charles Catania (2000) propone la seguente analogia: “i biologi fanno una distinzione fra la fisiologia e l’anatomia. La fisiologia si occupa soprattutto delle funzioni degli organi del corpo, mentre l’anatomia si concentra soprattutto sulla forma e la struttura. La distinzione fra forma e funzione esiste anche nello studio del comportamento. Per esempio, qualcuno a cui interessa il camminare potrebbe studiarne la sua forma esaminando il coordinamento delle gambe fra loro e delle gambe con altre parti del corpo. Lo studio potrebbe scendere fino ai dettagli delle interazioni specifiche fra muscoli oppure potrebbe estendersi alla corsa e ad altre forme di movimento. Alla fine si potrebbe scrivere una grammatica dei movimenti delle gambe che consenta una distinzione fra movimenti possibili e impossibili. Ma una simile grammatica non potrebbe mai dirci quando una persona può passare dalla camminata alla corsa o in quale direzione intenda muoversi”.
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Topografia e funzione nel comportamento verbale: la visione Skinneriana Per ripercorrere il modo in cui la psicologia ha cercato di definire nel corso degli anni il linguaggio, possiamo affermare che sono essenzialmente due le macrocategorie all’interno delle quali le definizioni di linguaggio possono trovare una loro collocazione (Presti, 2010): linguaggio come abilità/capacità di cui l’uomo è dotato (teorie strutturaliste e innatiste che privilegiano il versante della “comunicazione”) e linguaggio come comportamento emesso dall’uomo (teorie funzionaliste che privilegiano il versante dell’“atto”). Le teorie di tipo strutturalista focalizzano le proprie analisi sulle proprietà formali o topografiche del linguaggio (e.g. fonemi, morfemi, lessico, sintassi, grammatica). Il linguaggio viene così analizzato in termini di unità verbali, regole grammaticali costitutive e aree nervose che ne sovraintendono il funzionamento (Chomsky, 1957). All’interno di questo quadro teorico, rimane costante l’interesse per gli elementi strutturali del linguaggio e per il modo in cui il bambino è progressivamente in grado di attivarli durante la crescita e la maturazione (Chomsky, 1995). La psicolinguistica è la branca specifica della psicologia che si occupa di studiare il linguaggio nell’ambito di un modello prettamente cognitivista computazionale (Human Information Processing) e che annovera fra i suoi esponenti di riferimento Noam Chomsky e la sua teoria innatista nota con il nome di Grammatica Generativo-Trasformazionale (1957). Due sono i cardini su cui fanno leva le argomentazioni degli strutturalisti-innatisti: innanzitutto Chomsky parla di “povertà dello stimolo” (Harley, 2001) sostenendo che l’ambiente non è abbastanza ricco di stimoli da giustificare l’acquisizione di comportamenti complessi come il linguaggio; in secondo luogo Chomsky fa appello all’argomentazione della “produttività del linguaggio” o “emergenza”, ovvero alla sua proprietà di formare infinite combinazioni nuove in assenza di training specifici. Di conseguenza l’ipotesi sostenuta è che l’essere umano debba, in qualche modo, essere dotato già dalla nascita di una componente mentale che gli permette di imparare la lingua (Chomsky, 1988). In un’ottica innatista-strutturalista la preesistenza di una facoltà di parola nel cervello (si parla di modulo) diventa quindi la condizione di base affinché la componente sociale del linguaggio possa manifestarsi e quindi evolvere. Per questi motivi gli psicolinguisti d’ispirazione chomskiana ritengono che il bambino apprenda a parlare seguendo un processo simile a quello di chi studia scientificamente una lingua: (a) ascolta suoni e verifica in quali situazioni sono emessi, (b) forma ipotesi sul significato di quel suono, (c) verifica ipotesi utilizzando quel suono in alcune situazioni e (d) conferma o smentisce le ipotesi fatte (Presti, 2010). Secondo i funzionalisti, invece, il comportamento verbale viene progressivamente appreso attraverso le interazioni del bambino con l’ambiente socio-linguistico in cui cresce (Presti, 2010). Skinner, portavoce dell’approccio funzionalista al comportamento verbale, ritiene che il linguaggio sia un comportamento a tutti gli effetti, avente il medesimo status epistemologico degli altri eventi comportamentali. Il linguaggio viene quindi analizzato senza fare riferimento a ipotetiche strutture mentali, ma piuttosto con riferimento ai suoi rapporti funzionali con l’ambiente in cui si verifica. Come ogni altro comportamento, anche il comportamento verbale è governato dai principi di base che regolano i processi di apprendimento (Skinner, 1957); si tratta cioè di un comportamento appreso sotto il controllo funzionale di specifiche variabili ambientali (Skinner, 1953). In Verbal Behavior (1957), Skinner sostiene che il comportamento verbale è una funzione del contesto attuale del parlante e della sua pregressa storia genetica e comportamentale. L’ap-
prendimento del linguaggio, dunque, è un comportamento complesso legato sia alla sopravvivenza (comunicare significa trasmettere ai propri simili conoscenze, informazioni e strategie necessarie all’adattamento) sia allo sviluppo cognitivo e sociale (basato quasi esclusivamente sulla capacità verbale, sulla capacità di costruire relazioni tra colui che ascolta e colui che parla), in un ambiente caratterizzato da nuove e continue variazioni. La comunicazione verbale si configura così come l’espressione comportamentale più complessa, precisa e dettagliata esistente in natura: “nessuna spiegazione del comportamento umano può considerarsi soddisfacente se si tralascia di considerare l’attività verbale dell’uomo” (Skinner, 1957). Un errore comunemente condiviso dai detrattori dell’approccio funzionalista al linguaggio è ritenere che Skinner abbia respinto le classificazioni formali (topografiche) del linguaggio. La sua analisi, invece, non è stata orientata alla ricerca di errori di classificazione formale ma piuttosto a evidenziare il fallimento degli approcci strutturalisti al linguaggio nel cercare le cause o la funzione di tali classificazioni. Come segnala Catania (2000), la descrizione formale delle proprietà del linguaggio non dice nulla in merito alla funzione del linguaggio stesso. In analisi del comportamento si studia il comportamento verbale perché interessa quello che facciamo con le parole. Le parole assumono molte forme: possono essere pronunciate, scritte o espresse con dei segni. Si prendono in considerazione tutte queste forme come forme del comportamento verbale. Viviamo in mezzo alle parole, quindi è difficile considerarle un comportamento: “Quando parliamo di ciò che facciamo con le parole, probabilmente diciamo che le usiamo per cercare di comunicare delle cose: informazioni o sentimenti o idee o emozioni o pensieri. Ma facciamo qualcosa di ancor più fondamentale: le parole ci danno un modo molto efficace per influenzare il comportamento altrui” (Catania, 2000). È sulla base di queste riflessioni che i comportamentisti radicali affermano che la funzione centrale del comportamento verbale è proprio quella di modificare il comportamento di un individuo verbalmente competente che funge da ascoltatore (Catania, 1986): tale funzione viene definita controllo istruzionale (rule governance). La priorità assegnata al versante dall’“atto” ha portato i comportamentisti a privilegiare l’elemento interazionale rispetto a quello strutturale/topografico, analizzando così il comportamento verbale in termini di funzione (Presti, 2010). Per questo motivo la parola stessa, all’interno di un frame funzionalista, è solo una delle tante topografie possibili per definire un comportamento come verbale, ma non è un elemento indispensabile (il comportamento verbale può ad esempio far uso di segni) e, viceversa, la presenza di parole in assenza di ascoltatori non è definibile come comportamento verbale. A questo proposito va sottolineato che per i comportamentisti l’elemento di distinzione fra comportamento verbale e comportamento non verbale (Skinner, 1957) risiede proprio nella mediazione sociale delle conseguenze per le risposte emesse. Le conseguenze non sono quindi funzione diretta dell’ambiente: è solo attraverso la mediazione di altre persone (che fungono da ascoltatori) che il nostro comportamento verbale ha efficacia, sia come strumento di comunicazione, che come strumento di modificazione del comportamento di chi ascolta (Presti, 2010). Ovviamente, fondamentale, è anche la funzione (contesto) esercitata dalla comunità verbale cui appartengono chi parla e chi ascolta, che deve aver modellato il comportamento verbale e non verbale di quest’ultimo affinché possa rispondere adeguatamente, cioè fornire le opportune conseguenze agli stimoli prodotti da colui che parla (Moderato, 1991).
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In Verbal Behavior (1957) Skinner fa una disamina dettagliata degli operanti alla base del comportamento verbale e ne analizza attentamente il rispettivo profilo funzionale (funzione filogenetica e ontogenetica). Individua così le principali classi (unità funzionali) del comportamento del parlante: Mand, Tact, Echoic, Intraverbal, Textual, Transcription, Autoclitic Relation. Il mand è l’unico operante verbale che è controllato dalla motivazione (Motivating Operation - Michael, 1982) del parlante e che ha come caratteristica quella di specificare le conseguenze di rinforzo per chi ascolta. Tipicamente è il primo passo nell’insegnamento del linguaggio poiché attraverso il mand il bambino impara l’equazione “parlo-ottengo” e ciò gli conferisce un grosso potere di controllo sull’ambiente sociale. Il tact (“contact with physical environment”) è un operante verbale sotto il controllo funzionale di uno stimolo discriminativo non verbale (contattato sensorialmente), che produce da parte dell’ascoltatore un rinforzatore condizionato generalizzato. L’operante ecoico è caratterizzato da una relazione funzionale in cui il comportamento verbale di un individuo è stimolo discriminativo per il comportamento verbale di un altro individuo (corrispondenza punto a punto) e in cui lo stimolo e la risposta condividono le stesse caratteristiche morfologiche; la conseguenza è, anche in questo caso, un rinforzatore generalizzato. L’ecoico è alla base dell’acquisizione del linguaggio. La prima cosa che insegna l’ecoico è la reciprocità (lo stimolo diventa risposta e viceversa): in tal senso può legittimamente essere considerata come la prima forma di risposta derivata (Hayes, Barnes-Holmes e Roche, 2001; Presti, 2010). L’operante intraverbale è una relazione in cui l’evento antecedente è uno stimolo discriminativo di tipo verbale, che, diversamente dall’ecoico, non presenta alcuna corrispondenza punto a punto tra stimolo discriminativo e risposta emessa né alcuna corrispondenza di tipo formale. In altre parole, il comportamento verbale di chi parla evoca il comportamento verbale di chi ascolta. Tipicamente sociale, l’intraverbale può essere rappresentato in termini di “linguaggio di conversazione”. Una relazione autoclitica viene identificata quando è il comportamento stesso emesso dal parlante che funge da stimolo discriminativo od operazione motivazionale per un addizionale comportamento verbale da parte del parlante medesimo (si basa sulla capacità di discriminare verbalmente il proprio comportamento in relazione all’ambiente circostante). La discriminazione del proprio comportamento è alla base delle verbalizzazioni che vengono incluse nel concetto di consapevolezza e che riguardano ad esempio stati interni, sensazioni, ma anche la ricombinazione di caratteristiche elementari degli stimoli come ad esempio avviene nel caso della grammatica (discriminazione verbale del proprio comportamento verbale). Per questi motivi, gli autoclitici sono stati definiti operanti verbali complessi (o di ordine superiore) e costituiscono secondo diversi studiosi “l’anticamera del pensiero” (Catania, 1980; Sundberg, 2007).
La visione post-skinneriana: un approccio funzionale agli eventi verbali A partire dalla fine degli anni ’80, alcuni studiosi di analisi del comportamento (Hayes, 1989), riprendendo e sviluppando un programma di ricerca che si rifaceva al fenomeno comportamentale noto come “classi di equivalenza”, scoperto da Sidman e Tailby nel 1982 (i processi di equivalenza dello stimolo sono alla base delle corrispondenze arbitrarie che caratteriz-
zano il linguaggio e che vengono insegnate, mantenute e apprese grazie alla comunità verbale di riferimento), riscontrarono l’esistenza di alcuni aspetti della funzione stimolo che non erano mai stati completamente spiegati dal concetto di operante discriminato semplice skinneriano (Skinner, 1957) e che dunque necessitavano di essere ampliati e approfonditi per includere relazioni verbali più complesse (Presti, 2010). Per offrire un inquadramento teorico dei risultati emersi dalle loro ricerche e da quelle che seguirono, verso la fine degli anni ’80 uscì la prima versione della teoria contestualista-funzionale del linguaggio e della cognizione umana nota con il nome di RFT, Relational Frame Theory (Hayes, Barnes-Holmes e Roche, 2001). I teorici dell’RFT hanno cercato di mettere in evidenza quelli che ritengono essere i limiti dell’analisi skinneriana del comportamento verbale (Hayes, Fox, Gifford, Wilson, Barnes-Holmes e Healy, 2001): 1. La definizione di stimolo verbale non è funzionale. 2. Skinner ritiene che il comportamento dell’ascoltatore non sia un operante verbale. Rispetto al primo punto, dire che uno stimolo verbale è il prodotto di un comportamento verbale significa non definire lo stimolo in questione in termini funzionali, ovvero sulla base della sua storia interazionale, ma classificarlo invece sulla base della sua fonte di provenienza (una definizione quindi chiaramente topografica). D’altra parte, se si definisce lo stimolo verbale come semplice antecedente non si dà conto della specificità di questo stimolo, assimilandolo a qualunque altro stimolo discriminativo. Lo stimolo verbale è uno stimolo antecedente, ha funzioni discriminative, ma presenta anche alcune caratteristiche peculiari: è arbitrario (in quanto verbale), è sociale (anche se rimane da definire scientificamente che cosa significa sociale) e soprattutto ha valenza contestuale. Il fatto di non definire lo stimolo verbale in termini funzionali crea, a cascata, diversi problemi all’interno della tassonomia degli operanti verbali descritti da Skinner, poiché molti di questi sono proprio definiti dalla relazione tra una risposta verbale e uno stimolo verbale antecedente (in quest’ottica si salverebbe solo il mand come operante verbale funzionalmente caratterizzato). Seguendo queste premesse, è possibile quindi spingersi a un’ulteriore affermazione altrettanto problematica: la definizione formulata da Skinner di comportamento verbale non è completamente funzionale. A questo proposito Skinner stesso aveva osservato che la sua definizione di comportamento verbale era estensibile anche al comportamento degli esseri non umani (Skinner, 1957): include infatti il comportamento degli animali da laboratorio quando vengono erogati gli stimoli di rinforzo da uno sperimentatore esterno (che media socialmente l’erogazione delle conseguenze). Seguendo questa linea di ragionamento, tuttavia, quando le contingenze di rinforzo sono progettate ed erogate da un dispositivo meccanico, quello che prima era definito come comportamento “verbale”, in quest’ultima circostanza non lo sarebbe più; verrebbe infatti a mancare la mediazione sociale delle conseguenze da parte di un interlocutore (l’ascoltatore). Eric Fox (2009) offre un esempio chiarificatore di come la definizione skinneriana del comportamento verbale sia di tipo topografico e non funzionale introducendo due scenari all’apparenza identici, ma con sottili e significative differenze formali. In un primo scenario, Sarah è una ragazza che si trova in un bosco e a un certo momento sente un uccello lontano fare il suono “cucù” (stimolo discriminativo non verbale); la ragazza risponde “orologio”. Dal punto di vista dell’analisi skinneriana del comportamento verbale, in questa situazione, ci troviamo in presenza di un “tact”. In un secondo scenario, Sarah è nel bosco e quando sente suo fratello
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lontano dire “cucù” (secondo la definizione skinneriana ci troviamo in presenza di uno stimolo verbale), dice “orologio”. Dal punto di vista dell’analisi skinneriana, in questa seconda circostanza, ci troviamo in presenza di un Intraverbale. Appare chiaro come la distinzione funzionale tra stimoli verbali e stimoli non verbali diviene di enorme importanza per affrontare un’analisi realmente funzionale (e non topografica) del comportamento verbale e la definizione proposta da Skinner si dimostra suscettibile di molteplici critiche (Barnes-Holmes e Hayes, 2003). Per quanto concerne il secondo punto, Skinner definisce il comportamento verbale come un comportamento che si rafforza attraverso la mediazione di un altro organismo che è addestrato da una comunità verbale di riferimento rispetto a come mediare alla corretta erogazione di rinforzatori. Hayes, Blackledge e Barnes-Holmes (2001) sostengono che questa definizione è troppo ampia, dal momento che molti comportamenti sono socialmente mediati in questo modo e la definizione non consente di distinguere il comportamento verbale da qualsiasi altro comportamento di tipo sociale. I teorici dell’RFT sostengono che la definizione di comportamento verbale data da Skinner (1957) non sia funzionale perché include la storia comportamentale di un altro organismo (l’ascoltatore) senza analizzarla nello specifico (Hayes, Blackledge e Barnes-Holmes, 2001): Skinner non analizza infatti gli operanti che fanno parte del comportamento dell’ascoltatore (Pliances, Tracks, Augmentals). L’analisi di Skinner parte infatti dal presupposto che esista un ascoltatore che abbia già sviluppato un comportamento atto a rinforzare il parlante. Il comportamento dell’ascoltatore è stato anche definito Comportamento governato da regole (Skinner, 1969; Zettle e Hayes, 1982) e nella regola il parlante diviene ascoltatore di sé stesso (subentra pertanto la mediazione verbale dell’ascoltatore). Infine, la ricerca più attuale ha raccolto ormai un solido corpus di conoscenze che concordano nel ritenere l’apprendimento del comportamento di ascoltatore basato sull’acquisizione di relazioni arbitrarie fra stimoli (Chase e Danforth, 1991); tale apprendimento non avviene sulla base di operanti discriminati semplici (modello operante skinneriano), ma si realizza in base a discriminazioni condizionali multiple e grazie all’acquisizione di risposte relazionali derivate (Derived Relational Responding) come quelle che stanno alla base dei processi di equivalenza dello stimolo e che vengono analizzate in modo articolato e approfondito nell’ambito dell’RFT.
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Dizionario disordinato ma ragionato Metodologia sperimentale a soggetto singolo
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Per contattare l’autore scrivere a: Francesco Pozzi E-mail: pozzi.francesco@gmail.com
La scienza moderna ha sviluppato diverse metodologie sperimentali che si adattano allo studio di differenti oggetti e situazioni. Al fine di mantenere un approccio scientifico allo studio dei fenomeni, appropriate metodologie (così come strumenti di misurazione e tecnologie) sono state messe a punto e utilizzate da ciascuna disciplina. L’analisi del comportamento, avendo come proprio oggetto di studio la relazione fra il comportamento degli organismi viventi e le condizioni ambientali, ha dovuto sviluppare e raffinare un metodo d’indagine assai peculiare. Come spiega B. F. Skinner: Una scienza del comportamento che si occupi soltanto del comportamento dei gruppi sarà probabilmente poco utile per la comprensione del caso singolo. Ma una scienza può anche occuparsi del comportamento dell’individuo, e il suo successo in un simile caso deve essere valutato in termini di risultati piuttosto che sulla base di prese di posizione aprioristiche1. (1953, p. 19) La necessità di affrontare lo studio del comportamento dell’individuo ha dunque portato allo sviluppo di una metodologia di ricerca originale (Kazdin, 1982; Catania, 1992). La metodologia sperimentale a soggetto singolo rappresenta la punta di diamante della ricerca scientifica in analisi del comportamento ed è l’approccio di ricerca che più di ogni altro ha contribuito a costruirne il corpus di conoscenze attuali. L’impiego della ricerca a soggetto singolo è strettamente connesso, fin dall’inizio, alle situazioni di laboratorio: L’ambiente controllato del laboratorio ci consente di osservare una cosa alla volta. Organizziamo le condizioni così da essere consapevoli di ciò che entra nella situazione sperimentale; se facciamo attenzione, possiamo escludere elementi distraenti che potrebbero altrimenti offuscare i processi che intendiamo studiare2. (Catania, 1992, p. 4) Ma l’adozione della metodologia a soggetto singolo non si limita al laboratorio. Essa ha infatti caratterizzato la ricerca scientifica anche in ambito applicativo, nell’affrontare condizioni ambientali molto più complesse rispetto a quelle di una camera operante (skinner box). Per definire con sufficiente chiarezza questa metodologia d’indagine conviene allora, come suggerisce Chase (2008), mettere in luce le caratteristiche che la distinguono e al tempo stesso ne permettono il confronto con altre metodologie adottate in Psicologia. Posto che la ricerca a soggetto singolo si caratterizza per l’analisi sperimentale e intensiva di un soggetto individuale (Chase, 2008; Cooper, Heron e Heward, 2007), essa va distinta innanzitutto dalla metodologia dei case studies, che sono anch’essi indirizzati a studiare intensivamente il caso di un individuo, ma non prevedono la manipolazione delle variabili (condizioni) sperimentali.
“A science of behavior which concerns only the behavior of groups is not likely to be of help in our understanding of the particular case. But a science may also deal with the behavior of the individual, and its success in doing so must be evaluated in terms of achievements rather than any a priori contentions.”
1
“The controlled laboratory environment enables us to look at one thing at a time. We arrange circumstances so that we know what goes into an experimental situation; if we are careful, we can exclude the distractions that might otherwise obscure the processes we wish to study.”
2
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Un altro paragone può essere fatto con la ricerca correlazionale, anche questa finalizzata a mettere in luce le possibili relazioni fra variabili. Gli studi correlazionali richiedono però, tipicamente, un ampio numero di soggetti, e non si pongono l’obiettivo di avere controllo sperimentale sulle variabili, ma soltanto di registrarne l’interrelazione. Il legame che descrivono è più debole: la variabile A può influenzare la variabile B, B può influenzare A, oppure X può influenzarle entrambe. Gli esperimenti su gruppi condividono con la ricerca a soggetto singolo sia il controllo sperimentale, sia la ricerca di relazioni funzionali fra le variabili considerate. Tuttavia, i due approcci differiscono in un aspetto fondamentale: mentre gli esperimenti su gruppi utilizzano il campionamento e i disegni sperimentali con gruppi di controllo (Randomized Controlled Trials o RCT) per limitare le minacce alla validità dei risultati, la ricerca a soggetto singolo si concentra sul rapporto fra un singolo individuo e le variabili ambientali con le quali interagisce, e la variabilità viene controllata tramite la manipolazione diretta delle variabili in gioco lungo le fasi dell’esperimento. Proprio l’aspetto del contatto diretto con oggetti ed eventi è ciò che maggiormente contraddistingue la ricerca a soggetto singolo: Sottolineare l’importanza della sperimentazione nella scienza significa rendere omaggio al nostro più volte ripetuto principio intercomportamentale secondo cui la scienza avanza sulla base di contatti con oggetti ed eventi3. (Kantor, 1953, p. 101) Un contatto diretto con il mondo sensibile che non è senz’altro confinabile alla sola esperienza dello scienziato sperimentatore: La sperimentazione, intesa come niente più che una forma avanzata di contatto con oggetti ed eventi, si ritrova in tutta la cultura umana. Possiamo in particolar modo sperare di seguirne lo sviluppo a partire dai Greci ed i loro predecessori, come progenitori della nostra attuale scienza e tecnologia4. (ibid., p. 101) Caratteristica distintiva della sperimentazione a soggetto singolo è il rapporto immediato (cioè diretto e non mediato) con la situazione sperimentale e le variabili che la contraddistinguono. Non a caso essa è stata, fin dall’inizio, la metodologia privilegiata dell’analisi sperimentale del comportamento (Michael, 1993): il principale oggetto d’interesse dell’analisi del comportamento è proprio l’interazione fra il comportamento degli organismi e le condizioni ambientali, un oggetto di studio di straordinaria complessità e con particolari difficoltà di accesso (spaziali e temporali) per l’osservatore5. Per concentrare la massima attenzione sui fe-
3
“To emphasize experimentation in science is to pay a signal tribute to our constantly stressed interbehavioral principle that science proceeds on the basis of contacts with things and events.”
4
“Experimentation being but an expert type of contact with objects and events can easily be traced throughout human culture. Especially we might hope to follow its development through the Greeks and their predecessors as the progenitors of our own science and technology.”
5
Il comportamento è un fenomeno che per definizione avviene nel passato, in quanto frutto di una storia di apprendimenti dei quali possiamo osservare soltanto l’esito finale. Per questa ragione l’analisi del comportamento può essere considerata, al pari della biologia evoluzionista, una scienza storica (Donahoe, Palmer, 2004).
nomeni comportamentali, da sempre in questo campo di studi sono stati privilegiati approcci metodologici che consentissero la maggior vicinanza con i fenomeni stessi e che consentissero di concentrare le energie dei ricercatori sullo studio e sulla manipolazione delle variabili. Questa esigenza di ricerca è ben espressa da J. L. Michael quando, con atteggiamento critico, ridimensiona l’importanza delle tecnologie statistiche, in particolare di quelle inferenziali, nella ricerca a soggetto singolo: Un’altra non desiderabile eventualità [in conseguenza all’adozione di strumenti di statistica inferenziale, n.d.r.] è che una gran quantità di tempo verrà speso per imparare e interagire con lo strumento di giudizio, piuttosto che in contatto con la situazione sperimentale stessa. Nel lavorare con l’operante abbiamo già una forte fonte di distrazione dal nostro “obiettivo” primario, poiché molti sperimentatori trovano spesso, almeno temporaneamente, maggior soddisfazione nello sperimentare con la loro attrezzatura per il controllo del comportamento - elettromeccanica, fisica e più recentemente informatica - che nello sperimentare con il comportamento6. (1993, p. 186) Il controllo della variabilità e delle sue fonti (ossia delle variabili intervenienti che, per definizione, tendono a sfuggire allo sperimentatore) è un obiettivo primario di tutta la ricerca sperimentale. Nel caso della ricerca a soggetto singolo, tale controllo è ottenuto (o si mira a ottenerlo) non per mezzo di strumenti statistici, quali la randomizzazione del campione, ma tramite l’individuazione e manipolazione diretta di tutte le variabili presenti nel campo spaziale e temporale di studio. È dunque compito dello sperimentatore quello di individuare e descrivere tali variabili, acquisirne il controllo e manipolarle adeguatamente. Come sottolinea Michael: L’interazione prolungata e intensa con l’oggetto di studio al fine di controllare sperimentalmente le fonti irrilevanti di variazione ha costituito probabilmente una ricca fonte di idee per ulteriori sperimentazioni7. (1993, p. 183) Per raggiungere l’obiettivo del controllo sperimentale è infatti necessaria una grande esperienza e dimestichezza con l’oggetto dello studio sperimentale. Questa dimestichezza può essere raggiunta soltanto con la pratica, con il prolungato contatto con i fenomeni che si stanno studiando: anche il tempo speso a osservare e interagire con l’oggetto (il comportamento) studiato diviene quindi una caratteristica peculiare e caratterizzante della ricerca a soggetto singolo. Tutti i disegni sperimentali definiti within-subjects, ovvero in cui il comportamento di uno stesso soggetto viene misurato in situazione di trattamento e di controllo, ricadono sotto l’etichetta di ricerca a soggetto singolo. Tali disegni sperimentali possono però variare notevolmente nel modo in cui sono costruiti, in cui vengono prese le misure e viene somministrato il tratta-
6
“Another undesirable possibility is that a good deal of time will be spent in learning about and interacting with the judgmental aid, rather than in contact with the experimental area itself. In the operant area we already have a powerful source of distraction from our primary “target”, in that many experimenters often find it at least temporarily more satisfying to experiment with their behavior control equipment - electromechanical, solid state, and more recently on-line computer - than to experiment with behavior.”
7
“The prolonged and intense interaction with the subject matter undertaken in order to experimentally control irrelevant sources of variation probably constituted a rich source of ideas for further experimentation.”
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mento. Queste variazioni dipendono dalle esigenze applicative dell’esperimento, cioè da quali comportamenti e quali soggetti sono oggetto d’indagine. Sulla base di questi criteri si possono elencare, quale breve rassegna dei disegni di ricerca più utilizzati (Chase, 2008; Cooper, Heron e Heward, 2007): •• Reversal e Alternating treatment designs, che mirano a garantire l’assenza di variabili intervenienti tramite la ripetuta applicazione e cessazione del trattamento (tipica dei disegni A-B-A-B) o l’applicazione di trattamenti diversi, intervallata da fasi di non applicazione;
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Figura 1. Esempio di Alternating treatment design
•• Multiple baseline designs, che consistono nella registrazione di diversi baseline che precedono la somministrazione del trattamento, e che possono essere misurati e confrontati fra diversi soggetti, setting o comportamenti, per garantire l’assenza di influenze reciproche;
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Figura 2. Esempio di Multiple baseline design
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•• Changing criterion designs, nei quali la somministrazione del trattamento procede in parallelo con una variazione del criterio in base a cui misurare il comportamento del soggetto, particolarmente adatti a comportamenti non reversibili.
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Figura 3. Esempio di Changing criterion design
I diversi disegni sperimentali qui elencati rappresentano la risposta a esigenze sperimentali di tipo applicativo, cioè situazioni in cui la ricerca sperimentale intende rivolgersi a condizioni naturali e problemi concreti dell’analisi comportamentale applicata. La tradizione di ricerca nell’analisi sperimentale (laboratoriale) del comportamento si concentra invece maggiormente sulla manipolazione diretta della situazione e delle variabili sperimentali, impegnando minori energie nello studio di modelli per verificare l’assenza di fonti di variabilità impreviste: Quando una variabile dipendente non è sottoposta a buon controllo - quando c’è considerevole variabilità non spiegata sebbene la variabile indipendente oggetto di studio abbia un valore costante - di solito non è necessario procedere con le altre manipolazioni programmate in precedenza. Ci si può impegnare ulteriormente per ottenere una variabile dipendente più stabile, o per identificare ed eliminare alcune delle fonti di variabilità non controllata8. (Michael, 1993, p. 185-186)
8
“When a dependent variable is not under good control - when there is considerable unexplained variability even though the independent variable being studied is at a constant value - it is not usually necessary to go ahead with the other planned manipulations. Further efforts can be made to obtain a more stable dependent variable, or to discover and eliminate some of the sources of uncontrolled variation.”
Bibliografia Catania, A.C. (1992). Learning - Third Edition. New Jersey: Prentice Hall. Chase, P.N. (2008). Experimental Reasoning. Slide fornite nell’ambito del workshop “Metodologia della ricerca e analisi del comportamento” - www.iescum.org Cooper, J.O., Heron, T.E., & Heward, W.L. (2007). Applied Behavior Analysis - Second Edition. New Jersey: Pearson Prentice Hall. Donahoe, J.W., & Palmer, D.C. (2004). Learning and Complex Behavior. Richmond: Ledgetop Publishing. Kantor, J.R. (1953). The Logic of Modern Science. Chicago: The Principia Press. Kazdin, A. (1982). Single-Case Research Designs. New York: Oxfor University Press. Michael, J. L. (1993). Concepts & Principles of Behavior Analysis. Kalamazoo: The Association for Behavior Analysis. Skinner, B.F. (1953). Science and Human Behavior. New York: The Free Press. Skinner, B.F. (1972). Cumulative Record - Third Edition. New York: Appleton-Century-Crofts
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