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“La politica della morte“ /Inserto speciale "Il Coraggio delle proprie idee"

“LA POLITICA DELLA MORTE”: INTERESSI POLITICI ED ECONOMICI DIETRO LE UCCISIONI DI MIGLIAIA DI DIFENSORI DEI DIRITTI UMANI

di Daniela Brignone

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Secondo lo scienziato del Green Theory Thomas Homer-Dixon, le risorse ambientali sono una delle più frequenti cause di conflitto mondiale tra le nazioni. Le più grandi ingiustizie nel mondo in tale ambito sono generate da poche comunità privilegiate intente ad appropriarsi di gran parte di tali risorse che le sfruttano per il loro avanzamento tecnologico a scapito delle nazioni in via di sviluppo.

La green theory, fautrice della non violenza, pone l’accento sulla relazione tra ambiente e globalizzazione, quest’ultima come portatrice di un afflusso di materiale e persone, di capitali, che stravolgono i sistemi locali senza alcun controllo da parte degli enti governativi, spesso compiacenti.

Come sostiene l’economista J.K. Galbraith, l’economia si fonda sulla comprensione del rapporto tra la gente e la terra. Ma ovunque nel mondo si moltiplicano i casi in cui si verifica la profonda spaccatura tra la mancata comprensione e il prevalere degli interessi, in nome di un potere che destabilizza ed esercita pressioni, che mortifica e detta regole. La salvaguardia della terra e del lavoro spesso sono in contrasto con le leggi dell’imprenditorialità e del capitale.

L’assenza di democrazia, di eticità e di trasparenza nelle procedure della gestione dei beni ambientali provoca interessi lesivi nei confronti dei più deboli e di chi denuncia le distorsioni che alimentano forme più o meno organizzate di protesta da parte di attivisti locali, prontamente represse anche in modo violento. Honduras, Nicaragua, Brasile sono i Paesi dove più forte è la repressione per queste cause. Il crimine è la pratica più diffusa per il controllo dei territori.

I giornalisti Paola Totaro e Mathew Ponsford, lavorando fianco a fianco con le organizzazioni umanitarie, ne hanno esaminato i casi evidenziandone gli elementi comuni che hanno condotto al sospetto di una connessione tra queste morti e la lotta per la difesa della propria terra, denunciandone l’entità e gli episodi nel progetto giornalistico diretto dalla Totaro “The politics of death” contenuto all’interno del sito www.thisisplace.org (1) che raccoglie i reportage da tutto il mondo prodotti dalla Thomson Reuters Foundation. Ma non tutti i casi vengono segnalati. A molti di questi, infatti, non viene dato risalto o vengono liquidati come morti accidentali o come regolamento di conti. Spesso sono i sicari a fare il lavoro sporco: ingaggiati dalle organizzazioni, sono mercenari o bande criminali che hanno in mano la vita di chi il potere non ce l’ha. Totaro e Ponsford la definiscono necropolitica, termine coniato nel 2003 dal filosofo Achille Mbembe, che traccia i confini del potere di uccidere, di decidere della vita altrui e che, nei tempi odierni, ha sviluppato innumerevoli modalità di azioni (dalla persecuzione, all’apartheid, alla violenza politica e alla morte) per assoggettare chi lotta per la propria dignità e per la propria terra.

Nel 2016 si sono contati più di 1.000 cittadini di 25 paesi uccisi, aggrediti, imprigionati o intimiditi mentre combattevano per i propri diritti. Questi numeri, destinati ad aumentare, hanno destato l’attenzione di organizzazioni per i diritti umani che hanno iniziato a svolgere indagini per identificare le uccisioni avvenute per tali cause. Purtroppo su alcuni di esse cala il silenzio: spesso la polizia non apre nemmeno l’indagine ed è arduo ricondurre ogni crimine ad una matrice comune. La paura di ritorsioni blocca la ricerca dell’intervento da parte delle forze dell’ordine. In alcuni casi sono gli stessi funzionari governativi ad essere coinvolti in un sistema di corruzione che non lascia scampo alle popolazioni indigene. “Nella grande maggioranza dei casi documentati nel 2016, le uccisioni sono state precedute da avvertimenti, minacce di morte e intimidazioni che, quando sono state segnalate alla polizia, sono state regolarmente ignorate”, riporta Andrew Anderson, direttore esecutivo di Front Line Defenders, l’organizzazione irlandese che si occupa della protezione dei difensori dei diritti umani.

Tra i casi emersi quello dell’attivista Berta Caceres in Honduras, uccisa perché protestava contro la costruzione di una diga che avrebbe comportato lo sfollamento di centinaia di persone. Per la sua attività nel 2015 le fu attribuito il premio Goldman, diventando un punto di riferimento per chi continua a soffrire per i soprusi. Ma in Honduras si protesta anche per le miniere e per i metodi distruttivi usati in agricoltura che minacciano l’habitat, oltre che la sopravvivenza dei popoli indigeni. Il giudice Celedonia Zalazar Point è stata recentemente assassinata insieme al marito dai coloni che terrorizzano i territori indigeni del Nicaragua per salvaguardare i propri interessi illeciti legati all’agricoltura, all’allevamento del bestiame e all’attività mineraria. Tanti casi, migliaia, in paesi dove le pressioni e la corruzione regnano sovrani e dove la gente vive nella paura. In Messico sono tante le persone rapite perché oppongono resistenza alla distruzione delle foreste. Questi hanno imparato a difendersi contro i cartelli della droga che sfruttano il suolo in modo illecito per la coltivazione di avocado minacciando la sopravvivenza dei suoi abitanti. In Kenya gli sfratti forzati sono frequenti: la gente è cacciata fuori casa per consentire la realizzazione di una strada che attraversi la loro proprietà.

E’ gente che si oppone allo sfruttamento del proprio territorio e all’abolizione delle proprie tradizioni contro la distruzione operata da organismi finanziati da poteri forti dell’economia che promuovono un progresso volto ad annientare un ecosistema che le popolazioni tentano disperatamente di preservare. E’ gente che, sradicata dalla propria vita, dalle proprie abitudini e tradizioni per un mero fine economico, si aggrappa saldamente a quella terra trasmessa dagli avi, ai pochi beni faticosamente accumulati, perché sa che lontano da essa non avrà i mezzi per sopravvivere. Il trasferimento forzato delle popolazioni indigene attua uno sradicamento fisico e psicologico che mina il senso di sicurezza delle comunità che nella propria terra avevano trovato il luogo ideale per abitare. Per sopravvivere, in altri luoghi, sono costrette ad adattarsi a lavori differenti e spesso pericolosi come quello all’interno delle miniere e nelle dighe che generano la morte dell’anima, prima ancora che fisica.

E’ gente che combatte per difendere i territori la cui ricchezza di materie prime scatena gli appetiti degli investitori: diamanti, oro e argento in Africa, miniere di carbone in India e in Bangladesh, legni preziosi in America Latina e fertili terreni agricoli dell’Asia sudorientale. Le riserve dei metalli utilizzati nelle nuove tecnologie informatiche e nella costruzione di armi, quali il litio, il cadmio, il cobalto e il rodio stimolano l’avidità in nome della quale è concessa qualunque distruzione o omicidio. In particolare, l’approvvigionamento del cobalto, utilizzato per lo stoccaggio di energia, ha fatto emergere lo sfruttamento di oltre 100.000 uomini che lavorano nelle miniere spesso a mani nude o con l’ausilio di piccoli strumenti. I tentativi di ribellione da parte di queste comunità sfociano in forme di attivismo preoccupanti per i governi e gli oppositori vengono segnalati.

Le ONG si ritrovano da sole in questa battaglia, spesso in balia degli eventi e dei criminali. Il percorso per sradicare questo sistema è ancora lungo. Sicuramente “non esistono luoghi sicuri al mondo per i difensori dei diritti nel periodo storico in cui viviamo”, secondo Michel Forst, relatore speciale per le Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani ed ex direttore generale di Amnesty International. Quel che è certo è che grazie al lavoro capillare svolto a livello giornalistico e dalle ONG in tutto il mondo si inizierà a considerare il fenomeno con grande attenzione.

Per approfondimenti: http://www.thisisplace.org/ http://news.trust.org/

(1) - http://www.thisisplace.org/shorthand/politics-of-death/

Marcia di protesta a Tegucigalpa - Congo

Pescatori in Brasile

Minatore lavora al Tilwizembe

Manifestanti e capi indigeni a Londra

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