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America Latina: il rischio di difendere /Inserto speciale "Il Coraggio delle proprie idee"
AMERICA LATINA: IL RISCHIO DI DIFENDERE
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di Ramello e Soro / Coord. America Latina
Difendere i diritti umani è estremamente pericoloso in molti paesi dell’America Latina. Amnesty International registra costantemente omicidi, sequestri, minacce di morte, intimidazioni e aggressioni nei confronti di giornalisti, operatori della giustizia, sindacalisti e attivisti per diritti umani. L’obiettivo: ridurli al silenzio.
Alcuni gruppi di difensori sono particolarmente vulnerabili ed esposti a gravi rischi di rappresaglie: coloro che difendono i diritti legati alla terra e all’ambiente, i diritti delle popolazioni indigene, i diritti delle donne e delle bambine, delle persone LGBTI, e i diritti dei migranti. Gli attivisti che appartengono a comunità storicamente emarginate sono ancora più a rischio essere vittima di violenza, di subire discriminazione a causa del genere, etnia od orientamento sessuale.
E’ da sottolineare come, negli ultimi anni, in America Latina siano aumentate in modo preoccupante le violazioni dei diritti umani legate a conflitti ambientali e per la difesa della terra, in opposizione a grandi progetti di sviluppo e attività estrattive da parte di imprese multinazionali. Le aggressioni e gli omicidi di attivisti ambientali rappresentano una percentuale molto elevata: secondo l’organizzazione Global Witness, nel 2015 nel mondo sono stati assassinati almeno 185 attivisti dell’ambiente e difensori della terra e di questi 122 sono stati uccisi in America Latina, pari a circa il 70% degli omicidi documentati. (1)
I passi avanti nelle indagini sulle aggressioni nei confronti dei difensori sono sempre scarsi e, in ogni caso, insufficienti ad assicurare i responsabili alla giustizia. Questo contesto di impunità cancella ogni possibilità che arrivi in modo forte alla società il messaggio che la violenza contro i difensori dei diritti umani non sarà tollerata. Al contrario, negli ultimi anni, si è registrato un aumento dell’uso indebito del sistema giudiziario per intimidire e reprimere la difesa dei diritti umani in tutta la regione e sono in allarmante aumento azioni di diffamazione e di criminalizzazione nei confronti dei difensori e delle organizzazioni per i diritti umani.
La campagna “Coraggio” (2), lanciata da Amnesty International, evidenzia come sempre più governi attaccano gli attivisti che cercano di difendere i diritti altrui e che si oppongono agli interessi di gruppi politici, gruppi armati e grandi imprese.
In un panorama abbastanza sconfortante, iniziamo la carrellata su alcuni casi di difensori dei diritti umani in America Latina con una notizia positiva: il leader comunitario e difensore dei diritti umani colombiano Leyner Palacios Asprilla ha vinto il Global Pluralism Award 2017, riconoscimento assegnato dal canadese Global Centre for Pluralism. Con la sua lotta per i diritti delle vittime del conflitto colombiano, durata oltre 20 anni, ha dato voce alla popolazione di Bojayá, nel dipartimento di Chocó, una delle zone più povere e remote e della Colombia.
Le comunità locali, principalmente afrodiscendenti e amerindie, storicamente fra le più emarginate del Paese, sono state esposte a decenni di violenza e sfruttamento da parte della guerriglia da un lato e i paramilitari dall’altro, anche a causa del disinteresse del governo. Nel Chocó vi sono stati più di 15.000 morti durante i 52 anni di conflitto interno della Colombia. Nel maggio del 2002, gli abitanti di Bojayá, si sono ritrovati nel mezzo di uno scontro tra un gruppo paramilitare (AUC) e i guerriglieri delle FARC. La mattina del 2 maggio, quando i membri della comunità cercavano di rifugiarsi in una chiesa presso i missionari agostiniani, l’AUC occupò una scuola adiacente, usando i residenti come scudo umano. A seguito di ciò, le forze del FARC cominciarono a bombardare la chiesa, uccidendo 79 persone, tra cui 48 neonati e bambini. Uno dei sopravvissuti era Leyner Palacios Asprilla, che scoprì che 32 dei suoi familiari erano stati uccisi.
Oltre 10 anni dopo, nel 2014, Leyner ha fondato il comitato per i diritti delle vittime di Bojayá, che rappresenta 11.000 vittime del conflitto colombiano. Da secoli, a causa della loro povertà e dell’isolamento, le comunità del municipio di Bojayá non avevano voce; ciascuna agiva in modo indipendente, rappresentando solo sé stessa davanti al governo, alle FARC o alle organizzazioni internazionali. Le comunità afrocolombiane e quelle native embera sono culturalmente e linguisticamente distinte, e spesso diffidenti l’una verso l’altra; tuttavia, Leyner riteneva che molte voci insieme sarebbero state più forti e potenti e riunì tutte le comunità con l’obiettivo comune di fermare la violenza e lottare per i propri diritti umani. Organizzò assemblee con rappresentanti di ogni comunità di Bojayá e incoraggiò ciascuna di esse a includere una rappresentanza femminile. Ora queste comunità remote hanno creato una voce collettiva che richiama i diritti umani ai più alti livelli di governo e in tutto il mondo.
Come risultato della sua lotta per la giustizia sociale, a Leyner è stato chiesto di rappresentare le vittime del massacro di Bojayá durante i negoziati di pace tra le forze della guerriglia e il governo. Per il suo ruolo nel processo, è stato candidato per il Premio Nobel per la Pace del 2016. Un ulteriore risultato è stato che le FARC hanno riconosciuto pubblicamente il proprio ruolo nella tragedia del 2002 e, in una cerimonia privata in una chiesa di Bojayá, hanno chiesto perdono. Mettendo insieme le comunità nella lotta per la giustizia sociale, Leyner ha capito quanto possa essere potente un coro di voci diverse. Oggi continua a chiedere che la Colombia abbracci la diversità rispettando i diritti di tutti i suoi cittadini, in particolare quelli più emarginati. (3)
Purtroppo i vincitori di questo tipo di premi non sono famosi, oppure lo diventano solo dopo che sono stati uccisi. Ne è un triste esempio Berta Cáceres, ambientalista e attivista honduregna, leader del popolo indigeno Lenca e co-fondatrice del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (COPINH) che nel 2013 vinse il prestigioso premio Goldman (una sorta di Nobel per gli ambientalisti), uccisa nel 2016. Neanche un premio internazionale così importante l’ha messa al sicuro.
In Honduras, gli attacchi contro i membri del COPINH sono proseguiti, nonostante il clamore per l’uccisione di Berta. Il 15 marzo di quest’anno Nelson García, membro del COPINH, è stato ucciso mentre si stava recando a casa, nel Dipartimento di Intibucá. Stava organizzando la comunità contro uno sfratto previsto per quel giorno. Il 15 aprile, mentre si dirigevano verso il fiume Gualcarque nell’ambito di una mobilitazione per un incontro internazionale dei popoli indigeni, membri del COPINH e di altre organizzazioni nazionali e internazionali hanno subito un’aggressione da parte di uomini armati, mentre la polizia, che assisteva alla scena, non ha fatto nulla per impedire gli attacchi.
Alla fine di giugno, anche Bertha Zúniga, figlia di Berta Cáceres e ora coordinatrice del COPINH, ha subito un’aggressione, insieme a dei colleghi, mentre stavano viaggiando in auto e sono stati fermati da degli individui che brandivano dei machete e hanno cercato di colpirli. L’Honduras è il paese con il più elevato numero di uccisioni di attivisti per la difesa dell’ambiente e della terra in rapporto alla popolazione.
Il Guatemala condivide questo triste primato, come evidenziato dal rapporto di Amnesty “Difendiamo la terra con il nostro sangue. Difensori della terra, del territorio e dell’ambiente in Honduras e Guatemala”. (4)
Il conflitto armato che si è concluso nel 1996 continua ad avere ripercussioni sulla situazione dei diritti umani nel paese. La dottrina del “nemico interno” che ha etichettato qualsiasi voce o opinione dissenziente come nemico, continua oggi in atteggiamenti che considerano i difensori, in particolare dei diritti ambientali e territoriali legati all’accesso alla terra come oppositori, “nemici dello stato” e persino terroristi.
E’ emblematico il caso di sette difensori del diritto all’acqua e alla terra del dipartimento di Huehuetenango, a riprova di una tendenza crescente da parte delle autorità - evidenziata dalle ricerche di Amnesty International - che mira a stigmatizzare e screditare i difensori dei diritti umani.
Il processo nei confronti di Rigoberto Juárez Mateo, Arturo Pablo Juan, Francisco Juan Pedro, Domingo Baltazar, Sotero Adalberto Villatoro Hernández, Bernardo Ermitaño López e Mynor López è iniziato il 6 luglio 2016. Il Pubblico Ministero li accusava di reati tra cui detenzioni illegali, coercizione, minacce, istigazione a delinquere e ostacolo alla giustizia, reati che sarebbero stati commessi nel corso di tre manifestazioni pubbliche tra il 2013 e il 2015. Le accuse si basavano sul loro ruolo di leader di comunità locai, considerandoli automaticamente come organizzatori delle manifestazioni e, inoltre, responsabili di eventuali danni causati. Il 22 luglio 2016, il Primo Tribunale Penale di Città del Guatemala ha assolto i sette difensori dalle accuse di detenzione illegale, minacce e istigazione. Tuttavia, i sette avevano ormai trascorso più di un anno in detenzione preventiva. Inoltre, alcuni di loro sono stati condannati per altri fatti specifici avvenuti in alcune delle proteste e per altri sono ancora in corso procedimenti relativi ad altre manifestazioni.
La campagna “Coraggio” (5) lanciata quest’anno da Amnesty International ci presenta il caso di un difensore dei diritti umani in Cile: Rodrigo Mundaca Cabrera. Il Movimento per la Difesa della terra, la protezione dell’ambiente e l’accesso all’acqua (MODATIMA) lavora per far conoscere il problema dell’estrazione illegale dell’acqua e il suo impatto sulle comunità rurali della provincia di Petorca, nel Cile centrale, una regione gravemente colpita dalla scarsità dell’acqua. Il 28 marzo del 2017, una persona non identificata ha minacciato di morte al telefono il difensore dei diritti umani Rodrigo Mundaca Cabrera, membro e portavoce del MODATIMA. Egli e altre persone appartenenti dell’organizzazione avevano già subito minacce in occasioni precedenti, come nel marzo 2015, quando Rodrigo Mundaca fu aggredito alle spalle da persone non identificate.
I membri di MODATIMA hanno paura di lasciare le loro case perché temono che queste minacce di morte diventino realtà. Rodrigo Mundaca ha riferito ad Amnesty International che i difensori dell’acqua di Petorca si trovano ad affrontare gravi ostacoli e stanno perdendo il posto di lavoro a causa della loro attività contro l’estrazione illegale dell’acqua nella regione. Rodrigo Mundaca ha iniziato nel 2012 a denunciare l’illegale estrazione dell’acqua nella zona da parte di politici e di imprese. A causa di queste azioni coraggiose, le autorità hanno avviato quattro cause penali contro di lui. Una di esse ha portato a una condanna a 61 giorni di carcere, sospesa a condizione che Rodrigo Mundaca si fosse presentato mensilmente alla polizia per un anno. (6)
Nel 2010 le Nazioni Unite hanno inserito l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari tra i diritti umani essenziali. La risoluzione è stata approvata con il voto favorevole di 122 paesi, tra cui quello del Cile. Nel testo si ricorda che
In Paraguay, recentemente, a subire gravi minacce di ritorsione sono stati dei giornalisti. Menchi Barriocanal e Óscar Acosta sono una coppia di giornalisti che nel giugno 2017 è stata minacciata di arresto da parte del presidente Horacio Cartes, con una falsa accusa di istigazione alla violenza. I due giornalisti, nel marzo 2017 avevano rivelato una manovra appoggiata dal presidente del Paraguay per emendare la Costituzione in modo da permettere la sua rielezione. La rivelazione di questa proposta causò proteste popolari, a cui la polizia rispose con l’uso di gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Dopo il voto di riforma costituzionale, manifestanti appiccarono fuoco al palazzo del Congresso, e la protesta culminò con una morte, decine di feriti e oltre 200 arresti. Rappresentanti del partito al governo (Partido Colorado) accusarono pubblicamente Menchi Barriocanal e Óscar Acosta di aver scatenato le proteste e di aver causato incidenti violenti, mentre i due giornalisti avevano semplicemente informato sul tentativo di modifica della Costituzione in Parlamento.
Il 23 e il 27 giugno, in due incontri pubblici, il presidente Horacio Cartes riprese le accuse contro di loro, affermando che avrebbero dovuto trovarsi in carcere, facendo riferimento a un attivista di un partito politico dell’opposizione, arrestato con accuse legate ad incidenti avvenuti durante le proteste. Inoltre già da marzo si erano registrati altri atti di intimidazione e attacchi nei confronti di operatori dei mezzi di informazione che avevano criticato l’operato del governo durante le proteste. I tre principali sindacati nazionali di giornalisti hanno chiesto alla Procura generale di avviare indagini su questi attacchi, ma non è stato aperto alcun fascicolo al riguardo.
Amnesty International ha lanciato un’Azione Urgente in loro favore, e il loro caso è stato ripreso da mezzi di informazione in vari paesi. In seguito alla mobilitazione e all’eco ottenuta, le minacce di arresto da parte del presidente sono cessate. Tuttavia, il loro caso presenta bene l’atteggiamento di chi detiene il potere, sempre meno disposti ad accettare critiche e dissenso, e ricorrono a un’ampia gamma di tattiche per ridurli al silenzio. Questi atti di intimidazione e di accusa contro giornalisti mostrano un modello di pressione che mette in pericolo i giornalisti e gli operatori della comunicazione e che viola il diritto alla libertà di espressione.
Karla Avelar ha dedicato la sua vita a difendere, a livello nazionale e internazionale, i diritti umani delle persone LGBTI, persone affette da HIV, migranti, persone prive di libertà in situazioni di vulnerabilità e le vittime di discriminazioni dovute al loro orientamento sessuale o all’identità di genere. Nel 1996 Karla è stata uno dei fondatori di ASPIDH, la prima associazione di persone trans in El Salvador, e nel 2008 ha fondato la prima organizzazione di donne trans affette da HIV, COMCAVIS TRANS.
Karla è una donna transessuale, cresciuta in un ambiente caratterizzato da continui abusi, compreso lo stupro. All’età di nove anni, è fuggita nella capitale dove ha vissuto per strada, esposta a una crescente violenza da parte di membri di bande, di agenti di polizia e dei clienti e all’abuso di droga. Nel 1993, un ufficiale dell’esercito le ha sparato nove volte, causandole gravi lesioni e un coma di due mesi.
Queste esperienze continue di violenza e di lotta per la sopravvivenza quotidiana hanno trasformato Karla in un’attivista per i diritti umani. Nel 1992, è diventata una delle prime donne trans in El Salvador a rendere pubblico il suo status HIV positivo per ragioni politiche e ha combattuto per un’adeguata assistenza sanitaria per le persone LGBTI con HIV, specialmente per coloro che sono privati della libertà.
Negli anni seguenti, è stata nuovamente vittima di gravi aggressioni, nonché perseguita per aver agito per legittima difesa, ferendo in un’occasione uno degli uomini che avevano tentato di uccidere lei e un amico. Per questo è stata condannata a diversi anni di carcere, trovandosi in cella con persone che avevano cercato di assassinarla anni prima, con conseguenti violenze e torture, senza accesso alla giustizia e privata del suo diritto a cure mediche.
Nel 2013 Karla è diventata la prima donna trans a comparire davanti alla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (IACHR) e denunciare lo stato di El Salvador per discriminazione e reati di odio contro le persone LGBTI. Due anni dopo, ha partecipato alla Revisione Periodica Universale (UPR) al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra. Collaborando con altre ONG, ha presentato un rapporto alternativo, che ha portato alla prima raccomandazione delle Nazioni Unite allo stato del Salvador per le questioni LGBTI.
Negli ultimi anni Karla è stata costretta a trasferirsi numerose volte per ragioni di sicurezza, in seguito a ripetute minacce di morte. La sua determinazione a denunciare le agenzie governative per la loro inazione e la mancata risposta in merito alle aggressioni e gli omicidi di persone LGBTI compiuti da membri di bande di strada, agenti di polizia, ufficiali militari e squadre della morte, l’hanno anche esposta alla persecuzione politica.
Per la determinazione nella lotta per i diritti LGBTI, ha ricevuto nel 2017 una menzione al prestigioso premio Martin Annals per i diritti umani.
Nonostante le minacce di morte, Karla continua con determinazione la lotta per l’attuazione di riforme legislative che garantiscano i diritti umani delle persone LGBTI. Il suo sogno è quello di percorrere le strade di El Salvador senza essere accusata, discriminata o criminalizzata, vivere in sicurezza e godersi la vita con la sua famiglia.
Per attivisti di Amnesty International incontrare personalmente difensori che nel loro paese subiscono ingiustizie e rischi a causa del loro impegno è estremamente motivante e coinvolgente. Così è stato quando abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Valdênia Paulino, difensora dei diritti umani in Brasile. Avvocato, attivista per i diritti umani, Valdênia da anni lavora in prima linea in difesa delle comunità emarginate delle favelas, in particolare donne e bambini, prime vittime della violenza dilagante nelle grandi città del Brasile.
Fin da bambina, a São Paulo è stata testimone della fame, la morte, il lavoro infantile e la violenza istituzionale, in particolare l’uso arbitrario della forza della polizia nelle favelas, della discriminazione razziale e sociale, dell’indifferenza delle autorità. Ciò la portò a “voler far qualcosa”. E già da molto giovane si è impegnata nella difesa delle donne, organizzando una comunità di recupero per ragazze coinvolte nella prostituzione, per poi dedicarsi alla creazione del CEDECA - Centro per la difesa dei diritti dei bambini e degli adolescenti, e del Centro per i diritti umani di Sapopemba (nella periferia di São Paulo), attraverso il quale denuncia le violazioni dei diritti umani compiute nei confronti dei gruppi più vulnerabili della popolazione.
Le coraggiose accuse delle violenze compiute dalla polizia di São Paulo le sono costate ripetute minacce, che l’hanno portata nel 2007 ad abbandonare temporaneamente il Brasile per motivi di sicurezza, ed è stata accolta dalla sezione spagnola di Amnesty International in uno specifico programma di protezione per i difensori dei diritti umani.
Al ritorno, si è trasferita a Paraiba, nel nordest del Brasile, dove ha continuato la sua lotta nel Centro per i diritti umani Oscar Romero, che lavora per la protezione dei diritti degli indigeni locali. Nel 2011 è diventata Ombudsman presso la polizia di Paraiba – prima donna a ricoprire quella carica. L’incarico la portata a notevoli conflitti con i poteri costituiti. Ha subito molte angherie, da incursioni contro gli uffici del Centro per i diritti umani, a minacce di morte, a violenza sessuale.
Ma il suo impegno a favore della difesa dei diritti di chi non li ha non si ferma. Le sue parole: “I diritti umani sono il passaporto di chi vive nella povertà per essere riconosciuti come esseri umani e come cittadini, perché essere consapevoli dei propri diritti è il punto di partenza per superare la povertà”.
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(1) - https://www.globalwitness.org/annual-report-2015/
(2) - https://www.amnesty.it/campagne/coraggio/
(3) - http://award.pluralism.ca/2017-recipients/leyner-palacios-asprilla/
(4) - Indice: AMR 01/4562/2016 – 1 settembre 2016
(5) - https://www.amnesty.it/campagne/coraggio/
(6) - https://www.amnesty.org/es/get-involved/take-action/protect-chile-humanrights-defender-rodrigo-mundaca-and-modatima-members/