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La persecuzione del popolo Rohingya /Inserto speciale "Il Coraggio delle proprie idee"

LA PERSECUZIONE DEL POPOLO ROHINGYA

di Mouhamed Cissé

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Da qualche giorno, il Myanmar è tornato ad essere al centro dell’attenzione di tutte le testate giornalistiche internazionali a causa delle violazioni dei diritti umani fondamentali subite dai Rohingyas. Avendo i Rohingyas il triste primato di minoranza più perseguitata e discriminata del mondo, l’insieme delle violenze che questi subiscono possono giuridicamente essere qualificati come crimine di genocidio e crimine contro l’umanità, il cui scopo è apertamente quello di cacciarli dallo Stato d’Arakan, nel Sud Ovest del Myanmar. Gli attori delle persecuzioni sono da una parte i buddisti appartenenti all’etnia maggioritaria, i barmans (70% della popolazione) dall’altra la giunta militare e quindi lo Stato. Le persecuzioni si traducono in una campagna di incitamento all’odio etnico religioso che si manifesta attraverso l’incendio delle moschee, delle case, l’indicazione che i buddisti ricevono di usare degli adesivi nei loro negozi in modo tale da mettere in evidenza la loro appartenenza religiosa. A questo si aggiunge una feroce campagna di sterminazione, di spostamento forzata della popolazione, di insulti e intimidazioni. I monaci buddisti, principali fomentatori degli attacchi, si considerano i veri birmani contro i Rohingyas, i quali rappresentando all’incirca 4% di una popolazione di 55 milioni di abitanti (di cui 135 gruppi etnici), sarebbero gli stranieri venuti dal Bangladesh durante l’invasione britannica. Sono anche considerati come dei traditori essendosi sempre coalizzati con gli occupanti per proteggersi da una continua campagna dei persecuzione nei loro confronti. La loro persecuzione e discriminazione non data pertanto di oggi ma si può far risalire all’indipendenza nel 1948.

Adesso, la domanda è la seguente: che cosa è successo a Aung San Suu Kyi, colei il cui nome è stato considerato sinonimo di lotta per la difesa dei diritti dell’uomo del suo paese, il Myanmar, ed è stata anche a torto o a ragione paragonata a Gandhi? Dove si trova mentre una parte della popolazione del suo paese è vittima di pulizia etnica? Perché non eleva la sua voce e non usa il carisma che le è stato riconosciuto per denunciare le gravi violazioni dei diritti umani?

In opposizione al silenzio assordante della prima, Tun Khin è un giovane attivista dei diritti umani Rohingya nato nello Stato d’Arakan. Nel 2005 diventa Presidente della Burmense Organisation nel Regno Unito un’organizzazione che denuncia le discriminazioni e persecuzioni etnico-religiose nei confronti dei Rohingyas in Myanmar. È molto attivo nella difesa della causa del suo popolo davanti alle più alte istituzioni politiche internazionali quali il Parlamento britannico, l’Unione Europea, il Senato americano e il Dipartimento di Stato Americano. È anche autore di numerosi scritti e interviste sui media internazionali sulla causa dei Rohingyas. Ma nonostante egli difenda una causa giusta, il suo messaggio non sembra andare oltre la solita retorica.

Oggi, la comunità dei difensori dei diritti dell’uomo si sente tradita. Tante sono le voci che si oppongono all’indifferenza del Premio Nobel per la Pace birmano dinanzi alla situazione dei Rohingyas nel suo paese.

Una parte degli osservatori della situazione birmana sostengono inoltre che in realtà Aung San Suu Kyi abbia sempre fatto parte del sistema.

Nel 1947, il Generale Aung Sun, una delle maggiore figure politiche della Birmania moderna, padre di Aung San Suu Kyi, viene assassinato dai suoi ex compagni. Dal 1948 al 1962, il Myanmar vive un periodo democratico che termina nel 1962. Infatti, le numerose minoranze etniche e religiose del paese conducono una lotta continua contro l’etnia maggioritaria, ciò che conduce al colpo di Stato dei militari nel 1962.

La moglie del Generale assassinato collabora con il regime, diventando Ambasciatore della Birmania in India. Sua figlia Aung San Suu Kyi frequenterà le più prestigiose università europee, lavorando anche per le Nazioni Unite.

Tornata nel suo paese nel 1988 per le condizioni di salute di sua madre, Aung San Suu Kyi, creerà il suo partito politico (Lega Nazionale per la Democrazia) lo stesso anno, parteciperà alle elezioni generali del 1990 e ne conseguirà una vittoria schiacciante. I militari si rifiuteranno di riconoscere la sua vittoria. Vista la sua posizione di persona reclusa ai domiciliari per le sue opinioni politiche, la comunità internazionale farà della sua causa una questione internazionale e farà di lei un simbolo degli oppressi.

Già quando Aung San Suu Kyi era in dei buoni rapporti con i militari, i Rohingyas subivano le discriminazioni che oggi tutti conoscono. Venivano espropriati delle loro terre, venivano negati dei loro diritti civici, sociali e politici. Non potevano studiare, né avere accesso alle cure mediche. Tutto era organizzato dagli organi statali per costringerli a lasciare il paese. Nel 1982, una legge ha revocato la loro cittadinanza facendo di loro degli apolidi a tutti gli effetti. Aung San Suu Kyi non ha elevato nessuna voce contro queste barbarie, nemmeno quando l’attenzione dei media internazionali si concentrò sulla sua lotta.

Il premio Nobel continua, nonostante la sua vittoria alle elezioni del 2015 e la sua posizione di rilievo nella macchina statale, ad astenersi dal prendere una posizione chiara sulle violenze subite dai Rohingyas. Ancor di più stona il suo atteggiamento attuale nei confronti dei Rohingyas se si considera che nel 2012, quando ebbe la possibilità dopo 28 anni di uscire dal suo paese, si recò a Bangkok per incontrare i Karens, un gruppo etnico birmano che vive nel campo profughi di Mae La. Essi sono buddhisti e rappresentano il secondo gruppo maggioritario del paese e quindi una base elettorale non trascurabile. Nell’autunno 2012, la minoranza Kachin aveva già espresso la sua diffidenza dinanzi al silenzio della “Dama di Rangun” di fronte alla decisione della giunta militare di perpetrare la repressione nei loro confronti e non accettare nessuna forma di negoziazione.

Una lettura veritiera della storia del Premio Nobel Aung San Suu Kyi e delle sue prese di posizione “a intermittenza” a tutela dei diritti umani, portano a consigliare alle organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani di astenersi dal creare miti o mostri.

Una personalità riconosciuta internazionalmente per la difesa dei diritti umani, considerati universali e assoluti, dovrebbe fare propria la causa dei Rohingyas, come di ogni altra etnia discriminata. Il popolo dei Rohingyas merita tutta l’attenzione della comunità internazionale.

Aun San Suu Kyi non prende posizione e ciò che è peggio, accusa i Rohingyas di inventarsi gli stupri perpetrati nei confronti delle donne della loro etnia e gli incendi delle loro abitazioni. Dichiara che l’esercito agisce in modo tale da evitare danni collaterali. Queste affermazioni vengono smentite da osservatori e giornalisti internazionali che si trovano sul campo che raccontano invece di come l’esercito sia complice dei monaci e di come i militari e la polizia sparino ad altezza uomo sui Rohingyas che tentano di spegnere le fiamme appiccate alle loro case.

Non è un dettaglio che Aung San Suu Kyi non abbia assunto un ruolo di terzietà rispetto alla situazione. Ricoprendo la carica di Consigliere di Stato in Myamar, essendo capo del partito maggioritario e facendo parte dell’etnia predominante, i Bamars, si può definire complice di quello che sta succedendo.

I difensori dei diritti umani che subiscono essi stessi discriminazioni e gravi violazioni dei diritti umani vanno indubbiamente difesi, ma non santificati. Inoltre, cosi come si sta facendo con Harvey Weistein nel mondo del Cinema, si dovrebbero poter ritirare tutti i riconoscimenti ottenuti in qualità di difensori dei diritti dell’uomo a coloro le cui azioni assumono un orientamento opposto.

Manifestanti bruciano un’effigie del Consigliere di Stato del Myanmar Aung San Suu Kyi durante una manifestazione sul genocidio contro i Rohingyas, Kolkata il 4 settembre 2017. (foto IANS)

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