VOCI
DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI
«Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty» (Peter Benenson)
i fatti e le idee
MAGGIO 2018
NUMERO 2 - ANNO 4
DONNE E DIRITTI UMANI
Per tutte le violenze consumate su di Lei ... in piedi, Signori, davanti ad una Donna (Anonimo)
VOCI VOCI - Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” COMITATO DI REDAZIONE Liliana Maniscalco Responsabile Circoscrizione Sicilia Amnesty International Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione Carmen Cera Direttrice del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” Silvia Intravaia Responsabile grafica
COLLABORANO Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Vincenzo Ceruso, Mouhamed Cissé, Carmen Cera, Martina Costa, (Coord. Am. Latina), (Coord. Europa), (Coord. Nord America), Marta D’Alia, Chiara Di Maria, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Liliana Maniscalco, Andrea Pira, Daniela Tomasino, Fulvio Vassallo Paleologo.
IN QUESTO NUMERO Donne e conflitti armati
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Le guerre e le donne
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Bosnia: sostegno, non pietà
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di Chiara Di Maria
di Giuseppe Provenza
di Paolo Pignocchi
Donne palestinesi
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Diritti delle donne in America Latina
13
Le donne nei Caraibi: pochi diritti, molte violazioni
16
Marielle Franco
19
Una vita libera dalla violenza
22
di Paola Caridi
a cura del Coord. America Latina
a cura del Coord. Nord America e isole caraibiche
di Daniela Tomasino
di Carmen Cera
TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it /amnesty-sicilia /Amnestysicilia Amnesty In Sicilia /amnestysicilia /amnestysicilia /amnestysicilia
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Editoriale
DONNE E CONFLITTI ARMATI di Chiara Di Maria
Ph.: Immagini gratis / Pixabay
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uesta edizione della rivista denuncia gli abusi dei diritti umani che le donne subiscono nei conflitti armati. Amnesty International è impegnata da anni in campagne che hanno l’obiettivo di porre fine alle uccisioni illegittime, alla tortura (inclusa la violenza sessuale) e ad altri abusi che devastano le vite di uomini, donne e bambini nei conflitti armati. Oggi porremo l’attenzione sul duplice ruolo assunto dalle donne nei conflitti armati, ovvero, da un lato, il ruolo di vittime di situazioni di crisi nelle quali le donne, al pari del resto della popolazione, vengono attaccate con l’uso della violenza armata; dall’atro lato, il ruolo di parte attiva della società civile quali difensore dei diritti umani, voci di denuncia delle ingiustizie, proprio in contesti di forte allarme sociale come i conflitti armati e i territori di occupazione. In generale, l’espressione “violenza sulle donne” indica qualsiasi atto di violenza basata sul genere che provochi danni o sofferenze fisici, sessuali o psicologici sulle donne e bambine. La violenza di genere comprende atti che sono diretti contro una donna in quanto tale, o che affliggono in modo sproporzionato le donne e si manifesta nelle diverse forme: della violenza in casa o in famiglia (come la violenza domestica, lo stupro coniugale e le condizioni assimilabili alla schiavitù); della violenza nella comunità (come la prostituzione coatta o i lavori forzati); della violenza perpetrata o condonata dallo Stato (come lo stupro da parte di funzionari statali, la tortura in custodia, la violenza da parte del 3
personale addetto ai controlli sull’immigrazione, e la stigmatizzazione); della violenza durante i conflitti, commessa sia dalle forze governative che dai gruppi armati (come gli attacchi ai civili, lo stupro e altre forme di violenza sessuale). Come spesso accade in situazioni di emergenza e scarsa sicurezza, quali sono per definizioni le situazioni di crisi e di conflitti armati, secondo il primo profilo, le donne, come i bambini, in quanto soggetti per sé vulnerabili, pagano il prezzo più alto. La violenza perpetrata sulle donne in aree di conflitto è considerata, quasi come a volerla minimizzare, un “effetto collaterale”, perpetrata dalle milizie che danno libero sfogo ai propri istinti più bassi liberati dalla violenza dei combattimenti, e consentita anche con un generale clima di impunità e da un’implicita accettazione di questi comportamenti come se fossero inevitabili. Gli eventi drammatici che hanno visto mettere in atto stupri di massa, organizzati e pianificati a tavolino come vere e proprie operazioni militari nel corso delle quali la violenza sulle donne è rientrata come elemento integrante di campagne di pulizia etnica, ci fanno capire, non soltanto che si tratta di veri e propri crimini di guerra, ma che ci troviamo davanti a vere e proprie armi di distruzione di massa. Sono queste armi che, come le mine antipersona, rimangono innescate per decenni anche alla fine del conflitto: le donne porteranno sul loro corpo e nella MAGGIO 2018 N.2 / A.4 - Voci
Editoriale
loro mente per tutta la vita i segni della violenza subita, si troveranno a partorire i figli generati dal nemico, magari lo stesso che ha ucciso loro il marito, i figli o i genitori. Spesso queste donne devono poi subire un’altra violenza da parte delle loro comunità d’origine: una donna violentata è considerata impura, se non addirittura connivente o colpevole della violenza subita. Perciò molte vittime di stupro vengono ripudiate dal marito e dalla famiglia ed emarginate dalle loro comunità, diventando così vittime per una seconda volta e trascinando in questa spirale di esclusione e colpevolizzazione anche i figli nati a seguito della violenza. Va sottolineato, inoltre, che la distruzione delle comunità, della terra, delle risorse e delle infrastrutture colpisce tutti. Ciononostante, a pagare il prezzo più alto sono le donne quando il loro ruolo all’interno della famiglia o della comunità implica la loro dipendenza nei confronti dei beni andati perduti. L’impatto sui diritti economici e sociali delle donne rappresenta, dunque, al tempo stesso una minaccia e una violenza nei loro confronti. Vivere i luoghi soggetti ad occupazione militare, quindi, costringe tutti i soggetti maggiormente vulnerabili ad una condizione estremamente precaria e ciò in quanto le questioni relative alla sicurezza confinano le donne, più degli uomini, a una dimensione chiusa, a una mobilità ridotta, e ad uno scarso accesso ai bisogni primari. Il secondo profilo annunciato sottolinea come sempre di più negli ultimi anni ci siano donne difensore dei diritti umani, giocando un ruolo vitale prima, durante e dopo un conflitto. Informano la comunità internazionale sulle situazioni critiche incombenti,
osservano la condotta delle ostilità, forniscono assistenza di emergenza e denunciano i crimini. Le donne HRD però subiscono forme di violenza di genere, che si aggiungono agli attacchi che gli altri difensori dei diritti umani devono affrontare, compresa la violenza sessuale, le minacce, le molestie, le campagne diffamatorie legate al loro essere donne. Le donne che difendono i diritti umani, infatti, sono spesso prese di mira non solo per il loro attivismo, ma anche per il genere cui appartengono e le loro attività sono costantemente delegittimate e denigrate. Considerato, poi, che la retorica della guerra spesso invoca attitudini retrograde verso la sessualità delle donne, le attiviste per i diritti umani che concentrano le loro attività su tematiche quali l’orientamento sessuale o i diritti riproduttivi sono particolarmente a rischio di ostilità e violenza. Per tali ragioni Amnesty International ha sempre chiesto e continua a chiedere agli attori internazionali, statali e anche indipendenti, un’assunzione di responsabilità per i crimini perpetrati con la punizione di chi li ha commessi; e chiedere di mettere in atto oltre che normative anche azioni politiche e di governo che tutelino i soggetti vulnerabili, tra cui anche le donne, i cui diritti umani sono maggiormente a rischio in situazione di conflitto.
Chiara Di Maria Vice Responsabile Circoscrizione Sicilia di Amnesty International Italia
VERITÀ PER GIULIO REGENI
https://www.amnesty.it/appelli/corri-con-giulio/
Voci - MAGGIO 2018 N.2 / A.4
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Diritti Internazionali
LE GUERRE E LE DONNE di Giuseppe Provenza
Ph.: Sfollati Yazidi, in fuga dalla violenza delle forze fedeli allo Stato islamico nella città di Sinjar, camminano verso il confine siriano. 11 agosto 2014 / Reuters
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a sempre la storia dell’umanità è costellata da guerre che hanno quasi sempre coinvolto milioni di civili inermi.
La storia degli ultimi cento anni ci racconta di grandi quantità di stupri in guerre anche non lontane nel tempo.
Nel XXI secolo nulla è ancora cambiato: nel mondo si contano più di 20 guerre in corso che hanno causato centinaia di migliaia di morti e indotto alla fuga decine di milioni di profughi.
Durante la seconda guerra mondiale da taluni è stato sostenuto che milioni sarebbero stati gli stupri compiuti dalle truppe tedesche durante l’occupazione dell’Unione Sovietica, così come milioni sarebbero stati gli stupri compiuti dalle truppe sovietiche durante l’occupazione della Germania. A ciò, secondo alcuni, andrebbero aggiunte decine di migliaia di stupri compiuti dalle così dette truppe alleate, sempre durante l’occupazione della Germania. Ben poca, se non nulla, fu la giustizia compiuta nei riguardi degli stupri compiuti durante la seconda guerra mondiale.
Alcune di queste sono tristemente note per il numero di vittime e per le distruzioni causate: Siria, Afghanistan, Yemen, Repubblica Centro Africana, Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Somalia, Ucraina, ed altre ancora. Vittime predestinate e più colpite dalle guerre, da sempre nella storia, sono soprattutto le donne. Le donne divengono spesso, ancor oggi, un bottino di guerra per essere violentate, e quindi uccise o ridotte in schiavitù, quando non viene ideato, e poi perpetrato, nei confronti di tutte le donne di una popolazione, lo “stupro etnico” con cui il vincitore intende violentare un intero popolo sottomesso anche umiliandolo con la nascita di figli dei “vincitori”. 5
Il segno di tale orrore, tuttavia, era rimasto, e quando nel 1949 furono firmate le quattro Convenzioni di Ginevra, la quarta di queste, che porta il titolo “Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra”, all’articolo 27, comma 2 recita: “Le donne saranno specialmente protette contro qualsiasi offesa al loro onore e, in particolare, contro lo stupro, la coercizione alla prostituzione e qualsiasi offesa al loro MAGGIO 2018 N.2 / A.4 - Voci
Diritti Internazionali
Ph.: Pramila Patten, Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale legata ai conflitti, nel suo discorso del 16 aprile 2018
pudore”, principio ripreso e ribadito sia dal primo che dal secondo protocollo aggiuntivo firmati a Ginevra nel 1977. Belle parole, e soprattutto belle intenzioni, ma non seguite, evidentemente, dai fatti se negli anni novanta del secolo scorso due feroci guerre, così dette civili, quelle nella ex Jugoslavia ed in Ruanda, videro il ripetersi di sistematiche, e premeditate, violenze sulle donne. In Bosnia, secondo alcune stime, gli stupri compiuti dai serbo bosniaci sulle donne Mussulmane ammontarono da un minimo di 20.000 ad un massimo di 50.000. Qui l’orrore si aggiunse all’orrore, poiché le bosniache mussulmane ingravidate dai serbo bosniaci furono tenute segregate fino al parto per evitare che abortissero il figlio della violenza subita per obbligarle a partorire un figlio dei “vincitori”. Molto peggio, in termini quantitativi, è stato valutato che sia andato in Ruanda, in cui le stime vanno da 250.000 a 500.000 stupri, ai danni di donne Tutsi da parte degli Hutu. Si trattò in entrambi i casi di gravi e ripetute violazioni della citata quarta convenzione di Ginevra, e fu proprio per giudicare le infrazioni a quella convenzione, nonché i crimini contro l’umanità, il genocidio e le violazioni delle leggi di guerra commessi in quelle due guerre che il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite istituì rispettivamente il 25 maggio 1993 e l’8 novembre 1994 il Tribunale penale internazionale per Voci - MAGGIO 2018 N.2 / A.4
l’ex-Jugoslavia ed il Tribunale penale internazionale per il Ruanda. La logica evoluzione di questi due tribunali internazionali fu l’istituzione della Corte Penale Internazionale per effetto dello Statuto di Roma stipulato il 17 luglio 1998 entrato in vigore il 1° luglio 2002. La Corte fu istituita dal suddetto statuto e non è, quindi, un organismo dell’ONU. La Corte Penale Internazionale giudica individui presunti responsabili di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di aggressione (come definiti dagli articoli 6,7 e 8 dello Statuto di Roma), commessi in uno stato parte o da cittadini di uno stato parte, quando lo stato stesso non provveda direttamente a processarli. Inoltre il Consiglio di Sicurezza può deferire individui non rientranti sotto la giurisdizione della Corte stessa. Lo statuto di Roma all’articolo 7, nella elencazione dei crimini contro l’umanità, al punto g) indica “Stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità” se il crimine è stato commesso “nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco”. Sembra, quindi, che nel diritto internazionale esistano tutti gli strumenti per sconfiggere questo retaggio storico dello stupro di donne in guerra e della pulizia etnica. 6
Diritti Internazionali
Tuttavia non è così, e ciò che in questi anni sta succedendo in medio oriente ne è la drammatica conferma. Nel giugno 2014 Al Baghdadi proclamò la nascita del sedicente “Stato Islamico di Iraq e Siria”, l’ISIS, mantenendo fino a settembre 2017 il controllo su una vasta area fra il nord dell’Iraq ed il nord della Siria. Gli orrori commessi dall’ISIS in quei poco più che tre anni sono ben noti: decapitazioni, lapidazioni, bombardamenti con uccisioni di civili inermi, devastazioni, oltre che sanguinosi attentati in vari paesi occidentali. Meno nota è invece la persecuzione operata dai militanti dell’ISIS nei confronti degli Yazidi, una minoranza religiosa, di alcune centinaia di migliaia di persone, prevalentemente insediata nella regione del Sinjar nell’Iraq settentrionale. Agli occhi del fanatismo religioso su cui Al Baghdadi ha basato la sua strategia, gli Yazidi sono degli “infedeli” praticanti una religione definita “demoniaca”. Nei confronti di quel popolo è stato quindi operato un attacco sistematico che ha provocato migliaia di morti, la fuga di centinaia di migliaia di persone, ed il rapimento di migliaia di persone, soprattutto donne, ragazze e perfino bambine. Chi è riuscito a fuggire racconta che le donne yazide rapite sono state vendute, o anche date in “dono” ai combattenti dell’ISIS. Ridotte in stato di schiavitù sessuale, molte di loro, dopo essere state stuprate, sono diventate veri e propri “oggetti da scambiare”. Per quanto efferato sia tutto ciò, gli stessi capi dell’ISIS non l’hanno negato, affermando, anzi, in una fatwa (interpretazione della legge islamica) che la schiavitù sessuale delle donne sia la conseguenza della conquista di un territorio. Peraltro, anche la propaganda diffusa per assoldare nuovi combattenti, i così detti foreign fighters, prometteva loro, oltre che il paradiso in caso di morte in combattimento, la possibilità di disporre sessualmente delle donne dei territori conquistati. Su tale orrore Amnesty International ha pubblicato un rapporto l’11 ottobre 2016 in cui sono riportate testimonianze come quella della ventenne del Sinjar, rapita il 3 agosto 2014, che ha raccontato ad Amnesty International di essere stata stuprata da almeno 10 uomini che la “compravano” l’uno dall’altro. Solo nel dicembre del 2015 la sua famiglia riuscì a riaverla libera pagando un alto riscatto. La gravità del fenomeno della violenza sessuale nei conflitti che ancora affligge l’umanità non poteva non suscitare l’interessamento delle Nazioni Unite. 7
Il 30 settembre 2009 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò all’unanimità la Risoluzione n. 1888 nella quale si richiedeva a tutti i contendenti che prendono parte ad un conflitto armato di intraprendere azioni immediate per proteggere la popolazione civile, incluse donne e bambini, da tutte le forme di violenza sessuale esortando inoltre gli Stati membri e le Nazioni Unite ad applicare misure più stringenti per combattere questo flagello. Nel dispositivo della Risoluzione il Consiglio di Sicurezza chiese al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, di nominare un “Rappresentate Speciale del Segretario Generale sulla violenza sessuale nei conflitti”, posizione ricoperta dal marzo 2010 da Margot Wallstrom della Svezia, dal settembre 2012 da Zainab Hawa Bangura della Sierra Leone e dall’aprile 2017 da Pramila Patten delle Mauritius. Va dato merito a tutte e tre le rappresentanti speciali di aver lavorato con molta assiduità ed intensità perché il mondo non debba più assistere a crimini che sembrano non dover appartenere ad un’era che si auto definisce “civile”. L’ultima delle tre, Pramila Patten, nel marzo 2018 si è recata per otto giorni in Iraq dove ha incontrato politici e funzionari a tutti i livelli, sopravvissuti e rappresentanti di tutte le confessioni religiose, per affrontare il grave problema della violenza sessuale nel conflitto iracheno, ed ha raccomandato che siano prese tutte le misure necessarie perché venga fatta giustizia, assicurando, altresì, che il suo ufficio ed i suoi esperti sono pronti a fornire la massima collaborazione ad investigatori e giudici iracheni. Malgrado il prodigarsi da parte di tanti, tuttavia, non riesce ancora a prevalere l’ottimismo. In varie parti del mondo, infatti, continuano ad agire indisturbate bande armate, come ad esempio in Nigeria i Boko Haram, o, fra Uganda, Repubblica Centro Africana, Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan, l’Esercito di Resistenza del Signore di Joseph Kony, che portano il terrore nei villaggi rapendo, stuprando e vendendo come schiave le donne, specie giovani, senza che il mondo riesca a portare pace e giustizia come ci si aspetterebbe in un secolo di grande progresso scientifico e tecnologico a cui non si accompagna ancora una autentica civiltà fondata sul rispetto della dignità dell’uomo.
Giuseppe Provenza Responsabile del Coordinamento Europa di Amnesty International Italia Membro del Gruppo Amnesty Italia 233
MAGGIO 2018 N.2 / A.4 - Voci
Europa
BOSNIA: SOSTEGNO, NON PIETÀ
L’ultima speranza di giustizia per le sopravvissute allo stupro nella guerra di Bosnia. di Paolo Pignocchi
Una vittima che guarda alla casa di famiglia distrutta in Bosnia Orientale. © Ziyah Gafić L’assistenza statale e i programmi di aiuto spesso non arrivano alle donne che vivono in aree remote.
I
l terribile conflitto della Repubblica Federale di Jugoslavia, meglio conosciuto come “La guerra di Bosnia” che ha coperto il periodo fra il 1992 ed il 1995, si concluse con il Genocidio di Srebrenica e gli Accordi di Dayton in cui la Repubblica Federale di Jugoslavia, in accordo con i principali attori europei, balcanici e mondiali, trovando una pace che definimmo “di carta”, tanto fu poco realistica, venne suddivisa in tre diversi stati: la Serbia, la Croazia e la Bosnia Herzegovina. La Repubblica Iugoslava divento’ uno stato definito Frankenstein. Un mostro a molte teste in cui si misero insieme pezzi di un paese che non potevano e non possono stare insieme: devastati, come sono stati, casa per casa, dal conflitto e dall’odio che ha bussato alla porta di ogni condominio di Sarajevo dove abitavano insieme bosniaci e serbi senza problemi, croati e mussulmani senza distinzione. Famiglie miste distrutte, allora, dalla guerra e dall’odio ed oggi dalla discriminazione che cova sotto la cenere. Fra le atrocità che una guerra come quella su base etnica ha prodotto, è necessario ricordare l’uso indiscriminato su larga scala dello “stupro come arma di guerra”. Il numero esatto di Voci - MAGGIO 2018 N.2 / A.4
vittime femminili di violenza sessuale associata al conflitto nella BiH è molto controverso, ma la stima più attendibile (espressa dal Consiglio d’Europa (CdE) indica la cifra intorno a 20.000. Il numero comprende donne bosniache, croate e serbe che spesso sono state imprigionate nei cosiddetti “rape camp” e violentate, rese schiave sessuali e a volte costrette a concepire in modo sistematico e ripetuto, da parte di gruppi militari e paramilitari. In modo meno organizzato, sono state violentate anche donne durante gli attacchi militari alla popolazione civile, con lo scopo di determinare la migrazione forzata di civili. Paradossalmente positiva è stata l’introduzione da allora di questo crimine come crimine di guerra e contro l’umanità nel diritto internazionale, cosa che prima non esisteva. La violenza colpì tutte le donne di tutte le etnie, epicentro la Bosnia Herzegovina, che subirono questo martirio insieme alla detenzione forzata in condizioni di maltrattamento e malnutrizione, rimanendo ferite irreparabilmente nei corpi e a volte uccise, più spesso mutilate fisicamente e, più subdolamente, ferite
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Europa
psicologicamente. Oggi, mentre scriviamo, a Sarajevo o a Tuzla piuttosto che a Belgrado vi sono donne che non hanno avuta riconosciuta, dai loro stati, un’invalidità di guerra per mutilazioni fisiche e che non ricevono, quindi un’indennità come, per esempio, chi ha combattuto nell’esercito durante il conflitto, e, spesso, ciò che resta e rende impossibile la vita di una donna è la Sindrome Post Traumatica, vera e propria malattia psicologica che non si cancella e per la quale molte donne non possono disporre neanche di un programma psicologico di recupero. Nessuna riparazione quindi. Purtroppo lo stigma sociale aggrava una situazione già molto pesante per le donne e porta le vittime a dover nascondere o a doversi vergognare della violenza subita anche in famiglia. L’impunità dei tanti criminali di guerra in tante situazioni le fa vivere vicino ai propri carnefici, rinnovando ogni giorno quel dramma, quei momenti incancellabili.
“Erano tutti uomini del posto. Li ho riconosciuti e ho testimoniato in aula molte volte. Alcuni sono stati assolti e altri hanno avuto sentenze ridotte. Molti oggi sono in libertà e alcuni lavorano come funzionari comunali. Ogni tanto ancora li incontro. Non è stato facile tornare qui dopo tutto ciò che ho passato e condividere la vita con le persone che hanno commesso tutti quei crimini”
ragion veduta) che l’apatia politica e l’impasse che ne consegue persisteranno ben oltre la vita della maggior parte di loro. Bakira Hasečić, dell’Associazione donne vittime della guerra (Women Victims of War), si esprime così: “La maggior parte delle sopravvissute non vivrà abbastanza da vedere il momento in cui sarà fatta giustizia”. In base al diritto internazionale, lo Stato della BiH è tenuto a garantire alle vittime il diritto alla giustizia, alla verità e alla riparazione. Tale obbligo comprende la possibilità di ottenere giustizia in base a criteri di uguaglianza ed efficacia, accanto a una riparazione adeguata, efficace e tempestiva del danno subito, che comprenda il risarcimento, l’indennizzo, la riabilitazione, la riparazione e la garanzia che non si ripeta. Nel complesso, tali misure sono intese a porre rimedio alla sofferenza delle vittime ad aiutarle a ricostruirsi una vita. Dal 2014, anno in cui sono iniziati i processi per crimini di guerra nella BiH, in tutto il paese i tribunali hanno portato a conclusione 123 cause che implicano crimini di guerra di natura sessuale, con la condanna di 134 autori dei reati. Tale progresso è positivo ma, di fronte a questi tempi di giudizio e oltre 900 cause di crimini di guerra pendenti (di cui quasi 200 inerenti ad accuse di violenza sessuale), per smaltire l’arretrato occorrerà un altro decennio. A fronte dell’enorme entità di stupri e violenze sessuali commessi durante la guerra, queste cifre rappresentano una frazione dei potenziali casi; le Una vittima seduta fuori dalla sua casa nel nord della Bosnia. © Ziyah Gafić Sebbene le ferite fisiche siano guarite, molte donne combattono ancora con conseguenze invisibili, ma durature, della violenza.
Elma, Vlasenica La ricerca che Amnesty International ha condotto per due anni rivela l’inadempienza delle autorità a fornire alle vittime la possibilità di ottenere in modo completo ed efficace verità, giustizia e forme di riparazione.
“Non mi fido più di nessuno, specialmente dello Stato. Mi hanno abbandonato tutti. Vivo solo per mio figlio. È la luce che illumina la mia giornata. Per quanto riguarda me… questa non è vita. Mi sembra di essere tenuta in vita da una macchina” Sanja, Tuzla Nei quasi tre anni di guerra, oltre 20.000 donne e bambine hanno subito stupri e altre forme di violenza sessuale. Le associazioni delle superstiti temono (a
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Europa
vittime temono che la maggior parte degli autori dei reati non saranno mai consegnati alla giustizia. Gli anni 2015 e 2016 hanno registrato il tasso più alto di processi conclusi, rispettivamente con 20 e 19 casi conclusi. Il tasso di condanna è stato del 76 per cento; questo, però, varia da corte a corte. Nella RS, circa la metà di tutti i casi è stata risolta in assoluzioni. Anche se complessivamente incoraggianti, questi numeri rappresentano ancora meno dell’1 per cento del numero totale stimato di vittime di crimini di guerra di violenza sessuale e una frazione dei casi denunciati. Nel corso degli ultimi due anni, AI ha osservato miglioramenti notevoli in varie aree della persecuzione dei casi di violenza sessuale legata al conflitto. Nelle interviste con l’organizzazione, le donne che hanno testimoniato di recente e le organizzazioni che hanno fornito assistenza legale, hanno parlato di cambiamenti significativi. Un altro problema è l’applicazione arbitraria e contraddittoria di attenuanti e aggravanti nelle pene. Il codice penale della Bosnia Erzegovina, come quello della ex Jugoslavia, prevede la possibilità di pronunciare sentenze al di sotto del minimo obbligatorio prescritto qualora vi siano circostanze altamente attenuanti che indichino che ‘una pena più lieve possa soddisfare lo scopo della condanna penale’. Le associazioni dei sopravvissuti e le Ong, riferendo che i tribunali applicano abitualmente delle attenuanti, esprimono disappunto per questa prassi, che vedono come una sorta di impunità per i delitti di carattere sessuale.
“Sembra che i diritti umani siano riconosciuti solo ai responsabili, ma non alle vittime. Noi dobbiamo contare sull’assistenza legale gratuita delle ONG, i responsabili hanno a disposizione due giudici, le loro spese legali sono coperte e ottengono pene ridotte. Ogni processo costa circa 160.000 bam (70.000 euro). La maggior parte di questi soldi va alla difesa. Allo stesso tempo, i tribunali sono restii a coprire le spese di viaggio per i testimoni, o a fornire supporto psicologico costante e protezione alle vittime che testimoniano”
non è spesso possibile disporre di altre prove. Come parte dell’obbligo di offrire alle vittime una soluzione efficace, i governi hanno l’obbligo di avviare delle misure che assicurino la sicurezza, il benessere fisico e psicologico e la privacy delle vittime, evitando loro un secondo trauma nel corso dei procedimenti legali e amministrativi. Mentre la clausola sulla protezione e il sostegno dei testimoni nella Bosnia Erzegovina è stata significativamente rafforzata negli ultimi anni, le lacune che permangono nel sistema pongono dei seri ostacoli all’effettiva prosecuzione e continuano ad impedire che molte vittime possano testimoniare durante i procedimenti. La giustizia, mancata per le donne di Bosnia e Serbia, è ancora lontana ma grazie alle ONG che operano nel luogo ed alle ricerche di Amnesty International, dei passi avanti sono stati fatti. Dobbiamo continuare a chiedere verità e giustizia per le donne che hanno subito violenza durante la feroce guerra di Bosnia ed in chiusura citiamo la testimonianza di una donna che non ha voluto lasciarci il nome:
“Il risarcimento sarà uno stigma aggiuntivo per il colpevole e vorrei essere certa che, nel momento in cui è obbligato a versarmi del denaro, mediti sempre sui reati commessi in passato” (Anonima) Fonte consultata: Bosnia and Herzegovina: “We need support, not pity”: last chance for justice for Bosnia’s wartime rape survivors EUR 63/6679/2017 https://www.amnesty.org/download/Documents/EUR6366792017ENGLISH.PDF
ACRONIMI: BAM BiH EU ICTY OSCE RS UN
Bosnian Convertible Mark (currency) Bosnia and Herzegovina European Union International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia Organization for Security and Cooperation in Europe Republika Srpska United Nations
Meliha Merdžić, Women Victims of War, Sarajevo Paolo Pignocchi
Nei processi per stupro e violenza sessuale collegati ai crimini di guerra, la testimonianza delle vittime è fondamentale per l’esito di questi casi, dato che
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Membro del Coordinamento Europa di Amnesty International Italia Componente del comitato direttivo di Amnesty International Italia
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Medio Oriente
DONNE PALESTINESI di Paola Caridi
Ph.: Ahed Tamimi. CC BY-SA 4.0 Haim Schwarczenberg, schwarczenberg.com
“tra la violenza dell’occupante e la resistenza dell’occupato, il corpo di una donna palestinese non è più il suo, ma diviene il simbolo di autenticità culturale, il simbolo della nazione palestinese. Così come in altri conflitti – dalla guerra civile in ex Jugoslavia al genocidio in Ruanda, sino alla guerra tra le truppe statunitensi e le forze insurrezionali irachene – i corpi delle donne sono il campo di battaglia” Nicola Pratt
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on fosse stato per Ahed Tamimi, l’opinione pubblica europea non avrebbe notato – nel panorama palestinese – la presenza delle donne. Non fosse stato per la potenza delle immagini in cui una ragazza di 17 anni viene ripresa dalle telecamere lo scorso dicembre, nel piccolo paese cisgiordano in cui vive, mentre affronta un soldato israeliano e lo schiaffeggia, il pubblico generalista non si sarebbe ricordato dell’occupazione israeliana della Cisgiordania. Per inciso, Amnesty International chiede il rilascio di Ahed Tamimi, che “proprio a causa di questo suo impegno politico è stata condannata a otto mesi di carcere e a una multa di 5000 shekel (1150 euro)”, considerando “sproporzionata” la punizione. 1 1 - https://www.amnesty.it/appelli/rilasciare-immediatamente-ahed-tamimi/
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Ph.: Taghreed al-Barawi. © Mohammed Salem / Reuters
Non fosse stato, anche, per i lunghi capelli biondi di Ahed Tamimi, il suo incarnato bianco, i suoi occhi azzurri, la comunicazione sulla questione israelopalestinese non avrebbe trovato un ostacolo inatteso. L’ostacolo determinato dalla sorpresa. E cioè, in questo caso, la rottura dello stereotipo estetico, sottolineato anche da uno dei commentatori conservatori più noti di Israele, Ben Dror Yemini. Ahed Tamimi “ispira simpatia perché sembra la figlia della famiglia di bianchi della porta accanto”, aveva scritto Yemini nel dicembre del 2017 sul più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot. Non fosse stato per Ahed Tamini, che è ancora in carcere per aver schiaffeggiato un soldato israeliano, non avremmo scoperchiato quello che, in Palestina, è evidente da tempo: una presenza diversa delle donne in questa nuova fase delle proteste contro l’occupazione israeliana. Persino le manifestazioni del venerdì lungo la frontiera di Gaza – le “grandi marce del ritorno”, come sono state chiamate – hanno visto una presenza di donne sorprendente, in una dimensione così conservatrice come quella della Striscia. Anche in questo caso, una presenza immortalata da una foto da breaking news, scattata da uno dei fotoreporter della Reuters: ritrae una ragazza, Taghreed al Barawi, che lancia una pietra. Un’immagine diversa da quella di Ahed Tamimi per un differente modo di vestire: di Taghreed al Barawi non si vedono i capelli, coperti da un velo che si allunga sul viso per proteggersi dai lacrimogeni. Il corpo della ragazza di Gaza, poi, è coperto da un jilbab, da un lungo soprabito che MAGGIO 2018 N.2 / A.4 - Voci
Medio Oriente
non le impedisce, però, di partecipare alla protesta e avvicinarsi alla frontiera con Israele, rischiando di essere colpita dai tiratori scelti israeliani. Sono foto, certo, e nelle foto sono ritratte giovani donne che, nel loro piccolo, diventano icone di un pezzo di storia. Dietro ai loro visi e alla loro protesta, c’è molto altro. In gran parte nascosto. C’è una situazione molto difficile, per le donne, a causa dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi che dura da oltre mezzo secolo. Le vittime, i feriti, gli invalidi, i detenuti sono in massima parte uomini, in questa storia. Lo dicono tutte le statistiche. Statistiche che parlano, però, molto poco delle conseguenze che il conflitto ha su chi resta. Donne divenute vedove oppure orfane a causa del conflitto, donne costrette a gestire una famiglia a cui manca – da un momento all’altro – chi porta un seppur magro stipendio a casa. Donne che perdono figli, figli spesso giovanissimi, negli scontri. L’occupazione costringe a una condizione estremamente precaria perché le questioni relative alla sicurezza confinano le donne, più degli uomini, a una dimensione chiusa, a una mobilità ridotta. È, questa, una situazione ahimè diffusa nelle aree di conflitto. Così come sono diffusi i danni collaterali, quelli che riguardano gli equilibri della propria comunità. Alla dimensione securitaria israeliana corrisponde una dimensione simile nelle aree controllate dall’Autorità Palestinese di Ramallah o, per quanto riguarda Gaza, da Hamas. Nel mezzo, le donne sono costrette a vivere in comunità che hanno irrigidito tradizioni sociali, recuperando modalità di gestione della società che si rifanno a periodi lontani nel tempo. È il patriarcato a uscirne vincente, in storie di questo genere. Come scrive Nicola Pratt, studiosa che ha scritto molto su diritti umani e società civile in Medio Oriente, “tra la violenza dell’occupante e la resistenza dell’occupato, il corpo di una donna palestinese non è più il suo, ma diviene il simbolo di autenticità culturale, il simbolo della nazione palestinese. Così come in altri conflitti – dalla guerra civile in ex Jugoslavia al genocidio in Ruanda, sino alla guerra tra le truppe statunitensi e le forze insurrezionali irachene – i corpi delle donne sono il campo di battaglia”. Nicola Pratt tocca, quindi, il nodo del sistema patriarcale, un sistema che l’occupazione israeliana non ha fatto altro, negli ultimi decenni, che irrigidire. “Come simboli della nazione che debbono essere protetti dagli occupanti, le donne palestinesi hanno il compito di salvaguardare il proprio ‘onore’, sia in relazione ai loro comportamenti improntati alla modestia, ma più in generale alla necessità di conformarsi al sistema patriarcale”.
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“Come simboli della nazione che debbono essere protetti dagli occupanti, le donne palestinesi hanno il compito di salvaguardare il proprio ‘onore’, sia in relazione ai loro comportamenti improntati alla modestia, ma più in generale alla necessità di conformarsi al sistema patriarcale” Nicola Pratt La donna palestinese è in sostanza imbrigliata in una condizione di ‘vittima-doppia’. Non è, appunto, un caso isolato. Semmai, una costante nelle zone di conflitto e crisi, su cui si riflette da decenni negli studi di genere. Anche quando gli studi di genere riguardano la regione araba. Ne hanno scritto estesamente le studiose riunite nel gruppo dello Arab Human Development Report che pubblicò nel 2005 un rapporto importante, Towards the Rise of Women in the Arab World 2. Era un gruppo guidato, non a caso, da una delle più famose studiose di genere nel mondo arabo, Islah Jad, palestinese, elemento portante dello Institute of Women’s Studies dell’università di Birzeit a Ramallah. Il programma di studi di genere a Birzeit è, in questo contesto, un centro di riflessione che sulla questione del patriarcato e sul ruolo delle donne nella politica palestinese (dalla prima intifada a oggi, soprattutto) ha prodotto studi, statistiche, rapporti di altissima qualità. Dimostrando, dunque, che al peggioramento delle condizioni in cui si trovano le donne palestinesi corrisponde una reazione culturale di tutto rispetto. Dietro gli occhi di Ahed Tamimi e di Taghreed al Barawi, immortalati da uno scatto fotografico, c’è molto altro, una complessità ancora una volta nascosta, che è necessario conoscere. Non solo per comprendere ciò che si muove nella società palestinese, frammentata dal punto di vista geografico e politico. Ma anche per rompere quel rigido velo tessuto in Occidente – orientalista e stereotipato – che incasella le donne arabe in storie che non sono le loro.
Paola Caridi Giornalista e storica, esperta di sistemi politici del Medio Oriente e Nord Africa
2 - http://www.arab-hdr.org/contents/index.aspx?rid=4
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America Latina
DIRITTI DELLE DONNE IN AMERICA LATINA a cura del Coord. America Latina
Una delle Madres di Plaza de Mayo al ex-ESMA vicino al ritratto di sua figlia scomparsa a 18 anni. Buenos Aires, Argentina, 2013 - Ph.: Espacio Memoria y Derechos Humanos
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el panorama della tutela dei diritti umani in America Latina (che peraltro presenta preoccupanti segnali di regresso in questi ultimi anni), le donne continuano ad essere particolarmente vulnerabili. Infatti esse da una parte subiscono spesso in maniera più grave le conseguenze di violazioni generalizzate, a causa di una condizione sociale ed economica più debole e per l’effetto di una cultura largamente “machista” che pervade il continente. Inoltre, esse sono vittime di violazioni specifiche, in quanto donne, a cominciare dai propri diritti sessuali e riproduttivi negati, per non parlare della pratica dello stupro e in quanto madri, perché testimoni e unica voce che spesso si leva a denunciare e a chiedere giustizia per le vittime, mariti, figli/e e nipoti. Nell’impossibilità, dato lo spazio a disposizione, di dare un quadro esauriente del problema, cerchiamo di esemplificarne alcuni aspetti.
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Parlando di diritti sessuali e riproduttivi non si può non parlare della difficile situazione delle donne in Centroamerica. Per esempio, in El Salvador l’aborto è stato criminalizzato in tutte le circostanze dal 1998, anche quando la gravidanza è il risultato di stupro, incesto o quando la vita della donna incinta è a rischio. Molte donne e ragazze hanno perso la vita o sono state imprigionate a causa del divieto totale di abortire. In El Salvador non solo si criminalizza ogni donna che subisce una cessazione indotta della sua gravidanza, ma si crea anche un’atmosfera di sospetto nei confronti delle donne quando subiscono emergenze ostetriche e addirittura verso i medici, che sono scoraggiati dal fornire assistenza in casi di gravidanze a rischio o aborti. Le prove dimostrano che il divieto totale di aborto non riduce il numero di aborti, ma aumenta il rischio
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America Latina
La marcia della “Caravana de Madres Centroanericanas” al passaggio del confine con il Messico. Ph.: Rubén Figueroa / Movimento Migrante Mesoamericano
che le donne muoiano a causa di aborti illegali e non sicuri. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito che le leggi restrittive sull’aborto mettono a rischio particolare di aborti non sicuri le donne che vivono in condizioni di povertà e quelle che vivono in aree rurali e isolate. Negli ultimi anni, diverse donne salvadoregne, spesso provenienti da ambienti poveri e svantaggiati sono state imprigionate dopo processi iniqui, caratterizzati da prove inconsistenti e scarsa difesa legale. Tutte avevano sofferto di complicazioni legate alla gravidanza al di fuori di un ospedale e sono state accusate di aborto. Esse hanno subito condanne fino a 40 anni di reclusione per omicidio aggravato. Alcuni casi recenti di liberazione di donne a seguito della riduzione delle loro condanne non deve far dimenticare che almeno altre 27 donne sono ancora incarcerate sotto la draconiana legge salvadoregna sull’aborto. L’altra faccia dello stesso problema può essere rappresentata dal Perù, dove nella seconda metà degli anni Novanta, il governo dell’allora Presidente Fujimori mise in atto un programma di pianificazione familiare che si concretizzò nella sterilizzazione forzata di oltre 300.000 donne e che si rivolse soprattutto alle fasce più povere della popolazione, come contadine ed indigene di lingua quechua. Vi sono prove evidenti che il personale sanitario coinvolto subisse pressioni affinché venissero raggiunte determinate quote di sterilizzazioni e che, in molti casi, le donne non avessero dato il loro consenso libero e informato. Risulterebbe che le donne che si opponevano all’operazione e le loro famiglie venissero minacciate di multe, pene detentive o revoca del sussidio alimentare. Diciotto donne sarebbero morte Voci - MAGGIO 2018 N.2 / A.4
e diverse avrebbero riportato problemi cronici di salute per la mancanza di un’adeguata terapia post intervento. Nonostante il dolore fisico e mentale subìto e spesso ancora vivo, molte delle vittime hanno trovato la forza per intraprendere una battaglia per ottenere giustizia, che è iniziata con le prime indagini nel 2004, indagini che in più di un’occasione sono state chiuse e poi riaperte a seguito di pressioni nazionali e internazionali. A luglio 2016 la Procura penale di Lima ha tuttavia deciso di archiviare il caso di oltre 2.000 vittime di sterilizzazione forzata, affermando che quanto avvenuto all’epoca non costituirebbe un delitto di lesa umanità. Questa sentenza ha rappresentato una dolorosa battuta d’arresto, ma non ha piegato queste donne che continuano nella loro strenua battaglia per ottenere verità, giustizia e riparazione. In Messico, nella “guerra contro il narcotraffico” la tortura è generalizzata, ma se ne ignora il forte impatto sulle donne. Amnesty International nel 2016 ha analizzato la storia di 100 donne che hanno denunciato torture e altre forme di violenza durante il loro arresto e interrogatorio da parte delle forze di sicurezza. Hanno subito colpi brutali, minacce, semi asfissie, scariche elettriche sul corpo, molestie sessuali, stupri con l’intenzione, in molti casi, di fare loro “confessare” delitti gravi. Delle intervistate 72 hanno denunciato violenza sessuale, 33 hanno denunciato stupri. Tutte permangono in prigione, accusate di delitti gravi, senza adeguata assistenza medica o psicologica. E i loro torturatori sono impuniti. 14
America Latina
Una di loro è Verónica Razo, madre di due figli, aveva 37 anni quando nel giugno 2011, mentre stava camminando per strada nel centro di Città del Messico da una macchina scesero degli uomini armati senza uniformi che la rapirono. Fu portata in un magazzino della polizia federale dove fu picchiata, quasi soffocata, sottoposta a scariche elettriche e ripetutamente violentata da diversi poliziotti. È stata costretta a firmare una “confessione”. Da allora è in carcere in attesa dell’esito del processo. Il suo caso è stato adottato da Amnesty International, e continue sono le pressioni presso le autorità competenti perché venga immediatamente rilasciata e i suoi torturatori sottoposti a giustizia. Sempre in Messico, da tredici anni la “Caravana de Madres Centroamericanas” denuncia le violazioni dei diritti umani dei migranti del centro America che attraversano il Messico, affrontando uno dei viaggi più pericolosi al mondo. Sono migliaia infatti i migranti che vengono rapiti, minacciati, picchiati, torturati e a volte uccisi da bande criminali. Si hanno anche evidenze di abusi commessi da agenti dello Stato. La carovana è costituita soprattutto da donne che cercano figli e figlie, ma anche fratelli, sorelle, compagni, parenti che durante il loro viaggio verso gli USA sono spariti. Le manifestanti giungono dall’Honduras, dal Guatemala, dal Nicaragua e dal Salvador, con un percorso che copre ben 4 mila chilometri e segue la rotta migratoria. In Argentina, dagli anni della dittatura ad oggi molte cose sono cambiate ma ce n’è una che è rimasta uguale: il lento e rituale girotondo che si ripete ogni giovedì intorno all’obelisco al centro di Plaza de Mayo, a Buenos Aires. A compierlo, settimana dopo settimana, passo dopo passo, sono essenzialmente donne, ormai anziane signore col capo coperto da un triangolo bianco, memoria di un pannolino infantile e del bimbo che un tempo lo aveva indossato, figlio o nipote amato e perduto, scomparso nei labirinti dolorosi della repressione di regime. Il rito è sempre uguale, anche se loro sono sempre un po’ più lente e curve, ma è cambiata l’atmosfera in cui è immerso. Quando iniziarono a incontrarsi e a camminare in cerchio, mostrando al mondo la foto di chi era scomparso, le Madres e le Abuelas di Plaza de Mayo si trovarono al centro di un mondo che le guardava con uno stupore che si trasformò subito in fastidio ed ostilità. Le chiamavano pazze e vecchie rimbambite ma questo non le fermò. L’atteggiamento poi cominciò a cambiare, consenso e sostegno arrivarono prima dall’’estero poi dal
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paese stesso con il ritorno alla democrazia: artisti internazionali cantavano di loro e per loro, gli scrittori raccontavano le loro storie, gli scienziati collaboravano per facilitare le loro ricerche, ci furono perfino candidature per il Nobel. Ora il vento è di nuovo mutato, negli ultimi anni molti cose sono state messe in discussione. C’è chi le contesta e vuole rivedere il numero ufficiale dei desaparecidos, tagli a finanziamenti rendono difficile realizzare progetti sulla memoria e a Madres e Abuelas sono state perfino avanzate accuse di corruzione. Nonostante questo, le vecchie signore dal fazzoletto bianco continuano a chiedere giustizia e memoria e marciano con vigore sorprendente ogni giovedì. Anche in Colombia vi sono madri che, come le madres di Plaza de Mayo, hanno avviato una lotta per i diritti umani che non è ancora terminata. Sono le madri di Soacha, località vicino a Bogotà, da cui nel 2008 sparirono 19 giovani, ritrovati alcune settimane dopo in una fossa comune nel nord della Colombia. I giovani erano stati attirati con promesse di lavoro, venduti alle forze militari, assassinati e fatti passare come guerriglieri uccisi in combattimento. Rientrano fra i casi noti come “falsi positivi”: si calcola che tra il 2002 e il 2008 circa 3.000 civili siano stati sistematicamente vittima di uccisioni extragiudiziali di questo tipo. I militari utilizzavano tale messinscena per dimostrare la loro efficienza nella lotta contro i gruppi della guerriglia e ricevere in compenso denaro, promozioni o giorni di riposo per ogni cadavere. Soltanto dal 2008 e grazie all’impegno delle madri di Soacha (che comprende mogli, sorelle e figlie dei giovani scomparsi) il fenomeno è stato portato alla luce e lo scandalo ha coinvolto numerosi militari. La battaglia di queste donne continua oggi per contrastare l’impunità e cercare di ottenere giustizia, vedendole doppiamente vittima: non solo hanno perso dei familiari, i cui casi restano ancora per lo più impuniti, ma per la loro ricerca di giustizia subiscono spesso minacce e persecuzioni. Nonostante nel 2015 si contassero 3.430 indagini aperte dalla magistratura per casi di “falsi positivi”, la maggior parte dei militari coinvolti erano stati liberati, e dopo i recenti accordi di pace tra governo e Farc, i militari condannati hanno chiesto di beneficiare del Tribunale speciale per la pace, con il quale si prevede otterranno notevoli sconti di pena.
Coord. America Latina di Amnesty International Italia
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Isole Caraibiche
LE DONNE NEI CARAIBI: POCHI DIRITTI, MOLTE VIOLAZIONI a cura del Coord. America del Nord e isole caraibiche
Shackelia Jackson, HRD in Giamaica. © Privato
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i è appena concluso a Lima, in Perù, l’Ottavo Summit delle Americhe, un consesso internazionale a cadenza triennale destinato alla promozione del dialogo fra le varie nazioni del nuovo continente. Il focus dell’organizzazione era proprio nella promozione coordinata nelle politiche continentali della difesa dei diritti umani, stante la drammatica situazione che si è venuta a creare soprattutto negli ultimi anni in conseguenza della crisi economica mondiale, che ha ulteriormente eroso le già scarse risorse deputate a garantire giustizia ed equità soprattutto alle categorie più deboli. In questo scenario la protezione dei diritti delle donne nei paesi caraibici appare gravemente compromessa, quando non addirittura sotto scacco; in tutta la regione le discriminazioni e le ineguaglianze persistono ed anzi si accrescono, esacerbate dall’altissimo livello della violenza, favorito a sua volta dalla capillare diffusione delle armi illegali, della crescita delle organizzazioni criminali, ma anche dagli abusi delle forze armate, dalle politiche repressive e dalle sparizioni, nonché Voci - MAGGIO 2018 N.2 / A.4
dalla pressochè totale impunità per gli autori, fattori che rendono la zona la più violenta al mondo per le donne. A ciò si aggiunge la nuova incalzante retorica apertamente discriminante, avversa ai rifugiati ed apertamente xenofobica perseguita pubblicamente in primis dal presidente U.S.A. Trump - ma non solo che avalla sui media globali e nell’opinione pubblica una regressione anche nella tutela dei diritti femminili sempre più evidente, e fa da scudo a comportamenti ancor più apertamente repressivi. Nei paesi caraibici, così come in gran parte dell’America latina, tutto ciò si traduce nella più alta percentuale di violenza contro le donne per mano di individui senza legami famigliari ed al secondo posto per violenza da parte del partner. In generale in tutto il nuovo continente le popolazioni indigene sono spesso fatte oggetto di attacchi ed intimidazioni, facilitate dalla discriminazione storica della quale sono stati oggetto e dalle loro minori possibilità di accedere ai processi politico-decisonali. Ciò li rende particolarmente inermi rispetto alle 16
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iniziative di grandi multinazionali o di governi che hanno adottato politiche illegali di spostamento di intere popolazioni dal loro territorio nativo per consentire azioni di sfruttamento delle risorse. In altri casi le popolazioni non vengono interpellate in merito a decisioni che incidono pesantemente sull’ambiente nel quale vivono, e si trovano costrette a subire le conseguenze di decisioni prese senza considerare in alcun modo i loro legittimi interessi nonostante le obbligazioni contratte dalle varie nazioni proprio in merito ai diritti collettivi dei nativi. Il fulcro della loro lotta è quindi la tutela ed il controllo delle risorse naturali e del proprio territorio, nonché il mantenimento dell’identità culturale e delle tradizioni autoctone. Specialmente a rischio risultano essere le donne native, spesso coraggiose esponenti nella lotta per i diritti e la giustizia in merito al controllo delle risorse naturali e dei propri territori tradizionali; per loro le conseguenze sono spesso ancora più gravi, in quanto oggetto anche di ulteriore discriminazione e specifica oppressione di genere. In Nicaragua l’attivista Maria Luisa Acosta ha perso il marito, Francisco Garcia, come ritorsione per la sua attività in difesa dei diritti degli indigeni; la corte Interamericana dei diritti umani con una sentenza storica ha riconosciuto nel 2017 lo stato del Nicaragua come responsabile per la violazione di diritto di accesso alla giustizia e per la mancanza di indagini esaustive sull’omicidio, e per porre fine all’impunità dei colpevoli.
Scendendo nel dettaglio delle varie realtà regionali però il panorama si arricchisce di particolari e si fa ancora più preoccupante. Nella Repubblica Dominicana il primo semestre del 2017 ha registrato un incremento del 21% del numero di femminicidi rispetto allo stesso periodo del 2016. Nel paese rimane drammatica ed anacronistica la situazione relativa al divieto assoluto di aborto in ogni situazione, previsto dal Codice Criminale esattamente così come era stato introdotto nel lontano 1884. In Giamaica nella primavera del 2017 attiviste di movimenti femminili hanno pubblicamente manifestato nella capitale contro l’impunità nei casi di violenza sessuale, agevolate dalla legislazione che non tutela ad esempio la donna nel caso che lo stupro sia da ricondurre al marito, ma i motivi di preoccupazione per le donne nel paese sono purtroppo anche altri. Nel 2014 il fratello di Shackelia Jackson, Nakiea, è stato ucciso dagli agenti in base ad una quantomeno sommaria somiglianza con un ricercato mentre cucinava, e per perseguire gli autori della brutale uccisione - una delle circa duemila operate dalle forze armate negli ultimi dieci anni - Shackelia si è battuta con grande determinazione, riunendo i famigliari di altre vittime decedute in circostanze simili, ed affrontando con coraggio anche le minacce dirette sia a lei che alla sua famiglia. La dimensione del problema diventa drammatica se si pensa che nel 2015 ben l’8% delle uccisioni perpetrate in Giamaica sono risultate ascrivibili all’operato delle forze armate.
Maria Luisa Acosta, attivista in difesa dei diritti degli indigeni in Nicaragua - Ph.: radiouniversidad.uca.edu.ni
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Isole Caraibiche
Saniéce Petit Phat, coordinatrice dell’associazione MOFALAK per la tutela delle donne e delle ragazze soggette a violenze. Repubblica di Haiti.
Le preoccupazioni di Amnesty nel paese sono da ricondurre all’impunità delle forze di polizia, e per appoggiare la lotta di Shackelia e di tutti i difensori dei diritti umani in Giamaica Amnesty aveva lanciato un’azione lo scorso anno a gennaio. Nella Repubblica di Haiti gli episodi di violenza sessuale contro donne e ragazze anche giovanissime sono largamente sottostimati; secondo le stime di Medici Senza Frontiere più della metà delle pazienti assistite dopo una violenza sessuale non è neppure maggiorenne. Saniéce Petit Phat, coordinatore dell’associazione MOFALAK per la tutela delle donne e delle ragazze soggette a violenze, è stata pesantemente minacciata di morte a giugno del 2016 da un vicino; un anno dopo suo nipote, che vive con lei, è stato aggredito. L’incredibile motivazione fornita dall’aggressore, già accusato dalla moglie di violenza domestica, è che si sentiva minacciato dal lavoro dell’associazione. È stato arrestato su denuncia di Sanièce, ma rilasciato dopo pochi giorni senza una chiara motivazione. Anche per questa donna coraggiosa che continua la sua lotta al fianco delle donne abusate, e per tutti i difensori dei diritti ad Haiti, Amnesty aveva lanciato un’azione urgente. Con il 19 aprile si è chiusa a Cuba l’epopea della famiglia Castro al potere, ma il nuovo presidente Miguel DiazCanel appena insediato non presenta alcun carattere di rottura o novità in quanto storico collaboratore della Voci - MAGGIO 2018 N.2 / A.4
precedente leadership. In vista dell’avvicendamento tuttavia Amnesty, che non ha alcun accesso al Paese da quasi trent’anni, ha stilato un’agenda per i diritti umani, una vera e propria roadmap che focalizza le principali preoccupazioni in merito. Nell’isola ad esempio vengono sistematicamente perseguitate le Donne in Bianco, un gruppo che accoglie i familiari di prigionieri detenuti per motivi politici; fra i punti proposti nell’agenda figura anche la protezione della libertà di espressione e di associazione. Nel mondo i difensori dei diritti umani sono conosciuti con l’acronimo HRD, e sono tutti coloro che si schierano in prima fila nella difesa di un’ampia gamma di diritti, come il diritto alla salute, all’educazione, al lavoro ed alla protezione sociale, ma anche alla giustizia, all’ambiente e per chiedere alle imprese di rispettare i diritti umani; l’acronimo WHRD si riferisce in particolare alle donne che difendono gli stessi diritti, ma anche a chi si occupa dei loro diritti. Mai come oggi c’è da augurarsi che nei paesi caraibici le donne, WHRD per scelta e per necessità, riescano a far sentire la loro voce a tutela non solo della loro specificità, ma anche della giustizia e dell’equità per tutti. Bruno Schivo Resp. del Coord. Nord America di Amnesty International Italia. Insegnante di scuola media superiore.
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Attualità
MARIELLE FRANCO di Daniela Tomasino
Marielle Franco, HRD e consigliera comunale, uccisa il 14 marzo 2018 nel centro di Rio de Janeiro, Brasile. Ph.: Mídia Ninja
‘Vamo que vamo, vamo junto ocupar tudo’
‘andiamo, andiamo andiamo insieme ad occupare tutto’ Marielle Franco, 14 marzo 2018
A
lle 21.30 del 14 marzo 2018, nel centro di Rio de Janeiro, 13 proiettili vengono sparati contro l’auto su cui Marielle Franco, consigliera comunale, sta viaggiando insieme all’assessora Fernanda Chaves e ad Anderson Gomes, che guida l’auto. Marielle Franco muore istantaneamente, trafitta da 4 colpi alla testa, Anderson Gomes viene ferito gravemente e morirà poco dopo, mentre Fernanda Chaves viene ferita in modo leggero. Cresciuta a Complexo da Marè, una delle favelas più povere di Rio de Janeiro, Marielle Franco era una donna di 38 anni, nera (afro-brasiliana), femminista, sociologa, cattolica, ragazza madre a 19 anni, bisessuale, orgogliosamente appartenente alla comunità queer 1 ed attivista per i diritti umani. Era in politica dal 2006 con il Partido Socialismo e Libertade (PSOL), e in pochi anni era diventata molto popolare, tanto che secondo alcuni commentatori era una potenziale candidata per le presidenziali del 2018.
Negras Movendo Estruturas” a Lapa, nel centro di Rio, organizzato dalla Casas das Pretas, uno spazio collettivo di donne nere. Durante il suo intervento 2 aveva citato Audre Lorde, scrittrice statunitense nera, femminista e lesbica, concludendo “O lugar de mulher, mulher negra, bissexual, agora estou casada com uma mulher, mas tenho uma filha. Dessas muitas representações a gente vai aprendendo, conhecendo e estudando mais” (il ruolo di donna, donna nera, bisessuale, adesso sono sposata con una donna ma ho una figlia. Da tutte queste rappresentazioni si impara, conosce e studia sempre di più). Marielle faceva politica e attivismo sociale a partire da sé stessa e dalla propria identità e secondo un paradigma intersezionale, basato cioè sulla consapevolezza che dimensioni umane diverse (quali condizioni economiche, appartenenza etnica e culturale, orientamento sessuale ecc.) si intersecano e si sovrappongono, e vanno analizzati ed affrontati insieme. Da anni denunciava pubblicamente le violenze e gli abusi commessi dalla polizia, dalle milizie paramilitari e dalla polizia militare.
Franco aveva appena partecipato ad un evento sull’empowerment delle giovani nere, “Jovens
Nel 2008 aveva collaborato con la Commissione parlamentare d’inchiesta contro le milizie paramilitari, che ha individuato 226 persone responsabili di
1 - https://info.umkc.edu/womenc/2018/04/02/long-live-marielle-franco-the-queerafro-latina-politician-feminist-and-human-rights-activist/
2 - https://noticias.r7.com/rio-de-janeiro/os-ultimos-momentos-de-marielle-francoantes-de-ser-morta-com-quatro-tiros-na-cabeca-15032018
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Attualità
Plenaria della Camera dei Deputati brasiliana in onore della consigliera Marielle Franco e del suo autista, Anderson Gomes. Rio de Janeiro, 15 marzo 2018. Ph.: Geraldo Magela / Agência Senado
violenze. Freixo vive sotto scorta proprio a causa di quelle indagini. Di fronte a un’escalation di violenze (58.383 omicidi nel 2015 e ben 61.619 nel 2016), il presidente Temer, appoggiato da un voto ampiamente favorevole della Camera, con un atto che non ha precedenti nella storia del Brasile, ha infatti affidato la sicurezza dello Stato di Rio de Janeiro alla polizia militare, ed in particolare al colonello Walter Souza Braga Netto, che ha pieni poteri su polizia civile, polizia militare, vigili del fuoco e sistema carcerario. In questo clima difficile, la polizia brasiliana è responsabile di numerose morti violente: nel 2015, 3.345 persone sono state uccise dalla polizia, il 6,3% in più rispetto all’anno precedente. E la situazione sembra peggiorata con l’intervento della polizia militare. Secondo il Guardian, solo nello stato di Rio nel gennaio 2018 sono state uccise 154 persone per “opposizione all’intervento della polizia”, con un preoccupante aumento del 57% rispetto al gennaio 2017. Due settimane prima della morte Franco era stata nominata relatrice di una commissione speciale, creata dal consiglio comunale, per monitorare la progressiva militarizzazione della sicurezza e l’impiego di forze di sicurezza federali a Rio. Il 10 marzo Franco aveva scritto su Facebook che il 41° battaglione della Polizia Militare di Rio, noto come “il battaglione della morte” stava terrorizzando e stuprando i residenti della favela di Acari: Questa settimana due giovani sono stati uccisi e gettati in un burrone. Oggi la polizia ha minacciato i residenti Voci - MAGGIO 2018 N.2 / A.4
della favela per la strada. Succede sempre, ma con l’intervento dell’esercito la situazione è peggiorata. […] Basta con i maltrattamenti alla popolazione! Basta con le morti dei nostri giovani! Il giorno prima dell’omicidio aveva chiesto su twitter, riferendosi all’omicidio, sempre da parte della polizia militare, del giovane assistente di un parroco, Matheus Melo, “un altro omicidio di un giovane che potrebbe entrare nel conto della PM. Matheus Melo stava lasciando la chiesa. Quanti altri devono morire per far finire questa guerra?” (“um mais um homicídio de um jovem que pode estar entrando para a conta da PM. Matheus Melo estava saindo da igreja. Quantos mais vão precisar morrer para que essa guerra acabe?”). Le indagini per l’omicidio di Franco e Gomes sono in corso, e sono complicate anche da una serie di fake news diffamatorie diffuse immediatamente dopo l’assassinio da politici e profili social apparentemente sostenitori dell’intervento della polizia militare. Secondo Tv Globo 3, i proiettili con cui è stata uccisa l’attivista sono parte di un lotto di munizioni acquistate dalla polizia federale di Brasilia nel 2006. Il 26 marzo un gruppo di Esperti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite 4 si sono detti allarmati per l’uccisione della difensora dei diritti umani, che è “allarmante poiché mira ad intimidire tutti coloro che combattono per i diritti umani e lo stato di diritto in Brasile”. 3 - https://www.jn.pt/mundo/interior/municao-que-matou-marielle-franco-era-dapolicia-federal-9192919.html 4 - http://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews. aspx?NewsID=22901&LangID=E
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Attualità
Ph.: Twitter @mariellefranco #MarielleVive
La morte di Marielle Franco ha suscitato numerose reazioni sia in Brasile che a livello internazionale. Migliaia di persone sono scese in piazza già dal 15 marzo in tutto lo stato. Due settimane dopo l’omicidio, Vanity Fair pubblica una lettera di Monica Tereza Benicio, fidanzata di Marielle Franco, in cui ripercorre i 13 anni di relazione con l’attivista, inizialmente vissuti in segreto. Avevano fissato la data del matrimonio per il mese di settembre 2019. Nei primi giorni dall’omicidio mentre la notizia rimbalzava tra le agenzie di stampa e si diffondeva, l’orientamento sessuale di Marielle Franco era stato omesso da diversi giornali e blog d’informazione brasiliani, e la stessa cosa è successa in Italia. Dopo alcuni giorni ha iniziato ad essere definita “lesbica” mentre solo dopo altro tempo il suo orientamento bisessuale ha trovato spazio nei media: in questa autocensura non si può non evidenziare i pregiudizi ancora esistenti sia nei confronti dell’omosessualità che, in misura persino maggiore della bisessualtà. La morte di Marielle Franco, che ha toccato particolarmente l’opinione pubblica internazionale, non è un caso isolato, e la situazione dei diritti umani in Brasile presenta numerosi punti critici. Come ricorda il Rapporto annuale di Amnesty International, “I difensori dei diritti umani, specialmente quelli delle aree rurali, hanno continuato a essere vittime di minacce, aggressioni e omicidi. Gli stati del Pará e di Maranhão erano tra quelli in cui i difensori erano maggiormente a rischio. Secondo la coalizione della società civile Comitato brasiliano per i difensori dei diritti umani, tra gennaio e settembre erano stati uccisi 62 attivisti, un dato in aumento rispetto all’anno 21
precedente. La maggior parte era stata uccisa nel contesto di dispute sulla terra e sulle risorse naturali. I tagli di bilancio e la mancanza di volontà politica di dare priorità alla protezione dei difensori dei diritti umani hanno determinato lo smantellamento del programma nazionale di protezione, lasciando centinaia di attivisti esposti a un rischio ancora maggiore di attacchi.” “Questo fatto agghiacciante costituisce un ulteriore esempio dei pericoli cui vanno incontro i difensori dei diritti umani in Brasile. Come esponente della Commissione per i diritti umani dello stato di Rio de Janeiro, Marielle difendeva tenacemente i diritti delle donne e dei giovani neri delle favelas e altre comunità emarginate”, ha dichiarato Jurema Werneck 5, direttrice di Amnesty International Brasile. “Le autorità brasiliane devono garantire un’inchiesta immediata, esaustiva e imparziale su questo tragico omicidio. Lo stato deve proteggere la persona rimasta ferita ed eventuali testimoni, identificare i motivi per cui Marielle è stata assassinata e portare i colpevoli di fronte alla giustizia. Il governo non può stare a guardare quando i difensori dei diritti umani vengono uccisi impunemente”.
Daniela Tomasino Attivista per i diritti LGBTI e volontaria della Croce Rossa
5 - https://www.amnesty.it/brasile-assassinata-la-difensora-dei-diritti-umanimarielle-franco/ MAGGIO 2018 N.2 / A.4 - Voci
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UNA VITA LIBERA DALLA VIOLENZA di Carmen Cera
Ph.: Immagini gratis / Pixabay
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a violenza è una realtà quotidiana che pervade la vita di molte donne in ogni paese del mondo. I dati mostrano come la violenza contro le donne nelle relazioni intime non sia confinata ad un particolare sistema politico o economico, ma sia comune in ogni società e cultura. La violenza di genere nei confronti delle donne permea vari contesti, circostanze e relazioni: il fatto forse più sconcertante è che la famiglia, invece che rappresentare un luogo sicuro, è uno dei luoghi in cui le donne sono più vulnerabili alla violenza. In molte società, infatti, le relazioni di potere storicamente inique tra uomini e donne vengono riprodotte con maggior forza all’interno del nucleo familiare. La violenza contro le donne all’interno della famiglia o della coppia, comunemente chiamata violenza domestica, è una grave violazione dei diritti umani. Essa viola il diritto alla vita, all’integrità fisica e mentale, ai diritti sessuali, al più alto standard raggiungibile di salute, alla libertà dalla tortura. Le ricerche di Amnesty International indicano che le violenze contro le donne nelle relazioni intime comprendono una molteplicità di aspetti. La violenza non è infatti solo fisica o sessuale ma può includere anche coercizioni di tipo psicologico o economico. Voci - MAGGIO 2018 N.2 / A.4
Il lavoro contro la violenza domestica costituisce per Amnesty International una pietra miliare per diffondere a livello mondiale il messaggio secondo cui la violenza contro le donne nelle relazioni intime, a lungo relegata nella sfera privata nella quale né la società né lo Stato erano tenuti ad entrare, costituisce, al contrario, una grave violazione dei diritti umani rispetto alla quale gli Stati hanno dei precisi obblighi di intervento. Amnesty International esorta tutti i Governi a realizzare un programma per affrontare la violenza domestica, prevenirne la reiterazione in vista della sua totale eliminazione, esercitando la cosiddetta due diligence (la cura e l’impegno dovuti). Secondo Amnesty International tutti i I rappresentanti statali e i leader politici a ogni livello devono condannare pubblicamente e in maniera esplicita la violenza domestica sottolineandone la gravità e affermando che si tratta di una violazione dei diritti umani e non di una questione privata; campagne informative e di sensibilizzazione sulla violenza domestica devono essere realizzate a tutti i livelli dalla scuola, all’università, ai forum cittadini, ai luoghi di lavoro al fine di denunciare la violenza domestica, eliminare lo stigma associato alle donne che hanno subito violenza e incoraggiarle a cercare giustizia; devono essere realizzati materiali educativi da incorporare nei curricula scolastici allo scopo di prevenire la 22
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violenza domestica contrastando le idee e i pregiudizi che considerano la violenza domestica accettabile, gli insegnanti e le altre figure coinvolte nel sistema di istruzione dovrebbero essere parte dello sforzo per superare i pregiudizi e gli stereotipi che confinano le donne e le ragazze a ruoli subordinati, il lavoro contro la discriminazione deve iniziare dal quotidiano, dalla discriminazione sottile di alcuni comportamenti dei compagni verso le compagne, ma anche dai ruoli che inconsciamente le ragazze sono spinte ad assumere e che trasmetteranno con l’educazione ai propri figli, perpetuando questo modello; bisogna assicurare che tutte le forme di violenza contro le donne siano riconosciute nella legge e nella pratica come violazioni dei diritti umani e come reati penali, che tutti gli atti di violenza domestica siano indagati, perseguiti e puniti in base alla gravità del reato e che le vittime ricevano un’adeguata protezione e riparazione; bisogna assicurare che la polizia fornisca un ambiente sicuro e confidenziale per le donne che denunciano atti di violenza domestica e che non ci siano pregiudizi di genere nel personale maschile della polizia; è necessario finanziare e realizzare programmi di formazione obbligatori per il personale – incluso polizia, avvocati, giudici, personale medico e forense, assistenti sociali, insegnanti – su come identificare e trattare i casi di violenza domestica; bisogna fornire finanziamenti adeguati ai programmi sulla violenza domestica in tutti i settori, incluso il sistema della giustizia penale, dell’istruzione, sanitario, dei servizi sociali e di riabilitazione, oltre a finanziare e realizzare un numero sufficiente di case rifugio o altri luoghi sicuri per le donne in fuga dalla violenza domestica che non compromettano la loro privacy, l’autonomia personale e la libertà di movimento.
Le donne devono trovare nelle Istituzioni il supporto necessario per vivere una vita libera dalla violenza. Se Amnesty raccomanda tutto ciò, non bisogna neanche trascurare, al fine di prevenire e contrastare la violenza domestica e il femminicidio, la difficoltà di una trasformazione culturale e sociale profonda, riscontrabile anche nel linguaggio sessista con cui spesso ci si rivolge alle donne, sintomo di una complessa e irrisolta, se non aggravata, relazione di potere tra uomo e donna sia nella sfera pubblica che privata e che rimane la causa più profonda delle discriminazioni sessuali e basate sul genere. È urgente riuscire a ridurre progressivamente le percentuali del sommerso e avviare una autentica rivoluzione culturale. Non ha senso avere raggiunto il successo nel lavoro, aver fatto splendide carriere e al contempo essere vittima della violenza di un uomo. E il compito non deve essere affidato soltanto agli addetti ai lavori, agli operatori del settore, ognuno di noi è chiamato a fare la propria parte, in relazione al proprio ruolo sociale, non solo per tutte quelle donne che non ci sono più e di cui conosciamo nomi, volti ed esecutori, ma anche per tutte quelle donne che fino ad oggi sono scampate alla violenza femminicida e che passano ogni giorno della loro vita nell’insicurezza e nella solitudine, temendo che possa accadere il peggio.
Carmen Cera Docente materie letterarie Referente educazione ai diritti umani Circoscrizione Sicilia di Amnesty International Italia
La violenza domestica è un fenomeno che il più delle volte si sprigiona quando nessuno sta guardando. Si nutre e vive di omertà. Ph.: www.hireduc.com ‘Amnesty International - Eye Tracking’, progetto realizzato dall’agenzia di advertising Jung Von Matt/Alster Hamburg, per Amnesty International Germany nel Giugno del 2009.
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«Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.» (Pericle – Discorso agli ateniesi – 461 a.c.) www.amnestysicilia.org
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