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La Cina e i minori uiguri /Estremo Oriente

LA CINA E I MINORI UIGURI

di Andrea Pira

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Resi orfani anche se i loro genitori sono ancora in vita. Doppiamente vittime della campagna antiterrorismo lanciata dal governo cinese. Quando alla fine della scorsa estate il mondo si è accorto dell’esistenza di campi di rieducazione dove le autorità di Pechino hanno recluso almeno un milione di uiguri e cittadini musulmani, è emersa anche la realtà delle ragazze e dei ragazzi strappati alle loro famiglie e rinchiusi a loro volta in orfanotrofi e centri speciali per tenerli lontani dalla loro cultura d’origine.

A differenza che in passato la Cina non ha negato l’esistenza di tali campi di reclusione. Al contrario ha lodato il proprio modello di lotta alla radicalizzazione e al terrorismo.

Lo Xinjiang è la regione all’estremo occidente della Repubblica popolare, terra della minoranza uigura, turcofona e di religione islamica, da anni spina nel fianco di Pechino. La provincia autonoma è attraversata da tensioni autonomiste e separatiste, alla base di un conflitto a bassa intensità che esplode di tanto in tanto con piccoli attacchi. Non mancano neppure infiltrazioni islamiste, le cui azioni sono usate da Pechino per giustificare la stretta repressiva contro la popolazione uigura. All’instabilità il governo comunista ha risposto nei due modi che conosce meglio: militarizzazione della regione e massicci investimenti per favorire lo sviluppo, del quale al momento beneficiano però soltanto un ristretta cerchia di uiguri e han, gruppo maggioritario nella Cina, immigrati nello Xinjiang per dar man forte alle politiche governative, contribuendo ad alimentare la diffidenza reciproca tra le due comunità e quindi il malcontento.

È ormai opinione assodata che la provincia sia diventa il laboratorio degli strumenti di controllo sociale messi in campo da Pechino: presidi di polizia, utilizzo di dati biometrici, programmi di controllo capillare con l’invio di volontari ospiti nelle abitazioni di famiglie uigure, delle quali scrutano comportamenti e attaccamento alla nazione e alla cultura cinese. I centri di rieducazione rappresentano il passo successivo. Pechino li presenta come luoghi nei quali gli ospiti (così sono definiti i reclusi) possono assaporare la vita lontano dal fondamentalismo. Resoconti meno edulcorati di quelli trasmessi dalla propaganda parlano invece del ricorso alla violenza e alle punizioni. Nel 2017 in contemporanea con l’emergere dei primi racconti su questi luoghi di detenzione, il governo locale dello Xinjiang ha iniziato anche la costruzione di altri centri, per fornire assistenza agli orfani, almeno fino al raggiungimento della maggiore età. Un’inchiesta dell’Associated Press ha fatto emergere che da inizio anno l’amministrazione regionale ha stanziato 30 milioni di dollari per 45 strutture, capaci di ospitare fino a 5.000 ragazzi e ragazze. Soltanto tra luglio e agosto, quando l’inchiesta è stata pubblicata, sono state indette gare per almeno nove centri di “tutela dei bambini svantaggiati”. Ragazzi e ragazze che sono inviati in queste istituzioni sono spesso figli di esuli o immigrati in Turchia per sfuggire alla detenzione, affidati a parenti finiti in uno dei centri di rieducazione. Il paradosso è che hanno ancora i genitori, la cui scelta è tra tornare in Cina, con il rischio di venir a loro volta rinchiusi perché considerati radicalizzati, oppure lasciare i loro figli da soli. Come i loro coetanei in altre parti della Cina anche gli uiguri sono immersi in quella che viene definita educazione patriottica. Ai giovani viene insegnato ad avere rispetto del Partito comunista al potere. L’utilizzo della lingua uigura è soppiantato dal mandarino. Come spiega James McMurray su Quartz, le politiche di assimilazione hanno avuto come effetto un impoverimento dei legami con la cultura tradizionale. Lo scopo fondamentale è far sì che l’unico vincolo di lealtà sia quello con lo Stato cinese.

L’effetto non è però quello desiderato. Isolati dalla società uigura, questi giovani educati soltanto in mandarino cercano di riscoprire le proprie origini, diventando ferventi nazionalisti e sentendosi fuori luogo nella società cinese. Tagliati fuori dalla propria comunità e diffidenti verso lo Stato che li vuole assimilare.

I gruppi per la tutela dei diritti umani denunciano pertanto la pratica di strappare ragazzi e ragazze alle loro famiglie, appellandosi anche a ciò che sancisce la stessa legge cinese in materia di adozioni e protezione dei minori. La stessa Convenzione dei diritti del fanciullo che Pechino ha ratificato obbliga i governi a garantire che bambine e bambini non vengano separati dalle famiglie senza l’assenso dei genitori, salvo decisioni dell’autorità, e che anche quando ciò accade la prima scelta di affidamento ricada sui parenti più stretti.

Figli di migranti, come i milioni di bambine e bambine “lasciati indietro”, nelle aree rurali da genitori partiti in cerca di lavoro in altre province della Cina o nelle città più grandi. Gli ultimi dati del ministero per gli Affari sociali dicono che il numero dei cosiddetti “leftbehind children” è scesa nel 2017 a 6,9 milioni. L’attenzione per quanti sono stati affidati in gran parte ai nonni, costretti a vivere nelle aree meno sviluppate della Repubblica popolare, ha avuto un picco lo scorso inverno, quando sui social netowrk cinesi sono state diffuse le immagini del “bambino di giaccio”. Il viso di Wang Fuman, con i capelli, ciglia e sopracciglia ghiacciati, costretto ogni giorno a camminare per più di un’ora al gelo per andare a scuola, era diventato virale, aprendo un dibattito sulla povertà ancora diffusa nel Paese.

L’altro aspetto delle migrazioni è il destino di quei bambini che assieme ai genitori, in una provincia o in una città diversa dalla propria si sono a lungo trovati privati del diritto all’istruzione o alla salute. Il sistema dell’hukou introdotto in epoca maoista, lega la possibilità di ricevere servizi assistenziali e sociali al proprio luogo di residenza. All’epoca un modo per limitare le migrazioni dalle campagne alle città. Ma proprio questi spostamenti, negli ultimi decenni, sono stati il motore della crescita cinese. Milioni di cinesi si sono trasferiti dalle aree rurali alle metropoli, alimentando la forza lavoro, disposta a trovare un impiego in fabbrica o nelle costruzioni. La più grande migrazione interna nella storia dell’umanità.

Il lato oscuro di tale ondata è la privazione di diritti di cui spesso i più piccoli sono stati vittime. Manos Antoninis, direttore del Global Education Monitoring Report dell’Unesco, ricorda in un articolo sul South China Morning Post che all’inizio degli anni 2000, a Pechino, più della metà dei ragazzi e delle ragazze migranti era costretta a seguire le lezioni di scuole improvvisate, scontando la carenza di docenti e la bassa qualità dell’insegnamento e delle infrastrutture. Le limitazioni, aggiunge, iniziarono a essere rimosse dal 2006, quando alle amministrazioni locali fu data indicazioni di provvedere all’istruzione. Nel 2008 furono invece abolite le tasse scolastiche per i migranti provenienti dalle aree rurali.

Non basta. Ai figli dei migranti sono richiesti ancora una serie di certificati per potersi iscrivere a scuola. Ben cinque: dal permesso di residenza temporaneo all’attestato della mancanza di qualcuno, nella città di provenienza, che possa prendersi cura del bambino o della bambina. Sottolinea ancora Antoninis che molte scuole fanno di tutto per complicare le iscrizioni. Sono inoltre forti gli stereotipi sui bambini migranti. La strada da fare quindi è ancora tanta. “Il prossimo passo sarà scrivere linee guida dedicati agli insegnanti che lavorano con i giovani migranti”. Per loro ci sono già troppo barriere “docenti e presidi non devono essere una di queste”.

Uyghur rally - manifestazione presso le Nazioni Unite per la libertà della popolazione uigura a maggioranza musulmana ingiustamente imprigionata nei campi di concentramento cinesi, 5 febbraio 2019 © TIMOTHY A. CLARY/AFP/Getty Images

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