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Myanmar, terra senza pace
MYANMAR, TERRA SENZA PACE
di Anna Violante
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Il 6 ottobre, in una lettera aperta a tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, la segretaria generale di Amnesty International Agnès Callamard ha esortato i governi ad aumentare la pressione diplomatica per porre fine alle violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito e a fermare il flusso delle armi, mentre chiedeva ai paesi dell’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations / Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) di premere sulla giunta perché rilasci tutti i prigionieri politici e consenta l’assistenza umanitaria alle organizzazioni internazionali. (1)
La lettera è seguita ad un appello firmato da 70.000 persone di 161 paesi.
Min Aung Hlaing, il generale sanguinario che il primo febbraio ha preso il potere con la forza in Myanmar, sembra non convincere del tutto più nessuno all’ONU. Benché finora gli embarghi si siano rivelati poco efficaci e le azioni concrete non abbiano seguito le parole di deploro che nell’ultima seduta di ottobre sono state pronunciate quasi all’unanimità, paesi chiave come la Cina e i membri dell’ASEAN hanno ripetutamente espresso il loro disappunto nei confronti della condotta dei generali al potere. La prima ha poca fiducia nella stabilità del governo, condizione indispensabile per perseguire i propri fini di sfruttamento del territorio e dei beni commerciabili, i secondi non hanno ammesso Min Aung Hlaing alla loro seduta di ottobre ritenendolo reo di non aver assolto alle loro raccomandazioni sull’allentamento della repressione nei confronti degli oppositori politici e delle minoranze etniche e religiose. Nello stesso tempo, però, tutti i paesi asiatici, compresi India e Giappone, continuano a inviare diplomatici per trattare con la giunta di affari economici e sull’allentamento della morsa repressiva.
Intanto la popolazione civile soffre e muore sempre di più. Agli oltre 1.000 morti e 8.000 prigionieri, uccisi o rastrellati durante le manifestazioni di dissenso pacifico al golpe o nelle loro case, si aggiungono i contadini delle minoranze etniche sfollati in campi profughi di fortuna o trucidati nei loro villaggi da un esercito spesso affamato e allo sbando che uccide anche solo per rubare del cibo.
Ma la paralisi delle attività produttive e dei trasporti dei beni di prima necessità, la distruzione degli ospedali civili dove i medici per primi si erano ammutinati, la disoccupazione dilagante, insieme al covid-19, arrivato dall’India a fine primavera, minacciano di fare ancora più morti delle armi. Il paese rischia il collasso, mentre le armi contro la giunta, impugnate fin da marzo dagli eserciti delle minoranze etniche, soprattutto Kachin, al confine con la Cina e Karen con la Tailandia, sono ora usate anche dai giovani birmani o bamar che, dopo brevi addestramenti in clandestinità, combattono in conflitti aperti e compiono attentati contro avamposti delle istituzioni e dell’esercito in grandi città come Yangon a Mandalay.
La guerra ai golpisti è stata ufficialmente dichiarata il 7 settembre dal NUG (National Unity Government of Myanmar) il governo ombra di unità nazionale, formato in aprile dagli eletti a suffragio universale nel novembre 2020 della Lega per la Democrazia (NLD) di Aung San Suu Kyi insieme ai leader delle minoranze. E’ la prima volta che la maggioranza buddista bamar, che occupa la fertile pianura del fiume Irrawaddy, si allea con i ribelli delle montagne in passato guardati con distacco, con sentimenti ostili o addirittura apertamente razzisti come nel caso a noi noto dei Rohingya. Ed è la prima volta che è stato formato un esercito di unità nazionale, il PDF (People’s Defence Force) contro quelle che il governo ombra definisce le “milizie terroriste di Min Aung Hlaing”.
Se il PDF, ufficializzato ai primi di luglio, conta ora su circa 80mila soldati, armati in gran parte dai vicini cinesi, “i terroristi” del Tatmadaw (nome ufficiale delle forze armate del Myanmar) sono 350mila, riforniti anch’essi dalla Cina, dalla Russia e, attraverso triangolazioni più o meno legali, da molti paesi che hanno firmato l’embargo delle armi fra cui, purtroppo, anche il nostro. Ma questo è un capitolo a parte. Quel che è certo è che il popolo birmano non è disposto a piegarsi.
In Myanmar si continuerà a combattere. Se l’appoggio morale dell’Occidente al NUG è garantito - il 5 ottobre l’Unione Europea ha votato unanimemente il ripristino della costituzione - quello di Cina, ASEAN e Paesi dell’area è ambiguo e zoppicante. Troppi sono infatti i tentativi di condurre alla ragione Min Aung Hlaing e troppo pochi quelli per il rilascio dei prigionieri politici e per ridare legittimità al governo democratico.
Anna Violante - Coordinamento Asia di Amnesty International Italia
Note:
(1) - Myanmar: Open letter on the need for urgent action to end violations and impunity in Myanmar https://www.amnesty.org/en/documents/asa16/4779/2021/en/