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Il diritto umano a un’esistenza dignitosa per le generazioni che verranno /Mondo

IL DIRITTO UMANO A UN’ESISTENZA DIGNITOSA PER LE GENERAZIONI CHE VERRANNO

di Maurizio Gemelli

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Le più recenti indagini statistiche ci consegnano, ormai da tempo, una condizione umana decisamente precaria, che vorrebbe cambiare, che non ne può più della confusione dilagante e, tuttavia, rimane attendista perché ha paura del peggio, che antepone il benessere allo sviluppo, che cerca nel privato ciò che il pubblico non è riuscita a offrirgli. Tutto ciò, all’evidenza, implica la destrutturazione del sistema degli affidamenti esterni a tutto vantaggio del consolidarsi della consapevolezza interiore. Con l’ulteriore effetto che la condizione collettiva si contrae in esperienza personale per diventare valore. Si fa largo, insomma, la voglia di esistere secondo prospettive egoistiche in un sistema che tiene a distanza di sicurezza soprattutto le minoranze non ancora integrate, le quali, dalla loro angolazione visuale di marginalità, assistono attonite e impotenti a questi processi, in ultima analisi, di sostanziale emarginazione. Si vuole alludere, in buona sostanza, a quelle che, con espressione davvero scultorea, Papa Francesco ha definito le “periferie dell’esistenza”. Sono tanti i nuovi “invisibili”, persone che fino a poco tempo addietro avevano una casa, un lavoro, una famiglia e ora si trovano in stato di abbandono in mezzo ad una strada, perchè hanno perso il lavoro, perchè stanno vivendo una separazione dolorosa, perchè sono rimasti soli e devono affrontare una malattia e via discorrendo. Sono individui che stanno misurandosi non soltanto con la pur fisiologica incertezza del futuro, ma anche con le paure del tempo presente, e che, anche per queste ragioni, rimangono attardati all’interno di un meccanismo che sembra avanzare come una ruspa, facendo a meno di loro.

Nel 2007, solo nel nostro paese, vivevano in povertà assoluta 2,4 milioni di persone, pari al 4,1% della popolazione.

Nel 2013 sono salite a 6 milioni, il 9,9%. E il prossimo anno potrebbe andare pure peggio.

I più recenti dati ISTAT riportano che il 16,6% della popolazione può contare su entrate mensili sotto la soglia di € 972,00 di spese per nuclei con due componenti.

Nel nostro paese, insomma, oggi esiste una “terza società : quella degli esclusi che negli anni della crisi, segnatamente dal 2008 al 2013, ha registrato un considerevole incremento delle sue dimensioni, fino a superare quota dieci milioni di individui, tra disoccupati, occupati in nero e inattivi, ma disponibili a un impiego. Nello scorso novembre, il tasso di disoccupazione ha raggiunto la quota record del 13,4 %, sfiorando il 44% tra i giovani. Abbiamo un debito pubblico da capogiro e il costume sembra come essersi arreso ad un endemico senso di instabilità. I valori della convivenza civile, dell’etica individuale, della solidarietà sociale, pur in presenza di sempre più ricorrenti e meritorie esperienze di volontariato, sono ancora piuttosto distanti da raggiungere e stentano ad imporsi sulle ingiustizie che hanno accompagnato - e purtroppo continuano ad accompagnare - il nostro Paese. Dati certo assai preoccupanti, che ci danno la misura di come siamo, insomma, ancora assai lontani dal benessere e dalle opportunità equamente distribuite.

Dopo gli ennesimi fatti, anche assai recenti, di corruzione all’interno della pubblica amministrazione, dopo i vari episodi di “invalidopoli”, di “pensionopoli”, dopo tutti i verminai formatisi al riparo di un pervicace costume clientelare, ormai pressocchè quotidianamente denunciato dalle cronache di stampa, continuiamo a non interrogarci sul valore da attribuire all’essere cittadini di questo Paese e, ciò che è più grave, a non volere comprendere, una volta per tutte, una verità forse assai banale, vale a dire quella che ciascuno di noi cresce, arretra, o si salva, soltanto insieme agli altri!

A rendere il quadro ancora più preoccupante contribuisce, altresì, il dato che il nostro paese è il quarto in Europa per presenza di immigrati regolari, anche se si tratta di soggetti prevalentemente in possesso di titoli di studio piuttosto bassi e con scarsa qualificazione professionale. Le destinazioni più ricorrenti rimangono il Regno Unito e la Germania, paesi nei quali l’importo medio del reddito per uno straniero arriva ad oltrepassare i 20.000 euro. Mentre in questi ultimi anni di crisi, in Italia e in Spagna i redditi degli immigrati – occupati prevalentemente in settori, quali l’edilizia, o i servizi domestici, pervero assai poco remunerativi – hanno subito una contrazione pari a circa il 10%. Tutti fattori, insomma, che concorrono a collocare il nostro paese in una situazione di notevole disagio sul fronte dell’esclusione sociale, in forza della quale oltre il 26% degli italiani si trova a rischio di povertà. Parametro quest’ultimo che ci posiziona agli ultimi posti nell’ambito dell’Unione Europea insieme alla Grecia, Spagna e Portogallo. E costituisce certo rilievo di scarso conforto la constatazione che il divario economico tra Nord e Sud e tra le differenti fasce della popolazione non è una peculiarità tutta italiana, investendo piuttosto l’intera Europa. Persino quest’ultima, infatti, risulta essere profondamente divisa tra Nord e Sud sul versante dei redditi, delle opportunità occupazionali, del trattamento economico riservato ad autoctoni e stranieri, della quota da considerare a rischio povertà.

Le cose non stanno, poi, affatto meglio sul versante della giustizia sociale nei ventotto paesi dell’Unione Europea. Come riferito, infatti, da un recente rapporto della Fondazione Bertelsmann Stiftung, che ha elaborato un c.d. Social Justice Index, il relativo trend appare in netto calo, ulteriormente fiaccato dalle recenti misure di austerità e dalle riforme adottate in vista della stabilizzazione economica e finanziaria, con conseguente riduzione in molti paesi della capacità di investire in settori strategici, quali, per esempio, l’istruzione e la ricerca.

Lo studio, elaborato dal succitato Ente, ha tenuto presenti i seguenti parametri : prevenzione della povertà, equità dell’istruzione, accesso al mercato del lavoro, coesione sociale, non discriminazione, salute e giustizia intergenerazionale. Ed è pervenuto alla davvero assai sconfortante conclusione che gli stati non hanno una linea di azione comune su quei versanti e che le migliori performances sono state realizzate sin qui soprattutto dai paesi nordici, segnatamente negli ambiti della prevenzione della povertà, nell’accesso al mercato del lavoro, nella coesione sociale e nella non discriminazione. Tutti disequilibri sociali, quelli sin qui evocati, che, in uno con l’ormai costante e globalizzata minaccia terroristica, rischiano di pregiudicare irrimediabilmente la coesione all’interno dell’intera Unione Europea.

D’altro canto, nel torno di tempo che va dal 1945 all’avvento dell’euro, questa Europa ha certamente vissuto con un tenore di vita e di lavoro che l’irruzione della globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione e le nuove produzioni non ci consentiranno certo più nel prossimo futuro. Nutrivamo tutti la speranza che la globalizzazione avrebbe portato benefici tanto nei paesi industrializzati quanto in quelli del Terzo mondo. Oggi, al contrario, il rovescio della medaglia della globalizzazione appare sempre più evidente. Agli occhi dell’osservatore attento si presenta un sistema commerciale globale ingiusto, che ostacola lo sviluppo e un sistema finanziario globale instabile, in cui i Paesi poveri si ritrovano gravati da un debito ingestibile. Il denaro dovrebbe giungere dai paesi ricchi a quelli poveri, ma assai spesso compie il percorso opposto. Come ha puntualmente sottolineato Joseph Stiglitz, già premio nobel per l’economia nel 2001 (1),

l’aspetto più significativo della globalizzazione è la disparità tra promesse e realtà. Sembra che la globalizzazione sia riuscita a unire gran parte del mondo contro di sé, forse perché sembra che ci siano troppi perdenti e troppo pochi vincitori.

Con l’euro, il successo maggiore degli anni dell’Unione Europea è stato il programma di scambi universitari Erasmus, che ha forgiato la prima generazione davvero europea. E’ la generazione che, se ha ancora voglia di europa, deve sapere trovare idee e leadership per uscire dalla crisi, magari prendendo consapevolezza del fatto che l’Europa di un tempo non esiste più, che ha bisogno di nuovi ideali, leaders e capacità di essere ottimisti e solidali, di rimboccarsi le maniche con la certezza che certi privilegi del passato sono finiti.

La scommessa è piuttosto semplice e verte tutta su una serie interminabile di interrogativi di fondo, del tipo: che cosa realmente intendiamo quando reclamiamo per il futuro una qualità della vita? Chi sarà l’uomo di domani? Riuscirà a costruire rapporti sociali, e tra le persone, più aperti? Sconfiggerà lo scandalo della povertà e delle violenze vecchie e nuove? Quali sconosciuti dolori dovrà conoscere? Sarà libero di organizzare la sua storia secondo un progetto universale o seguiterà a portarsi dietro le separazioni di oggi? Di quali esempi potrà giovarsi per entrare nel terzo millennio? E quale futuro avranno il sentimento e l’idea di Dio nel suo animo e nella sua mente? Ma le generazioni europee del prossimo cinquantennio avranno la nostra stessa fortuna e, tutto sommato, una esistenza dignitosa come è stata la nostra? Potranno invocare, nelle varie sedi istituzionali e non, il diritto umano ad avere garantita una vita degna di questo nome? Sullo fondo di tutti questi interrogativi si colloca la ricerca di senso, che rimane strutturale alla stessa esistenza umana. Sovvengono, al riguardo, le parole utilizzate da Honorè de Balzac, nella sua opera “La pelle di zigrino” del 1831:

la chiave di tutte le scienze è indiscutibilmente il punto di domanda. Dobbiamo la maggior parte delle grandi scoperte al come? E la saggezza nella vita consiste forse nel chiedersi a qualunque proposito perché.

D’altro canto, se ci riflettiamo solo un istante, ci rendiamo subito conto che l’incremento del nostro sapere, in ultima analisi, non è altro che un continuo susseguirsi di domande e delle relative risposte, le quali, a loro volta, generano nuove domande ed è appunto dall’alto di questa piramide che si riesce ad osservare ambiti della realtà sempre più estesi. Ciò, però, non comporta affatto come logico corollario che tutte le domande possano, o addirittura debbano, necessariamente trovare una risposta. Kafka ci faceva intuire che ci sono domande senza risposte, che, proprio per questa ragione, ci rivelano il nostro limite creaturale, costituiscono una sferzata all’arroganza dell’onniscienza, o dell’hybris, cioè della sfida all’arbitrio supremo nel decidere bene o male, vero e falso, giusto e ingiusto secondo risposte dettate da convenienza o da mera vanità e superficialità.

Ciò premesso, tornando al nostro interrogativo di fondo, relativo alle concrete possibilità di sviluppo del nostro welfare di oggi, al quale, pur con le difficoltà sin qui delineate, vorremmo provare ad abbozzare una risposta, mi sentirei di concludere di primo acchitto che esse si sono rivelate sin qui assai poco consistenti. La sensazione netta è, infatti, quella che, di fronte a un “ingorgo di futuri possibili” – secondo la celebre espressione di Jurgen Habermas – tende ad aumentare il rischio di essere trascinati dagli eventi, senza potere scegliere dove vogliamo andare. Sfidati da troppi domani, ci rendiamo sempre più conto del fatto che ogni decisione può generare altri dilemmi, che, in fondo, sono insiti nel tipo d’uomo che ci rappresentiamo. E, a quel punto, l’alternativa diventa stringente, nel senso che consideriamo l’umanità o come il fine unico della creazione (e allora non è possibile consegnare solo alla storia le nostre speranze), oppure come un mero aspetto della materia, una semplice forma di vita, pari a tante altre (e allora bisogna accettare l’indifferenza della storia nei nostri confronti). E a proposito di senso della vita, non potranno essere solo le realtà biologiche, oggettive, a non essere riducibili alla sola speranza, dal momento che la stessa vita è, invece, qualcosa di rivoluzionario proprio nella sua capacità di ricerca e di conversione, di rifiuto e di scelta.

Ma se così è, diventa ancora più pressante l’interrogativo se nel prossimo futuro saremo, o meno, noi a scegliere? Grandi potenti e molte inquietudini continuano a segnare il futuro. Sul punto, ha scritto condivisibilmente un illustre economista (2) che

se la democrazia è uno dei grandi impegni presi dall’Europa negli anni Quaranta, l’altro è stata la sicurezza sociale, la necessità di evitare intense privazioni. Anche se tagli feroci alle fondamenta dei sistemi europei di giustizia sociale fossero inevitabili (non credo, ma mettiamo pure che lo siano) è necessario convincerne la popolazione, invece di tagliare per decreto. Eppure sono stati spesso imposti a dispetto dell’opinione pubblica …

Una sorta di nuovo pessimismo sta insidiando il nostro pensiero: l’idea che le risorse del pianeta si esauriranno, che il disastro ecologico ci punirà, che le grandi migrazioni ci priveranno di qualcosa. Ne è derivata una sorta di nuova immagine della realtà, che è quasi l’ombra proiettata da quella vera, che si è provato a sintetizzare nell’immagine plastica del c.d. villaggio globale, cioè l’unirsi presunto dell’umanità per effetto del prodigio di internet, e che ha finito per oscurare la realtà effettiva del nostro mondo attuale di separati, nel quale da una parte si vive sempre più di benessere e dall’altra si muore sempre più di stenti. E’ stato fatto, all’uopo, il tentativo di esprimere in cifre la qualità della vita. Né è scaturito, nell’ormai lontano 1990, il c.d. indice di sviluppo umano, che tiene conto non soltanto del reddito prodotto, ma anche di fattori come l’istruzione, il servizio sanitario, il potere d’acquisto, l’incidenza della criminalità e della droga, la pubblicazione di libri, la disparità tra uomini e donne e di altri ancora. Si è altresì compreso, per esempio, che la povertà dei bambini è un caso esemplare non solo di disuguaglianza ingiusta (perché fondata esclusivamente sull’origine di nascita), ma anche del corto circuito che può scaturire, sul piano individuale, tra povertà materiale e menomazione delle capacità e, su quello collettivo, tra incidenza e gravità della disuguaglianza e impoverimento complessivo della società. Nel caso dei bambini, infatti, la povertà è destinata a provocare, all’evidenza, effetti di lungo periodo ben più rilevanti che non quella degli adulti, influendo negativamente sia sul loro sviluppo sia sulla salute fisica, sia sulla possibilità loro negata di accesso ad adeguate risorse per lo sviluppo complessivo. Gli esiti delle indagini svolte in questi ultimi anni nel nostro Paese sulle competenze cognitive dei bambini e degli adolescenti segnalano come esistano forti divari su quel versante tra i ragazzi, a seconda della classe sociale e della residenza geografica di provenienza.

Al riguardo, sovviene, non senza accenti quasi provocatori, l’esperienza fatta nello stato del Kerala, dove il problema dell’istruzione dei bambini poveri è stato risolto, con conseguente sconfitta dell’analfabetismo, attraverso l’elaborazione di un programma di orari scolastici flessibili in cui si offriva una sostanziosa refezione. E l’esperimento ha così ben funzionato da indurre la Corte Suprema indiana a rendere la refezione di mezzogiorno obbligatoria in tutte le scuole pubbliche della nazione.

Non abbiamo ancora dati precisi per effettuare calcoli così complessi per stabilire esattamente a che punto è l’uomo di oggi nella considerazione di tutti quei parametri surrichiamati, epperò crediamo di potere affermare, senza tema di smentita, che la posta in gioco è piuttosto alta, dal momento che, in ultima analisi, si tratta del destino delle generazioni che verranno! A proposito di queste ultime, forse sarà il caso che gli uomini del nostro tempo comincino ad aiutarli a credere che forza e debolezza, rinuncia e impegno, sazietà e vuoto, egoismo e amore non sono separati per sempre, favorendo per quella via il quotidiano processo di adattamento ad essere ciò che faticano a diventare. Cooperando nella ricerca di altre mete, ovunque, persino all’estero, misurandosi con le opportunità più scomode, alimentando propositi e perseguendo obiettivi, che richiedono duttilità e rischio quotidiani.

Senza, tuttavia, commettere il grave errore di crederli appagati dalla loro età, dalla loro natività digitale e dalla realtà virtuale, nella quale li scopriamo ogni giorno sempre più immersi. Forse è venuto il tempo che la generazione adulta del presente smetta di rifugiarsi nel comodo alibi delle loro paure, dei loro dubbi, della loro indocilità, delle loro rassegnazioni, dedicando alla loro causa uno sforzo di maggiore attenzione.

I diritti umani, com’è notorio, vivono nelle prassi quotidiane, non basta declamarli, occorre farli praticare sulla terra. Nessun diritto, neppure quello ad una esistenza più dignitosa, è mai per sempre, né possiamo ritenere imperiture le Dichiarazioni dei diritti. Ogni generazione deve impadronirsene di nuovo, perché altrimenti il serio rischio è che rinsecchiscano al pari di un vecchio tronco. Per le istituzioni, poi, il compito rimane lo stesso di sempre: quello di costruire una infrastruttura sociale che aiuti le persone e i Paesi a vivere una vita all’altezza delle loro aspettative, che le sottragga all’alternativa di un mondo reale troppo povero e di un mondo virtuale troppo ricco (3).

In fondo, ripartendo anche da consapevolezze di questo genere, apparentemente banali, si può ricominciare a vivere un’esistenza più dignitosa.

(1) - Per ogni ulteriore approfondimento delle argomentazioni di cui al testo, v. J. Stiglitz, Making Globalization Work, WW. Norton/Penguin 2006.

(2) - Il riferimento di cui al testo è ad Amartya Sen e al suo intervento tenuto il 21 giugno 2012 alla Conferenza di Lucerna della Bank of International Settlement, la cui versione integrale, in italiano e in inglese, può essere letta in http://24o.it/H1ftF

(3) - A questo specifico riguardo, forse meriterebbe maggiore attenzione di quella sin qui ricevuta la proposta per la riduzione della povertà e della fame nel mondo, avanzata da Shirin Ebadi, avvocato pacifista e attivista per i diritti civili, nonché premio nobel per l pace nel 2003. In occasione della Conferenza “Food and Water for Life”, tenuta a Venezia il 27 settembre del 2008, la Ebadi suggerì le seguenti due precise strategie : a) la concessione di prestiti e crediti ai diversi paesi venga vincolata alla riduzione del loro budget militare, che non dovrà superare il totale del budget previsto per l’istruzione e per la sanità; b) se un paese povero non è in grado di ripagare il proprio debito estero, lo potrà vedere annullato a condizione che sciolga il proprio esercito.

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