R-U-Ben il duplice corpo del Re

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L’antefatto, in principio Genesi


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Quest’è una storia partita da lontano La storia della vita di Romano e Benito Amodeo, di R-U-BEN, Romano Unito a Benito, sembrerà raccontata dagli uomini che vivranno tra cinquemila anni, ai quali è già noto come furono gli eventi che nel 2.021 sono ancora da accadere. Essi hanno acquisito con l’entanglement quantistico la possibilità di lanciare informazioni a velocità assoluta, e i loro racconti non sono più restati nei ristretti confini di una presenza nel tempo, indotta dalla velocità della luce, che è quella dello stesso soggetto umano, ordinata nel tempo e nello spazio della sua vita reale. Così hanno lanciato la storia di un Modè da cima a fondo, di un A-modè-o, chiamato coi cinque nomi di Romano Antonio Anna Paolo Torquato, e che ha avuto un fratello egli pure coi suoi cinque nomi di Benito Vittorio Anna Giovanni Vincenzo. Figli di Luigi e Mariannina Baratta, R-U-BEN avrebbero ripresentato quanto in apparenza accaduto migliaia di anni prima di Cristo, e che sarebbe stato reso essenziale – posto in principio, – per come appare raccontato nel 1° libro della Bibbia (intitolato Genesi in Italiano) e nei capitoli 25 e 38. Nei due capitoli (come i 5 nomi) sono poste le 5 dita della mano dei 2° nati (Giacobbe e Perez) tese a far le scarpe ai 1°geniti RO+ mano (Esaù e Zerach). In 25-A-38 (Libro A, cap. 25 e 38) 4 gemelli, in 2 coppie, vogliono il primato. Quando in 25-A, ossia 1-25 (gen.25, Genesi e gennaio 25, mese e dì natale del 1°, Romano) egli nasce, la mano del 2° gli serra il calcagno per anteporglisi. Quando in A-38, ossia 1-38 (Genesi e gennaio del 38, mese e anno natale del 1°, Romano, figlio ch’è assegnato a ER-Onan, uniti in RO e congiunti di mamma Tamar, che è secondo gli estremi congiunti di Baratta Marianinnina), accade che il 1°genito ( RO+mano figlio di Baratta Mariannina) nasce solo la sua mano figlia di RO, poiché il 2° riesce a riportarlo nel grembo materno ed esce lui per 1° col nome di Perez che dice e non dice che P(=RO) è re Z (è Re solo alla fine). Questo il modo – escogitato nel futuro dai viventi – per disporre realmente in Bibbia un antefatto posto in principio= , Genesi=gennaio 25-38. La Bibbia è l’antefatto della vita riguardante R-U-BEN (il vero 1°genito dei figli di Israele e degli Apostoli di Gesù Cristo: 12 dai 12 nomi di R e BEN), antefatto che va dal 1°, R, fino all’Ultimo BENI’ AM ino (Benito Amodeo, in opera, in ognuno).

12 nomi apparentemente dati da papà e mamma, ma in verità dalla Provvidenza del divin disegno lanciato in numeri, così come ogni programma in un computer. La storia di R-U-BEN – disegnata tra il 25-1-38 e il 4-10-2.025 in cui R morirà – lanciata oltre il tempo e lo spazio grazie all’entanglement quantistico, fu storia udita – nel lontano passato – da tutti quelli che – come profeti, poeti e sognatori – ebbero orecchie per udirla, e la scrissero nelle Sacre Scritture della Bibbia, come tutto quanto incominciò dal principio, con Adamo, un 1°, poi Eva e i Tre loro figli. Adamo=MDA così è scritto in Ebraico, e generato nel 1° libro della Bibbia; Edom=MÈDA e la sua ricomparsa in Genesi 25, che aggiunge È (Hè=Èpsilon). EDOM (per com’è letto) trascende MODÈ da Alfa a Omega in AMODÈO, come MDA trascende Amodeo per com’è espresso nel Codice Fiscale. A pagina 9 vedete (in un prospetto riassuntivo) come lo stesso libro 1:4:25 (di quando in Bibbia è introdotto il nome di MDA) anticipa la data di 1-38-25 in cui (dopo che Gesù e Edom furono nominati in 1-25, Genesi 25), si sarebbero definiti in A-MODÈ-O Romano, nato in 1-38-25, secondo gli scritti in Genesi 38 e 25. Nel capitolo 1-38, Er e Onan – congiunti in RO a Tamar (estremi congiunti di BaratTa Mariannina, madre di ROmano), proprio come congiunti, come sposi e parenti – quali Er e Onan saranno RNN nel CF di Romano Antonio Anna. Ciò mentre il terzo gruppo di 5 dati – 38A25 – sempre nello stesso CF, rimanderà al libro A della Bibbia nei predetti capitoli 38 e 25 in cui sono descritte le azioni – i «dati» – tramite quelle cinque «dita». Nel 25 sono le dita (i dati) della mano di Giacobbe; nel 38 appartengono a quella del primogenito (Zerach) che nascerà per intero solo come il 2° nato, pur essendo dichiarato dalla nutrice veramente il 1°, con la sua mano attribuita a RO (Er e Onan congiunti nei loro estremi), e dunque con la sua ROmano, di A-MODÈ-O, ÈDOM dall’Alfa all’Omega! Chi ha conosciuto (nel futuro) ciò che ha riguardato Romano Amodeo e suo fratello Benito, l’ha narrato oltre il tempo e lo spazio. Lo stesso nome di RuBen (il vero primogenito di Giacobbe) è stato proiettato nel passato da Romano Unito BENito. In Bibbia è scritto che perse la 1°genitura per l’impertinenza inammissibile che Ruben ebbe nel mettersi nel letto del Padre con una sua concubina. È la stessa impertinenza di cui Romano Amodeo è accusato di metter sé al posto di Dio Padre quando di dichiara il «somàRo» – il «corpo» di «Ro» – che veicola il Signore nel suo definitivo ingresso in Gerusalemme, come profetizzato da Zaccaria: «Ecco il Re, entra in Gerusalemme sul dorso di un asino»


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Varranno lo stesso contenuto numerico posseduto dai nove nomi di Adamo Set Enos Kenan Malaleel Iared Enoch Matusalemme e Lamech che furono tutta la catena di padri e figli all’origine della generazione del definitivo 10° in Noè.

Come vedete nel prospetto, a lato dei nomi, la loro stessa cabala, sia Ebraica, sia Italiana, mostra la coerenza in essere tra i valori delle lettere di Adamo e di Edom (scritte in ebraico) e il CF del cognome MDA di Amodeo (scritto in italiano). MODÈ=33 è ½ (e un mezzo conoscitivo esatto) del 66=Romano, e vale il numero degli anni di vita che la Divina Provvidenza assegnò a Gesù Cristo. Con ciò, nella proporzione tra le due distinte Gematrie, l’indice 33 di Modè (in italiano) sta a quello 51 (corrispondente in ebraico), come quello dell’esponente 48 (che è il valore cabalistico del nome Gesù) sta a quello 66 del nome Romano. Ebr. meno It. in Edom è 51 meno 33=18=66 meno 48 It. meno It. in Romano meno Gesù Ciò esiste in questa serie di relazioni auree 18 +48 + 66 +114

+180 = 426

È in matematica un’eccezionale serie trascendente, che comincia da tutto il lavoro tridimensionale dato da 6+6+6=18, e poi lo fa crescere di 10 in 10 come: 18 28 38 48 In essi c’è la perfetta proporzione data da: 1018 × 1048=Gesù = 1028 × 1038=anno natale di Romano = 1066=Romano. In tutta questa vicenda, i 6 nomi assegnati a Benito Vittorio Anna Giovanni Vincenzo Amodeo (Benì Amino) varranno il 426 esatto di cui sopra.

Il 1° fu l’Amodeo=MDA nel suo CF =Adamo. Quando è anagrammato con Eva, già Eva Adamo va a Amodè ). Giunto al 10° definisce in NOè con il NO la 3a sillaba del trisillabo Ro-ma-NO. Il NO – è la 3 a sillaba, che s’impone così, proprio come è il 3° nome a imporsi nella terna dei figli del 1°, Caino-Abele-SET. Come, da MDA (che è il 1° fattore), nel 2° fattore si impone solo il nome del 3° effetto, (e riguarda soltanto il flusso reale dei primi due effetti, che sono i lati dell’area trasversale effettiva che poi fluisce in 1/3 dell’intero) così nel 10° fattore (avente il valore 66 del nome trisillabo Ro-Ma-No) solo Noè chi si impone! Il tal modo dal 1° MDA=AMODEO (nel suo CF) si va al 10°=ROMANO CAINO+ABELE=38+23=61 sono il 1° intero (di 60 secondi) + un 2°. Il flusso è solo SET=40, che sommato ai due è giusto il valore 101=Luigi Amodeo, padre del 1° e del 2° RO+MA =29+12=41 sono solo i 2/3 del 1° (di 60 secondi) + un 2°, poiché al 1° è stato tolto il valore 1/3 di 60. Ciò vi prova, con il valore reale assegnati nei nomi, che l’eliminazione dei 2/3 riguarda il piano trasversale. Nel 2° effetto, il valore medio del piano, è 30,5 in ciascun lato; nel 10° effetto il valore di ogni lato è 20,5, è 1/3 di 60, nel tempo 1/2. Al 3° (del trisillabo Romano) che in NO vale solo 12+13=25=5×5, va aggiunto così il terzo 5=10/2, e diventa con 30 il valore esatto 30 di ADAMO, del 1° che a sua volta in 30 è solo un mezzo del vero 1° assoluto che è DIO, in 60 secondi, quando il 10 lavora per tutti e 6 i giorni della creazione. Per tutti e 7 diventa 70, ed è il Dio=10 che crea in 7 giorni. ADAMO+NOE’=30+30=60 è tutto il lavoro del Creatore ed è chi si è presentato sui nomi estremi di AMODEO ROMANO =113 come su un  un somàro trainante che deve togliere di mezzo ROMA (la Civitas Septicollis, come nella profezia di San Malachia sugli ultimi suoi Pietro) di cui l’ultimo è il PieTRO ROMANO=113. È, in PieTRO, Pi e TRO, ossia Paolo più il Torquato Romano già compreso nel trino TRO di TORquato. In Pi-e-TRO vale la stessa relazione una e trina di P e TRO ch’è in R-u-BEN tra R unito a BEN. Ebbene, questa storia descritta in Genesi (lanciata in tempo assoluto, ossia oltre il tempo e lo spazio da persone che nel 2.021 sono molto lontane nel futuro), è il racconto assoluto di come Dio si sia fatto a immagine e somiglianza dell’uomo, creando MDA e tutti i suoi discendenti, finalizzati a un Romano Amodeo che deve convertire Roma in Amor. Dio ha fatto quanto così prescrive il suo reale apparire: 38 × 51,00033 = 1938,012544


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In questo prodotto, 38 nasce dai 33 anni della vita di Cristo (che sono poi il valore numerico in italiano dei caratteri MODÈ) che esiste ancora per tutto il tempo di anni dati da 10/2 e uguali a 5, per cui 33+5 diventano 38. Essi si moltiplicano per il 51 della cabala ebraica dello stesso MODÈ, sommato al tempo centomillesimo del valore espresso invece nella cabala italiana. 51 +33/105 è una somma che in verità combina 1051 × (1033)0,00001 in cui i valori cabalistici, sempre dello stesso nome MODÈ, esistono in modo potenziale nel 51 (della cabala ebraica). Essi si combinano con l’indice 33 (della cabala italiana) nella potenza di potenza assunta quando l’esponente è assegnato al valore in linea (dunque alla radice quadrata) dell’area data da 1010 = 100.000. Quando il valore 33 (dei caratteri italiani di MODÈ) è diviso tra i 100.000, ognuno ne riceve 0,00033. Tutto ciò si realizza il 25 gennaio del 38. Infine riesce a nascere, con Romano Amodeo, quella di RO-mano che già tentò di nascere in Genesi 38 ... ma non poté poiché quella di Perez, l’antenato di Gesù, la costrinse a rientrare nel gran seno delle cose che sarebbero accadute solo poi e al tempo debito: il 25 gennaio del 1.938. I contemporanei penseranno che sia Romano Amodeo ad arrampicarsi sugli specchi, per inventarsi di sana pianta le sue inesistenti radici, ma pensateci bene, prima di intenderla così anche voi che ora ne state leggendo la storia! Riconsiderate attentamente il prospetto sintetico che vi è stato mostrato, e come MDA (il cognome nel suo CF) in Bibbia sia senza dubbi con l’identico MDA l’esatto nome di Adamo; potete negare che Adamo sia in se stesso indirizzato Ad Amo , o, meglio ancora A Amod ? Togliete Eva dalla costola di Adamo ed ecco che mettete in atto con E va il movimento dell’intera coppia, E va a Amod , o, meglio ancora, va a Amodè . Perché tutto questo sia un va a Amodeo Romano e così vada proprio a lui, va aggiunto solo quanto è posto oltre Eva-Adamo come o Romano . Tutto quanto segue i due progenitori, sono i nove discendenti, fino al 10°, di nome Noè, che ha lo stesso contenuto 30 del nome Adamo. Pertanto sintesi della creazione è il trio Eva Adamo Noè che così trascende, va a Amodeo Romanoè . In tal modo, la parte esclusa è solamente o Roma . Perché è esclusa? Ecco perché: RRomA o AmoRR è l’intima contraddizione di due presenze uguali e contrarie che si elidono. Romano Amodeo è insieme Cristo e Anticristo, Bene e Male, Il Signore e il Maligno... e così si azzera come in ZERach PeREZ, di 1-38, zero nei due versi.

È nel positivo di AAmoR quando è Trino nella sua Divina Famiglia di Padre Figlio e Spirito santo, ed è uno nel Suo Nome! È nel negativo di RRomA quando è Trino nella forza spietata della grande città detta in Apocalisse la grande Babilonia, ed è Uno solo come ultima cosa. Romano è – insieme – sia il a (il corpo di RO) su cui il Re entra nella sua definitiva Gerusalemme, sia questo stesso Re . Diavolo ed acqua santa, il bene totale dell’AmoR e il disastro totale della RomA che uccise l’AmoR, quando Esso si presentò in persona. Cercate, però, di capire in modo esatto. In Romano Amodeo è accaduto tutto quanto fu risparmiato a Gesù. Il Cristo, non conoscendo di persona il peccato, salvò ogni uomo idealmente, solo con la sua gloriosa croce, e in tal modo si caricò addosso i peccati altrui solo per modo di dire ... pagandone personalmente il prezzo. In tal modo, tutti i peccati altrui restano, e sono solo perdonati, grazie al Cristo sacrificato. Il vero modo per annientare totalmente il peccato, da parte di Dio, sta nel rendere se stesso il massimo peccatore, il Maligno per dissolverlo del tutto, toglierlo di mezzo così come o Roma è tolto dalla creazione di Eva Adamo o Romano , programmati per E va a Amodeo Romano . Dio salva totalmente tutti dal peccato solo quando fa come Neo in Matrix ed entra nel suo avversario facendolo esplodere. Il peccato, nessun peccato resiste quando è Dio che lo assume come il suo ... però in questa realtà che mostra a tutti l’opposto esatto di ciò che è vero! Pertanto quando Dio Padre e Spirito santo sono scesi nel mondo ed hanno assunto un a a proprio portatore, ha assegnato a se stesso quei limiti totalmente umani della personale conoscenza del limite e del peccato. Solo così il Dio Onnipotente si è fatto interamente uomo come tutti. Essendolo poi giusto come aveva profetizzato Isaia, con l’uomo dei dolori. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Solo fino a un certo punto questa è la descrizione della figura di Gesù, che per 33 anni fruì della massima stima, che portò Pietro a riconoscerlo Figlio di Dio. Proprio questo giudizio così favorevole produsse nei due ultimi giorni della sua vita il rigetto totale da parte non di tutto il Sinedrio ma di una sola maggioranza.


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Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, assieme ad altri del Sinedrio tentarono ogni modo possibile per salvarlo dalla croce. Solo in Romano Amodeo Dio ha assunto in modo così totale e per quasi tutta la sua vita questo disprezzo e questa reiezione per lui descritta da Isaia. Da quando, nel lontano 4 giugno del 1973 egli tentò di dar corpo al Cristo ed essere il suo a , da allora è mancato il riconoscimento da parte di tutti. Perfino i suoi familiari non giudicarono ben fatto che abbandonasse il suo posto sicuro al Cimep, in cui aveva onori e riconoscimenti, per mettersi a navigare tra tutte le difficoltà, nel tentativo di farsi carico del bene altrui e sorreggere chi aveva bisogno di un valido testimone di come si conduce cristianamente un’azienda. Mise in difficoltà perfino quell’anima santa del Don Giussani, quando gli chiese cosa fare: amare il prossimo anche senza il consenso dei familiari e così odiando padre, madre, figli, per amore di Gesù o... rinunciare a portare Cristo? Non aveva proprio Gesù sollevato questo tema? Non lo aveva ben chiarito? Romano l’attuava, e dava a tutti l’idea di non considerare suo prossimo anche le persone della sua famiglia. Un dì la suocera gli disse testualmente: “Parli tanto di dovere aiutare il tuo prossimo ... ma noi chi siamo per te?” Dopo quindici anni gestiti così fino al suo triplice calvario del fallimento economico e della sua stessa famiglia ... la Chiesa dei valori di Cristo avrebbe dovuto portarlo alto sui suoi scudi ... e invece lo condannò a morte per tre distinte volte! Questo sì è stato il segno di uno di cui non si ha avuto alcuna stima! Quando Papa Giovanni Paolo II chiese l’aiuto dei Filosofi, per spiegare la verità di Gesù a chi non aveva fede in lui, aprendo così un nuovo percorso (e con ciò chiese la discesa sulla Terra dello Spirito Santo della Verità di Cristo), tanto in disaccordo con Romano era la sua Chiesa, e tanta poca stima in lui che anche sotto il suo Papato in concreto fu preferita la sua morte piuttosto che avvalersi di lui. Già aveva la nuova via (ritrovata in quella stessa aperta da Gesù) ed era in grado di aiutare il Cristianesimo. Al Vaticano però lui parve così contraddittorio che 3 Pontefici accettarono che egli digiunasse 57 giorni (nel 1999), altri 55 (nel 2.005) e infine ben 80 (nel 2.013). In tre distinte occasioni, i tre Buoni Pastori (che sfamano le loro pecorelle, le amano e le conoscono ad una ad una), non videro in lui proprio nulla di buono cui dedicare tempo e attenzioni! Accadde la cosa (mostruosa per un Papa) di accettare che Romano arrivasse a morir di fame (fino a rischiare la salute e veramente la morte), ma non ci fu nessun ascolto, nessuna udienza del Pontefice per lui! Nel 2.020 Papa Francesco, in una delle sue benedizioni domenicali, ha insegnato ai fedeli accorsi in Piazza San Pietro che:

“Gesù disse chiaro: se sfamate oppure no uno che ha fame, voi lo fate o non lo fate veramente a Gesù Cristo e non solo a lui!” Ebbene proprio Francesco affamò per 80 giorni (il doppio dei 40 giorni di digiuno patiti dal Cristo) il povero Romano (il a che portava veramente il Cristo) non sapendo più che, con ciò affamava veramente e realmente Gesù! Chiedetevi: come mai? Se e era dimenticato? La risposta è assai semplice: in Romano la questione era spinta fino a quegli estremi in cui ci si straccia le vesti e si dice “Avete udito? Ha spergiurato!” Gesù si fece “Figlio di Dio” e Caifa e il Sinedrio ritennero di avere tutto il diritto di toglierlo di mezzo per un inammissibile oltraggio all’Onnipotente ... Ed ora – ripetono in Vaticano – c’è la stessa intollerabile offesa a Dio fatta da questo Cristiano incosciente che s’è fatto “il somaro, il portatore di un Dio che ha assunto tutto il peccato, e che LO veicola... proprio lui... questo demente !” Chi è riconosciuto tale (cristiano, ma incosciente e menomato), dovrebbe essere sostituito – soprattutto lui – dalla ragione superiore del Buon Pastore, specialmente quando il Papa presume di averla ... e non essere lasciato in preda dei suoi difetti, digiuno fino al rischio di morirne ... se il Buon Pastore non lo accoglie. Questa decisiva questione è stata sollevata qui proprio per darvi modo di capire come la totale contraddizione resa da Dio visibile in Romano, sia stata tale da metterlo proprio nei panni dell’uomo dei dolori, dipinto da Isaia a puntino per lui, nella prima parte, introduttiva, della sua profezia, che qui vi è stata prima mostrata. Nella parte seguente il profeta descrive le terribili cose fatte a Gesù Cristo. Quando però dice: si è caricato delle nostre colpe, uno se le carica davvero solo quando non solo si fà colpevole (in nome nostro) ma è proprio lui il colpevole. E come Dio potrebbe caricare colpe su se stesso? Lo può e lo compie, ma solo quando questo suo apparire proprio un colpevole sembra la verità, ma è solo la faccia opposta – apparente – a quella “vera” di chi non ha mai nessuna colpa. E Romano lo è – un solo visibile colpevole – quando è nel segno del RomA, che dà il primato della Trinità al suo nome, a dispetto del suo essere “famiglia”! Il Signore che spiega a Rebecca, che lei ha nel grembo una Nazione ed un Popolo (e si tratta di Roma e dei Romani) ha indicato non la ristretta essenza personale di un uomo, ma l’uomo. Non è un caso che i caratteri uomo valgono 56, mentre quelli de’ l’uomo valgono il 66 esatto di Romano. Non è un caso che Dio ricorse al plurale degli Elhoim, poiché l’Onnipotente è la potenza posseduta da un TUTT’UNO in cui i due estremi di definito e infinito coincidono in modo totale. Ecco, vi è stato spiegato tutto quanto basta per cominciare questa storia.


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Terra dei Miti e viaggio A-B-C ch’è lento, et lemme, i lento ...

A

lento –

B

etlemme –

Cilento

è il nome che in Bibbia il Signore comunicò a Mosè, quando ‫היהא רשא יהאה‬ apertamente esso gli fu chiesto. Si traduce in SONO COLUI CHE SONO. Le lettere, in Ebraico, sono stimate anche numeri, e il verbo SONO è sia la prima persona riferibile ad un IO, sia la terza plurale riferibile ad un ESSI, il cui valore numerico è sempre – nell’ordine in cui vediamo la parola, e per noi che la leggiamo da sinistra verso destra – la sequenza 5+10+5+1. Questa sequenza, in italiano, poiché la 5° lettera è E, la 10° è L e la 1° è A, si .ELEA = ‫ יהאה‬translittera in ELEA. Insomma Questa antica città sorgeva a 200 metri dallo sbocco del fiume che vedete nel cerchio. Ebbene, in essa nacque 5 secoli prima di Cristo, il Dio Io sono in Filosofia.

L’antica Elea – oggi in comune di Ascea – era alle pendici di monte Stella. Mentre per i tre Re magi descritti da San Matteo, siamo di fronte a tre misteriosi personaggi, qui erano molto noti all’epoca e lo sono tutt’ora: Parmenide e Zenone di Elea, ispirati da Senofane. Essi non seguirono una indecifrabile e oscura stella, ma puntarono proprio su questa, ben nota, nel loro viaggio analogo – questo sì – da Oriente ad occidente, tra la Grecia e la Magna Graecia. Sorto così il Dio dell’Essere nella Scienza, ci volle poi un camino che, incominciato lento, divenne poi «et» anche lemme lemme e così dopo quasi un mezzo millennio, giunse alla Betlemme di Gerusalemme, ove si incarnò in Gesù, nel pieno segno del Dio dell’Essere sorto sia nella Ragione, sia nelle Fede ebraica, che poi si mutò in Cristiana. Ci vorranno poi altri 19 secoli, fino esattamente al 25 gennaio del 1938 prima che lo stesso Spirito santo della Verità di Dio rinascesse a Felitto in un nuovo filosofo, nato sempre nel territorio del Cilento contenuto in questo cerchio, e rifondasse tutti i contenuti della Scuola Eleatica.


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Vedete Felitto, su una collinetta alla cui base corre il fiume Calore, che nel dialetto locale potrebbe alludere a Ca’ lo Re (qui il Re). Tracciando una linea tra Elea e Felitto, essa ha una inclinazione di circa 7° rispetto a quella Nord-Sud. Nei restanti 33° necessari ad arrivare ai 40° della realtà del ciclo spazio-temporale, si svolge realmente buona parte della storia iniziale riguardante quello che sarà il Mito aggiunto con il Natale di AModèO a Felitto. La Storia di questi luoghi comincia, per quanto ci interessa, con la fondazione stessa di questi paesi da parte di Roma e del Popolo Romano. In una delle tante guerre contro i Lucani, intorno al 250 a. Ch., i nemici a giudicare dal nome assunto dagli insediamenti, erano a Stio, nome derivato da Hostium (luogo dei nemici). Questo borgo sorge in cima alla collina da cui nasce il Fiume Alento. Non vi erano strade né altro e per raggiungere il nemico, Roma poteva seguire le rive del Rio Alento, molto povero di acque, e poi risalire la collina, ma non era una strategia vincente quella di attaccare i nemici dal basso. Al contrario era opportuno andare ancora più su di Stio. Scelsero di cominciare l’arrampicata dall’Alento e risalendo per la via migliore, e vi posero un primo accampamento. Essendo la porta verso il nemico, chiamarono “Ostium ianua” quel luogo che oggi si chiama Ostigliano ed è una frazione del Comune di Perito. Questo nome venne da “Per itum”, ossia “lungo il cammino”. Situato a circa sette chilometri dal primo insediamento, stabilirono anche qui un punto forte. Il terzo fu raggiunto passando per zone ripide chiamate “Orrida” (strapiombi), da cui Orria. Salirono quindi all’altopiano da cui volevano lanciare l’attacco finale. Il piano ultimo, da “Planus veterum” produsse il nome di Piano Vetrale. Da lì partì l’attacco finale. Queste stazioni, di rifornimento e collegamento, furono conservate per molto tempo e a poco a poco si mutarono in piccoli borghi. Nonostante il passare dei secoli, la gente è sempre restata la stessa, per la mancanza di vie di collegamento e la specificità del Cilento di essere molto simile a una isola. Infatti, se da una parte c’è il mare, da quella opposta ci sono i monti Alburni, che non hanno valichi frequentati nemmeno oggi. A sud-est ci sono monti che poco favoriscono gli spostamenti, e a nord-ovest, oltre Paestum (l’antica Poseidonia), acquitrini e zone malsane, malariche, molto scoraggiavano i viaggi verso Salerno e Napoli. In tal modo il Cilento ha conservato un linguaggio che molto assomiglia nei termini più comuni al latino. Nel dialetto (agonizzante) resta oie quanto in latino era odie. Resiste il crai che era cras, il dopodomani p’scrai che un tempo era post cras. Il giorno ancor prima, che nel latino era post cras die, era divenuto p’scriddo.

Se – lungo la costa – hanno influito le azioni di pirateria che venivano dal mare, portando un modesto mutamento anche negli abitanti, possiamo dire che nell’entroterra impervio del Cilento oggi vivano ancora i discendenti di quei soldati Romani che furono distaccati nei vari luoghi a controllo e gestione del territorio. Dopo duemila anni (dal 250 avanti Cristo fino al 1.750) troviamo una popolazione omogenea che per una sessantina di generazioni ha fissato matrimoni e si è legata solo con la gente di questa enclave, ogni tanto falcidiata poi da carestie e da pestilenze. L’ultima, del 1600, fu terribile. Ostigliano, che aveva una popolazione di circa 700 abitanti, si ridusse a sole quattro famiglie di sopravvissuti, da cui i quattro cognomi che fino al 1.900 primeggiavano. Buona parte del Cilento, era governata a Novi Velia dalla famiglia Carrafa (alias Carafa, e Caraffa) in seguito ad un atto di vendita nel 1.600 dal Re al suo maggiordomo. . Pur esistendo come una Baronia, in regime di sottomissione ad un Governo Superiore, il Signorotto di Novi Velia aveva tanto potere locale da avere delle proprie carceri. Nel 1647 Gironimo Carrafa resse la baronia in qualità di tutore della principessa Eleonora, che sposatasi a Novi, rimase presto vedova e morì senza lasciare eredi. All'avocazione alla corona del feudo seguì la vendita a Flavio Orsini, duca di Gravina; ma la baronia tornò alla famiglia con Gaetano nel 1682. Un suo discendente, Ottavio, ottenne il titolo di Marchese (1752). Quest'ultimo, morto nel 1764, lasciò i suoi beni al figlio Giuseppe, che detenne il potere sino alla soppressione del regime feudale.. Nel 1805 i territori del Regno di Napoli, in cui ricadeva il Cilento, furono dati ai Francesi, e Napoleone ne affidò il governo a suo cognato Gioacchino Murat. Furono allora soppressi monasteri e conventi, fu combattuto il banditismo, fu promulgato un nuovo Codice legislativo, riorganizzato l’esercito e, soprattutto, fu abolito il feudalesimo riconoscendo ai Comuni prerogative che fino allora erano state solo dei baroni. Per questa rivoluzione Murat, divenne l’idolo delle folle: nel gennaio del 1809, viaggiando per il Cilento fu acclamato come un eroe. In seguito alla restaurazione “di Vienna” sul trono di Napoli ritornò purtroppo Ferdinando IV, poi Ferdinando I, che ordinò la fucilazione dell’eroe francese dopo che in uno sbarco incauto per la riconquista del perduto Regno, era stato catturato. La politica economica di Ferdinando molto gravosa per il Regno fu perseguita anche dal figlio Francesco I, determinando condizioni di malcontento. Il Canonico De Lauca e Galletti, con Carbonari e soprattutto Filadelfi, spinsero i Fratelli Capezzoli, di Monteforte Cilento, paese vicino a Capizzo a prendere le armi. Assaltarono Palinuro, ripiegarono a Perito e lì furono catturati. Nel 1848 la ribellione in Cilento giunse di nuovo a scontri armati.


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Nel 1857 (3 anni appena prima dell’Unità d’Italia) Carlo Pisacane tentò una spedizione che – partendo dal Cilento – avrebbe dovuto portare alla liberazione dell’intero Regno dal dominio Borbonico. Il 28 giugno vi fu lo sbarco a Sapri; Pisacane rimase subito sorpreso dall’assenza dei cospiratori napoletani, che avevano promesso il loro appoggio. L’eroe, testardamente decise di proseguire verso l’interno sperando in un sollevamento della popolazione, nell’attesa che Napoli, Genova e Livorno si sollevassero a loro volta come stabilito.

A Padula, gli uomini di Pisacane si scontrarono con l’esercito borbonico, numericamente più forte per uomini e mezzi. Senza munizioni e privi di vettovaglie si convinsero a ripiegare verso il mare, ma il dì dopo a Sanza furono attaccati da un centinaio di persone, in gran parte contadini, aizzati dai Borboni che li avevano convinti si trattasse di ladri e Pisacane fu barbaramente trucidato. Carlo Pisacane forse sbagliò a puntare su Vallo di Diano, piuttosto che su Vallo della Lucania e i paesi attorno all’Alento, in cui era da molti anni in attività la società segreta dei Filadelfi e quella dei Carbonari. Quelli che avevano preso le armi nel 28 erano partiti dal paese di Monteforte, e poi avevano lottato proprio nei luoghi in cui già di antichi Romano avevano lanciato gli attacchi ai nemici insediati a Stio. Il Parco del Cilento e di Diano sta in mezzo a queste due aree ben separate dalle montagne e dalla scarsità delle vie di comunicazione. Anche oggi, sono appena due le strade che collegano gli opposti versanti: una per Sacco, a nord e l’altra per Sanza, dove Carlo Pisacane trovò quella feroce opposizione da parte di una popolazione realmente all’oscuro di quanto accadesse, come era stato anche nei moti del 28,

quando il Canonico De Luca aveva spinto il Gallotti a fare insorgere Celle, ma il paese vicino a quello in cui lo stesso De Luca era nato, non si era mosso. Se avesse cercato aiuto ai Cilentani attorno all’Alento, avrebbe incontrato il favore di una popolazione che ben si stava opponendo da decenni ai Borboni. I Moti Cilentani, del 1.828 e poi del 48 (appena nove anni prima), erano gravitati da questa parte e non da quella di Sapri, che era un approdo certo più di rilievo di quelli situati oltre capo Palinuro, e che sono l’inizio del Cilento vero e proprio.


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Ca’ il Pizzo vero di questa storia: Labano, che accolse Giacobbe, e i Lebano: ora Tresina e terza figlia.

La storia personale di AModèO ha il suo pizzo qua: quando, intorno al 1.870, fatta già l’Italia, R. (Don Mauro Russo), mandò dai Lebano la sua figlia Tresina. Il nostro racconto ricalca l’inizio biblico della vita di Giacobbe che R. (Rebecca) inviò da suo fratello: Labano l’Arameo (figlio di Betuel, era di Aram ... e ciò richiama in Betuel un Benito uguale, che era di Aram, di Amodeo Romano). Sia Tresina, sia Giacobbe furono spediti lontano da casa come difesa dalle difficoltà ambientali. Lui andava protetto dal padre Isacco che lo maltrattava, prediligendo il primogenito; lei – in modo analogo – doveva essere difesa dalla predilezione di suo padre Mauro per la sua sposa morta, che lo portava a ignorare la sua piccina, che non poteva certo sostituire la defunta. Entrambi – Tresina e Giacobbe – allontanati per farsi le ossa, si trovarono a dover fare i conti con padri invasivi, che travalicarono per amore i diritti dei figli inesperti, pur senza maltrattamenti e mancanze reciproche di rispetto. Giacobbe, in questa lotta impari, spese 7 anni di un contrattato servizio fatto a lui, pur di avere in moglie da Labano la sua 2°genita, e dové accettare il raggiro da lui che – violato l’accordo – gli diede in sposa la prima figlia, e gli impose poi altri 7 anni di contratto, per dargli anche la seconda, Rachele, che lui amava. Come Labano, anche i Lebano ebbero con loro due nuove figlie, una venuta prima della seconda, poiché, in successione, a Lustra di Monte Stella, prima ospitarono Tresina e poi – circa 30 anni dopo – la terza figlia che costei ebbe: Mariannina; tutte e due da istruire allo stesso modo e per sposare un Baratta.

Due bimbe da istruire in modi esattamente contrapposti. Infatti i Lebano ebbero Tresina con questo mandato: «Insegnatele ogni cosa che credete, ma non a leggere e scrivere! Altrimenti poi, quando ritorna da me, scrive ai suoi innamorati ed io voglio che Tresina non abbia grilli in testa e sposi chi le dirò io!» La terza figlia di Tresina fu affidata ai Lebano con l’incarico opposto di fare di lei una persona molto istruita da quei grandi Maestri a Lustra di Monte Stella, compiendo in tale duplice modo, nel segno dell’unità e della trinità di Tresina, una preparazione completa, in tutti i suoi aspetti spazio-temporali. Come Rebecca, quando inviò Giacobbe da suo fratello Labano, pretese da lui che non fosse istruito un ribelle alle sue mire, che erano di farlo subentrare a suo padre Isacco, tolto di mezzo il 1°genito Esaù, così Mauro Russo inviò Tresina dai suoi parenti Lebano con la pretesa di riavere indietro una persona cresciuta e pronta a compiere la sua volontà. I due tempi in cui ciò sarebbe accaduto – a chi unico era stato mandato da Labano, o alle due dai Lebano – durarono tutti e due circa 30 anni. La stessa cosa pretese Don Mauro dai Lebano: che la figlia tornasse ben disposta verso le sue paterne intenzioni di dare il meglio a lei e alla sua discendenza. Pertanto, quando in Bibbia è scritto che Labano, ritrovandosi due figlie, le maritò una dopo l’altra – con sommo arbitrio – allo stesso Giacobbe, il Libro Sacro traslò nel passato la futura sorte sia di Tresina (che sarebbe stata costretta a sposare – uno dopo l’altro – due distinti Baratta... quali due dita della stessa mano) sia della sua Terza figlia (la cui istruzione – tratta come Eva da una costola dai Lebano – sarebbe stata destinata tutta quanta Ad Amo, Amodeo)! Tresina e la sua figlia Terza sarebbero state come quella cosa sola ch’è data dall’unità del tempo nella trinità delle determinazioni spaziali. La stessa relazione tratteggiata in Bibbia tra Adamo e il suo terzo figlio Set. Nello stesso legame che crea un’unica realtà, una e trina, data da mamma-figlia e padre-figlio. Quello che riguarderà due donne, Tresina e 3° figlia (entrambe già in sintesi in Tresina = Tre sì na, 3 sei 1), che è un duo in unità Trina costruito a Lustra di Monte Stella (alla luce della Stella di Monte Sion) e dai Lebano (da Labano), sarebbe stato anteposto come la storia del solo Giacobbe mandato da Labano, a farsi imporre – una dopo l’altra – due distinte spose... alla luce del Natale di Cristo. Nota 1. Capizzo è a 700 metri di quota nella dorsale della lunga catena dei monti Alburni alle cui pendici scorre l’Alento. Salendo da ca’ da qua, fino al pizzo del monte e scendendo dalla parte opposta fino a quota +150 sul livello del mare, ecco il Ca’ lo Re , e – risalendo di altri 150 – ecco la Felitto dell’ Eletto nella sua Fe’ , il pronipote di Don Mauro, che nascerà circa novant’anni dopo di lui.


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La Trinità del padre Mauro, cioè Mauro Mauro Mauro cela in sé, se posponiamo il dubbio del «Ma» iniziale, «u» Romà «u» Romà «u» Romà, vale a dire «il» Roma’ «il» Roma’ «il» Roma...no che ci sarà 3 generazioni dopo di lui, nel tempo: 1a Tresina, 2a Mariannina, 3° Romano. Il futuro u Romà è compreso in principio nell’o Romà ch’è trasceso in Bibbia, in Eva, Adamo, Noè, nel loro anagramma va a Amodeo Romànoè . Quando un padre s’impone in questo modo, travalicando i diritti altrui, assomiglia al modo con il quale il Signore porta avanti il suo disegno. Egli lo mette in atto per gli altri e non si fa a sua volta dominare. Il Padre nostro celeste attua scelte arbitrarie e quando occorre opera sui figli attraverso il reale arbitrio di un comune padre, fatto a sua immagine e somiglianza. Gesù doveva nascere dal 4° figlio avuto da Giacobbe con Lia 38 generazioni dopo il 4°, a prefigurare la generazione nell’anno 38 del futuro u Romà. Il primo figlio avuto da Rachele sarebbe stato il 10° maschio, Giuseppe, il padre adottivo del Popolo di Israele che diventa nazione solo in Terra D’Egitto. È la stessa paternità d’adozione che sarà poi attribuita a Giuseppe, quando Israele (in Bibbia 1-48) avoca a se stesso – come suoi – anche i due figli di Giuseppe, anteponendo il 2° al 1°. Allo stesso modo, se Don Mauro non fosse stato così prepotente, Capizzo non avrebbe avuto quel suo valore di essere la cima dove si accende e attizza tutto quel fuoco sacro che porta, oltre il pizzo del monte e in quarta generazione a trovare qui il re e l’eletto della fede a Felitto. Don Mauro voleva per la figlia la perla rara di uno sposo che fosse una persona per bene, un benestante e non un rivoluzionario. Giudicava facile che una fanciulla s’invaghisse della testa calda di un patriota, per ritrovarsi poi nel lutto e nella disperazione. Don Mauro abitava un poco più in su seguendo questa stradina a destra che passa sotto l’arco. Nella casa a sinistra della via viveva l’amore che Tresina aveva in paese e al quale dové rinunciare, poiché suo padre impose a lei – uno dopo l’altro – uno stesso marito Baratta, distinto in due fratelli, di Ostigliano.

381 è prima a Ostigliano, . In “Quelli de li Marchesi” le 5 dita dell’ “U Roma”no

Eccoci ora spostati di 9 chilometri lungo un allineamento che abbiamo già notato esistere tutto diritto, tra Felitto e Monte Stella. Siamo a Ostigliano, il luogo dal quale gli antichi Romano iniziarono la loro arrampicata che li portò a Piano Vetrale, prima di assaltare il nemico a Stio. Il lago artificiale che vedete alle spalle di questa porta verso il nemico, è opera realizzata nel XX secolo, quello dopo a quello di cui ci stiamo occupando ora. Gli antenati di «u» Roma’ qui sono stati rintracciati fino al 1.600, cioè a quando, dopo il Concilio di Trento, i parroci furono tenuti a redigere rapporti annuali e nominativi su tutti gli abitanti delle proprie parrocchie, denunciando i casi deprecabili e precisando se avessero o no rispettato il Precetto Pasquale della Comunione. Quei registri ci sono anche ora. Invece la gestione pubblica dové attendere il 1.800 e l’arrivo del Bonaparte perché i Comuni fossero obbligati ad avere l’ufficio dell’anagrafe, che registrava nascite, morti e matrimoni, cosa fatta, prima di allora, solo dalla Chiesa.


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Per arrivare ad Ostigliano, fino ai primi del 1900, si doveva partire da Orria, e questo borgo era l’ultimo gruppo di case lungo questo tragitto. Prima del 1.800, in questo villaggio esisteva ancora il medioevo, e a Ostigliano comandava un Marchese sui generis poiché questo titolo era dello stesso tipo del Don, di cui vi ho scritto: un riconoscimento popolare espresso alla famiglia egemone del territorio, in perenne contesa, lì, con quella dei Baroni. In questa frazione di Perito, tale titolo anomalo era pertinenza e distingueva solo una delle tante famiglie Baratta, che erano sorte dopo la pestilenza del 1.600 che aveva ridotto le famiglie sopravvissute solo a quattro. Quando Gioacchino Murat nel 1.806 riorganizzò i Comuni, ci fu in questo paesino un Marchese Baratta che simpatizzò con l’idea del rinnovamento, che ponesse termine al medioevo che ancora esisteva nel Cilento. Era probabilmente membro di una delle società segrete sorte in quel territorio: la Carboneria e i Filadelfi. In una ristrutturazione del palazzotto, avvenuta dopo la guerra del 15-18, andando a sventrare un soffitto, vi trovarono nascosti molti archibugi, che gli abitanti di allora si affrettarono a fare sparire per evitare noie di qualsiasi genere. Probabilmente si chiamava Francesco ed era il nonno, del nonno di Romano. Ebbe un incarico nell’amministrazione del Comune, e lo scelse proprio nell’aspetto più critico in quelle terre, che stava nella raccolta delle tasse. Quando i Borboni – ucciso Murat – restaurarono il loro Regno di Napoli, il Marchese si trovò in grave difficoltà per le impossibili pretese di cavar sangue dalle rape. Si ribellò per come poteva, e partecipò ai moti insurrezionali per l’Unità d’Italia. I Borboni avevano l’abitudine di nominare come esattori i maggiori possidenti dei vari paesi. Se essi non assicuravano al Re il richiesto gettito, si rivalevano su di lui, gli espropriavano qualche podere agricolo, lo mettevano all’asta e col ricavato raggiungevano il loro obiettivo. Baratta, il Marchese, fu colto di sorpresa: aveva scelto quel ruolo per introdurre in certo senso di giustizia, e si trovava ora a dover accontentare le pretese assurde dei Borboni. Aveva tra l’altro a disposizione per costringere a pagare le tasse, solo quella famosa “pittima” che aveva il solo ruolo di smascherare gli evasori sottoponendoli al pubblico ludibrio, cosa che non funziona come deterrente dove la gente si sente vessata e chi riesce a non farsi mungere è ammirato. C’erano in verità quegli altri mezzi (trasversali, medioevali, intimidatori) per riuscirci, e i vari “Signorotti” vi avevano ricorso in modo naturale per secoli! La Restaurazione del Regno di Napoli puntava a rimetterli in auge. Anche i Baratta di Ostigliano, col loro Marchese, avevano sempre avuto quel potere trasversale alla legge, ed esso aveva anche una sua ragion d’essere, in quel luogo ancora in pieno medioevo, in cui l’autorità era lontanissima e c’era adesso come una novità solo una guardia, a controllo di tutto un paese.

Un esattore di questo genere, incaricato dai Borboni, poteva benissimo garantire le richieste del Re, senza rimetterci le sue proprietà. Invece il nonno del nonno di «u» Roma’ era un patriota che sognava l’Italia unita e la giustizia: incaricato come esattore, non dava risultati graditi a Napoli. Ogni anno i Borboni si rivalsero su di lui, e lo spogliarono a poco a poco di quasi tutte le proprietà della famiglia, messe all’incanto. A suo giudizio, ne valeva comunque la pena! Prima che quelle terre si mutassero in denaro corrente dovevano essere vendute e spesso ci volevano anni. Gli unici veri interessati erano i contadini, ma squattrinati! Il Marchese aveva due figli maschi che però non comprendevano le sue ragioni. Secondo loro, non era nemmeno il caso di tirare in ballo il patriottismo! Il padre era solo un debole verso i paesani che, non pagando le tasse, risparmiavano il denaro e poi alla fine erano proprio quelli che rilevavano a poco prezzo le loro terre. Quando il patriota incompreso fu vecchio e la gestione passò al primo figlio Carmine, il boicottaggio del Marchese era stato già smascherato e da Napoli erano stati spiccati i mandati di cattura. Non riuscirono però a prenderlo. Ogni volte che qualche drappello di uomini armati venivano per catturarlo, il figlio – facendo come Enea con il vecchio Anchise – se lo caricava di peso sulle spalle e lo nascondeva in qualche lontano casolare. La cosa era alquanto facile, poiché i gendarmi venivano da Perito, il paese posto nel colle di fronte, e c’era tutto il tempo per scorgerli in tempo e per nascondere il ricercato. Carmine crebbe e coltivò il proposito di ritornare in possesso di tutti i beni e i terreni che erano stati persi, secondo lui, solo a causa della debolezza del padre, che – nei suoi vani e utopici sogni di giustizia sociale – aveva in fin dei conti maltrattato proprio i suoi stessi figli! Quando si sposò,volle molti figli cui inculcare il suo stesso bisogno di rivalsa, affinché un dì possedere almeno ciò che i compaesani avevano loro derubato, prima non pagando le tasse e, poi, comprandole a prezzi stracciati. Il Destino l’aiutò, poiché ebbe cinque maschi e dunque una straordinaria forza lavoro. Era ancora in attesa dell’ultimo nato, che la moglie aveva in grembo, e s’immaginò la sua famiglia come una mano di cui i suoi cinque figli fossero le dita; e come esse non possono separarsi l’una dall’altra, così doveva essere per loro. Il più grande e più forte avrebbe aiutato il più piccolo e gli avrebbe lasciato il compito meno faticoso, quello di essere «il lustro» della Famiglia. Tutto sarebbe stato intestato a lui e lo avrebbero educato a essere «un vero Signore» . I figli furono rispettosi delle intenzioni del padre, e coccolarono l’ultimo nato, che da adulto, li avrebbe rappresentati, come la mano che Carmine aveva sognato.


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Mentre i quattro fratelli più grandi, lavoravano, a mano a mano che crescevano negli anni lavorando duramente la terra come contadini, il piccolo Carmine, appena raggiunse l’età scolare, non essendoci nel paese (e nemmeno in quelli vicini una buona scuola elementare), fu mandato a Salerno. Francesco, Mauro, Giovanni, Nicola e Carmine BARATTA furono i loro cinque nomi e il cognome1. Il maggiore, Francesco, aveva una ventina d’anni e assunse con l’aiuto di sua madre la guida della famiglia. Per riacquistare tutti i beni perduti non c’era altro modo che lavorare accanitamente, e – con il passare degli anni – produssero o si accaparrarono più del loro stretto bisogno. Riempirono i granai e – quando i paesani avevano mangiato quello che avevano prodotto o gli avevano venduto... e non avevano più grano – si recavano da loro, e glie ne chiedevano. Francesco non glielo vendeva in contanti, se non proprio quando necessitava di soldi, e rimandava sempre il pagamento, dicendo che non c’era fretta e faceva credito a tutti e appariva ai compaesani come una vera manna del cielo. Quando i crediti – però – avevano raggiunto un importo che poteva essere adeguato al valore di qualche podere agricolo che quelli avevano, Francesco della famiglia dei Marchesi, cominciava a dire che adesso aveva gran bisogno lui e che non potevano esimersi dall’aiutarlo. Erano somme che i debitori, presi così in contropiede, non avevano. Per favorirli, allora – e non per altro – gli faceva balenare l’idea che avrebbe potuto accettare anche (ma solo per fargli un favore) quel pezzo di terreno lì, che essi avevano e che valeva molto meno ... Così li forzava a cedergli i terreni e cercava di dargli anche la sensazione di favorirli, poiché in quella occasione ai Baratta servivano denari e non terreni. Ne avevano già abbastanza. Le persone così costrette a barattare il grano che avevano ricevuto in credito per anni con la loro proprietà, facevano finta che era proprio così. Si accorgevano che era stata tutta una strategia, ma – ossequiosi – gli lasciavano credere anche di aver capito di essere stati favoriti ... e intanto si caricavano di invidia e di odio che non lasciavano vedere. Poiché l’unico posto in cui c’era sempre grano da poter avere, in caso di necessità, era nella casa dei Marchesi Nota 2. Il valore numerico dei caratteri che compongono i sei nomi di Francesco, Mauro, Giovanni, Nicola, Carmine BARATTA sono, in ordine: 76, 60, 83, 48, 57, 57, per un totale 381 dato da 42 lettere. 48 aggiungendo anche i 6 spazi vuoti al termine di ogni nome. Sono 3 generazioni sopra quelle di Romano che, chiamato Romano Antonio Anna Paolo Torquato AMODEO, uguali a 66, 78, 26, 51, 113, 47 per un totale identico di 381, su sole 36 lettere che diventano 42 solo aggiungendo i 6 sabati ai sei giorni di lavoro fatto da ogni nome. Ebbene questa 3° generazione prima di Ro-mano costituì la sua reale Mano voluta da Carmine Baratta, 57+57=114, uguale al 113+1 espresso da Romano Amodeo (66+47), da Torquato e da RoAnAnPaToAm, l’acronimo a due cifre, dei 6 nomi

Anche qui c’è una facile analogia con questa nostra Terra d’Egitto che – nel tempo delle vacche magre – ha sempre qualche Giuseppe che ha riempito i granai Egiziani, tanto da attirare lì tutto il povero e affamato Popolo di Dio. Carmine crebbe e, finiti gli studi, tornò da Salerno al paese, come quel Signore nell’animo che avevano cercato di formare in lui.. Come spesso però accade, quando non è la materialità a farla da padrona, così com’era accaduto al “Romeo” di Shakespeare, anche Carmine, della famiglia dei “Marchesi”, s’innamorò della “Giulietta” del luogo, appartenente alla rivale famiglia dei “Baroni”, che in Ostigliano si contendeva il primato così come in Verona i Montecchi e i Capuleti. Una sera, coi fratelli e molti ospiti che attendevano a cena lui, il Marchesino, che tardava troppo a venire ... Francesco andò a cercarlo. Lo trovò all’ultimo piano del palazzotto, che scambiava segnali a distanza con la sua innamorata, abitante in fondo alla via. Era un vero e proprio insulto fatto contro tutti loro che in ogni giornata avevano da battagliare con quelli dei Baroni, e non riuscì a nasconderlo al fratello, accusandolo che in quel modo lui li tradiva tutti. Poi gli intimò di essere educato e di scendere al piano di sotto, poiché avevano ospiti in sala da pranzo e non potevano cominciare a mangiare finché non si decideva a esserci lui pure ... il Signorino! Lo trascinò al piano di sotto e chiese scusa ai presenti, a nome del fratello, e non riuscì a trattenersi e lo trattò in un modo così umiliante, lì, davanti a tutti, che quel giovane, cresciuto con ogni gentilezza di modi, domandò il permesso d’assentarsi ancora un momento, poiché aveva solo un’ultima cosa da fare. Così risalì al piano di sopra, diede un ultimo saluto a lei, poi si piazzò uno schioppo sotto il mento, e lo sparo gli schizzò il cervello conto il soffitto. Con la morte di Carmine, finì la poesia nella famiglia Baratta e si dové passare alla prosa, poiché tutti gli sforzi erano stati concentrati a che lui fosse il futuro “Marchese” e Gentiluomo. Vivevano nello stesso edificio a tre piani fuori terra, in stanze separate che si erano divise, avendo in comune la stessa cucina e sala da pranzo in cui mangiavano riuniti, vivendo come un’unica famiglia e con un solo erede che si sarebbe sposato e avrebbe assicurato per tutti loro la sua personale discendenza. I cinque Baratta di Ostigliano, nonostante fossero stati sempre e solo in quattro a lavorare, rimasti per davvero in quattro dopo il suicidio di Carmine, restarono quella notevole forza di lavoro, unitaria e ben coesa.


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Francesco, con il passare degli anni, assunse il ruolo storico di chi con le mani in pasta, se le sporcava. Gli altri Baratta, quelli dei Caporali, gli facevano come il nome; da caporalato, da braccio armato. Le questioni che non erano risolte pacificamente presto lo divenivano per vie di fatto. Ciò produsse molti risentimenti, ed era come una brace accesa e invisibile, posta sotto la cenere. Quando fu fatta l’unità d’Italia sorse a Torino, da parte del Re d’Italia, il problema di come risolvere il conflitto coi poteri forti locali che ancora usavano comportamenti medioevali. Decisero di porre una mano pietosa su tutti quelli che accettavano di sottomettersi, sguarnendo le loro truppe irregolari e che agivano nell’ombra. Dovevano farle espatriare, in America. Francesco si adeguò e molti sgherri furono costretti a emigrare. Divennero ricchi gangster in America, e un giorno uno di questi, per vendetta, commissionò l’assassinio di Francesco. Il delitto – restato impunito – fu materialmente compiuto proprio dalla guardia comunale. Si seppe solo quando costui, divenuto vecchio e in preda ai rimorsi, batteva insistentemente il batacchio del portone di quella casa, implorando ad alta voce, per farsi udire fino in cielo: «Francesco Baratta, perdono! » Le cinque dita di quell’unica mano, dei cinque maschi, avevano così perso i due estremi, il mignolo e il pollice, uno per suicidio, l’altro poiché assassinato. Restavano le tre dita medie, e la più giovane, che corrispondeva all’anulare, si chiamava Nicola. Toccava a lui, ora, e non c’era tempo da perdere. Doveva pensare lui a gestire adesso tutti gli affari, venuto meno in quel modo improvviso e imprevisto chi operava a nome di tutti. Doveva anche mettere su famiglia, sposarsi, affinché una donna governasse la casa e desse eredi a tutti e tre loro rimasti. Nicola seppe di un bel partito di Capizzo, figlia di Don Mauro Russo che conoscevano per nome, e che aveva nei Lebano anche dei parenti in comune. Così si recò a Capizzo, per conoscerla. Le piacque molto non appena la vide e senza tanti indugi si presentò a Don Mauro. «Sono Don Nicola, della famiglia dei Marchesi, di Ostigliano» Già quella cosa piacque molto a Don Mauro, poiché si sapeva come fossero sempre ben disposti ad aiutare la povera gente. In quella famiglia c’era stata anche una Santa, che era morta perché si era messa nelle mani del Signore ...

«So che avete un figlia in età da marito ... Ebbene, se la date a me, io rinuncio alla dote!» Il capizzese si convinse subito: era l’uomo giusto per sua figlia. Era una brava persona, di una buona famiglia e la cercava per lei stessa e non per la sua dote. Furono anche le ragioni con le quali alla fine riuscì a convincere sua figlia, renitente, poiché si sposava così, senza amore (anzi, lei ne sentiva già per un altro). In quei tempi, le giovani davano retta ai consigli che ricevevano. Le donne erano state tenute sottomesse per secoli, perciò una brava ragazza, costruita su sani principi, era quella che li ascoltava e infine faceva quello che le era proposto. Mentre nel lato maschile della famiglia dei Marchesi c’era stato di tutto, nell’atro lato, le donne erano state per secoli quelle figure pietose alle quali tutti si rivolgevano, quando avevano bisogno d’aiuto. In quanto alla reputata Baratta santa, lei era così devota alla Madonna che avrebbe preso volentieri i voti. Non voleva sposarsi, ma quando – così come a Tresina – le avevano combinato un matrimonio, lei, alla vigilia delle nozze, andò a letto già tutta vestita da sposa. La mattina dopo la trovarono morta e spiegarono alla gente la cosa dicendo che lei aveva pregato la Madonna, di farla morire quella stessa notte, se quella era la miglior cosa per lei. A detta di tutti, non poteva essere stato un suicidio. Mai e poi mai l’avrebbe fatto, lei così ligia e sempre bendisposta alla volontà del Signore. Nicola si sposò e si accinse a salvare tutto il casato dei Baratta. In principio tutto sembrò andare per il meglio: secondo le attese di tutti, nacque subito l’erede maschio e gli fu imposto il nome di Carmine, il fratello più piccolo che era stato scelto da tutti come l’erede, ma che si era ucciso, per un amore contrastato. Non fu una scelta felice in fatto di nomi, perché il bimbo visse due anni e poco più. Il nome Carmine, nella famiglia Baratta, sembrava maledetto. Come a voler rilevare che padre e figlio erano nello stesso destino2 anche Nicola morì, un paio di mesi dopo, e lasciò Tresina vedova e incinta di lui I due fratelli sopravvissuti, nell’indice e nel medio di quella virtuale unica mano che erano stati tutti e cinque, riposero molte speranze sul fatto che potesse nascere un altro figlio maschio. Venne al mondo invece una bambina e le fu imposto il nome del padre morto: Nicolina. La piccola così si trovò, assieme a sua madre, a essere intestataria ed erede di tutto il patrimonio dei Baratta, esautorando completamente ogni diritto delle due ultime “dita” che erano rimaste. Così i due sopravvissuti Mauro e Giovanni cominciarono a pressare Tresina affinché sposasse il più giovane tra i due rimasti vivi... il dito medio!


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Lei però ne aveva ormai abbastanza di tutti loro... e gli mostrò il suo.... Nel breve tempo che lei aveva passato con loro, tutti e due avevano avuto dei figli dalle loro concubine (di notte, ma comuni serve invece di giorno). E aveva visto e saputo che non solo questi, ma altri bambini erano nati in quella famiglia ed erano stati portati via nottetempo, infagottati come se fossero capretti, e presentati alla ruota di Napoli per aumentare la schiera dei tanti Esposito. Come poteva legarsi a un uomo così crudele verso la sua stessa carne? E poi per che cosa? Per non dividere la proprietà! Ben gli sta se ora han perduto tutto! Dito medio! Prese sua figlia e se ne fuggì a Capizzo, tornando dal padre. Quando accadevano queste cose, a Ostigliano, il patrimonio dei Baratta, perduto all’asta, sotto la strategia a suo modo usuraia di Francesco, era stato già in buona parte recuperato, rispetto a quello che era accaduto due generazioni prima, quando, a causa di un idealista rivoluzionario, tutto era stato alienato. Tresina aveva trovato la forza d’andar via poiché Francesco, il temibile cognato, era stato ucciso, e non c’era più a far paura a nessuno. Restavano, dei cinque Baratta maschi, soltanto Mauro e Giovanni e non avevano intestato nulla. Toccò così a Giovanni, al più giovane dei due, secondo la loro assunta tradizione, il compito di mantenere in piedi la famiglia e recuperare tutta quanta la proprietà, che era andata letteralmente alienata, passata a due donne estranee alla Famiglia e alle sue cinque dita! Nota 3. Accadde ai 5 Baratta, in 3a generazione rispetto a quella 1 di Romano, una straordinaria premessa alla sua, posta alla D. 3 che di solito accompagna la D. 1 (come lo spazio accompagna il tempo). Tutto ciò anticipò la RO-mano. Infatti i cinque nomi e il cognome di Romano, come è già rilevato nella nota 1, hanno il valore numerico di tutti i caratteri uguale allo stesso 381 nei 6 nomi di questa ideale mano dei cinque Baratta. Fondamentale è stato nella vita di Romano, una vera e propria morte e risurrezione. Carmine morì avendo pressappoco gli stessi 860 giorni di vita di Romano. Essendo Romano uno con suo padre, ecco che Carmine e Nicola morirono insieme e indicarono in quella 3a generazione quanto sarebbe accaduto a Romano nella 1a. Nicola è nel segno totale della vita e della morte di Romano. Suo cugino Nicola Morra fu concepito nella sua casa di Milano in via Bernardino Verro. Quando R. costruì il suo Orto degli Ulivi, del Saccomani (come il Getsemani di Gesù) lo fece a Nicola di Ortonovo, tra gli ulivi, e un alloggio era per la famiglia di Nicola. A Saronno Nicola Morra gli ha comprato la casa in cui R. Morrà il 4-10-25. È il pronipote del Morra di Capizzo che non poté sposare Tresina... e il cerchio si chiuderà

Per farlo, Giovanni poteva recuperare quanto non era più loro di diritto soltanto sposando la cognata vedova e impedendo poi a Nicolina, proprietaria per l’altro 50%, di sposarsi, quando sarebbe cresciuta. Tutti i tentativi che fecero con Don Mauro – per interposta persona – andarono falliti. Lui si era deciso a proteggere sua figlia... e i suoi beni! Tresina per ben quattro anni riuscì a stare a Capizzo. Riallacciò le amicizie e le simpatie che aveva già avute, per quel Morra. Restava una sola cosa da fare per Giovanni. Armarsi di coraggio e andare lui a Capizzo. Doveva far ragionare Don Mauro. La sua rettitudine era nota a tutti. Si recò così a Capizzo con un biroccio, un calesse tirato da un cavallo, ma Tresina non volle neppure riceverlo. Giovanni parlò allora a Don Mauro. «Don Mauro, Voi siete una persona a modo e coscienziosa. Eravamo cinque maschi e, per non dividere la proprietà tra di noi, abbiamo intestato tutto al solo marito di vostra figlia. Ma è morto, lui e il bimbo suo, defunto pochi mesi prima di lui. Con la loro fine, tutto è passato a vostra figlia e alla bambina. Noi abbiamo avuto figli nostri che abbiamo mandato al Brefotrofio (per non disturbare la famiglia di Vostra figlia), ed ora non è veramente giusto che restiamo senza nulla. Chi sposerà Tresina e Nicolina ci caccerà dalla nostra stessa casa, che per mantenerla, siamo passati sopra alle nostre stesse creature! Don Mauro, mettetevi una mano sulla coscienza e diteci se è giusto che vostra figlia ci faccia un simile torto e ci cacci dalla nostra casa. La Famiglia Baratta – grande Famiglia –, se vostra figlia non mi sposa, è finita. Secondo voi, è giusto? Vostra figlia può farci tutto questo?» Don Mauro fece quel gran gesto di chi si mette una mano sulla coscienza e ordinò che figlia e nipote fossero condotte da lui. Poiché questa volta Tresina opponeva resistenza, Don Mauro ricorse alle maniere forti. Caricò figlia e nipote sul biroccio di Giovanni perché le riportasse a Ostigliano. L’ORRIBILE VIOLENZA CONTRO LA RUSSO Giunte lì, la piccola Nicolina fu presa in consegna dalle serve e Tresina – recalcitrante – fu spietatamente chiusa a chiave in camera da letto e presa chissà in che modo e quante volte, da Giovanni..., finché restò incinta. Nonostante ciò e la brutta figura che facevano tutti se lei non si sposava, lei oppose a lungo, decisa, il suo rifiuto. Se Giovanni l’aveva presa contro la sua volontà non poteva costringerla a un “sì” davanti a un prete, se lei non voleva. Lei mai e poi mai si sarebbe legata a un uomo così cafone e brutale che l’aveva stuprata fino a quando l’aveva ingravidata.


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LA CONVERSIONE DELLA RUSSO E IL SANTO ROSARIO Solo a un mese prima del parto, del figlio dello stupro, lei s’interrogò a fondo se ci sarebbe stata molta differenza tra Giovanni – che aveva reso illegittimo un suo figlio – e lei, che ora lo rendeva parimenti illegittimo se lo metteva al mondo fuori dal matrimonio. No, non c’erano differenze, se la cosa era osservata dal punto di vista del figlio, che non aveva colpa alcuna di quella cosa così inumana e mostruosa che aveva dato origine alla sua vita. Gliela avrebbe anche dovuto nascondere! Così, per rispettare i diritti del nascituro, Tresina si decise a sposare sull’altare il suo violentatore. Lei, in questo particolare modo, entrò negli stessi panni del Giacobbe che era stato costretto a sposare due sorelle: prima Lia (che non voleva) e solo poi, sette anni dopo, la Rachele che voleva. Qui, essendo le parti invertite nei sessi, erano anche invertiti i due atti volontari, e Tresina prima sposò chi voleva e poi chi veramente non voleva. Riuscirà ad amarlo con tutte le sue forze e da lui avrà in tutto ben sette figli. Ora nel Cristianesimo fu fatta santa una ragazza violentata che infine morì perdonando il suo violentatore.

Seguirono lunghi mesi e a poco a poco Tresina riuscì a entrare nell’ordine di idee che avevano imposto a suo padre di compiere egli pure quel terribile abuso contro di lei. Capì che la durezza di cuore del marito era il frutto di decisioni superiori. Lei pensava ai sacrifici fatti da quella famiglia e alle disposizioni ferree imposte da suo suocero Carmine. Non poteva sapere, lei (come non lo poteva Giacobbe), che questo padre che comandava con tanta durezza fosse molto, molto più in alto di suo suocero, comunque egli si chiamasse (sia Don Mauro il capizzese, sia Labano l’arameo). Il Signore aveva disposto la CONVERSIONE DELLA RUSSO alla base di quel SANTO INCONTRO tra la figlia della violenza, ROSA e il RIO padre violentatore come quel SANTO ROSARIO da recitare sempre, come sarebbe poi stato chiesto a tutti da Nostra Signora a Fatima. Per quel perenne mistero che esiste in tutte le comunicazioni divine, che sono sempre sibilline, questo fatto privato riguardante Tresina Russo, il RIO suo violentatore e ROSA, figlia della violenza, nata il 14 settembre in cui la Chiesa cattolica celebra l’Esaltazione della santa Croce (e di chi, se non di quella reale patita da Tresina?) Nostra Signora di Fatima avrebbe parlato della:  CONVERSIONE DELLA RUSSIA (e non della giovane RUSSO) e del  SANTO ROSARIO come la serie interminabile delle Ave Maria e Padre Nostro e Gloria, laddove il reale SANTO ROSARIO da ricordare sempre era stato l’incontro di amore tra ROSA e suo padre Giovanni, che con quel gesto ORRIBILE di Amore prepotente, l’aveva messa al mondo. Furono i due rimedi per la salvezza del mondo, annunciati a Lucia, da Nostra Signora di Fatima, quelli che dovevano avere ancora una parte in attuazione, poiché da quella santa Conversione sarebbe disceso un altro RIO, il dì che a RIO de Janeiro ci fu il Raid Rome-RIO e il via PomeRIO nacque a Tresina, il primo nipote maschio.

La nonna di Modè si chiamava Maria Teresa Russo. Lei non morì in seguito alla violenza subita, ma visse. Non si limitò a perdonare un violentatore che l’aveva violentata in un momento di follia. Lei perdonò e amò chi l’aveva stuprata a lungo e con premeditazione, dopo di averla tenuta serrata a chiave per mesi nella sua stessa stanza da letto ... e tutto questo con il beneplacito di suo padre! Chi è più santo? Chi perdona le colpe o chi infine ama l’oppressore? Eppure Maria Teresa Russo nessuno l’ha mai fatta santa3. Attesero con impazienza che nascesse il frutto di questa orribile violenza, nella speranza di Giovanni e Mauro che fosse un maschio ... e invece nacque una femmina. Fu chiamata Rosa.

ROSA amò il suo RIO padre e Tresina – divinamente CONVERTITA – tanto a lungo poi l’amò da farci ancora Mariannina, Giovannina, Alfonsina, Vittoria, Antonio ed Emilia, ben sei altri figli, che – sommati a Carmine, Nicolina e Rosa – , furono alla fine 9, dei quali 2 avuti da Nicola e 7 da Giovanni.


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Nota 4. Tre generazioni dopo i nomi di quelle cinque persone che in valore numerico valevano 381 nei loro caratteri, c’era l’equivalente dell’Arca di Noè, che quando fu ordinata da Dio in Genesi 6, versetti 15-16 lo fu in questi precisi termini: «Ecco come devi farla: l'arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell'arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell'arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore.» 300+50+30+1 = 76+6+60+83+48+57+57 = 66+78+26+51+113+47. = 381. Arca di Noè come Francesco, Mauro, Giovanni, Nicola, Carmine, Baratta, in cinque persone e come Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo , in una sola persona che in unità, con il suo primo nome Ro-mano, sarebbe stato segno di quella mano, in nome e per conto di «Chi-RO», del Cristo «XP». Carmine Baratta, il bimbo morto, 57+57=114 essendo uguale a 1, che era poi Trino in tre 113=Romano Amodeo (nome e cognome), Torquato (l’ultimo nome che vale quanto l’intero) e RoAnAnPaToAm, l’acronimo che normalmente ha una cifra sola, ma rappresentando Romano l’asino su cui avrebbero camminato Padre e Spirito Santo, valeva 113 nelle prime due lettere dei 6 nomi. Se qui si perde il valore essenziale di tutta l’opera, che racconta del Modè dall’Alfa all’Omega, che nel suo nome originario Esaù rimandava ad un Es= “tu sei” romano, A-U, da cima a fondo, allora non si capisce che Esaù, denominato poi Edom, significava davvero, ma senza dirlo apertamente: Tu sei Romano da cima a fondo e Amodeo dall’Alfa all’Omega. Tutto ciò proprio nel segno della presentazione fatta di se stesso, di Gesù in Apocalisse, 21 5-6: E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»; e soggiunse: «Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci. Ecco sono compiute! Io sono l'Alfa e l'Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita. Questo Romano Amodeo sarebbe nato da due madri sante, costruite tutte e due presso i Lebano (come le due spose di Giacobbe da Labano) a Lustra di Monte Stella, come alla luce della stella natale seguita dai Magi di Gesù. Tutto il cammino, dal luogo natale, Felitto, fino a questa Stella che denominò quel monte, e a Lustra, che ne descrisse la luce, non per caso è tutto posto su una stessa linea, che ha nei sue due punti intermedi, Capizzo e Ostigliano di Perito. Da questi borghi di mezzo, fu un unico – ripresentato – andirivieni: di due bambine che tornarono a casa dopo essere state mandate dai Lebano, per divenire donne preparate a una

vita di fede autentica, non bigotta, non attaccata alle forme, ma – in modo lindo e pinto – ai contenuti concreti. Entrambe avrebbero patito due terribili violenze: Tresina quella carnale; sua figlia quella spirituale, descritta in Bibbia in Genesi 38. Quella che fu fatta contro Tamar, una figura dagli stessi estremi congiunti di Baratta Mariannina, che avrebbe dovuto avere (come Tresina), per mariti, due fratelli Er, Onan, dagli estremi congiunti di RO, e che sarebbero stati accreditati padri di quella mano che poi si presentò fuori dal sesso di sua madre, provando a nascere; ma il suo gemello, ancora nel ventre materno, tanto la tirò, da riportarla nell’utero, per poi uscire egli per primo, ed essere l’antenato, il progenitore di Gesù, 38 generazioni dopo (come dalla genealogia di san Matteo). Baratta Mariannina, e i suoi estremi congiunti, in Genesi 38, in Tamar, aveva due sposi ideali: nel divenire o una Madre Badessa o un Ingegnere. La sua sorte invece la spinse al sacrificio spirituale di tutti e due questi ideali del suo Spirito. Se non avesse mortificato i suoi sogni, lei avrebbe agito (con un uomo di nome Luigi Amodeo e padre di RO-mano, avente gli estremi congiunti in Gia, che erano gli stessi di Giuda) più o meno come quella prostituta sacra che tentò Giuda. Tamar smise gli abiti di lutto, indossò il burka e si offrì al suocero in modo tale che lui le chiedesse di congiungersi con lei. Lei voleva che il padre vivente dei suoi due congiunti morti Er, Onan le dessero i figli che da vivi non avevano potuto/voluto. Baratta Mariannina non avrebbe voluto Luigi Amodeo, ma coronare i suoi sogni! Si sarebbe però vista responsabile d’aver legato a sé per sempre quell’uomo, nonostante l’avesse amato da amica. Poteva adesso dargli il benservito? No, non poteva! In Luigi Amodeo lei fece nascere amore, ed era questo come un figlio loro che adesso – ragionando giusto come sua madre – lei non poteva estraniare da sé, come se lo mandasse alla Ruota di Napoli, per farlo esistere da NN! Mariannina avrebbe fatto la stessa esperienza di sua madre, che poi era stata, prima ancora, la stessa raccontata in Bibbia fatta da Lia e da Rachele, le due figlie di Labano, a Carran (ca’, qua. A.R. R. an, Amodeo Romano). Tutte e quattro subendo – ma oltrepassando in amore – una violenza indicibile, per i supremi diritti che ha l’amore, qualunque esso sia: volontario o imposto, in tutte le forme e modi della violenza, sia fisica, sia spirituale. Da queste due moderne sante, violentate più ancora di Maria Teresa Goretti, sarebbe nato colui che poi avrebbe impersonato, per il valore 381 del suo nome, quell’arca di Noè e quella di RO mano, già fatta vedere nel tentativo di nascita (poi rientrata) descritto in Genesi 38, nella Sacra Bibbia. Questo racconto però sta andando troppo alle sue conclusioni. Per arrivarci ci vorrà tutto quanto il tempo e gli avvenimenti che gli uomini del futuro vi stanno dettando per essere scritti dalla mano di chi sta digitando su questa tastiera di computer.


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Infatti, procedendo nel giusto ordine, va segnalato che, dopo la violenza patita e perdonata, e la nascita di Rosina, Tresina fu invasa non da rassegnazione, ma da un grandissimo amore per tutto ciò che la Divina Provvidenza le aveva imposto, prevaricando tutte le sue personali volontà e desideri. E quando, dopo questo moto così santo del cuore, Tresina ebbe in grembo una nuova vita, gli sposi furono presi da una grandissima gioia, e dal desiderio di farne – maschio o femmina che fosse – quell’amor santo in persona, che era sbocciato, come un fiore stupendo, da un letamaio. Così, il 29 giugno, festa del Martirio dei santissimi apostoli Pietro e Paolo, principi della Chiesa, Tresina ebbe un’altra figlia. Giovanni, il padre, tardò alcuni giorni a registrarne la nascita in Comune, a Perito. Sul registro comunale non c’era più spazio per trascrivere la nascita nel dì 29; c’erano alcune righe libere solo nel giorno 27. Oppure potevano registrarla a partire da quel giorno, posto troppo dopo la nascita. Scelse così il 27, il che sembra una cosa senza un grande senso in se stesso, ma per pura conseguenza di ciò, Mariannina risultò così nata due giorni prima ... d’essere nata. Ciò con tutti gli effetti burocratici che poi l’avrebbero accompagnata per tutta la vita. A questo punto ponetevi questa semplice domanda: «Di chi è segno chi esiste così? Chi altro è nato prima di essere nato?» I suoi estremi esatti erano inoltre già descritti in Bibbia e lei aveva quelli di Tamar, essendo Baratta Mariannina! Anche in Genesi 25 figurava come la sposa di chi aveva gli estremi congiunti GIA essendo Luigi Amodeo il suo congiunto (che poi in Gia aveva le prime tre lettere di Giacobbe). Essendo lei negli estremi di Tamar in Genesi 38, in genesi 25 lo sarebbe stato nel solo nome Mariannina, che in Gematria, per il valore delle lettere 11+1+16+9+1+12+12+9+12+1=84 del suo nome, avrebbe rappresentato la coppia dei due gemelli Esaù=5+17+1+19=42 e Giacobbe =7+9+1+3+13+2+2+5=42. Mariannina valeva Rebecca, madre di due 42.. Valeva – nel suo 84 – come chi trascende il 48=7+5+17+19=Gesù, nome dato dalla prima G di Giacobbe e dalle tre lettere esù degli estremi congiunti di Esaù, una volta da maiuscolo divenuto minuscolo. e perso la “A” della sua primogenitura. Queste particolarità esistono non per un puro caso. Siamo noi uomini del futuro che stiamo lanciando in eterno, oltre i limiti dello spazio e del tempo, i fatti e gli antefatti di Romano Amodeo, Esaù e Edom, Tu sei Romano da cima a fondo e A-modè-o dalla Alfa all’omega. «Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci. Ecco sono compiute! Io sono l'Alfa e l'Omega, il Principio e la Fine. »

La nuova Madonnina L’amore santo, che perdona, di Tresina Russo, ebbe due anni dopo il frutto di quella sua santità, e nacque una bambina che ricevé i nomi di Maria e di sant’Anna sua madre, nel segno massimo dell’amore santo della madonna e di Sua Madre. Appena poté, la bimba volle essere chiamata solo Anna, non ritenendosi all’altezza di chiamarsi prima di tutto Maria. E in ciò si comportò nel solito e divin modo di chi pone sempre davanti a tutti non il 1°, ma il 2°. Anna fu veramente allevata come una Madonnina. Tresina4, devotissima alla Madonna, la sera faceva recitare le preghiere alla piccola Anna. La invitava a ripetere, assieme a lei: “Madonnina mia, fami diventare brava!”. E la piccina: “Madonnina mia, fammi diventare brava!” “Intelligente!” “Intelligente” “Santa!” “Santa” “e vecchia!” “Vecchia no!” strillava la bimba, con un’intensità tale (opponendosi al comune detto “fammi diventare santo e vecchio”) che a sua madre parve strano. Era insolito che in una bambina, così piccola, fosse così chiaro e vibrante il senso del degrado della vecchiaia! Allora, nel tentativo di condurla a ripetere quella formula, Tresina cominciò ad estendere, ogni sera di più, la lunghezza delle preghiere, per vedere se la bambina si distraesse, al punto che, almeno una volta, acconsentisse a chiedere alla Madonnina di farla divenire “santa e vecchia”. Si giunse a preghiere interminabili. Tresina si divertiva a pregare così, con quella figlia così docile e ben disposta a seguirla, in quelle interminabili tiritere e, tuttavia, sempre fulminea in quella sentita ed imprevedibile reazione “vecchia no!”. Se il marito non fosse intervenuto ... pregherebbero qui ancora! Madre e figlia sembravano divertirsi nel pregare la Madonna! Quanto devono essere piaciute, a Maria, quelle preghiere fatte così, semplicemente, da mamma e figlia, nella gioia e nell’attesa, a Maria alla quale piacciono i Rosari! Preghiere che però spesso sono partecipate a fatica, con le Ave Maria e i Salve Regina sgranati ad uno ad uno, nel calante conteggio, nell’ansia che quella sorta di pia tortura ad un certo punto finisca! “Non torturare più questa bambina!” le intimò il marito, Giovanni, e lei finalmente smise, rassegnata.


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Con quelle interminabili preghiere, arrivate a durare quasi mezz’ora, le più lunghe, Anna era stata così portata a chiedere alla Madonnina sua tutte le virtù che potessero esistere sulla Terra, nell’Universo, nella Fede, nella Speranza, nella Carità... in tutto quanto abbia la buona sorte di esistere, compreso nell’Opera Omnia del gran Dio Creatore di tutto quello che esiste. Fu un fatto importantissimo, nella sua vita, perché Maria, pregata in quel modo assolutamente accattivante da mamma e figlia, che ripetevano entrambe la stessa preghiera, l’una mettendosi amabilmente nei pani dell’altra, fu in pratica costretta dalla preghiera, a rivivere in lei e a concedere con il massimo della gioia tutte quelle virtù. Quando nel 1.911 Anna ebbe due anni, sua madre partorì (nella speranza di tutti di un maschio) una bambina cui fu dato il nome di Alfonsina. Passarono tre anni e nel 1.914 si aggiunse... Giovannina. Accadde un fatto che fu determinante nella vita di Anna: fu mortificata profondamente dalla filastrocca che le sue coetanee cominciarono a dirle per invidia: “Passa la porcaredda de’ li Marchisi”, poi che fu costretta da suo padre a portare al pascolo la mandria dei maiali, alla morte improvvisa dell’addetta a quel compito. Il Marchese non trovò niente di più educativo, per la giovane figlia, che il porla di fronte agli aspetti sgradevoli della vita. Messo di fronte alla sue lamentele, poiché era derisa dalle sue emiche le disse: “Non te ne curare, i maiali sono i tuoi e c’è una bella differenza!”. Il bisogno di riscatto è una delle forze più importanti della vita. I maiali – poi – non piacevano in alcun modo alla piccola perché vedeva che razzolavano nei rifiuti e divoravano gli escrementi umani lasciati da tutti sulle vie, di quel paese senza servizi igienici in molte case! Quella mortificazione lasciò come segno il bisogno di uscire da quello stato di degrado, in quel paese, in cui i netturbini erano poi i maiali. A Ostigliano non c’era la scuola elementare e Anna ebbe i primi rudimenti , tra il 1.914 e il 1917, di un insegnamento elementare sui generis, da una donna che in quel periodo della Prima Guerra Mondiale si era improvvisata maestra, senza averne il diploma, nel mentre Tresina ebbe una nuova figlia e fu chiamata Vittoria, poiché avevamo vinto la guerra. Ma era tanta la crisi in tutto il paese che quella Vittoria in casa Baratta visse una quindicina di giorni, e morì letteralmente di fame, non essendo riusciti a trovare latte in paese e non avendone la mamma di suo. Anna, grazie a sua madre, fu mandata dai Lebano, a Lustra di Monte Stella, ove, in casa di maestri stipendiati dallo stato, non solo avrebbe mangiato normalmente, ma avrebbe anche avuto quella preziosa educazione che lì lei aveva ricevuto.

Quando Peppino Lebano bravissimo maestro, la mise nella sua classe e vide le sue condizioni, Anna si ritrovò mortificata, per la sua ignoranza, messa di fronte alle sue coetanee. L’insegnamento con lei dovette ripartire praticamente da zero. Lui però non l’aiutava, con lezioni particolari fatte a casa, e non la spingeva neppure, ma solo in apparenza. Aveva intuito nella bimba un orgoglio smisurato, e la trattava duramente, la sottoponeva al duro giudizio degli scolari di quella sua stessa classe, in modo che reagisse, per affermarsi. Così in breve tempo lei – stimolata in un modo così magistrale – raggiunse e superò tutte le sue compagne di classe. Un giorno a fine anno 1.918, arrivò un Ispettore e il Lebano gli mostrò un tema svolto da Anna. «Stai barando, caro Peppino! Tu mi mostri l’eccellenza!» «E allora guarda questo» e tirò fuori dall’armadio uno dei primi temi svolti da Anna. «Questo qui fa proprio pena! Ma chi è?» esclamò l’ispettore. «È la stessa scolara e la trasformazione c’è stata in questo stesso anno!» All’ispettore parve una cosa impossibile. Anna in poco tempo fu preparata a dovere e superò l’anno dopo l’esame di quinta, e quello dell’ammissione alla scuola media. Studiare oggi sembra la cosa più normale che esista, ma, in quei tempi e luoghi, era stata già una gran conquista quella di Nicolina: d’andare 50 km, lontano di casa, a Salerno, e lo aveva potuto solo perché lei, unica figlia del primo dei Baratta che aveva sposato sua madre e che era morto, l’aveva lasciata erede del 50% di tutto il patrimonio passato poi a suo zio Giovanni, quando aveva sposato sua madre, divenendo il suo patrigno. Nicolina – intanto – fu educata nello stesso rispetto alla proprietà da conservare indivisa, secondo i dettami di suo nonno. Nei desideri di tutti non si sarebbe dovuta perciò mai sposare, altrimenti suo marito avrebbe vantato diritti. Lei, del tutto plagiata da quella cultura, pretese in cambio che ci fosse l’istruzione, sia per sé, sia per le sue sorelle, come la ribellione naturale, di quelle donne, contro il medioevo che ancora imperava in quei luoghi e costumi. Accadde però che Rosina – bimba intelligentissima – si ammalasse di tifo e che il dottore decretasse che, con un cervello così debilitato, non sarebbe stato molto prudente farla studiare! Così il padre – approfittando di quanto toccato a Rosina – aveva deciso che, per una pura questione di giustizia tra le sorelle, neppure loro si sarebbero più istruite. Era ritenuto del tutto normale, allora e in quel luogo, che le donne restassero ignoranti e badassero solo alla casa. Se Anna non avesse avuto il concreto aiuto di sua sorella Nicolina, non sarebbe riuscita ad andare alle scuole medie.


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La primogenita affrontò il patrigno e gli disse: «Se Anna non può studiare perché costa troppo, la faccio forte io, con la mia parte d’eredità!». Giovanni a quel punto non se la sentì d’essere da meno della figliastra: “Anna ci va perché io, suo padre, lo permetto e a spese mie. Lei avrà lo studio com’eredità, le sorelle avranno la dote. Una sola volta che sia rimandata ad ottobre, lo sappia: niente più libri! Qui c’è bisogno concretamente di lei e delle sue braccia!” Le altre sorelle così restarono ad Ostigliano, per il disbrigo di quei bisogni. Intanto, nel 1.919, finalmente era nato da Tresina e Giovanni quel figlio maschio che tutti si aspettavano, il futuro Marchese tra tutti i Baratta di Ostigliano. Anna si trasferì a Salerno, in un convitto tenuto dalle suore in cui viveva anche Nicolina e frequentava l’Istituto Magistrale, la sola scuola superiore alle Medie che esisteva a Salerno e che è esistita fino a dopo la seconda guerra mondiale. Antonio, invece, il maschio e futuro Marchese..., quando fu in età scolare e lui, come il rampollo, doveva certamente studiare (e naturalmente a Salerno), essendo il futuro “erede di tutto”, non poteva certo finire in collegio, Così con grande sforzo gli si comprò un quartino (un alloggio di quattro locali), e Anna cessò di vivere in collegio e divenne l’educatrice del Marchesino. Anna, ormai agli ultimi anni delle Magistrali, così abitò in Via Nizza, con il giovane fratello, che tutto voleva fare tranne che studiare. Suo vivo compito, affidatole dal padre, fu allora che egli ce la facesse e lei in più di un’occasione dovette veramente “legarlo sulla sedia”, per tenere a freno la sua irrefrenabile voglia d’andare invece a giocare a pallone. Intanto nella famiglia dei Marchesi di Ostigliano aveva fatto il suo ingresso nel 1.922 l’ultima delle sette femmine di quella famiglia, di cui Vittoria era morta di fame. Anna aveva 13 anni e la prese in custodia come se fosse sua figlia e avrebbe avuto con lei, di nome Emilia, un rapporto privilegiato. È esattamente a questo punto della storia della nostra Madonnina, che essa diventa proprio negli estremi della Tamar della Bibbia, poi raccontata in genesi 38, e questa cosa è così importante e determinante che vale la pena di farne un capitolo nuovo. Infatti tutti i suoi sogni e le sue prospettive per la vita avranno esattamente lo sviluppo descritto in Bibbia, nel capitolo 38 del primo libro. Cosa assolutamente determinante, poiché il libro di Bibbia, nel numero 1, e nei capitoli 25 e 38 avrebbero poi descritto esattamente tutta la nascita di Romano Amodeo, avvenuta il 25 gennaio del 38. Noi, che dal lontano vostro futuro, vi stiamo raccontando questa storia, facciamo però a questo punto una pausa. Infatti è giunto il momento di raccontarvi tutto quanto vale la pena di dirvi, in relazione al ramo paterno di Romano Amodeo. Questa storia parte essa pure dal nonno del nonno di Romano.

Nota 5. La mamma di Gesù fu figlia di Gioacchino e Anna, caratteri Gioacchino che valgono 7+9+13+1+3+3+8+9+12+13=78 e caratteri Anna il cui corrispondente numero è 1+12+12+1=26 che è lo stesso dei caratteri Dio=4+9+13=26. Essi corrispondono a Gesù come i cinque Baratta (che valgono 381 nei loro nomi) che esistono nella stessa terza generazione, sotto il profilo del ramo materno. Anche Gesù è indagabile sotto il lato paterno, corrispondente allo Spirito santo di Dio, che rese gravida Maria prima ancora che essa conoscesse uomo. Dio, suo padre, è lo stesso 26=Anna. Infatti solo Dio (assunte le persone reali di Anna e di Gioacchino), solo Lui può dare a Gesù Cristo una sua reale mamma. La trae dalla coppia di sposi Gioacchino + Anna = 78+26=104, in cui Dio=26 è sceso e, essendo Uno e Trino, è 26×4=104. Essi, animati dal Dio Uno e Trino, poterono avere Maria santissima, come loro reale figlia, e madre del Figlio di Dio. In tutto ciò occorsero tre generazioni. In esse, la madre di Dio Figlio, è Figlia del Dio Uno e Trino in Gioacchino e Anna. Ora, in Bibbia, libro 1-38 come il gennaio del 38, anno natale di Romano, gli estremi di Tamar (che troviamo in Baratta Mariannina), sono gli stessi altri estremi in Mariannina Baratta che anagrammano Tamar in Marta. Ricordate lo scontro tra Marta e Maria, quando accolsero Gesù e Marta spignattava mentre la sorella l’ascoltava? Alla richiesta della laboriosa a Gesù di dire alla sorella di aiutarla, invece di stare lì a parlare con lui, il Cristo disse che lei s’era scelta la parte migliore e che nessuno gliela avrebbe mai tolta. Marta=Maria sono del tutto uguali se la T=18, si riconduce alla sua essenza di 1+8=9, e allora diventa la I di Iesus, e Marta diventa la Maria che l’ascolta. Marta e Maria sono le due facce della sola medaglia, in cui una è posta tutta a servizio di Gesù Cristo, l’altra all’ascolto della sua parola. Sono i due distinti modi di essere – nei tempi d’oggi – che riconducono Tresina alla operosa Marta (a sua volta ricondotta ad Anna che generò Maria santissima) e riferiscono Mariannina a Maria (nell’operosa generazione dei valori dello spirito). La differenza tra Tamar (l’antenata di Cristo) e Maria (sua madre) fu questa:  Tamar si espresse nella concreta opera di indurre il Padre Reale a dare un erede al suo figlio morto, sostituendo i suoi 2 congiunti Er Onan, unificati, congiunti realmente in RO, ovvero in solo una delle due parti in XP=Chi-RO che fanno il Cristo. Al RO = 16+13=29, 10° n. primo occorre realmente premettere la lettera greca X uguale al 10 Romano e Tamar=Baratta Mariannina genera Romano!  Maria non operò nulla, ma subì e accolse come sposo lo Spirito Santo. Chi sta lanciando questa storia dal futuro, con l’entanglement quantistico che la rende eterna e udibile da ogni luogo nel tempo e nello spazio, sta cercando di farvi capire che quando il Signore assume qualcuno a sua immagine e somiglianza, e gli dà ascendenti e discendenti, allora chi rappresenta veramente Dio li ha tutti quanti in se stesso.


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È per questa ragione che la terza generazione ascendente di Gesù, dal solo ramo materno nell’aspetto umano, data dal 78 di Gioacchino e dal 26 di Anna, sono, in Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo tutti compresi nel suo stesso nome, poiché Gioacchino=78=Antonio e il nome Anna è il suo stesso 3° nome. Pertanto, come il padre e la madre della madre di Cristo, esistono nel 2° e nel 3° nome di Romano, così sua madre Mariannina è nello stesso tempo sia Maria, sia sua madre Anna, e proprio con le dovute proporzioni di Maria la santissima e Annina, la santa piccola e comune (in apparenza) che essendo però la stessa essenza materna della mamma di Gesù Cristo è una figura ancor più essenziale di Maria stessa. Facendo un parallelo coi rispettivi nomi dei genitori, sulla base del valore dei caratteri dei loro nomi: Giovanni Baratta e Maria Teresa Russo (i nomi ufficiali della madre di Romano) valgono 83+57=140 (nel padre) e 38+62+82=182 (nella madre), per un valore totale di 322, cui manca, per arrivare a tutto il 381 del valore di tutto il nome, esattamente il 59=Benito, il 1° nome del 2° figlio di Mariannina, che sarà gemellato con Romano. I soli nomi di Giovanni e Maria Teresa, con 83+38+62 valgono 183 ed equivalgono ad 1 (il marito) +182=Maria Teresa Russo. I due cognomi Baratta Russo sono 57+82=139 e valgono quanto Giovanni Baratta -1 (sua moglie). La cosa non è sorprendente. Questi nomi hanno tutti la loro brava ragion d’essere. Poiché Maria Teresa fu poi chiamata sempre Tresina = 18 +16 +5 +17 +9 +12 +1 =78, eccola rappresentare con ciò la stessa Trinità di Dio, data da 26+26+26 = 78 uguale a Gioacchino lo sposo di Anna, uguale ad Antonio, il secondo nome di Romano e quello del solo figlio maschio che lei ebbe dopo Carmine=57. In tutto ebbe 135 in Carmine e Antonio, uguale a 66+66+2, ossia al piano unitario a lati 1 e 1 il cui solo flusso è dato da due Romano. In effetti Carmine, morto a poco più di 2 anni, anticipò Romano morto alla stessa età e poi risorto in Romano, l’asino su cui viaggiavano come un solo Re le 2 persone di un unico Dio date dal Padre e dallo Spirito santo. Anche Mariannina ricusò il suo nome e volle essere chiamata solamente Anna. In tal modo Tresina e Anna sono il 78+26=104 corrispondenti esattamente all’Unità e Trinità di Dio presente poi nei nomi 2 e 3 che avrà il 1° nome Romano. Vi avevo già detto come fossero le due faccia della stessa medaglia, entrambe mandate dai Lebano, come Giacobbe mandato da Labano, e per la stessa necessità di fondarle alla luce del natale di Cristo, a Lustra di Monte Stella, il monte sopra quella Elea in cui Dio si presentò nella verità del Fondamento dell’Essere in Filosofia. D’ora in poi chiameremo comunemente Mariannina col nome che lei si scelse.

Amodeo a Milano Come da TERACH va fino a ZERACH Terach Abramo Isacco Esaù Giacobbe Zerach Perez

Cesare Torquato Carlo Antonietta Luigi Romano Benito Paola Marco Andrea

Cesare Amodeo nacque intorno agli anni 30, del 1800. Sposò (come Giacobbe) due sorelle, ma una come si deve, in un regolare matrimonio, l’altra facendolo di nascosto. Dal matrimonio regolare nacque Torquato, da quello segreto una bimba che finì tra le NN e fu chiamata Maria Bonamore. Fu una cosa così occulta che Torquato e Maria si sarebbero poi sposati senza nemmeno sapere di essere fratellastri... esattamente come era stato tra Abramo e Sarai, che però erano bene a conoscenza di avere lo stesso padre ma due madri diverse e tra loro sorelle. In tal modo accadde che Torquato – geneticamente parlando – fu una cosa sola con suo padre, poiché mentre ebbe il 50% del suo bagaglio ereditario, l’altro 50% avuto dalla madre veniva ancora per una buona metà da quello di Cesare. Quando succedono queste cose, pregi e difetti interferiscono in vario modo. Così il primogenito, Carlo, sarebbe poi divenuto cieco; la seconda nata, Antonietta sarebbe stata debole nel suo scheletro e le sarebbero deformate la gambe ad una certa età. Il terzo invece – Luigi – ebbe rinforzate tutte le cose positive che esistevano in Cesare e in suo padre, e sarebbe in un certo senso stato come Set, il terzogenito di Adamo, che avrebbe assicurato la discendenza all’uomo stesso, nella sua fattispecie. Anche la data di nascita richiamava Set, poiché Luigi nacque il 7 -7 del 7, dell’anno 1.900. Non se ne sarebbe accorto mai, ma – mentre assecondava il secondo nella generazione dell’uomo – assecondava perfettamente anche il nono, che si chiamava Lamech e nel Lam aveva le prime tre definizioni di quelle L. Am di Luigi Amodeo. Peraltro Lamech sarebbe vissuto secondo Bibbia 777 anni e avrebbe avuto come figlio Noè.


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Se anche il nono asseconda quello che c’è nelle prime due generazioni (ossia che al 1° segue non il primogenito ma il 3°), allora che Luigi Amodeo avrebbe un seguito costituito da un terzo riferito al primo. Il che esiste quando il suo 1°genito ha un nome costituito da tre terzi, ciascuno dato da una sillaba. Il che è in Romano, il 1°genito che nel suo primo nome è trisillabo, quando delle tre solo la terza s8illaba: NO è utilizzata. Ora, nella rappresentazione nello spazio e nel tempo, ogni elemento – anche quando esso è un nome – quando è presente è accompagnato dal valore espresso dalla presenza. Infatti il ciclo 10 dello spazio, quando esiste, è di 10+1 unità. È giusto questo 11 presente in ogni verso, che su tutti e 6 dati da: avanti, dietro, destra, sinistra, sopra e sotto, diventa l’intero (10+1)×6=66 che poi corrisponde al valore in gematria del 1° nome Romano, dato al 1°genito di Luigi Amodeo, che di suo vale 54 in Luigi e 47 in Amodeo, dunque il 101 che porta il nome del padre al 100 come piano 10×10 e presente in 1. Il 3° esatto di Romano=66 è 22, ma espresso nel valore delle distinte tre sillabe, è 29+12+25, e quando l’ultima esiste, è 25+1=26, valore in gematria di Dio. Espressa esistere nelle lettere – invece – No è., e assume in questo il valore di 5×5+5 che esprime la trinità del 10 dimezzato che non lo rappresenta nel 25+1=26 del Dio espresso in lettere, ma nella trinità del Dio espresso nella dimensione 10, la quale prima esiste nel valore unitario dell’area 5×5, poi trasla unitariamente di 5. In tal modo Luigi Amodeo, uguale al piano 10×10 che esiste nel tempo di 1, genera, nell’ultimo terzo del nome trisillabo del suo 1°genito quel NO=25, che corrisponde alla sua presenza ¼, e quel 5 che espande la presenza 1 del Padre, in tutto il tempo ½ dell’unità 10 in linea esistente nel padre, e diviene 30. Con il 30 totale del NO è, assume l’esatta conformazione in linea del padre, data dal 10, quando esiste in modo tridimensionale come i tre lati dello stesso cubo che porta il volume al 1.000. Qui di seguito vedete Torquato con sua madre, che avrebbe cresciuto anche Luigi, poiché un tristissimo evento strappò al piccolo Amodeo la sua eroica mamma, che perse la vita per proteggerlo dalle fiamme.

SATANA ATTENTO’ ALLA VITA DI LUIGI AMODEO. Il nome intero di suo padre, era Torquato Vincenzo Amodeo, uguale in gematria a 113+95+47=215. Questo valore, espresso nel 10 del Dio numerico, è di (7+7+7) decine, sommate al tempo ½ della decina. Come abbiamo detto, ha il suo successore nel terzo figlio che è Luigi (seguito a Carlo e a Antonietta) ed è giustamente nato il 77-7. Luigi Amodeo (che vale 101), nel tempo ½ del DIO=26, dato dal 13, compone il giusto nome del Padre come 101+101+13, e vale in esso quanto il lato dell’area costituita dal padre. È così tanto conformato nel rispetto di tutte le regole, che il Maligno, sapendo che cosa nascerà poi da lui, quel suo Figlio 1°genito (Romano, virtualmente esistito prima del giorno natale del padre di suo padre, tanto che nascerà il 25 gennaio e non il 26 di suo nonno Torquato) tentò di ucciderlo. A voi questa cosa può sembrare una forzatura, ma – ove Dio è Uno e dunque è ogni cosa) non ce n’è una sola in natura che non valga anche nel suo valore reciproco. E se – per come lo ordina il progetto per numeri ordinato da Dio – se un ente ha valori divini nel suo aspetto, allora è intrigato dal Maligno che tenta di sopprimerlo. Già accadde in Cristo Gesù per la stessa ragione del tutto logica. L’episodio fu pubblicato nel 1908, a gennaio sulle pagine del Corriere della Sera, che però danno una informazione sbagliata: non raccontano di Luigi assieme alla madre, che lo teneva in grembo, ma solo del fratello Carlo. E anche questo non accade per caso, ma per mascherare gli eventi reali e renderli poco evidenti. Maria Bonamore aveva ancora il figlio in fasce e lo stringeva al petto in un freddo giorno d’inverso ed era troppo vicina alla stufa e legna: tutto avrebbe potuto immaginare, fatto dal calore della stufa, tranne che i suoi abiti prendessero fuoco. Accadde e in verità non fu una cosa naturale, poiché, per quanto potesse essere caldo, il corpo della stufa di ghisa non era certo tale da appiccare il fuoco ad abiti che non erano a contatto col metallo. Né lei aveva aperto lo sportello, sì che ne uscissero scintille, avendo in braccio il piccolo Luigi. Un qualcosa di demoniaco certo accadde. Forse qualcosa che ardeva produsse un improvviso aumento di pressione e gli anelli sovrapposti, sul piano, che erano rimovibili per poter consentire la cottura dei cibi con le pentole a diretto contatto con il fuoco, furono di botto sollevati dalle fiamme che uscirono e diedero fuoco agli abiti di Maria. Lei, con il bimbo in fasce che teneva stretto al petto, pensò solo a proteggerlo dalle fiamme con il suo corpo. Chiamò forte Carlo, il primogenito, lo prese per mano e corse fuori, sul ballatoio di quella casa a ringhiera, gridando e in cerca di aiuto. Si aprì la porta del vicino e lei che intanto aveva i vestiti in fiamme, entrò, consegnò loro il bimbo in fasce e fu avvolta dalle coperte che le buttarono addosso per spegnere quel fuoco. Carlo aveva circa sette anni e si era leggermente scottato. Corsero nel locale di Maria, per spegnere l’incendio e impedire che il fuoco si trasmettesse all’intera costruzione. Non occorsero i pompieri, poiché aveva preso fuoco solo Maria.


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Chiamata con urgenza l’ambulanza, venne il soccorso e Maria e Carlo furono portati con grande urgenza all’ospedale. Lei era restata così ustionata che non ci fu verso di salvarle la vita, che perse nei due giorni che seguirono. Il cronista del Corriere riportò che Maria aveva preso fuoco mentre era con Carlo. Nessun accenno fu fatto al bimbo che la mamma aveva protetto dalle fiamme a prezzo della sua vita, poiché – del tutto indenne – era restato a casa dei vicini ai quali la mamma l’aveva subito consegnato, appena li aveva visti. Luigi restò così senza la mamma mentre era ancora in fasce e con un senso di profondo malessere che l’avrebbe accompagnato per anni, dovuto al fatto che lei era morta per salvarlo, e si sentiva ingiustamente responsabile di quel triste evento. Non aveva torto, in verità. Quell’attentato era stato rivolto espressamente contro di lui dalla Mala Sorte... per chiamare in questo modo la diabolica mano del maligno che cerca di impedire le cose straordinarie e divine che verranno da quel bimbo, quando crescerà. Non per caso il suo nome e la sua nascita sono nel segno della vita del Padre di Noè. Chi fece da mamma al piccino fu sua nonna: la figura che vi ho mostrato di fianco a Torquato, e che era delle due sorelle quella che Cesare aveva sposato. L’altra, la madre di Maria, era morta lei pure poco tempo dopo avere messo al mondo sua figlia. Anche Cesare non era vivo più, per cui Maria era cresciuta nella stessa famiglia della sorella, come una cugina e non come la sorellastra che invece era. Con la scomparsa dei due amanti non ritennero imprudente il matrimonio tra coloro che credevano fossero cugini, ma che invece erano fratellastri Questo matrimonio fra fratellastri fu simile a quello biblico tra Abramo e sua sorella Sarai, dopo che andarono in cerca della terra promessa. Torquato, con la morte di sua moglie, si trovò con tre figli piccoli, il maggiore dei quali aveva appena da un anno iniziato la scuola elementare. Antonietta, di circa tre anni, e Luigi, che – nato in 7 di luglio, aveva appena sei mesi. Innocente Buonamore era il nome bene-augurante di questa amabile persona che si prese cura dei tre piccoli Amodeo, dando una mano a suo figlio. Torquato aveva trovato lavoro presso la Ricordi, la nota casa musicale e si era guadagnato la simpatia e la stima di tutti i suoi principali. Qui a sinistra Torquato. Gli vorranno così tanto bene, dopo una intera vita trascorsa con loro, che quando morì povero in canna furono loro a comperargli una

tomba eterna presso il cimitero maggiore di Milano. È per questa ragione che oggi, 2.020, a 83 anni dalla sua more avvenuta nel 1937, il suo ossario conserva ancora le sue ossa. Ospiteranno anche quelle di suo figlio Luigi, poiché tra sei anni l’ossario del figlio, che non è a dominio eterno, vedrà scaduto l’ultimo termine. Con quello che guadagnava presso la Ricordi, Torquato riuscì a mantenere tutta la sua famiglia e sua madre. Certo, risparmiando in tutti i modi che erano possibili. E appena Luigi terminò la sesta elementare, che era allora l’ultimo anno della scuola dell’obbligo, cercò di avviarlo a un lavoro da garzone. Luigi, dall’intelligenza spiccata e vivace, aveva fatto tesoro di quei se anni e avrebbe voluto continuare a studiare. Ma la famiglia non ne aveva i mezzi. Cercò di applicarsi al meglio in tutti i lavoretti che si resero disponibili a lui, ma lo faceva totalmente di mala voglia. Così iniziò per conto suo a prelevare libri in biblioteca e a leggerli, divorarli. Acquisì una lettura così veloce che gli bastava poco più di una scorsa veloce sulla pagina e l’aveva già letta tutta. In tal modo – destramente disordinato e che spaziava in tutti i campi – il ragazzo si fece una sua cultura, e cominciò – non contento di leggere le opere altrui – anche a scrivere le sue. Piccole e frettolose cose, nel tempo rubato al lavoro e alla lettura. Gli venne anche il desiderio che pubblicassero i suoi racconti e trovò un giornalino, a diffusione nazionale, che cominciò a pubblicare i suoi racconti. Si era scelto come pseudonimo quello di “allegro rompiscatole”. Quello era veramente il compito suo tutte le volte che con suo fratello maggiore partecipava a qualche gita. Si portavano dietro le scatolette, di tonno e di altre cose, e il suo compito era quello di aprirle. In realtà si sentiva un rompiscatole. Aveva cominciato a romperle proprio a sua madre, nascendo e – per difendere lui – lei era morta tra le fiamme. Egli stesso poi, nella sua vita, l’accoglieva tutta come una enorme azione contro i suoi interessi e quello che avrebbe voluto fare nella vita: scrivere!


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A Salerno, ora, ecco c’è una filosofa sognatrice Siamo nel 1939. Mariannina Baratta, che si fa chiamare Anna e che era nata il 29 giugno dell’anno 9, aveva poco più di 19 anni, ed era giunta al penultimo anno dei suoi corsi di studio per divenire maestra. Era un poco in ritardo rispetto alla sua età. Infatti solo nell’ultimo anno della prima guerra mondiale era stata mandata a Lustra di Molte Stella. Nel 22 aveva potuto essere iscritta alle medie, che aveva ultimate nel 25, avendo 16 anni, e da tre stava preparandosi alle Magistrali, in un corso di studi di 4 anni. Antonio, il Marchesino, aveva indotto la famiglia a comperare un quartino in via Nizza, e ora lei viveva a casa sua, frequentava, e faceva da nutrice al fratellino. Appassionate lei pure alla lettura, lei pure aveva cominciato a collaborare con lo stesso giornalino che ospitava gli scritti del milanese Luigi. Leggevano quello che scrivevano ed erano scritti in sintonia tale che presto era venuto in mente a uno dei due di entrare in contatto diretto. Da oltre un atto c’era tra i due una fitta corrispondenza e aprivano l’uno all’altra il loro cuore, su cosa amavano, sui sogni, sulla vita. Lei gli aveva fatto sapere che era incerta se entrare in un concento, una volta diplomata, oppure se tentare una vita ancora più sorprendente, specie se affiancata all’altro proposito, poiché nulla mi sembra più lontano da una suora chi fa l’ingegnere. Luigi aveva manifestato la sua sostanziale insoddisfazione per la vita che conduceva a Milano. I suoi soli amici erano quelli di suo fratello. Non gli piaceva nessuno dei lavori ai quali egli era stato avviato. Li faceva per un po’, imparava il mestiere, e poi era colto dall’insoddisfazione e si licenziava, cercava di fare altro. In tanto tempo, da quando aveva finito la sesta elementare, intorno al 1.918 – e dunque in 20 anni – non aveva combinato assolutamente niente! Era un tipo alquanto chiuso e riservato, pochissimo incline a far comunella con gli amici. Estraneo agli interessi che avevano fatto strada in Italia, nel campo della politica. I fascisti non gli andavano giù e una volta che l’avevano colto una sera di sorpresa fuori di casa e aveva cercato di svicolare, l’avevano bloccato, interrogato, e costretto a ingurgitare quella dose abbondante di olio di ricino con la quale gli squadristi del fascio intendevano fare rapida giustizia. Per difesa personale, aveva cominciato allora a tirare di pugilato, e per prima cosa gli avevano rotto il naso. Aveva comperato un violino, e l’usava così come gli riusciva, a orecchio. Gli spartiti non gli mancavano con il lavoro che faceva suo padre alla Ricordi.

Lo pseudonimo che aveva scelto Anna per firmare le sue novelle sul giornalino che producevano insieme,èra quello di “Filosofa sognatrice”. Da questa definizione e da quella dell’Allegro Rompiscatole” scelto da lui sarebbero venuta fuori una prole che avrebbe esaltato tutti e due questi aspetti. È a questo punto esatto che il racconto che sto facendo di loro diventa esattamente quello raccontato in Bibbia, nel primo libro e nel capitolo 38, quello che racconta la storia che ci fu tra Giuda e Tamar e dalla quel posi sarebbe disceso Gesù Cristo. Così nel prossimo capitolo vedremo le analogie. Chiudo questo, mostrano vela come scritta in Bibbia.

Genesi 38 1 In quel tempo Giuda si separò dai suoi fratelli e si stabilì presso un uomo di Adullam, di nome Chira. 2 Qui Giuda vide la figlia di un Cananeo chiamato Sua, la prese in moglie e si unì a lei. 3 Essa concepì e partorì un figlio e lo chiamò Er. 4 Poi concepì ancora e partorì un figlio e lo chiamò Onan. 5 Ancora un'altra volta partorì un figlio e lo chiamò Sela. Essa si trovava in Chezib, quando lo partorì. 6 Giuda prese una moglie per il suo primogenito Er, la quale si chiamava Tamar. 7 Ma Er, primogenito di Giuda, si rese odioso al Signore e il Signore lo fece morire. 8 Allora Giuda disse a Onan: «Unisciti alla moglie del fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità per il fratello». 9 Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità al fratello. 10 Ciò che egli faceva non fu gradito al Signore, il quale fece morire anche lui. 11 Allora Giuda disse alla nuora Tamar: «Ritorna a casa da tuo padre come vedova fin quando il mio figlio Sela sarà cresciuto». Perché pensava: «Che non muoia anche questo come i suoi fratelli!». Così Tamar se ne andò e ritornò alla casa del padre. 12 Passarono molti giorni e morì la figlia di Sua, moglie di Giuda. Quando Giuda ebbe finito il lutto, andò a Timna da quelli che tosavano il suo gregge e con lui vi era Chira, il suo amico di Adullam. 13 Fu portata a Tamar questa notizia: «Ecco, tuo suocero va a Timna per la tosatura del suo gregge». 14 Allora Tamar si tolse gli abiti vedovili, si coprì con il velo e se lo avvolse intorno, poi si pose a sedere all'ingresso di Enaim, che è sulla strada verso Timna. Aveva visto infatti che Sela era ormai cresciuto, ma che lei non gli era stata data in moglie. 15 Giuda la vide e la credé una prostituta, perché essa si era coperta la faccia.


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16 Egli si diresse su quella strada verso di lei e disse: «Lascia che io venga con te!». Non sapeva infatti che quella fosse la sua nuora. Essa disse: «Che mi darai per venire con me?». 17 Rispose: «Io ti manderò un capretto del gregge». Essa riprese: «Mi dai un pegno fin quando me lo avrai mandato?». 18 Egli disse: «Qual è il pegno che ti devo dare?». Rispose: «Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano». Allora glieli diede e le si unì. Essa concepì da lui. 19 Poi si alzò e se ne andò; si tolse il velo e rivestì gli abiti vedovili.

Tamar e Giuda proprio tratti dai nostri giorni

20 Giuda mandò il capretto per mezzo del suo amico di Adullam, per riprendere il pegno dalle mani di quella donna, ma quegli non la trovò. 21 Domandò agli uomini di quel luogo: «Dov'è quella prostituta che stava in Enaim sulla strada?». Ma risposero: «Non c'è stata qui nessuna prostituta». 22 Così tornò da Giuda e disse: «Non l'ho trovata; anche gli uomini di quel luogo dicevano: Non c'è stata qui nessuna prostituta». 23 Allora Giuda disse: «Se li tenga! Altrimenti ci esponiamo agli scherni. Vedi che le ho mandato questo capretto, ma tu non l'hai trovata». 24 Circa tre mesi dopo, fu portata a Giuda questa notizia: «Tamar, la tua nuora, si è prostituita e anzi è incinta a causa della prostituzione». Giuda disse: «Conducetela fuori e sia bruciata!». 25 Essa veniva già condotta fuori, quando mandò a dire al suocero: «Dell'uomo a cui appartengono questi oggetti io sono incinta». E aggiunse: «Riscontra, dunque, di chi siano questo sigillo, questi cordoni e questo bastone». 26 Giuda li riconobbe e disse: «Essa è più giusta di me, perché io non l'ho data a mio figlio Sela». E non ebbe più rapporti con lei. 27 Quand'essa fu giunta al momento di partorire, ecco aveva nel grembo due gemelli. 28 Durante il parto, uno di essi mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò attorno a quella mano, dicendo: «Questi è uscito per primo». 29 Ma, quando questi ritirò la mano, ecco uscì suo fratello. Allora essa disse: «Come ti sei aperta una breccia?» e lo si chiamò Perez. 30 Poi uscì suo fratello, che aveva il filo scarlatto alla mano, e lo si chiamò Zerach.

Anna ormai sapeva molto bene quali erano gli interessi dell’Allegro Rompiscatole, ma bisogna vedere in che modo questa storia e a che punto si innesta con quella della Bibbia. L’analogia sta nel desiderio di dare una svolta alla vita, ed essa si presentò come quando dissero a Tamar che il suocero passava lì vicino, poiché andava a tosare le pecore a Timna. Qui non c’erano pecore da tosare, ma c0era un libraio che nel suo campo cercava di fare la stessa cosa, riordinando una libreria carica di libri e che proprio aveva bisogno di chi li passasse in rassegna ad uno ad uno, preparandone un catalogo. Insomma – più o meno – c’erano tanti libri da tosare! E il libraio cercava chi lo potesse fare. Saputo questo, come Tamar provvide e passò all’azione, così fece Anna e scrisse al milanese: “Un libraio sta cercando un bibliotecario, per il riordino della sua libreria, qui, a Salerno. Non è un gran lavoro e non credo duri in eterno...” Questo che gli scrisse Anna nel 1931, equivalse a Tamar che si sveste dei suoi abiti vedovili e indossa l’abito della prostituta sacra, che offre a un vedovo arrapato di sesso, l’attesa occasione di farlo, con tutto quel rispetto per la sacralità che proprio era assicurato da una Prostituta sacra. Luigi, a Milano, non è di certo tentato meno di quanto lo sia stato Giuda. Tra l’altro lui e Giuda hanno in comune anche gli estremi del nome. Infatti i congiunti estremi di Luigi Amodeo sono in Giuda gli stessi estremi, e tutti e due congiunti. Anche Baratta Mariannina ha gli estremi congiunti di Tamar5.


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Dunque lei lo provoca – e per davvero – a mettere in gioco tutta la sua iniziativa creativa, poiché creare un archivio laddove c’è solo un terribile ammasso di libri, è simile al gesto fatto con il sesso di chi genera una vita nuova. L’uomo è irretito da Dio, che – nella necessità di dare continuazione alla vita – ha estrapolato il fine dal mezzo e ha resto il mezzo il maggiore interesse che spesso esiste tra uno e donna. Tutto quel senso poetico dell’innamoramento, della corte, sono altrettanto gradevoli e appassionanti come l’atto c5reativo della vita messo in atto da Dio tra uomo e donna. Anche la breve trattativa che intercorre tra Giuda e Tamar presenta una chiarissima analogia con la storia di Anna e Gino. Sì, poiché lei cominciò subito a mutargli il nome: Luigi non le piaceva e – a quanto pare da ciò – lei cominciò subito a porlo in modo che le piacesse, mutandogli il nome. A lei quel nome creava disturbo poiché a Ostigliano era il nome dello scemo del paese. Anche lei aveva mutato il suo nome per la stessa ragione: la canzoncina della Marianna che va in campagna era stata in qualche caso usata da una delle sue amiche per deriderla... La trattativa tra Giuda e Tamar verte sul prezzo da pagare: poiché al momento Giuda non ha da darle quella pecora che avevano pattuito. E lei aveva voluto un pegno, a garanzia che quel patto poi fosse rispettato. Lui le aveva dato tre cose: l’anello, il bastone e la cintura. Nel caso di Anna e Gino – anche in questo – Anna intese partire con il piede giusto, e inquadrò tutta la vicenda come una pura pratica spiccia, ultimata la quale ognuno prosegue per la sua strada. Poiché presto il servizio che lei si apprestò a proporgli era quasi analogo a quello di una proposta sessuale a chi ama il sesso. Lui amava i libri e lo studio e lei gli proponeva di servirlo a dovere: l’avrebbe aiutato e in due anni avrebbe fatto di lui un maestro come lei. Si trattava il primo anno di prepararlo all’esame da privatista della terza media, e l’anno successivo avrebbe sostenuto da privatista quello del IV anno della Licenza alle Magistrali. SI trattava di preparare in due anni l’intero corso di studi della scuola media e delle superiori, che normalmente richiedevano 7 anni. In tutto quell’abbraccio, da parte di Gino, di quello che era il suo amore c’era il serio rischio corso anche dalla Prostituta Sacra: o che lui non la pagasse, o che si attaccasse troppo a lei che è una prostituta e non una moglie che poi ti prendi per te. Quello che era stato il bastone che Tamar aveva chiesto come garanzia, tenendo conto lo scopo che esso ha di sostegno lungo il cammino, ma anche di difesa personale, nel caso della richiesta a Gino fu che poi egli si appoggiasse dove voleva, ma non certo più su di lei. La cintura, per gli abiti di quel tempo, serviva a raccogliere e a stringere alla vita un abito molto largo e voluminoso. La garanzia corrispondente alla cintura chiesta a Gino fu di essere conciso, di non farsi strane idee voluminose e vaporose. Chiese la garanzia di non fare voli pindarici con la fantasia.

Infine l’anello. E a questo riguardo fu la garanzia più importante tra tutte che lei gli chiese: non puntasse a sposarla. Lei aveva altre ambizioni e lui lo sapeva benissimo. Come fece Giuda, che pure teneva molto al suo bastone, alla cintura e all’anello, così Gino assicurò lei dandole quei tre pegni che riguardavano certamente un grande impegno, ma consumata che fosse stata quella relazione lì che si stipulava tra loro due, poi ciascuno avrebbe ripreso la sua strada. In quanto al pagamento per la sua prestazione, sia Tamar sia Anna non ci tenevano minimamente. Infatti Tamar una volta che tutto fu consumato come lei voleva, se ne tornò a casa sua rinunciando al pagamento pattuito. Anche Anna non si aspettava nemmeno un semplice “grazie!” per il bene che gli stava facendo, e che gli avrebbe dato altrettanta eredità di quella attesa da Tamar come il suo vero guadagno. Dare vita ad un altro essere umano, e avere un figlio, questo era l’interesse di Tamar, ed era lo stesso di Mariannina: stava mettendo in vita un esser nuovo, e il suo atteso guadagno stava solo in questo. Anche un figlio è messo al mondo affinché poi si faccia lui la sua strada. Gino avrebbe fatto altrettanto. E Anna si comporta con Gino proprio assecondando le intenzioni di una madre che bada al bene altrui... lei che aveva in sogno quello di divenire un madre Badessa! L’analogia prosegue, fitta fitta e puntuale: così Tamar e resa incinta, e così pure tocca alla Madre Badessa. Ora nel racconto biblico accade che Giuda vuole pagare, e manda il capretto che era stato pattuito per ricevere indietro il suo pegno. Ma Tamar fu di altro avviso: non aveva alcuna intenzione a rinunciare a quel pegno prima che i giochi fossero fatti. Un rapporto è facile da farsi, ma poi occorre il tempo che faccia maturare i frutti, e l’impegno diventa costrittivo e valido solo a quel punto. Giuda l’aveva impalmata e ora doveva aspettare che nascesse il frutto del seme di vita nuova che egli aveva impiantato in lei. Analogamente, Anna, sapeva bene che fino a quando Gino non avrebbe portato a compimento la sua preparazione, quella loro relazione volta a creare un uomo nuovo era prematura, e proprio perché la vita nuova non era ancora nata. Giuda è colto impreparato, quando l’amico gli dice che non ha potuto riceve indietro il pegno poiché non aveva trovato lì la donna e gli avevano detto tutti che non c’era mai stata lì una prostituta. Non ha capito bene che cosa significasse che quella che aveva inseminato non fosse una prostituta, e che gli avrebbe dato un figlio. Lui aveva pensato solo a riavere indietro il suo impegno, una volta che si era spicciamente sbrigato. E se rinuncia ai suoi pegni è solo per evitare le critiche della gente: “altrimenti pensano che io non voglia pagare ...”


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Gino pure si è subito pentito, non appena ha cominciato a prenderci gusto in quel loro rapporto. Non solo il letto in cui operavano stava nella sua passione, che era la cultura, ,a anche lei che lo trattava così amabilmente era una offerta di se stessa che andava ben oltre una semplice relazione di sensi. Gino si era innamorato, e ora voleva assolutamente recedere da quei pegni che aveva concesso volentieri prima di quel loro così stupendo rapporto. Le ragioni di Giuda erano meno ideali, poiché bastone, cintura e anello gli servivano e li rivoleva indietro. Per le sue aspettativa, Giuda aveva già avuto tutto ciò che lei gli aveva promesso. Per Gino no. Si rendeva conto di avere ricevuto poco più di un acconto e che nulla per davvero tra loro due era stato consumato. Ogni giorno dei due anni che trascorsero, con lei che lo aiutava a prepararsi non significavano aver consumato un bel nulla. L’uomo nuovo in lui era stato solo inseminato, ma doveva ancora nascere. Quella cosa breve e intensa di passione e di fremito per Giuda bastava di per se stessa a creare la vita nuova nell’intimo di lei... ma lui sapeva benissimo che la donna avrebbe fatto di tutto per non avere conseguenze da quello che c’era stato tra loro due. Differenza totale, nei tempi, ma non nelle intenzioni. Giuda aveva cercato un rapporto carnale e l’aveva consumato. Luigi aveva cercato in tutt’altra direzione, ma egli pure era mosso dal suo fine di porre a felice termine quel loro rapporto in cui si costruisce non uno che si è letteralmente sfogato ... ma un “Maestro”. Ecco, passa dunque tutto il tempo che occorre e Giuda viene a sapere che sua Nuora, che doveva dare un erede a suo figlio morto, si è invece prostituita. E diventa cattivo. Diventa cattivo Gino? Eh, un pochino lo diventa. Si rende conto che non potrà mai estinguere il suo impegno. Sì perché in quanto all’impegno la cosa è assai differente tra Giuda e Tamar e lui e Anna. La vicenda di Giuda aveva termine e il pegno era annullato, a cose fatte. Invece tra lui e Anna l’impegno era in eterno. Non c’era modo alcuno per tornare sui propri passi Il malessere di Gino si mutò in un tentativo di aggirare l’ostacolo. C’era il giovane Antonio al quale lei accudiva, e se l’avesse fatto anche lui, facendoselo amico, avrebbe potuto mantenere quello statu quo e stare accanto al suo amore, con la scusa che egli era con il suo amichetto Antonio. Questa diventa la via d’uscita verso cui decisamente si muove Gino quando, riuscito a superare in due anni da privatista i 7 anni normalmente richiesti, fatto l’esame da Maestro e superatolo, partecipa assieme ad Anna allo stesso concorso per avere una posto in cui insegnare. Il risultato è sorprendente, inatteso: Gino vinse il concorso ed ebbe un posto, Anna pure lo vinse, ma da idonea e fuori dalla graduatoria dei vincitori. Sembra dunque che sia il Destino a imporre una separazione. A Gino danno una scuola in cui insegnare a Felitto. Anna ritorna a casa sua a Ostigliano. E allora Gino che cosa fa? Usa il cavallo di san Francesco e ogni venerdì sera, con la scusa di andare

ad Ostigliano dal suo amico Antonio, si reca lì dove è lei contento solo di poterle stare vicino. Ebbene le cose si sono incanalate bene e durerebbero chissà quanto altro tempo ancora se Tresina non prendesse da parte sua figlia e non le chiedesse senza giri di frase: “Neh, ma chisto che n’ge fa cca’?” “ Allora cosa ci fa questo qui, sempre qui intorno? Figlia mia tu hai combinato un bel guaio con questa persona, e allora o te lo sposi o lo mandi via” . Anna cercò allora di “liquidare” Gino e tutto il pericolo che egli incenerisse i suoi sogni. Fece esattamente come descritto nella storia biblica quando Tamar, in grave pericolo di essere arsa sul rogo, consegno ai servi i tre pegni che aveva ricevuto da Giuda; li consegnò ai servi (il che vuol dire che lei “si servì” di quegli impegni che erano stati stipulati tra di loro), e disse loro: “dateli al vostro padrone dicendogli che appartengono al padre del bimbo che ho in grembo”. Questo significa usando un solo verbo: “rinfacciare”. E Anna rinfacciò a Gino i chiari accordi ai quali egli si era impegnato. Che ci poteva fare lui, se non abbozzare, e tornarsene mogio a Felitto e... se non prendere a sua volta egli in mano la sua “arma”? Chiedetevi di che arma noi si possa immaginare, proprio nel rispetto del narrato biblico. In Bibbia Giuda si era impegnato con Tamar – morto anche il secondo marito – di darle in sposo il terzo figlio che aveva, e che era in quel momento ancora un bambino. Aveva perciò mandato Tamar a casa di suo padre, nell’attesa che il terzo figlio raggiungesse l’età giusta per farlo. Ma era già gran tempo che Sela aveva raggiunto quello stato e aveva finto di essersi dimenticato di tutta la vicenda. Lei invece no. Era stata più scrupolosa e viveva sempre nel proposito di dare eredità al primo marito morto. A chi poteva rivolgersi che fosse più opportuno a far vivere i geni di Er, se non al padre dei due congiunti Er Onan che già aveva avuto, non potendo congiungersi anche col terzo suo figlio? Gino, negli stessi panni di Giuda, non aveva rispettato i patti, e lei aveva tutte le ragioni del mondo, ma non quella di allontanarlo adesso da casa sua! Giuda infatti aveva accolta Tamar come sua figlia e non aveva avuto più rapporti incestuosi con lei ... ed era giusto così, ma sarebbero restati nella stessa casa, rispettandosi. E queste esatte erano le stesse ragioni che ora aveva Gino. Era divenuto un ottimo Maestro, reso tale proprio da lei, e doveva ora scriverle una lettera nella quale lei avrebbe avuto tutto il tempo e il modo per meditarsela bene, al di fuori della solita fretta di arrivare alle conclusioni quando c’è disagio e non c’è mai la pazienza che ci vorrebbe. Nella lettera le avrebbe spiegato che lui non stava infrangendo alcun patto. Il bastone, sul quale lui si appoggiava e con cui si difendeva dalle avversità e dalle manchevolezze, ormai ce l’aveva, gli era stato già reso, grazie a


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lei che lo aveva costruito come meglio era impossibile fare. La sua vita era divenuta come voleva lei: stringata, e tenuta stretta dalla sua cintura, e non faceva voli pindarici, non sia dava tante arie. In quanto all’anello, lei avrebbe dovuto porre a se stessa la domanda se forse lui avesse mai chiesto la sua mano! No, aveva rispettato, e avrebbe seguitato a farlo per sempre tutti i patti stipulati tra loro, e se ora egli era nato come da quel parto il cui merito era solo di lei, poteva ora una mamma allontanare da se suo figlio, estraniarsi da lui? Gino riconobbe che se fosse stato per lui (e lo aveva provato per 20 anni a Milano) avrebbe continuato a fare “l’allegro rompiscatole”. Lei gli aveva aperto il futuro e data la possibilità di realizzare quel gran miracolo di un Maestro diplomato sena che avesse mai frequentato altro che le elementari. Lei gli aveva aperto quegli ampi e impensati orizzonti. In pratica si comportava come Giuda che assegna il merito della vita nuova dovuto tutto ed esclusivamente e lei che lo aveva coltivato in se stessa e mutato in un reale figlio, mentre per lui era stato solo un piacevolissimo coito in cui non aveva assegnato quel compito di crear vita, al suo sperma, ma solo quello di riceverne egoistico piacere. Come suo figlio Onan che, non volendo dare eredità di figli al fratello morto creò la pratica anticoncezionale dell’Onanismo, lui, suo padre, idealmente faceva altrettanto, andando con una prostituta e non con una madre di figli. Gino le disse che era stato egli pure con lei come quel mostro che agisce solo pensando al suo piacere. Certo! Lei gli piaceva! Certo, l’avrebbe voluta in un altro modo, e se era divenuto quell’uomo nuovo era accaduto poiché lei lo aveva amato veramente a aveva pensato al suo futuro. Lui amava solo starle vicino. Era divenuto la sua vita. Chi era veramente nato in lui non era un Maestro, ma un Amore. Però era disposto (come Giuda) a non vivere più con lei quei momenti che Giuda aveva vissuto quella sola volta, di una amore reale. Poiché lei non lo voleva, non lo amava, gli stava bene. Un figlio non è lo sposo della sua mamma, ma questa non lo caccia di casa se lui l’amerà sempre come colei da cui ha ricevuto vita. Egli non le chiede niente, ma in lui è nato un profondissimo amore, bello, limpido e puro, e perché una Madre Badessa non vuole tenere a bada, lei pure tutto quanto le corre in petto? Giunse a chiederle – per pietà – di non essere scacciato. Non se lo meritava e non faceva male a nessuno, restando nel suo cantuccio, con la sua vera mamma. Non l’aveva mai avuta. Era morta per difendere la sua vita. Ora che l’aveva ritrovata non poteva più perderla, nuovamente. Anche Tamar, dopo il colloquio chiarificatore con Giuda, sapeva che chi era stato il suo amante, un giorno, e rispettato i suoi impegni, avrebbe mantenuto anche i nuovi, di trattarla non come una amante ma come una figlia. Anna – quando meditò per bene su quella lettera che ricevette per posta, nel massimo rispetto assunto da lui, che già cominciava a starle lontano come lei gli chiedeva – assunse lo stesso atteggiamento di Tamar. Gino sarebbe stato al suo posto,

avrebbe rispettato i suoi impegni, e non c’era nessun motivo per estraniarlo. E aveva tutti i diritti – veramente! – di avere il lei una che fosse come la sua mamma! Alla fine trasse la conclusione che la questione stava esattamente come l’aveva sintetizzato sua madre: «O riesci a mandarlo via, oppure te lo pigli!» Non voleva in alcun modo scacciarlo, gli si era affezionata, ma non voleva nemmeno prenderselo per marito! Giunti però a quel punto, non vi era altra cosa più onesta e giusta da fare che sposarlo. Arrivò come aveva fatto la stessa santa di sua madre, a sposare le ragioni altrui! Non semplicemente ad accettarle, non a subirle: no santamente fino a sposarle. Anna toccò la stessa santità già sperimentata da sua madre quando era riuscita a sposare (ben prima della figlia) le ragioni di chi l’aveva a lungo violentata: non l’aveva fatto per il gusto di farlo..., ma per darle un figlio nonostante tutto il disgusto provato anche da lui per quanta disumana prepotenza le imponeva, nell’ideale di una famiglia che doveva sopravvivere.

Nota 6. Ora, visto che stiamo cercando una analogia con il racconto della storia tra Giuda e Tamar, come si concluse quella biblica? L’avete letto. Tamar, che aveva avuto Er Onan come i suoi due congiunti in Ro fece un primo parto in cui mise al di fuori del suo sesso una mano, dichiarata del primogenito, ed assegnata come paternità al primo suo marito Er. Ma lei ne aveva avuto due di congiunti: Er Onan congiunti in Ro, per cui quella del primogenito, quella, era la di Ro mano quello il congiunto! Come vedete, la conclusione finale è la stessa, poiché il primogenito di Anna e Gino sarà congiunti in Romano Ma non finisce qui: i figli primogeniti saranno due e al primo in me seguirà il suo gemello, come le facce opposte della stessa medaglia, una visibile e l’altra no. Romano sarà primo in modo vero ed essenziale, e si affermerà subito (come quella mano che affermò il suo primato) ma non reggerà in questa veste e realmente diventerà visibile; così il primato reale tra loro due, agli occhi di tutti, passerà totalmente a suo fratello Benito, che si affermerà a tutti i livelli. Benito nascerà come l’alter ego di Romano, e insieme costituiranno la sezione aurea dei rapporti divini e perfetti. Come il racconto in Genesi 38 si conclude con la reale nascita del secondo, così, dopo i 6 nomi assegnati al 1°: Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo (=66+78+26+51+113+47= 381), succederanno gli altri 6 assegnati al secondo: Benito Vittorio Anna Giovanni Vincenzo Amodeo (=59+116+26+83+59+47=426).


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Il valore numerico 381 del primo replicherà in terza generazione lo stesso 381 dei cinque fratelli che vollero essere come una sola mano: Francesco Mauro Giovanni Nicola Carmine Baratta (= (76+60+83+48+57 +57= 381), Il valore numerico 426, del fratello riproporrà quello dei nomi di tutti i primi 9 progenitori del 10° che concluse la prima esistenza: Adamo, Set, Enos, Kenan, Malaleel, Iared, Enoch, Matusalemme e Lamech (=30+40+47+33+53+35+41+109+38=426). Saranno come una sola moneta i cui 12 nomi replicheranno le 12 tribù di Israele e i 12 apostoli di Gesù. E i loro primi due nomi, uniti nel modo uno e trino di Romano Uno, RU e Benito trino, Ben, replicheranno Ruben, il nome del reale e vero primogenito di Giacobbe, che perse solo il suo primato quando osò mettersi al posto del padre, nel suo stesso letto, ad amoreggiare con una sua concubina ... La stessa precisa identica cosa che poi farà Romano quando – generato come un σώμα-Po che fosse puro veicolo del Padre – più di una volta in vita sua avrebbe cercato di sostituire la bestia che era in lui con l’Essenza Divina che l’animava. Il valore-somma dei 12 nomi, 381+426=807, sarebbe equivalso a tutti gli anni in cui il creatone nel secondo tempo, Set, avrebbe generato cause ed effetti, ossia avrebbe avuto figli e figlie. All’interno di questo 807, il rapporto 426/381 avrebbe, fino ai millesimi del volume unitario in 103, avuto lo stesso valore della radice quadrata dell’area unitaria 1,25 della realtà. Insomma il Secondo sarebbe stato al Primo così come il lato della realtà unitaria dello spaziotempo sarebbe stato a 1. Infatti 426 : 381 =1,118110 e 1,250,5 = 1,118033 sono del tutto uguali fino ai millesimi dell’unità fati da 1,118 e mentre, ai 110/106 del ciclo 10 dello spazio complesso presente nel primo, sarebbero seguiti i 033/106, cioè i valori esattamente uguali al 110/3300 del suo flusso di 11/33, decimo e terzo, nel tempo. Insomma l’opera generativa, che si muta in rapporto nominale tra nomi dati a uomini vissuti realmente, è completa solo quando, al primo nato che si afferma solo momentaneamente, e poi si rifugia in un valore essenziale e non facilmente visibile agli occhi degli uomini normali, ossia non sufficientemente e scrupolosamente attenti ai valori sotterranei, segue la manifestazione reale e visibile senza ombra di dubbi agli occhi di tutti. Questo – tra RU e BEN – i due nomi che formeranno quello di Ruben, assumerà la stessa invisibile evidenza relativa al primato di un Ruben che aveva tutto ilo diritto di subentrare al Padre come il suo primogenito. Invece in Bibbia la storia si farà più complessa e all’’unità del primo subentrerà quella complessa, costituita dai 4/4 interi nel quarto figlio, che sarebbe stato chiamato Giuda.. Messi in ordine vero i loro nomi, la loro progressione in Bibbia è tale che i primi 4, che sono alla base, con il 4°, dell’unità dei 4/4 sostituiti al 1°, valgono il 210 di tutta trinitaria la creazione in 7 unitarie decine. Ma se mettiamo a monte il totale valore 187 dei loro 5 genitori, ecco che arrivano a tutto il moto del 3 nella realtà intera data da 400. Visto però che sono solo figli tutti, a quel momento,

solo di Lia, e che dunque non sono ancora in atto le ultime tre, bisogna togliere al 397 il 125 delle ultime tre, e diventa il 272 indicante tutta la dinamica 7+7+7+7 posta in 300. Quando ai 5 genitori i figli sono 10, ecco in 667 tutto il moto intero 1 dell’energia 666. Quando diventeranno 12 ecco realizzata tutta la perfetta trascendenza di Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo, somma che vale 381 contro l’831 che ha invertito il 38 in 83 grazie all’invarianza del 9×5=45. La femmina Dina nata come 11a e che vale lo stesso 26=Dio ha la stessa trascendenza del Signore. Aggiunto anche il suo valore, l’857 afferente a 18 nomi che rappresentano tutto il flusso 9+9 nell’insieme raggiunge il valore medio intero 47 del cognome Amodeo, con 61/100 dati da un 1° e un 2° presenti tutti e due come i 60 minuti secondi di un primo. E il 1° che è 66, diventa eterno nel suo valore unitario dato da 1/6 di 66, uguale a 11. Ancora una volta, i due Amodeo sono presenti qui. E valendo nei loro nomi in tutto 807, questo totale 857 fa avanzare la coppia esattamente per tutto i 100/2 che costituiscono tutto e solo il moto in positivo, da 0, quando 100 è il complesso negativo-positivo che parte da -50 e arriva a +50. Ora – tornando a Genesi 38 (che per Romano, il 1°, costituisce il mese 1 del gennaio dell’anno 38 in cui nascerà nel secolo 19 – accade che il racconto biblico si conclude quando sono definiti i nomi dei due gemelli. ZERACH PEREZ valgono il 54+65=119 che introduce nel valore 100 del secolo, quel suo valore 19 (del secolo) che ci porta al 1.900 dopo Cristo, al quale aggiungere poi l’anno 38 e il suo mese 1. Sono messi così, nel vero ordine che rispetta la verità del primato esistente tra loro due. Ebbene ZER e REZ, le prime e le ultime tre lettere, valgono quanto due 42 (dati da 21+5+16, e che in Genesi 25 erano i due gemelli Esaù (=5+17+1+19 = 42) e Giacobbe (=7+9+1+3+13+2+2+5=42) che sovvertirono già il loro ordine, tanto che il 2° si impose in tutto sul 1°) e con 84 (tutto il moto del piano 4×4 posto nel piano 10×10=100) formano un nome palindromo che pone come ZER (come zero) quanto infine, come Z + ER, ha imposto Er, il nome del suo primogenito. Nel bel mezzo ACH PE=31 è la trinità 10+10+10 presente in 1, e può significare in ACH (ante Cristo) e in PE il Padre che È. E se lo leggiamo tutto per intero da sinistra fino a destra, può significare che: infine (z) è RA Cristo, Padre è Re infine.


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AL PRESENTE è POI ANTEPOSTO IL PASSATO Tutto ciò ci porterebbe lontano da questo racconto se in verità la biblica storia del rapporto complesso tra Tamar (nuora di Giuda) e lui (suocero di lei), non fosse stata la trasposizione nel passato, di un avvenimento reale, accaduto nel nostro tempo presente al termine del 2° millennio, tra i due genitori di R-u+Ben. Ciò accade poiché il progetto che costruisce il passato è di tipo divisionista (“divide et impera!”) e così avviene che, a mano a mano che la divisione avanza, essa (nel futuro del calcolo) va a creare un passato sempre più spinto, fino al paradosso estremo di prefigurare completamente l’esistenza di un mondo materiale infinito nel tempo e nello spazio, prima che esso fosse creato proprio dai viventi, e grazie a un puro calcolo divisionista che ha la possibilità di generare infiniti presupposti reali, al tempo presente... Solo ciò spiega l’esistenza dell’universo fatto solo di materia, prima che la vita – sia reale, sia spirituale – fosse sbocciata in esso. Se è dal presente che noi creiamo il passato come il suo antefatto, ebbene allora è dalla storia che ho narrato tra Gino e Anna che è stato rilanciato nel passato tutto quanto di totalmente identico ha riguardato quei Giuda e Tamar che poi hanno avuto i loro stessi estremi. Nel 1936, l’anno in cui Anna accettò di legarsi a Gino, si compì quell’unità che diede inizio alla pienezza del tempo data da 44×44=1.936. SPOSALIZIO TRA LUIGI AMODEO E MARIANNINA BARATTA Finalmente, le nozze tra Luigi Amodeo e Mariannina Baratta, furon9o celebrate nella Cappella di San Rocco a Ostigliano, il 30 aprile 1937

Nota 7. Dai 350 anni vissuti da Noè nel nuovo mondo, considerato che essi erano relativi all’unità data dai 1.000 anni di 103, e che rendono 350/1.000 uguali allo 0,35 che poi nel suo quadrato che combina i due opposti esistenti nel complesso della nostra realtà, diventa l’anno 0,1225 che configura l’anno zero, nel mese 12 e nel 25 del mese della nascita del Cristo da cui cominciare a contare gli anni, quando i 0,35 essi furono considerati nelle centinaia che li unificavano con l’opposto 35, ora in centinaia, si giunse al 1.225 d Ch epoca delle Crociate e della liberazione delle terre di Gesù dagli Arabi. Quando il 35 avanzò nei 3 lati dello spazio unitario e divenne 38, il quadrato di 38 portò al 1.444, e 7 anni dopo (aggiunto tutto il moto 7, il vincolo di curvatura all’ortogonale 35, fatto da 5×7) fu l’avvento di Cristoforo Colombo, nato nel 1.451, come l’antefatto di ciò che compì 41 anni dopo con la scoperta del nuovo mondo. Ebbene, quando il 38 che aveva originato tutto ciò, sarebbe avanzato ora per tutti i 6 versi, passando a quel numero 44 indicante tutto il piano dato dai 2/3 dell’energia 66, dal valore al quadrato di questo piano, sarebbe scaturito il 1.936 nel quale il Nuovo Impero Romano rifondato mentre era Re Vittorio Emanuele III, avrebbe avuto il massimo del suo effimero potere, resistendo alle 52 nazioni del mondo (tutte quelle uguali alle settimane di un anno costretto al vincolo 7 della sua curvatura sferica) che si erano opposte a questo Nuovo Impero Romano sorto proprio nuovamente a Roma. Le sanzioni erano state decretate dal Consiglio delle Nazioni, il 6 ottobre 1.935. Ove tutta l’energia è 66, è vero che 66+66+1+1 è il piano a lati 1 e 1 in cui l’immobile energia 66 si è mossa interamente di 66, tanto da impegnare in tutto i 135 giorni già evidenti nel 1935 come tutto il moto del 900 che è tutto quello di 100 in 1.000. Ebbene, 135 giorni dopo era il 25 febbraio del 1.936 e Anna disse sì a Gino. Quel martedì 25 febbraio avrebbe portato, esattamente 700 giorni dopo (quanto tutta la curvatura imposta al piano 100) alla nascita del loro figlio primogenito. Poiché 135+700 è l’835 di tutto il moto di 165 in 1.000, che nel 165 uguale in 160 a tutto il ciclo 10 della carica 4×4 imposta con il piano della realtà dello spazio-tempo a 4 dimensioni, e in cui 5 è il tempo ½ di quel ciclo 10 che moltiplica quel piano, ecco che questi giorni 835 tra il decreto delle Sanzioni imposte dal Consiglio delle nazioni, contro la Nuova Roma, accade che entra in atto la nascita proprio di un bimbo il cui primo nome imposto da Anna e Gino sarà «Romano». Tra il «Sì, lo prometto, ti sposo» detto il 25 febbraio del 1936 da Anna a Gino e quello detto nel matrimonio celebrato il 30-4-37, intercorsero i 438 giorni esatti in cui tutto lo spazio di 300 giorni si sarebbe aggiunto a 138, realizzando proprio nel 138 quel gennaio 38 che sarebbe stato proiettato nel passato divenendo Genesi capitolo 38. Luigi=10+19+9+7+9=54 e Mariannina=11+1+16+9+1+12+12+9+12+1=84 insieme, nei loro due nomi battesimali, erano già 138 e costituirono la premessa nominale del Padre e Spirito Santo a monte di Romano come due reali nomi di genitori. Fatto sta che, con la premessa di 138 giorni (quella delle nozze, assunte 138+300 giorni prima, compreso il moto unitario dello spazio in se stesso) alla base del tempo di vita del loro primogenito, la sua vita totale, in relazione al Padre e Spirito santo, era segnata.


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Le due Persone di Dio sarebbero state su di lui come su un piccolo σώμα-Po portatore reale solo fino a raggiungere il 1.000. Con 138 già vissuti nella divina e nuziale premessa delle nozze celebrate davanti al Signore, Romano avrebbe avuto solo altri 1.000 – 138 = 862 giorni, che portavano il limite dalla vita reale del bimbo fino al 4 giugno 1940. Calcolato come distanza dalle Sanzioni imposte dal Consiglio delle Nazioni, questo termine è la distanza dei 1.337 giorni che in 1.333 indicano l’intero 1.000 sommato a tutto il flusso 1/3 del suo tempo, cui era poi sommato con 4 tutta la realtà dello spazio-tempo. Come vedete, messo anche in relazione al decreto del Consiglio delle nazioni contro la Rinascita di Roma, c’era, il 4 giugno del 1.940, il raggiungimento reale della pienezza dell’intero, in tutto il suo flusso 333, reale per la somma di 4. Con l’aggiunta di altre 6 giorni esatti, i 1.337 sarebbero divenuti 1.343 e sarebbe stato il 10 giugno 1940 in cui l’Italia sarebbe entrata nelle II guerra mondiale, la “Strage degli Innocenti” che San Matteo avrebbe riferito comminata dal Re «Erode» che non voleva l’avvento di un Messia, e cercava di uccidere tutti i bambini. Qui il nome era quello del Re «Vittorio Emanuele III», ma traslato nel passato «Erode» «E’ RO, D. è», l’atteso nome «Emanuele» (Dio con Noi) che poi il non era stato quello, nel Figlio di Dio definito in Dio è Salvezza con l’apposizione a lui del nome di Gesù. Dio è Trino come l’Emanuele III. Dio è vincente, come Vittorio. Accade però che nel mondo reale che noi vediamo, tutto è visto al contrario rispetto alla vera azione: se vai verso un muro appare il muro venire contro di te. Così anche il «Re vero» («E’ RO, D. è») che è il vero «Vittorio Emanuele III», risuscitato il 4 giugno 1.940 e non quello che e sembrava il Re reale, dell’Italia, sarebbe stato proiettato nel passato nella figura e nel nome esatto equivalente del Re «Erode», che non voleva un altro Messia. E anche Vittorio Emanuele III, su indirizzo dell’«Uomo della provvidenza» (come un Papa aveva etichettato Benito Mussolini), non voleva che Hitler arrivasse ad essere il Messia dell’Europa (della Pa’, la Patria, del Buon RO, quello che «E’ RO, Dio è», sì, il vero Erode e non il suo fantoccio a capo di Israele). Non dipendono dalla scelte di chi ve li scrive tutti i calcoli qui fatti e che disturbano il semplice racconto di chi vorrebbe elencati i soli fatti e non le loro fondamentali ragioni «numeriche», che vedono il Numero proprio come il «Nume- RO», il «Dio romano su RO»,. Anche il narratore di questa storia – che sembra esistere nel tempo corrente di chi realmente la scrive – è «raccontato» e proviene dal «Cielo», da quel «tempo futuro e divino» in cui il PRESENTE non è più intrappolato nei ristretti limiti del «tempo e dello spazio reali». Qui tutto sembra avere la velocità della luce, che viaggia a 299.792.458 metri al secondo solo perché sono stati ritagliati da 100 milioni di metri i 207.542 che sono stati posti «in principio». Quando dal «tempo fuori dal tempo» fu proiettata nell’estremo passato la Sacra Bibbia, il suo primo libro fu chiamato «In Principio» a insegnamento futuro, per tutti, che nelle nostre vicende reali esiste sempre un quantitativo reale che è stato messo eternamente «in principio» a tutto il resto, posto in relazione unitaria rispetto a quel principio.

Stanno all’anno 1.938,0125 posto «al principio» di Romano Amodeo i 207.542 metri (ciò che è «in principio» rispetto alla luce), come sta a 1 il 107,090124547700 intero, fino alle dimensioni centesime di quella atomica (e intere nelle 100esime). Analizziamo il rapporto: Alla dimensione atomica, 77 è il vincolo 7 di curvatura sferica imposta al sistema ortogonale (di 10 spazi presenti in 1 tempo) in cui esprimiamo la realtà intera in 104 (10-4, suoi decimillesimi). 54/108 (alla dimensione della luce) sono quei 54×1013 cicli 10 al secondo (oppure Hz), che sono l’unitaria intensità di luce di una candela. 24/106 (alla dimensione di tutto il complesso positivo - negativo dello spazio 103×103) sono l’unità equivalente alle 12 ore di luce più le 12 di buio, esistenti ogni giorno. 1/104 (alla dimensione unitaria decimillesima della realtà unitaria in diecimila), la presenta per intero. 9/10 (alla dimensione unitaria, quella decima dell’unità 10 del ciclo spaziale) è tutto il moto di 9/10 che porta a 1 il valore suo centesimo anzi visto. 7 unità sono il vincolo 7 della sfera imposto allo spazio 1, intero. 100 unità sono il piano intero, spaziale, 10×10, dato dal ciclo 10 in linea al quadrato. Come avete visto, è «dal futuro di un tempo senza tempo» che la storia è generata. Il tempo del 1938,0125 (anteposto a Romano) sta a 1 «posto in principio» come ciò che vi è di trascendente (anteposto a 300 milioni) nei 299.792.458 m percorsi dalla luce in 1 s, ossia come 207.542 m «trascesi, anteposti, posti in principio» stanno al tempo anteposto a Romano. Romano però li trascende in 1.938,0125 a partire dall’anno del natale di Cristo. In puri giorni, dal 25-12 di Natale di Gesù al 25-1 successivo del Natale di Romano ci sono 31 giorni. In cui 31 è l’11° n. primo. Retrocedendo, ecco che quello di Gesù dista 11 mesi e sono 334 giorni in un anno bisestile mentre in ciascuno degli altri 3 sono esattamente 333. Va detto che 334 è il valore dei 5 soli nomi di Romano Antonio Anna Paolo Torquato. Il Padre e Spirito Santo, posti «in principio» sul corpo reale di RO (un , un somaro), entrano in scena nell’anno 0,0125 il cui reciproco esatto è 80. 1/80=0,0125 indica il tempo 80esimo in cui la realtà 40 intera, più l’intera 40 immaginaria (o divina) si pongono a tempo, a divisore dell’unità, e ciascuna parte divisa si realizza in principio nel tempo dell’anno 0,0125 in relazione al dettaglio unitario dei mesi e dei giorni. Ora, definito come «sta» la proporzione rispetto a 1, data dai 1938,0125 anni posti «in principio» rispetto a quello posto rispetto alla luce (ossia a 207.542 metri), verifichiamo come «stiano» in principio gli anni 1940,0604 (4 giugno del ’40) dell’avvento, della «Parusia» del Figlio, alla pienezza del tempo di 1.000 anni data da Padre e Spirito santo (come il piano a lati di 500 e 500 anni). 207.542 sta a 1.940,0604 come X sta a 1. X = 207.542 : 1.949,0604 = 106,977081744465 nelle stesse 12 dimensioni decimali viste prima. Analizziamole cominciando anche qui dalle più piccole.


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In 106,977081744465 abbiamo che: 65/1012 (centesimi dell’unità dell’atomo) mostra presente 66 -1, il che fissa la presenza in 65 unità relative al totale 66 del valore in gematria di Romano. C’è 1 in Romano, alla dimensione potenziale dei 12 Figli di Giacobbe o Apostoli di Cristo. 444/109 (ciclo 10 dello spazio atomico) mostra che è presente il piano dei 2/3 dell’energia tridimensionale 666 della bestia in Apocalisse. 7/107 (dimensione dello spazio nel suo complesso 103×103, presente in 10) mostra che c’è il vincolo 7 del sistema sferico, che agisce come un creatore in 7 giorni. 81/106 (nell’unità dello spazio complesso) mostra che c’è con 34=81, tutta la potenza Una e Trina basata sulla Trinità 3 del solo spazio, sia reale, sia trascendente. 3 7/10 (nella dimensione unitaria del volume) mostra che c’è di nuovo il vincolo sferico 7 che era stato imposto anche a quella 107 complementare a questa 103, il che le unifica. 2 97/10 (nel riferimento all’area 100) mostra che c’è tutto lo spazio percorso da 3 in 100. 6 unità sono la presenza del percorso unitario in tutti i 6 versi del solo lavoro. 100 unità sono la presenza dell’area intera in 102 unità, data da 10×10, ove 10 in linea in ciascuno è a immagine e somiglianza di Padre moltiplicato per Spirito santo. Chi vi scrive (sotto dettatura) vi dimostra che nel 1940, in giugno, il 4 di giugno ci fu l’avvento reale del Figlio di Dio, tornato sul «povero portatore» simile a un «somaro». Non è il «grande profeta» Muhammad, ma il «paziente somaro», il «soma», il «corpo» del «RO» che è parte del «CHI-RO» (in greco) che è il Cristo «XP» che nel latino di un Romano è X=10, a immagine e somiglianza di Dio. A questo punto, constatata l’eccezionale unità intervenuta il 1940,0604, e il suo valore in proporzione esatta a quanto è trasceso nella luce, confrontiamo direttamente i due valori. 107,090124547700 meno 106,977081744465 dà 0,113042803235 che è il valore reciproco di 8,846206670239 Questo percorso equivale agli 862 giorni tra il 1938,9125 e il 1.940,06004. 0,113042803235 : 862 = 0,00001311401429640 = 13,1140142964/106 Ciò rivela che nel complesso del 103×103=106, a ogni 106 tocca 13,1140142964. È il ciclo divino 10 unitario, nel tempo 3 della sua trinità, che esiste nel tempo dello 0,1140142964. 114 è il valore esatto in gematria del «PTR ROMANO» della Profezia di san Malachia. Vediamolo, per come «PTR ROMANO» è se divide il 104 (DIO, potente Uno e Trino). 10.000 : 114 = 87,71929 destina 87 anni di vita all’unità dei 114 = «PTR ROMANO». Il tempo 0,71929 relativo a 1 anno, quando esso è di 12 mesi che sono 12 nel flusso dell’area a lati di 1 e 1 mese, contiene in toto (a dimensione di volume) 14 mesi, per cui pone che 0,71929 sta a 10 come X sta a 14, per cui X = 0,71929×14/10 = 10,07006 è il mese n. 10, di ottobre, e il giorno 07 incontra la morte quando gli è tolto tutto lo spazio 3, e diventa il giorno 4.

È in questo modo che la vita, che doveva essere di 862 giorni, è stata estesa poi fino al limite del 4 ottobre 2.025 e diventa di 32.030 giorni. Ha moltiplicato la durata di 862 giorni per le esatte 37,1577726218 volte di un numero a 12 cifre che in 37 tiene conto dell’anno in cui è stato concepito il valore esatto 37=mano. E ciò nell’unità 15 dello spazio 10+ tempo 0,5, e nel 777 della creazione paterna del padre nato 7-7-7, e poi del 26=Dio, e poi ancora del 21=7+7+7, e poi del 23 il valore unitario in tutto il suo complesso. Se calcoliamo la durata di vita a partire da quando le 52 nazioni si opposero al risorgere dell’Impero Romano del VERO Re Romano, allora tutti i giorni diventano 32.872. Essi difettano, rispetto a mille vite di Cristo 33.000, del 128 (che è tutto 2 elevato a 7 tutta l’opera). Rispetto al 33.333 (che è il tempo 1/3 dell’energia uguale a tutto il flusso nella dimensione 105 che è il lato dell’area 1010) il 32.872 difetta di 461 che è tutto il moto 80 (della realtà 40+40, in tutto il suo complesso) del 381 = Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo). I giorni totali devono sommare alle distanze anche i giorni iniziali. Così 32.871 di distanza sono 32.872, 32.029 sono 32.030 e 861 di distanza sono 862



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Gli 87 anni di R-u-Ben in tre/tre di 29, 10° primo Nello stesso giorno una grandiosa Aurora Boreale fu vista in tutti i Continenti del mondo. Furono i due grandi segni dell’avvento di Dio, sceso in via Pomerio a Felitto Su un somaro, il , il “corpo” di RO, mentre i 2 mezzi celesti concludevano il Raid Rome-Rio, ma senza il mezzo sceso prima, a Natal. (nel segno del Natale di Gesù, avvenuto prima e assecondando Atti degli Apostoli: lo vedrete scendere realmente dall’alto così come realmente vi è salito).


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1° decimo numero 1° di 29 anni


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1938 Quel 25-1-1938 fu nel segno d’una impresa attuata dall’aviazione italiana: tre trimotori – chiaro riferimento alla Trinità di Dio – percorsero il cielo attraverso l’oceano Atlantico, volando dal vecchio al nuovo mondo, da Roma a Rio de Janeiro. 1° Figlio del Potente Uomo della Provvidenza Bruno Mussolini, pilotò uno dei 3 mezzi celesti, che volavano in ordinario assetto da combattimento. Il Corriere della Sera scrisse che il trimotore IMoni scese dal Cielo a Natal – chiaro segno al Natale di Gesù Cristo – Come in Atti 1,11.

Alle 19:19 si realizzò il detto, ore 7:7 nel segno del Padre nato 7:7:7 . Il Raid: ROME-RIO , il Raid (id. a R.A.)così noto al mondo fu compiuto; E in via POMERIO Padre e Spirito Santo scesero sul Rio , l’ IO di R , Nel cielo una spettacolare aurora boreale, in quasi tutto il mondo. Gino pendolava tra la terrazza, da cui vedere il cielo in fiamme spettacolare, e la cucina, mentre nella camera da letto sua moglie Anna era nel travaglio del parto. Prese un fiasco di vino rosso, per prepararsi a festeggiare e fu colto di sorpresa poiché arrivò Peppina, la serva e disse: “Prufessò, avite avut’ nu bellu masc’l!” Al Luì emozionato sfuggì dalle mani il fiasco; si ruppe e colorò di rossosangue il pavimento –. Non vi badò, per la gioia, ma il Cielo predisse che quel bimbo avrebbe patito il suo mortale limite, per via del Mille e non più di Mille giorni , ma tenendo conto di quelli già premessi nei 138=54+84 della Gematria dei nomi dei genitori viventi Luigi e Mariannina. 10×10×10 -138 = 862 soli giorni di vita ci furono per questo bambino


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IL PRIMO NOME ROMANO Quando lo portarono a battezzare a Ostigliano, nella chiesa del paese di Anna, avevano già dovuto scegliere il suo nome, ed era molto complicato, poiché Gino avrebbe voluto dargli il nome del padre, che ne aveva due: Torquato il primo e Vincenzo il secondo. Era troppo antiquato l’uno, e non era giusto sostituirlo con il secondo. Anna pensava al nome di Giovanni, suo padre. Per dirimere la questione, scelsero di non scontentare nessuno. Avevano fatto il viaggio di nozze a Roma, poiché il fascio regalava il biglietto del treno agli sposi che si recavano nella Capitale del Nuovo Impero Romano, a celebrare il loro sposalizio. Vi si erano fermati quasi per un mese, in una pensioncina collocata a ridosso di una delle mura della Città del Vaticano. Per questa loro realtà oggettiva e poiché il terzo figlio del Duce era stato chiamato Romano, chi di fatto decise il suo nome fu colui che il Papa Pio XIII aveva definito l’«Uomo della Provvidenza», per avere spinto il Re d’Italia a riappacificarsi con lo Stato Pontificio, stipulando i Patti del Laterano: Benito Mussolini. Era del resto la verità oggettiva; come già scritto – essendo stato concepito lì a Roma, a un centinaio di metri dalla cattedrale di San Pietro – era un Romano. Tutto questo, nel disegno divino, trascendente la realtà, agganciava Romano al suo fratello maggiore, Bruno, uno dei tre comandanti dei tre trimotori del Raid RomeRio. Bruno era il 2° maschio Figlio dell’Onnipotente Duce e Rachele. «BRUNO MUSSOLINI» il figlio «B» trascende R (Romano, il 3°) UNO MUS (uno che da adulto sarebbe stato un musicista) SO (che io riconosco) LI (in quel luogo) NI (quale controfigura del Nazareno Iesus)». In quel bambino c’erano tutti questi segni trascendenti la cruda realtà, ma anche uno che si rifà a Bibbia 1,25 , Genesi 25, in un bimbo avente genesi 1-25 . In questo capitolo il Signore spiega a Rebecca (che trascende il Re n.2 è qua) che ha nel grembo due Nazioni e due Popoli: quello più forte avrebbe servito il minore. Essendo stato rinominato Israele il gemello chiamato prima Giacobbe, sarebbe stato, in futuro chiamato Romano il nome del Popolo più forte, riferito al suo primogenito nominato Esaù. E Romano avrebbe servito Israele. Dio stesso allora in Bibbia aveva predeterminato in Romano uno dei due Popoli, e sarebbe apparso in un volo dal vecchio al nuovo mondo proprio come il 2° Figlio dell’Uomo della Provvidenza, Onnipotente Duce dell’Impero Romano. CHI ASSECONDA IL PRIMATO Il 1° Popolo e più forte, che asseconda il 2° più debole, è nel mandato divino di un primo trascendente, che proprio in quanto trascendente la realtà non appare mai realmente, se non mediante il manifesto potere reale del secondo.

Infatti in Bibbia non si impose l’unico reale figlio di Abramo, il suo primogenito Ismaele, avuto dalla fertile egiziana Agar. Egli fu trasceso da Isacco, che non di Abramo era figlio, ma di Dio Padre e della sterile Sarai, che non poteva essere ingravidata realmente da un uomo. Anche Isacco avrebbe avuto come sposa una donna sterile, e anche in questo caso solo da Dio Rebecca poteva essere ingravidata. Per questo il Signore chiese ad Abramo che Isacco fosse tolto di mezzo. Doveva solo assecondarlo nel compito divino d’ingravidare una sterile. Il Signore avrebbe esercitato lo stesso suo Paterno potere, poi, tramite Labano, con Giacobbe, quando gli avrebbe imposto come sposa Lia, prima nascosta nel burka, e poi nel buio che c’era quando furono nel letto; e – come la reale sposa per Giacobbe sarebbe stata Lia – così il reale sposo, anche di Rebecca, sarebbe stato ancora il Signore, ma adesso nella Persona seconda, dello Spirito santo. In tal modo, nelle nozze con due donne sterili, il vero compagno di Sarai sarebbe stato il Padre, e quello di Rebecca lo Spirito santo. Si sarebbe anche realizzata così una divinità Una e Trina. Sarebbe stata Una in Ismaele (con un solo padre reale: Abramo) e Trina in Israele (che avrebbe avuto a monte della nascita di sé come il Figlio, le due persone di Dio date da Padre e Spirito Santo). Israele (Figlio di Padre e Spirito Santo) sarebbe stato il terzo, unito ad Ismaele, trasceso in quanto primo, e in quanto poi figlio reale di una coppia prolifica. Il 1° vero dei due era Ismaele, ma assecondò il 2°! Il nome di Dio, dell’«Islam» (=è L.AM.) derivato da Ismaele, sarebbe stato questo, a sinistra come scritto in arabo: Ora io vi mostro a destra la sua trascendenza, la sua visione speculare, in cui accade uno dei superpoteri dello Spirito Santo (che vi mostra una lingua in un’altra, quella Italiana e nel pronome “lui” tante volte usato anche nel Corano, per non ripetere sempre il nome di Allah). La cosa che coinvolge chi «is L.AM.» (chi è LUI GI AMODÈ O, padre di Romano) è che dopo LUI segue il GIA che dà le prime tre lettere di GIA cobbe, e – dopo ancora – il MODÈ = ÈDOM , Esaù pervertito nel nomignolo che nella sua reciproca lettura invertita perde la perversione ed è il suo nuovo nome MODÈ . Nello stesso modo, in questo stesso brano di Genesi 25, tra il nome di Esaù e quello di Giacobbe accade l’identico artifizio e Giacobbe (che era Trino in GIA, mentre il primo lo era nella A in terza posizione nel nome ESAU’), si impone con la G iniziale mentre Esaù perde il primato e la sua “a” in 3a posizione . Accade cioè che:


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IL TERZO NOME ANNA (INDICE DELLA TRINITA’ DI DIO=26)

IL SECONDO NOME ANTONIO (INDICA L’ETERNO SECONDO) Scegliere gli altri nomi di Romano (il 1°genito di Luigi Amodeo) dopo aver scelto questo primo, fu doveroso, per Gino e Anna: molti parenti da accontentare. Gino aveva una unica sorella, Antonietta e Anna un unico fratello, Antonio, Così accontentarono tutti e due dandogli come secondo nome quello di Antonio. Così – senza che lo facessero apposta – si verificò la condizione espressa dal profeta Osea, quando nel suo capitolo 11 e versetto 1, il Signore gli fa scrivere a proprio nome: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio». Infatti l’antefatto materno, in terza generazione, di Romano, era di un bisnonno, chiamato Maur O RUS so, che richiamava il Dio ORUS negli estremi congiunti trascesi poi in suRO . Dopo RO, il MANO richiamava il Dio AMON . Poi il secondo nome ANTOnio richiamò ATON . Romano Antonio fu proprio quel Suo Figlio (dell’ «Is L.AM.») chiamato dall’Egitto e rivelato da Dio tramite Osea. San Matteo, proprio per questo versetto del profeta Osea, immaginò per Gesù la sua fuga in Egitto. Ma questa fuga in Egitto non avvenne mai realmente. Infatti il vangelo storico e non trascendente scritto da Luca, la nega. Questi, sulla base della testimonianza diretta assunta da Maria, seppe da lei che cosa avesse detto e fatto: le parole del suo Magnificat e la sua purificazione trascorsi i prescritti 40 dì; dopo se ne tornarono (non in Egitto) ma a casa loro a Nazareth, non muovendosi mai da lì se non nei loro pellegrinaggi della Pasqua Ebraica. In Gematria, Romano Antonio vale 66+78=144, numero che ha avuto sempre grande significato di salvezza. In Apocalisse sono 144 migliaia i salvati dal sangue dell’Agnello e 144 cubiti a dimensione d’uomo l’altezza delle mura delle Gerusalemme celeste che scende dal cielo. 144 sono i 12 figli di Israele moltiplicati ai 12 apostoli di Gesù. 144 decine di minuti primi sono un giorno terrestre. Infine 144 è il 12° numero della serie di Fibonacci: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377, 610, 987 il solo in comune con la discendente 999 618 381 237 144 93 51 42 9 Come si vede bene, 144 è nel giusto mezzo della decrescita da 999 a 9.

La mamma aveva promesso a Sant’Anna, protettrice delle gestanti di chiamare come lei il nascituro e glielo aveva affidato. Così fu chiamato Anna. In Gematria Italiana, Anna=26=Dio. In Gematria giudaica 26=IHVH=‫( הוהי‬il Dio Jahvè). Romano Antonio Anna vale 66+78+26=170=17×10, attribuibile alla Terna del Creatore che costruisce la realtà con il 7° numero primo (il 17 come numero naturale) che è il vincolo 7 della sfera, che è poi moltiplicato per 10, il ciclo del presente assunto a immagine e somiglianza a se stesso da DIO=Dimensione 10. Gioacchino+Anna in Gematria uguagliano Antonio Anna. E uguagliano la Trinità ed Unità di Dio, data da Gioacchino=Antonio=78=(26+26+26) +26=Anna In tal modo – e senza farlo apposta – i genitori Anna e Gino aggiunsero al nome definito in Genesi 25, come quello del Popolo Romano, il valore equivalente a quello dei nomi in 3a generazione dei nonni di Gesù Cristo. IL QUARTO NOME PAOLO (IL 4 DIMENSIONA LA REALTA’) Nato il 25 gennaio in cui il Cattolicesimo celebrava realmente la Conversione di S. Paolo, a Romano Antonio Anna fu aggiunto Paolo. Senza farlo apposta 170+51=Paolo divenne 222 -1 In Gematria, il che riporta – sulle intere 4 dimensioni della realtà – a tutto il percorso fatto da Uno nel flusso intero di Un Terzo dell’energia intera nel 666. IL QUINTO NOME TORQUATO (CH’E’ IL TEMPO INTERO DI 10/2) Come il nome definitivo, nel quinto, finalmente fu soddisfatto il primo nome Torquato, di suo padre che è L.AM. (Luigi Amodeo) «Is L.AM» per L’Islam mentre «L.AM è Ch» (Luigi Amodeo e/è Cristo) in Bibbia. Romano Antonio Anna Paolo Torquato = 333+1 la Trinità nella Trinità, sommata all’Unità... e accadde senza che lo facessero apposta. I primi 5 nomi divennero come una mano sola interna a 100+300. Infatti accadeva che: 400 (l’unità e trinità data da 100+300) - 66 (valore del 1° nome Romano) dava =334 (valore di tutte e cinque le dita, nei 5 nomi di quella mano).5 Perciò ROMANO, in questo libro lo abbrevieremo in RU, come la MANO di nome R (il primogenito ER in Genesi 38), che essendo UNITO a BENITO come nel tutt’uno di RUBEN (1°genito di Giacobbe) è RU quando è distinto da BEN.


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IL NOME PIU’ IL COGNOME AMODEO (E’ INDICE DEL TUTTO) Ebbe le 42 cifre del 7×6 che combina l’opera intera col lavoro intero. Romano Antonio Anna Paolo Torquato = 334 + 47=Amodeo = 381 Numeri primi 2+3+5+7+11+13+17+19+23+29+31+37+41+43+47+53 = 381 Lunghezze in cubiti per costruire l’Arca di Noè: 300+50+30+1 =381 Anno della Terra e suo incremento intero: 365,25+(5+5+5)+75/100 = 381 Trinità di 100 Trinità della Trinità: (100+3×3×3)×3 = 381 Trinità delle 42 cifre Nome Segreto di Dio, nel tempo 1: [(42×3)+1]×3 = 381 -

Non fu fatto apposta, ma il valore totale del suo nome fu così uguale: alla somma dei primi 16 numeri primi (del piano della realtà divina 4×4); alla lunghezza delle dimensioni in cubiti dell’Arca di Noè; a 1 anno + l’unità 15 dello spazio-tempo e l’unità in spazio dei ¾ di 100; alla lunghezza della terna del 127 che è 100 + la trinitaria potenza 3 di 3; alla terna delle 42 cifre del Nome segreto di Dio esistente nel tempo 1.

Infatti l’Universo, da infinito ha infinito, ha questi sei costruttori.

Il bimbo fu portato a Ostigliano e fu battezzato con questi 5 nomi, e nessuno si accorse mai che gli avevano dato il Nome Segreto di Dio. I Cabalisti ebraici, considerando con la dovuta attenzione che Dio aveva creato ogni cosa con una opera che aveva richiesto 7 giorni, il cui lavoro c’era stato solo per 6 giorni, combinando i giorni dell’opera con quelli del lavoro avevano nel 42 il numero che secondo loro Dio avrebbe creato anche per se stesso. E noi abbiamo già visto confermata questa cosa dai nomi di Esaù e di Giacobbe, che, pur essendo di 4 lettere Esaù e di 8 lettere Giacobbe, tuttavia valevano 42 in ciascuno. Da due 42 combinati insieme in modo uno e trino era ottenuto in GESU’ proprio uno dei nomi segreti di Dio. L’altro era Romano. Scendendo da 381 alla sua unità si scende al 127, che, espresso in unità, sono 126 unità che, divise a loro volta per tre, diventano le 42 cifre di un nome che poi coerentemente a tutto lo sviluppo uno e trino risale a 381. La Bibbia lo rivela come la casa della salvezza quando Dio ordina a Noè di costruire una Arca che sia lunga 300 cubiti, larga 50, altra 30 e terminata a +1 con l’aggiunta del tetto. Ma c’entrano anche i numeri primi, che sono come il nucleo atomico nei numeri naturale e resi curvi dai 7 giorni di lavoro. Infatti dove il lato dell’unità e trinità è 1+3=4, lì il suo piano intero vale 16, e quando è un piano costruito sui primi 16 numeri primi il loro totale porta a 381. Nella sezione aurea, da 999 si scende a 618 proprio sottraendo 381. Così questo bambino ebbe assegnato per battesimo il nome di Dio. Ora io vi proporrò – ridotto – l’elenco dei fatti salienti accaduti in tutto il mondo secondo Wikipedia. La nascita più importante di tutte (del σώμα-Po su cui cammina Dio) non appare.

Eventi 

Febbraio – Germania: Adolf Hitler assume il comando supremo delle forze armate tedesche. 

Dove Iperbole è esagerazione dell’esagerazione e Dio=26 è il +esagerato di tutto, c’è che nel tempo decimo del Seno e Coseno iperbolico del 26=DIO si ha: Sinh(26)/10=Cosh(26)/10= 978.648.047.144,1938 e (26+26+26)=Trinità di Anna, 47=Amodeo, 144=Romano Antonio, e 0,1938 è il tempo dell’anno natale,

20 febbraio: in seguito ad una votazione popolare, il romancio viene riconosciuto come quarta lingua nazionale della Svizzera. 

12 marzo: le truppe tedesche entrano in Austria. Il 13 avviene l'annessione (Anschluss) alla Germania, permessa da Arthur Seyss-Inquart, Cancelliere della prima repubblica solo per un giorno.


40 

1939

Maggio Hitler annuncia che vuole incorporare anche i territori cecoslovacchi abitati da tedeschi, i Sudeti. o

Visita ufficiale di Hitler in Italia. Papa Pio XI si ritira nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo ordinando di chiudere i musei vaticani per tutto il periodo della visita. o

10 giugno – USA: sul numero 1 della rivista Action Comics appare la prima storia del personaggio a fumetti Superman. 

19 giugno - calcio: l'Italia, guidata da Vittorio Pozzo, vince il suo secondo Campionato mondiale battendo a Parigi per 4-2 la nazionale ungherese. 

30 luglio: scoperta di Carme

18 settembre – Trieste: Benito Mussolini legge per la prima volta le Leggi Razziali dal balcone del Municipio in occasione della sua visita alla città. 

28-30 settembre – Germania: Conferenza di Monaco. Vi partecipano Adolf Hitler (Germania), Édouard Daladier (Francia), Neville Chamberlain (Gran Bretagna), e Benito Mussolini (Italia). La Francia e la Gran Bretagna, nel tentativo di evitare un conflitto, autorizzano la Germania ad occupare la regione dei Sudeti. Il che avverrà tra il 1° e il 10 ottobre successivo. 

30 ottobre: Orson Welles trasmette per radio un realistico adattamento de La guerra dei mondi, causando il panico in tutti gli Stati Uniti. 

Novembre Germania - Reichskristallnacht: gli ebrei nel mirino. La notte tra il 9 e il 10 novembre si scatena in tutto il paese la furia antisemita contro i negozi e le sinagoghe ebraiche. Sono attaccati e distrutti migliaia tra sinagoghe, cimiteri, negozi, uffici e abitazioni di ebrei e quasi duecento persone vengono uccise. Passerà alla storia come la Notte dei cristalli. o

Italia: sono completate le leggi "per la difesa della razza". Gli ebrei sono espulsi dagli impieghi statali, parastatali e d'interesse pubblico, i matrimoni misti sono proibiti. o

Venuta al mondo su RU come su un asino, o meglio un σώμα-Po, la duplice trascendente Persona di Padre e Spirito santo, accadde che – sei dì soli dopo il 25-11938 – Hitler, che non accettava altro “Messia” oltre se stesso, aveva deciso di iniziare a battagliare nel proposito di essere l’unico arbitro delle sorti del Mondo.

17 dicembre: scoperta della Fissione nucleare dell'Uranio (di Otto Hahn), la base scientifica e tecnologica delle bombe atomiche e dei reattori nucleari, cioè l'inizio dell'era atomica.

Questi i principali eventi dell’anno successivo, il 1939. 

6 gennaio: Otto Hahn (Premio Nobel per la chimica 1944) e Fritz Strassman pubblicano i risultati dei loro esperimenti, con i quali sarà dimostrata l'esistenza del processo di fissione nucleare. 

26 gennaio – Spagna: le truppe di Franco, aiutate da truppe inviate dall'Italia fascista, conquistano Barcellona. 

10 febbraio – Roma: colpito da una crisi cardiaca, muore papa Pio XI.

27 febbraio – Francia e Regno Unito riconoscono il governo spagnolo di Franco. 

2 marzo: Viene eletto papa il cardinale camerlengo Eugenio Pacelli, il quale prende il nome di Pio XII. 

14 marzo: la Slovacchia, con voto unanime del Parlamento, si proclama indipendente, sotto tutela tedesca.


41 

15 marzo: la Germania occupa la Cecoslovacchia. Sono annessi, sotto forma di protettorato tedesco, la Boemia e la Moravia.

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17 settembre – l'Unione Sovietica invade la Polonia occupando la zona orientale.

19 marzo: Konrad Zuse mette in funzione il primo computer Z1 usando solamente relè. 

27 settembre – Polonia: Varsavia si arrende alle truppe tedesche. La Polonia occidentale viene incorporata al Terzo Reich, la parte orientale viene annessa all'URSS.

22 marzo: la Germania occupa militarmente la regione di Memel in Lituania.

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28 marzo – Spagna: Francisco Franco conquista Madrid. Finisce la guerra civile spagnola.

6 ottobre - Si conclude la campagna di Polonia con la vittoria delle forze naziste. o

7 aprile: l'esercito italiano invade l'Albania ed occupa Tirana senza incontrare resistenza. Re Zog I si rifugia in Grecia.[1] 

22 maggio: Mussolini firma il patto di alleanza militare con Hitler, detto Patto d'Acciaio. Prevede, in caso di guerra, l'intervento armato dell'Italia al fianco della Germania. 

26 maggio: Bob Kane crea il personaggio di Batman.

18 giugno: Pio XII nomina San Francesco d'Assisi patrono d'Italia assieme a Santa Caterina da Siena. 

23 giugno – Berlino: Italia e Germania firmano l'accordo che prevede le opzioni per i cittadini dell'Alto Adige di madrelingua tedesca; chi vuole può rinunciare alla cittadinanza italiana e trasferirsi nel Reich.

28 settembre – Gli ultimi resti dell'esercito polacco si arrendono.

8 novembre: Adolf Hitler sfugge ad un attentato nella Bürgerbräukeller di Monaco. L'esplosione, avvenuta poco dopo un suo discorso, provoca sette morti e sessanta feriti. 30 novembre – L'Unione Sovietica dichiara guerra alla Finlandia; (la Guerra d'Inverno viene portata a termine nel febbraio 1940). o

Gino Amodeo, maestro a Felitto, costretto a essere Segretario Politico del Fascio, custodiva la Sede del fascio ( poco più di un Bar) e una sera fu costretto a prendere per il bavero un ubriaco che non voleva uscire all’orario di chiusura. Un giorno inviò una foto al IL MATTINO di Napoli, del suo figlio primogenito, e – dato il suo ruolo – gli fu pubblicata. Era questa:

23 agosto: con il Patto Molotov-Ribbentrop la Germania nazista e l'Unione Sovietica stalinista si dividono in sfere d'influenza l'Europa orientale: Finlandia, Lituania, Lettonia, Estonia, la Bessarabia romena e la Polonia orientale entrano nella sfera di interessi dell'URSS, la Polonia occidentale in quella della Germania e accettano di non aggredirsi nel processo di conquista di tali territori. 1º settembre – Polonia/Germania: Hitler invade la Polonia, 2 settembre – Italia: Mussolini dichiara la "Non belligeranza3 settembre – Gran Bretagna, Australia e Francia dichiarano guerra alla Germania. o

4 settembre – Il Giappone dichiara la sua neutralità nel conflitto europeo. o o

5 settembre – Gli Stati Uniti d'America si dichiarano neutrali.

6 settembre – Il Sudafrica dichiara guerra alla Germania. L'esercito tedesco entra a Cracovia. o o

10 settembre - Il Canada dichiara guerra alla Germania.

Non riprodussero il nome giusto e Romano da Amodeo divenne Afodeo. Il bimbo cresceva e si fortificava, mentre era ancora allattato dalla mamma che però lo faceva piangendo. Aveva una grave forma di mastite a entrambi i seni e il dottor Sabatella di Felitto le consigliava di allattarlo col biberon.


42

Lei, ricordando la morte di sua sorella Vittoria, nella precedente guerra, proprio per la mancanza del latte materno e di altri surrogati, avendo molto latte, preferì soffrire, in un modo che non trovava d’accordo nemmeno di dottore, e lo alimentò, a latte e sangue. Nelle poppate più intense del bambino, lei implorava l’Addolorata ripetendo: «Maronna!» Così RU fu allevato come Mosè, allattato da sua madre, però in nome e conto della Regina dell’Egitto. Romano per conto invece della Regina del Cielo. Svezzato, finalmente, Anna non voleva più il rapporto d’amore fisico, col marito, non volendo altri figli. Così diceva e si sentiva a posto: «Uno l’ho allevato facendo tutto come si deve... non resisterei più se ne nascesse un altro!» Sul finire dell’anno Anna fu costretta a correre a Ostigliano, poiché suo padre, il Marchese Giovanni Baratta era morto. Si portò dietro il piccolo RU, che ancora allattava. A differenza di quanto era accaduto alla generazione di suo padre, in cui erano morti prima il piccolo Carmine, e pochi mesi dopo suo padre, qui era il nonno di Romano ad essere deceduto e nessuno avrebbe supposto che ciò segnasse anche l’imminente decesso del suo nipotino, nato da Anna. Nessuno poteva supporre che i 5 fratelli Baratta, della Famiglia dei Marchesi di Ostigliano, fossero la necessaria premessa, in terza generazione, di quella unica mano che poi si sarebbe ripresentata nell’unità del primogenito di Anna. Quando RU fu riportato a Felitto, ci fu il macabro divertimento di Donna Tanina, la proprietaria della casa, che si faceva chiamare “nonnina” ma che intanto gli faceva mimare la posizione stecchita del nonno Giovanni, rigido nel suo letto di morte e che, senza che se ne rendesse conto, faceva prefigurare al bimbo proprio l’imminente sua morte. Così accadde che sul finire dell’Anno, mentre iniziava la II guerra Mondiale, il bimbo si ammalò di un male oscuro ai polmoni, come se il morbo di cui era preda il mondo fosse tutto il suo. Il Dottor Sabatella si trovò di fronte a un male contro il quale non aveva rimedi. Faceva mettere infusi bollenti di camomilla ed erbe aromatiche sul minuscolo petto di RU, ma non vedeva miglioramenti.

1940

La Germania, reduce dell'occupazione della Polonia, applica i principi della guerra lampo e nel giro di pochi mesi invade Danimarca e Norvegia, poi Benelux e Francia.

Si svolge la guerra tra l'Impero Britannico e la Germania: l'aviazione nelle isole britanniche impedisce ai tedeschi di usare la guerra lampo nel loro territorio. 

Operazione Dinamo: inizia l'evacuazione del Corpo di spedizione britannico da Dunkerque, composto da soldati europei scampati alla cattura da parte dell'esercito tedesco. La guerra lampo fatta dalla Germania sembrava sul punto d’essere vittoriosa e la resa imminente. L’Italia, che aveva resistito ed aveva solo occupato l’Albania, ma senza colpo ferire, era in grande fermento: tutti pensavano che si dovesse entrare in guerra. Che cosa aspetta il Duce? Perdiamo la grande occasione di sederci al tavolo della ‘pace tra coloro che si spartiranno l’Europa. Pensavano a Nizza e alle altre città che erano stata consegnate a suo tempo alla Francia e che sarebbero entrate di nuovo sotto il Territorio italiano. Nizza! La città natale di Garibaldi deve tornare all’Italia!


43

A Felitto la malattia di RU era peggiorata sempre più. La sua broncopolmonite era un male ancora incurabile, nel 1940. La penicillina non era ancora stata utilizzata con successo per curare le infezioni come quelle della Broncopolmonite. Il Penicillum notatum pure se notato, non era stato mutato nel potente primo antibiotico che sorse proprio per le necessità della guerra in cui sarebbero entrate le forze armate degli Stati Uniti d’America, con la necessaria dotazione di mezzi potenti contro tutte le infezioni dei soldati. Ciò sarebbe accaduto solo l’anno dopo, nel 1.941. A mano a mano che Romano si avvicinava in modo sempre più evidente all’epilogo tragico della sua vita, Anna aveva rimeditato profondamente su tutta la vicenda, colpevolizzandosi sempre di più. Lei voleva controllare le sue nascite e non avere altri figli per non sperimentare un secondo dolorosissimo allattamento. Così, la sua negazione ferrea ad avere altri rapporti di amore con il marito aveva chiaramente contrariato il Signore. Così cominciò a pregarlo con queste parole: «Signore, tu vuoi punirmi per il mio proposito di non avere altri figli. Io in buona fede credevo di potere gestire questa vicenda, nell’idea che i nati sono di chi li partorisce. Invece sono tutti tuoi, e io ho tentato di appropriarmi di un figlio tuo e di gestirlo nel migliore dei modi. L’ho allattato nel dolore e ho fatto di tutto per lui, dopo lo svezzamento che per me giunse come una liberazione. Non mi rendevo conto che il mio rifiuto agli altri figli che tu hai progettato tramite me fosse una inconsapevole mia condanna a morte per tutti loro. Ho compreso la durissima lezione che vuoi darmi, portandomelo ora via. Ma essa non è più necessaria. Non portartelo in cielo. Perdonami. Non punire lui per le mie colpe. Ti restituisco tuo figlio. Ecco, lo riconosco: è figlio tuo.» Poi rivolgeva le sue preghiere a Maria Addolorata: «Madonna, ho compiuto un gravissimo peccato contro Dio e ora per punirmi vuole portare in cielo il mio piccino, che non ha colpe. Tu lo hai già provato, in modo identico e una spada ha trafitto il tuo cuore. Pertanto ben conosci come si senta una mamma che si vede strappato alla vita un suo figlio innocente. Ti prego, salva Romano, innocente come Gesù!» Intanto medicine impotenti contro il suo male – nella speranza che una riuscisse a salvarlo – con iniezioni sempre più frequenti, avevano martoriato il culetto di quel bambino, che quando si accorgeva d’essere sul punto di una nuova iniezione, si opponeva con tutte le sue forze, e invocava disperato: «Mammina, mammina! Non mi abbandonare!» Arrivò il giorno fatale in cui RU ebbe i mille giorni di vita, considerati già con 138 posti al principio della sua vita, nata 1-38.

MORTE E NUOVA VITA DI ROMANO LA PARUSIA DI GESÙ CRISTO Morente, aveva gli 862 giorni di vita sua uguali a 381 +381 +100, che sono il flusso intero 100 di tutto il piano avente il valore: 381 (del Nome Segreto del Padre) in un lato e 381 (dello Spirito santo) nell’altro lato. Alle 7 del mattino ansimava al punto che ogni respiro suo sembrava l’ultimo. Fu inviata la serva Peppina con grande urgenza a chiamare il Dottore. Saputo che RU stava morendo, il medico, che non aveva rimedi, decise di aspettare che passassero le 4 ore nelle quali il piccolo sarebbe certamente defunto. Quando, verso le sette e mezzo, sentirono bussare alla porta, gli Amodeo pensarono che il Dottor Sabatella fosse finalmente arrivato. Si trovarono invece davanti una delle bimbe cui Anna insegnava, alle elementari, e la madre di lei. L’adulta, chiedendo scusa per il disturbo, raccontò che era stato impossibile resistere all’estrema determinazione della giovane figlia, per un compito, veramente importante, che lei sentiva d’avere ricevuto in sogno. « La Madonna mi ha detto – esclamò la piccina – “Mi fa tanta pena il figlio della tua maestra. Domani, quando ti svegli, vai a casa di lei e dille di non temere più, perché ci penserò io! In cambio d’una candela sul mio altare, in segno di ringraziamento e di devozione”. I genitori del piccolo morente ringraziarono, rammaricandosi in cuor loro che non fosse stato il Dottore a suonare alla porta. Forse si leggeva, nei loro volti, la delusione, tanto che la donna ritenne d’aggiungere: “Ho chiesto a mia figlia se ieri eravate a scuola e lei mi ha detto di sì. Allora le ho detto che non c’era bisogno di venire a disturbarvi fino qui, a casa. Ma non c’è stato verso: la Madonna le aveva detto di venire proprio qui ... perciò, Signora, scusatemi, scusatemi del disturbo!” e se ne andò, trascinandosi dietro quella figlia sua che l’aveva messa in quell’impiccio. Fu invece un gesto provvidenziale, poiché, se la bambina non lo avesse fatto, aspettando di dirlo a scuola alla sua maestra, non lo avrebbe potuto fare; e poi Romano, anni dopo, non lo avrebbe saputo e non avrebbe preso coscienza di sé. Andate via, gli Amodeo restarono in trepida attesa del medico, con quel RU che respirava sempre più a fatica ed ogni fiato suo pareva l’ultimo.


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In quel momento, che Anna lo abbandonasse per correre in Chiesa, doveva apparire a tutti – ed anche a lei – una cattiveria, rischiando d’allontanarsi e di non esser lì, se fosse giunto l’ultimo battito del suo piccolo cuore. Ci fu una lotta interiore, poi in Anna prevalse la fede e desiderò che fosse vero il sogno della scolara e lasciò lì il bimbo alle cure del padre. Questo racconto, e questa data del 4-6-40, hanno una corrispondenza in Bibbia, libro 1, Genesi, nei versetti che vanno dal 4 al 6 del capitolo 40. In essi è Giuseppe che riceve la visita di due persone che quella notte hanno fatto – pure loro – un sogno, che si rivelerà nel doppio segno della vita e della morte. Il panettiere e il coppiere del Faraone lo raccontarono a Giuseppe, mentre erano carcerati nella stessa prigione, poiché s’erano scoperte le notevoli capacità di quell’ebreo di decifrare i sogni. Il primo servo sarebbe stato ucciso dal Faraone, il secondo sarebbe stato perdonato e reintegrato nel suo ruolo, nella spiegazione che ne diede Giuseppe. Il terzo servo (del Signore) era adesso RU e dal sogno della scolara di Anna, erano decifrabili sia la morte, sia il reintegro nella vita, poiché “Che pena! Ma ci avrebbe pensato la madre di Gesù Cristo”. Anna percorse le due rampe che portavano alla Chiesa del paese, accese non una ma sei candele, all’altare della Madonna e le fiammelle filavano così in alto che i pochi presenti osservarono che se la maestra stava chiedendo una grazia per il figlio, quello sembrava un Sì! Sì! Sì! Sì! Sì! Sì!, affermato per sei volte di seguito. Tornata subito dopo a casa, Romano era ancora vivo! Invece – e proprio mentre Anna in chiesa accendeva le sue candele – RU era morto per un attimo e poi s’era ripreso. La sua vita era parsa solo durasse ancora... E dicevano: “Perché il dottore non arriva?” Quasi evitavano di guardare il loro piccino, temendo per il peggio, e non si accorgevano della miracolosa ripresa posta davanti ai loro occhi accecati. Verso le undici il dottore si degnò d’arrivare, con ben quattro ore di ritardo. Ma che ci poteva fare lui? Aveva tardato così perché era talmente convinto che il bimbo fosse ormai spacciato, che non voleva assistere, impotente, al suo decesso, così desolante quando chi muore è un bambino. Il dottore, per prima cosa, si sorprese molto sentendosi dire, quando gli aprirono la porta, che era ancora in tempo, era ancora vivo, ma poi – appena lo vide – non ebbe più alcun timore che gli morisse davanti, tanti sintomi aveva, in sé, d’una prodigiosa ripresa, già avvenuta, già chiaramente in atto:

“Questo bimbo ha vinto la morte! Così sono questi mali incurabili: arriva il momento critico e – senza saperne la ragione – alcuni guariscono, altri no. Vostro figlio è tra coloro che hanno vinto la loro lotta per la vita. Ora vedrete che tra qualche settimana sarà del tutto guarito!”. Anna e Gino commossi oltre ogni dire pregarono, ringraziarono il Signore, Dio, la Madonna, Sant’Anna e tutti i possibili santi e quella stessa notte concepirono a RU in pratica il suo gemello. Al rinato al mattino RU, BEN si unì a sera. RU era davvero morto e risorto; una vita nuova iniziò quel 4-6-1.940, mentre, nel grembo materno, cominciò nella stessa sera quella di BEN, il suo fratellino, gemellato alla sua morte e risurrezione. Nessuno avrebbe saputo mai che insieme a quel bimbo nuovo che ora aveva in grembo, ci fosse anche la gestazione corporea di un nuovo Gesù, e che i due fratelli, seppure apparentemente diversi per età, fossero nati insieme in quel 4 giugno del 1940. Insieme saranno RUBEN , il primogenito autentico di Giacobbe. Quando Anna seppe d’essere di nuovo incinta, ringraziò il Signore e non ebbe paura di soffrire di nuovo. Era felice che il suo RU fosse ancora con lei, e lo fu molto di più sapendo che gli arrivava ora una compagnia. Non sapeva che le sue preghiere erano state esaudite molto di più di quanto lei avesse fatto. Mentre chiedeva solo “Salva Romano, innocente come Gesù” alla Madre di Cristo, Lei proprio riportava in vita in Romano l’innocente Gesù, nella maggior gloria del Padre Suo e Spirito Santo sul dorso di quel puledrino... Papà e mamma non dimenticarono quello che accadde. Molti anni dopo lo raccontarono a RU. Egli accolse il fatto come una favoletta che gli sarebbe piaciuto se fosse stata vera.


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Qui a lato vedete Anna e il bimbo miracolato; Gesù si era già aggiunto al Padre e Spirito santo su di lui, nel mentre già il corpo di questa mamma aveva in preparazione in se stessa anche il corpo di chi poi sarebbe stata la reale immagine fisica del Gesù venuto nella sua attesa parusia. Iniziarono nell’estate che seguì, sulla stessa terrazza, i bagni di sole che furono consigliati al piccolo, affinché riprendesse tutte le sue forze. I pericoli non erano però finiti. Come era accaduto con suo padre (che rischiò la morte tra le fiamme e fu salvato solo dal sacrificio di sua madre), era destino che qualcosa di «maligno» sempre si opponesse alla vita del futuro salvatore. Così anche il piccolo RU – superata la morte per broncopolmonite – dovette essere aiutato a superare altri pericoli mortali messi sulla sua strada. Uno di questi gli venne dal suo piccolo amico Gianni Ivone, figlio del padrone di casa e più grande di lui di 3 anni; un giorno afferrò RU per le gambe, lo sollevò e poi lo lasciò cadere a testa in giù. Il bimbo si ferì a tal punto nella bocca che sanguinò a lungo e dové bere latte e sangue (di nuovo, ma stavolta il suo) per far cessare l’emorragia. Un’altra volta, mentre Romano correva sempre dietro a Gianni, lui aprì una porta all’improvviso, tirandola verso di sé e il bimbo, che lo tallonava, se la ritrovò contro la fronte e ne ebbe una piccola cicatrice che si sarebbe vista fino alla morte. Nei due casi tutto parve casuale, ma in entrambi fu un «maligno» attentato alla vita del piccolo RU. Sarà una componete costante: il diavolo tenterà più di una volta di toglierlo di mezzo. E se lo ritenete esagerato, accade per il principio di Azione e Reazione tutte le volte che un Dio vero sale su un Asino... Un dì RU fu spinto a scavalcare il muro di quella terrazza, per calarsi dalla altra parte e sarebbe precipitato cadendo per molti metri, se Emilia, sua zia, poco più che ventenne, vistolo in grave pericolo, non si fosse mostrata all’altezza. Come lo vide lo chiamò con dolcezza «Romanuccio... cosa stai facendo lì di bello?» e gli si avvicinò sorridendo, senza dar segno di quanto fosse allarmata. Così gli fu accanto e senza pericolo lo abbrancò impedendogli di attuare la tentazione fatta dal Diavolo a Cristo: quella di buttarsi giù dal pinnacolo del Tempio.

Di seguito i principali eventi bellici della II Guerra Mondiale dell’Italia. La Parusia di Gesù accadde il 4 giugno della Battaglia di Dunkerque: la Royal Navy, con l'aiuto di semplici pescatori, completa l'evacuazione di 300.000 soldati da Dunkerque, lasciando ingenti quantità di materiale bellico. 

10 giugno L'Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Le forze tedesche del generale Erwin Rommel raggiungono La Manica. Il Canada dichiara guerra all'Italia. La Norvegia firma la resa.

12 giugno - 13.000 soldati britannici e francesi si arrendono a Rommel.

14 giugno - Parigi è occupata dai Tedeschi. Si inaugura il campo di Auschwitz.

17 giugno - Estonia, Lettonia e Lituania sono occupati dall'Unione Sovietica.

20 giugno - le truppe italiane attaccano la Francia, ma sono subito bloccate.

22 giugno – è firmato l'armistizio di Compiègne tra Francia e Germania.

24 giugno – è firmata la pace tra l’Italia e il governo francese a Vichy.

28 giugno - Italo Balbo, governatore della Libia è abbattuto per errore a Tobruk.

3 luglio - La Royal Navy dà corso all'operazione Catapult e attacca le navi francesi.

4 luglio - Gli Italiani entrano a Kassala, nel Sudan britannico.

10 luglio Battaglia d'Inghilterra: la Luftwaffe colpisce gli inglesi nella Manica.

16 luglio - Truppe italiane penetrano nel Kenya britannico.

21 luglio - Estonia, Lettonia e Lituania si dicono repubbliche nell'Unione Sovietica.

3 agosto - Truppe italiane invadono il Somaliland britannico dall'Etiopia.

7 agosto - Primo pesante bombardamento di Londra della Luftwaffe tedesca.

30 agosto – la Romania costretta a cedere parte della Transilvania all'Ungheria.

4 settembre - La Greer è la prima nave statunitense attaccata dagli U-Boot tedeschi.

7 settembre - Battaglia d'Inghilterra: inizia il bombardamento di Londra per 47 notti.

12 settembre - Il maresciallo Graziani inizia l'avanzata in Egitto .

27 settembre - Berlino: Germania, Italia e Giappone firmano il Patto Tripartito.


46 

28 ottobre - L'Italia invade la Grecia.

31 ottobre - Termina la battaglia d'Inghilterra.

11 novembre: portaerei Inglese attacca la flotta italiana a Taranto,

14 novembre - Coventry è pesantemente bombardata dalla Luftwaffe tedesca.

16 novembre - In risposta a Coventry la RAF bombarda Amburgo.

18 novembre - Hitler chiede all’Italia sulla disastrosa campagna italiana in Grecia.

20 novembre - Ungheria, Romania e Slovacchia si schierano a fianco dell'Asse.

1941

8 dicembre - Inizia l'operazione Compass che, nel corso dei mesi successivi, vedrà l'esercito britannico e i suoi alleati sconfiggere le forze italiane in Egitto e ricacciarle verso Sirte in Libia, dopo aver conquistato tutta la Cireanica. 12-15 dicembre – Bombardamento di Sheffield da parte della Luftwaffe.  24 dicembre - In un discorso, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt attacca duramente le potenze dell'Asse.

IN R-U-BEN VIENE ALLA LUCE IL CORPO DI CRISTO E DI BEN. Gli italiani con impazienza spingevano per entrare in guerra, mentre a Felitto stava per entrare in scena chi con il suo corpo reale, avrebbe costituito la attesa Parusia di Gesù , e completato il primogenito RU con l’avvento di BEN . Come il nome GESU’ fu formato dalla G iniziale di Giacobbe (il 2°) e dalle tre lettere “esù” dei primogenito Esaù, così anche a riguardo del ritorno di Gesù: la parusia del Cristo sarebbe stata data da RU+BEN e attuata con: RU il 1° ch’è rinato in seguito al miracolo di Maria Santissima. Su lui la Trinità di Dio è posta in puro Spirito come su un asino portatore (precisamente sul , sul corpo di Ro), è totalmente invisibile e vale 22 in ciascuna delle tre persone di Dio, essendo totale, 66, in Romano=66; BEN il 2° ch’è il suo vero gemello reciproco. Ha la realtà sia del corpo di Gesù sia del suo, ma senza la trascendenza divina, che è posta sul . Dati i 2 corpi, la gestazione corporea è stata duplice. Durerà il doppio quando per BEN sarà la gestazione corporea per il cielo. Essa sarà 2×258=516 dì, meno 44=472 giorni, cioè senza i 2/3 del 66=Romano finiti in puro spirito di Padre e Spirito Santo su Romano=66, da quando (profezia di Daniele) solo lo Spirito di Gesù (e non dei 2 Altri), ascenderà da Romano.


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PRIMO NOME BENITO Era sì il nome del Duce ma significava Benedetto, Ben andato, ITO proprio pensando a quanto era ITO, accaduto in Romano. In Gematria vale 59 ed è proprio tutto il moto di un minuto secondo, quando si trova nei 60 uguali a un minuto primo. SECONDO NOME VITTORIO Era il nome del 1° maschio avuto da Donna Rachele, e visto che Rachele è la madre per Popolo Romano e per quello di Israele, è il secondo giusto. Vale 116 e indica il Dio che si affida al 10, e si moltiplica per la presenza 1 di 10 (per 11) e poi corre in tutte e 6 i versi che esistono. Benito Vittorio vale 59+116=175 e indica il 100, il tutto del 100%, che si muove in tutto la spazio dato dai ¾ di 100. TERZO NOME ANNA In essa =26 è DIO come nel fratello, Benito Vittorio Anna = 201 indica il piano a lati 100 e 100 in tutto il flusso di 1. La terna unitaria ideale! QUARTO NOME GIOVANNI. È aggiunto il nonno materno, in un nome che vale 83 e trascende il 38 natale del primogenito. Benito Vittorio Anna Giovanni=284 indica tutto il flusso nel volume 300 quando l’area ha 8 e 8 di lato, ossia tutto lo spazio nel complesso di 23.

Il 17 febbraio del 1941 ci fu il parto, felicissimo, senza niente che andasse storto, e venne al mondo un altro maschio. Gino mostrò a RU un grande scatolone, sull’armadio della camera da letto e gli raccontò che, dentro di quello, gli avevano portato un fratellino, comprato al mercato di Salerno. L’allattamento fu senza più nessun dolore, anzi Anna poté finalmente assaporare le dolci sensazioni che si accompagnano a questo dono, meraviglioso, che una mamma fa, a suo figlio, per farlo crescere. Gli diedero i 5 nomi dati di già al fratello. Così R-U.ben ebbero i 12 nomi delle Tribù d’Israele e degli Apostoli

QUINTO NOME VINCENZO È aggiunto il secondo nome del padre di suo padre, Torquato Vincenzo, poiché Torquato era andato al 1°. Vincenzo trascende il 59 di Benito, essendo il 95. Benito Vittorio Anna Giovanni,Vincenzo=379 indica con 400 -21 il moto della nascita 7+7+7 del padre Luigi, nel 100 che avanza di 300. Con tutto quanto il suo solo nome, il secondo di Romano vale esattamente quanto il solo flusso del piano 1 e 1 nel 381 di Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo. TUTTO IL NOME PIU’ IL COGNOME AMODEO Anche il 2° ha un valore generale, che completa quello del 1°. Benito Vittorio Anna Giovanni, Vincenzo, Amodeo=426 Dio=26 sommato al Dio Uno e Trino in 100+300 26+400=426 Adamo+Set+Enos+Kenan+Malaleel+Iared+ Enoch+Matusalemme+Lamch=426 sono i primi 9 creatori del mondo, nominati in Bibbia nel loro valoreel 2° Un anno + i 60 secondi di 1 primo + lo spazio nel tempo 365,25 +60,75 = 426 Tutto il valore del primo sommato a 1/8 dell’angolo giro 381+360/8 = 426 Gino ed Anna non avrebbero potuto fare altrimenti.


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Benito Amodeo era costretto a essere « Benì Am », Beniamino. Inoltre, la prima lettera di tutta la Bibbia è la Beith di , mentre la A di Aleph è la terza, e tra Beith e Benito manca solo una N mentre è O una H. Benito era il numero 2 e Beith è precisamente il numero 2. 400 +26 valorizzava Dio in modo alfanumerico, lo stesso che ne aveva valorizzato il nome segreto nel 381 totale assegnato al primogenito. R-U-BEN , questo insieme, in R Uno e in BEN (trino) che sarebbe scaturito dai nomi dei due fratelli, era e doveva essere tale che 426 (il valore nominale di tutto il 2°) diviso per 381 (valore del 1°) equivalesse 1,118. Questo valore è il lato dello spazio-tempo, dato dalla radice quadrata dell’area unitaria dello spazio-tempo 12 +0,52 = 1+0,25 = 1,25; valore che – mentre è della area unitaria – lo fa essere anche del mese 1 nel suo giorno 25 in cui il 1°genito è nato, e del libro 1, capitolo 25 di Genesi in cui in Bibbia è descritta questa Genesi nel 1°genito avente il nome Romano del popolo più forte di quello di Israele = Giacobbe, e che poi è Esaù essendolo a pieno diritto. Infatti “ES” nella lingua di un Romano significa un “TU SEI” mentre A-U descrive la durata totale, nello spazio e nel tempo, di quanto va “da cima a fondo”. Lo stesso accade in Amodeo. Tu sei ROMANO da cima a fondo = ESAU’ EDOM dall’Alfa all’Omega = AMODEO BENITO = il 2° è N ito N volte rispetto a quanto è ito Romano Infatti, ove 1,118 è quanto del 2° (=426) c’è in ciascuna delle 381 unità del 1°, lì il 2° nacque 1119 dì dopo il 1°, nel segno dell’1,118 ×103+1 (trino e 1 nelle volte) Al lettore tutte queste relazioni sembrano essere del tutto casuali solo poiché è abbacinato dalla apparente libertà dei fenomeni naturali, che sembrano dipendere dalla forza degli eventi naturale, da quella dei viventi, e dal caso. Ma – anche se questo è ciò che appare – la sua forza è del tutto secondaria a quella immessa in un puro progetto possibilistico ed è esclusivamente quella che sta nell’esecuzione del puro calcolo che lo differisce nello spazio e nel tempo della sua reale esecuzione. In questo progetto, determinato totalmente dai numeri, ogni possibile cosa è espressa da un numero. E come alcuni numeri sono più “tondi” e significativi degli altri, così accade anche in questo mondo la cui possibilità di esistere è stata in tal modo generata. 426/381 a questo punto è totalmente significativo, poiché 381 è il divisore di quello che è in 400 tutta l’unità in spazio-tempo numerico, e 26 è il “Dio” di una sorta di “virus” a lati 10 e 10 (totali) nel piano e 6 (tutti i versi) nel flusso. Questa “chiusura in sé stesso del 26 lo svincola e lo libera dal contesto e vi si può muovere e sviluppare come fa un “virus” immesso in un computer: ne è INVASO. A questo punto 426 indica tutto lo spazio tempo totalmente “invasato”.

La divisione per la totalità del moto, porta a quanta “invasione divina” esiste in ogni unità dividente: 1,118. Laddove è il “giorno” l’unità terrestre della Terra, dopo che entra in scena il 1°, in questo disegno (e vi entra come il “dio invasore”) il 2° non è libero di comparire nel suo “essere totale” se non 10×10×10 +1 giorni dopo. Ma anche il 1° deve avere un reale “Padre”. E allora egli sarà esistito 1116 decine di giorni prima. Anche lui è, rispetto a 1,118, da moltiplicarsi per 10×10×10 e stavolta sarà -2, ossia espresso solo nel flusso dell’area data da 1 giorno e 1 giorno, rispetto all’unità data dal 1,118 moltiplicato per 1.000. Come il Padre, di un simile “Dio” il suo tempo non esprimerà 1 giorno ma 10 giorni. In tal modo, il Padre di questo 1°genito, deve essere nato 11.160 giorni prima del suo 1°genito. Tra Padre e 2°genito, i 12.279 dì = 2,99792458 ×212=12.279,49907968 sono i metri corsi dalla luce in 1 s per la dimensione 2 del 2° elevato a 12 tribù/apostoli. Qui vedete calcolate dal Computer la distanza tra Padre 7-7-7 e 1°genito nato 25-11938. Quella tra il 1°genito e 2°genito nato 17-2-1941, e infine quella totale tra Padre e 2°genito, uguale a 12.279 . 2,99792458 sono i metri percorsi dalla velocità della luce in un secondo=2°. 2 elevato a 12 è uguale a 4.096 e 2.99792458×4.096 = 12.279,49907968 . La sola differenza sta in 0,49907968 = 1/(2,00368806840...) il che vale il tempo ½ che non è esatto poiché al 2 (al 2°genito) nella realtà decimillesima (che è quella unitaria del 104 =10.000), esiste un 36 che è aggiunto. Per favore, contate tutte le lettere di Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo, e ditemi se non sono 36... se siete capaci! Ma questo 1° (che si unisce al secondo) si definisce poi in 88 che è 66=Romano +66/6 (la sua unità). E il dettaglio successivo, dato da 684 è il 1.000 -381 +66 -1 che parte dal totale dato da 10×10×10, toglie tutto il dinamismo dato dal valore 381 (di tutto il nome del 1°), aggiunge l’energia totale data dal 1° nome Romano=66, e – togliendo a ciò 1 – quantifica tutto il moto di 1 in 685.


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Come potete vedere – se siete disposti a capirlo... – con la presenza della terna data da Luigi Amodeo nato 7-7-7, il suo primogenito Romano nato 25.1-38 e il 2°genito Benito nato il 17-2-1941, abbiamo la rappresentazione umanizzata di tutto il percorso che fa la luce, quando essa parte il 7-7-7 e arriva al 17 febbraio del 1941. Allora corrisponde a una coppia di divinità, un 2, che assumono come potenza il numero dei 12 figli di Israele (che poi saranno i 12 apostoli di Gesù Cristo). Allora questo 212=4.0096 , avanzando tante volte quanto i metri percorsi dalla luce in 1 secondo, percorre gli stessi 12.279 giorni di tempo, più il tempo di 1 diviso per un 2 maggiorato: di tutto quanto vale il primo, nelle 36 cifre del suo nome, nel moto unitario del suo 66, e in tutto il moto di 1 nel 1.000 al quale è tolta tutta la dinamica 381 ma è aggiunta l’energia 66. Potete non essere d’accordo, ma le cose stanno in questi termini: Un Dio è disceso in un Padre chiamato Luigi Amodeo, e che ha il nome di un LAM è 38 = Lamech, 9° uomo in Bibbia vissuto 777 anni e padre di Noè. Tra padre e figlio si fissa lo stesso rapporto di Uno a TRE, esistente tra Adamo e il Terzo figlio SET (che rappresenta l’unità del 7 che è Trino negli anni 777 di Lamech. Allora i tre Figli di Lamech stanno nel trisillabo nome Ro-ma-NO , e NOè il Terzo e sarà proprio chiamato per quello che quel terzo è: Noè.

Le cose stanno così e l’ASSOLUTO anche si diverte molto con tutto il gran SUSSIEGO che gli uomini assumono. Sono esperti di una cosa COSI’ PICCOLA e poi pretendono che il TUTTO sia compreso e tenuto a rientrare tutto nella loro LOGICA MICROSCOPICA... come a voler contenere in un bicchiere un oceano! e se esso non vi è compreso (sì, capito!) allora dicono che è sbagliato! Dio li ha creati così e ne ride. Ma – fino a che non si imporrà su di loro – sarà ROMANO il povero preso per i fondelli, sodomizzato (fino al Super LOT), deriso come GIONA il falso profeta che annunciò quella FINE di NINIVE che poi non di fu mai. NI, il Nazarenus Iesus, V’E’, arriva NI !!! e NI-NI-V’E’ è spacciata. O gran Re cospargiti di cenere! NINIVE=47=AMODEO, è il PADRE=10+30 creatore in 7 giorni. Queste è il segno di Giona l’unico promessovi da Gesù Cristo. Ma il 17 febbraio 4631 la Terra si ribalterà nel suo asse. Sappiatelo, 2.657 anni prima grazie al mio  GIONA (GIOshua ON A, su Amodeo), e grazie al 17 febbraio in cui nacque Benito e cominciò il tempo della fine del mondo ai 600 anni di Noè, ossia quanto il ciclo 10 del 1° (il minuto primo) nei suo 600 secondi. La storia della salvezza ha prescritto fin dal principio il gemellaggio del vero R-U-BEN , in questo autentico primogenito di Israele, avente i 12 nomi delle 12 Tribù, e dei 12 Apostoli di Gesù Cristo. Essi viaggiano insieme, come il tutt’uno che essi sono, anche quando saranno divisi: Uniti: R.Unito a BENito , unione una e trina, come il segno straordinario in questa foto che li ritrasse nel loro 1° viaggio.


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1942

Portava RU BEN svezzato, in giro sulla terrazza, nella piccola automobile a pedali, mentre le pareti, nere d’asfalto, erano tutte scarabocchiate dai disegni che vi faceva sopra con il gesso, a copia di quelli fatti e con bello stile da suo padre. Molti di questi ricordi furono conservati grazie alla passione di Gino per la fotografia. Aveva acquistato una Rolleikord; ne andava fiero e aveva inventato e costruito una ingranditore delle fotografie sfruttando la stessa lente di quella macchina. Era un trabiccolo di legno, dotato d’un soffietto a tenuta di luce, nel quale era infilata la macchina fotografica, dopo che le era stata rimossa la parte retrostante, quella che occorreva aprire per il caricamento dei rullini 6 per 9. Facendo andare su e giù il soffietto, realizzava la messa a fuoco e gli ingrandimenti che voleva e che poi distribuiva ad amici e parenti, fiero del suo risultato. Qualche rara volta Peppina Mollo – la domestica che chiamava “Don Romano” il bimbo, in segno di rispetto – si recava a casa dei suoi parenti ad Ostigliano. Il piccino, molestato da Satana e reso irrequieto, quasi incosciente del pericolo (come quando voleva scendere dal muro della terrazza), era in quei casi portato, per saggia precauzione, da sua madre, con sé a scuola, affinché se ne restasse buono e tranquillo a giocare in fondo all’aula, mentre

lei insegnava alle elementari l’abc della scrittura. Erano visite rare e distanziate, che non duravano che 2 o 3 giorni, le visite di Peppina ai suoi cari. Così, una mattina, uno dei giovani allievi stentava a leggere una frase sulla lavagna... e il piccolo RU, dal fondo dell’aula, lanciò contro di lui uno spazientito “Ma come sei scemo!” di cui fu immediatamente rimproverato dalla mamma: “Romano! Come ti permetti? Credi che sia facile?” “E che ci vuole?!” “Allora provaci tu!”. RU lesse la frase con naturalezza. Era stato capace – mettendo assieme quelle rare occasioni sparse qua e là per apprendere – d’imparare da solo a leggere! Fu per i genitori una vera meraviglia, perché non riuscivano a comprendere come avesse potuto, con così pochi e spezzettati frammenti di insegnamento, rubati qua e là. Quando, lì in fondo all’aula, egli avrebbe dovuto solamente giocare, invece era stato attento e aveva imparato da sé cogliendo al volo cose sparse qua e là! In quei tempi non c’era la televisione e la radio non aiutava granché ad apprendere, specie con quella guerra in cui mandavano in onda o cose di propaganda politica o di pura evasione. Oggi i bambini hanno molti modi per apprendere da se stessi, con la televisione... e specie dopo l’avvento dei telefonini. Allora non c’era intorno a un bimbo nulla di tutto ciò. Per i due maestri quello di cui aveva dato prova RU era prodigioso, perché egli non aveva ricevuto sufficienti elementi, per capire. Si misero in testa, da quel momento e per sempre, che quel loro figlio aveva il dono di raccapezzarsi e di rendersi conto da sé, laddove gli altri faticavano... anche insegnandogli e coi migliori tra i metodi! Quando, nel resto della vita, accadrà che altri professori diranno loro che hanno un figlio poco intelligente (per non dir loro un cretino) Gino ed Anna non saranno scalfiti nella loro fede. E quando, molte volte, lo vedranno esitare nelle scelte e non assumere un passo deciso nelle vicende (come se egli non avesse compreso ancora bene il loro vero significato), anche allora gli daranno un gran credito e rispetteranno pazientemente i suoi tempi. Erano educatori formidabili, Luigi e Mariannina Amodeo, capaci di cogliere l’essenziale, in una persona e tali da non essere ingannati dalle circostanze della vita. Questo episodio, dell’autonomo apprendimento della lettura, che potrebbe essere giudicato insignificante, avrebbe invece molto pesato su tutta la sua vita futura, soprattutto per quanto riguardò la sua formazione. In quell’occasione RU provò talmente l’ebbrezza della scoperta – libera, personale e indipendente – che poi in tutta la vita fu restio a studiare con metodo e ad apprendere le scoperte altrui, nell’intimo desiderio di rifare ogni volta quella stessa esperienza, di libertà ed indipendenza, fatta allora.


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1943

Questo fu l’anno in cui il conflitto assunse davvero la dimensione mondiale per l’entrata in guerra di Giappone e Stati uniti d’America. Ciò snaturò quella sorta di banchetto cui Mussolini e i Fascisti credevano di dovere affrettarsi a partecipare e che avevano infine cominciato per gli stessi motivi di Re Erode in Palestina, quando seppe dell’arrivo imminente di un Messia. Anche il Re d’Italia, nuovo Imperatore del risorto Impero Romano, aveva giudicato infine necessario che ci fossero un centinaio di morti innocenti per impedirlo, giusto sei giorni dopo quel 4 giugno in cui la Flotta Inglese lasciò in massa Dunkerque, mentre a Felitto RU moriva e riviveva, e Benì Am(ino) era concepito. Divenne l’anno in cui gi Alleati invasero e conquistarono la Sicilia; il Re fece arrestare Mussolini e pose Badoglio a capo del Governo. Il quale per un po’ continuò la guerra al fianco della Germania, poi si accordò cogli Alleati e firmò l’Armistizio. Ci fu quindi lo sbarco a Salerno, e degli Americani a Paestum e Agropoli; e la guerra passò anche concretamente per Felitto. VOGLIONO UCCIDERE IL PADRE Un giorno, per la strada che fiancheggiava il paese, passò un reparto della 45a divisione americana. I Tedeschi, con le panzerdivision avevano tentato di opporsi a quell’invasione a Salerno, e a Persano riuscirono in un primo tempo anche a farlo efficacemente.


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Quel reparto, degli Americani che passavano per Felitto, veniva dalla piana del Vallo di Diano e stava pattugliando il territorio. Giunti all’altezza delle prime case del paese, trovarono una ridicola fila di pietre messe di traverso alla strada, che dovevano dar l’idea di un possibile agguato teso contro di loro dai Fascisti. I due motociclisti in avanguardia bloccarono la colonna e subito indagarono. Seppero così che l’ideatore di quella resistenza era il Segretario del fascio, il Milanese. Così due MP irruppero in casa sua per prelevarlo e farne chissà cosa. Erano due oriundi siculi e masticavano ancora un po’ del loro dialetto, e Gino un po’ d’inglese... Così i due soldati capirono che l’avevano messo in mezzo, per vendetta. «Iamm’ninne, chesta è na cose ‘e paese...» Luigi Amodeo, che a Milano, da giovane, in una occasione era stato costretto a trangugiare mezzo litro d’olio di ricino, dai Fascisti con cui evidentemente non familiarizzava, quando assunse il suo ruolo di maestro, a Felitto, ed entrò nello apparato dello Stato, aveva dovuto vestire anche l’abito fascista, con quella sua sotterranea opera d’omologazione al supposto bene pubblico che ci fu in quei tempi e che rese tutti apparentemente convinti del bene di un uomo forte al comando. Per i propositi di possedere anche una “casa del fascio” nelle varie località – essendo il maestro, oltre il Podestà, l’unica figura di spicco dell’apparato pubblico in quel luogo – Luigi Amodeo aveva dovuto prendere in consegna la chiave di quella “casa”, che poi ad altro non serviva che ad aprire un bar, in cui la gente giocava a scopa e a briscola, e a chiuderlo entro la mezzanotte. Anche RU era stato coinvolto, come risulta da una foto, in cui indossa la sua brava divisa di “Balilla”, mentre spara ardito e fiero con un cannoncino di legno. Il ruolo preciso di Luigi Amodeo era quello di “Segretario politico”, un compito ingrato, perché un’autorità di quel tipo, in un paese, stava in mezzo tra le due solite parti, in cui ogni paese è sempre stato diviso, nelle sue interminabili beghe, facendo da terzo incomodo. Per di più Lui era anche un “forestiero”, e il suo non guardare in faccia a nessuno, non era piaciuto a molti. Così al travaglio del Fascio, sopraggiunto con lo sbarco degli Americani a Salerno, con la fuga del Re, con l’Armistizio e colla guerra civile che poi scoppiò in Italia, in casa Amodeo si giunse a sfiorare la tragedia. Fallita questa ripicca, i suoi avversari fecero in modo che uno del luogo (che una volta era stato costretto a forza a uscire a mezzanotte dalla “Casa del Fascio”, denunciasse chi lo aveva fatto, sia di violenza, sia d’abuso di potere. Costui era anche il padre d’un supposto eroe antifascista morto in Spagna, pochi anni prima nella guerra vinta poi da Franco. Così, approfittando di questa “violenza”, esercitata dal Segretario politico fascista contro un eroe, Gino fu denunciato quando il nuovo governo dell’Italia fu istituito a Salerno.

R-U-BEN E LA PATERNA FUGA DA FELITTO Nell’ottobre del 1943 Luigi Amodeo fuggì non in Egitto ma da Felitto. Ebbe il trasferimento a una scuola presso Salerno. La famiglia lo avrebbe seguito quando anche la maestra Anna Baratta sarebbe stata trasferita. La FUGA IN EGITTO, descritta per GS (Gesù) in realtà coincise con la fuga del Padre da Felitto e l’atterraggio, su questa Terra del cavolo (o d’Egitto) di una reale SOSIA di Gesù destinata a legarsi col PORTATORE del Padre e Spirito santo con nozze consacrate davanti a Dio, in una Chiesa Cattolica. . IN QUESTA TERRA D’EGITTO SCESE LA SOSIA DI GESU’, GS GIANCARLA SCAGLIONI: a CIVID ALE M. vs GERUS ALE M. CI VIDe GERUS (Gesù+R) in fine a Bet. LE M quando s’unì a Benito e R 1-11 (Tutti i Santi), nacque GS nell’Unità nella Trinità di Dio e tutti i Santi. Gesù nato da Maria (Ascensione 15 agosto della figlia di Anna) e da Giuseppe. Giancarla Scaglioni da Mario (nato 15 agosto e il figlio di Anna) e da Giuseppina. Posto anzi C-IV I-D. (Cristo ivi Dio, o Cristo vidi) fu la casa, in fine di ALE M. quando in questa Terra d‘Egitto la SOSIA scese a CIVIDALE MANTOVANO che in «Mantovano» trascese «va a (Ro)mano Anto» nio. Non nacque in questa casa, che era la sua, poi dell’infanzia, ma presso i nonni, ove era sfollata durante la guerra e questa casa diroccata. Fuggì in questa Terra d’Egitto presso la Chiesa di Cividale. Fu disegnata con Benito quale il 2° alter ego di Gesù che il Padre avrebbe sposato in Chiesa, unendosi al Figlio tramite nozze consacrate.


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1944

R-U-BEN A SALERNO Avuto il trasferimento anche Anna, la famiglia si riunì e abitò a Salerno, in una casa situata dalla parte in alto della città, in cui c’era un ampio giardino, con un'incudine da fabbro. Fu una sistemazione che durò nemmeno un anno. RU su quell’incudine compì i suoi primi esperimenti di fisica, martellando sui fili di ferro fino a renderli così caldi da non potersi più toccare. Fu una permanenza molto breve, di nemmeno un anno. Romano con la sua paghetta si comperava e leggeva con grande interesse il Corriere dei Piccoli, con le avventure di Bibì e Bibò, di Capitan Cocoricò e di Bonaventura

Salerno era in quegli anni la Capitale d’Italia, quella liberata dallo sbarco alleato, mentre Roma e l’Italia settentrionale erano occupate dai Tedeschi. Solo nel giugno di quest’anno le forze alleate entrano in Roma, in quel 4 giugno che per R-U-BEN significava per l’uno un miracolo di sopravvivenza e per l’altro l’inizio della sua esistenza nel corpo di sua madre. .

Luigi Amodeo fu processato alla bella e meglio, e – nonostante fosse palese che non aveva usato alcuna violenza, prendendo per il bavero un ubriaco e costringendolo a uscire nell’orario di chiusura della “casa del fascio” – fu condannato a 5 anni, con la condizionale, per abuso di potere contro “antifascista” e per di più padre di un eroico combattente ucciso dai Franchisti in Spagna. Negli ultimi mesi del 1944, con l’inizio del nuovo anno scolastico, la famiglia si spostò fuori città, tra Salerno e Vietri sul Mare, e R-U-BEN andarono a “Villa Cajafa”, in una casa posta a 100 metri a picco sul mare, con ampi locali ed un bel giardino. Vi si accedeva attraverso un viale che, una volta – quando quella era stata veramente una Villa – era contornato da colonne.


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1945

Era la primavera del 1945 e RU stese i suoi giocattoli sul muretto del giardino della nuova casa, in Villa Cajafa, affinché i ragazzi della sua età li vedessero e desiderassero giocare con lui Era ampollosamente chiamata Villa poiché una volta lo era stata, e la via che portava fino alla casa era stata cinta di colonne, che sorreggevano pergolati di uva. Era lì, sotto un monte chiamato San Liberatore, e il nome Cajafa rimandava a Caifa, che molto contrastò e fece uccidere il vero Liberatore. Il giardino non era granché, ma allora, per un bimbo di 7 anni, alto ancora la metà di un adulto, sembrava il doppio di quello che fosse. Un percorso al centro, nella sua lunghezza ed uno che lo incrociava a metà. In mezzo, un'aiuola, con una grande pianta di fico, inclinata tanto che si poteva salire sul suo ampio tronco camminando, nell’ora di raccoglierne i frutti o tutte le volte che un bimbo, come RU, volesse farlo per puro gioco. Appena usciti dalla casa nel giardino, a destra c’era un albero d’arance, al suo fianco uno di limoni ed altre tre piante d’arance, nelle aiuole, completavano tutti gli alberi di quel luogo... che saranno stati alberelli... Il giardino era cinto da un alto muro che apriva due o tre ampi squarci alla visione, interrotto da colonne quadre sormontate da ornamentali vasi di cemento, che una volta avevano contenuto fiori, e che erano inchiodati su un ferro annegato nel capitello.


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Dalle aperture del muro di recinzione, si vedeva in basso la Torretta, poi, più in giù, un grande palazzo con ampie terrazze merlate, digradanti, che fiancheggiava la strada tra Salerno e Vietri sul mare. A circa duecento metri in linea d’aria, c’era una cappella votiva chiamata la Madonna degli Angeli, e in fondo, a chiudere la visione, la collina che digradava sull’ampia distesa del mare sul quale Villa Cajafa si ergeva a picco. RU invece faceva di tutto per farsi amici quei tre - quattro ragazzi delle case vicine che facevano parte dell’antica villa. Certe nottate l’aria, in quel giardino e nella città era così secca e tersa e poco inquinata dalle fabbriche (che non c’erano) che il cielo appariva pieno di miliardi di stelle. La Via Lattea si mostrava con tutta la sua ricchezza di luci, distinguibili punto per punto. Quando certe sere tornavano da Salerno, a tarda notte, dopo essere stati a un Cinema (l’Augusteo, a vedere un film su Tarzan, o uno dei tanti di Totò), RU restava incantato, a vedere quel cielo stupendo, e gli veniva un forte desiderio di mettersi a passare la notte intera all’aperto, a contemplarlo.

Romano faceva il Tarzan e correva continuamente pericoli. Fantasticava di appendere funi sulle piante e tra l’una e l’altra. Era vivace, intraprendente, uno da tenere a freno, perché imprevedibile e spesso sconsiderato. Come qui di fianco. Una volta cercò di costruire una casetta sull’arancio più grande. Per tirar su legni, in una cesta legata per il manico, dové usare due mani; così in bilico incerto, in piedi su un ramo, perse l’equilibrio e cadde da due metri, sulla schiena. Sul libro precedente (L’Universo impensato, dal quale è stato rielaborato questo, che lo completa e controlla) era stato scritto che i metri fossero tre, ma per sbaglio. Il colpo secco sul torace, a RU caduto a 8-9 anni dall’albero di arancio, fu uno dei tanti tentativi fatti da Satana per accopparlo. Si sarebbe potuto rompere la spina dorsale, così caduto sulla schiena, invece la gran botta gli tolse solo, ma del tutto, la capacità di respirare. Si alzò, si sforzava, ma non riusciva a prendere fiato. Intanto, i suoi giovani assistenti – i cugini ospiti in quel tempo – ridevano, un po’ sollevati dalla paura, avendolo visto alzarsi da terra, un po’ perché non capivano che non stava per niente recitando la scena di chi stesse soffocando. Poi Qualcuno intervenne e il ragazzino riprese a respirare, altrimenti Quell’altro sarebbe riuscito finalmente a togliere di mezzo il suo avversario. RU era per davvero contrastato dal Maligno come il suo antagonista, che un giorno l’avrebbe domato, mentre per Romano, lui nemmeno esisteva. Tifoso già da piccolo di una squadra di calcio – il Milan – che da molti ufficialmente era chiamata quella del Diavolo rossonero, poteva farlo poiché era così aiutato da Qualcosa in lui che lo spingeva a non considerarlo nemmeno un nemico di Dio, ma solo un Dio stesso visto e percepito all’incontrario della salvezza assoluta operata dal Signore. Come poteva sussistere un potere che Gli fosse nemico e che l’Onnipotente non avesse gestito nel Suo meglio? Così RU non ne ha mai temuto le azioni, sentendo tutta l’impotenza di Chi impersonava l’attacco a un Bene così Assoluto. Sua madre Anna, invece, sì, lo temeva moltissimo. Si vedeva tutte le volte che, terminato l’anno scolastico, e per tutto il periodo delle feste natalizie la famiglia si spostava a Ostigliano, nella casa dei Baratta, ospiti di Antonio.


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L’unico figlio maschio della famiglia già era divenuto per tutti il Marchese. Nel 46 aveva passato i 30 anni e si era anche sposato con una maestra delle elementari, Maria Borgia Sassano, in Vallo Diano. Un buon matrimonio cui Antonio fu costretto da sua madre. Ecco RU e BEN coi due sposi, Nicolina in mezzo e a sinistra Anna. Quando nei periodi natalizi gli Amodeo erano ospiti ad Ostigliano, Anna in quella casa era sempre in allarme. E un dì raccontò a Romano che lei percepiva gli spiriti tormentati, vissuti lì e che una volta aveva visto il Diavolo. Lo aveva raccontato a tutti ma nessuno le aveva creduto, e ora lo diceva anche a lui. Aveva l’aspetto di un caprone, e un dì le apparve all’improvviso, materializzato nel soffitto di una casa di campagna. Fu una apparizione così corporea che s’incastrò materialmente nel soffitto e causò dei calcinacci. La Bestia le aveva perfino detto, e in dialetto: “T’appauri?” Eh, sì, le aveva messo addosso una paura bestiale. Lei aveva chiamato aiuto e le persone accorse avevano visto per terra solo i detriti che prima non c’erano. Anna aveva il dono di queste percezioni insolite e ingiustificabili. Aveva fatto, raccontava, un patto con un’amica che la prima di loro due che fosse andata nell’al di là, si sarebbe dovuta presentare per un saluto all’altra. L’amica morì davvero, mentre Anna era ad Ostigliano e, rispettando l’accordo, le apparve che la salutava, stando fuori della finestra, sospesa nell’aria. Anna ancora ignorava che fosse morta, così volle controllare e il giorno dopo seppe che era veramente trapassata a quell’ora. Anna, pur essendo virtuosa, temeva Satana, lo percepiva come il Nemico. E non è strano, poiché anche Gesù, in tutta la sua vita lottò contro il Maligno tanto da scacciarne gli spiriti e liberarne gli uomini infestati. Ma quando lo stesso Gesù era poi ritornato, e si era aggiunto alle altre due Divine persone in RU, ora in lui padroneggiava a tal punto la situazione da non averne alcuna paura. La storia umana è un agguato, teso in una suprema lotta tra il Bene e il Male, ma non atterrirebbe nessuno, se sapessero che è solo una questione oggettiva, che esiste in un progetto, mentre ogni anima che gli dà vita è divinamente al di sopra di tutto questo, come lo è un puro punto geometrico di osservazione, privo di ogni dimensione, sia di tempo, sia di spazio e che è al di sopra dei loro limiti.

1946

Nel 1946 Gildo, Antonio, Teresa e Mimì Polverino erano divenuti amici di RU-BEN a 8 anni, e 5, ma non per l’esposizione che avevano fatto dei giocattoli, bensì essendo gli unici ragazzi che abitavano nelle case vicine. Il primo viveva nella Torretta posta alla metà del viale che dalla strada portava alla “villa”, gli altri tre Polverino nell’unica casa situata a fianco di quella presa in affitto dagli Amodeo. In Villa Cajafa, la famiglia accrebbe di numero; a loro 4 più Peppina Mollo, la domestica ormai venticinquenne che aveva seguito la famiglia quando si era spostata da Felitto, si aggiunsero Gennaro ed Anna, figli di Rosina Baratta. “Salvami questo figlio dalla strada” aveva detto Rosina a sua sorella Anna, a proposito di Gennaro, perché in paese era vivace per lo meno quanto RU, un ragazzaccio che non voleva nemmeno andare a scuola. Una volta che c’era stato un diverbio, ad Ostigliano, il bimbo, più piccolo d’un anno e mezzo, per superare la differenza d’età e di forza, non aveva esitato a prendere il cugino a sassate. Fu l’unica lotta tra i due in tutta la vita. Divenne il suo secondo fratello.


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Rosina aveva avuto 7 figli, così ne aveva smistati due alla sua sorella che viveva in città e poteva dar loro un migliore futuro, e al maschio così si aggiunse Anna, la maggiore, che aveva due anni più di Romano. Poi c’erano durante l’anno scolastico, tre altri felittesi, che erano accolti dalla famiglia come se essa fosse un convitto. Si chiamavano Sabato Lingardo, insieme ad un Vincenzo e ad un Galasso di cui è sfuggito il cognome nel primo e il nome nel secondo. Erano giovani felittesi che avevano voluto seguire il loro antico maestro, e che la famiglia ospitava, ed assisteva negli studi medi e superiori, che potevano fare solo a Salerno. In tutto una piccola comunità di tre adulti e sette ragazzi, dieci persone, che potevano vivere in quella casa che Gino aveva incrementato nelle possibilità ricettive, tramezzando gli ampi locali con divisori di legno e masonite. I tre studenti tornavano a casa loro, quando veniva l’estate e allora la famiglia Amodeo riceveva da Milano tre graditissime ospiti: la sorella di Gino, Antonietta Amodeo e la sua figlia dodicenne, Fiordaliso Venturelli, detta Lisetta, e Carla, figlia di Carlo, che passavano con loro l’estate a fare i bagni. Carla è vicina a RU. A BEN Lisetta. Qui sotto vedete come era prima che l’alluvione del 54 portasse via tutta la zona tra la Torretta e la casa, creando un vallone e facendo sparire ciò che era un tempo.

Per andare al mare si scendeva per 100 metri circa, o per l scorciatoia di un viottolo tra rocce molto ripide, o per la strada, passando per la lunga scala del quartiere Olivieri. Gli stabilimenti balneari erano lì sotto, tra il vecchio porto e il tratto roccioso verso Vietri. Il viottolo era agevole all’andata meno al ritorno, quando il caldo picchiava e l’arrampicata vanificava tutta la frescura ottenuta con i bagni della giornata. Si affittava una cabina, per tutta l’estate, al bagno Lido, e spesso si restava al mare tutto il giorno, mangiando nella cabina, o sotto la tettoia antistante. Cabine ampie, che permettevano la presenza d’un tavolo per sei persone.

IL MALIGNO TENTÒ IN OGNI MODO DI IMPEDIRE R-U-BEN AVEVA TENTATO CON LA BRONCOPOLMONITE IL 4-6-1940. Ma la Madonna aveva resuscitato RU, e concepito BEN. TENTÒ DI DIVIDERE R-U-BEN CON LA GELOSIA La cugina Lisetta giocava solo con Benito, che aveva cinque anni meno di lei ed era il beniamino di tutti. Anche lo zio Antonio, quando andava a trovarli, vedeva e aveva parole e attenzioni solo per lui. Alcune sere Gino si cacciava nella prima sala, chiudeva ogni luce e quella diveniva l’occasione per stampare e sviluppare tutte le fotografie che aveva fatto, e che ingrandiva, con l’ingranditore costruito da lui. Certe volte tutti erano invitati e dovevano assistere alle sue operazioni, quasi nel buio assoluto, quando le pellicole d’una volta erano sensibili a tutte le radiazioni luminose, escluso una luce rossa, così fioca, che non faceva scorgere quasi nulla. Nel buio, quasi assoluto, quando Lisetta cominciava a giocare solo con Benito, faceva divenire RU così geloso, di lei e del fratellino, che ne soffriva. Non sapendo come fare per porre fine a questo stato, RU aveva sperato che, prendendo in giro BEN, sostenendo che lui ci teneva in modo particolare a quelle moine, esse smettessero grazie alla resa del fratello. Non aveva mai provato, prima, alcuna gelosia per lui da quando era nato.


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TENTÒ DI DIVIDERE R-U-BEN CON LA GEENNA DI RO. Quando Anna convinse Gino ad accogliere tra loro GENNARO, non si accorse che il Maligno tentava di dividere R-U-BEN introducendo la GEENA insita nello stesso nome di Genna-Ro. E Gennaro, senza volerlo, li allontanò. Infatti RU si trovò compensato quando la famiglia allargò e trovò attenzioni per se stesso.. All’interno dalla quotidianità dei rapporti tra quelle 10 persone, Romano espandeva tutta la sua creatività, dominando in lungo e in largo, con la notevole e schietta esuberanza, d’ogni bimbo che si senta amato. E Benito, dal canto suo, sentiva quella sorta di sudditanza verso il fratello come una cosa naturale, che era esistita da sempre, e vi si adeguava, riuscendo a trovare ampi spazi di autonomia. Da lui – del resto – non si aspettavano grandi novità. In tutte le questioni egli veniva sempre dopo che il fratello aveva dissodato ogni forma di terreno, per cui il suo sviluppo fu molto più libero di quanto non fosse stato quello del fratello. E questo si traduceva in una spontaneità che poi aveva e che lo rendeva subito gradito a tutti quanti. RU, trovandosi invece in una condizione tale da dovere essere sempre il primo, finiva per essere più controllato e in un certo senso era anche intimidito dalla possibilità dei fallimenti in tutti i nuovi tentativi che faceva. Il giardino della casa era oggetto d’interminabili partite a bocce, tra R-U-BEN e il loro padre, lungo il vialetto centrale, che s’interrompeva contro la gran pianta di fico, collocata al centro del giardino e contornata da un’aiuola; sporadicamente vi partecipava anche Anna, troppo impegnata dalle pratiche domestiche. Dopo un po’, avevano convenuto come quel vialetto, in terra battuta, fosse troppo irregolare, allora lo avevano zappato, avevano setacciato tutta la terra, in modo da eliminare ogni sassolino e infine avevano ricreato il piano, in modo che fosse il più possibile simile ad un campo per il gioco delle bocce, rimettendo in sesto le piastrelle, che facevano da margine. Anna pure era intervenuta a modificare quello spazio all’aperto, chiamando dei muratori che avevano creato, in calcestruzzo composto da soli sassolini, un ricovero chiuso ad un’estremità, di fianco alla finestra del bagno, che prendeva aria sul giardino, un lungo corridoio lungo tutto il fianco a monte, ed un altro ricovero chiuso dall’altra parte. Nel primo aveva insediato un maiale e nell’altro una torma di galline, che razzolavano, nel lungo corridoio posto tra le due rudimentali stalle. Alla fine dell’anno, quando la povera bestia era ingrassata con tutti i rifiuti dei pranzi della famiglia, serviva lui da pranzo. Quale modo disumano si usava per non contaminare le carni con il sangue! Doveva morire dissanguato, così il suo cuore vivo doveva disperatamente pompare sangue finché uscisse tutto dalla gola, mentre, appeso a testa in giù, era sgozzato e il liquido rosso usciva ed era raccolto, per farne poi il sanguinaccio...e urlava, grugniva disperato... una azione davvero disumana! Migliore era la sorte delle galline, allevate a fare le uova, ma non dei galli che tuttavia almeno morivano subito, appena gli si turava il collo.

Gino si godeva interamente i figli, in quel luogo così appartato, nel quale si ritirava dopo d’avere insegnato a Nocera Inferiore. Trascorreva a casa tutto il pomeriggio e lo dedicava a R-U-BEN, giocando e passando il tempo con loro. La domenica la famiglia andava a Salerno e lì partecipavano a una gara, organizzata da un chiosco che aveva, in bella mostra, una bicicletta, primo premio, bambole e tante, tante bottiglie di tutti i tipi: vini, spumanti, liquori. Erano staccati e venduti i biglietti d’una lotteria e i vincitori dovevano scegliere una busta, contenente in segreto l’indicazione dei premi, tra i quali la stessa bicicletta. Poi il banditore iniziava una divertente trattativa, in cui proponeva la scelta tra premi, offerti da lui, in cambio di quello ignoto nella busta, oppure no: la busta. Molte volte, la famiglia di R-U-BEN aveva vinto – ma mai la bicicletta – e così in casa abbondavano bottiglie di Strega e altri liquori entrati in casa così. Ammaliato da quel gioco, RU, che, appena riceveva uno stimolo, subito era coinvolto in modo creativo a intervenire lui pure, costruì un banchetto, con bamboline, e altri giocattoli fatti da lui, e faceva il giro delle famiglie, di quel luogo, per farli giocare al suo gioco della busta. Nel 1945 il primogenito aveva sette anni e frequentava il secondo anno nella scuola elementare, andando con la madre a Raito, un paesino della Costiera Amalfitana, poco oltre Vietri, dove lei aveva avuto il trasferimento. TENTÒ DI MUTARE RU IN UN VERO IMPERTINENTE. Quando la famiglia si recava a Ostigliano, il ragazzino correva a briglia sciolta in quel lungo periodo d’assenza dalla scuola, legato alle festività di Natale, e diveniva il capobanda di tutti i cuginetti che arruolava. A sette anni, una sera bambini e bambine si trovavano a dormire assieme in un gran letto, e lui si mise a ispezionare furtivamente e senza che lei si accorgesse, il sesso di sua cugina, la bellissima Teresina. Un'altra, vedendo il grosso sedere di sua zia Giovannina, china sul fuoco del camino mentre cucinava, si avvicinò di soppiatto e le diede una sculacciata irriverente e pericolosa, dato che lei stava armeggiando sul fuoco. Lei che per fortuna si era accorta, diede in un urlo, ma solo per dargli la soddisfazione d’aver ricevuto un grave affronto da quel nipotino birbante. TENTÒ DI MUTARE RU IN UN PERICOLOSO IMPERTINENTE: RU, girando in lungo e in largo per quella casa, vide il bottaro,e si calò lì, nel grano tenuto dentro tini giganteschi, che per fortuna sua non erano tanto profondi da sommergerlo interamente, mentre vi sprofondava. In R-U-BEN tanto il 2° era cauto e giudizioso, così al 1° – che era il suo esatto reciproco – mancava totalmente il senso del pericolo. Rapito, si fermava a studiare la produzione dell’olio d’oliva, che era fatta in quella casa, con due macine in pietra che


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giravano in coppia e strizzavano il succo, tra i feltri a più strati in cui erano state disposte le olive, e non badava troppo a starne lontano. Le sere in cui la nonna Tresina, intorno al fuoco del camino, si metteva a raccontare le sue storie di Piruontolo, versione ostiglianese del ragazzetto furbo e tonto allo stesso tempo, che ne subisce e ne fa di tutti i colori, erano per Romanuccio una delizia, ma forse lei glie le raccontava alludendo a lui. . SATANA AVEVA TENTATO DI FAR PERECIPITARE RU. Zia Emilia era entrata in suo aiuto impedendo quel crimine. SATANA FECE ALLORA CADERE RU DA UN’AUTO IN CORSA. In R-U-BEN mentre il 2° a 5 anni stava a osservare, il 1° - visto come la strada in fondo a quel paese aveva una strettoia e una curva ad angolo che induceva le pochissime Balilla che vi passavano ad andare a passo d’uomo – si attaccò alla ruota di scorta montata sul fondo, all'esterno, in modo verticale, tenendo le ginocchia sul cerchione mentre abbracciava la ruota. L'auto, superata la curva, imboccò il lungo rettifilo che portava fuori dal paese, e allora doveva scendere, ma come? Se fosse stato BEN avrebbe richiamato l’attenzione del pilota. Ma era il suo reciproco e decise di lasciarsi cadere, senza aspettare nemmeno che arrivasse un’altra curva. Così, andando a 50 chilometri l’ora, rotolò battendo testa e piedi. Lo fece per un gran numero di volte, finché si fermò dopo una ventina di metri. Si alzò graffiato da tutte le parti dai sassi vivi della strada, ma incolume. TENTÒ DI FARLO PRECIPITARE DA UN ALTO PERGOLATO Sempre a Ostigliano, R-U-BEN, mentre BEN pensava ai fatti suoi, RU notò che il pergolato della grande vigna, che ricopriva l’ampia terrazza della casa dei nonni, nascesse dal terreno, cinque metri sotto e vi salisse. Saggiò la forza e notò che il fusto reggeva al suo peso. La casa, in un punto, aveva un passaggio obbligato e chi transitava, per entrare in casa, doveva poi passare nuovamente di lì, per uscirne. Allora decise di ricambiare uno scherzo alla nonna, che sempre lo faceva con lui quando, per farglielo bere crudo, gli diceva “Hai fatto l’uovo” e l’estraeva dalla mano portata tra le cosce di RU. Sua nonna era lì, in quel punto della casa... Allora passò davanti a lei, entrando. Si diresse veloce sulla terrazza, s’aggrappò al fusto della vite e si calò per 5 metri, al suolo; entrò nella casa e passò nuovamente davanti alla nonna.

Lei non si accorse come fosse entrato due volte senza prima uscire. Fu al terzo passaggio che la nonna notò, sbigottita, la stranezza... Ma come faceva? E lo seguì, di soppiatto. Lo vide.. Si spaventò a morte. Fece tagliare la vite. La terrazza così restò senza il secolare pergolato, che l’aveva protetta dai raggi del sole, portando anche una notevole quantità d’uva, quando era la stagione. E il Maligno, attentato alla vita di Romano, si dové contentare della vite. TENTÒ DI METTERGI CONTRO IL PADRE A dieci anni spinse il bambino a compiere una vera bravata: a entrare dalla finestra nel bar sotto quella terrazza, al quale si accedeva dalla piazzetta, per giocare a quel biliardino proprietà di suo zio Antonio, che aveva usato molte volte, e che era stato venduto al barista, Don Raffaele Minella. A capo di una torma di ragazzini, tutti suoi cuginetti, entro dalla finestra e – bypassando il sistema a monete che regolava la discesa delle palline – si mise a giocare e a fare chiasso. Da fuori era impossibile che non sentissero, ma capirono chi erano quei ragazzini. Così, quando lo stesso Raffaele Minella col suo biroccio andò alla stazione di Rutino a prendere il padre, gli raccontò cosa aveva combinato suo figlio. Quando RU corse incontro a suo padre per un grosso abbraccio, ebbe un ceffone tale che lo scaraventò in terra. Fu una delle sole due volte che suo padre fu costretto a mettergli le mani addosso. La seconda la vedremo. Il male, che cosa era? Il ragazzo nemmeno ne prefigurava l’esistenza! Viveva una innocenza tale che poi realmente si tramutava in vera e propria incoscienza. TENTÒ DI DARGLI FUOCO Comperava a Salerno delle cartine che percosse facevano gran botti, le portava a Ostigliano e mutava i suoi cugini in venditori facendo affari d’oro... ma un dì gli esplosero tutte nella sua tasca dei pantaloncini. Si vide avvolto tra le fiamme. Ci vollero 3 mesi perché la carne bruciata si rigenerasse e la profonda piaga, si rimarginasse, crosta dopo crosta, finché quel liquido giallastro e purulento che restava sempre al di sotto, non scomparve. Prodotta per gli spari, gli restò una cicatrice in rilievo, a futura memoria, a forma esatta di pistola, sulla coscia destra, all’attaccatura dell’inguine, all’altezza di quella tasca che aveva contenuto i petardi. Solo dopo decenni si sarebbe appiattita, afflosciandosi. TENTÒ D’INFETTARLO CON IL FUMO: A Ostigliano convinse tutti i suoi cugini a raccogliere mozziconi di sigarette per utilizzare il tabacco residuo e fumarselo tutti insieme. Zio Antonio li sorprese e azzerò il tentativo fatto da Satana con il fumo.


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TENTÒ D’UCCIDERLO CON UNA SCOSSA ELETTRICA: Aiutando suo padre a riparare un fornellino elettrico, lo appoggiò su un secchio di ferro, capovolto, che per un corto circuito si fuse per un centimetro: RU lo teneva per i manici che erano protetti ed ebbe salva la vita. TENTÒ DI FARLO ANNEGARE. A 10 anni non sapeva nuotare. La GEENA di RO gli propose una gara a chi era più bravo a raggiungere uno zoccolo di legno lanciato in acqua dove si toccava. Ma il Maligno aveva i giorni prima con una mareggiata mutato il fondo del mare e lì non si toccava più. RU aiutato dal Signore riuscì a riguadagnare la riva e fece salvare da Zia Emilia Gennaro dall’annegamento. TENTÒ DI METTERGLI LE MANI ADDOSSO CON LA MAGIA. Nell’dea che avesse il malocchio lanciatogli contro da qualcuno, RU, si vide unto dalla zia ‘Ndina, la compagna di zio Mauro, che, con una lucerna, alimentata dall’olio che umidificava uno stoppino, pronunciò chissà quale formula magica! La magia non servì a molto: ci voleva ben altro contro RU: perdurò a non avvertire in alcun modo la paura e seguitò ad essere così, per tutta la vita, lanciandosi sempre in acque dove avrebbe potuto annegare, pur avendo imparato il nuoto alla perfezione. TENTÒ DI FARLO BASTONARE DA VINCENZO. A Salerno, in villa Cajafa, ai ragazzi era proibito d’andare nello spazio retrostante alla Torretta. C’era uno strapiombo in cui potevano cadere. Il passaggio era impedito solo da una sbarra di ferro, che però poteva essere aggirata. Così RU insegnò ai compagni come fare e se li portò dove c’era il pericolo, nel rinnovato tentativo del maligno di farli precipitare. Giunse Vincenzo Pastore, che gestiva quel luogo, e assumeva aspetti minacciosi, con quei ragazzi, per farsi temere e ascoltare. Tutti fuggirono, tranne Romano. L’adulto prese da terra una mazza e con quella lo minacciò, facendo la mossa di dargli una bastonata. Credeva che il bimbo fuggisse; ma RU alzò il braccio con la mano aperta per afferrare il bastone e così opporsi a quel colpo. Se fosse stato un bastone e non il fusto d’una pianta di mais, si sarebbe fatto male. Invece quella si ruppe e una parte gli restò nella mano. TENTÒ DI FARLO PUNIRE DA UN AUTOMOBILISTA. Un’altra volta, RU andava con Gildo, l’amico che abitava in quella torretta, a prendere il latte in città. Con due bottiglie, di quelle di vetro con il collo largo, che si usavano una volta ed erano chiuse con la stagnola. Le riempirono d’acqua nella fontana della zona Olivieri. Alcune centinaia di metri dopo, sopraggiunse un’automobile. RU si voltò di scatto e, nelle strana concezione che aveva lui dei veicoli, come se fossero degli inespugnabili carri armati, decise di lavarne uno, e fece il gesto di svuotargli contro

l’acqua di quella bottiglia. Essa uscì tutta e brillò al sole con il suo fiotto... che entrò tutto, in quell’auto scoperta... Stridore di freni, l’auto si bloccò e ne scese il conducente, inferocito. Gildo si spaventò e scappò, e l'uomo rincorse lui che fuggiva, mentre Romano, imperterrito, era restato lì. Gildo, per fortuna sua, non si fece raggiungere, altrimenti avrebbe pagato per le colpe del suo amico. Colpe che il Diavolo voleva scaricare sempre sulle spalle di RU, ma la disarmante innocenza disinnescava sempre il pericolo. Incoscienza pura di che cosa fosse il male, fatto a se stesso e ad altri. Questa caratteristica, del ragazzo, era senza alcuna possibile giustificazione, perché, per altri versi, era una persona intelligente, attenta, insomma normale. Solo pensando al fatto ch’egli era davvero un sopravvissuto, alla sua stessa morte, e che quindi realmente non ne aveva più paura, solo questo poteva dare una spiegazione, ragionevole, ad un comportamento in apparenza così avventato. TENTÒ DI METTERGLI CONTRO ZIA EMILIA. Il tentativo del demonio di farlo annegare, sortì l’effetto d’insegnargli a nuotare, sull’acque e sott’acqua con una notevole apnea, grazie alla quale iniziò ad immergersi, a nuotare sott’acqua, riuscendo a percorrere tratti sempre più lunghi prima d’emergere. Visto che una ne pensava e cento ne faceva, per la capacità acquisita, decise di giocare un simpatico scherzo – secondo lui! – alla zia Emilia. La chiamò, per farle vedere come fosse capace di nuotare sott’acqua. Aveva già studiato tutto un tragitto protetto alla vista, perciò prese un gran fiato, s’immerse e percorse una notevole distanza, fino ad emergere sotto una barca capovolta nell’acqua, che conservava al suo interno una bolla d’aria respirabile. Stette lì il tempo d’un altro respiro e s’immerse nuovamente, invisibile a tutti, emergendo dietro una barca posta ancora più lontano. Viaggiando sott’acqua e sempre emergendo in modo da non essere scorto, uscì poi tranquillamente, a quasi cento metri dal punto di spiaggia in cui si era immerso, lì ove sua zia non aspettava più ormai che riemergesse, sicura che gli fosse venuto un malore e fosse annegato. Risalito a riva, rientrò a piedi in quel punto, trovandovi gente accorsa alle grida della zia, che non sapeva cosa più altro fare. Le si avvicinò da dietro e le chiese: “Cosa c’è? Che succede?”. Quando lei lo vide vivo e salvo non seppe che pensare, se punirlo o abbracciarlo. Ma come aveva fatto? Saputo alla fine cosa e come, scherzando in quel modo così cattivo e feroce con lei, non riusciva più a perdonarglielo! Le aveva provocato una paura indicibile, e non solo per l’affetto che aveva per lui, ma soprattutto poiché tutti i ragazzi erano sotto la sua personale responsabilità.


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TENTÒ DI METTERGLI CONTRO IL PADRE. Un giorno Romano ci provò, anche con il padre. Gli rivelò che sarebbe andato a nuoto fino ad una barca molto in là nel mare (troppo, per Gino che si manteneva appena a galla) e che avrebbe saputo raccogliere la sabbia dal fondo, anche da lì. Il padre glielo proibì. Il ragazzo finse d’ubbidire, ma giunse a nuoto fino lì, salì su quella barca e si mise a gridare come un ossesso perché il padre l’udisse. Quando riuscì ad attrarre la sua attenzione e vide che egli lo guardava, seguendolo attentamente, prese un gran respiro e si tuffò dalla barca, raggiunse il fondo, afferrò una manciata di sabbia e riemerse. Salì di nuovo sulla barca e, gridando a gran voce “Papà!” gli mostrò la sabbia, raccolta con la mano, mentre egli la faceva cadere. Ritornò a riva. Il padre gli si avvicinò complimentoso. Meritava un premio, per quella sua bravura, così gli disse di seguirlo in cabina e RU lo fece, aspettandosi chissà cosa. Giunti lì, Gino chiuse la porta, sfilò la cinghia dai suoi pantaloni appesi agli uncini e, con quella, iniziò a sferzare senza pietà quell’avventato del figlio, che teneva per mano con la sinistra e gli girava intorno, nel tentativo di rendere meno dolorose le cinghiate che gl'impartiva con la mano destra. Fu la seconda ed ultima volta in cui suo padre lo picchiò. TENTÒ DI FARLO BLOCCARE DAI GUARDIANI DELLE COZZE. Questa capacità di nuoto subacqueo di Romano presto fu usata da Gildo, Antonio, Mimì e gli altri compagni che aveva, per sgraffignare cozze coltivate verso Vietri e sorvegliate dalla barche. I ragazzi nuotavano fino lì e si fermavano a distanza, tanto da non destare l’attenzione di chi vigilava su quell’allevamento. Ad un certo punto, cominciavano a giocare, spruzzandosi acqua, ed uno degli amici, su segnale di RU, gli dava una gran calata. Il ragazzo percorreva sott’acqua la distanza fino ad una fune e, se era fortunato, trovava grosse cozze da staccare, con le dita, anche tagliandosele leggermente... ma non se ne preoccupava. Ne riusciva a staccare qualcuna, l’infilava nel costume, e poi rientrava, sempre percorrendo sott’acqua il tragitto fatto prima. Riemergeva tra gli amici, dava loro quel magrissimo bottino e, dopo un’altra calata, il gesto era ripetuto. È un gesto che si chiama furto. Se qualcuno glielo avesse detto, spiegato, fatto capire, che quella era veramente l’azione d’un ladro, non l’avrebbe compiuta. In mancanza di ciò la percepiva solo come una innocente bravata. Quanti giochi su quella spiaggia di Salerno, collocata tra il vecchio porto e la costa ripida di Vietri sul Mare: interminabili gare a tappi d’aranciate e gazzose, che erano combattute sulle originali piste a gironi (come quelli del Purgatorio dantesco).

Le costruiva Romano, per tutti, sempre più alte, con cumuli di sabbia, attorno ai pali che sorreggevano le ampie cabine che permettevano il soggiorno, dall’alba al tramonto, consentendo un pranzo che aveva la stessa spesa d’uno preparato a casa. TENTÒ DI ELIMINARLO, INFETTATO DA UN CHIODO. Un dì si ferì, facendo il bagno, con un chiodo arrugginito ch’era sul fondo sabbioso. La sua gamba s’infettò e l’infezione si concentrò in una glandola linfatica dell’inguine, la quale s’ingrossò e richiese l’intervento del chirurgo. Bisognava passare uno stoppino, nella glandola e, facendolo scorrere in essa, da un lato all’altro, asportare tutto il pus che aveva dentro. L’intervento doveva essere compiuto in casa e tutti si erano messi addosso al ragazzino, per tenerlo fermo, sul tavolo da pranzo trasformato in tavolo operatorio. Erano in molti, adulti, lì, tutti attorno, a cercare d’immobilizzarlo, e non ci riuscivano, perché RU non voleva subire quella violenza, fatta in quel modo, da tutti e si dibatteva più forte di loro. Visto che doveva accadere, infine il ragazzo si arrese e spiegò a quei grandi che dovevano stare tutti indietro, perché da solo sarebbe stato capace di stare fermo; da solo avrebbe resistito al dolore, durante tutto l’intervento, fatto senza anestetici. Dovevano solo togliersi dattorno e lasciarlo libero. Suo padre lo conosceva bene e, per quanto a tutti sembrasse impossibile che così piccolo mantenesse la promessa, gli diede credito e comandò a tutti che si facessero indietro e ne lasciassero le mani, le gambe, il busto, ogni cosa che, nella tema d’un movimento, doveva restare ferma, in quel ragazzo, mentre il dottore avrebbe bucato esattamente là dove doveva. Romano restò fermo, immobile. L’osservazione di quanto era fatto al suo corpo, gli fece capire la netta divisione che esiste, tra chi osserva e chi patisce, tanto che se l’io si mette ad osservare, e riesce a farlo con vero distacco, attua in modo autorevole lo stesso distacco che poi i farmaci e gli anestetici riescono a fare mediante la chimica. Nota 8. COME SATANA AVREBBE TENTATO ANCORA IN FUTURO DI FARLO FUORI: Facendolo aggredire. Mandandogli un tumore. Facendogli decidere da solo di rinnegare se stesso Facendolo fallire in tutto, come impresario, come uomo, come marito. Facendogli perdere la stima di tutti Inducendolo a digiuni di 57, 55 e 80 giorni. Poi di 45, 15 e 13 giorni per altri motivi. Facendolo cacciare da un Coro della Chiesa Facendolo uccidere due volte per 33 giorni, in parte delle sue cellule ed epitassi cerebrali. Facendolo investire per ben due volte: da un grosso pullman e da un’automobile. Facendolo saltare con la sua casa per una bombola di metano che avrebbe preso fuoco.


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1947

Nel 47, R-U-BEN furono entrambi a scuola a Salerno: a 9 anni RU s’era staccato da sua madre a Raito e frequentò la IV elementare, mentre BEN la prima. La mattina percorrevano a piedi, o con la filovia, i due chilometri circa tra la casa e la scuola Barra di Salerno. Le strade pullulavano di soldati americani e Anna aveva detto a RU che sei chiedeva «Ghiv me di ciocolat’» a uno di loro avrebbe avuto in dono della cioccolata ... In quella che era divenuta per qualche tempo la sede del Regno dell’Italia, gli Statunitensi facevano di tutto per entrare nelle grazie della popolazione. Fece a Salerno solo la quarta, poi sostenne e superò l’esame d’ammissione alla media. Nel ricordo di RU non restò nessun compagno di scuola in quell’anno trascorso in quella scuola. Rammentava solo che lì c’era la refezione e che, per l’appetito, imparò a gradire proprio in quell’occasione la pasta e fagioli, scotta e densa, che era servita loro dalle mense, presentata non certo in un modo ideale, ma così soddisfacente rispetto all’appetito, che gli è rimasto finora, da allora, il gusto per tutto quanto ha oltrepassato di gran lunga la cottura e si presenta come un polpettone che per altri è immangiabile.

Quell’anno R-U-BEN fecero un viaggio nel Nord dell’Italia, poiché Carlo, il fratello maggiore di Gino che abitava a Bodio, sul lago di Varese,, restato vedovo e padre di due bambine, Carla e Giannina, si sposava con la cognata, a Milano. Eccoli nella città lombarda, dalle parti di porta Ticinese. Coi due fratelli anche della generazione prima della loro. Milano, la città da cui veniva Gino era cara ai suoi due figli, che già a Salerno erano accaniti tifosi del Milan, la squadra di calcio che giocava in serie A ed aveva il nome stesso della città (l’altra, l’Inter, era venuta fuori da soci dissidenti del Milan e da sempre era ormai la sua spina nel fianco). La Salernitana, che giocava nelle serie inferiori, per R-U-BEN, nati le salernitano, quasi non esisteva. Lo sport che colpiva interamente tutta la fantasia di R-U-BEN era il ciclismo. Fausto Coppi compiva le sue gesta e tutti gli uomini di casa toccavano il settimo cielo quando alla radio si sentiva che “Un uomo solo è in fuga Dopo due stagioni formidabili, Coppi poco alla volta aveva cominciato a risparmiarsi, accusava ritardi, metteva tutti in apprensione: “Ma cosa aspetta? Mancano solo poche gare ancora...” Poi finalmente si decideva e riusciva a recuperare minuti di ritardo, nell’ultima salita, o in quella del giorno dopo, quando pareva ormai fuggita la grand’occasione del famoso tappone. R-U-BEN erano piccoli, ma il loro tifo per Coppi non era inferiore a quello d’un grande. Quando veniva la stagione si attaccavano alla radio e partecipavano al giro, al Tour de France. Su quella primitiva radio un giorno era stata trasmessa, qualche anno prima, la notizia che Mussolini era stato ucciso. RU, che aveva solo 7 anni, era stato colpito dalla gioia che parve cogliesse i suoi genitori, che pure erano stati tanto convinti assertori e difensori che i nomi dei due figli erano stati Romano e Benito. Certamente avevano riconsiderato ogni cosa, alla luce della divisione fatta dell’Italia con la Repubblica di Salò.


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Quella notizia, in sostanza, era parsa il miglior mezza per cui la guerra finisse. Gino un giorno realizzò con uno straccio dei rudimentali guanti per il pugilato. Egli n’aveva tirato un po’, a Milano, da giovane, e ora cercava di giocarci con i figli. Ebbene Benito era più ficcante del fratello che aveva tre anni più di lui. RU non riteneva d’avvalersi della sua forza e il fratellino, fiducioso, andava allo sbaraglio contro di lui e lo costringeva a retrocedere. Ogni tanto andava a trovarli lo zio Antonio. Una volta, vista una palla di gomma, palleggiò con quella e restava sempre in aria, ora sospintavi da un piede, ora dall’altro, ora da un ginocchio, dalla testa... non cadeva più per terra. RU ne restò impressionato e più d’una volta, ricordando la bravura di quel suo zio, quando nessuno lo vedeva, provò a farlo anche lui. No, era troppo difficile e, stranamente, per un tipo come lui, accorgendosi come non vi riuscisse, subito si arrendeva. Suo zio era un fumatore accanito. Frugandogli di nascosto nelle tasche, Romano osservava la bellezza di quei pacchetti di sigarette. Le tirava fuori, quando il pacchetto era aperto, belle, bianche, con il filtro che sembrava d’oro. In una delle mattine in cui andava a scuola, percorrendo la strada a piedi che portava alla Media di Largo del campo, solitamente acquistando lo spasso, dei cartocci a forma di cono nei quali i negozianti avevano messo semi di zucca, crudi e senza sale, da mangiare, uno per uno, strizzandoli tra i denti e facendo uscire il seme dalla sua rigida e fragile scorza, RU vide che erano in vendita anche le sigarette. Ne ordinò un pacchetto, affermando che erano per suo zio. Tanta era stata la naturalezza del gesto e così il negoziante sapeva che il suo spasso non era fumare, ma passare il tempo con quei semi, che gli diede quanto chiesto da quel bimbo di 12 anni. Romano si chiuse nel gabinetto di casa, quando vi giunse e, tratta fuori una sigaretta, iniziò a tirare grosse boccate. Non aspirava il fumo, era contro il suo stesso istinto, ma, entrato nella sua bocca, lo estrometteva sbuffando, soffiando, in tutti i modi, per cercare di capire ed assaporare il gusto che ci mettevano gli altri. Dopo un po’ lo raccontò a Sabato, ed anche il suo amico, che aveva 4 anni più di lui, lo seguì in quel luogo, che divenne una fumeria. Il fumo usciva dalla finestra, sul giardino e Gino si accorse di che cosa stava accadendo. Allora chiamò RU e gli domandò: “Perché ti chiudi e fumi di nascosto? Vuoi fumare? E fallo davanti a tutti!” Saputo che era una cosa lecita e permessa, in quel modo, da sua padre, il fumare perse l’ultimo interesse che Romano aveva saputo provare, fumando in quel modo, ed era l’ebbrezza d’una sorta di sfida ad un divieto. Così non fumò più. Ora non è che Gino voleva che fumasse, ma conoscendo bene il figlio, ne aveva capito gli interessi ed aveva usato la giusta psicologia, per correggerlo senza inibirlo, anzi, proprio attraverso il senso dato a lui della sua libertà.

1948

Papà e mamma tra R-U-BEN R-U-BEN nel 1° sostenne a giugno l’esame d’ammissione alla media, e a ottobre entrò nella scuola di Largo del Campo; nel 2° era alla 3a delle elementari. I loro genitori, poco alla volta, avrebbero abbandonato la vigilanza su RU, nel tentativo di dargli responsabilità, e lui avrebbe iniziato a studiare... sempre meno. Era annoiato dal fatto di dovere mandare a memoria le nozioni altrui e cercava di ridurre la sua applicazione sempre più all’essenziale, stando attendo soprattutto alle lezioni e non studiando quasi nulla a casa. Le sue pagelle però avrebbero soddisfatto i suoi genitori, essendo nonostante questo tra i più bravi della classe. Tra gli studenti della media trovò un’attenzione ed un affetto reciproco tale che una volta che Romano ebbe un 5 cui rimediare, l’intera classe insisté con il professore perché fosse interrogato di nuovo e potesse tornare ai suoi soliti livelli.


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Che unione tra R-U-BEN e il papà! Nei periodi del Natale erano le carte a farla da padrone. Si giocava a Marianna, a Tressette a ciapà-no, a scopa, a crepacuore. Il momento più importante e più atteso da R-U-BEN era per le partite fatte alla sera, con l’intervento anche di qualche ospite, e allora si giocava a Cucù! Erano distribuiti 5 pegni ad ogni giocatore, in cambio della posta messa in gioco da un gruppo solitamente numeroso. A quel punto ad ogni partecipante il mazzaro distribuiva una carta e, a partire dal primo giocatore cui l’aveva data, quegli doveva decidere se volere tenerla o cercare di cambiarla con chi veniva dopo di lui. Questi, ricevuta la domanda “passo”, era obbligato a scambiare con lui la sua carta, ma se aveva una figura poteva opporsi, scoprendola e dicendo "Cucù!" Nessuno sapeva quale carta era stata l’oggetto d’un tentato scambio. A quel punto il giocatore che veniva immediatamente dopo chi aveva detto Cucù! Doveva valutare la carta data a lui in precedenza dal mazzaro. Se essa era bassa, gli conveniva tentare di cambiarla, perché, alla fine del giro, tutte le carte sarebbero state scoperte ed avrebbe pagato chi fosse stato trovato con la carta più bassa. Al termine d’ogni giro, il mazzaro, che aveva egli pure la sua carta, poteva tentare di sostituirla con la prima del mazzo. Scoperte le carte, chi pagava lo faceva restituendo uno dei 5 pegni. Poco alla volta tutti i giocatori perdevano i loro pegni ed erano esclusi dal gioco, finché esso restava con due soli, che si contendevano testa a testa l’intera posta. Chi restava con pochi pegni, poteva sempre sperare d’aumentarne il numero, grazie alla buona sorte d’aver ricevuto, dal mazzaro, un Re di denari, la Matta. Altro gioco a denari era la Peppatencia, in cui sempre erano dati pegni ai giocatori, che poi, se erano perduti, li escludevano dal gioco. Esso stava nello scambio delle carte, pizzicate, in ordine e a scelta, una alla volta, tra quelle del compagno vicino; erano allora scartate quelle accoppiate, tipo due 3, due assi... Dal mazzo era stata esclusa una carta, e nessuno sapeva quale fosse: era la Peppatencia.

Perdeva uno dei pegni, in ogni tornata, chi restava con l’unica carta che si sarebbe accoppiata solo con quella. Altro gioco, sempre nelle feste importanti in cui si partecipava a soldi, era la Stoppa, una sorta di Poker addomesticato, italico, che aveva una sua serie di lanci e rilanci dello stesso tipo. R-U-BEN, in quelle occasioni, erano i più interessati di tutti. Se le poste in gioco erano, in verità, ridicole per gli adulti, per loro piccoli, che dovevano gestire un mensile adeguato alla loro età, era un importo pari a molte volte quel loro stipendio. RU partecipava a quelle serate allo stesso modo d’un adulto ad un Casinò, trepidando, per gli eventi buoni o cattivi assicurati dalla sorte. Lo stipendio mensile di R-U-BEN era tale da far fare esperienza valida, a quei ragazzi, di cosa fosse l’economia ed una buona gestione delle risorse. Con quel danaro Romano comperava lo spasso, il Corriere dei Piccoli e tutto quanto rientrava nell’orbita, accessibile, dei suoi interessi. R-U-BEN erano tifosissimi di Coppi, e sognavano di avere una bicicletta! Ma RU era giunto, col suo mensile, solo a comperarsi dei pattini a rotelle, di produzione americana, con le ruote metalliche, ma scorrevoli tanto che li metteva ai piedi e pattinava, pattinava, in casa, girando tra i mobili, attorno al tavolo, apparecchiandolo, perfino, talvolta, con quelli ai suoi piedi. Che spasso, poi, quando arrivava chi non sapesse pattinare! R-U-BEN glieli proponevano come alle cuginette Lisetta e Carla, ospiti d’estate. Potevano adattarsi ad ogni scarpa, perché, sulla punta, avevano due ganasce, che si allargavano e stringevano ed imprigionavano le due estremità della suola di qualsiasi scarpa, senza che si staccassero. Erano pattini così scorrevoli, sulle mattonelle lisce dell’abitazione, che il malcapitato, maschio o femmina, che non li aveva mai calzati, iniziava a scomporsi, in un modo così divertente, finché finiva in terra! Cadevano tutti, impietosamente, con il sedere giù e le gambe in aria, tra le risate di tutti tranne loro.


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1949

R-U-BEN avevano 11 anni e 8 anni; il 1° frequentava la prima media alla scuola posta a Largo del Campo, il 2° la 4a delle elementari all’Istituto Barra di Salerno, entrambi con buon profitto. Un giorno RU, ormai undicenne, mentre era nel suo giardino, vide i suoi amici, che stavano guardando verso la Torretta, stranamente animati, infervorati. Corse tra loro e vide che stavano osservando, da lontano, un marinaio che, poggiato sulla porta della casa di Gildo, contro una ragazza, muoveva ritmicamente il suo bacino, dando grossi colpi contro il corpo di lei. Tutti i suoi compagni erano in fibrillazione, davanti a quella scena, così attentamente spiata... mentre lui proprio non capiva che cosa quel marinaio le stesse facendo. Per quale motivo lui si muoveva così? E perché tutti i suoi compagni erano così attenti, divertiti e ringalluzziti? Aveva 11 anni e non sapeva nulla del sesso. Alla fine i suoi amici gli spiegarono che i bambini nascevano da una mamma e si facevano così. A RU parve una cosa squallida e impossibile.

R-U-BEN erano ben progettati anche rispetto alla vita della mamma, in giorni di luce tra la nascita di lei e l’ultimo figlio Benito. Il calcolo dimostra che i metri percorsi dalla luce in un minuto secondo dovevano essere uguali al loro prodotto per tutto il 381 del valore numerico del 1°genito, espresso delle divine decine, nella realtà a 4 cifre data dal valore numerico del 1° nome Romano=66 moltiplicato per il 101 del valore numerico di Luigi Amodeo, nome del Padre. Tutto questo si doveva sommare al 1° nome di Romano diviso per le 3 persone della divina Trinità e moltiplicate per le due date da RU e da BEN. Il calcolo lo dimostra in modo ineccepibile e questa mamma nata il 29 giugno del 1.909 deve fare all’amore nel tempo dello 0,6666 richiesto proprio con Luigi Amodeo (=101) per riproporsi nel loro primo figlio Romano (=66). Un altro giorno i suoi genitori spiegarono a R-U-BEN che potevano partecipare ad un concorso. Era dato in premio un pallone. Bisognava inviare un tema su un ben determinato argomento proposto dalla casa che lo aveva bandito. Barando, i due coniugi parteciparono loro al concorso: Gino svolse il tema per RU; BEN l’ebbe scritto da Anna, e fu lei a vincere il pallone. L’allegro rompiscatole d’una volta compose un tema filosofico, mentre la filosofa sognatrice si comportò lei da allegra rompiscatole e derubarono in combutta tra loro – se quel pallone era uno solo – un bimbo che, forse, se lo sarebbe guadagnato lui, meritandoselo.


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RU, poggiato al papà, era stato battuto da Benito, sostenuto dalla mamma... Trovò allora un altro concorso, stavolta aperto a tutti e indetto dalla Marga, la fabbrica della crema da scarpe. Ogni ragazzo che avesse mandato alla Marga un disegno della scatola con una frase riferita al prodotto, avrebbe ricevuto in premio il gioco Lotte di belve ai tropici. Romano inviò il suo disegno e puntualmente lo ricevé. Era un bellissimo gioco che trovò tutta la sua dimensione nella famiglia Amodeo, con partite interminabili in cui leoni, tigri, cacciatori e mosche Tse-tse lottavano per il predominio, mettendosi in fila ed attraversando un guado. Giunte le sagome, imperscrutabili come fossero carte da gioco, al punto d’essere una contro l’altra, erano mostrate all’avversario e c’era una gerarchia di valori tale che il cacciatore mangiava tutti ma era vinto dalla sola mosca Tse-tse, mentre tutte le altre fiere dei Tropici, incontrandosi, determinavano, nel loro scontro, quale belva era mangiata dall’altra. Il vincitore era chi riusciva a superare in vario modo lo schieramento avversario. Era un misto degli scacchi, delle carte, del gioco dell’oca. Romano, visto il suo successo, decise di replicarlo più e più volte ed iniziò la frenetica produzione di disegnini, di quella scatoletta di crema da lucido e di pensierini, motti tutti diversi, di bambini dai nomi tutti differenti, ma abitanti tutti in Villa Cajafa, Via De Marinis, Vietri sul Mare, Salerno. Com’era accaduto la prima volta, vennero molte scatole di quel gioco, che poi regalò a parenti ed amici. Forse qualche scatola di Lotte di belve ai tropici ancora esiste, a distanza di mezzo secolo da allora, in casa dei suoi amici e parenti, che ne hanno interessato i figli e i nipoti.

1950

Tra gli altri giochi, praticati nella famiglia Amodeo, c’era il tennis da tavolo. Gino passava interi pomeriggi, assieme a R-U-BEN, in sfide incrociate, tornei ai quali poi partecipavano anche tutti gli altri ragazzi e giovanotti che erano ospiti della casa. Avevano un tavolo costruito da Gino con la masonite, che era poggiato sul tavolo di casa. Purtroppo i rimbalzi non erano molto regolari e le partite erano avventurose. Quante discussioni per una pallina che rimbalzava sulla retina e cadeva di qua o di là, oppure quando colpiva lo spigolo del tavolo e diventava imprendibile!

Tra Vietri sul Mare e Salerno, qui vedete padre, madre e fratellino di Romano, con il alto la Villa Cajafa in cui vivevano a poco meno di cento metri sul mare. Nel 1950 Benito era in quarta elementare, Luigi Amodeo insegnava a Cava dei Tirreni e Mariannina Baratta a Raito.


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RU, il fotografo di questo scatto, era in seconda media, penultimo anno di quel corso di studi, che avrebbe ultimato a giugno. Nel giugno dell’anno successivo a quello, superato l’esame della licenza dalla Scuola Media, si sarebbe dovuto iscrivere ad un Istituto di media superiore. A Salerno c’era solo l’Istituto Magistrale ed i suoi genitori sognavano possibilmente altri studi, sia per lui, sia per Benito, o, almeno, di dare ad entrambi una scelta maggiore. Di conseguenza RU sarebbe dovuto andare ogni giorno a Napoli, percorrendo 50 km col treno, se la famiglia non si fosse spostata di lì. Si decise così per il trasferimento da Salerno e – come si usava “democraticamente” tra loro – la questione fu posta ai voti: su un bigliettino ogni membro della famiglia doveva indicare se preferiva vivere a Napoli, a Roma oppure a Milano. Ho virgolettato l’avverbio perché poi il voto del padre valeva per due, in forza della sua paterna autorità, tanto che i due genitori valevano assieme 3 voti e i due figli solo 2. Chiaramente Gennaro ed Anna, aggregati alla famiglia Amodeo, non avevano voce in capitolo su queste scelte... Nella famiglia Amodeo la scelta della città in cui trasferirsi in futuro, tra Napoli, Roma e Milano, fu unanime per Milano, con 5 voti a 0. Ora si trattava d’ottenere il trasferimento, di papà e mamma, da un capoluogo di provincia ad uno di un’altra regione... cosa veramente così proibitiva che i due maestri decisero di rifare a Milano il Concorso magistrale già fatto anni dietro a Salerno. Se l’avessero vinto e fossero entrati in graduatoria, avrebbero ottenuto d’insegnare a Milano, o in provincia, a seconda delle scelte concesse ai vincitori, nel rispetto della loro graduatoria di merito. Vi furono circa 9.000 partecipanti e i posti erano solo alcune centinaia. Per Gino ed Anna giocavano a loro favore i punti di merito conquistati in 13 anni d’insegnamento (dal 1937 al 1950), ma anche molti altri erano nelle stesse loro condizioni. Milano e la sua provincia erano un luogo ambito in tutta Italia, il che giustificava l’alto numero stesso dei partecipanti iscritti a quel concorso, ma, a vanto delle caratteristiche genetiche della famiglia Amodeo: sui 9.000 che parteciparono, Gino fu il primo in assoluto ed Anna la nona, a sua volta prima tra tutte le donne. (Un complesso d’eccezione) Così, nel 1951, la famiglia si sarebbe trasferita a Milano.

1951

R-U-BEN erano tutti e due all’ultimo anno: delle medie RU; BEN delle scuole elementari, seguite in tutti e 5 gli anni a Salerno. Tutti e due giunsero a giugno e sostennero brillantemente i loro esami: RU fu il terzo tra i ragazzi della sua classe; BEN fu il primo, tutti e due avendo sostenuto gli esami, sia della licenza media, sia elementare. RU fu promosso con la media che arrivava a poco meno del 7. BEN fece meglio, in una scuola elementare in cui aveva appreso tutto con ordine... non come RU che la fece in 4 anni e quasi in luoghi diversi in ogni anno Gennaro era un poco più indietro di RU, avendo un anno e mezzo meno di lui. Sarebbe restato a Salerno, a Villa Cajafa, assieme a tutto il resto di quei dieci abitanti in quel momento, ossia alla domestica Peppina, ad Anna sorella di Gennaro, e ai tre studenti Sabato Vincenzo e Galasso. Iniziò così a metà giugno l’ultima estate che avrebbero trascorso lì, interamente al bel mare di Salerno presso lo stabilimento di nome Lido.


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PRIMA COMUNIONE R-U-BEN e Gennaro il 25 Agosto del 1951 fecero nella famosa Basilica della Madonna di Pompei, la loro Prima Comunione, e fu l’atto che concluse idealmente e ufficialmente i 10 anni di Paradiso della vita. Gli Amodeo con un abito preparato apposta e i pantaloni lungi; corti a casual i vestiti del cugino, così come volle o poté dargli la sua famiglia, carica di figli e di un’anziana signora, Tresa Peparola, che ospitavano nella loro casa, come se fosse una nonna della famiglia. Era stata solo la domestica ed ora, vecchia e inadatta a servire, era servita a sua volta. I Baratta, del padre, Guerino, erano dello stesso ceppo della famiglia Baratta che con solo altre tre era sopravvissuta alla peste del 1660, che aveva ridotto a 60 persone le circa 700 di prima. Quella Prima Comunione, di cui restarono le foto, fu festeggiata con una visita a Capri, su un vaporetto partito da Salerno. Come era bella la “Grotta azzurra” con la sua acqua che s’accendeva di un turchese intenso quando il barcaiolo la faceva schizzare, come fuochi d’artificio, percuotendo con il remo la superficie nella penombra della grotta. LA SVOLTA TRAGICA DELLA VITA, PER RU Fu il segno che la vita stava per assumere una differente dimensione. Accadde nell’ultima settimana d’agosto. RU e altri erano all’ombra, sotto le cabine, e vennero improvvisamente giù dall’alto, a mezzo metro da lui, due che lottavano cadendo. Avvenne tutto davanti a lui: cadde una furiosa accoltellatrice e un uomo ripetutamente colpito. Lei subito fuggì; lui si rizzò in piedi con le spalle rivolte verso RU e un foro a forma di rombo nel mezzo della schiena a 50 cm dagli occhi del ragazzo. Portò le braccia indietro, verso quella ferita, e stramazzò, davanti a RU; sembrava uno spettacolo allestito per lui. Sui giornali pubblicarono poi tutta la triste storia di quella donna sedotta e abbandonata. Fu per il mondo ovattato di RU come una mazzata che l’infranse e l’introdusse nell’aspetto doloroso della vita in cui lui pure stava per entrare.

ADDIO AL PARADISO DI R-U-BEN Poche settimane dopo Anna Gino e i due ragazzi, di 9 e 12 anni, partirono per Milano. Giunsero in una città uggiosa e senza sole, in cui una umida nebbia piovosa lo nascose per una settimana, ancora devastata dalle bombe della guerra e i in febbrile ricostruzione, ma senza case in affitto a basso prezzo, in cui la famiglia potesse conservare la sua unità, e si spezzò in due. Gino ed Anna in una pensione in via Chiaravalle, a poche centinaia di metri da Via Larga 13, ove abitava Antonietta Amodeo, che ospitò i due ragazzi. Nella foto a lato vedete la fila di case di fronte al Comune di Milano, al civico 12 di quelle a destra, e il numero 13 in cui R-U-BEN abitarono, posto appena prima di quella che si vede a sinistra. In fondo a quella fila, e da quella stessa parte c’era quella pensione a metà di via Chiaravalle, che non accettava ragazzi e nella quale alloggiavano Anna e Gino Amodeo.. L’intera fila di case a sinistra sarebbe stata demolita pochi anni dopo per allargare una strada che allora era via Larga, ma solo per modo di dire. I servizi dell’alloggio, di una casa vecchia come tutte quelle che vedete, erano in comune con le altre famiglie, e stavano sul ballatoio. L’alloggio era di soli due locali. In uno dormiva già la zia Antonietta, col marito Giovanni e la loro figlia Lisetta; nell’altro, una piccola area separata da un tramezzo di legno era adibita a cucina. In mezzo una gran tavola e due divani letto. In quello matrimoniale passavano la notte due vecchi, la “nonna”, come zia Antonietta chiamava Esterina, e il suo compagno, Patto. Nel divano letto singolo furono sistemati di testa RU, BEN ai suoi piedi... e viceversa. I ragazzi all’improvviso passarono dalla luce e dal vento di un paesaggio marino a quella triste e


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grigia incombente “piuisna” che durò una settimana, senza più una casa propria e nemmeno un letto. Pochi giorni dopo cominciarono a frequentare le loro scuole, una media e il ginnasio, ubicate nello stesso complesso in via Commenda, intitolato a Giovanni Berchet, un liceo classico. APPARE IN R-U-BEN LA RECIPROCITÀ L’impatto ambientale, a scuola fu per R-U-BEN lo stesso: ai compagni, chiassosi e amici di prima subentrarono ragazzi chiusi e diffidenti. Ma in R-U-BEN da questo anno diventa evidente il rapporto di reciprocità tra loro che li aveva resi complementari e per tutta la loro vita. Infatti è nei soli confronti di RU, che nell’ottobre del 51 aveva 13 anni compiuti ma ancora non si era sviluppato come un ragazzo, tanto che tutti gli altri erano più alti di lui..., che compagni, professori e destino, si dimostrarono ostili. Essere “spaesato”, divenne il suo habitat, sia a casa, sia in classe. Benito invece no. Aveva lo sviluppo giusto per la sua età e almeno sotto il profilo fisico era come gli altri. Perfino le materie a RU non parvero più le stesse e, al primo dettato in inglese, scoppiò a piangere, sorprendendo tutti, quando la professoressa ritirò il suo foglio bianco, sul quale non aveva scritto nemmeno una parola ... Dopo un mese in cui sembrò imbambolato, un suo compagno, Belgiojoso, richiamò la sua attenzione, strinse le dita della mano, come se serrassero un tubo, e prese ad agitarla in su e in giù. Gli voleva dire di smettere di masturbarsi. RU non comprese, nemmeno sapeva ancora cosa tutto ciò fosse. Fu proprio per quel gesto, fattogli dal compagno, che poi lo scoprì. E capì finalmente perché quel marinaio davanti alla Torretta si muovesse in quel modo... Belgiojoso però non aveva tutti i torti. RU era preda di improvvisi orgasmi tutte le volte in cui a scuola la tensione assumeva valori estremi, o prima di una interrogazione, o della consegna di una traduzione o di un tema e gli accadeva una cosa sgradevole alla quale cercava di opporsi, senza riuscirci e ... «veniva!» L’angoscia, di non arrivare in tempo, di essere impari rispetto a quello che gli era chiesto, avevano la meglio nel modo peggiore e gli procuravano un orgasmo. Tutto si mise contro di lui, anche i tentativi, rari e buoni di insegnargli. Gli atteggiamenti normali nei suoi confronti erano quasi tutti di ben altro tipo: erano cattivi e prevenuti, terribili, specie quando messi in atto dalla professoressa di lettere, che, tradendo il suo compito, discriminava alcuni, per il suo insano “odio” verso i “terroni”. Quando Luigi Amodeo – il milanese suo padre – si recò a conferire con lei, avrebbe potuto smantellare quell’atteggiamento mostrandosi un milanese di vecchia

data; ma non poté e per un altro motivo: si trovò di fronte a chi considerava RU un depravato. “Pensi un po’! In un tema suo figlio doveva descrivere le sue reazioni a una lettura di sua scelta, da cui era stato impressionato. E sa da che cosa è stato attratto suo figlio? Un ragazzo normale pensa alle avventure che piacciono a quelli della sua età. No! Suo figlio è stato impressionato da una donna messa incinta che ha assassinato il suo amante! Signor Amodeo, curi suo figlio perché – glielo dico per il suo bene e lei lo sappia – ha tendenze insane e pericolose!” Il Padre, un maestro, le disse di conoscere la pedagogia e le spiegò allora che il figlio era stato suo malgrado testimone di quel fatto di sangue accaduto ad un metro la lui e che aveva ogni ragione per esserne stato impressionato. Lo conosceva benissimo e molto più di lei. Non spostò di un millimetro le convinzioni di lei. Il padre giudicò allora che chi aveva atteggiamenti insani era lei e che il figlio doveva cambiare subito scuola ... C’erano per fortuna altri Istituti Classici e anche più rinomati di quello di via Commenda, che era solo il più vicino alla Via Larga, in cui abitava il figlio. C’era tutto il tempo per farlo, a metà di novembre. Dové cambiare subito idea, poiché a RU venne il morbillo. Tra la guarigione e la quarantena sarebbero giunte le vacanze di Natale e dunque c’era tutto il tempo per valutare ogni cosa con calma ... Nemmeno questo però era il destino. Dormendo nello stesso letto R-U-BEN, s’ammalò anche BEN, ma non subito. Quando finalmente guarì dal morbillo RU, BEN se lo prese. Complementari e reciproci come erano per destino, tutta questa alternanza era perfettamente normale. Quella situazione impedì ai due genitori – entrambi insegnanti – di stare fisicamente vicini ai figli ammalati, per non contagiare le loro due scolaresche; per cui R-U-BEN furono di colpo privati del sostegno che avevano sempre avuto. La famiglia Venturelli, che li ospitava, non poteva dar loro niente, in quella direzione, essendo fatta di gente incolta; ed anche la cugina Lisetta che dopo la media faceva altro ed aveva anche lei le sue brave gatte da pelare.


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1952

A 12 anni compiuti l’aveva pur detto che doveva farlo e per lui era scontato farlo al Tempio di Gerusalemme... ma essi non compresero e allora lui si riadattò.

L’anno 1952 cominciò con il morbillo – guariti R-U-BEN. Anche il proposito del padre, di trasferire il 1°genito in altro Istituto, con l’insorgere del morbo a tutti e due era stato accantonato. Il maggiore dei due avrebbe ripresi a frequentare a febbraio, ed era troppo tardi per mutargli anche il luogo in cui esercitarla. Se non si fosse ammalato anche il 2°, avrebbero ripreso la frequenza molto prima. R-U-BEN rientrarono in classe nello stesso periodo, poco oltre la metà di febbraio, e subito si ripresentò il differente impatto, poiché non recuperò il tempo perso RU, BEN si rimise al passo. Peraltro, mentre suo fratello maggiore era stato ammalato, aveva colpevolmente frequentato fino alle vacanze natalizie, per cui la sua assenza si era ridotta a poco più di un mese di lezioni. Romano invece fu assente dalla metà di novembre, per cui furono tre mesi di tempo e due di lezioni. Mentre fu totalmente disadattato RU, BEN s’inquadrò benissimo coi professori e i ragazzi della sua classe. C’era anche un’altra ragione: non a caso si chiamava quarta ginnasiale. Era virtualmente la prosecuzione della terza media e tra queste scuole a Salerno e quelle di Milano c’era un abisso. Se RU aveva pianto per non avere scritto una parola del dettato di inglese era poiché quello appreso a Salerno era tutt’altro. Benito, nella prima, iniziava un percorso tutto nuovo, che ripartiva da zero. A dieci anni, era ancora come una tela bianca sulla quale iniziare a dipingere. A tredici, invece, con la pubertà, si è compiuta l’infanzia, e su quella tela si sta inquadrando il soggetto; se questa messa a fuoco è improvvisamente spostata su un’altra cosa e proprio nel mentre sei in pubertà (e non hai alcuna idea di che cosa sia), ne nasce un disadattamento grande specie in chi è abile a focalizzare e vede, di colpo, tutt’altra cosa. Toccò allo stesso Gesù che, all’improvviso, lasciò che la sua famiglia tornasse senza di lui a Nazareth, per occuparsi delle cose del Padre Celeste. Lo sapevano!

Quando RU tornò in classe tre mesi dopo, stette peggio di prima: le lezioni non lo avevano di certo aspettato, e quel suo buco adesso gli appariva una immensa voragine. Nei tre mesi che mancavano alla fine dell’anno avrebbe dovuto potere raddoppiare in quell’arte che pur aveva, di raccapezzarsi... ma a condizione che per lo meno si decidesse a studiare sui libri. Invece aveva la bella pretesa di farcela solo stando bene attento in classe, e non toccando nemmeno un testo, in quella casa in cui non aveva nemmeno un posto in cui poterlo fare. Quell’unico tavolo al centro della stanza in cui si preparavano i cibi da cucinare e poi si mangiava, diveniva il luogo di lavoro della zia sarta, dello zio che costruiva gabbiette per gli uccelli con le stecche degli ombrelli, e delle attività di Patto, Esterina, Lisetta, e Benito che riusciva a ritagliarsi il suo spazio. RU, se avesse voluto studiare, doveva farlo stando seduto sul suo divano letto e senza un appoggio che gli permettesse di scrivere... e allora ci rinunciava e cercava di aiutare gli altri in quello che facevano. In balia di se stessi, disadattato fu RU; BEN si arrangiò.


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RU adolescente fu costretto a scendere a patti con il suo orgoglio e la sua autostima e a riconoscersi in quel mix che tocca a tutti, di genio e stupidità. La sua buona stella gli dava anche il modo di mettere in luce, a poco a poco ma in modo inequivocabile, di avere molte doti, in ogni campo, ma mai in una misura tale e così spiccata che una prevalesse a tal punto sull’altra da divenire esclusiva. Sia nelle pratiche del corpo, sia dei valori spirituali, sia nei mestieri.

A giugno la mortificazione totale, toccò a RU; BEN fu promosso Fu bocciato – come vedete – con la media esatta del 3,5. Quasi dimezzato nei voti dell’anno precedente, all’esame pubblico di terza media, sostenuto a Salerno.

Un dì fu interrogato e invitato a disegnare alla lavagna un triangolo. «Amodeo, dimostrami che la somma degli angoli interni del triangolo è di 180 gradi» ordinò, la professoressa di matematica, a lui che non aveva studiato nulla, di quel genere (ma che conosceva, per averle viste applicate dagli altri, le equivalenze tra angoli alterni e interni ed angoli corrispondenti). Così il ragazzo spiegò, in un modo diverso (ma anche più lineare e perfino “brillante”) il Teorema che aveva richiesto il genio d’un antico greco, il quale lo aveva dimostrato nel modo suo, quello riportato sul libro... «Ragazzi! Quante volte vi ho affermato che dovete studiare sul libro di testo? Amodeo, su che libro hai studiato?» gli domandò la professoressa. Rispose negando che seguisse altri libri di testo e così fu mandato al posto con quel bel 4 che si meritava uno così “bugiardo”. Come poteva esser mai, proprio lui, così incerto, uno che trovasse una simile soluzione, così nuova e diversa? Che la professoressa avesse giudicato impossibile quello che aveva fatto era una valida testimonianza che riceveva proprio da lei delle sue doti! La sua soluzione era addirittura più brillante di quella di Talete che, per dimostrare il suo teorema, era ricorso all’aggiunta di due linee: la prosecuzione della base del triangolo e la parallela, da quel vertice, al lato opposto. Amodeo aveva usato una sola linea: la parallela alla base, nel vertice alto del triangolo, ottenendo l’angolo piatto corrispondente alla somma dei tre angoli interni. Se dalla geometria riceveva di che esaltarsi, dalla chimica no! Lì aveva prova di un vero disastro! C’erano operazioni fondamentali, nei passaggi, che avrebbe dovuto conoscere e che erano state spiegate nei due mesi della sua assenza, di cui ignorava perfino l’esistenza. Né poté riconoscerle nelle applicazioni che vedeva fare agli altri, per cui si affidava alla pura memorizzazione dei passaggi. Alla fine però “cascava sempre l’asino”: chi lo interrogava capiva che ignorava le regole e lo faceva cadere in trappola; era sempre mandato a posto con un pessimo voto. Bravissimo in disegno e in educazione fisica, ma era troppo poco

Un giorno tutti i mobili della stanza da pranzo furono spostati nella camera da letto, le porte furono chiuse e tutti si armarono di palette. Fu smontato il divisorio di legno del cucinotto e il pavimento divenne nero, tanti scarafaggi albergavano negli interstizi del tramezzo. Furono schiacciati tutti, pestati sul pavimento, senza pietà... ESTATE A CASAMICCIOLA

Quell’estate la famiglia si riunì per le brevi vacanze alle Terme Casamicciola, nell’isola di Ischia, dove Anna e Gino fecero la cura delle acque minerali. A settembre l’anno nuovo, Gino cercò di convincere RU a cambiare scuola. Romano non volle. Se là egli era caduto, nello stesso luogo intendeva risollevarsi: era divenuta per lui una questione d’orgoglio personale. Per temperamento non fuggiva mai, e mai si era spaventato quando si trattava di appurare una verità, anche se poteva essere sgradevole, dura da accettare e da digerire.


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Benito era a posto! RU Pensava che le cose si erano messe così giù che non potevano che risalire. Pensate: il suo compagno di banco Michele Simone, durante le traduzioni, si difendeva da lui, erigendo barricate a metà banco, nel timore che copiasse da lui! Come erano lontani i tempi di Salerno, in cui tutta la classe aveva quasi eretto barricate per lo scopo opposto: affinché un professore, troppo ligio, lo interrogasse di nuovo, dandogli il modo di riparare ad un semplice 5! Il gesto di maggior confidenza per RU, in un intero anno scolastico, era stata infine quella domanda fattagli in principio e a gesti da Belgiojoso: “Ti masturbi?” R-U-BEN RITORNANO NELLA LORO FAMIGLIA Una cosa finalmente accadde, e di meraviglioso: i genitori trovarono, sul finire del 1952, un appartamento al secondo piano in cui riunire la famiglia: era in Via Bernardino Verro, 7/14, a Morivione, poco più in là della Centrale del latte. La vita poteva finalmente ripartire. Come ripetente alla IV ginnasio dello stesso Berchet si iscrisse RU; BEN alla seconda media. Romano finì in una altra sezione, la E, che nelle tre del liceo non esisteva ancora. Stavolta fu più fortunato: non saltò mesi di frequenza e– mentre viveva finalmente di nuovo a casa sua – gli toccarono professori che non erano prevenuti nei confronti dei meridionali. I suoi compagni di classe furono finalmente anche amici: Fortunato Gallico, Ferruccio Carugati, Pietro Saviano, Adalberto Borgatta, Franco Bellino... Con quasi tutti stabilì finalmente un rapporto umano.

1953

Qui sopra vi mostro la posizione, approssimativamente riportata allo stato di allora, di quella casa, dove indica la freccia e in quella posizione, che non aveva l’aspetto di ora e che certamente è stata ristrutturata. Davanti vi era un grande spazio, che oggi non c’è più, essendo stato tutto edificato e ingolfato, come vedete nello stato attuale tratto da Google. Il numero civico 7/14 era tutto un programma. R-U-BEN – che ora avevano di nuovo una casa loro – ritrovarono coloro che erano stati lasciati a Salerno: Gennaro, per completare la sua scuola media e Anna, sua sorella, perché non avrebbero nemmeno avuto dove metterli, dal momento che nemmeno per R-U-BEN si era trovata una sistemazione accettabile. Infine Peppina, la domestica che si trattenne per poco. Si fidanzò e sposò, in pochi mesi, e poi andò a vivere a Gurro, nel Trentino. Al suo posto – ma non come domestica – venne Adriana, sorella di Anna e Gennaro e quasi coetanea di RU, il quale, avendo molte difficoltà a trattare con le ragazze, molto fu aiutato, da tutti loro e dalle sue cugine nel ritrovare la sua dimensione in quello ch’era come il suo branco. Quando Gennaro arrivò alla stazione di Milano e RU gli cose incontro gridandogli “Ciao Gennaro!”, lui, che aveva saputo dal cugino, e forse da molte altre fonti, di come spesso erano trattati i terroni, sapendo quanto terrone fosse il suo nome Gennaro, zittì RU, come se la gente, venuta così a sapere la sua origine, iniziasse a fargli dispetti. Poi si sarebbe fatto chiamare Gen... Scelse di divenire Perito Edile – Gen – e frequentò, con un buon profitto, l’Istituto Carlo Bazzi, che non era lontano da Morivione, il quartiere in cui abitavano. Romano stava così nuovamente bene nella sua famiglia e in mezzo a questi suoi parenti. Nei loro riguardi, per essere accettato, non si trattava d’essere più o meno bravo a scuola, ma aperto, schietto, gioioso.


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A RU piacevano gli scherzi e una sera, saputo che la cugina Anna andava in soffitta a prendere un grembiule in un cassone, ci si infilò dentro con una pila e la spaventò a morte. Sì, scherzi talora crudeli come questo, ma non aveva solo una gran voglia di ridere, correre ed essere gioioso, almeno in casa. Ogni volta che si mangiava, tutti assieme, era l’occasione d’una festa, e si trattava d’ogni pranzo, ogni cena, nuovamente in 7 attorno allo stesso tavolo. Chi invece soffriva in silenzio, di questa situazione, era Gino. Il suo ideale era quello d’avere una famiglia tutta sua e chiusa, addirittura barricata in se stessa; invece sua moglie Anna, forzando l’evidente bontà anche del suo cuore, a Salerno l’aveva sempre impedito. Si era così forse illuso di potere godersi a fondo i suoi figli, a Milano. Non immaginava quanti dal sud sarebbero saliti fin lì dopo la sua scelta e tra tutti coloro che aveva intorno. Gino non aveva amici, non usciva in cerca di svaghi personali. Pur avendo a disposizione l’intero pomeriggio, cercava sempre di passarlo con i figli e con la moglie. A gestire la casa ci pensava lei, Anna che teneva il cordone della borsa, lasciando al marito, per le sue spese personali e le sue cose, la metà del suo stipendio. Assisteva anche alle sfuriate, certe volte, del suo Gino, e non rispondeva, gli dava il modo d’apparire, davanti a tutti, chi aveva l’ultima parola, del Pater familias. Finita la buriana, magari anche qualche giorno dopo, era lei a riprendere con calma l’argomento con il marito e a tu per tu. Lo portava a ragionare, ad accorgersi di come era stato eccessivo, e a scusarsi. Alcune volte, però, finché questa chiarificazione non c’era, Anna soffriva in silenzio e qualche volta piangeva, quando pensava che nessuno la vedesse. Una di queste RU la scorse e volle sapere il perché. Lei si confidò, con lui che aveva allora solo 15 anni. Gli disse che, in quei momenti, lei non era felice. Sentiva addosso a sé la responsabilità d’ogni cosa, anche d’un marito che certe volte si comportava come un bambino capriccioso e, altre, maldestro: se si metteva a fare pulizie, per dare un aiuto – apriti cielo! – peggiorava solo il lavoro che poi aveva lei per rimediare. Era troppo il carico che lei aveva su di sé e Gino non riusciva ad aiutarla. Lei non teneva nulla per sé, ogni cosa era messa nel bilancio familiare, dunque avrebbe desiderato più comprensione. E – in quel momento di sconforto – gli rivelò che suo padre, che voleva apparire così dinamico e pieno di sé, non la cercava più nemmeno come compagna, era come se la sua sessualità si fosse del tutto spenta. Così lei non si sentiva più nemmeno una donna, una compagna, in quella casa, ma solo la serva di tutti, anche del marito, e in certi momenti era troppo.

RU si stupì nel sentire, per la prima volta, la madre parlare della sessualità tra loro due e in quei termini. Rispose a lei che non ci credeva, che non poteva essere, e lei gli rivelò di come una notte lo avesse sorpreso nell’atto febbrile di chi stesse cercando di scoprire se con il fai da te ci riuscisse. Fu l’unica eccezione ad una regola assoluta: il divieto d’affrontare con i figli i temi del sesso; una eccezione, fatta dalla sola Anna, che si spiegava solo con la grande stima e fiducia che lei sentiva per quel figlio che era così diverso da tutti e che un giorno era stato lì-lì per morire, per colpa sua. IL MALIGNO GLI MANDA UN TUMORE..., MA È BENIGNO. Un giorno RU notò che da uno dei capezzoli del proprio petto era secreto un liquido, e lo disse ai genitori che vollero si controllasse. Poteva essere un tumore e fu prontamente internato all’Ospedale di Niguarda. I suoi genitori, quando andavano a trovarlo lo trattavano stranamente, come uno da cui temi molto brutte sorprese, ma al quale non vuoi lo vuoi dare a vedere. Gli fu asportata la glandola sinistra e fu analizzata; era sì il tumore che tutti temevano, ma per fortuna era benigno. R-U-BEN ebbero opposto impatto a scuola. Mentre BEN era perfettamente inserito, al ginnasio Romano sembrava uno sempre molto attento, ma lo era perché leggeva di nascosto quello che non aveva studiato a casa e che teneva aperto sul banco. La condotta era gratificata da un 10 (e ne avrebbe avuti dieci! dieci 10 uno dopo l’altro, in 3 anni, uno per trimestre), la ginnastica cominciava a rivelare in lui buone doti, tanto da attribuirgli un 7, e poi tanti 5, nel 1° trimestre, che gradatamente divenivano 6 alla fine dell’anno, con qualche rarissimo 7. Proprio una estrema mediocrità, che passava per scarsa propensione allo studio, a detta di molti professori. Lo comunicavano spietatamente ai suoi genitori, nei colloqui periodici, prima della chiusura dei trimestri: quel loro figlio non era molto sveglio, non era granché. Per i professori “si vedeva che il ragazzo s’impegnava e studiava”, ma concludevano che “ogni botte poi dà il vino che ha”. Non sapevano come RU proprio non studiasse, né lo immaginavano, giacché, vedendolo sempre “attento” e tutto così “per benino”, l’immaginavano così anche a casa: a passare ore su libri mal capiti e mal digeriti a giudicare dalle interrogazioni. Di certo avrebbero cambiato giudizio se avessero saputo il vero: che lui a casa non toccava libro e che tutte le sue risposte dipendevano dalla sua buona capacità di poggiarsi su quel poco che riusciva ad apprendere in classe, ed a cui sempre doveva aggiungere tanto di suo. La chimica, comunque, sempre restò per lui un mistero. Non essendosi mai messo a cercar di capire i meccanismi con cui le molecole si combinavano tra loro,


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affidava così soprattutto alla memoria le combinazioni delle reazioni, laddove la memorizzazione era proprio la cosa che meno lo stimolava. Aveva ora l’età di tutti i suoi stessi amici, avendo perso quell’anno d’anticipo che aveva sempre avuto, avendo iniziato le elementari un anno prima degli altri. La sua statura si era alzata, in un anno solo, di quasi una decina di centimetri, tanto che ora essa rientrava nella media, mentre l’anno prima era stato il più basso tra tutti i suoi trenta compagni. A casa si occupava di attività molto varie, che andarono dal dipingere, al costruire uno slittino per l’abbondante neve caduta a Milano e poi ghiacciatasi sulle strade poco frequentate dagli spazzaneve. Accadde nel 1953 e il manto bianco alto 40 centimetri restò in città e sui prati per quasi due mesi, senza sciogliersi. Per andare al Berchet, partendo da Via Bernardino Verro, bisognava percorrere oltre un chilometro e mezzo. Si sarebbe potuto prendere il 24, da Via Vigentina, ma per raggiungere quella fermata occorreva fare quasi un chilometro, e quasi altri 300 metri poi dalla fermata al Ginnasio: si faceva prima andando a piedi. Così RU vide per molti giorni i ragazzi che, approfittando d’una leggera discesa esistente al parco Ravizza, vi sciavano. Resistette poco e comprò un paio di sci da fondo alla “Fiera di Sinigaglia”. Con quelli ai piedi passò anche lui ore ed ore a scendere e risalire quella ventina di metri in tutto di percorso, imparando così a reggersi in equilibrio e a svoltare tra i paletti conficcati per terra. La slitta serviva, invece, per la strada, ghiacciata, di Via Bernardino Verro. Ebbe finalmente anche la tanto desiderata bicicletta. Nessuno gliela donò, ma se la fece lui a poco a poco, costruendone persino le ruote; avvitò uno ad uno le due fila di raggi e li tirò, li tese, in modo da ottenere poi un cerchio perfetto, esente da ondeggiamenti del cerchione. Avvitò tutti i canotti a sfera: del manubrio, del piantone dei pedali, dei cilindri, e delle ruote. Dal manubrio, la bici si sarebbe detta da corsa, ma aveva usato tutti i pesanti pezzi di quelle da viaggio tranne quello curvato in giù delle biciclette da corsa. Tutti questi gesti gli restituivano, poco alla volta, quella sicurezza di sé che non aveva invece a scuola, ove era perennemente

dedicato alla quadratura del suo personale cerchio, che alcune volte gli riusciva con facilità, ma altre no. Si accorgeva d’essere dotato di molta fantasia e i temi in classe cominciarono ad essere il primo suo vero “ferro del mestiere”. Laddove altri non avevano che cosa dire, lui riempiva tutte le pagine di quei fogli protocollo su cui i temi erano presentati. Cominciò a essere il degno erede del papà, che s’era detto “rompiscatole” e della mamma “filosofa sognatrice”. Il latino però va studiato, come il greco... ed erano un’altra cosa, rispetto allo scrivere i temi. La matematica, in quell’istituto di studi classici, era a dir poco rudimentale e non destava grandi problemi nemmeno per lui. Una delle materie che più gli piaceva era “Religione”. Insegnante, nella classe, era un sacerdote che poi fu anche il suo padrino quando, accortosi come Romano non fosse stato ancora cresimato, lo spinse a farlo, e ciò avvenne nella Chiesa di Via Santa Sofia, in cui egli aveva un incarico. Il suo nome? RU dopo tanti anni non se lo ricordava più... Gli aveva fatto da Padrino... “Uno Spirito Santo”. Fu promosso alla 5a ginnasio – come vedete – senza infamia e senza lode.

RU barava, anche coi suoi genitori. Dava loro ad intendere che si applicava, ma non riuscì mai a ingannarli veramente. Lo conoscevano e – stranamente – avevano una immensa fiducia nelle sue capacità; così lo aspettavano. Attendevano che sbocciasse a modo tutto suo e libero.. Mentre ne era uscito per il rotto della cuffia RU, BEN era stato invece brillante e promosso a pieni voti. Benito aveva poco più di 10 anni e un temperamento opposto a quello del fratello: attento, ligio, studioso, non lasciava mai nulla al caso, era sempre preparato e i risultati a scuola si vedevano, perché era tra i primi della sua classe. Il travaglio provato da RU, BEN nemmeno lo vide! Non ne fu minimamente sfiorato: bravo a Salerno, bravissimo a Milano.


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1954

Subito dopo RU dové fare l’esame per l’ammissione al liceo. Non essendosi molto preparato durante l’anno, correva pericoli: gli esaminatori non erano i suoi professori della E, poiché gli esami esano fatti dai professori del Liceo e la sezione E non c’era ancora. Furono divisi tra le 5 esistenti della A, B, C e D. Romano fu rimandato a ottobre in latino, e poi riparò con un 6

NASCITA A OSTIGLIANO BARBARINA BARATTA. Arrivarono i compleanni di R-U-BEN, il 25 gennaio di RU, il suo il 17 febbraio di BEN. 16 anni il primo, quelli della piena realtà, 13 il secondo. Nel giorno in cui il 1° ebbe 16 anni nacque, nel segno di questa realtà piena a Ostigliano Barbarina Baratta, generata della quarta figlia di Tresina Russo e realmente sarà molto determinante nella vita di RU.. Passò nel solito modo tutto l’anno scolastico e fu ammesso agi esami..

Tutti i Baratta nati da Guerino e Rosa si spostarono a Ostigliano. In luglio gli Amodeo avrebbero lasciato quella casa, traslocando in Viale Omero al 22, in un grande appartamento a riscatto, di 120 metri quadrati, che avevano avuto concesso dall’Istituto delle Case Popolari di Milano.

CONCEPIMENTO REALE DI NICOLA MORRA A MILANO. In Via Bernardino Verro, essendosi trasferiti provvisoriamente a Ostigliano i tre Baratta, di Gennaro Anna e Adriana, ci fu posto in casa e due sposini vennero in giugno, ospiti per un mese: Emilia, la sorella più piccola di Anna, e Costantino Morra, capizzese. La più piccola delle sorelle di Anna volle con questo rinsaldare, legandolo a filo doppio, quel loro legame particolare esistito realmente da sempre, quando fu curata da bimba, ed ebbe a sua volta cura di R-U-BEN Dio benedisse queste sante intenzioni. Emilia e Costantino Morra erano l’ultima figlia e il primo di Tresina Russo e quel capizzese tra i quali c’era stata molta simpatia, distrutta e per ben due volte: prima da Nicola Baratta e poi da suo fratello Giovanni, che l’avevano costretta a trasferirsi a Ostigliano. Molto sarebbe sorto da questo rapporto nuziale vissuto in casa di R-U-BEN : Emilia restò incinta, e sorse realmente che avrebbe avuto un massimo ruolo della vita concreta di tutti e due Romano, fino al loro ultimo giorno. Quando gli zii ritornarono al paese, per sdebitarsi dell’ospitalità portarono con sé R-U-BEN, a partecipare a tutti i grandi festeggiamenti che ci sarebbero stati quando avrebbero accolto gli sposi tornati dal viaggio di nozze. Giunti a Capizzo, lo zio Morra, suonò l’organo in chiesa, e invitò RU a cantare con lui per il Patrono Santo Mauro: “Oggi lieto e giocondo, su nel celeste regno, questo martire sì degno asceso è in gloria”.


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CONCEPIMENTO A CAPIZZO: DDT ANTI SCARAFAGGI Fu una intera settimana trascorsa in banchetti. RU incontrò, tra gli ospiti, Teresa Di Dario e si piacquero subito. Stavano sempre insieme e lei scherzava sull’acronimo DDT, alludendo ad un noto insetticida. Questa storia avrebbe potuto avere un futuro poiché tutto era favorevole a che RU e Teresa ricavassero anche dei buoni frutti dalla bella simpatia che stavano alimentando. La famiglia Di Dario era stata una delle poche davvero amiche degli Amodeo a Felitto e, se i due ragazzi si fossero non dico impegnati, ma per lo meno dichiarati l’un l’altro, avrebbero visto confluire molte spinte, tutte rivolte a far maturare quella forte simpatia tra i due sedicenni. Accadde però che un giorno, in uno di questi ripetuti pranzi celebrativi, con una quindicina di commensali invitati, RU trovò nella zuppa del suo piatto uno scarafaggio. Poiché la cottura era fatta al fuoco di un vecchio camino, in un gran pentolone, da lì una blatta vi era caduta dentro in un momento in cui era scoperchiato, ed era poi finita proprio nel piatto di RU. Lui mostrò l’insetto a Teresa, di fianco a lui e, senza che altri lo vedesse, lo tolse dal piatto col cucchiaio, lo buttò sotto il tavolo e... mangiò la minestra. Si portarono in tavola le uova sode, l’unica pietanza mai piaciuta a Benito, che si rifiutò di prenderle. Ciccio Morra, allora, il borioso fratello minore di Costantino, apostrofò così Benito ad alta voce affinché sentissero tutti: “Non si rifiuta il cibo in casa d’altri! Che razza di educazione avete avuto?”. RU, offeso, non seppe trattenersi. Si alzò e con la stessa enfasi ribatté: “Zio Ciccio, noi R-U-BEN l’educazione l’abbiamo avuta! Se lui non vuole mangiare le uova è perché poi vomita; io – che ho lo stomaco più forte – ho mangiato tutta la minestra nonostante nel mio piatto ci fosse finito uno scarafaggio, che ora è qui. sotto la tavola... Chiedi a Teresa! ” Il giorno dopo i due ragazzi furono gentilmente invitati da zia Emilia a fare una improvvisa e bella gita a Ostigliano, con lei. RU non voleva andarci, ma vi fu costretto e, giunti là e nonostante v’imperasse il tifo, vi furono scaricati. Finì come la simpatia di Tresina: dopo che fu portata di forza a Ostigliano da un Baratta. Adesso la forzatura era opera non del Padre Mauro ma della Provvidenza crudele di uno scarafaggio che morrà e di un Ciccio Morra. RU scrisse una lettera a Milano e sua mamma, ultimato il trasloco, dato il tifo che imperversava nel paese, arrivò per riportare i figli a casa e gli chiese: “Qual è il problema? Teresa? Vuoi andare a trovarla a Felitto? Vacci!” Lui andò dai Di Dario, salutò lei e i suoi fratelli e tornò a Ostigliano. Poi la mamma riportò RU e BEN alla loro nuova casa a Milano, in Viale Omero, troncando così sul nascere quella simpatia che, se quell’insetto schifoso e Ciccio Morra non si fossero messi in mezzo, in quel modo così tragico (per l’insetto), tutto sarebbe potuto evolvere in modo diverso.

UN COLPO AL CUORE A MILANO Soprattutto – come in agguato – c’era il destino: mentre RU un giorno girava l’angolo davanti alla portineria, gli si parò innanzi una bella ragazza ed ebbe un tuffo a cuore. Sperimentò il classico chiodo scaccia chiodo, facile specialmente quando l’avversa sorte non ti ha concesso nemmeno di cominciare a piantarlo. Infatti RU – a casa di Teresa – di tutto aveva parlato, tranne del fatto che lei gli piacesse e che volesse proprio intavolare quel discorso. Solo tempo dopo, riconsiderando gli eventi, gli tornò in mente che lei fischiettava insistentemente, quando stavano vicini, una canzoncina di quei tempi le cui parole erano “l’amore non vuol chiacchiere ma baci, baci, baci”. Quello era stato – anche da parte di Teresa – tutto il coraggio che aveva trovato, per una iniziativa sua che, essendo una brava ragazza, non poteva andare oltre quello. Spietatamente quel tuffo al cuore mandò Teresa nel dimenticatoio. A 16 anni si fa presto a scordare, specie quando arriva il colpo di fulmine e non hai più nemmeno tanto altro tempo perché devi prepararti per l’esame di Latino poiché ti hanno rimandato. Lo sostenne e con un 6 fu ammesso al Liceo. Cominciò a studiare in che modo poteva conoscere quella ragazza; in quelle condizioni in cui in quel grande condominio non conosceva ancora nessuno, per lui era un vero problema, che restò insoluto per tutto l’anno. . IL LICEO CLASSICO GIOVANNI BERCHET Giunta la data per le iscrizioni di R-U-BEN, alla prima liceo fu iscritto RU, e BEN alla quarta Ginnasio, dello stesso Berchet. Gennaro cominciò la terza del diploma di Perito edile. Romano restò nella sezione E. Il Preside Joseph Colombo, un Ebreo, avendo comparato i risultati conseguiti dai ragazzi dopo che erano stati esaminati dai professori di tutte le quattro sezioni allora esistenti nel Liceo, aveva notato che erano risultati di gran lunga i più bravi. Gli sembrò un grave torto fatto a quella classe di studenti cos’ ben preparati che fece domanda di aprire anche al Liceo la sezione E. Lo scotto per crearla fu molto grande, e fu pagato proprio da quei ragazzi che non voleva danneggiare, poiché per legge nei primi tre anni di prova che il nuovo corso doveva sostenere prima di divenire effettivo, i professori non potevano essere di ruolo. Così quegli studenti ebbero tutti i professori supplenti, assunti tra i precari, che erano o tanto scarsi da non aver vinto mai un concorso nella loro poco brillante carriera, o erano troppo inesperti. Solo in Filosofia il Prof Miccinesi sembrava idoneo al suo incarico, e in Religione un sacerdote: Don Giussani. Italiano, Latino, Greco, Matematica e Fisica ebbero professori deboli e inadatti a imporsi. Fu chiaro fin dai primi mesi di quella prima liceo nella sezione E.


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1955

RU scelse e dipinse i colori delle pareti del proprio appartamento e appese alle pareti i quadri a olio dipinti da lui. Qui ce n’è uno (purtroppo riprodotto solo in bianco e nero e finito chissà dove) che aveva dipinto dal vero nella vicina Abbazia di Chiaravalle, in cui più che ad altro aveva prestato attenzione a questo portale. Sotto un suo autoritratto, esso pure finito chissà a chi e se l’ha poi conservato... In quella famiglia vigevano regole precise e condivise e, così regnava un perfetto accordo. A Gino premeva si sapesse che il capo di casa era lui, che avesse sempre l’ultima parola. Ad Anna interessava d’essere lasciata in pace, nel suo paziente servizio alla famiglia, assistita in ciò dalle nipoti che sua sorella Rosina le mandava, sia per farle impratichire con la vita di città, sia in cambio dell’accoglienza che davano tutti a Gennaro, trattato come il terzo figlio maschio della famiglia. NASCE REALMENTE NICOLA MORRA La novità della prima parte dell’anno 55 fu la nascita del 1°genito di Emilia e Costantino Morra, il giorno 1° aprile del famoso “pesce”. Questo evento, frutto dell’amore sponsale consumato nella casa di R-U-BEN, si attuò nel migliore degli auspici, per essere poi presente molto nel vivo della vita e della morte di entrambi. RU ha 17 anni, ed è il numero che realizza Dio, che si affida al 10 e che crea in 7 dì.

R-U- BEN avevano 17 e 14 anni compiuti il 25 gennaio e 17 febbraio ed frequentavano ormai: il primo anno del liceo classico il 1°, il secondo anno della media il 2°. Abitavano al n. 22 di questo palazzo. Erano due edifici di 8 piani con una sola portineria per i numeri 24 e il 22. Il primo palazzo, col civico 24, costruito anni prima, aveva già i ragazzi riuniti nel loro gruppo di amici, tra cui la ragazza che aveva colpito RU. Nel 22 tutti inquilini nuovi. Erano a sud di P.le Corvetto e di Milano, case a riscatto ventennale assegnate dall’Istituto Autonomo Case Popolari, nell’estrema periferia.

GLI SCACCHI Un pomeriggio il Padre di R-U-BEN, che sempre cercava tutti i modi per attività in comune coi figli e la moglie, arrivò con una cassetta e ne tirò fuori torri, cavalli, Re... aveva deciso che imparassero a giocare a scacchi. Allora tutto il gruppo, nelle ore libere lasciate dalla scuola, si dedicò a quel gioco.


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R-U-BEN reagirono in modo reciproco. Il 1°genito l’apprese subito, a modo suo e senza studiarlo granché, riuscendo a mettere tutti in grande difficoltà. Giocava solo con tre pezzi alla volta, facendolo con iniziative così temerarie e decise che entrava negli schieramenti avversari come nel burro. Durò solo poco questa sua supremazia: il tempo che Benito imparasse a condurre le cose secondo la sua capacità, che presto si rivelò straordinaria, divenendo invincibile. Aveva una gestione perfetta delle regole e, a differenza di RU, che seguitava nelle sue iniziative ficcanti, azzardate, sempre troppo impulsive e premature, egli muoveva lentamente ma efficacemente tutto lo schieramento, tanto da avvalersi di tutti i pezzi in una organica opera d’attacco e difesa. Venne un giorno a trovare gli Amodeo il vicino di pianerottolo, il Signor Lamera, che aveva saputo di questa passione sorta lì accanto e desiderava mostrare la sua abilità, avendo brillato in qualche torneo. Sfidò Gino e lo vinse, una due volte. Fu a quel punto che il padre propose al vicino di battersi con quel suo figlio più piccolo, che allora aveva 14 anni. Il vicino accondiscese, per cortesia, e perse. Allora confessò a se stesso che aveva preso sottogamba il ragazzino e pretese la rivincita, impegnandosi a ristabilire le giuste proporzioni. Perse di nuovo. Volle fare un terzo tentativo, dicendo a se stesso che – accipicchia! – doveva impegnarsi! Perché non lo faceva? Perse anche la terza volta e si ritenne così scornato che, pur invitato, non volle più andare a trovare i vicini per giocare a scacchi con loro. Quel gioco quasi cessò d’essere un puro divertimento e presto impegnò espressamente padre e madre di R-U-BEN in accanite partite tra loro due. Gino voleva vincere, ma spesso per distrazione lasciava sotto presa un suo pezzo, e quando Anna faceva la mossa di mangiarlo scattava cercando di annullare quell’incauta mossa, e allora scattava la regola di “pezzo toccato pezzo giocato” tra loro due, ed era anche divertente vedere come certe volte si accapigliassero in quelle loro contese, come se fossero due bambini. IL LICEO. I ragazzi della 1° E del liceo erano proprio finiti male, come era parso fin da subito, in tutte le materie, tranne Storia e Filosofia e Religione, i cui professori erano Miccinesi e Don Giussani. Il primo – si come delle miccine – il Miccinesi, penetrò nella mente e nella fantasia di tutti i ragazzi e l’infiammò. La sua materia era già affascinante, ma lui sapeva farne la cosa più importante tra tutte. Doveva insegnare anche Storia, ma a lui questo compito non andò molto a genio, tanto che tutte le sue ore furono dedicate alla filosofia. Solo in tre occasioni, durante tutto l’anno, usò entrambe le ore per interrogare a tappeto tutta la classe sui rispettivi tre periodi storici nei quali aveva suddiviso l’argomento del libro, ciascuno da pagina tot a pagina tot.

“La Filosofia è nata con Parmenide, che postulò come, alla base d’ogni cosa, vi fosse il suo essere ...” Spiegava, declamava e voleva che tutti prendessero appunti. Il libro di testo esisteva, ma era come se non contasse nulla, perché quelle che valevano erano solo le lezioni fatte in classe da lui. Bisognava prendere appunti e poi studiarli a casa, perché egli avrebbe interrogato soltanto in base ad essi e non a quanto scritto sul libro di testo. Così lui parlava e tutti annotavano le sue parole. RU lo faceva, ma poi non rileggeva mai i suoi appunti. Per quanto l’argomento colpisse in notevole modo la fantasia e i suoi interessi, non riusciva a memorizzare tutto quanto aveva udito, perciò nelle interrogazioni, anche relative a questa materia, denunciava dimenticanze, come chi fa fatica a capire e non a mandare a memoria. Miccinesi se n’accorse e iniziò sue strane tecniche per indurre Amodeo a essere più ligio, finché un giorno non ne poté più e sbottò a voce altissima: “Amodeo! Io non so come sei fatto! Ogni tanto ti do cazzottoni che sposterebbero un elefante, e tu... assorbi il colpo, come un cuscino!” Ebbene tra tutti loro, solo RU sarebbe stato un filosofo, chi avrebbe assorbito tutta quell’energia, senza disperderla come facevano tutti, nel movimento. DON GIUSSANI Ci fu un altro, “toccato come Amodeo”, in quegli anni, per il quale il Miccinesi fu sì come le miccine del suo cognome. Si trattò del professore di religione, Don. Giussani, futuro fondatore dei movimenti cattolici chiamati GS “Gioventù studentesca” e CL, “Comunione e Liberazione”. Toccarono il Don Giussani d’allora la capacità “diabolica” che aveva il Miccinesi di catturare e accendere l’attenzione degli studenti. Quando spiegava filosofia non volava una mosca, mentre per la religione non era così. Anche Don Giussani alla fine ha raccolto: da quella classe uscì Pierluigi Bernareggi, futuro missionario in


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Brasile e Bruno Quartana, prima architetto e poi divenuto un frate. Ma vennero soprattutto le idee nuove circa il vero bisogno, dei giovani, di trovare un tema religioso affrontato bene e che veramente li attraesse. Gran parte della nascita di CL fu dovuta alla presa del Miccinesi sui giovani. Romano non fu mosso nemmeno da Don Giussani. Sebbene profondamente religioso, nessuno di coloro che si riunivano con lui avvertì mai l’urgenza neppure d’invitarlo ad uno dei tanti incontri. RU ignorava perfino l’esistenza di GS. Tuttavia uno dei suoi dipinti in quel tempo fu una crocifissione che molto risente del clima che aleggiava, a mezzo tra la ragione e la fede, e che quell’anno gli fece vincere il primo premio nel concorso di “arte”, bandito nel Berchet alla fine dei corsi. Sarà esposto l’anno dopo al PAC, Padiglione Arte Contemporanea di Milano, e resterà sempre in possesso di Romano, non lo vorrà mai vendere. Quando RU trovava qualcosa che gli piaceva, vi si buttava a capofitto, ma lo studio metodico delle conoscenze altrui non aveva per lui alcun fascino e non studiava. Essendovi costretto dai corsi di studio, era sempre costretto a metterci del suo, quando era poi interrogato. Come si vede dai voti, sui registri di classe, il profitto di questo studente lasciava a desiderare. Qui di seguito i risultati della sua 1° liceo. Promosso con tutti 6 e tre sette: in Filosofia, Storia dell’Arte, e in Educazione Fisica. 10 in condotta e in religione una B indicante “bravo”.

LILIANA CASSANI, & PIA PENZO, I TORMENTONI di R-U-BEN I due fratelli in viale Omero vissero due veri tormentoni, per due ragazze che, impegnando la loro fantasia e il loro cuore, impedirono di disperdere il grande tesoro dell’innocenza in quei flirt che da sempre hanno coinvolto tutti i loro coetanei. Nella sapiente regia dei genitori, i loro tempi non furono accelerati, come purtroppo accade sempre più nell’era moderna, disturbando e confondendo i valori. Dopo di essersi fatto coraggio ed averla conosciuta, RU provò di tutto, con lei, ma, nonostante tutti gli sforzi che fece, non gli riuscì di trovare mai alcuna intesa valida, lunga e soddisfacente, di quell’amicizia che cercava. Era snobbato, guardato dall’alto in basso come se lei fosse una principessa e lui uno sguattero. La sua famiglia era composta da 4 persone: il padre un tassista, la madre casalinga, lei, che frequentava una scuola che non si sapeva bene qual fosse e Claretta, molto graziosa e di circa 4 anni più giovane di Lilli. Per fare amicizia e nello stesso tempo mantenere qualche distanza con Liliana, RU dipinse un ritratto (fatto a memoria) non a lei ma alla sorellina, un bel profilo che fu molto apprezzato, incorniciato e subito appeso nel suo soggiorno di casa. Le regalò tutta la sua collezione di Topolino. Poi le riparò la bici. Quando però lei fu scostante con lui e senza motivo, per reazione lui lasciò davanti all’uscio della sua casa tutti i pezzi della bici sostituiti a sue spese, suonò il campanello e se n’andò prima che la porta si aprisse. Basta! Tutto finito! Non merita nulla! Cercò di cacciarla via persino dai suoi pensieri, senza riuscirci. Benito, da parte sua, aveva notato Pia Penzo, e – agendo stavolta in perfetta simmetria con il fratello – nonostante avesse molta voglia di conoscerla, non riusciva nemmeno a prendere questa piccola iniziativa. Lui però aveva 14 anni! R-U-BEN AL MARE, E RU FU AGGREDITO Quell’estate passarono le vacanze a Castellammare di STABIA, dove abitavano parenti lontani, i Cesarano. Lungi da Capizzo forse in memoria degli eventi passati. A Castellammare i genitori facevano la cura delle acque lei (per guarire l’ulcera allo stomaco e il fegato) la cura dei fanghi lui (per l’artrosi alle ginocchia). La meno disgustosa era l’“acqua della Madonna”, libera, posta fuori delle Terme. Mentre R-U-BEN al mare riposavano in cabina, dopo due forti colpi sulla porta, l’uscio fu spalancato di colpo da un giovanotto che si scaraventò contro RU, investendolo con una gragnola di pugni il ragazzo. Lui si chiuse nella sua guardia, e incassò tutto senza danni. Benito, svegliato, chiese cosa fosse successo, e Romano gli rispose: “Non so questo cretino è entrato...” e si prese così, colto di sorpresa, un cazzotto potente dall’aggressore che, sentendosi chiamare “cretino”, sferrò con un fulmineo dietro-front un gran cazzotto inatteso, che centrò lo zigomo sinistro e un anello che aveva al dito tagliò la pelle giusto sotto l’occhio. RU fu portato all’ospedale


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ove ricucirono il taglio, che aveva leso uno dei muscoli. Restò da lì in poi con due differenti modi con cui le palpebre dei due occhi si chiudevano. Il motivo del pestaggio? Quell’uomo, di 27 anni, figlio di una maestra, aveva visto muoversi qualcosa attraverso i fori nella parete, sotto l’attaccapanni, e aveva creduto ci fosse un guardone di quello che lui stava facendo nella cabina di fianco con la sua ragazza, quando RU vi aveva appeso un asciugamani. Le due maestre, si accordarono. Risarciti i danni, si ritornò a Milano.

1956

LA GESTIONE FAMILIARE La famiglia doveva fare i conti sapienti con l’economia. Le entrate erano solo quelle derivanti dagli stipendi di due statali e non si era nell’abbondanza. Ciononostante, la capacità eccezionale d’Anna riusciva sempre a tener fede a tutti gli impegni derivanti dai mutui, dai vari ratei e dagli inevitabili costi di acqua, luce e gas. Un giorno lei spiegò a RU come facesse. Entrando in cassa gli stipendi il 27 del mese, lei prendeva la metà di quello che sarebbe occorso per arrivare alla fine del mese e la metteva da parte, poi gestiva come meglio il rimanente. In tal modo, quando arrivavano le date, attingeva ai saggi depositi fatti in precedenza. Con entrate a dir poco modeste, Anna compiva il suo puntuale miracolo per famiglia, non facendo mancare mai niente. Tutte le volte che aveva potuto, aveva lavorato di più. Così adesso lei accudiva anche alla mensa scolastica organizzata dal Comune di Milano, divenendo anche sua dipendente; inoltre, curava il doposcuola. Cuciva a macchina, sulla sua Singer a pedali, tutto quel che poteva; poi la sostituì con una elettrica, ma rimpiangeva sempre quella di prima. In questo lavoro di massaia era aiutata in casa da Anna, che aveva appreso a fare la sarta, e poi da Adriana, sua sorella e di Gennaro. La famiglia, dopo le ferie estive tornò ad essere fatta da sette persone, quattro di quella Amodeo e tre dei figli Gennaro, Anna e Adriana. Giunse il tempo di tornare a scuola. R-U-BEN furono iscritti alla seconda liceo ed alla terza media nel Liceo Berchet, Gennaro al quarto e ultimo anno per divenire Perito Edile. Il corso per Geometri durava 5 anni. Anche per la minor durata dell’ ITS (Istituto Tecnico Superiore dei periti edili) era stato scelto per Gennaro quel futuro che però consentiva le stesse attività svolte da un Geometra.

R-U-BEN compirono 18 anni il primo e 15 il secondo nei 23 giorni che passano tra il 25 gennaio e il 17 febbraio; un tempo in giorni che rientra nel calcolo che mette in relazione i due alla distanza di 10+13 giorni, indicanti l’unità del ciclo 10, più quello abbinato alla dimensione 3 dello spazio, in tutti i contesti, naturali e trascendenti. Non per caso 2 e 3 sono i due primi numeri primi, e in 23 il primo dei due vale nella dimensione 10 del ciclo unitario a monte di tutto e dunque divino. STRATEGIA DELLA PROVVIDENZA La Provvidenza Divina è sublime, sfugge alla vista. Come si servì di Lilli Cassani per impegnare la mente e il cuore di RU, così utilizzò Pia Penzo impedendo ai due tutte quelle avventure dispersive solite tra i ragazzi che si appressano a divenire uomini. Hanno tutti rapporti che tolgono originalità al corpo e alla mente, cosa che fu impedita ai due fratelli da passioni non ricambiate e senza sbocchi. Un giorno – quasi piangendo – di fronte ai suoi insuccessi nella linea che RU intendeva, disse a sua madre, sconsolato: «Ci sarà mai qualcuna che mi amerà?» La verità non era quella. Romano piaceva a molte, ma era misteriosamente attratto fin dalla sua adolescenza, solo dalle persone alle quali lui non piaceva. Per questa ragione, di cui RU nemmeno si rendeva conto, non aveva sviluppato quella esperienza con Teresa, in qualcosa che avesse un futuro.


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DDT l’avrebbe amato – se si fosse proposto – Perciò già l’aveva incontrata! Lei però non era problematica quanto occorreva affinché lui s’incaponisse su come risolvere quel suo interassante problema... che non c’era dove lui invece piaceva. Liliana era il grattacapo giusto per lui. Tanto che restò sempre lì a struggersi per lei, anche dopo di averla lasciata. E quando finalmente scoprì in che scuola lei andasse, a giugno volle vedere quanto fosse brava, e vide ch’era stata bocciata. Per dimenticarla fu spinto a fare altre amicizie tra i ragazzi di quel palazzo. Poi – fallito il tentativo di ribellarsi al suo stesso cuore – RU si rifece nuovamente vivo e riallacciò quella specie di amicizia per ottenere lo stesso trattamento di prima. Accadeva a entrambi: a R-U-BEN . Così a un certo punto avevano relazioni con due coppie di sorelle, Cassani e Penzo. RU desiderava Lilli e sua sorella Claretta faceva gli occhi dolci a BEN, che però aveva solo attenzioni così segrete per Pia che nemmeno glielo diceva Sua sorella Giuliana aveva attenzioni per RU che ne aveva solo per la sorella di Claretta che ne aveva per il fratello. Cose da non credersi. RU PEDAGOGO E CANTAUTORE Il 1°genito di Lamech cominciò a scrivere canzoni, che registrava sul suo “geloso”. Lo accompagna, nei momenti di riposo, Pasquale Andriola, un ragazzino a cui faceva il doposcuola e che suonava la chitarra. Ebbe anche la spudoratezza di presentarle in concorsi canori, piazzandosi anche bene. Andriola poi l’avrebbe fatto per professione, Come Paki e poi Paki & Paki. RU cantava “Liliana, sei una bimba strana, ogni settimana tu muti, come il ciel...” Lei una volta andò anche ad ascoltarlo e il volto di RU si fece ancora più rosso del maglione che indossava. Un’altra andò con lui perfino a una festa lontana, prendendo un treno. Senza che lo sapesse, nel circolo dell’oratorio femminile aveva delle vere fan, che lo seguivano (da lontano) in tutte le sue cose, e lo ritenevano irraggiungibile e così non provavano mai nemmeno a conoscerlo di persona o a stringere amicizia. Altro che irraggiungibile: in certi tristi momenti si sarebbe aggrappato ad un cesso! RU aveva imparato i rudimenti del ballo in televisione e poi alla scuola delle sorelle Penzo, le tre ragazze che abitavano due piani sopra di lui. Ci volle un po’ prima che si formasse il gruppo degli amici, tra i giovani abitanti del numero 22 di Viale Omero. Poi i legami si strinsero: con Mario Uliana, che abitava all’ultimo piano, con Angelo Mazzola al quinto (il cui fratello, Carlo, più grande di loro e già studente

universitario di Medicina, non si aggregò mai a quel gruppo di ragazzi che abitavano tutti sulla stessa scala B). In quella A, lì vicina, c’era Mario Fadelli. Al 24 c’era Riccardo Passer. Questo gruppo si unì e cominciò a giocare a tennis, in un club cui avevano tutti aderito, tesserandosi; il che gli permetteva di giocare a volontà. RU restava uno terribilmente timido quando doveva farsi avanti per fare la conoscenza di una ragazza. Magari compiva grandi preparativi e poi, giunto il momento di dire un semplice “Ciao, come ti chiami?”, non lo faceva più, e restava bloccato, come se si fosse trattato di dover compiere chissà che grande impresa. Vide suo fratello in questa stessa situazione, imprigionato per anni in un suo vero sentimento per Pia Penzo. Per quanto loro due si parlassero e frequentassero la stessa compagnia, Benito tenne per anni tutto chiuso in se stesso questo sentimento, senza riuscire mai a farglielo nemmeno conoscere. Quando un dì RU lo spronò a dichiararsi, il fratello gli rispose candidamente: “Non sono sicuro di volerla sposare.” LA LAMBRETTA Fece l’ingresso, nella famiglia, a questo punto, anche una lambretta. L’incertezza di scelta era stata tra le Vespe e le Lambrette, i due motocicli che furono, in Italia, per tutti, l’anticamera poi delle piccole automobili. Fu scelta la seconda, perché costava meno e con la scusa che piaceva di più in quanto era un realizzata a Lambrate, a Milano. Qui RU è con la cugina Lisetta, a Bodio da Zio Carlo. Per non tenerla in strada, i coniugi acquistarono anche un box, sempre con diritto di riscatto, situato al numero 5 di Viale Omero. Spesso la famiglia si spostava, su quella moto, percorrendo anche i molti chilometri di distanza che portavano al sud, altre volte viaggiava in treno, con la lambretta al seguito come bagaglio presso.


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Una volta Gino e RU fecero in tre giorni il viaggio d’andata e ritorno tra Milano e Salerno. Allungarono i 1.800 chilometri totali di 200 km, avendo dimenticato la mitica Rolleikord in un bar. Ritornarono, per l’insistenza di RU e fortunatamente ritrovarono la cartella, con dentro quella macchina fotografica così cara al padre e della quale egli si sentiva così orgoglioso. Nel bar nessuno si era accorto come fosse restata nascosta sotto un tavolo. Erano delle vere e proprie avventure, spesso fatte senza molti soldi, con solo quelli messi a disposizione dal padre, per l’appannaggio sempre avuto anche da lui da Anna, l’amministratrice d’ogni cosa. Così RU alla fine convinceva il padre durante il percorso, alla brutta figura di pranzi fatti al ristorante, ma con il solo primo ed un suo bis, per togliersi la fame, senza il secondo, che era troppo caro. IL BERCHET DI R-U-BEN E LA SOCIALITÀ INIBITA Poco da dire su BEN, sempre in gamba e tra i primi a scuola. Reciproco rispetto a lui era naturalmente RU. Iscritto alla seconda classe del liceo, RU seguitava la sua personale battaglia contro il disadattamento, ma essa si svolgeva in precisi confini e regole. Doveva invece trovare il giusto modo di rapportarsi con chi non conosceva e al di fuori di tutto quanto c’è a facilitare la socialità. È facile prendere a calcinculo la cugina alle giostre e farla volare fin lassù, in paradiso, ove c’è un fiocco da ghermire prima degli altri; anche in sua sala da ballo, in cui le persone sono

lì in attesa di invitare e essere invitati. Non era così semplice farlo in una via, perché lì la regola era che ciascuno filasse dritto per agli affari suoi e non per essere agganciato, anche se nelle migliori intenzioni. Questa difficoltà Romano l’avrebbe conservata per tutta la vita. A superare buona parte di questi inceppi di natura sociale, al compimento il 25 gennaio dei suoi 18 anni, valsero molto la scuola e lo sport. In entrambi i casi esistono le regole per socializzare, almeno coi compagni di scuola. Nell’istituto Berchet le classi erano tutte ben separate tra maschi e femmine. Ebbene, i loro compagni maschi superarono quell’isolamento e socializzarono con le coetanee, invece R-U-BEN non ne conobbero nemmeno una! A casa già era stata una grande vittoria contro la sua timidezza quella di abbordare Liliana dimostrandole espressamente che la voleva conoscere. Benito, invece prima ancora di far capire a Pia che lei gli piaceva, doveva avere chiarito a se stesso se intendeva sposarla o meno! Essendo RU uno della squadra di pallacanestro, ed essendoci molte ragazze ad assistere agli incontri del campionato interno di basket, poteva essere quella l’occasione per conoscere qualche tifosa... poteva, ma non accadde. Che differenza se si confrontano le cose che avvenivano allora lì a Milano con quelle in America, con le Cin Leaders così bene organizzate e la loro intraprendenza. Nella piccola palestra del Liceo, in cui erano disputati gli incontri, c’era appena un metro, tra il bordo del campo e le pareti ed era una muraglia di ragazzi e ragazze. All’inizio d’ogni partita i giocatori della squadra di RU si stringevano a gruppo e, restando così abbracciati, in circolo, in mezzo al campo, lanciavano il loro grido di battaglia che era “Occi, Occi... min! Occi, Occi... min! Occi, Occi... min! min!! min!!!” in onore di “Occimin” il nomignolo affibbiato al prof. Miccinesi, che vagamente assomigliava ai cinesi, non solo nel cognome ma anche nel volto. L’essere stato inserito in quella rappresentativa che schierava 5 giocatori in campo, sui 10 d’ogni squadra che partecipavano alle partite restando a turno 5 ai bordi del campo, era stata per RU la prima occasione per ricominciare a trovare successo ed autostima. Era stato selezionato perché in ginnastica aveva l’unico 8 della pagella e si stava rivelando uno tra i più bravi di tutti, eseguendo nel migliore dei modi il salto della cavallina, la salita alla pertica, il quadrato svedese, il salto in alto e tutte le altre pratiche solitamente fatte alla scuola. Chi selezionava i giocatori da impiegare nelle varie partite di Basket non era il professore di ginnastica, ma il capitano d’ogni squadra, nominato dai compagni. Quella di Romano era scelta nei suoi elementi e diretta da Giovanni Bravi, un ragazzo alto ed aitante che militava nelle divisioni minori dei tornei regionali. RU, nei tre anni di partecipazione, ebbe, nell’ultimo anno, la gioia di vincere il titolo di Campione, con la sua terza E. Per la Pallacanestro era piccolo, con il suo metro e 71. Dotato di buona elevazione riusciva tuttavia a far suoi molti rimbalzi.


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Cominciò ad avere anche altre soddisfazioni. Ad ogni fine anno c’era, al Berchet, una gara finale in cui ciascuno degli studenti, dando segno della sua abilità nei vari campi, presentava le sue opere di tipo artistico e culturale. Vincendo la foltissima concorrenza, tra i circa 750 studenti di quel Liceo-Ginnasio (5 classi, 5 sezioni, per circa 30 ragazzi per classe), RU si aggiudicò per il 2° anno successivo il titolo di migliore artista, e questa volta in scultura, presentando la testa di un uomo che soffriva, eseguita in gesso e colorato in modo da sembrare di bronzo. Fu promosso con tutti 6, tre 7 (in Latino, Greco e Storia) un 8 in ginnastica e divenuto meno impacciato, scese a Sufficiente in Religione e al 9 in condotta.

R-U-BEN E IL CALCIO, POI ALL’ORATORIO In tutti quegli anni non aveva mai provato a giocare al calcio. La sua attività nella palla a canestro giocata a scuola solo da lui, avevano intanto spinto il fratellino a occuparsi di calcio, e del Milan del Gre-No-Li, di cui andava a vedere le partite. Benito volle che fossero R-U-BEN ad andare a San Siro, in un paio di occasioni e così scoppiò un grande amore anche in RU. Gli venne il forte desiderio d’emulare quei calciatori. Così reagiva tutte le volte ch’era di fronte a qualcosa di bello fatto dagli altri: voleva farlo anche lui. Non sapeva dove né come cominciare. Fece allora come tutti, andò in un prato a trecento metri da casa, in cui, messe due pietre per terra a indicare la porta, i ragazzini si sfidavano con addosso gli abiti, che si bagnavano di sudore, senza un lavandino o una doccia. C’era lì vicino l’Oratorio della Chiesa di S. Michele e Santa Rita, con un campetto piccolissimo, con porte e spogliatoi, ma RU addirittura ne ignorava l’esistenza, non lo aveva mai visto, pur andando a quella Chiesa regolarmente. Il campo era in Via Panigarola 11, nel retro della Chiesa e non si vedeva, percorrendo

Viale Omero, quando RU andava a messa. Del resto egli non frequentava l’Oratorio, non lo aveva mai fatto in vita sua, da quando era nato, perché in tutti i posti in cui era stato, anche quando aveva abitato in Via Bernardino Verro, la Chiesa e i suoi luoghi era sempre stata troppo lontana per essere vissuta durante il giorno. In quel prato, che accoglieva per lo più ragazzini, RU era favorito dalla sua mole di diciottenne e riusciva a recuperare tutte le volte che ragazzi più piccoli ma anche più capaci di lui, lo scartavano come un birillo e gli facevano il tunnel. Ebbe così modo, in tappe accelerate, di acquisire le basi di quel gioco dai ragazzi molti più piccoli di lui, che, a poco a poco, non riuscirono più a fargli passare la palla tra le gambe né a scartarlo come un birillo. Posseduta la loro stessa abilità, la lotta divenne impari, così iniziò a cercare i suoi coetanei, che giocavano anche in quel campetto, quando arrivava la sera e terminavano il lavoro. Attorno a quel prato c’erano le case popolari e i giovani che le abitavano scendevano lì, a dare quei quattro calci al pallone, prima dell’imbrunire. Poco alla volta RU emerse anche tra loro e si fece promotore di sfide. Una volta, per renderne più ufficiale una, improvvisò due vere porte, in quel parto, costruendole con le travi di legno fattesi imprestare nel vicino cantiere che stava realizzando una pista di pattinaggio lì di fianco. Due porte e un gran lavoro per metterle su, e solo per una sfida tra due squadrette da nulla, con perfino il campo segnato alla bella e meglio con il gesso. Qualcuno lo invitò a giocare con lui all’Oratorio. Fu così che RU vi si introdusse, timidamente, conoscendo Don Celeste Dalle Donne, il suo Assistente. Entrò a poco a poco nel Circolo Giovanile Anni Verdi, che aveva sede in quel luogo e che aveva, oltre al minuto campo di gioco del calcio, anche due sale per l’attività del tennis da tavolo, del calcio-balilla e del biliardo. Conobbe Pozzoli, il Presidente, Renato Mariano e quella macchietta di Sferlazza! RU s’iscrisse al Circolo. Per la gavetta che aveva fatto in quel campetto di periferia, entrò in Oratorio già capace almeno come loro, nel gioco del pallone, e vi partecipò, sudando le sue brave camice... Ora potendosi lavare e, mettendosi per la prima volta in vita sua, a 18 anni, in mutandine, maglietta e scarpe bullonate. Quelle partite erano combattutissime, cariche di rivalità, specie tra quanti regolarmente frequentavano l’Oratorio e quegli esterni che apparivano ogni tanto. Arrivavano solo per queste sfide, e praticavano seriamente il calcio, nelle giovanili delle squadre, tesserati e inquadrati in quello sport che poteva poi portarli se emergevano, anche nelle serie maggiori e in quella “A” ch’era il sogno di tutti. C’era molta rivalità tra chi era dell’Oratorio, membro del Circolo Anni Verdi, e questi che esprimevano la preparazione fatta nelle scuole di calcio delle varie squadre giovanili. Erano vere battaglie in cui si opponeva entusiasmo a bravura, passione a scuola. Quella di RU non era stata nessuna delle due, era stata quella della strada e per lui fu brevissima; tuttavia fu proprio idonea a fare di lui uno che aveva ormai tutti i mezzi per primeggiare, in quel campo, tra i suoi compagni.


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Grazie ai meriti sportivi conseguiti in quel Circolo, gliene furono attribuiti anche di tutt’altro genere e si trovò presto eletto nel suo Consiglio Direttivo. Allora cominciò a prendere iniziative e quella, che sorprese gli altri più d’ogni cosa, fu la proposta che il Circolo organizzasse una sua squadra per partecipare al calcio giocato sul serio, sui veri campi sportivi e a 11 giocatori. Don Celeste, che nel Circolo era l’Assistente ecclesiastico e moderatore d’ogni cosa, non si oppose al tentativo. Non si oppose Renato Mariano, il presidente, e fu iscritta, tra i molti dubbi di tutti, tranne che di RU, la squadra Anni Verdi ai campionati organizzati dal CSI, il Centro Sportivo Italiano, l’ente con fini ricreativi e educativi che si muoveva nell’orbita della Chiesa Cattolica. Si temerono sfracelli che non ci furono mai, poiché la squadra (e per molti anni) finì sempre ai primi posti, pur non riuscendo mai a vincere un proprio girone. Quell’anno Gennaro compì i suoi studi e si diplomò Perito Edile. Anna si era infine fidanzata, ad un carabiniere, Nicola Renzi, che prestava servizio a Livorno. Una volta RU fu ospite di lui, per una settimana. Giunse il momento e si sposarono, così Anna nel 56 lasciò la famiglia in cui era vissuta dal 46, per 10 anni. Prese allora il suo posto, per qualche tempo, Teresa, chiamata da tutti Titina. Era quella cuginetta di cui RU, quella notte di quando aveva 7 anni, aveva spiato furtivamente il sesso e che ora doveva sposarsi con Vincenzo, il figlio di quel Raffaele Minella che aveva raccontato a Gino l’azione della banda capeggiata da suo figlio, che era entrata nel suo bar ed aveva portato via un’aranciata. Vincenzo, il figlio di quell’oste che aveva il calesse, era andato in America ed ora aveva chiesto in moglie Teresa, ma la voleva cittadina, disinibita, dunque toccava alla famiglia di Romano d’assicurare la sua evoluzione, nel senso richiesto dal futuro marito.

RU e Titina divennero inseparabili utenti delle giostre che erano istallate nella piazza davanti alla Chiesa di S. Michele e Santa Rita, quando era la festa di quest’ultima santa. C’era un calcinculo, così chiamavano la giostra coi seggiolini volanti, in cui chi, girando, riusciva ad afferrare il fiocco posto sotto una gran palla sospesa lateralmente, faceva una corsa gratis. RU si metteva dietro Teresa, divenuta piuttosto cicciottella con gli anni, e, facendola prima oscillare qua e là sul suo seggiolino attaccato lassù alla giostra ruotante, sferrava con un piede una spinta così vigorosa al seggiolino della cugina che quella volava, volava e afferrava il fiocco, facendo gratis la corsa seguente. Divennero una coppia quasi imbattibile. Dopo nemmeno due giri della giostra, Titina era stata già spinta fin lassù ed aveva in mano il suo fiocco. Ogni tanto, mentre era aggrappato al seggiolino di Teresa e volteggiava con lei, con tutto il mondo che gli girava intorno, gli veniva da ridere, ricordando l’infanzia, quando aveva spiato a lungo come fosse fatta quella bellissima cuginetta sua, e lei non s’era accorta di nulla. Fu l’ultima estate che vissero sotto lo stesso tetto, poiché dopo il diploma di Gennaro, per impedirgli di ritornare al sud e visto che già Anna, Adriana e perfino Teresa, sue sorelle, erano già a Milano nella famiglia Amodeo, ecco che i suoi genitori si decisero. Morta già da tempo Tresina Peparola, si trasferirirono essi pure a Milano, e presero alloggio in Piazza Insubria. Finalmente tutta la famiglia di Guerino si era riunita, ritirandosì lì in una ottantina di metri e lasciata vuota l’ampia casa a due piani, di proprietà e con l’orto, in cui avevano vissuto a Ostigliano. Gennaro trovò anche un lavoro, a Caronno Pertusella.


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1957

MATURO, MA DOPO GLI ESAMI DI RIPARAZIONE Se non fosse stato esaminato nelle materie scolastiche ma in quelle del normale comportamento, che cosa potremmo dire? Il primo vero bacio a una ragazza RU lo diede dopo avere compiuto in questo 25 gennaio i suoi 19 anni, a Sabina Giampietro, che abitava di fronte a lui. Non che fossero mancate anche reali occasioni, per comportarsi in modo diverso. Ma se invitava una ragazza al mare a fare una passeggiata e quella accettava, si trattava veramente e solo d’una passeggiata e deludeva così chi l’aveva accettata forse nell’attesa d’un qualcosa di più. R-U-BEN volevano, per l’educazione e il senso d’onestà infusigli dai genitori, che il sesso vero e proprio ci fosse solo dopo un matrimonio che fosse stato celebrato e consacrato in chiesa. Così RU deluse forse una certa Carmina, che aveva un petto così prorompente che mentre le insegnava a 17 anni il nuoto a Castellammare di Stabia (e le consigliò di prendere un gran respiro), le si ruppe il bottone che teneva su il reggiseno e il suo seno le esplose fuori. Lei non fece una piega e rimise tutto al suo posto, accettando poi una deludente gita con lui in lambretta, sulla costiera amalfitana.

APPENDICITE PER R-U-BEN. Di notte Benito all’improvviso ebbe un fortissimo dolore di pancia e fu molto prima dell’alba ricoverato d’urgenza all’ospedale. Finì sotto i ferri, per sua fortuna, d’un medico che, toltagli l’appendice, giudicò che il suo stato non doveva essere tale da avergli provocato dolori così forti da aver avuto bisogno d’un ricovero in piena notte. Così, tanto per vederci con più chiarezza, tagliò di più, esplorò... e si trovò davanti la vera causa: un secondo appendice, che possedevano, sembra, gli uomini primitivi, il Diverticolo di Nekel. Era accorso anche Carlo Mazzola, che si era laureato medico e rivelò come, inciso il secondo appendice, gonfio come un palloncino, esso era proprio scoppiato imbrattando tutti loro e tutta la sala. RU, che aveva anche lui un dolore localizzato lì, senza aspettare che divenisse acuto, si fece operare subito e si tolse il problema. Lo fece mentre il suo campionato di calcio era finito sì da non perdere nessuna partita. Queste si giocavano, fortunatamente, la domenica mattina, altrimenti sarebbe stata messa in crisi una delle pratiche che più tenevano vicini tra loro i due fratelli: la partita del Milan. Erano abbonati ai popolari e, una domenica sì ed una no erano puntualmente sugli spalti di San Siro. Per quanto R-U-BEN avessero sollecitato il padre a seguirli in questa loro passione, Gino, stranamente non aveva aderito. Stava poco a poco divenendo pigro. Si animava solo per le gite, che ormai facevano con due lambrette, perché ne aveva acquistata una nuova per sé, cedendo la sua ai suoi figli. Così R-U-BEN andavano alle partite su questa loro moto sventolando l’enorme bandiera del Milan, interamente dipinta da RU su un lenzuolo a due piazze, che effigiava un enorme Diavolo rossonero. LA PROBLEMATICA MATURITÀ DI RU Dopo un triennio in cui tutti i professori, tranne il Miccinesi, si erano alternati, le condizioni di preparazione degli studenti erano divenute terrificanti. Era stata la migliore classe alla V ginnasio, ed era divenuta ora senz’altro la peggiore, presi nel turbine degli avvicendamenti e anche dell’inesperienza dei docenti. Il professore di Latino e Greco era stato un anziano, sull’orlo della pensione, soprannominato dalla classe Robusto per la sua stazza possente: non gli importava che i ragazzi copiassero e allora una versione in classe era divisa in tre pezzi; in ogni fila di banchi se ne traduceva uno, poi i tre frammenti erano composti in uno. Alla fine la versione comune era perfetta e lui: “Ragazzi, se fate così debbo dare un 6 a tutti e nemmeno un 8”. A nessuno però importava d’avere 8. Per fortuna l’ultimo anno, al posto di Robusto era venuto un altro che, atterrito per lo stato cui si erano ridotti tutti, era ripartito da zero in quelle due materie.


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In Italiano la professoressa era chiamata la scagnozza, per il fare che aveva, spesso indispettito e minaccioso d’una cagna che digrigni i denti... ma era tutta un’autodifesa, assunta da una persona alquanto debole e incerta. RU trascorse l’anno senza leggere una riga del Paradiso Dantesco, all’infuori di quando gli toccava farlo in classe, come se non sapesse che uno dei temi in italiano all’esame di maturità poteva riguardare la Divina Commedia..., e così fu. Allo scritto d’italiano furono date tre tracce: la prima, di Storia, necessitava di date da citare e situazioni da conoscere bene; idem per il tema che trattava Storia dell’arte e il terzo fu questa traccia “Dante conserva nei Beati del Paradiso la memoria della vita”. Il più accessibile tra i tre era quest’ultimo e RU impostò la questione sul senso maggiore che si ha, del bene, quando si ricordano le fatiche sostenute per meritarlo. Fu così brillante nella dimostrazione di questa tesi, sostenuta solo filosofeggiando, che, sui circa 150 temi delle 5 terze del liceo, il suo fu uno dei soli due che ebbero un 7. La preparazione all’esame di storia cominciò il giorno prima dell’esame orale e sua madre con gran pazienza l’incoraggiò – mettendosi al suo fianco – dicendogli di leggere con lei almeno una volta tutto il libro nel pomeriggio prima dell’esame. Il Miccinesi, nominato membro interno, avendo la coscienza sporca per avere del tutto saltato il programma di storia per ben tre anni, per privilegiare la sola filosofia, chiamò, ad uno ad uno, i suoi allievi e si fece dare da ciascuno una domanda, che annotò e che – se glielo permettevano – egli gli avrebbe rivolta. Amodeo la scelse, ma il giorno prima dell’esame, dato il poco tempo, perché l’indomani c’erano ben 5 altre materie su cui prepararsi, lesse solo due o tre volte quell’argomento. All’esame gli fu chiesto per quale motivo i Russi avessero sempre cercato di mettere un piedino nel Mediterraneo, e veramente, su quel tema, andò a nozze. Si trattava solo di ragionare e quello era il suo forte, anche se improvvisava considerazioni che non aveva mai studiato. La domanda del Miccinesi sembrava perfino superflua, ma, visto come Amodeo avesse soddisfatto tutti, cercò di fargli dare l’ottimo e il Miccinesi tirò fuori la domanda tra loro convenuta e che era piena di date da dover ricordare. Così venne fuori l’asino. Evitò per un pelo la bocciatura in storia proprio per quel tentato imbroglio col membro interno! La preparazione della trigonometria iniziò la stessa mattina dell’orale e seppe istruirsi così bene su tutta questa materia, in sole tre ore, che risolse facilmente i tre problemi che gli furono sottoposti. Ancora una volta RU ebbe la conferma che con le questioni d’angoli, seni, coseni, tangenti e così via, aveva una dimestichezza come se avesse da sempre trattato e conosciuto quella materia. Il dramma fu sfiorato in italiano orale. L’esaminatore chiedeva i riassuntini dei brani che erano stati elencati nel programma. Fece così anche con lui (che non li aveva mai letti) e la risposta fu una scena muta.

«Che peccato – esclamò l’esaminatore – abbiamo dato agli scritti due soli 7 e uno dei due era il suo!» Così seguitò a chiedergli riassuntini finché non ne arrivò un paio, che il ragazzo gli seppe fare, avendo letto i due brani. Discorrendo, l’esaminatore era un ammiratore della pittura, e RU gli raccontò che aveva vinto i due ultimi concorsi di arte organizzati dal circolo studentesco. Quello chiese allora di vedere le opere, e un paio d’ore dopo le ammirò, poiché RU volò a casa e gliele portò. Dopo questa sua piccola personale, messa su in quel frangente, rimediò un 6. Non riuscì a essere altrettanto efficace in Greco e Fisica e così fu giudicato maturo ma solamente a ottobre!

LILIANA LO SALVA DA UN INTERVENTO ALLE GENGIVE Si erano staccate a RU tutte le gengive dai denti. Andò dal dentista che gli disse che andavano tutte tagliate in tutta la parte staccata. Ne parlò con Liliana e lei, gli consigliò – alla vigilia dell’intervento – di andare per un consulto al suo dentista. Nell’anticamera c’era una ragazza dal viso bellissimo, mentre attendevano entrambi il loro turno si parlarono: si chiamava Virginia Milanesi e viveva dove gli Amodeo avevano il box. Sarebbe stata, mesi dopo, la seconda ragazza alla quale RU avrebbe dato un bacio. Il dentista gli sconsigliò la gengivectomia, e gli indicò un rimedio drastico: doveva strofinarsi le gengive con lo spazzolino fino a farle sanguinare e senza averne pietà. Avrebbe sofferto, specie nelle volte successive. Ma a poco a poco il rosso vivo delle sue gengive sarebbe stato un collante potente ed esse si sarebbero attaccate di nuovo ai denti, da sole. RU lo fece, fu vero. Grazie – una volta tanto al suo tormento – Lilli in quell’occasione gli salvò le sue gengive...


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LA SCELTA DI DIVENIRE ARCHITETTO Cosa avrebbe fatto da grande? Non gli piaceva assolutamente studiare, lo aveva capito, dunque, anche se professioni come quella del medico gli piacevano per l’aiuto che avrebbe potuto dare alle persone, esse implicavano attività che obbligavano ad un continuo studio d’approfondimento e aggiornamento, essendo in gioco la salute e la vita. Non conosceva neppure che si potesse divenire architetto; per lui il titolo era onorifico e riguardava un progettista di gran merito. Fu Quartana, il suo rivale più accanito quando, alla fine degli anni scolastici, gli studenti del Liceo avevano gareggiato in base alla loro arte, che gli rivelò che sarebbe divenuto Architetto. Si decise così a scegliere lo stesso, non perché attratto dalla professione, ma soprattutto perché, una volta conseguita la laurea, non avrebbe dovuto impegnarsi a studiare per sempre. Fare progetti e creare, per lui non sarebbe stata una fatica. RU INVESTE UN’ANZIANA, CHE POI MORRÀ. DI BRONCHITE Stava percorrendo Corso Lodi ed aveva con sé il suo amico Fortunato Gallico. Aveva terminata la discesa che c’è, del cavalcavia sulla ferrovia dello Scalo di Porta Romana, ed aveva imboccato il tratto rettilineo, quando, da dietro la lunga fila delle auto parcheggiate sulla destra, uscirono, aperte a ventaglio, tre persone: due bambine, tenute per mano al centro da un’anziana signora, loro nonna.

Fu esattamente in questo punto di Corso lodi, mentre in lambretta con il suo compagno dietro, andava verso piazzale Corvetto. Sbucarono di corsa oltre le vetture una donna anziana e due bimbi che lei teneva per mano e gli furono davanti. Forse trascinata da una delle bimbe, l’anziana donna si era portata oltre le macchine e, data la loro bassezza, si erano presentate di colpo tutte e tre, davanti a RU che sopraggiungeva troppo veloce, essendo del tutto sgombera la strada.

Lui azionò i freni, non potendo deviare la sua traiettoria per evitare l’impatto contro tre persone aperta a ventaglio davanti a lui che frenò più che poté. La lambretta si blocco e lui fu sbalzato oltre la moto, addosso alla donna, che si trovò sotto, con la testa tra il suo costato e l’asfalto, mentre anche il veicolo la colpiva. La poveretta ebbe fratture da tutte le parti. Fu ricoverata in Ospedale. Nessun danno alle due bambine e a Fortunato; nessun danno a lui. Accorsi Gino ed Anna, protessero il loro figlio non gli permettendogli di andare a trovare quella donna – come lui più di una volta chiese – per non metterlo davanti allo spettacolo desolante di quello che aveva fatto. Non aveva ferite mortali, ma, per l’età, le si erano rotte le ossa in più punti ed era tutta ingessata. Ebbe piaghe da decubito che le indussero una bronchite di cui morì mesi dopo. Ora RU aveva sulla coscienza sua la morte indiretta di questa donna e l’attesa d’un processo per omicidio colposo: il decesso fu legato all’incidente. L’avvocato consigliò alla famiglia di non dargli più in mano un veicolo come quello: troppo pericoli per chi viaggia su due ruote, sia per sé, sia per gli altri. ISCRIZIONE ALL’UNIVERSITÀ Con l’ottobre del 1957, R-U-BEN attuarono il loro curriculum scolastico nel segno esatto del loro essere un 1° unità al 2°, e il primo si iscrisse al primo anno del corso di laurea in Architettura al Politecnico di Milano, il 2° al secondo anno del Liceo Classico Giovanni Berchet. RU cominciò la sua lunga avventura per diventare quel laureato che meno si sarebbe dovuto impegnare, nel resto della sua vita a studiare. Avrebbe fatto volentieri il medico, ma avrebbe scherzato con la vita altrui se non si fosse tenuto sempre al corrente delle novità in campo medico, e dunque bocciò questa via proprio per essersi accorto di quanto poco gradisse studiare le cose scoperte vere dagli altri. Come Architetto sarebbe stato un artista, e avrebbe potuto esercitare liberamente il suo estro senza che altri poi pagassero per la sua nulla propensione allo studio. BEN, totalmente complementare alle attitudini di suo fratello era invece amante dello studio, della meditazione, del metodo ordinato e scrupoloso, e tanto coglieva sempre profitto da questo suo essere completamente ligio al suo ruolo di studente modello, compiere tutte le cose che erano negate a suo fratello. Benito non aveva morti sulla sua coscienza e continuò brillantemente al Berchet, il suo penultimo anno prima della maturità. Romano invece sì: sentiva di avere una povera donna vecchia morta a causa sua. Aveva percorso, in verità, la discesa da quel cavalcavia di Corso Lodi facendo vedere a Fortunato quanto veloce fosse la sua lambretta, nonostante le fosse stato applicato, sopra il manubrio, quell’alto parabrezza, che l’avrebbe protetto anche dalla pioggia... ma non dagli attentati del Maligno sempre in agguato a suggerirgli qualcosa di imprudente se non di vero e proprio male.


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1958

R-U-BEN compirono 20 anni il 1° e 17 anni il 2°. Il primo iscritto al primo anno di Architettura presso il Politecnico di Milano, il secondo al secondo anno del Liceo Classico Giovanni Berchet. L’università è il posto ideale per chi non vuole studiare: non vi sono le interrogazioni. Ma poi è lo stesso: i professori che non vedono la tua faccia, non la riconoscono in sede d’esame e se debbono stangare qualcuno stangano te. RU Lo avrebbe sperimentato a sue spese. Nel Politecnico di Milano, Architettura era ancora insegnata nelle stesse aule di Ingegneria, e i corsi non erano granché differenti se non per le materie artistiche trattate con maggiore profondità, e quelle di matematica e di calcolo un po’ meno. Il nuovo Istituto sarebbe sorto lì accanto negli anni a venire. Se ne parlava, ma per adesso molte parti erano unificate e curate negli stessi padiglioni. Essendoci un campionato di calcio, interno al Politecnico, quella divenne la sua occupazione più gratificante. Vi erano ben dieci squadre di Ingegneria ed una sola di Architettura. Era dovuto al rapporto che allora esisteva tra la gran massa degli uni ed il gruppo sparuto degli altri: poco meno di 150 iscritti ai corsi di studio c’erano, in quell’anno; la disciplina era stata promossa alquanto di recente. RU già era diventato il leader assoluto del Gruppo Sportivo Anni Verdi che, all’oratorio, partecipava al campionato ad 11 giocatori organizzati dal Centro Sportivo Italiano. Ne era diventato tutto: giocatore, capitano, allenatore. Egli giocava al calcio con la maglia numero 10, era la mezzala che di solito si incaricava dell’organizzazione del gioco d’attacco. Correva incessantemente anche su

e giù per il campo e trovava anche il modo di farsi presente in zona di conclusione, segnando molti gol. Era ambidestro, non per natura ma perché in una occasione, giocando in una partita a sei giocatori sul campo dissestato dell’oratorio di Chiaravalle, si era fratturato il malleolo del piede destro per una violenta storta causata da una buca. Era stato immobilizzato a lungo dal gesso e poi per un anno gli era restata una strana paura a sollecitare quel piede in azioni violente, cosicché aveva usato il sinistro, che tra l’altro, in lui, era molto più potente. Stando all’università, RU aveva aderito fin dai primi giorni alla sollecitazione fattagli da Enrico Panzeri, che gestiva una squadra priva di un nome tutto suo. Era “quella dei Brocchi di Architettura”. Il suo modo per costituire e rinforzare la rosa stava nell’agganciare le matricole appena si iscrivevano, nella speranza di trovare tra loro qualcuno ben disposto, che già giocasse in qualche squadra importante. Ben lontani dai fasti e fastigi nello Sport Universitario d’America, o anche d’Inghilterra, i cui tornei universitari erano tanto importanti e ben seguiti che molti studenti erano contesi e corteggiati solo per i loro meriti sportivi, che gli assicuravano anche borse di studio e promozioni in materie con quasi nessuna attinenza con quelle pratiche agonistiche. Agli incontri di calcio universitario a Milano partecipavano solo i diretti interessati e non c’era alcun seguito: zero punto zero. RU s’impose subito, e in quel campionato segnò molte reti. In una sola partita giunse a realizzarne cinque. Tanto successo – non essendo in America – non aveva nulla a che spartire con i corsi di studio e con un occhio particolare per lui nel momento degli esami. Sempre giocando a calcio, poi prendeva parte ai tornei estivi organizzati in città e nei paesi limitrofi da sponsor tipo “L’Isolabella”, il “Coca Cola”. Erano a sei giocatori e si giocavano in notturna, con premi anche interessanti. All’oratorio aveva anche la squadra formata dai suoi amici del numero 22 di Viale Omero, e si chiamava “Ventidue”. Era un numero che divenuto importante per lui da quando andò a vivere a quel numero civico, era abbonato al tram n. 22 e tante altre cose. Lo avvertì istintivamente, poiché allora ignorava che 22 era il flusso reale 1/3 del suo essere 66 nel valore numerico del suo primo nome Romano. R-U-BEN giocavano insieme in quella squadra! Suo fratello, con lui attaccante, era naturalmente un difensore: il suo ruolo a 11 era quello del marcatore del n. 10. Riccardo Passer era il suo compagno più promettente, in quella squadra che aveva in porta Mario Fadelli, in difesa Benito suo fratello e Angelo Mazzola ed all’attacco Mario Uliana, con lui in mezzo a dirigere e concludere le azioni, in una squadretta VENTIDUE che non era granché.


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Benito non sentiva un gran trasporto per giocare al calcio ma per seguire quello altrui, dei campioni. Si era innamorato d’Alberto Schiaffino, giocatore venuto al Milan già anziano, a 33 anni e trapiantato nel famoso Gre-No-Li di Green, Nordhal e Liedholm, quando Green fu ceduto. S’invaghì anni dopo, appena ne vide il talento, di Gianni Rivera, che molto richiamava Schiaffino. Lo seguiva sui giornali, quando sedicenne era nelle fila dell’Alessandria, e collezionava tutti i ritagli che descrivevano le sue gesta, già quando nessuno avrebbe immaginato quale e quanta strada Rivera avrebbe percorsa in quello sport e quant'altra poi in politica per i meriti sportivi. Benito collezionò anche le nuove monete d’argento coniate, di 500 lire, risparmiando sulla sua paghetta. I genitori la davano a entrambi, a R-U-BEN, per insegnare a tutti e due a gestirsi nelle loro spese. (E Anna la dava anche a Gino). Quando RU voleva avere più probabilità di vincere, specie ai tornei estivi, sia all’oratorio sia nei campi comunali, allestiva una squadra più forte del “Ventidue”, attingendo da tutte quelle in cui giocava: nel CSI e al Politecnico. In un torneo Ramazzotti la sua squadra, in una partita di quelle frenetiche a 6 giocatori, che duravano venti minuti e in cui bisognava correre, correre, correre, vinse per 7 a 0 e lui realizzò tutte e 7 le reti, di sinistro, di destro, di testa, al volo, in acrobazia, in furbizia. Giocava a quel torneo anche il fratello di Sandro Mazzola, ma non era stato apprezzato quanto lo fosse stato lui, per quel suo fenomenale exploit. IL PROCESSO A RU PER OMICIDIO COLPOSO “Imputato alzatevi!” così fu dato inizio al processo per omicidio colposo contro RU. Una buona stella veramente l’assisté, perché il Giudice designato ascoltò le parti e stabilì alla fine che: “Non luogo a procedere, perché il fatto non costituisce reato”. Insomma assoluzione piena, perché Romano aveva fatto tutto ciò che poteva. Lo stesso Giudice aveva rifiutato la testimonianza di due persone che avevano sostenuto – a un certo punto, e comprese dal nulla – com’egli stesse procedendo sulla lambretta senza guardare. A favore di RU testimoniò Fortunato Gallico, mentre quelli contro furono colti in evidente contraddizione perché avevano detto d’avere osservato la scena dal primo piano di quel corso, dalle case di fronte, quando, sul luogo, i grossi alberi fronzuti non lo permettevano. Il giudice consigliò alle due persone di ritirare le loro deposizioni altrimenti li avrebbe incriminati per falsa testimonianza ed essi le ritirarono. Approfittando del risultato favorevole, Anna e Gino si accordarono con la controparte, affinché non ricorressero. E quelli – anche perché spaventati dal tentativo fatto colle false testimonianze – acconsentì, pur di chiudere la questione. Vale in detto: Chi muore giace, chi vive si dà pace.

I RISULTATI SCOLASTICI DI R-U-BEN BEN era stato promosso brillantemente a giugno in III liceo. RU – per non restare fuori corso fin dal primo anno, in Architettura – doveva superare tre esami? Ebbene, tre soli RU ne preparò, sugli 8 del corso. Promosso nei primi due, pur avendo risolto bene lo scritto dell’ultimo esame, ebbe la sgradita sorpresa di non essere stato ammesso per le questioni dette prima: non lo avevano mai visto frequentare i corsi, né partecipare alle esercitazioni. La prova scritta non aveva fatto la selezione che i docenti speravano.... Erano gli anni in cui i Professori facevano il bello e il brutto tempo, mancando molto ancora a quel ‘68 che poi cambierà radicalmente questi atteggiamenti dispotici e arroganti, in cambio d’altri, apparentemente più democratici, ma solo a debite condizioni, le solite: d’essere qualcuno. Per non restare fuori corso fin dal primo anno, RU aveva davanti a quel punto solo la materia di Geometria descrittiva e proiettiva, in calendario per il giorno dopo; solo che lui ignorava perfino di che cosa in realtà si trattasse. Aveva davanti solo una ventina d’ore per studiare ex novo 150 pagine di testo, zeppe di relazioni ed esercizi, riguardanti la geometria. Significava avere davanti una media di 6 minuti da dedicare a ciascuna delle 150 pagine. Un altro, non ci avrebbe nemmeno pensato. L’aveva già fatto all’esame di maturità, preparando in due ore tutto il corso di Trigonometria. Ci provò in Geometria e fu promosso: solo un 18, ma per lui fu come se fosse un 30 e lode. VACANZA A ASCEA, E ELEA ANTICA, SOTTO MONTE STELLA Una totale novità che poi fu un ritorno all’antico! UNIVERSITÀ E III LICEO PER R-U-BEN Nell’ottobre del 1958 iniziò così la frequenza del II anno di Architettura per RU, e della III liceo per BEN, con il suo esame di maturità. Il 2° dei due – reciproco del 1° – dato tutto il negativo, il carente e il precario così concentrati tutti su RU, poteva vivere sogni tranquilli. RU ben sapeva che il problema, risolto momentaneamente nel primo anno, si sarebbe ripresentato – e massiccio – alla fine del secondo. Infatti il biennio di Architettura aveva un catenaccio totale: dei 18 esami dei primi due anni potevano essere lasciati indietro degli esami, ma “sotto condizione” che fossero tutti quanti superati poi nella sessione di gennaio, altrimenti... iscritto sì, ancora, ad Architettura, ma da “sub iudice” si sarebbe passati a “fuori corso”.


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1959

Il 25 gennaio il 1° e il 17 febbraio il 2°, R-U-BEN compirono rispettivamente 21 e 18 anni, il primo la sua maggiore età, il secondo l’età per guadagnarsi la sua maturità al Liceo Classico e poi per poter patentarsi e guidare una automobile, laddove al fratello è ormai inibito anche l’uso di uno scooter. R-U-BEN IL 1° È IMMATURO, IL 2° È DICHIARATO MATURO Sono così reciproci tra di loro che mentre il 1°genito non studia, non frequenta e pensa a fare solo le cose che più lo interessano, rifiutando di farsi portar vita tutto il tempo dall’attività scolastica, il 2° è il suo esatto valore opposto: puntuale, preciso, metodico, riflessivo, riconoscendo che il suo compito è quello dello studente, esegue al meglio il suo compito e in questo 1955 fa gli esami di licenza liceale e conquista a pieni voti la sua maturità. BEN aveva frequentato, invece RU no e si era dedicato, al Politecnico, solo a essere assiduo al campionato interno di calcio. Preparava anche gli esami, ma solo negli ultimi giorni, di corsa e si accontentava del minimo. Per rinforzare la squadra “Anni Verdi” dell’Oratorio, che sosteneva il suo campionato a 11, del Centro Sociale Italiano, aveva convinto alcuni suoi amici dell’università, tra cui Enrico Panzeri, Prina, i fratelli Raule e altri, a tesserarsi essi pure per l’”Anni verdi”, come “oriundi”.

R-U-BEN STAMPANO E PUBBLICANO “CORVETTO SUD” Per riuscire a finanziare l’Anni Verdi, che colle trasferte e aveva costi che gravavano tutti sui giocatori, maglie e scarpe incluse, RU ebbe l’idea di realizzare un foglio, sul quale mettere pubblicità a pagamento e che andasse a ditte da individuare e alle quali poi far giungere le notizie sui risultati sportivi della squadra. Insomma, dove non c’era proprio niente del genere, tentò di far sorgere economia e sponsor. Ecco da che cosa era attratto RU: da tutto ciò che attiva la sua intraprendenza e il suo spirito di un pioniere. Sapeva benissimo che in quel suo secondo anno universitario aveva il “catenaccio”, ma faceva di tutto per non pensarci, attratto da altre iniziative. E i suoi genitori lo permettevano. Avevano capito che aveva i suoi tempi e che andavano rispettati. Il loro 1°genito non era un tipo comune, era un primo a modo suo, nelle cose che l’attraevano ed erano quelle che contavano lui sperimentasse nel suo sviluppo. Un atteggiamento lungimirante che al momento incontrava la riprovazione dei parenti, che notavano come quell’ideale modello espresso dal 2°genito era agli antipodi di quello del suo fratello maggiore. Il problema che RU sentiva di dover risolvere era quello di finanziare la sua squadra di calcio, e di crearle intorno un apparato di sostegno. Non lo era la Chiesa, che non dava una lira a favore delle loro spese. Il suo problema era simile a quello che avrebbero avuto 70 anni dopo tutte le squadre di calcio di serie A, quando, per finanziare la loro attività, avrebbero dovuto avere uno stadio di proprietà, che garantisse tante altre entrate collaterali e non solo più quelle del biglietto per vedere le partite allo stadio o in televisione. In quel tempo in cui la televisione era ancora con un solo canale alla RAI, la sola vera pubblicità accessibile a tutti era ancora fatta solo tramite la stampa. RI aveva inizialmente pensato a una tessera, che certamente sarebbe costata per farla stampare, che però potesse servire anche come testata, a più colori, di un foglio, poi da usare nel ciclostile dell’Oratorio. Informatosi dei costi, sembrava proibitivo. Allora ne parlò con il maestro Paletta, che abitava al piano sotto al suo e s’intendeva di stampa; e lui gli rivelò che c’erano in giro delle macchine, chiamate pedaline, che potevano stampare tipograficamente nel formato d’un giornaletto. Gli consigliò d’informarsi e RU riuscì così anche a trovarne una, da un tipografo del quartiere, disposto a darla via per poco, circa 80.000 lire. Romano ne parlò con Don Celeste ed ottenne il permesso, se RU la comprava a sue sole spese, di farla sistemare in una delle sale in fondo all’oratorio. IL CALCIO-SCOMMESSE: Nel tentativo di coinvolgere tutti i ragazzi affinché tifassero per la loro squadra e ne seguissero i risultati, lanciò una sorta di totoscommesse abbinata alle partite di calcio del suo torneo del CSI. La chiamò “totocircolo”, ma non diede una gran resa, sotto l’aspetto economico.


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Non si spaventò e in breve si decise e acquistò quella pedalina e progettò di pubblicare “Corvetto Sud”, un periodico a dimensione locale in cui avrebbe parlato dei problemi di quel quartiere, scrivendo articoli, raccogliendo la pubblicità e informando così anche la gente delle gesta della squadra Anni Verdi. Tutto questa preparazione avvenne nei prima metà dell’anno, mentre Benito pensava solo a seguire nel più scrupoloso dei modi il suo ultimo anno al liceo. CORVETTO SUD. Il primo numero fu composto tipograficamente tutto a mano, lettera per lettera da RU, senza BEN, che si preparava al suo esame di maturità. Tanto si era lanciato a corpo morto il 1°, disattendendo totalmente la sua attività universitaria, quanto si era concentrato nello studio il 2°. In ciascuna delle pagine RU legò le righe di piombo, le impacchettò e le serrò con una morsa in una cornice; aggiunse tutti gli spessori; poi le montò, una ad una, là dove i rulli, dopo aver macinato l’inchiostro denso tipografico fino a renderlo impalpabile, lo trasferivano sui caratteri. Bisognava spessorare, taccheggiare, perché il piano della stampa doveva aderire in ogni punto della pagina, altrimenti sarebbero restati dei buchi. Fatto tutto ciò, si poteva poi stampare – una ad una – ogni pagina delle circa ottocento copie previste nella tiratura, pedalando. Si chiamava pedalina proprio perché, per azionare tutto il movimento, occorreva azionare i pedali. Attraverso tutta una serie di movimenti ben coordinati, in cui un piede spingeva, una mano posava il foglio immacolato sul piatto e l’altra lo portava via non appena su di esso era stato impresso l’inchiostro. La parte meno attraente stava nel dovere poi, a stampa ultimata di ogni pagina, smontarla per rimettere, ad uno ad uno, ogni carattere al suo posto, in modo tale che le lettere fossero ben raggruppate ed accessibili, quando si trattava di iniziare a comporre una nuova pagina. Venne fuori per RU un lavoro faticosissimo e interminabile, perché i quartini, che erano stampati solo in una delle 4 pagine, dovevano essere girati ad uno ad uno tre volte per essere stampati poi nelle altre 3... Quindi andavano accavallati in gruppi di 4 e cuciti. Grossa fatica, ma infine il primo numero uscì, fatto di 16 pagine. Mentre CORVETTO SUD vedeva la sua nascita, Benito vide coronati i suoi successi di liceale e fu dichiarato maturo, a pieni voti, nel suo esame. Subito si riunì a suo fratello e lo aiutò. Così per mano di R-U-BEN uscì il mese dopo anche il secondo numero, e costò nuovamente lo stesso travaglio, ma stavolta a tutti e due i fratelli. Era una cosa impossibile da continuare in quel modo. Così il terzo non fu più composto a mano, da R-U-BEN, bensì in linotipia e da altri, con un sistema che fondeva le righe in un blocchetto, e la composizione avveniva ticchettando sulla tastiera, come su una macchina da scrivere.

La cosa era molto più facile ed accettabile, era fatta però a caro prezzo, dai terzi che avevano in dotazione quelle macchine, e che andavano pagati. Questo lavoro si rivelò così massacrante, e le persone disposte a farlo così poche, che R-U-BEN alla fine rinunciarono a proseguire con “Corvetto Sud” e RU, che si era personalmente impegnato nell’acquisto della pedalina e nelle spese di linotipia, si trovò per la prima volta in vita sua impelagato nei debiti. Non sapeva più come fare per uscirne e presto ciò divenne per lui un vero tormento. Alla fine R-U-BEN restituirono la pedalina a chi gliela aveva venduta In questa iniziativa di RU, che aveva coinvolto poi totalmente anche Benito, dopo che aveva concluso brillantemente il suo liceo, aveva preso parte anche Renato Mariano, il Presidente dell’Anni Verdi. Benito fu solidale col fratello, attinse ai suoi risparmi e rinunciò alla sua raccolta delle 500 lire d’argento, di cui andava così fiero. Se non l’avesse fatto, nel tempo si sarebbe ritrovato una fortuna! Ne aveva messe da parte molte più di cento. RU da parte sua vendette la sua collezione di francobolli. Gino e Anna intervennero alla fine, come quel Deus ex machina che risolve l’irrisolvibile! Riuscirono a chiudere una avventura che si era trasformata in un incubo. Fu per R-U-BEN una lezione che avrebbero dovuto fissare eternamente tutti e due nella loro memoria, per evitarne una simile, nel futuro... ma tutti e due ci ricascheranno in momenti distinti e sempre tra loro disposte in reciprocità. R-U-BEN furono comunque in ciò dei veri pionieri. Corvetto Sud fu, nel lontano 1957-58, il primo tentativo d’un giornaletto locale, fatto in quel modo a Milano. Un tentativo non capito da nessuno, essendo prematuro, e non poco, rispetto ai tempi. Solo qualche decennio dopo, intorno agli anni ’70, i quartieri avrebbero avuto i giornali di zona, nella stessa città, ma avrebbero dovuto prima attendere che si sviluppasse in Milano l’idea del Decentramento amministrativo. ARRIVA LA FIAT 1100 L’AUTOMOBILE NELLA FAMIGLIA AMODEO Tra le altre novità di quell’anno 1959, in cui Benito a 18 anni poteva prendere la patente, vi fu l’iscrizione di lui e del padre alla scuola Guida Faini. L’auto era stata già acquistata, usata e a rate, e attendeva ora solo chi la guidasse.


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RU non poteva iscriversi, in quel momento, perché questi corsi si svolgevano proprio durante la preparazione di uno dei pochi esami del Poli che poi faceva. Nonostante le attese, né Benito né il padre furono promossi subito: Gino fu bocciato in teoria e al figlio toccò un ingegnere che gli impose di ripresentarsi. Ora accadde che Mario Uliana, l’amico dell’ottavo piano, si era iscritto anche lui a quella scuola guida. Gli era stato fissato un giorno per l’esame pratico e non vi era potuto andare. Chiese alla Scuola Faini se poteva andarci da solo, senza aspettare il turno della Scuola, nel mese successivo. Gli risposero di sì, ma doveva trovare chi l’accompagnasse al Circolo sulla sua vettura. Mario propose a Romano di accompagnarlo e di fargli sostenere l’esame sulla 1.100 della famiglia Amodeo, RU chiese il permesso al padre e tutto fu concordato. Poiché Mario non aveva l’abitudine alla guida di quella macchina, RU la mise in mano all’amico fin da sotto casa e fece sì che egli attraversasse tutta Milano fino al Circolo Ferroviario, in cui gli esami si tenevano. Giunto là fece mettere in coda la vettura a tutte quelle delle Scuole guida che, davanti, stavano sostenendo l’esame. Faceva ripetere all’amico tutte quante le operazioni che facevano gli esaminati, dando tutti i consigli: “Alt, sterza, controsterza, frena, ecc.”. Ad un certo punto l’ingegnere uscì dall’auto posta avanti e venne dai due: “Lei deve sostenere l’esame? Come si chiama? Vada via, è promosso”. Alla Scuola Guida si riseppe. Era la prima volta che quell’ingegnere aveva fatto una simile cosa. Di certo RU aveva date buone indicazioni al suo amico... “Vuole lavorare qua?” gli chiese Faini. “Come?” rispose RU, promosso e abilitato alla guida da neppure un mese. “Ho bisogno d’un istruttore. So come si comporta lei, gliel’ho insegnato io”. RU FU FATTO MAESTRO QUANDO BEN FU BOCCIATO. R-U-BEN, esprimevano davvero valori reciproci, tanto che per essere fatto maestro RU occorse che prima sia BEN sia il padre fossero stati bocciati. R-U-BEN ENTRAMBI ALL’UNIVERSITÀ Tutta questa vicenda, a mano a mano che si era così aggravata, aveva talmente reso alieni agli interessi di RU gli studi di Architettura, che si trovò davanti il tenuto catenaccio posto tra il secondo anno e il terzo. Benito si iscrisse stranamente a legge all’Università Statale di Milano: avrebbe voluto divenire un Giudice. Dopo che avevano trascorso un paio d’anni restando solo nei 4 componenti della famiglia, c’è una nuova entrata. Questa volta arriva il turno dei figli della sorella Giovannina, che desidera che Vincenzo sia avviato agli studi. Così arriva, si iscrive alla 1° media e se ne prende carico Benito.

1960

Il nome Romano, che in lettere vale 16+13+11+1+12+13=66, numero che corrisponde al doppio dei 33 anni vissuti da Gesù Cristo, 33 a titolo del Padre e 33 dello Spirito santo – ma chi mai lo sapeva? – Così i suoi 22 anni erano il flusso intero, dato da 1/3 di 66, e a quell’età la sua vita avrebbe avuto un valore essenziale che in quel tempo era indecifrabile. Per esso, il 25 gennaio esatto in cui li compì, in altra parte d’Italia, a Saronno, due sposi, di nome Angelo e Angela Legnani, si congiungevano in amore reale, fisico, e concepivano MTSLMM. Era l’immagine reale nei tempi moderni di Matusalemme, figlio di quell’Enoch che ara il 7° e definitivo creatore dell’esistenza, nella genealogia descritta in Bibbia con Adamo, Set, Enos, Kenan, Malaleel, Iared, i sei padri che l’avevano fatto come il 7° e conclusivo di tutta l’opera creativa. Nella storia di RU, così davvero collegato ad Enoch, egli – assecondando il disegno divino – l’avrebbe concepita il dì esatto in cui egli avrebbe compiuto 22 anni, cioè 1/3 del flusso vitale di Padre 33 e Spirito santo altri 33. Qui sopra, ai 22 anni di RU e 19 di BEN, in agosto furono proprio nei luoghi di Elea, sotto il Monte Stella, della Stella che era stato seguita dai Re Magi, in cui nacque in filosofa il Dio dell’Essere. .


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Iscritto “sub judice” al terzo anno, alla fine della sessione di gennaio dei 17 esami da dover superare per via del catenaccio, ne aveva sostenuti e superati solo 3 il primo anno e cinque il secondo. Gliene mancavano 9. Convenne che doveva trovarsi anche un lavoro, per raggranellare almeno un po’ di soldi. Chiese consiglio a Foresti, studente di Architettura che era nella sua stessa squadra al Poli, e l’amico gli suggerì di rivolgersi all’Architetto Longoni, che ogni tanto aveva bisogni di farsi lucidare i disegni. In gergo, significa trasferirli sul un particolare supporto traslucido che poi consentiva le riproduzioni eliografiche. Si propose e – quando l’architetto ne aveva la necessità, per un compito che impegnava al massimo due o tre mesi – sarebbe stato chiamato a passare in bella copia tutte le planimetrie che partecipavano poi ai concorsi navali e dunque erano dei ponti delle navi, da eseguire con i pennini con il tratto più sottile. Poi poteva anche preparare la base delle prospettive che successivamente un altro (per lo più lo stesso Foresti) avrebbe messo in bella. Lo faceva secondo le regole della prospettiva, ma non seguiva quelle canoniche, ne aveva costruite alcune tutte sue che erano molto più veloci e maneggevoli perché consentivano d’avere subito le dimensioni e gli ingombri desiderati nei disegni. Entrò presto in buoni rapporti con l’architetto e divenne amico di Gino Colautti, il suo giovane assistente. Nel 1960 fu chiamato un paio di volte. Occupò così una gran parte del tempo che avrebbe dovuto spendere per arrivare a superare i 9 esami che gli mancavano. Dipinse un grande quadro sul naviglio di Corsico, realizzandone anche la cornice in alluminio.

Si recava al Politecnico ogni settimana, ma solo per partecipare al Campionato di calcio. Alcuni giocatori della squadra dell’anno precedente, già avanti nel corso di laurea, si erano laureati, altri, matricole, avevano occupato il posto di chi non c’era più. La squadra proseguiva tra alti e bassi, con Enrico Panzeri, Giancarlo Prina, Romano Lorini, Augusto Cagnardi, Dario Caimi, Vittorio Marinoni, Alfonso Bordignon, Lucio Principi, Sandro Foresti, che vi giocava per l’ultimo anno, essendo lui sul punto di laurearsi... VINCENZO BARATTA Intanto in famiglia – andati via i figli di Rosina – era arrivato Vincenzo, figlio di un’altra sorella di Anna, Giovannina. Esaurita la famiglia di Guerino, ora fu cura dei coniugi Amodeo di prendersi cura di quella di Giosuè Baratta. Neppure questo Baratta era un parente, se non si risale di 3 secoli fino alla peste della metà del 1.600 che aveva lasciato viva una unica famiglia con questo nome,assieme a altre tre.. Vincenzo si iscrisse alla 1a media e fu preso sotto il controllo di Benito. .Il ventiduenne RU – che dipingeva quadri che non vendeva e dunque non gli davano altro che il piacere di farli, e ora faceva anche disegni pagati abbastanza bene, ma soprattutto giocava a calcio all’università durante la settimana e all’ “Anni vedi” – alla fine, cercò anche di impegnarsi e d’applicarsi di più agli studi, ma non ne aveva gran voglia. La preparazione in quella professione evidentemente non corrispondeva per lui allo scopo della sua vita. Era uscito da una avventura giornalistica che l’aveva assorbito totalmente dandogli infine proprio tormento e paura, ma ogni tanto era attratto da una nuova. A 22 anni era nel pieno della sua creatività; abbastanza contento poiché quasi tutto gli riusciva bene, ma mai in un modo così valido da assorbito poi totalmente. Se fosse stato un artista super, o una eccellenza in una qualunque delle avventure in cui si lanciava, per pura passione, ne sarebbe stato imprigionato. Invece a ventidue anni fu nel momento più libero dell’intera sua vita, e senza che se ne rendesse nemmeno conto, né lui, né gli altri che ritenevano invece che la sua crescita non era giunta al top, ma lasciava totalmente a desiderare. Se l’uomo non è rigidamente governato da uno schema di crescita che lo finalizza alla professione e alla sua affermazione nella vita reale, sembra essere uno che è troppo incapace di governare la sua vita. Ma se l’esistenza vera supera gli stretti limiti di una vita determinata e si espande per l’intera eternità, quale è la crescita ideale? Quella che prepara in modo ideale alla ristretta vita esistente nel limite, o quella che spazia in un contesto talmente libero da non averne proprio alcuno?


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Tra i due che erano R-U-BEN, era il secondo a lui che assecondava l’esistenza ideale confinata nei limiti della vita reale. RU no. Aggredito da chi a tutte le età aveva malignamente cercato di mortificarlo in un ruolo preciso, si era magistralmente divincolato e si stava preparando alla vita eterna e senza limiti. SCUOLA RU, forse anche spaventato alla stessa idea che avrebbe dovuto superare 9 esami ancora per rientrare in corso, nella sessione autunnale ne preparò 3 in gran fretta e con pochissimo studio, e li superò sempre per il rotto della cuffia. Prendeva dei 18 che – considerando quanto egli aveva dovuto aggiungere di suo per essere promosso – valevano molto, molto di più. Soprattutto per lui: si accorgeva di essere molto capace, ma che cosa ci poteva fare se gli piaceva fare anche dell’altro? Nel novembre del 1960 si iscrisse così fuori corso, meritatamente, per il secondo anno consecutivo, perché gli mancavano ancora 6 esami del biennio. Benito si iscrisse al secondo anno di Legge. Vincenzo, il suo assistito, al 1° anno delle scuole medie. Anna e Gino pensarono di incoraggiare BEN e vollero dargli un premio per la sua brillante Maturità che aveva conseguita e che in quella data non avevano potuto premiare come avrebbero voluto, mancandone i mezzi. Ora erano in grado di recuperare e gli diedero modo di scegliere quale mezzo preferisse. A lui piaceva molto la francese Dauphine, ma alla fine prevalse la sua sostanziale saggezza e sapendo che dopo avrebbe dovuto pagare la benzina, scelse la 500 della Fiat, che consumava pochissimo. I genitori dissero al figlio maggiore che egli pure avrebbe avuto il suo premio ma al conseguiomento della sua laurea. Romano anche dai suoi genitori era giudicato uno che non concludeva mai alcuna delle opere cui si accingeva. Romano non era programmato per un suo inquadramento nella vita reale, come lo sono tutti coloro che poi ne sono determinati, e datati. Einstein? Il Genio del 20° secolo! Il Genio di RU avrebbe spaziato nei secoli dei secoli, come il dominatore del tempo e dello spazio... ma chi lo poteva prevedere? Era lo stesso caso già espresso dal Profeta Isaia, per il “povero cristo”:

Isaia 53,3 Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. I genitori avevano testato la sua grande intraprendenza (in tutti i campi, tranne che con le ragazze) e si chiedevano in che modo dovevano porsi per non ostacolarlo. Il figlio agiva sempre e solo come sulla spinta di un gioco, ma poi affrontava questioni di tale complessità che se non ti accompagna l’interesse più vivo, ti arrendi. Lui non gettava mai la spugna, e se pareva che un amore fosse finito, non era così, ne era giunto solo uno più forte che l’aveva semplicemente bloccato per un breve lasso di tempo. Ogni suo interesse rifioriva, giunta la sua stagione. Per questa ragione sembrava inconcludente Aveva praticato quasi tutti gli sport, sempre primeggiando, ma mai eccellendo in alcuno. In ordine, da quando aveva cominciato: nuoto e pattinaggio (a Salerno) poi pallacanestro, ciclismo, tennis, tennis da tavolo, atletica, sollevamento pesi, calcio. Tra tutti questi, solo nel pattinaggio non aveva mai partecipato a gare. Aveva comperato la sua bici da corsa, una Doniselli, e aveva anche i suoi amici coi quali ogni tanto andava ad allenarsi. Come avrebbe potuto fare tutto insieme? In nessun modo e nemmeno se l’avesse voluto. Così si dava anima e corpo a ciascuna di queste, finché veniva l’ora di un’altra. La parte del leone era del calcio, e ogni settimana giocava due partite. Un giorno seppe che nel Poli c’erano le gare di nuoto. Vi si iscrisse. Arrivò terzo nei 50 metri stile libero. Se passiamo alle attività dello spirito non era da meno: pittura, poesia, filosofia; poi scriveva i testi, componeva canzonette e le cantava. Era come l’immagine di una cicala. Essendo R-U-BEN una cosa sola che si era scissa in due parti complementari e reciproche, BEN era Unito a un RU essendo tutto il suo opposto. Come il primogenito si lanciava allo sbaraglio e cantava come una cicala, il secondo si stava dimostrando sempre più come una vera formica. Meditava, ponderava ogni cosa in modo perfino ossessivo, in qualche caso, prima di sbilanciarsi in una decisione. In tutto questo, Benito dimostrava una capacità grandissima di gestire operazioni complicate (come in una partita a scacchi) realizzando piani che mettevano in funzione tutti quanti i pezzi. RU giocava sempre attento al massimo alle avventure di due o tre. Dopo i primi tempi in cui le fulminee mosse del primogenito davano molto fastidio a quelle del fratello, Benito cominciò a vincere e non perse mai più contro di lui, facendo il cosiddetto gioco di squadra contrapposto alla bravura di lui come di un singolo.


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Se prendiamo un angolo giro e cerchiamo di metterci dentro i due, RU era l’angolo acuto, BEN tutto il resto. Pur accorgendosi ciascuno della totale contrapposizione rispetto all’altro, si rendevano però tutti e due conto di quanto fossero complementari. BEN frequentava assiduamente, e sosteneva al tempo giusto tutti i suoi esami. Accadeva qualcosa che ben pochi avrebbero previsto: tra loro due quello che sembrava essere il più brillante e che aveva sempre fatto ombra al suo fratellino ora era simile a chi – volendo e cercando troppo – non riusciva a concludere nulla. E sembrava quasi farlo di proposito: quando arrivava il momento di cogliere i frutti anche di un accanito lavoro, perdeva di mordente, come se non gli interessasse veramente di vincere. Ma questo solo nel campo della vita quando essa non è un gioco. Le sconfitte in una partita di calcio non significano nulla, come le stesse vittorie. Ma nella vita è differente: se tu vinci c’è sempre un altro che perde, e spesso senza rimedio, senza la reale possibilità di una rivincita. Per cui tutti gli apparenti tradimenti di RU contro ogni momentanea passione, non erano questo: sapeva che al tempo giusto e alla corretta stagione quello che doveva maturare sarebbe stato maturo, e quello che doveva fiorire... Oppure come un amante che non vuol mai venire, perché toccato quel culmine, il meglio è ormai passato e tu invece attendi sempre il meglio. ESTATE A CASTELLAMMARE DI STABIA Dopo l’esperienza di quel giornale, in agosto, i genitori portarono R-U-BEN con loro per le ferie estiva che facevano sempre insieme. In quell’anno i due fratelli trascorsero le loro giornate al mare, coi lontani parenti, i Cesarano. Qui ci sono Maria, Silvia e il loro fratello più piccolo, manca Flora, che quell’anno molto ballò con Romano. Pippo, il più grande dei fratelli Cesarano accompagnò RU in due o tre gite, una sul monte Faito, un’altra a Sorrento. Avevano preso alloggio a via Acton, fuori mano e si ritrovarono solo per partecipare a feste, o a balli, e RU ballò a lungo teneramente con Flora, una delle tre sorelle di quella famiglia che aveva cinque figli, il maggiore e il minore maschi, e in mezzo tra femmine, Maria Flora e Silvia. In una di queste feste RU incontrò un amico di Milano, Del Soldà, fratello maggiore di due giocatori della squadra di calcio Anni Verdi, che rimase sorpreso a

vedere i teneri balli del mattone che c’erano tra RU e Flora, e che gli lasciarono credere l’esistenza di chissà che cosa d’altro ancora... che non cera minimamente.

ISCRIZIONE UNIVERSITÀ R-U-BEN RU fu iscritto fuori corso per il 3° anno consecutivo alla facoltà di Architettura, mentre BEN si iscrisse al secondo anno di Legge, avendo però assunto più di un dubbio sul fatto che quella strada fosse quella che per davvero prediligeva di seguire nella sua vita. Accadeva che, data l’esatta complementarità che esisteva in R-U-BEN, questa incertezza di Benito era reciproca all’ottimo momento che sta attraversando il fratello, che era quello del massimo stato della sua condizione libera, cominciato ai 22 anni e proseguito anche in questo 1961, in cui ebbe successo in tutte le attività che scelse. Che non l’avesse in Architettura era perché non era molto interessato. Aveva scelto quella facoltà non partendo dalla preferita, ma escludendo una dopo l’altra tutte quelle che avrebbero richiesto da parte sua uno studio continuo. RU si sentiva un passionale, e come tale il suo successo – secondo le sue intenzioni – l’ebbe proprio a 22 e 23 anni, durante i quali – in perfetta antitesi – Benito ebbe momenti di incertezza e di confusione. Anche nel suo solito contesto della sua timidezza, per come si era comportato disinvoltamente con Flora, RU aveva raggiunto il suo momento di grande liberazione dai suoi limiti. Vincenzo iniziò la sua seconda media.


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1961

Prima che R-U-BEN nascessero, la mamma li aveva affidati a Sant’Anna, se lei avesse badato al suo parto. In cambio li avrebbe chiamati come lei e lo fece. Ebbene, ai 23 anni di RU, ecco che entra in scienza una Anna Badari che ce l’ha scritto nel suo stesso nome di essere colei che «Bada a RI», quell’acronimo RI che – tutto nella lingua di un Romano – indica i due di Romanus et Iesus. Quel cognome Badari che in chi è chiamato dall’Egitto (come scritto dal profeta Osea) è in sé egiziano. In questo si replica tutto quello che vale nell’Islam, e che venne da Abramo legato non con Sarai, ma l’egiziana Agar. RU e al 2° anno fuori corso, e BEN frequenta il 2° anno di Legge. Accadde a RU che ai primi di febbraio, del 1962, compiuto da poco i 24 anni, l’Architetto Longoni gli telefonò se aveva tempo, se gli dava una mano a preparare un concorso per la Raffaello, nave Ammiraglia della flotta italiana. Il tempo c’era, il desiderio anche, perché era un compito che sarebbe piaciuto a tutti. C’era una novità, nello staff dello studio: Anna Badari, una bella ragazza coi capelli nerissimi, che subito lo colpì... quasi come 6 anni prima la «Cassa NI». Accomodatosi al suo tavolo da disegno, venne da lui Gino, l’assistente dell’architetto, e gli confidò d’essersene perdutamente innamorato. Per non danneggiare le sue speranze, RU, soffocando tutto il forte desiderio che ne aveva, stette quanto più possibile lontano da lei e non le badò.

E allora fu lei che cominciò a badare a lui come individuo, ad andare al suo tavolo, tutte le volte che poteva farlo. RU però le opponeva il più ferreo dei possibili catenacci e seguitò a farlo a lungo, finché un giorno capì che per il suo amico non c’era nulla da fare e che, se avesse seguitato in quel modo, avrebbe rinunciato, di certo stupidamente, a trattare una persona che molto, molto gli interessava. Stessa estrazione sociale, quasi la stessa storia, perché anche il padre d’Anna aveva avuto noie ingiuste e vessazioni alla caduta del fascismo. Badarono così l’uno all’altro, riconobbero di volersi bene e si fidanzarono, una sera che era andato ad accompagnarla a casa, con la macchina che si era fatta prestare dal padre. Nei giorni che seguirono RU la portò a casa sua, poi andò a casa di lei a dichiararsi alla sua famiglia. Il padre era un laureato in chimica e gli svelò che non si opponeva, ma consigliò di non prendere troppo sul serio sua figlia; non era tutto oro colato quello che passava per la sua bocca: era troppo giovane con i suoi 19 anni e non sapeva ancora neppure lei quello che voleva. Gli parvero esagerazioni, perché era chiarissimo, a lui, che cosa la figlia volesse. Oh, invece lei non voleva Romano, ma quel personaggio tutto pieno di mistero che per tanto tempo, negandosi, aveva assunto per lei dimensioni colossali. Lei non glielo disse, ma appena aveva smesso di resisterle buona parte del fascino suo se ne era andato. Poi quel lavoro finì, e si videro solo per uscire, le sere e il sabato e la domenica. Quando non si vedevano c’erano lunghe telefonate. RU, restato fuori corso, aveva deciso d’arruolarsi ed aveva fatto domanda d’andare come allievo ufficiale. Fu chiamato alla selezione. Stando lontano scrisse che “aveva dovuto lasciare un liquido secreto e secreto” (intendeva urina, ma lei chissà cosa capì). Non l’avesse mai fatto! Quando tornò e ne parlarono lei cercò di farlo vergognare della sua mancanza di stile. Anche quella volta che aveva portato un poco di pane biscottato e lo aveva avvolto nella carta da giornale! Ma insomma che sudicione era? Anna usava questi metodi per mettere in condizione di inferiorità qualcuno, quando aveva deciso di farlo. Venne Agosto e lei e la sua famiglia affittarono una villa al mare, a Tirrenia. Egli la seguì, stando a Livorno e percorrendo ogni mattino ed ogni sera in macchina la piccola distanza che separava i due luoghi. Usava l’automobile che suo fratello Benito gli aveva prestato: una 500 rossa fuoco. Era un regalo che aveva ricevuto da papà e mamma al conseguimento della sua maturità al classico, con voti molto brillanti, e l’aveva data al fratello perché egli gliela aveva chiesta e Benito gli voleva bene. C’era sempre stata tra loro due una grande solidarietà, non avevano mai avuto un solo diverbio, nel corso di tutta la loro vita, il che è tutto dire.


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Mentre erano sulla 500, una sera lei provò a spingere le cose tra loro oltre certi limiti e RU non volle. Con lei si trovava benissimo, si intendeva su tutti i campi, ma non voleva guastare le cose anticipando i tempi. Soprattutto per i motivi detti dal padre: lei non sapeva cosa voleva e certe volte si capiva che era così sgarbata perché qualcosa le era girata storta. Tornati a Milano la prima cosa che Anna fece fu di piantarlo. “Perché?” Le domandò RU, per avere finalmente spiegazioni. “Mi sono innamorata d’un altro”... aveva badato ad un altro! Era vero e l’altro, spiegò, era Alessandro Foresti, quel suo amico che aveva giocato a calcio con, ora già laureato architetto, che veniva anche lui a dare una mano, ogni tanto all’architetto Longoni, eseguendo prospettive davvero favolose, di piscine e sale, cabine e tutto quanto di bello esista sulle navi. “Il guaio è che a lui non interesso minimamente”. RU capì dove aveva sbagliato con lei; Foresti, infatti, era il tipo esatto che era stato lui finché non le aveva badato e non le aveva dato retta, per riguardo al sentimento di Gino. Capì che per conservare il suo fascino avrebbe dovuto seguitare a starsene alquanto sulle sue, a non badarle più, come era accaduto all’inizio: Anna amava l’irraggiungibile, chi si negava a lei e non chi, avendo finalmente deciso di dare se stesso, si dà..., anche se poi neppure interamente. Decise allora un’operazione disperata: “Posso aiutarti. Se vuoi organizzo io delle gite e lo invito. Usciamo in quattro, ci penso io a portare un’altra ragazza”. E fecero così. Romano iniziò a sfoderare tutto il fascino che aveva, portando delle ragazze molto belle che spasimavano per lui, come Virginia Milanesi, e una volta – udite udite! – riuscì a portarsi dietro persino quella Liliana Cassani alla quale per tanti anni invano era corso dietro, e che finalmente aveva dimenticato. Anna non era una stupida e si accorgeva come tra lui e quelle persone che portava, esistevano storie, più o meno del passato, e cominciò ad ingelosirsi, reagendo proprio così come lui sperava. Contemporaneamente RU prese ad aiutarla a prepararsi per un esame che lei avrebbe dovuto tenere per divenire professoressa d’arte: un paio di sere alla settimana era a casa sua come docente e le insegnava la prospettiva. Anna aveva due fratelli, Nino, maggiore di lei, che studiava da ingegnere al politecnico e Maria, più piccola di lei d’un paio d’anni, diciassettenne. Strinse di più l’amicizia con Nino, lo mise in contatto con il Signor Fabbro, della Scuola Faini, che cercava un ingegnere per dar forma a delle sue macchinette per i caffè, a gettoni. Iniziò a frequentare con lui Judò, nella palestra del Gigoro Kano. Nel novembre di quel 1961 RU, dopo tre anni di fuori corso, poté iscriversi finalmente “sotto condizione” alle materie del terzo anno di Architettura. Nel corso dei mesi – datosi un po’ una mossa, spinto dall’affetto per Anna – aveva superato cinque dei 6 esami mancanti, così s’era iscritto sotto condizione di Elementi d’architettura II.

Con Sandro Foresti, l’amico di cui Anna si era invaghita, le cose, nonostante le gite, non si erano affatto sviluppate (egli restava per lei un forestiero) e lei ricominciava a vedere in RU un tipo alquanto autosufficiente e indipendente. Sul finire di dicembre cadde così in crisi, si mise a piangere: “Tu pure te ne sei andato!”, lo rimproverò e Romano più non poté seguitare in quel modo. Le rivelò che l’amava sempre, come prima, che stava in disparte solo a causa sua ma che, se lei fosse stata diversa, non ci sarebbe stato alcun valido impedimento a che le cose tornassero esattamente come prima. Insomma RU le badava sempre. “E allora non vediamoci più!” concluse imprevedibilmente lei, troncando ogni contatto con lui e non volendo badargli più. Veramente di punto in bianco e a malincuore sembrava che RU si dovesse arrendere... a quel suo vero Purgatorio delle passioni. Gli sembrava come se le pareti della sua casa si fossero aperte, ribaltate verso l’esterno e fu colto da un vero terrore della piazza, del cielo libero, “agorafobia”. La delusione era profonda, perché egli era certo che avrebbe recuperato l’amore d’Anna. Lei lo amava, come faceva a non accorgersi? Perché si comportava così? Il padre glielo aveva detto: “Anna ancora non sa cosa vuole”... non le badi troppo, chi le bada lo fa a suo rischio e pericolo! R-U-BEN, questo dualismo tra i due fratelli così reciproci tra loro, con l’entrata in scena di Anna Badari, che si era fatta strada nel proposito di RU di legarsi a lei per la vita, ebbe un colpo decisivo, che cominciò a separare decisamente le sorti reali delle due persone, ma non quelle essenziali. RU al termine del 1962 era ritornato sui suoi passi in famiglia, distrutto in quel sogno che aveva coltivato e che era andato infranto per l’immaturità di Anna Badari, che si era rivelata all’atto pratico molto, molto fumo e niente arrosto. BEN stava cambiando idea sul suo futuro e si iscrisse al terzo anno di Legge, alla Statale, meditando di convertire i suoi studi poi sulla Fisica, in via Celoria. Alla determinazione di RU corrispondeva puntualmente l’indeterminazione negli obiettivi del suo fratello così uguale e contrario a lui. Ove RU progettava la casa dei suoi interessi, BEN era attratto dalla soluzione dei principali problemi della vita umana, come quello della mancanza di acqua potabile in futuro. In famiglia BEN si prendeva cura di Vincenzo, che Romano, vedendone la pacatezza e compassatezza, aveva cominciato a chiamare con i nomignoli strani di “vecchio Quinta”, “Quintone da Panicale” o “Quintabanda”. C’era sempre di mezzo il cinque, e non se lo sapeva spiegare se non come un assetto totale. In quel fine del 61, Vincenzo, si iscriveva alla terza media.


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1962

GS la compagna di vita R-U-BEN è l’unione dei due gemelli complementari che sta ritrovando un nuovo assetto, tra giovani uomini che hanno: il 1°genito 24 anni compiuti il 25 gennaio e il 2°genito 21, compiuti il 17 febbraio indicanti il momento migliore anche della sua vita, assecondando il valore 1/3 del nome di Romano. In virtù del massimo momento per BEN, accade il peggiore per RU che – nell’unico esame da superare e che ha consentito la sua iscrizione al 3° anno sotto condizione – è bocciato senza nemmeno averlo sostenuto ed è reso fuori corso per il quarto anno consecutivo. Nell’esame di Elementi di Architettura II restarono sei o sette ancora da esaminare. I professori litigarono: ne avevano promossi troppi, e decisero di chiudere la sessione. Romano insisté facendo 9 re che era sotto condizione di quell’unico esame e che era stato già per tre anni fuori corso. L’ assistente allora gli prese il libretto ed entrò tra i colleghi; dopo un poco uscì e gli disse “Mi dispiace”, riconsegnandogli il libretto.

Quando RU seppe, alcuni giorni dopo, che era stata fissata una seduta straordinaria, per quell’esame, tirò un sospiro di sollievo e tentò di iscriversi. In segreteria gli fecero notare però che non poteva, dal momento che aveva già sostenuto quell’esame in quella sessione ed era stato respinto. Alla sua incredulità gli mostrarono il suo stesso libretto. Quel “Mi dispiace” gli era stato detto poiché lo avevano “Respinto”, come se lui avesse sostenuto quell’esame e fosse stato bocciato. Cercò allora di parlarne al Professore, spiegandogli che non era giusto un simile comportamento, che si mettesse una mano sulla coscienza, in nome di Dio: non aveva fatto l’esame e l’avevano respinto perché voleva farlo ed ora che poteva farlo ... non poteva più perché l’avevano respinto! Il Prof di Elementi di Architettura II non volle mettersi una mano sulla coscienza... nemmeno in nome di Dio! Sennonché Romano era associato in Bibbia anche a un Lamech che disse alle mogli: “Chi colpisce Caino sarà punito 7 volte, ma chi tocca Lamech settantasette” Non era consigliabile trattarlo così... Il Professore morì pochi giorni dopo, tanto che RU non ebbe nemmeno né il tempo né il modo di mandare accidenti o maledizioni contro l’assoluta mancanza d’umanità di costui (non era neppure sua abitudine, non lo è mai stata). Il crudele docente ebbe un incidente mortale sul suo motoscafo, che – a quanto si seppe – esplose all’improvviso, per un imprevedibile ritorno di fiamma. Così, nel gennaio del 1963, RU interruppe il terzo anno e restò fuori-corso per la terza volta... mentre BEN era nei 21 suoi prodigiosi e splendidi anni. Al Gigoro Kano vedeva sempre Nino, cintura verde, mentre la sua era ancora bianca. Alla fine d’ogni lezione ciascuno poteva sfidare chi voleva. RU, che si faceva rispettare nonostante il suo livello iniziale, una sera sfidò il grande maestro giapponese. Quello fece con lui quello che voleva: riusciva a fargli assumere istintive difese che poi volgeva tutte a suo vantaggio, facendolo volare. Era perfino bello osservare come fosse sempre possibile volgere a proprio vantaggio le situazioni, possedendo la giusta tecnica. Sfidò anche una cintura nera italiana, un uomo di circa 120 kg. Costui tentò d’entrare nella guardia di Romano e lui si difese istintivamente, restando in piedi. L’altro allora entrò mettendoci più forza e RU si rimise, con maggior forza nella stessa posizione. Al terzo tentativo gli si accavallò un muscolo. L’uomo lo fece stendere prono, gli salì a piedi nudi sulla schiena e rimise i muscoli al loro posto! Saputo che RU era restato fuori-corso, il Gigoro Kano pretendeva ora la retta per intero, e allora egli smise d’andarci, perdendo l’ultimo contatto, settimanale, che aveva con le persone della famiglia d’Anna. Salutò Nino, dicendo che probabilmente non si sarebbero più né visti né sentiti.


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LA 1.200 FIAT CABRIOLET RU aveva fatto l’anno prima pressione sui suoi genitori, che avevano regalato la 500 a Benito, e – considerato che aveva rapporti con una ragazza così sofisticata come era Anna – aveva chiesta ai genitori una spider di occasione, in anticipo sulla sua laurea. Suo padre che ora era stato spostato in via della Spiga, aveva uno dei suoi scolari che era figlio dell’ing. Koelliker, proprietario di un'azienda che si occupava anche del commercio delle automobili. Gli era stato detto che alla prima occasione di un vero affare, gli avrebbe proposto la spider giusta per RU. Fu così che l’automobile, una 1.200 cabriolet della Fiat, arrivò finalmente a Romano a buoi scappati...quando già la storia con Anna si era conclusa. Non se lo sarebbe meritato, ma dato che finalmente aveva potuto iscriversi al 3° anno, seppure sotto condizione, poteva essere almeno una sorta di incoraggiamento a pensare a laurearsi, visto che cominciava a pensare a ragazze con cui metter su famiglia. GIANCARLA SCAGLIONI Nel gennaio del 1962, che desolazione non sapere come riempire di nuovo l’esistenza senza di lei, Anna «Bada RI»! Dopo Lillì «Cassa NI» lei aveva ricolmato il suo cuore e lo aveva in ultimo cassato allo stesso modo! Era però tutto un disegno del destino finalizzato a uno spettacolare e imminente «Scagliò NI». Nota 9 . Non più il casso o il cancello, ma quello che lei scagliò in alto, verso l’eternità dello sposalizio autentico con il NI, il Nazarenus Iesus. L’avrebbe fatto una Scagliòni di nome Giancarla, che – con la premessa di un «Già NC» (già nome di Cristo) – poi «AR là Scagliò NI», lancio là A.R. (Amodeo Romano) verso il Nazareno Gesù, oppure lei cagliò il S. N.I. e lo fece levitare. Figlia di Mario nato da Anna come Maria; lo stesso 15 agosto della Santa Ascensione di Lei; e – come Gesù lo fu di un Giuseppe benedetto, lei lo era di una Giuseppina Benedetti, figlia di Clara Raggi (luminosi come il sole) e di Guglielmo (elmo di Cattedrali). Nata 11.1, nel segno della trinità unitaria, e giorno di Tutti i santi, era la reale controfigura di Gesù, lei ch’era già GS nell’acronimo di Giancarla Scaglioni

Ecco come tutto questo andò. La decisione di RU d’abbandonare la ventenne Anna Badari al suo destino fu lenta e sofferta. La chiamava ancora tutte le sere, ai primi di gennaio, per sentirsi ripetere: “Non ci eravamo già detto «addio!» ieri?”. Si chiese come mai non riuscisse a dominare se stesso. Aveva deciso che non era più il caso di continuare, ma non ci riusciva, diventava nervoso, accendeva una sigaretta e ciò lo rendeva ancor più agitato fino a non poter resistere e, tornata lei dal lavoro, riceveva la solita telefonata, perfetta fotocopia della precedente. Provò allora a non fumare più (lo rendeva nervoso?) e cessò così anche di chiamare Anna, nel gennaio del 1963. Era la nicotina, come aveva sospettato. Nell’inattività forzata dall’essere stato escluso dai corsi che aveva già iniziato, cominciò nuovamente a lavorare, facendo prospettive per lo Studio di Edo, in cui lavorava Gennaro. “Gennaro, come va?” “Non chiamarmi più così, chiamami Gen. Va bene. Giusy è una brava moglie. È solo qui che non mi trovo molto bene. Quando ci sono venuto dovevamo essere poco meno che soci, ma adesso io faccio il mio dovere e lui diventa sempre più un capo che semplicemente mi usa”. Un giorno incontrò Riccardo Passer, il suo amico che abitava allo stesso suo indirizzo, che tante volte aveva giocato con lui a calcio e che è il primo a sinistra nella foto. Lui gli chiese: “Dov’eri finito?” Gli spiegò d’Anna, che aveva monopolizzato all’improvviso tutta la sua vita per tutto quel tempo. Riccardo gli consigliò di distrarsi. Ci avrebbe pensato lui. Ed è proprio stato così! Lavorava a Corsico, nella Norton, e l’aggregò ai suoi amici. Così, ai primi di marzo del 1963, andò con Riccardo al Palazzo del ghiaccio di Milano dove aveva l’appuntamento con un gruppo in cui vi erano sette ragazze che lavoravano con lui alle Mole Norton. Giancarla era davanti alla biglietteria e aspettava gli altri per entrare, lì col suo viso esile, pulito, molto grazioso, e i suoi capelli «ricci ricci e marroni e gli occhioni grandi grandi e belli», che le notò subito e così preso avrebbe descritto in una canzoncina che parlava di lei.


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RU aveva tanto bisogno e desiderio di non pensare più a nulla di serio che una volta tanto gli riuscì d’essere brillante, divertente, totalmente disinibito. Quando gli riusciva era irresistibile. Riccardo organizzava quegli incontri perché aveva uno scopo: gli piaceva quella Giancarla che appena Romano aveva visto davanti alla cassa era piaciuta anche a lui. Lo si capiva: interessava molto a Riccardo. Perciò, per non tradire il suo amico cominciò a ridere e scherzare con tutte e 6 le ragazze, meno quella. Tutto questo, e la bella cabriolet su cui invitava tutte, tranne Giancarla, sortì l’effetto opposto e lo rese irresistibile proprio a lei. Andavano ora regolarmente al palazzo del ghiaccio e RU, pattinando, faceva giri con tutte, tenendole per mano. Allora fu lei ad andare a cercarlo, con la scusa di sorreggerlo, visto che era più esperta di lui sul ghiaccio,in quello svago che praticava da anni. Lo aiutava a stringergli gli scarponi, e gli faceva anche piccole scene di gelosia. RU accettava tutto questo con molto piacere, ma con profondo disagio, poiché lei piaceva a Riccardo. Così, quando organizzarono una gita in auto, a Lanzo d’Intelvi, dove il suo amico aveva una casetta, tutte le ragazze erano in fibrillazione, per sapere chi egli avrebbe portato sulla sua due posti e lui le lasciò tutte di stucco, perché s’era portato con lui Virginia, una mora dal viso bellissimo che sempre aveva sperato da lui una avance, e credeva fosse giunta l’ora ... Virginia Milanesi s’era illusa anche stavolta e come capì le ragioni di quell’inatteso invito, s’imbronciò a tal punto, strada facendo, che RU piantò tutti in assi appena giunsero a Lanzo, e – salutato tutti – pose fine alla gita di loro due la riportò a casa, per cancellare quella inopportuna loro passeggiata priva d’ogni ragione. Gli altri invece pensarono che si fosse isolato con la sua amante. Riportata Virginia a casa sua, RU ritornò a Lanzo, e lo videro da solo. Evidentemente avevano litigato. La partita nuova sorse tra le ragazze e su chi di loro fosse stata sulla sua spider nel ritorno a Milano, per non lasciarlo da solo ... e se la aggiudicò Giancarla, non si sa in base a quali accordi presi oppure no tra di loro. Per quanto, con il coinvolgimento di Virginia, Romano aveva sperato di scoraggiarle tutte, per la delusione della Milanesi (e i taciti ma irresistibili interessi che aveva lui) s’era ripresentata la stessa situazione dell’anno prima, quando non voleva danneggiare l’amore di un amico, ma tuttavia accadeva; e più egli si tratteneva tutto dentro, più diventava irresistibile. Quando si accorse che Riccardo non era veramente nel cuore di lei, accadde come già era accaduto l’anno prima e – non la prese – ma si lasciò prendere da lei e nel totale rispetto di lei come abbagliata da lui: che aveva cinque anni più dei suoi 18, un futuro da laureato che le sembrava sproporzionato rispetto al suo semplice diploma di scuole medie e due anni di avviamento al lavoro come una operatrice addetta a un Centro Meccanografico.

Conobbe i suoi solo quando le fece un ritratto a memoria e una sera si presentò con quello al bar di Via Vetere gestito dai suoi genitori, nella zona di porta ticinese. Tuttavia RU era ancora indeciso sul suo futuro con lei troppo lontana dalla strada che doveva intraprendere nella vita. Allora andò a trovare Gennaro, che s’era fidanzato e sposato con una ragazza che non aveva fatto i suoi studi. Voleva sapere come il cugino si trovava in una condizione alquanto simile a quella che sarebbe potuta essere la sua. Ne ebbe una buona impressione: la vita era fatta di cose concrete, d’arrosto e non di fumo. RU METTE ALLA PROVA IL SUO ASCENDENTE SU GS La lezione avuta nell’esperienza d’Anna gli era bastata: tutto quell’apparente intendersi, i botta e risposta all’unisono, la stimolazione reciproca della fantasia e della mente erano solo fumo, pura apparenza, e lui cercava arrosto. Giancarla, invece, mostrava di volergli bene in un modo sostanzioso e attento a ciò che piaceva non a lei, ma a lui. Era premurosa, gentile, e cercava di darli con semplicità le piccole e concrete cose che a lui materialmente servivano. L’unico sforzo che Anna aveva fatto per lui, in quel senso, era stato di regalargli una cravatta. Tuttavia, aveva badato a lui facendo molto, molto di più, tanto che se non ci fosse stata l’esperienza complessa fatta con lei, RU non avrebbe infine deciso di volere essere accompagnato lui realmente nella sua vita! Per verificare se poi tutto ciò era vero, se era veramente ascoltato e preso sul serio, Romano decise di sottoporre la ragazza ad una sorta di crudele ma necessario test. Le disse che erano troppo differenti nella loro culture e negli interessi che riguardavano non le cose materiali, ma dello spirito. Accettava che lui fosse con lei come sua madre era stata con suo padre? Lei lo aveva preparato e ne aveva fatto un maestro che dirigeva altri maestri. E lui, che aveva solo la VI elementare, non si era vergognato del suo reale stato. Lo aveva ammesso bisognoso di aiuto e infine si erano sposati. Lei accettò, superando quel test. Era una prova, che doveva anche aver luogo, così iniziarono a studiare storia, a partire da quella antidiluviana. Studiavano nel retro del bar dei suoi genitori. Lei dimostrava di impegnarsi, così RU vinse ogni sua remora e, anche se l’animo di lei e la sua fantasia non riuscivano ad andare dietro al suo cuore, decise che quella era la donna giusta per lui: si amavano, tutti e due. Per lei aveva dimenticato Anna in una sola settimana e si era accorto che aveva addirittura smesso di pensarla fin da quando l’aveva vista per la prima volta. Le voleva bene e prese a sentirla come una cosa sua. Si dichiarò ai suoi genitori, che l’accolsero a braccia aperte. La più entusiasta era Clara, la nonna di Giancarla, che abitava in piazza Insubria assieme al marito, Guglielmo, ottime persone, che si vedeva erano piene d’amore vero e reciproco.


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LA PROVA ANDÒ FALLITA E SI LASCIARONO Però accadde che, dopo un poco, Giancarla – sentendosi mortificata da quella cosa – non volle studiare più. Assunse comportamenti tanto strani che Romano cominciò a chiedersi se per caso la storia non si stesse ripresentando di nuovo. Allora, prima che le cose raggiungessero limiti invalicabili, affrontò la ragazza. Le parlò e – come temeva – si accorse che le cose non erano così forti come lui credeva che fossero. Il test era fallito e si lasciarono. Era accaduto come sempre: perso il fascino del mistero che suscitava, tutto era diverso e molto meno attraente. Ma non era questo il destino, che immediatamente prese le sue contromosse. RICCARDO LI AVEVA UNITI E ANNEGÒ L’ORA DOPO. CON LA SUA MORTE LI LEGÒ NUOVAMENTE. Erano quello stesso dì le quattordici di una tristissima domenica di giugno. Da quando RU e GS s’erano messi insieme s’erano isolati dagli amici. RU aveva parlato francamente anche con Riccardo, gli aveva spiegato che per lui era una questione seria, che voleva sposarla e gli aveva chiesto che cosa egli ne pensasse e lui – dopo aver commentato che a suo giudizio non sembravano fatti l’uno per l’altra – gli aveva detto anche di non farsi scrupoli, che per lui stava bene così e che non aveva proprio niente in contrario a che si legassero ... sarebbe passata anche a Passer. La prima cosa che venne in mente a RU, quando venne via da quella chiarificazione con Giancarla, fu di rintracciare lui e gli altri amici, per andare immediatamente da loro. Sapeva che dovevano esser andati in gita da qualche parte, a passare la domenica sulle rive di un fiume, lui ed altri di Viale Omero, così cercò di sapere dove fosse, telefonando ad Angelo; era andato con gli altri e non sapevano dove. Anche la madre di Riccardo non lo sapeva. Fu solo sul tardo pomeriggio che proprio Angelo, saputo d’essere stato cercato, lo richiamò e gli rivelò affranto che Riccardo era annegato nelle acque dell’Adda, al ponte dopo Zelo Buon Persico, da cui lui era appena tornato, Angelo di quella così tremenda notizia. RU telefonò subito a Giancarla la brutta nuova e le disse che andava sul posto. Lei a tutti i costi volle che ci fosse anche lei, volle seguirlo mentre si recava su quel fiume, l’Adda, alla ricerca dell’amico il cui corpo non era stato ancora ritrovato. Si rividero e, nella tragedia toccata al loro comune amico, quella che era stata la loro decisione, di non vedersi più, andò del tutto dimenticata. Riccardo, che li aveva uniti, era morto subito dopo che si erano lasciati, come se il destino ne avesse fatto il trait de union tra le loro due vite. Ed era come se avesse pagato lui con la sua morte affinché si rimettessero insieme.

Arrivarono sul fiume, scesero dal ponte sulla riva, appena usciti dalla Provincia di Milano, in quel luogo in cui in quel tempo vi era una cava di sabbia. Trovarono i sommozzatori, ma le loro ricerche erano senza esito. Il giorno dopo – lavorativo – Romano e Angelo ritornarono sull’Adda, in cerca del loro amico, che era annegato in una pozza d’una decina di metri di diametro. Non si erano accorti neppure della sua esistenza quando, in sette, avevano camminato lentamente, prudentemente, con l’acqua torbida che arrivava solo alle loro caviglie, fino ad una specie di isolotto, sul quale avevano riposato. Dopo una decina di minuti avevano deciso di tornare alla riva e lo avevano fatto correndo, sicuri ormai del fatto loro. Ma non s’erano accorti d’aver leggermente cambiato percorso e in tre erano caduti in quella pozza, frutto degli scavi per la cava della sabbia e della ghiaia, del vicino stabilimento. Tutti e tre quelli che vi erano sprofondati, all’improvviso, non sapevano nuotare. Due di loro avevano cominciato a gridare, mentre Riccardo cercava di far tesoro dell’ultima lezione datatagli da RU quando, solo la settimana prima, aveva appreso che lui, brillante in tutti gli sport, non sapeva nuotare. RU si era proposto immediatamente all’amico, quasi presagendo il pericolo che egli stava per correre e avevano deciso d’andare all’Idroscalo. Riccardo aveva poi cercato di rimandare, essendo la giornata molto nuvolosa, ma l’altro era stato inflessibile: non andavano a prendere il sole. In una sola seduta Romano gli aveva potuto insegnare a galleggiare, ma quando l’amico assumeva la posizione verticale non gli riusciva più di rimettersi come prima. Quella fu forse la causa per cui morì.


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Trovata la buca si era ricordato della lezione avuta e galleggiava senza strillare come facevano gli altri due chiedendo aiuto. Tutti si mobilitarono per salvare quei due, e nessuno, a quando fu poi riferito, mosse un dito per lui che sembrava fuor di pericolo. Ad un certo punto forse Riccardo cercò d’allungare un piede, per vedere se la buca fosse terminata, perché l’acqua era in movimento e lo aveva trascinato un poco a distanza e forse così temeva d’essere portato in mezzo al fiume da quella corrente. La buca non era purtroppo terminata e il suo tentativo di trovarne il fondo con un piede lo mise in verticale e così in condizione d’andare a fondo. Lo videro a quel punto alzare la mano, chiamare aiuto e forse pensarono che scherzasse. Salì e scese per un paio di volte, poi non lo videro più. Nessuno, tra le oltre cento persone presenti in quel luogo, si era mosso in suo aiuto. Se RU fosse riuscito a trovare e a raggiungere gli amici, Riccardo non sarebbe annegato. La sorte aveva anche creato la condizione possibile per cui egli accorresse da lui, mediante quella separazione con Giancarla; la sorte aveva anche messo in piedi un tentativo suo fatto in extremis di insegnargli a nuotare ... Chi può riconoscere che cosa ci sia di veramente libero, nello stesso piano di Dio, nello scegliere una o l’altra sorte? Quando RU ed Angelo giunsero l’indomani lì, i sommozzatori erano in acqua e vi si immergevano, cercando il corpo dell’annegato. Non lo trovavano. Allora i due amici si recarono alcuni chilometri più a valle, noleggiarono una barca e il pescatore che la guidasse e le fecero risalire la corrente, zigzagando tra una riva e l’opposta, scrutando ogni ghirigoro che l’acqua faceva, ogni cespo emergente e ogni arenile che potesse avere fermato un corpo trasportato via dalla corrente. A mezzogiorno erano risaliti invano fino al punto dell’annegamento. Si trovavano dall’altra parte dell’Adda e, guardando la sponda opposta videro che i sommozzatori erano andati via. “L’hanno trovato!” disse RU. Attraversarono il fiume e, notando lì in mezzo, un movimento dell’acqua, disse agli altri due: “Probabilmente l’hanno trovato qui” facendo cenno con la sua mano. Rabbrividirono poiché il corpo di Riccardo era davvero lì, dove la sua mano stava indicando, a soli 50 metri dal punto nel quale i sommozzatori l’avevano cercato invano per tutta la mattinata. Ebbe un sussulto, nel vedere il corpo dell’amico sul fondo, a circa 1 metro appena sotto il pelo dell’acqua. Bastò il remo, poggiato dal pescatore sotto la salma, perché venisse in superficie. Che destino! Solo a RU, che, come in una premonizione, già aveva cercato di insegnargli il nuoto, ora solo a lui Dio concedeva di recuperare, in questo insolito modo, il corpo del suo amico che ben tre sommozzatori avevano cercato invano, pur essendo proprio lì a poca distanza.

A RAPALLO Quell’anno la famiglia passò le vacanze estive in Liguria. Con loro vennero da Salerno anche i cugini Morra, con Fernando e la mamma. Romano fece un poi la spola tra Rapallo e Carrara, quando Giancarla andò a fare le sue vacanze assieme ai nonni.

OPPOSTE DECISIONI SCOLASTICHE R-U-BEN seguitarono a essere come due entità reciproche, e nell’ottobre del 1962, quando arrivò il momento dell’iscrizione all’università: RU risolse il problema in sospeso colla sua Università, dato dal catenaccio, e tirò avanti sulla strada che aveva preso. BEN mutò totalmente il suo indirizzo, facendo un dietro-front che denotò in lui una chiarificazioni sulle vere intenzioni della sua vita. Ove suo fratello corresse il suo errore, perseverando, Benito lo corresse ribaltando ogni cosa. Si accorse di non desiderare una futura carriera da Giudice delle opere degli altri, proprio lui che era così attento alle sue opere. Si era confuso, proiettando sugli altri il suo stesso bisogno di operare per il meglio. Ed essendo esattamente uguale e contrario al fratello, nei suoi giudizi, lo fu fino al punto che mentre RU perseverava pur buttandosi in tutte le possibili iniziative, BEN non perseverò più nel suo errore e desiderò operare di persona. Benito si iscrisse così al 1° anno di Fisica. Vincenzo, superate le medie, decise di divenire maestro e fu iscritto alla 1° magistrale.


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1963

dimenticava per essi ogni cosa, smetteva di fare tutto il resto e si dedicava anima e corpo solo a quello. Gli era venuto, grazie a Giancarla, anche il desiderio di laurearsi al più presto e fece realmente lo sforzo di mettersi a studiare con maggior lena. Gli diede l’esempio suo padre che, coi suoi 28 anni d’insegnamento, era abilitato a sostenere l’esame per Direttore Didattico. Luigi Amodeo decise così di prepararsi, ed iniziò a studiare intensamente. Dimostrando al figlio come si fa, quando ci si impegna sul serio, Gino, a quarantasette anni, rimise la testa sui libri e si preparò a dovere. RU volle accompagnarlo a Roma, quando ci fu la prova del Concorso e provò per chi gli aveva dato la vita un sentimento paterno, vedendolo così emozionato e con tutti gli atteggiamenti da ragazzo che lui ben conosceva. Vedendo l’ansietà, l’emozione del suo pater familias – che sempre s’era posto sopra tutti, per quel suo spiccato senso della patria potestas – ebbe la strana sensazione come d’un avvenuto e impensabile scambio di ruoli. RU VA A CARRARA E SALVA DA ANNEGAMENTO MAURIZIO

R-U-BEN il 25 gennaio e il 17 febbraio celebrarono i loro 25 e 22 anni compiuti. L’architetto Longoni si fece nuovamente vivo e RU andò a lavorare da lui per un brevissimo periodo, mentre frequentava il 3° anno, approfittando della sospensione dei corsi per la sessione di gennaio. RU rivide Anna Badari e lei tentò di recuperarlo, chiaramente pentita per come si era comportata l’anno prima. Ci rimase malissimo, perché lui la freddò con poche parole: “Troppo tardi, mi spiace, voglio bene a un’altra e la sposerò.” Anna fece buon viso a cattiva sorte e prese le distanze, senza prenderle mai del tutto. Sorvegliava quello che accadeva, da lontano. Sapeva anche lei che mancavano ancora molti anni alla laurea di RU. Passato il breve periodo di lavoro insieme, ogni tanto lei si faceva viva, con delle scuse, sempre più inverosimili, ed era per sapere, in sostanza, come stessero andando le sue questioni di cuore. Riceveva la notizia, ed era vera, che tutto procedeva a dovere. Come andava, veramente? Si sviluppava con serenità. Il rapporto non era uno di quelli che impegnavano molto il pensiero di RU. Non nel senso che egli non tenesse a Giancarla, ma non accadeva come era sempre stato in tutti i suoi amori: che

RU fu ospite a Carrara dei nonni di G.S.; di lei (Clara Raggi, che vedete nella foto con Giancarla, l’unica nipote femmina), e di lui (Guglielmo Benedetti, che avete visto in principio, con Maurizio, il loro unico nipote maschio). I nonni di Giancarla, avranno sempre moltissimo affetto, quasi una venerazione, per lui e gli determineranno per davvero la vita, con le loro amicizie. Affittavano, da anni, sempre lo stesso appartamento della loro città d’origine, per trascorrervi la stagione estiva. Erano di quelle parti, avevano vissuto a lungo là fino a quando Guglielmo, che lavorava alla Caproni, non era caduto dall’aereo, sopravvivendo per vero miracolo anche lui. Si erano trasferiti a Milano subito dopo la guerra ed avevano avuto una casa popolare in piazza Insubria, con l’ingresso in Via degli Etruschi. RU, in quell’occasione, salvò da annegamento Maurizio, il bambino dei coniugi Venturelli, zii della fidanzata. Erano seduti tutti su un pattìno, RU, ai remi e, di fronte a lui, a partire da sinistra, Renata sorella di sua madre, Giancarla e infine Maurizio, che allora aveva 3 o 4 anni. D’un tratto Renata si mosse, spostandosi lateralmente verso il


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figlio e il pattino, troppo carico per resistere a manovre di quel tipo, si inclinò talmente verso Maurizio, che le due donne scivolarono in acqua, spingendo il bimbo in profondità. RU aveva cercato di fare inutilmente da contrappeso, ma, vista la scena, fece come aveva fatto quella volta in cui suo padre l’aveva preso poi a cinghiate: si tuffò dall’alto di testa, per andare subito in profondità. Raggiunse e superò in un baleno il bimbo che si inabissava velocemente, senza scomporsi, senza respirare, come se, bloccato dall’emozione, seguisse attonito tutta l’improvvisa vicenda; quindi lo riportò verso l’alto finché fu a galla, in un modo così semplice e naturale che il bimbo pensò fosse avvenuto da sé. Quasi nessuno aveva avuto neppure il tempo d’accorgersi dell’accaduto; nemmeno Renata che, non sapendo molto nuotare, stranamente non si era neppure preoccupata per il giovane figlio, più inesperto di lei. La morte è certe volte così, ti passa accanto e neppure te ne accorgi, nemmeno le dai alcun peso... come se non fosse successo niente! Si potrebbe credere che la gente, scampato un simile capitale pericolo, poi se ne ricordi... No, molto spesso non accade. Un pericolo scampato e quasi inavvertito passa subito nel dimenticatoio, al punto che non ti resta dentro neppure un bisogno, eterno, di riconoscenza e di gratitudine, per chi ha fatto solo il suo dovere, ma intanto con quel suo gesto naturale, ti ha salvato la vita. COLLABORÒ CON LO STUDIO BBPR COL SUO AMICO BICO BELGIOJOSO Nei lunghi anni di fuori-corso era rientrato in contatto con quel suo amico della sua disastrosa IV ginnasio di 12 anni prima, Bico Belgiojoso, che era stato già allora l’unico che aveva cercato d’aiutarlo, facendogli capire che non doveva giocare troppo con se stesso. Bico si era laureato architetto; era il figlio di Ludovico Barbiano di Belgiojoso, noto architetto dell’ancor più famoso studio BBPR (che oltre al BB, si avvaleva di Peressutti e di Rogers, molto rinomati anche loro). Bico commissionò a RU l’esecuzione di una grossa prospettiva a volo d’uccello della città di Kuwait. Il suo Studio aveva l’importante incarico di ristrutturarla e occorrevano due grosse visioni: una dello stato esistente e l’altra di come Kuwait sarebbe apparsa a cose fatte.

Dovevano essere riprodotte tutte le case della città. Erano state eseguite una montagna di fotografie da terra, tanto che ogni palazzo era visto da tutti i lati ed ora occorreva un disegno di circa due metri quadrati, in cui ogni casa potesse apparire riconoscibile dalla facciata e dai suoi dettagli, avendo qualche centimetro quadrato di superficie a disposizione. Non esistevano fotografie dall’alto, non era nemmeno immaginabile in quel Google Earth, che anni dopo (come vedete) avrebbe sostituito egregiamente il lavoro di RU, per cui i tetti esistenti dovevano essere tutti capiti e riprodotti come meglio fosse possibile. Questo lavoro sarebbe stato importantissimo perché lo Sceicco avrebbe potuto comprendere e valutare l’intervento urbanistico soprattutto attraverso queste due grandi vedute di insieme, del “prima” e “dopo” la cura. RU aveva portato in visione le prospettive che aveva fatto, per l’architetto Longoni e per lo studio Zanaboni, in cui lavorava suo cugino e si era accordato con BBPR: se la sentiva. Il tempo per farlo non era però molto. Lavorando su un grosso tavolo da disegno occupato interamente dalla carta da lucido, poco alla volta tutta la città di Kuwait prese forma. Tutti ne furono molto soddisfatti. Il bello venne dopo. Lo studio BBPR prese troppo tempo, come sempre succede, negli studi preliminari, tanto che la fase attuativa fu circoscritta in un tempo troppo esiguo. Bico, pressato ora lui dall’orgasmo del tempo che passava troppo veloce, iniziò finalmente a procedere in modo spedito. RU aveva pensato d’utilizzare il disegno già fatto, facendone fare un controlucido riprodotto nel sistema automatico su una carta chiamata Topalar, molto simile al lucido. Avrebbe corroso tutti i pezzi del disegno che dovevano essere ripresi e modificati, nel lato in cui c’era la gelatina, che poteva esser attaccata dagli acidi fino ad essere del tutto rimossa. L’intervento di ristrutturazione, che riproduceva i palazzi progettati da Bico, sarebbe stato disegnato nella superficie opposta del Topalar.


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Questa tecnica avrebbe fatto risparmiare tutta la fatica e il tempo di ridisegnare quanto sarebbe stato conservato dell’antico, una parte chiaramente significativa. Dopo un po’ RU capì che la tecnica adottata non era efficace. Sulla superficie del Topalar, diversa da quella della carta da lucido, gli inchiostri di china, ma soprattutto i pennarelli che egli aveva usato nel disegno, non attaccavano allo stesso modo. In quel modo non riusciva a dare la stessa qualità grafica agli interventi di ristrutturazione, che risultavano troppo differenziati rispetto al resto, tanto da non aiutare, ma contrastare l’integrazione tra il vecchio e il nuovo a cui tutti miravano. Mancavano solo 8 giorni all’appuntamento con lo Sceicco e occorreva una scelta coraggiosa. RU l’assunse, decidendo che avrebbe lavorato ininterrottamente, giorno e notte fino a terminare quel disegno. Se era bravo e riusciva a rispettare il piano di marcia, ce l’avrebbe fatta. E ce la fecero – sia lui sia Bico – lavorando entrambi spasmodicamente, l’uno a progettare interventi, l’altro a inserirli prospetticamente sul lucido. RU disegnò ininterrottamente, perfino mentre mangiava i panini e beveva. Terminò in tempo il lavoro, che fu tutto riprodotto in eliografia e pronto appena un’ora prima che gli Architetti si recassero all’aeroporto. Fu sulla base di quelle copie, attaccate sui muri, che lo Sceicco approvò quell’importante lavoro degli Architetti milanesi. Tornato a casa, dopo tutto quel tempo che non andava a letto, si cacciò sotto le coperte; ma vennero a chiamarlo gli amici del caseggiato, e si stupirono che non fosse ancora pronto per la partita di calcio in notturna che cominciava di lì a poco. Romano se la ricordava benissimo, ma aveva fatto male il conto dei giorni ed era convinto che quell’incontro ci fosse il giorno dopo. Cercò di dire che era sfiancato da una settimana in cui non era andato a letto, ma gli fecero notare che se non c’era anche lui saltava l’incontro, poiché erano 6 giusti e contati solo con lui, e che non c’era tempo per chiamare un altro. RU allora si rivestì, prese il necessario e andò con loro. I primi minuti dell’incontro aveva l’impressione che le sue gambe non gli ruotassero a dovere, come se rotolasse un quadrato... poi gli spigoli si smussarono e corse come se non avesse fatto tutte quelle notti sveglio e in piedi al tavolo luminoso. Al termine dell’incontro era stanco, ma come al termine di ogni altro. Così, in quel modo paradossale, superò tutta la fatica, fatta disegnando, semplicemente facendone un’altra e di tipo diverso. Le sue gambe, restate sempre diritte per tutto il tempo, rimettendosi a girare a tutta corsa, avevano come ricevuto la compensazione adeguata! Ne uscì stanco per la partita e... riposato.

A CAPIZZO, I MORRA A Nicola Morra, che ormai aveva otto anni, era stato dato, tre anni dopo di lui, un fratellino che avevano chiamato Fernando. In questa foto coi due ragazzi ci sono Costantino, Emilia sua moglie a destra, e le due sorelle Morra. Manca solo Ciccio, che si era fatta intanto la sua famiglia. Vivevano ancora a Capizzo e progettavano di trasferirsi a Salerno. C’era una bella occasione in zona Torrione e la spesa era rilevante. Le sole entrate in denaro contante nella famiglia derivavano dallo stipendio mensile di Emilia, che – facendo la maestra – non era granché. Lei chiese consiglio alla sorella di Milano e seppe che Anna era disposta a darle anche una mano: in casa Amodeo erano due a lavorare, Anna faceva il doposcuola e tutto quello che poteva in più per aumentare le entrate. Raggiunsero così un accordo un po’ originale: Anna avrebbe aiutato la sorella a comperare un alloggio più grande, e la stanza in più sarebbe stata a disposizione sua durante tutto l’anno, in modo da tenere sempre vivi i contatti tra loro. Ormai erano in una città senza il mare e d’estate avevano l’abitudine di andare sempre a fare i bagni da qualche parte: sarebbero allora andati a Salerno e le due famiglie sarebbero sempre restate unite. UNIVERSITÀ R-U-BEN mostravano il loro perdurante stato di reciprocità. Il 1°genito navigava nuovamente con le vele in panna: nonostante si fosse impegnato di più, per iscriversi al IV anno avrebbe dovuto superare tutti gli esami del terzo, cosa non fatta; così si iscrisse al 4° anno di Architettura, ma sempre sotto condizione che entro gennaio avesse recuperato su quanto aveva lasciato indietro. Il 2°genito procedeva invece a vele spiegate ora che aveva chiarito le sue idee e si iscrisse regolarmente al 2° anno di Fisica. Vincenzo, il cuginetto, cominciò a frequentare la 2° magistrale.


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1964

R-U-BEN compirono 26 e 23 anni. Furono come al solito reciproci: RU a gennaio non superò l’arretrato e restò fuori corso. BEN corse brillantemente nel suo secondo anno di Fisica. Ormai erano trascorsi due anni da quando Romano e Giancarla si erano fidanzati. Lui doveva ancora, oltre che laurearsi, andare a fare il servizio militare, rinviato a dopo la laurea. Ma si rese possibile una raccomandazione perché entrasse nell’Aeronautica e frequentasse i corsi universitari durante il Servizio Militare LA RACCOMANDAZIONE FALLÌ E RU ANDÒ MILITARE... In quegli anni RU aveva un suo studente che suonava la chitarra: Pasquale (assumerà il nome d’arte di Paki) e – soprattutto, in relazione al servizio militare – suo padre era un Maresciallo dell’Aeronautica a piazza Novelli, in Milano. Parlando con lui, aveva saputo che suo padre era riuscito a far arruolare nell’Aeronautica alcuni militari di leva, che poi erano stati trasferiti a Milano. Se ci fosse riuscito anche con RU, lui avrebbe potuto frequentare i corsi mentre era occupato lì solo al mattino..., e così avrebbe potuto recuperare allo studio l’anno abbondante che altrimenti RU avrebbe perso, dopo la laurea. Per riuscirci, RU (che di leva sarebbe dovuto partire in ottobre), avrebbe dovuto: 1°, chiedere l’anticipo di Leva a metà anno (tanto da fare il CAR fuori durante il periodo estivo); 2° fare domanda nell’Aereonautica; 3° essere richiamato poi a Milano in ottobre, per poter frequentare le lezioni al Politecnico.

Non funzionò e la conseguenza fu che RU – che avrebbe potuto rinviare il servizio fino a laurea acquisita – si vide all’improvviso costretto a partire per l’esercito (e non per l’Aeronautica) e così a interrompere totalmente gli studi. La cartolina gli giunse a bruciapelo, a fine luglio, e gli lasciò una settimana di tempo, in cui volle andare in vacanza. Si recò con Giancarla a Carrara e l’ultimo giorno si immerse a lungo in verticale, a raccogliere le cozze che crescevano lì, liberamente, sul fondo del mare. Gli entrò molta acqua nel naso e stagnò lì, nelle fosse frontali poiché poi tornò a Milano e prese il vento in faccia sulla sua spider. Gli venne un mal di testa così forte da non poter muovere il capo. Carlo Mazzola, il fratello d’Angelo, medico, gli ordinò una radiografia e risultarono intense opacità ai seni frontali ed etmoidali. Su quella base, a suo giudizio, l’avrebbero rispedito subito a casa, ma doveva non curarsi e partire così. Lo fece e partì. Fu trasferito ad Albenga e non gli riuscì di farsi visitare, perché là c’era solo smistamento. Quando – una settimana dopo – giunse al suo Corpo, alla Caserma Scalise, a Vercelli e fu visitato, il medico gli negò il ricovero. RU si rassegnò. Dopo settimane di purulento muco giallastro che gli uscì dal naso, il mal di testa passò e fu archiviato come l’episodio di una sinusite acuta. Partendo, aveva scritto tre lettere al giorno alla sua Giancarla. Se la sentiva così sua che, anche se lei non riusciva a seguirlo, ora che erano restati soli, le scriveva e esternava tutto quello che aveva nel cuore e che a voce non gli riusciva di dirle perché lei – a tu per tu – sempre si schermiva. Lei andò a trovarlo tutte le settimane, percorrendo la distanza tra Milano e Vercelli. Gli portava crostate, dolci e tutto il suo affetto sincero. In caserma veniva il dì del giuramento e RU, vedendo un amico dubbioso su cosa regalare alla sposina, lo convinse a farsi fare il ritratto, vestito da militare: lei lo avrebbe certamente gradito più d’ogni altra cosa. Appena gli altri videro la capacità che RU aveva di dipingere ad olio un quadro così somigliante, in una mezza giornata, tutti cominciarono a volerlo essi pure.


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Così ebbe inizio un periodo di fervida produzione pittorica, con due ritratti al giorno, che vendeva a 10.000 lire l’uno (qualcosa come 150 euro del 2.021). Erano soprattutto i sottufficiali di complemento che li volevano e la richiesta superava la sua stessa velocità a realizzarli Giunse il dì del Giuramento delle reclute. Venne Giancarla assieme anche al resto della famiglia, accorsa tutta lì a Vercelli per quella festa. Quel momento bello e sereno lo consolò dall’aver interrotto tutto, obbligato a partire così a bruciapelo. Nei dì seguenti, nella saletta dei sottufficiali, uno d’essi era in posa, RU lo ritraeva e gli altri stavano tutti a guardare..., quando la porta si aprì di scatto ed entrò un personaggio così tanto più importante che tutti scattarono sull’attenti. “Ah, tu sei qui? – si era rivolto a lui – Vieni con me!”. Romano lasciò tutto e tutti e lo seguì all’istante, alquanto preoccupato: temeva un castigo. Il Comandante del Reggimento lo fece salire su un’auto e davanti ad essa si aprirono le porte che, a RU, erano parse invalicabili come di una prigione. Il Capitano Zarra accompagnò senza indugi quella giovane recluta non verso chissà quale punizione, ma a casa sua e gli dichiarò, mostrandogli le pareti: “Vedi? Sono nude. È dal dì del giuramento che ti cerco; da quando un militare girava con un ritratto che gli avevi fatto tu, in cui era lui sputato!” . Gli comprò così tele, colori e voleva che dipingesse copiando dalle cartoline. RU gli disse che in quel modo, si sarebbe però bloccata tutta la sua capacità di leggere, da sé, le luci e i colori naturali; era meglio dipingere dal vero. Lo convinse. Allora trascorsero tutti e due alcuni giorni andando alla ricerca del soggetto. Il Capitano veniva in caserma al mattino, lo accompagnava nella cucina e lì gli davano il cibo necessario per il pranzo. Quindi partivano per la località prescelta: i ruderi di un castello a Trino vercellese. RU dipingeva – totalmente libero! – fino a quando il Capitano ripassava verso sera e lo portava – come ospite aggiunto a lui – a casa della sua fidanzata, una ragazza bionda e prosperosa, piuttosto timida. Dopo una settimana di questa meraviglia, superata anche lui la sua timidezza, il buon Zarra rivelò a RU che voleva anche lui il ritratto della sua ragazza, bella e in carne com’era! E il RU pittore – atteggiandosi – iniziò una serie di pose preliminari; se la studiò in lungo e in largo e lei, paziente sorrideva, piegava il capo, come lui le diceva. Mai gli era capitato prima una simile cosa!” Infine iniziò il suo ritratto. Cominciò dal busto – nudo – per il quale lei non aveva posato. La sua famiglia – papà e mamma – si fecero infine coraggio e gli chiesero: “Ma... deve venire così?” “No, no! non vi allarmate; dopo saranno dipinti dei veli, che lasceranno intravvedere – sotto e per trasparenza – il colore dell’incarnato”. RU si stava lentamente disinibendo, liberando, ma... corrompendosi. Aveva appena cominciato il suo dipinto così come gli era stato ordinato che il Capitano fu comandato in Sardegna e il gruppo di Vercelli passò improvvisamente dalla Centauro alla Legnano, che dipendeva ora da Cremona.

Tutto così mutò all’improvviso. Naturalmente, nessuno più lo prelevò al mattino per fare il ritratto alla ragazza del Capitano, in sua assenza. Inoltre, RU avrebbe dovuto specializzarsi come radiofonista conduttore, con un corso che il capitano non gli faceva fare, volendolo come pittore. Così, in assenza sua e con un nuovo Comandante, fu subito trasferito a Cremona, dove tenevano i corsi per specializzare gli automobilisti mandati in avanguardia per trasmettere per radio le loro rilevazioni. Quando il Capitano Zarra tornò, lo cercò. Seppe dove era, dal Maggiore (che ora aveva a capo anche lui) e cercò di farlo rientrare, con la scusa che dovevano ristrutturare quella caserma e che la persona idonea era lui, quasi architetto. Tanto insisté e fece, che quel Maggiore un dì si recò apposta a Cremona, per prelevarlo, senza però riuscirci. Infatti Amodeo era intanto divenuto indispensabile anche in quella Caserma Manfredini. Era accaduto che – andato via il gatto tutti i topi ballano – i sotto Ufficiali (che s’erano visto scippato il pittore dal Capitano) eran tornati alla carica, e Amodeo era di nuovo il loro ritrattista (nonostante lo facesse a pagamento). Così – per tenerlo al riparo dal gatto – i topi l’avevano fatto assumere nello ’ “Ufficio O.A.T.I.O” che organizzava le esercitazioni d’un Reggimento ora non più della Centauro (artiglieria di montagna) ma della Legnano (di campagna)... Il Maggiore, andato fin lì a prelevarlo da Vercelli, trovata l’opposizione ferrea del suo pari-grado (capo dell’OATIO), lo mandò a chiamare e gli chiese: “Ti fanno andare a casa a fare gli esami? Non temere, quando tornerai a Vercelli sarai trattato benissimo. Abbiamo bisogno di te!”. Da Cremona RU ebbe questi permessi e – nella sessione di ottobre – riuscì a sostenere l’ultimo degli esami che gli mancavano, del 3° anno. Se il Maresciallo Andriola fosse stato più autorevole – nella raccomandazione a farlo entrare nell’Aeronautica e poi a P.za Novelli a Milano – ora RU avrebbe potuto frequentare il IV anno e by-passare il tempo perso a fare il Servizio Militare! Non era però nel divino disegno che R-U-BEN restassero sempre così: col 1° così ligio alle forme! Era necessario che RU si corrompesse e BEN no, tanto che il 2° proseguisse nel suo ordinato sviluppo e si iscrivesse al suo III anno. Da Cremona a Milano la distanza non era grande e così RU diede inizio anche ad un periodo di fughe, nascosto nell’ampio bagagliaio della Citroen DS19 comprata dalla famiglia. In tal modo RU violava anche i limiti territoriali senza essere intercettato dalle ronde militari che giravano ovunque, a Cremona. Così RU passò molte libere uscite settimanali facendosi portare: su e giù; caserma-casa-caserma.


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1965

IL DIRETTORE LUIGI AMODEO DOVÉ ACCETTARE LANUSEI Luigi Amodeo vinto il suo concorso, divenne Direttore. Per conseguenza dovette accettare, come primo incarico, d’andare dove c’era posto; così a primavera fu mandato a Lanusei, in Sardegna. Ci fu accompagnato con la nuova auto nella quale RU si nascondeva: la bellissima Citroen DS19 La famiglia restò a quel punto senza il suo indiscusso capo e R-U-BEN persero anche la compagnia di quel grande amico che il padre era sempre stato, giocando con loro e stando coi figli tutto il tempo. E non quello che lui concedeva loro ma – da un certo momento in poi – quello che i ragazzi permettevano a lui, assecondando la natura umana che spinge i figli a opposi ai genitori e a lottare per il loro riscatto, piuttosto che a far comunella con chi gli ha dato la vita. Pochi del resto capivano veramente che cosa spingesse Gino in quella via, e quale fosse la dimensione vera della sua figura. La visione troppo ravvicinata lo impedisce per semplici questioni di prospettiva reale, dello spazio e del tempo. Luigi Amodeo aveva quella di uno Spirito Santo che conosce già tutto e che non ha nulla che gli debba essere insegnato.

E che – proprio per questo – come Socrate sa di non sapere nulla e accetta il ruolo subalterno dell’apprendista. Se non fosse stato così si sarebbe sentito umiliato lui pure, sentendosi proporre aiuto da Anna, come si era sentita Giancarla quando a lei lo aveva proposto lui. Infatti cosa ne dite di un ragazzo che conclude i suoi studi regolari con la VI elementare, e poi – senza altri studi regolari, ricevuti nelle sedi opportune – la termina non come insegnante, ma come un Maestro poi Direttore dei Maestri? Se Tamar, negli estremi congiunti di Baratta Mariannina lo aveva provocato e aiutato a divenire un uomo nuovo, l’aveva accettato non sentendosene menomato e poi aveva fatto tutto da sé e da solo, essendo infine l’ideale figura tipo del «Padre Nostro» per i suoi due figli RU e BEN. Egli, esattamente nato lo stesso 7-7-7 cui in Bibbia prima fu richiamato Set e poi il 3° nella discendenza di Enoch, quel LAMech vissuto 777 anni i cui estremi LAM erano esattamente di Chi è Luigi Amodeo. Questi suoi attributi gli saranno riconosciuti solo secoli dopo, ma li ebbe. A CREMONA IL SOLDATO RU EBBE LA BRONCHITE. L’uomo propone e Dio dispone. RU prese a Cremona, nella sua Caserma, mentre era addetto all’Ufficio OATIO, una bella bronchite e il medico lo spedì dritto all’Ospedale militare che serviva quel reparto e che era... a Milano! Come non c’era riuscito, quando l’aveva cercato con quella forte sinusite che aveva, così ora lo mandavano a Milano, adesso che non aveva chiesto niente. L’Ospedale Militare di Baggio – per chi voleva imboscarsi – era una pacchia: c’era uno scritturale, di nome Brunelli, che fin dal primo giorno s’era messo a servire il comandante medico del reparto; ma solo fino all’una; poi indossava abiti civili e usciva (il tutto senza averne il permesso), passando tranquillo dal portone davanti al corpo di guardia che, se lo avesse fermato... ma non era mai accaduto. Per imboscarsi bisognava però servire a qualcuno o a qualcosa. Restare così a Milano sarebbe servito anche a RU così si chiese come poteva rendersi utile. Vide alle pareti della Cappella una serie di dipinti di nessun pregio, incollati ai muri. L’umidità aveva ridotto i Santi in Lebbrosi, per le parti del colore mancante. Si offrì di restaurarli, al Cappellano, finché era lì e senza chiedergli nulla.


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Quando RU guarì, aveva già guariti tre Santi dalla loro lebbra e informò il sacerdote che la sua opera finiva lì: era guarito e l’indomani tornava al corpo. Il Cappellano si mise subito in azione e anziché rimandato a Cremona RU fu spostato in un altro reparto dell’Ospedale, diretto dal Colonnello Festa, che era stato a lungo in causa con Renato Rascel, accusato di Plagio per la famosa “Tu sei Romantica”. Il Colonnello Festa aveva anche vinto la prima causa, poi perso l’appello, e in quel tempo attendeva senza molte speranze il definitivo verdetto. RU pensò che i Santi alle pareti non erano infiniti... Per restare a lungo presso l’Ospedale Militare, lui avrebbe dovuto essere utile al Colonnello Festa. E – fatto non indifferente – avrebbe dovuto essere uno che non fosse sollecitato dal proprio reggimento a rientrare in caserma... Infatti per evitare complicazioni, appena dal Corpo veniva sollecitato il ritorno in servizio di qualche imboscato, non ce n’era uno che reggesse. Astuto come un serpente, mentre ancora restaurava i Santi si fece coraggio e insinuò al Colonnello che poteva terminare tutta quell’opera: infatti era in buoni rapporti con il Capitano, e se RU gli avesse chiesto il favore di scordarsi di lui ... Gli mise nell’orecchio la pulce di una grande riconoscenza che gli doveva: «Ho dipinto gratis molti quadri ad olio al mio Capitano ...». Così il Festa – logicamente – pensò: “lo ha fatto a un Capitano? io non son forse un Colonnello?”. Così RU fu invitato subito a casa sua e – saputo del ritratto in sospeso alla bella del Capitano – chiese se era disposto a farne uno anche alla sua bellissima figlia. Era vero e fu subito accontentato. Quindi fu utilizzato come il suo scritturale, cioè come quel necessario assistente il medico che stilava gli esami obiettivi e tutte le anamnesi dei militari che entravano in quel reparto di medicina. Sulla loro base poi il Medico visitava gli ammalati e ordinava le cure, che poi di nuovo gli scritturali mettevano giù per iscritto. Figure così utili non erano individuabili tra i militari di leva dislocati negli ospedali e erano allora scelte tra gli ammalati riconosciuti all’altezza del compito. Era un vero e proprio servizio utile e valido come qualunque altro, di certo più di quello del radiofonista conduttore... per cui era stato arruolato. Non fece come Brunelli. Nemmeno ci provò e – dopo un mese – ebbe una lunga licenza di convalescenza e gli fu anche detto come rientrare in ospedale alla fine di questo periodo. Li passò a Lanusei da suo padre, assieme alla famiglia. Dopo i quali mantenne la promessa, fece come gli era stato detto e rientrò all’Ospedale. Aveva iniziato da poco più d’una settimana un nuovo turno d’un mese cui sarebbe seguita altra convalescenza, quando, di punto in bianco, tutti gli imboscati dell’Ospedale di Milano furono fatti sparire. Il Direttore aveva deciso questo provvedimento perché un architetto che RU conosceva, aveva sollevato un gran vespaio.

Marinoni era sposato ed era stato trasferito a Milano per via della sua famiglia. Non contento, s’era fatto ricoverare all’Ospedale e scavalcava il muro la sera, tornando a casa. Sorpreso fuori dai suoi superiori, essi avevano protestato con il Direttore dell’Ospedale e costui, a scanso di grane, aveva deciso di sgomberare dall’ospedale tutti scritturali che vi esercitavano in modo anomalo, non essendo ammalati. RU fu uno di questi. Ebbe in tutto cinque giorni di convalescenza e poi il via, non per Cremona – dove si teneva solo il Corso per radiofonista conduttore – ma per Vercelli, dove aveva sede la famosa Caserma, che avrebbe dovuto ristrutturare. Decise che doveva giocarsi la carta di Cremona (servita dall’Ospedale di Milano, mentre Vercelli come ospedale faceva capo a Torino). In quei 5 giorni di convalescenza si recò prima a Vercelli, salutò il Capitano Zarra e terminò il ritratto alla fidanzata, che era restato in sospeso. Al loro termine rientrò non a Vercelli (come era comandato), ma a Cremona e, di prima mattina, su raccomandazione del Colonnello Festa al Medico del reparto, fu messo subito in partenza e di nuovo per l’Ospedale di Milano. Poteva semplicemente eseguirlo e sparire, ma decise che, se non si fosse fatto vedere, la faccenda era forse troppo, troppo evidentemente sporca. Così, con in mano la base già firmata dal medico, del ricovero, si recò dal suo comandante dell’ufficio Oatio, sperando di portarlo dalla sua parte. Scelta infelicissima, poiché al Maggiore, quando lo vide con i documenti di ricovero in mano, quasi venne un colpo. Glieli strappò dalle mani e chiamò subito il suo collega di Vercelli, affinché inviassero al volo una camionetta, a prenderselo in consegna. Poiché la cosa al volo era impossibile, lo portarono loro a Vercelli. Il comandante dell’OATIO era proprio incazzato poiché aveva ricevuto molte sollecitazioni dal suo collega, inviperito per il fatto che quel militare mandato a Milano se ne restasse ancora in ospedale. Il vercellese era troppo infuriato perché il cremonese la desse vinta a chi così osava protestare contro un suo pari-grado! Non sollecitò mai RU a bella posta, per affermare la sua indipendenza. Ma adesso... Ora era di fronte a quel militare che voleva prendersi gioco anche di lui, e agì con una tale prontezza che fu il segno di quanto si fosse veramente incattivito. Così, un’ora più tardi, RU fu trasportato a Vercelli, e fu messo a tu per tu con quel Maggiore che gli aveva promesso un trattamento di riguardo... Fu terribile: “T’avevo promesso e hai fatto il dritto. Ebbene, dimenticati Milano!”. Per fortuna di RU, il Capitano Zarra gli restò amico e mitigando più che poté il rancore del suo Superiore lo nominò Furiere, e lo trattarono bene. Un giorno il Medico gli raccontò che, per tutto il tempo che lui era stato via, aveva dovuto sorbirsi – ogni santo giorno – le avvertenze del Maggiore: «Lì a Milano c’è uno così e così... “Guai a lei” se, quando torna, lei lo manda all’Ospedale!».


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MANDÒ RU ALL’OSPEDALE SENZA CHE LUI LO CHIEDESSE Massima fu così la sorpresa di RU, quando, pochi giorni dopo, lo stesso medico – senza che lui mai avesse marcato visita – lo mandò a chiamare e gli annunciò che l’indomani lo avrebbe mandato all’ospedale. Davanti all’incredulità del militare che non capiva il perché, il medico – agitatissimo – si sbottonò ad uno ad uno tutti i bottoni della sua divisa: “Vedi il mio torace? Io non dovrei essere qui! Invece sono qui, di leva, e devo lottare ogni giorno con gli abusi di questo maggiore, perché vi sono malati che devono essere ricoverati e lui si oppone”. Proseguì poi, dopo aver preso fiato: “Allora mi sono stancato! Sono così andato a lamentarmi a Torino, dal Generale di Sanità e lui mi ha detto che «non appena il Maggiore si rifiuta di mandare qualcuno all’ospedale, lei se lo faccia mettere per iscritto, nero su bianco ... e poi vedremo!» ... Perciò ci mando proprio te! Voglio vedere che cosa fa!” Il Maggiore si oppose, ma alla richiesta motivazione scritta del suo rifiuto al ricovero urgente di RU, si arrese e decise di recarsi di persona l’indomani a Torino. La mattina seguente, RU, ammalato senza alcun male, era lì, al primo piano della palazzina del Reparto in cui era stato ricoverato. Vide un Generale attraversare il cortile, venire a quella volta, salire a quel piano ed entrare nell’ufficio direttivo. Ebbe paura, sentiva che era entrato in scena uno che comandava ancora di più di tutti gli altri, a smascherare la sua buona salute e a metterlo nei guai. Stavolta senza avere colpe. Era solo stato al gioco del Medico di Vercelli, che non ne poteva più delle indebite ingerenze del Maggiore. Fu l’ultima paura. Non era quello che temeva; quel Generale lavorava lì in quel reparto. Mezz’ora dopo, rispose «Sì, io!» a una delle solite domande trabocchetto: “C’è tra di voi qui un architetto...?” (la domanda spesso portava a: “Sì, tu? Bene, va a pulire il cesso!”).

L’ INSUCCESSO MILITARE DI BEN Chiamato a un improvviso esame, fu dichiarato INABILE AL SERVIZIO IL SUCCESSO MILITARE DI RU... reciproci come sempre! La ricerca d’Architetto era autentica e così RU si trovò a dirigere l’allestimento della importante Mostra della Sanità, al padiglione del Lingotto, per quanto riguardava la Marina, l’Aviazione e l’Esercito, che presentavano un loro stand che fecero preparare all’ospedale, trattandosi di Sanità. RU i primi giorni andava al Lingotto coi vestiti che rivelavano il ricoverato che era. Il Maresciallo del minuto mantenimento gli consigliò allora d’indossare gli abiti civili, spiegandogli che non stava bene che i vari Generali sapessero in lui un ricoverato; era meglio che sapessero che chi li dirigeva era un architetto civile. Così questi pezzi grossi lo chiamavano con rispetto: “Architetto, scusi, facciamo così o cosà?”... Se avessero saputo che erano così riguardosi e ossequienti nei confronti d’un semplice soldato, e per di più così imboscato come lui, avrebbero usato altri modi. E poi ancora: Il Direttore dell’Ospedale di Torino, l’anno successivo, sarebbe andato in pensione e desiderò lasciare un ricordo, sostituendo l’alloggiamento del corpo di guardia al passo carraio, che era in legno, con uno in muratura. Occorreva un progetto, allora lo commissionò a RU e lui l’eseguì. A quel punto pregò il ricoverato affinché ritornasse, alla fine dei due mesi di convalescenza che gli avrebbe dato. Ma come fare? Per regolamento, quando il Reggimento in cui si ha stanza è sulla linea ferroviaria tra l’Ospedale Militare e la residenza civile, allora si deve rientrare al corpo. Vercelli era ben sulla linea Milano-Torino. RU in quel modo sarebbe dovuto tornare proprio a Vercelli! Fu lo stesso Direttore a chiedere a RU di trovare una soluzione, poiché ci teneva che proprio lui dirigesse i lavori del suo progetto... ed essa fu trovata.


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LA FAMIGLIA AMODEO DIVENNE SARDA Romano scrisse a suo padre, Direttore didattico a Lanusei, in Sardegna e lo convinse a cambiare residenza alla famiglia. Lui era il capo-famiglia o no? Pertanto la Residenza deve seguire quella del capo della famiglia! Così ebbe la licenza per Lanusei, e vi andò veramente, con tutti i suoi, a passare le vacanze estive assieme al capo-famiglia. Finiti i due mesi di vacanza, RU rientrò a Torino per la visita di controllo e per costruire quanto aveva progettato per l’Ospedale Militare di quella città. Non poté farlo, perché, appena entrato all’Ospedale, il Maresciallo del Minuto Mantenimento andò da lui e gli spiegò che aveva sua figlia rimandata in fisica, all’esame di maturità... Se ne intendeva lui, di fisica? Si, certo, se ne intendeva, ma gli rispose che era lì a costruire l’opera prima progettata. Ebbe, per risposta, che l’avrebbe imboscato lui nel suo imboscamento. Non avrebbe detto al Direttore ch’era arrivato e, per la costruzione, bastava lui. Serviva un docente di fisica alla figlia e per questo lui non bastava. RU acconsentì, e si trovò davanti una ragazza davvero molto bella, che inoltre s’innamorò di lui e si mise così, con tanta lena, a studiare la fisica che, dopo un mese di preparazione molto accurata, lei superò l’esame addirittura con un 8. Potenza dell’interesse affettivo! Non fece lo stupido con lei, né con nessun’altra! No, lui seguitava a pensare, con tanta buona volontà e trasporto, alla sua Giancarla. GS non gli chiudeva la mente, non l’imprigionava in un amore strappato a forza di baruffe e tormenti, in atteggiamenti che poi non si sa se sono frutto d’amore o d’orgoglio. Era, per lui, proprio un affetto, così sicuro, che gli aveva spazzato via ogni bisogno reale d’averne un altro. Alla fine di questo periodo di strana docenza, lasciando un cuore infranto, ma promosso, Romano ebbe un ultimo mese di licenza di convalescenza e, nell’ottobre del 1966, terminò questo stranissimo servizio militare offerto ... a chi occorreva il suo servizio, più che alla Patria. Aveva dipinto, progettato, restaurato, diretto, rotto cuori e rotto anche, una volta per sempre, tutti gli schemi del perbenismo che lo avevano ingabbiato fino a quel punto. Senza, con tutto ciò, sentire d’essere divenuto disonesto. Si era semplicemente adattato alle circostanze e si era dato a chi aveva veramente più bisogno di lui, senza mettere in secondo piano i suoi interessi. La vita gli aveva consentito di trovarsi, a tu per tu, con persone importanti e autorevoli dell’apparato militare, e le aveva demitizzate e trattate quasi alla pari. L’ostacolo che Romano Amodeo avrebbe dovuto superare nella vita, era, infatti, in questa fase della sua costruzione personale, che il fascino indotto nei superiori e nei maestri in genere, non ingenerasse, in lui, alcuna inibizione: egli non avrebbe dovuto averla nei confronti di nessuno.

Doveva purgarsi da questi difetti, e questa fu per lui la fase giusta della sua vita, in cui, invertendo le precedenze, ritrovò nuovi equilibri. Altrimenti non sarebbe mai divenuto capace d’affermare, con forza, insistenza e perseveranza, un’idea propria e del tutto nuova, rispetto a tutte quelle antiche e ben collaudate, della scienza ed anche della stessa Chiesa. Dall’anno della sua bocciatura, aveva cominciato a subire l’influsso dei maestri che potevano stroncarlo; e l’avevano fatto ... ma solo nel momento del potenziale Inferno, per lui. Aveva cominciato a farne dei miti, delle persone con le quali sarebbe stato particolarmente difficile convivere. Per smantellare tale condizione, la prima tappa importante fu proprio questo periodo, sottratto alla vita normale, in cui in definitiva riuscì a navigare, secondo un piccolo cabotaggio, tra molte persone autoritarie ed anche prepotenti, trovando il modo di farsi rispettare per quello che egli era. La sicurezza in sé, nella vita, è una lenta conquista e, per ottenerla, bisogna certamente rovesciare l’ottica precedente, se essa t’ha messo in difficoltà. R-U-BEN SI ERANO FINALMENTE DISINIBITI. Per quanto riguardava BEN – a dimostrare che, in un certo verso, era entrato anche lui nel processo di riappropriazione della personale autonomia e indipendenza – iscritto al IV anno di Fisica si era finalmente deciso a liberarsi dei limiti che imponeva a se stesso e ad aprirsi nei confronti dell’altro sesso. Era stato in Francia e n’era tornato con la novità di Claudette, una ragazza che cominciò a frequentare o, meglio, da cui iniziò ad esser frequentato. Quel periodo d’un anno, nel quale RU s’era staccato da tutto, lo staccò in parte anche da BEN, che cominciò così anche lui a emanciparsi. Claudette sarebbe venuta alcune volte a trovarlo, negli anni a venire. Era una ragazza alquanto chiusa, probabilmente con qualche problema esistenziale.


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Tornare a casa nell’ottobre del 1966, dopo il militare, seppure fatto così come lo fece Romano, avrebbe dovuto determinare un periodo di riadattamento. Per RU non fu così. Quel periodo d’estremo adattamento, in cui si era barcamenato tra il compito e la sua violazione, fu la base d’una svolta decisa: da quel momento pensò ad affermarsi, a chiudere, uno dopo l’altro, tutti i buchi nella sua vita, così come aveva fatto coi Santi alle pareti dell’Ospedale Militare di Baggio. RITORNO DEL PADRE DALLA SARDEGNA E DI ROMANO ALL’UNIVERSITÀ RU attaccò l’università finalmente con decisione, iscrivendosi al IV anno, per la seconda volta. Quello che aveva fatto prima, soprattutto, all’università, e in modo ininterrotto, era stato di giocare al calcio, nei “Brocchi” d’Architettura, vincendo anche il campionato, in un anno. Quando riprese i corsi e s’iscrisse in ottobre – finalmente! – al quarto anno, la sua antica squadra era in altre mani e allora fu il capitano d’una nuova formazione che egli mise in piedi tra gli studenti d’Architettura. La chiamò quella de’ “Gli assenti” proprio poiché si sentiva assente nella sua vecchia squadra in mani altrui. Il fondatore, Enrico Panzeri, si era laureato e aveva passato a lui il testimone, ma lui era partito militare all’improvviso, non lasciando le consegna a nessuno, tanto che se Alberto Gambel non avesse preso l’iniziativa, la squadra si sarebbe sciolta. Alberto vi portò la linfa, tutta nuova, dei suoi amici, tanto che quando RU tornò, non giocava nei Brocchi più nessuno che egli conoscesse. Una parte dei vecchi la recuperò lui per gli Assenti, ma occorrevano rinforzi, a evitare che, oltre che nel nome, fosse poi anche una squadra di secondo livello. Per agire in modo efficace, bisognava esser presenti all’inizio dell’anno, quando gli studenti partecipavano alle prime assemblee e le matricole non si erano ancora accasate nelle rispettive squadre; ovviamente ragazzi che sapessero giocare, perché partecipanti ai campionati nelle varie categorie della Lega Calcio. Si era a ridosso del 1966 e già l’aria che si respirava, in Architettura, era quella del famoso e rivoluzionario ’68. C’era in corso un’Assemblea, affollatissima, e RU si mise, con il taccuino in mano, a prendere nota di chi fosse disposto a iscriversi tra gli “Assenti”. A un certo punto uno dei capetti di sinistra, che dirigeva l’assemblea e che tuonava fuoco e fiamme contro i Padroni, che rubavano alla classe operaia, interruppe ciò e disse in tono

ironico: “C’è un tale che gira col taccuino e chiede se uno sa giocare al pallone! Se ha qualcosa da farci conoscere perché non viene a dircelo qui?” Pensava che RU se la facesse sotto, ma lui non se lo fece ripetere, piombò tra loro e, afferrato il microfono, tenne una conferenza sullo sport calcistico al Poli. “Qui non si fa solo politica, si gioca anche al calcio!” Datogli il microfono, in segno di sfida, si erano subito pentiti, perché lui non lo mollò più se non quando lo credé, prendendo in modo così netto la distanza, con tutti loro, che se ne sbalordì lui per primo. Era entrato veramente nel Purgatorio di tutti i suoi comportamenti precedenti, prima troppo osservanti delle altrui pretese, anche quando erano palesemente idiote... Si stava come risvegliando! Si accorse che la rottura, avuta in quel servizio militare così sui generis, aveva giovato in un modo infinito al suo senso di sicurezza. Ripensò a com’erano diverse le cose 10 anni prima, quando era soffocato, e non vedeva spiragli... ARRIVA NICOLA MORRA TRA LORO Passarono del tempo insieme, le due sorelle Anna ed Emilia, e quell’anno Nicola doveva entrare tra i Salesiani a Salerno a fare la prima media. Non avevano ancora cominciato ad abitare a Salerno poiché Emilia, in attesa del trasferimento lì, insegnava in un luogo più vicino a Capizzo. Allora Anna propose a Nicola di andare a studiare da loro a Milano, anziché dai Salesiani e il ragazzo accettò contento, poiché coi suoi cugini milanesi era stato sempre in vacanza, e immaginava che anche a Milano sarebbe stato così. Invece si trovò subito come in una caserma in cui studiavano tutti e vi fu costretto anche lui. Benito fu chi soprattutto lo seguì in quel tempo, mentre ara iscritto al quarto anno della sua laurea in Fisica. Nicola s’iscrisse alla prima media. Vincenzo al terzo anno delle magistrali.


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1966

R-U-BEN giunsero così a questo anno 66 che uguagliava il valore 66 in gematria del nome di Romano, il 1°genito che aveva compiuto, il 25 gennaio, i suoi 28 anni uguali a 7+3×7, quel valore 28 equivalente a una opera piena. E infatti questo sarà per lui l’ultimo anno del primo tempo 1/3 della sua vita, predestinata a durare 87 anni, 100 -13, tutto il moto di 13 anni (l’unità 10, nella trinità unitaria di Dio) nel 100 (il piano 10×10 di Dio posto uguale alla dimensione lineare 10). In che modo possiamo considerarla una opera piena, in base a questi 7 anni, uni e trini? È piena poiché la vita concesse a RU l’esperienza reale in tutte le cose che liberamente voleva, senza l’imposizione ferrea che minimizzasse, come in tutti i ragazzi, chiamati – a casa – ad apprendere quanto non hanno imparato a scuola. Il numero 7 esprime la pienezza di un tempo in cui 1/7 va dedicato al riposo, in tutto, e quando tutto ciò dura per le quattro dimensioni del tempo e dello spazio, allora è attuato in pieno il rapporto che deve esistere nella realtà, tra gli interessi dell’uomo. RU sentiva vero questo criterio e per partito preso non volle mai sottostare al ricatto dell’interrogazione. Così studiò solo in classe, finché l’obbligo gli fu imposto. Quando all’università non fu più costretto a trascorrere parte della sua vita nelle aule, non lo fece poiché avvertì altri valori per lui più importanti su cui cimentarsi. Dilatò così nel tempo il superamento di quegli esami fitti e concentrati nel piano degli studi. E a 28 anni, espletato anche il servizio militare, fu così pronto, in ogni campo, per concludere la sua vita preparata tutta e solo in base ai suoi valori.

L’impressione – di una caserma in cui c’era l’obbligo dello studio – che di Casa Amodeo ebbe Nicola, l’ultimo arrivato in famiglia, non era del tutto infondata. Infatti l’obbligo era reale, ma derivava più che da altro dal fatto che in quell’anno tutti liberamente studiavano, persino Romano! RU aveva finalmente ripreso i corsi di studio per Architetto dal quarto anno, ed ora avvertiva la necessità di laurearsi, crearsi una posizione, mettere su famiglia, avere dei figli. Erano subentrati questi interessi a quelli che prima aveva e che soprattutto stavano nell’affermare la sua libertà di un uomo, posto davanti a tutti gli interessi, e che desidera ben di conoscerli e farne pratica, prima di scegliere tra di loro. Nicola si sarebbe ricordato – più di lui nel futuro, e glielo avrebbe ricordato nel tempo del Covid-19, – di quando RU, partito da Codogno, andava proprio lì, da dove aveva avuto inizio il Coronavirus in Italia, per uno di quei corsi di Architettura, basato sulle esercitazioni pratiche condotte sul territorio. R-U-BEN anche in questo servizio militare, furono esattamente reciproci, l’uno l’opposto dell’altro. Infatti RU lo patì (volendo ragionevolmente gestirlo per il suo meglio); BEB, ne fu esentato (senza volerlo e senza una vera ragione!). Benito fu costretto a un’improvvisa visita di controllo, imposta a tutti coloro che avevano rinvii in corso per motivi di studio, per conoscere i futuri idonei tra loro, in una programmazione. Usava lenti a contatto (che allora nell’esercito erano una cosa anomala... e fu dichiarato inabile) per poche diottrie in meno e poiché BEN non si piaceva con gli occhiali. Più di una volta RU aveva pensato a come se la sarebbe cavata suo fratello, al posto suo... ed ebbe la sorpresa che anche in questo se l’era cavata molto meglio di lui: RU in 400 giorni faticati; BEN in 3, e senza far nulla. .


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Tutti in quella casa adesso studiavano accanitamente, tanto che la cronaca di questo anno è resa difficile proprio per questo studio assiduo che non lasciava il tempo per molto altro, al di fuori delle partite da andare a vedere allo stadio tifando Milan una domenica sì e l’altra no, e della relazione tra RU e GS. Nicola era un accanito tifoso del Milan, mentre Vincenzo – col suo carattere da posa-piano – era serafico e imperturbabile rispetto a tutte queste passioni. Erano i tempi in cui Rivera, venuto dall’Alessandria, era il capocannoniere del Milan e aveva preso il posto di guida e ispiratore che anni prima era stato del “Pepe” Schiaffino, l’idolo di Benito, poi trasferito sul suo continuatore Rivera. A ottobre RU – dopo una assidua presenza ai corsi e alle esercitazioni – si iscrisse al V anno. Benito si iscrisse al suo ultimo anno della sua Laurea in Fisica e Nicola avrebbe ricordato a lungo le telefonate fatte a lui da una delle sue colleghe, di cui avrebbe ricordato perfino il nome... Vincenzo fu iscritto al suo ultimo anno dell’Istituto Magistrale. Nicola, superata la sua prima media, iniziò il secondo anno di quell’Istituto in zona Vigentina che avrebbe cercato di ritrovare invano – così com’era – mezzo secolo dopo navigando per le vie di Milano grazie alle stupende possibilità che sarebbero stata offerte da Google Earth...

Nota 10. Con il 25 gennaio dell’anno seguente si sarebbero conclusi i 29 anni corrispondenti all’intero valore 29 del 10° numero primo. 29+29+29 anni = 87 anni avrebbero portato a tutti e tre i terzi dell’intera vita di RU, determinata dal suo destino di essere il PTR Romano della profezia di San Malachia sulla fine dei Pietro della Città dei 7 colli. Il valore numerico di PTR Romano è 114, e il giusto tempo del 114, riferito all’unità della realtà del tempo, data da 104 anni, è dato da 10.000/114 = 87,7192. È un tempo 114esimo della realtà intera in 10.000 anni, che determinerà 87 anni interi compiuti più 0,7192 unità che – riferite ad un anno di 12/1 unità in mesi (che sono 12+1) – dà la proporzione tra 7,192 e 10 uguale a quella tra il 10,04 (del 4 di ottobre) e i 13 mesi totali uguali alle 13 settimane come il tempo ¼ della presenza di un anno).


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2° decimo numero 1° di 29 anni

Con il servizio militare completato e il suo ritorno a completare gli studi a Milano si ultimò il primo terzo esatto della vita di Romano Amodeo. Educato da due sapienti maestri, aveva potuto avere una educazione completa, ideale, che lo aveva costruito e poi stroncato appena ultimato il periodo della sua infanzia. Aveva così dovuto ritrovare i suoi punti di riferimento e poi aveva potuto incontrare gli affetti del cuore, che non avevano portato a nulla, fino ai suoi 22 anni. Da quel momento di pienezza, della sua vita, avevano avuto inizio i rapporti iniziati seriamente, con il proposito di farsi una famiglia. E anche qui gliene era stato concesso prima uno apparentemente esaltante sotto il profilo della comunicazione spirituale, ma inconsistente quando era messo alla prova dei fatti concreti della vita. Solo per questa esperienza aveva deciso di farsi guidare dalla positività dell’affetto e non dallo spumeggiare delle passioni. Grazie a ciò aveva incontrato GS, che aveva di tutto, nei segni, per rappresentare una controfigura di Gesù. Non solo per tratti legati al modo di apparire del suo spirito, ma per quello dell’essere oggettivo sia dei segni, sia del cuore. RU però non lo avvertiva ancora. Provava solo quella serenità che gli veniva da lei, nonostante la mancanza di tutta quella capacità comunicativa verbale. Il servizio militare ha infine dato il colpo di grazia a tutto il suo perbenismo astratto e al rispetto della forma, togliendogli quello che poteva essere, per lui, una sorta di ricatto che il bene può ricevere, tramite un eccessivo vincolo a quanto appare nel suo reale aspetto. A questo punto RU è stato interamente costruito nella pienezza dei suoi mezzi e può iniziare il secondo tempo 1/3 della sua vita.. .


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1967

Nel giugno del 67 Nicola cessò il secondo anno delle medie e tornò a Salerno. Vincenzo terminò egli pure il mese dopo l’esame di Licenza Magistrale. R-U-BEN nei mesi finali di questo anno iniziano a vivere quello che non avevano potuto mai: una vita stando solo con la loro ristretta famiglia, secondo quelli che erano sempre stati gli ideali del padre. 29 anni compiuti dal 1°genito, alle prese con l’ultimo anno di Architettura, 26 il 2°genito e ormai laureando in Fisica. L’anno 1967 indicò per davvero una ripartenza. Alla Facoltà d'Architettura le cose erano profondamente cambiate, con il passare degli anni. Il nuovo clima aveva messo molta paura addosso a parecchi docenti e si cominciarono a sostenere esami di gruppo, in cui c’erano anche accozzaglie molto numerose, i cui leader erano capetti politicizzati, che assicuravano, per sé e gli altri, i vari “passi” e “via libera”, con un voto politico. RU non vi prese parte, si tenne sempre ben distante dal famoso ’68, di cui non condivideva la prepotenza, l’accusa generalizzata a chiunque si fosse dato da fare, nella vita, per organizzare il lavoro. Pensava che la classe operaia, senza le odiate fabbriche e gli imprenditori che avevano pilotato il miracolo economico italiano, avrebbe seguitato a fare la fame. Con la prosperità indotta dalla capacità di quegli imprenditori, l’ingordigia della classe operaia era divenuta eccessiva e aveva strappato percentuali del dividendo che avevano messo in crisi una macchina che aveva prodotto sempre più reddito e benessere per tutti, finché le risorse, restate in mano agli imprenditori, avevano consentito una crescita dello sviluppo. Poi, dopo aver provocato la crisi e avere assistito al fallimento che sempre tocca a chi è ingordo, ora costoro accusavano gli imprenditori.

Era soprattutto l’accusa qualunquistica, che portava ad un netto scontro ideologico, la cosa che non andava proprio a genio a Romano Amodeo. Vedeva l’immaturità di quei giovani così totalmente ingiusti e presuntuosi che si ergevano poi a giudici del mondo! Occupazioni dell’Università si susseguivano l’una all’altra. E qual era la motivazione? Cose giudicate da RU fumose, disordinate, tese solo al casino fine a se stesso. Non si sbagliava: in quegli anni una certa sinistra stava pensando giunta l’ora di sovvertire l’ordine, attraverso il terrorismo. Sentiva ragazzi, che poi sembravano per bene, ad un tratto esaltarsi, con ideali più grandi di loro ed irrealizzabili; li vedeva facili prede dei furbi, che poi sempre da dietro mandano allo sbaraglio i più ingenui, a fare il lavoro sporco. Romano Amodeo si era finalmente rotto all’impaccio che, per anni, lo aveva preso, e cominciava a rispondere a modo suo, libero, con nome e cognome, senza subire i fascini di cui ora vedeva vittima gli altri, che facevano, tutto intorno, molti proseliti nelle varie direzioni, di sinistra e di destra. Era pronto, finalmente, a svolgere il suo limitato ma libero ruolo, finalizzato alla costruzione della sua famiglia che per altri sarebbe stata detta piccolo-borghese, quella degli affetti umani, con le modeste – se non nulle – finalità religiose. “Il Paradiso?” “Lo vedremo a suo tempo... Più tardi che sia possibile, prego!” “Gesù?” “Una figura straordinaria, troppo lontana dalla verità della vita, utopica, purtroppo! Sarebbe meraviglioso se fosse come dice lui, ma è meglio imbrigliare la libertà dei cattivi e impedire con la forza di darti uno schiaffo a chi cerca di farlo.” “La famiglia?” “Sì, l’unica oasi in cui è possibile comunicare l’amore, ed io voglio realizzare quest’oasi nella mia famiglia.” Strinse amicizia con Giorgio Raffaelli, uno studente anziano come lui e che era stato altrettanto disadattato e ora appariva anche lui molto sicuro di sé. Formarono assieme, loro due, un gruppo in Composizione Architettonica, così affiatato e così soddisfacente, sotto tutti gli aspetti, che divenne uno dei gruppi piloti del corso tenuto dalla Franca Helg. Raffaelli era un filosofo, a modo suo, del “tutto è possibile, ma vediamo in quanti modi...”. Amodeo era invece un impulsivo, che si avventava su ogni prima occasione e non se ne faceva passare una, senza essersi mosso. Tanto era spavaldo e determinato il secondo quanto era prudente ed indeciso il primo e l’uno contemperava l’altro in modo ideale.


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Le cose si complicarono quando, a RU e Raffaelli, nel 1967-68, mentre era iscritto al quinto anno, si aggiunse Romano Gozzi, che era tornato, a sua volta, dal servizio militare ed era stato assieme al Raffaelli durante il servizio d’Amodeo. In tre le cose non funzionavano più a dovere e il terzo, a turno, si metteva in mezzo, impedendo la conclusione, rigorosa, della discussione a due ed aprendola a nuovi temi. Il tutto divenne molto, molto più lento e meno efficace. Intanto i suoi genitori avevano ripreso le loro combattute partite a scacchi, ormai snobbati da Benito che si era appassionato al gioco e si era iscritto ad una società scacchistica, andando a fare le sfide con le altre in veri e propri tornei regionali. Egli, nel settore che raggruppava tutti gli esordienti, era il punto forte e non aveva rivali. Contavano, in quelle partite, sui punti conquistati da lui come su risultati sicuri e in pratica già acquisiti. Qui il loro papà e mamma sono nel soggiorno della propria casa in viale Omero al 22 e alla parete ci sono le tele dipinte da Romano. I due maestri erano iscritti fin da quando erano tali a Salerno all’Istituto Nazionale Case ai Maestri (INCAM) e che adesso Luigi fosse un Direttore Didattico, la cosa non alterava il suo diritto. Vennero a conoscenza di un progetto edilizio fatto da questo ente senza fini di lucro, in una zona di Milano più centrale e non molto lontana da Viale Omero. Loro erano due distinti soci e se avessero voluto avrebbero potuto prenotare due appartamenti, ciascuno intestato a uno di loro, non essendoci contributi statali con cui fare i conti. Ne parlarono con R-U-BEN, tutti e due, sapendo che Romano un giorno ormai non molto lontano si sarebbe sposato e avrebbe avuto il problema di dove andare a vivere. La questione – visibilmente – non interessava Benito. E tutte le volte che gli chiesero che cosa ne pensasse, se ne prendevano due, visto che avevano due figli, Benito non si sbilanciava e non diceva nulla. A GIUGNO NICOLA ERA TORNATO IN FAMIGLIA, A SALERNO. Con la fine del 2° anno scolastico, Nicola era tornato a casa sua, ma non più a Capizzo. Si iscrisse così alla terza media a Salerno. Sua madre nel frattempo aveva ottenuto il trasferimento e tutta la famiglia aveva effettuato il trasloco, dal paese in via Ottavio De Sica, nella zona del Torrione, in quel capoluogo di Provincia.

1968

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R-U-BEN furono come al solito – anche a 20 anni il primo e 17 il secondo – in totale contrapposizione. RU – maturato il suo umano ideale – passò alla fase successiva della definizione del suo ruolo e all’idea di metter su casa; BEN – posto agli antipodi – navigava nell’indecisione più piena sul suo futuro. Tanto che quando i suoi genitori gli chiesero che cosa lui ne pensasse di trasferirsi in una nuova casa, prenotandola, non seppe proprio che cosa rispondergli, e non per evitare di impicciarsi, ma perché non aveva alcuna idea in proposito. Tutto al contrario di suo fratello che l’aveva così chiaramente determinata che cercava insistentemente di persuaderne i genitori... e gli sembrava inutilmente, visto che essi seguitavano a chiedere a Benito che cosa lui ne pensasse. Per BEN ogni cosa era ancora oscura e non sapeva che cosa pensarne. Per RU invece tutto era chiarissimo. Lui avrebbe necessitato di una casa nuova in cui mettere la sua famiglia, e avrebbe fruito di uno dei due titoli di società, quello di sua madre. Se il padre, con la sua quota prendeva un secondo appartamento, avrebbe dovuto sostenere il costo di un mutuo che sarebbe stato totalmente ammortizzato affittando Viale Omero a costo di mercato, e sarebbero vissuti restando vicini. Le sue spese non sarebbero aumentate e, con l’affitto che avrebbe ricevuto da un appartamento, se ne sarebbe comperato uno nuovo e in posizione più centrale. Il bello di quell’occasione offertagli dall’INCAM stava nel fatto che l’acconto era solo dato dal 10% del costo. L’Istituto aveva ottenuto dalla banca – data la certezza degli stipendi dei maestri – che il 90% fosse dilazionato in 15 anni, e il tasso era fisso. Riuscì a convincerli, ma i suoi genitori non ce la fecero a sapere che cosa ne pensasse il fratello. La sua risposta era che facessero loro a loro giudizio.


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RU si avvalse della quota della madre e scelse per sé il più grande che c’era, di 150 metri quadri: esso sarebbe restato intestato inizialmente a sua madre, essendo la socia. I suoi genitori ne scelsero uno nel palazzo di fronte, con un locale in meno. Era davvero un affare troppo evidente, per rinunciarvi, poiché il mutuo Cariplo pagabile in 15 anni era per il 90% del costo della casa, e a tasso fisso, Considerata l’inflazione galoppante che c’era allora, si poteva prevedere che quelle due proprietà, già dopo cinque anni, avrebbero avuto un debito residuo d’una decina di milioni ciascuna, contro un rispettivo valore arrivato almeno a cento. Si stipularono così i due contratti e si attese l’inizio dei lavori. Quell’anno progettò (ma fu firmato da altri) e costruì un capannone a Rottofreno, vicino a Piacenza. Lavorò facendo di tutto con il solo aiuto di Sabato Lingardo, quel suo amico che, cresciuto con lui nella sua casa di Salerno, era infine divenuto maestro, molto a fatica. La figura di Sabato era tutta particolare. Aveva denunciato grossi limiti a trovare accordi con gli altri. I suoi coetanei lo deridevano, per il suo fare goffo anche quando stava in paese, tra semplici contadinotti. Luigi Amodeo era stato il suo maestro e n’aveva apprezzato lo Spirito: i valori d’intelligenza e di pensiero, profondi, in quel ragazzo, e così stridenti rispetto poi alla sua capacità d’una posizione giusta tra i suoi coetanei. Svolgeva i temi denotando sensibilità, acume, gran bisogno d’aiuto affinché colmasse i suoi limiti. Così il maestro più d’una volta era accorso in suo sostegno, dicendo ai ragazzi che quel Lingardo che essi deridevano era di gran lunga migliore di loro. Quando, per i fatti noti, Gino e la sua famiglia vennero a Salerno, i genitori di Sabato misero il maestro di fronte alle sue stesse parole: quel ragazzo doveva studiare. Sabato fu accolto in Via De’ Marinis, in villa Cajafa e fece parte della famiglia per molti anni, assorbendone tutto il buono. Procedeva brillantemente negli studi, dando molto retta a tutti i consigli di cui il suo eterno Maestro era prodigo. Un giorno un suo amico, che faceva tutto quello che voleva a casa sua, fece però diabolicamente balenare nella mente di Sabato che egli invece era in sostanza uno schiavo. Entrò in quella testa tutta particolare questa pulce e vi restò per tutta la vita, in quanto si rese conto che in fin dei conti ciò era vero. Egli si era comportato bene fino ad allora solo per pura obbedienza. Allora provò a riscattare la sua persona e riaffiorarono, di conseguenza, tutte le difficoltà sue a trovare giusti equilibri in mezzo alla gente. Il maestro, che lo seguiva, un giorno volle sapere che cosa ci fosse di nuovo, perché, all’improvviso, si era come bloccato. Sabato gli rispose che aveva capito che andava bene, a scuola, solo quando s’affidava interamente ad un criterio che non era il suo libero, quindi così era come uno schiavo! Il maestro ci rimase male e smise di insegnargli.

Il ragazzo, finalmente libero di seguire la sua natura, ne finì vittima. Riuscì stentatamente anche a divenire maestro e si trasferì a Milano egli pure, seguito da tutta la sua famiglia. Abitavano in Via Lanzone e la madre Stella Mucciolo aveva trovato un lavoro da serva. Stella era una donna virtuosa e luminosa come il suo nome, e in tempo di guerra li aveva molto aiutati con il prodotti del suo orto. Avuto i primi incarichi di supplenza, per il maestro Lingardo erano iniziati i guai. Cercava di comandare ai suoi alunni ma quelli, sentendolo totalmente privo di autorità, facevano quel chiasso al quale cercava d’opporsi... alzando lui la voce. E – di conseguenza – quelli l’alzavano ancora di più e lo mandavano in paranoia. Il putiferio arrivava fino al Direttore della scuola che accorreva allarmato e, aperta la porta, vedeva un uomo come impazzito. Chiamava il Neurodeliri e gli infermieri erano infine costretti a ricorrere alla camicia di forza. Se il Direttore fosse stato più sagace e gli avesse semplicemente dato man forte, intervenendo sui veri colpevoli, i bimbi (che da angioletti spesso si mutano nell’esatto opposto), tutto sarebbe finito lì. Sabato si sarebbe calmato. Invece assisteva ad una giustizia totalmente stravolta e alla fine il colpevole da castigare – e sempre con maggior durezza – era lui. Dopo la camicia di forza era l’elettroshock a dargli il colpo di grazia. Ogni incarico di supplenza finì con questa scossa elettrica al suo cervello, e la visita medico-legale che gli fecero alla fine accertò un danno permanente per cui infine furono costretti a dargli una pensione di invalidità. RU era restato sempre in contatto con lui e, tutte le volte che poteva, cercava di dargli una mano, facendosela anche dare da lui, affinché si sentisse utile. Lo aveva chiamato a Rottofreno ad aiutarlo nei lavori manuali, per il quale aveva propensione, essendo dotato d’alquanta forza fisica. Partiva con lui da Milano, con la spider, e, dopo una giornata di lavoro, rincasavano. Impiegarono in quel modo l’estate e l’ultima parte dell’anno. Ormai gli esami erano stati dati tutti e si attendeva solo la laurea. Romano aveva scelto una tesi riguardante Sabbioneta. Benito si era laureato in Fisica, e Romano era lì lì per seguirlo. Essendo di fatto R-U-BEN una cosa sola, dislocata su due persone reciproche. Si laurearono praticamente insieme, ma il 2° lo fece per 1°.


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1969

L’anno cominciò preparando la tesi e facendo anche i lavori che capitavano a Romano Gozzi, il suo collega lodigiano che era un po’ più indietro negli studi. Venne il giorno della laurea e finalmente RU fu Architetto. Poco tempo dopo, fu abilitato alla professione con l’esame di stato. Gozzi gli procurò anche l’arredamento dello stand Sordi, alla Campionaria di Milano. Anche quello tentò di realizzarlo con il contributo fattivo di Sabato, ma non durò molto per le intemperanze dell’amico che quando lo vedeva arrivare lo salutava da lontano, strillando e comportandosi con lui in un modo così imbarazzante che in pubblico era inammissibile. Purtroppo in quel contesto, le stramberie dell’amico gli si torcevano contro e RU non poteva più accettarle nemmeno lui, poiché esse si sarebbero ripercosse poi inevitabilmente anche su di lui e su Romano Gozzi.

Amodeo dunque lavorava appena laureato con quanto il suo collega – che ancora non lo era – sapeva procurarsi come incarichi in Lodi. C’era tra loro una sorta di società di fatto, e dividevano proventi esigui. Era evidente che quando Gozzi si sarebbe laureato avrebbe poi fatto da sé. Era così? Glielo chiese. L’amico onestamente gli consigliò di cercare di essere un po’ più autonomo, ché la sua capacità di procurarsi lavoro non bastava per due. Si presentarono allora a RU tre occasioni quasi nella stessa settimana: due Concorsi per entrare nell’ente pubblico ed uno per fare il professore. Presentò tutte e tre le domande. Sostenne per primo l’esame per un posto d’Ingegner Capo nel Comune di Lodi. Vinse lo scritto, ma all’orale fu fatto interrogare dalla bestia nera di tutti gli esaminandi, un Commissario che voleva sapere il numero e la data d’approvazione d’ogni legge e provvedimento... In quel caso, c’era uno degli esaminandi che doveva vincere, e il concorso era solo una messinscena. Amodeo risultò idoneo ma il vincitore fu quel vice-ingegnere capo che con quel concorso pilotato cessò d’essere vice. Aveva subito presentato anche la domanda per insegnare e s’era iscritto al Concorso indetto dal Consorzio Intercomunale Milanese per l’Edilizia Popolare, un Ente che era nato su proposta del PIM (Piano Intercomunale Milanese) quando i Piani Regolatori cominciavano a essere approvati dalla Regione Lombardia e si era temuto che il PIM, la cui approvazione prima era richiesta a Roma, fosse esautorato da quella funzione da una Regione in un certo senso gelosa del potere di cui il PIM godeva, avendo Milano e 80 comuni nei suoi ranghi, ossia la parte più importante della regione. Essendo stata promulgata la Legge 167, per l’Edilizia Economica e Popolare, il PIM aveva favorito allora la nascita del Consorzio, previsto da questa Legge e formato dagli stessi comuni. Il PIM si sarebbe fatto così forza del CIMEP per proteggere il più possibile la libera scelta dei comuni di consorziarsi, da una Regione che molto probabilmente avrebbe tentato di minimizzarne il potere fino ad allora avuto e rispettato a Roma. Nel 1969 esisteva già il Piano Consortile fatto dal CIMEP, attraverso l’operato di quattro Architetti che n’avevano avuto l’incarico come professionisti. Il più autorevole di loro era Andrea Balzani. Ora essendosi imposto questo Consorzio com’Ente locale, doveva avere un corpo di dipendenti assunti per concorso. Così il Direttivo aveva emanato un Bando Pubblico, però facendo una pubblicità assolutamente invisibile, finalizzata al fatto che s’iscrivessero a partecipare al concorso solo i 4 architetti che avevano elaborato il piano e che sapevano del bando. Né a Balzani, né agli altri conveniva però entrare nell’organico. Per quanto gli avessero assicurato che era tutta una formalità, non si fidarono, e non s’iscrissero. Ciò fece decidere il Consiglio, allora, ad emanare un nuovo Bando, con tutta la pubblicità di rito, e allora s’erano iscritti in 50 a parteciparvi, tra cui RU.


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Messi così alle strette, avevano accettato d’entrare in gara, allora, anche due dei 4 architetti che non avevano partecipato quando l’avrebbero vinto in carrozza: Edoardo Di Marco e Fabrizio Schiaffonati. Segretario generale del CIMEP era l’avvocato Samek, figlio del Senatore Samek Lodovici, della Democrazia Cristiana, che, per più anni, era stato eletto in Abbiategrasso, ove era il primario dell’Ospedale. Era – pensate un po’! – un amico intimo proprio di Clara Benedetti, la nonna di Giancarla. Così scattarono questa volta le raccomandazioni anche per Amodeo e forse influirono perché RU fu uno dei 4 che vinsero il concorso, scalzando anche Schiaffonati, uno dei due professionisti già firmatari del Piano che avevano tentato in extremis d’essere assunti. Questo fatto lasciò in RU più che un sospetto che questa volta chi era stato il raccomandato era stato proprio lui, anche se la sua prova gli era parsa fosse stata alquanto brillante... Contemporaneamente RU ricevé anche la comunicazione che la sua richiesta d’un incarico nella scuola era stata accettata: con il successivo ottobre avrebbe dovuto assumere l’incarico. Era dunque aperta la scelta tra la Scuola e il CIMEP, come assistente di direzione del servizio tecnico, il livello più alto che esisteva nella pianta organica, perché la figura del Direttore non era inserita, essendo essa già attribuita da Milano, Comune Capo - consorzio ed era quella dell’Ingegner Calandra. Prevalse il CIMEP perché erano stati messi in campo i parenti di Giancarla e non si poteva ora fare lo sgarbo, dopo l’aiuto ch’era stato richiesto e ricevuto, di rifiutarlo. Nella storia di Amodeo, la sua entrata in questo Consorzio divenne il punto di partenza per tutto il resto e questa provvidenziale occasione gli fu data proprio da due Benedetti: i nonni di Giancarla. Due persone così, con nomi così bene auguranti – come quelli di Clara Raggi e Guglielmo Benedetti – furono poste proprio a base di tutto il suo futuro successo. Se avesse dato retta solo a se stesso, RU avrebbe scelto l’insegnamento. Troppo era vissuto tra i maestri, troppo dominato dalla riverenza per loro per non desiderar d’essere finalmente egli pure un Professore. Se quest’incarico fosse stato dato prima che fosse comparsa l’occasione del Concorso per il CIMEP e che si mobilitassero i Benedetti, tutta la storia che stiam narrando, di R-U-BEN sarebbe stata diversa. Le importanti tappe percorse da RU nel 1.969, quell’anno tutto speciale in cui l’uomo andò sulla Luna, furono: La prima – compiuta nei primi mesi del 1969 – fu la Laurea e l’Abilitazione in Architettura.

La seconda quando cominciò a lavorare, assieme a Romano Gozzi che a Lodi aveva del lavoro e non poteva assumerlo e condurlo avanti per se stesso, non essendosi ancora laureato. La terza e più importante tappa delle tre fu il suo matrimonio. Si sposò il 4 giugno del 1969 e – senza farlo apposta – nello stesso 4 giugno in cui era stato miracolato nel 40. Allora la Madonna l’aveva assunto come un nuovo figlio, e nel 69 si legava davanti a Dio con G.S., l’acronimo di una controfigura verisimile di Gesù=GS. Suo padre era Mario (figlio lui pure di Anna e venuto giù dal cielo lo stesso 15 agosto in cui Maria Santissima vi era ascesa); sua madre era Giuseppina Benedetti anziché di quel benedett’uomo di Giuseppe. Nata 11.1, giorno di tutti i Santi, e nel segno dell’unità nella divina trinità. Il suo acronimo G.S. per mutarsi proprio in GESÙ doveva solo aggiungere gli estremi E ed U di colui che in Genesi si chiamava Esaù e veniva al mondo per come scritto in Bibbia proprio nel libro 1,25, descrivendo con questo il 25 gennaio della reale genesi di Romano (nome proprio del Popolo annunciato da Dio nel grembo di mamma Rebecca). Inoltre Esaù indicava proprio, con il suo nome: Es=tu sei romano A-U, da cima a fondo. Chi di divino era sul  (Padre e Spirito santo) si legarono in Chiesa con GESÙ, quando G.S. assunse gli estremi esatti di Tu sei Romano da cima a fondo – alias – di Esaù. RU quasi non si accorse che stava per sposarsi, perché finì solo la sera precedente di allestire lo stand della Ditta Sordi alla Fiera Campionaria. Tutti i preparativi erano stati portati avanti, con molta capacità, dalla sua Giancarla. Alla mattina seguente si alzo e costatò, come se niente fosse: “E oggi mi sposo.” Erano trascorsi sette anni da quando s’erano conosciuti nel 1962 e sei di un vero e proprio fidanzamento, anche se mai ufficialmente pronunciato. LE NOZZE TRA ROMANO E GIANCARLA Il matrimonio avvenne nella Basilica di S. Eustorgio, a porta Ticinese e poi, come tradizione in tutti gli sposi di Milano, anche RU e Giancarla si recarono nella “Chiesa degli sposi”, in corso Italia, nella quale già anni prima si erano travati per sposarsi da sé e davanti al solo Dio. Fu per loro come se fosse avvenuta quasi una conferma, autorevole, di quella che era stata prima solo una loro pia intenzione. Al prete che gli chiese se voleva egli prendere in moglie la qui presente... egli rispose, molto sicuro di sé: “Si certo!”


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L’intera cerimonia delle nozze fu ripresa privatamente con una telecamera, ma il destino avrebbe macchinato per togliere di mezzo ogni sua traccia, e tutta la ripresa andrà perduta. Il pranzo fu in un bel ristorante, collocato in piazzale Lotto. Erano ospiti tutti i comuni amici. Ad un certo punto lo zio Carlo Amodeo, che era divenuto cieco da anni, volle parlare agli sposi e salì su una sedia, pur essendo cieco, per essere più alla vista di tutti. Augurò fortuna, disse che conosceva RU e si aspettava grandi cose. Dopo le nozze Luigi Amodeo pianse, tra le braccia di sua moglie: “Ho perso un figlio!” Una cosa balzerà con il tempo all’evidenza: alle nozze, l’alter ego di Romano, R, Unito a BEN dal destino come una cosa sola in R-U-BEN, cioè BENito sembrò assente... e la stessa cosa sarebbe poi apparsa quando BEN si sarebbe sposato. Sta di fatto che avrebbero sposato due donne di cui una nata 11.1 e l’altra 11.3. come se esse stesse fossero una cosa sola – una e trina – in loro due. Tra le persone che mandarono un presente e non presenziarono, per quanto invitate, ci fu Anna Badari, che regalò una lampada rossa. Partirono per il viaggio di nozze con la Citroen, la famosa DS chiamata Lo squalo. Presero una via per andare alla tangenziale, ma RU non aveva intenzione di uscire da Milano, così si fermò ad un Hotel sulla sinistra, alto 9 piani. Nel precedente libro era stato riportato sul tratto che portava a San

Donato, ma per errore. Non esistevano alberghi così alti lungo quella strada. L’entrata dell’albergo era proprio come quella rientrata rispetto alla strada, di questo Hotel Agape in via Palmanova. Carichi di valige, che avevano scaricate dalla vettura, quando furono davanti all’ascensore, RU fece entrare prima Giancarla, poi entrò lui. Si girò subito per tirar dentro le due valigie piene di tutto, denaro, vestiti... ogni cosa. L’ascensore non lo consentì; le sue due ante si chiusero, non ci fu verso di riaprirle e la cabina iniziò a salire. RU la bloccò e schiacciò il tasto del piano terra. Essa si fermò, ma non accettò di invertire il senso della marcia, poiché ripartì verso l’alto. Allora riprovò una, due, tre volte, ma l’ascensore non intese ragione: riprese sempre a salire. Dové allora pazientare, e attendere che quel diabolico ascensore compisse tutta la sua corsa, di 8-9 piani verso l’alto e che poi scendesse. Era anche curioso di sapere chi l’avesse chiamato. Aveva una gran paura che le due ghiotte valige – per quanto fossero in un albergo – potessero fare talmente gola a qualche mariolo da non ritrovarle più, visto quanto tempo era ormai trascorso. La cabina giunse in alto, le sue porte si aprirono, ma nessuno l’aveva chiamata. Poi iniziò a scendere. Quando furono di nuovo al piano terreno e le due ante si aprirono, le valige erano ancora là, come ad attenderli, e ne rientrarono in possesso. Fu il segno – che ebbero dal cielo – che in vita loro avrebbero perso tutto ciò su cui avevano confidato, ma che poi il flusso nel tempo si sarebbe invertito e avrebbero ritrovato ogni cosa al suo posto. In quel momento, RU non lo capì. Aveva avuto solo il senso di un generale pericolo. In quella prima notte, trovandosi nella camera 22 dell’albergo infine con la sua Giancarlina, la sua bella “Coccolinda”, sentì tutta la responsabilità assunta verso di lei: era gracile, esile e avrebbe dovuto averne una grande cura. Se lo ripromise, nel profondo di se stesso: non l’avrebbe mai tradita e sarebbe stata la sua cara compagna per sempre! Doveva essere un Viaggio di Nozze viaggiante, in direzione della Spagna, ma dopo appena due giorni ogni fermata in un albergo si trasformava in una fatica terribile per spostare tutto. RU cominciò ad avvertire lo stress della guida e di quei forzati traslochi. Resisté fino a


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Barcellona. Qui mutarono il programma, parcheggiarono l’automobile e presero un battello per Ibiza, per fermarsi sull’isola, a sant’Eulalia del Rio. Incontrarono un mare con delle onde così lunghe e prese di poppa che la nave beccheggiava terribilmente e tutti stavano male, perfino il personale di bordo. Gli parve anche questo mare così agitato come un brutto presentimento. Sperò che tutto si calmasse nella pace ad Ibiza, dove restarono quindici giorni e fu finalmente – almeno per un po’ – la luna di miele che aveva sognato. Poi divennero nervosi, e cominciarono a palesarsi i loro due opposti temperamenti. Quello che calmava lui innervosiva lei. Forse avevano troppo idealizzato la loro unione e ora si aspettavano da essa cose innaturali e diverse. Invece succede sempre che quando si è arrivati al punto che hai considerato come il più alto, tutto quello che segue naturalmente discende. Infatti non sarebbero tornati in una casa loro. Quella in via Lattanzio era ancora in costruzione. Si erano così sposati accettando di andare in un primo tempo a vivere coi genitori di lei. Giusto il tempo che la casa fosse pronta, venissero i figli, e lei a quel punto avrebbe smesso di andare a lavorare a Corsico partendo dalla casa molto più comoda per andarci, col capolinea del tram per Corsico a poche centinaia di metri. Tornati dal viaggio di nozze, giunti a Milano, ci fu un ultimo segno, molto evidente: la Citroen, che aveva funzionato benissimo per tutto il tempo, e che era stata prestata loro da chi avrebbe abitato in Via Lattanzio, si impiantò, proprio davanti alla Centrale del Latte di Milano, come se chiedesse anche a loro due di andare a vivere lì dove c’era in costruzione anche la loro casa. Chiamarono il padre di lei, Mario, che venne a prenderli – loro e tutti i bagagli – e furono portati in via Vetere. La DS 19 restò bloccata davanti alla Centrale del latte e fu mandata a prendere dal suo proprietario, il padre di Romano, e tornò in Viale Omero senza loro due con il carro attrezzi dell’assistenza. In via Vetere visse RU coi suoi suocere in un alloggio che aveva due camere da letto un soggiorno e una cucina. I suoceri cedettero loro la stanza grande da letto in cui prima dormivano, e si sistemarono in quella piccola.

Pina e Mario erano pressoché assenti, gestivano il bar al piano terra ed era veramente un grande impegno. L’apertura era molto presto e la faceva lei, Pina; la chiusura era tardissimo e se ne occupava lui, Mario Scaglioni. Il suocero era di Rivarolo Mantovano e aveva una sorella (Palmira Scaglioni, chiamata Mira e spostata a Mario Balconi) che abitava a Milano, in Via Mach Mahon, assieme alla mamma di Mario, di nome Anna. RU assunse il cambio con naturalezza: era accolto bene da una famiglia d’ottime persone, piene di gran rispetto per lui, anche se, spesso, non capivano che cosa egli facesse. Per un mese Giancarla e Romano tentarono di gestire in comunione le risorse portate da ciascuno. Ma la situazione si rivelò subito troppo squilibrata. Da una parte c’era lui che puntava a correre anche grossi rischi, nel bisogno suo di raggiungere il successo al più presto; dall’altra c’era quello di lei, di gestire con oculatezza lo stipendio incassato a fine mese. Se avessero vissuto assieme, nella loro casa, forse si sarebbero accorti di più di essere un tutt’uno, invece, avendo lasciata l’idea di avere per un po’ una loro casa, già questo portava idee diverse su quanto fosse giusto. La pietra dello scandalo, che determinò la divisione dei loro redditi fu il gioco d’azzardo. RU, attivando la sua Ragione e il calcolo delle probabilità, aveva elaborato un sistema che giudicava abbastanza favorevole per vincere alla Roulette. Si rendeva conto dell’importanza del denaro e voleva trovare facili scorciatoie per procurarsene. Stabiliti i limiti di tempo e di ricavo che avrebbe dovuto ottenere, si recò a Campione d’Italia, senza dirlo a Giancarla, che non l’avrebbe permesso, anche se l’ultima volta, tornando dal viaggio di nozze, avevano giocato assieme e vinto. Era accaduto che lui s’era scottato la schiena ad Ibiza e, nel viaggio di ritorno doveva cambiar pelle. Aveva sudato abbondantemente, transitando per la Francia, tanto da decidere che appena avesse visto il mare vi ci si sarebbe buttato dentro. E lo fece. Appena esso apparve, bloccò l’auto e si lanciò così nell’acqua. Ma lì di fianco usciva una fogna, e si trovò a nuotare tra gli escrementi. Poiché c’era la diffusa credenza che “il bagno nella merda portasse fortuna” vollero verificarne se era veri e così, molto scherzandoci su, avevano tentato la buona sorte al Casinò di San Remo, appena rientrati in Italia. Ebbene, avevano già perso tutto quel poco che avevano posto in gioco e restava loro solo un gettone. RU, che sentiva da sempre un forte legame di buona sorte tra lui e il numero 22 (anche la prima camera in cui avevano dormito aveva quel numero), ci puntato sopra quell’ultimo gettone e il 22 uscì, mutando in grossa vincita tutta la perdita. Orbene RU andò a verificare i suoi ragionamenti sul calcolo delle probabilità – una questione quasi scientifica – e senza dir nulla alla moglie. Non era qualcosa che non avesse già fatto con Giancarla, anzi quella volta si erano veramente divertiti tutti e due per come era finita.


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Vinse e raggiunse i limiti prestabiliti, ma non se ne accorse e proseguì, perdendo poi tutto. Non nascose a Giancarla quello che aveva fatto, ma stavolta lei, scavalcata nelle scelte e presagendo il peggio cominciò a dire: “Oh Dio mio, che disgrazia ho avuto: un marito che rischia così i soldi che io guadagno! Io faccio fatica e lui se li gioca! Oh come sono stata sfortunata!” Allora RU le rispose che da quel momento tutto quello che lei guadagnava se lo sarebbe gestito come lei credeva, e così avrebbe fatto lui. Massima libertà e ognuno concorre alla famiglia così come credere giusto fare. Lui era un professionista il cui stesso successo era un rischio. Lei una stipendiata che aveva il suo mensile fisso e senza alcuna incertezza. Non potevano mettere insieme le due cose, per quanto bene si volessero.

1970

RU poté così da quel momento assumere decisioni ed impegni nella massima libertà e seguendo il suo solo criterio. Non perché Giancarla fosse scriteriata, tutt’altro, ma i suoi fini e il suo ideale, che era quello d’un impiegata che gestisce al meglio il suo stipendio fisso a fine mese, contrastava con l’ideale d’Amodeo, di trovare nel mondo la posizione al massimo livello possibile, nel segno d’una sfrenata ambizione, che lo portava al tentativo di riuscirci gareggiando in modo onesto, attraverso il rispetto, i meriti e la giustizia. Quando si sposò, l’architetto non aveva una lira. Entrò nel CIMEP un paio di mesi dopo e la prima sede fu al penultimo piano del grattacielo dell’Ufficio Tecnico del Comune di Milano.

Dopo pochi mesi l’ufficio del CIMEP si spostò nel corpo basso di quell’alto edificio, alla destra guardando il centro-città. Fu incaricato allora di cercare una sede provvisoria. La trovò al settimo piano in Via Fabio Filzi, di fronte al grattacielo Pirelli e in fretta e furia l’arredò. I 4 assistenti tecnici si erano suddiviso il campo: Cioni Mori e Giamberini si sarebbero occupati della Pianificazione, Di Marco avrebbe seguito la progettazione esecutiva e Amodeo avrebbe seguito e diretto tutti gli interventi in corso.


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L’ing. Calandra chiamò Amodeo e si fece disegnare una soluzione. Completata quella, se ne fece disegnare una seconda. Quando esse furono ritenute in numero sufficiente dal Direttore del Servizio, egli iniziò a mostrarle al Presidente del Consorzio, Cannarella, poi al vice presidente e poi giù ai vari consiglieri. Non decidevano mai quale scegliere e intanto i mesi passavano. Ad un certo punto il Presidente Cannarella chiamò Amodeo e gli comunicò, in modo secco: “Architetto, le diamo due mesi, faccia come vuole lei e ci faccia entrare!”. Amodeo scelse tutto lui: distribuzione, arredamento, ditte esecutrici dei lavori. Attribuiva gli incarichi e poi il Consiglio direttivo deliberava per gli stessi. Rischiò molto, perché chiunque avrebbe potuto sollevare eccezioni e allora sarebbe risultato d’avere travalicato il suo potere non avendo avuto nessun incarico scritto dal Consigli Direttivo. Non aveva protettori, non li aveva mai avuto fin da quando assunse il suo posto, in quanto Emilio Samek, Segretario Generale nel momento del concorso, aveva preferito dimettersi e dedicarsi ai suoi interessi politici, di sinistra e tutti diversi da quelli del padre senatore. I nonni di Giancarla lo avevano conosciuto fin da piccolo e lo chiamavano “Milli”, come faceva tutta la famiglia... ma erano già altri tempi: il giovane “Milli” aveva percorso molta strada con le sue gambe, perché aveva assunto una linea diversa. Affermava che le questioni di cui il CIMEP si occupava erano da seconda linea, a lui interessavano le prime, voleva essere dove contava davvero. Il CIMEP, infatti, non contava granché. Era sorto come un sussidio del PIM e riceveva dal PIM le linee di fondamentale intervento. Avrebbe dovuto localizzare le aree, negli 80 comuni tra i quali Milano, che sarebbero state destinate agli interventi d’edilizia economica e Popolare, ma non lo faceva. Erano i Comuni a scegliere e poi passavano i disegni che, controllati, avevano applicato il cartiglio CIMEP. Giocava tutto a vantaggio dei Comuni che palleggiavano la responsabilità delle scelte, con i propri cittadini, delle aree messe ad esproprio, dicendo loro: “è stato il CIMEP”. L’incarico d’Amodeo era invece operativo e dava soddisfazione. Nei due mesi la nuova sede era stata sistemata e arredata, spostando anche tramezzi ed aprendo nuove porte senza che il Comune di Milano, nella cui giurisdizione ricadeva pur sempre quell’edificio, neppure lo avesse approvato. Ma se fossero subentrate grane l’Ing. Calandra, Capo Ripartizione del Comune di Milano avrebbe provveduto ad eliminarle. Amodeo aveva cominciato a disporre d’uno stipendio fisso ed aveva potuto cominciare a guardarsi in giro sul migliore metodo per farlo fruttare al meglio. La situazione, della sua vita nella nuova famiglia, lo spinse a darsi da fare in ogni modo fuor d'essa.

Se RU avesse trovato una moglie non come Giancarla ma una come Anna Badari, si sarebbe dovuto mobilitare per lei, a causa dell’incapacità sua di badare a se stessa. Giancarla, invece, si dimostrò molto, molto più autosufficiente. Andava a lavorare a Corsico alle 7 di mattina e salutava il marito, con un bacio frettoloso, quasi per non svegliarlo del tutto. Rincasava solo a sera. Attendevano lei e lui i suoi genitori, con la tavola da pranzo imbandita su uno dei tavolini del bar, nel vano collocato di fronte all’ingresso, nel quale c’era il bar vero e proprio ed un tavolo da biliardo. Si mangiava tutti assieme e le conversazioni erano relative a com’era passata la giornata, com’era il tempo, cosa stavano facendo i nonni, la zia Renata, i parenti soprattutto del lato materno, perché anche Mario, il padre, che aveva una sorella, veniva in second’ordine in quella famiglia in cui le cose importanti sembravano essere solo quelle relative al ramo femminile. Mario era anche un po’ geloso di questo fatto, aveva sempre patito un poco la dimensione molto ingombrante assunta soprattutto da Clara, sua suocera. Queste parzialità avvenivano passando sotto silenzio gli argomenti che interessavano meno, quali ad esempio la famiglia di Mario. RU si rendeva conto di tutto ciò e non provò nemmeno a portare in campo la sua personale famiglia, inducendo a discutere quotidianamente di cosa facessero Benito, Anna, Gino, eccetera. Accortosi di come ci fosse poco interesse, in sostanza, per le sue cose, perché essi erano in sostanza d’un altro mondo, RU presto tirò i remi in barca e stava lì ad ascoltarli, evitando di prendere l’iniziativa e di introdurre i temi cari a lui. Se fossero stati soli, egli e Giancarla, non sarebbero certamente stati senza parlar tra loro, almeno mentre erano a tavola. Finita la cena, Pina si metteva a pulire i piatti nella cucina, ricavata di fianco al locale in cui si era mangiato e Romano e Giancarla salivano due piani di scale e si godevano, in perfetta solitudine, l’appartamento, fino a quando sul tardi, Pina attraversava il corridoio, salutava e s’infilava stanca a letto. La mattina toccava a lei d’aprire molto presto, dunque andava a dormire. Gli sposini facevano così solo quello che piaceva alla sposa e lei accendeva il televisore e si cacciava in una visione tutta solitaria dei film e di tutto quello che la Rai passava nel 1970. Se lui cercava di prendere parte a quella visione facendo commenti da condividere, riceveva un bel segno di tacere, con la mano o la voce. Allora stava in silenzio anch’egli, lì, vicino a lei e, dato che le voleva bene, poggiava la sua testa sulla sua cosca e vedeva lo spettacolo stando sdraiato sul divano, finché si addormentava. Quando lei n’aveva abbastanza, spegneva il televisore, svegliava il marito ed andavano a dormire. RU non era molto stimolato da questa vita a due e neppure vi si ribellava perché questo era il modo d’amare di Giancarla. Si sentiva però amato e gli bastava. Questo gli consentì una gran libertà di movimento, perché una moglie di questo tipo non


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l’obbligava a occuparsi di lei, ma quasi a seguire i propri interessi. Oh, non altre donne... lei si sarebbe molto dispiaciuta: altre interessanti occupazioni. Così iniziò a partecipare ai consigli di Zona e divenne esperto della Commissione Centro Storico del decentramento amministrativo. COSTRUZIONE DI VILLA COLLETTO, A NICOLA (ORTONOVO) Ebbe così quell’estate l’idea di mettersi veramente a costruire un complesso abitativo nella zona di Carrara. L’idea l’aveva già lanciata agli zii di Giancarla che credevano che occorresse chissà quanto denaro per realizzare una villetta... Spiegò loro quanto, secondo i suoi calcoli. “Davvero così poco?” Non gli credevano, ma se era così ci stavano essi pure! Così iniziò a girare per trovare per prima cosa un terreno sufficientemente vasto e che costasse poco. Aveva individuato addirittura una montagna, in vicinanza di La Spezia, in cui avrebbe potuto costruire la lottizzazione d’un villaggio. Il proprietario era stato più d’una volta con lui a mostrare tutto. La difficoltà erano i costi delle opere d’urbanizzazione, che RU giudicava eccessivi per le loro tasche piene quasi solo d’aria. Un giorno, quasi distrattamente, il proprietario rivelò che aveva anche un pezzo più piccolo, circa 5.000 metri, che erano posti sulla via, ma c’erano dei tralicci dell’alta tensione che non lasciavano realizzare nulla. RU volle vedere quel terreno e si accorse che era vero che c’erano i fili di ben due reti dell’alta tensione, che passavano ad alta distanza, ma tra le due c’era abbastanza spazio da fabbricarci un’ampia casa, tenuto anche conto dei metri che, per ragioni igieniche, dovevano essere rispettati come distanza. Non chiedeva molto, ma certo il costo a metro era quasi dieci volte più caro di quello relativo all'altra area, vista tra i monti di Castelnuovo Magra. L’area sorgeva in località chiamata “Colletto” perché era un piccolo colle che fronteggiava il colle vero su cui si ergeva Nicola, un piccolo aggregato avente caratteristiche d’un certo interesse storico e contraddistinto come frazione d’Ortonovo, uno dei paesi sorti nel momento delle coorti. La zona era quella dell’antica Luni, in comune di Sarzana. Fatto il piano economico, RU s’accorse che tutti gli intenzionati a partecipare alla costruzione erano senza soldi. Occorreva almeno uno che avesse un minimo di capitali. Cercò tra gli amici e si dichiarò disponibile il fratello d’Enrico Raho, uno dei compagni della ESSE la squadra di RU, al Torneo aziendale CSI, del sabato. Il promotore di questa attività calcistica era stato Ivo Cavaglieri, un ragazzo che abitava anch’egli in Viale Omero, ma nel secondo palazzo, che faceva capo al 24 ed era quello in cui era abitato Riccardo, in cui abitava tuttora la Famiglia Cassani, con Claretta. Enrico Raho era uno dei perni della squadra “Esse”, sponsorizzata da quella ditta in cui egli lavorava, con il fratello Claudio. Orbene Enrico aveva come fratello maggiore Rinaldo e stava appunto cercando di realizzare una villa da qualche parte, in collina o al mare.

Portato a vedere quel luogo, gli piacque, perché da quel colletto si godeva la bella vista di tutta la pianura sottostante e, in fondo, del mare di Marinella di Sarzana e del golfo, che iniziava da lì e poi diveniva Lerici e le cinque terre. Rinaldo Raho era d’origine egiziana ed era il titolare d’una ditta d’Importexport. Aveva una buona dotazione di danaro liquido e poteva anticipare la sua parte, che consentiva il necessario per acquistare il terreno e iniziare i lavori. Prudentemente RU convinse il proprietario a presentare, a suo nome, il progetto. Avrebbe comperato la proprietà solo sulla base del progetto approvato. Lavorando egli nel CIMEP, domandò al suo amico Romano Gozzi, che nel frattempo si era laureato, se gli firmava il progetto. Avrebbe potuto anche firmarlo lui, ma avrebbe dovuto chiedere il permesso al Cimep. Ora non gli andava di farlo a vuoto, perché, dato in vincoli che c’erano in quel luogo poteva anche accadere che gli bocciassero il progetto a causa della vicina Nicola, per ragioni paesaggistiche. Disegnò allora come un agglomerato di casette, pur essendo in sostanza una unica costruzione di 4 piani fuori terra, più un quinto di box. Attraverso un sapiente uso dei volumi, la costruzione a 4 piani non appariva esserlo, in quanto in nessun luogo erano stati messi 4 piani uno sull’altro, ma sempre e solo due. Chiamò il luogo “Villa Colletto” e presentò il progetto firmato dall’amico e da dal proprietario del terreno. Fu approvato, in tempi molto ristretti, così un gruppo di 7 persone formate da Romano Amodeo, Giancarla Scaglioni, Mariannina Baratta, Sergio e Renata Venturelli, Emilia Baratta e Rinaldo Raho, direttamente o su delega sottoscrissero l’atto d’acquisto.


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La costruzione iniziò nella primavera del 1970. RU aveva fatto sbancare un pezzo di collina da un ruspista, abbattendo molti ulivi e aveva scavato le fondazioni nella parte più bassa, spostando tutti i detriti in una scarpata con un bosco d’acacie. Queste piante furono sotterrate fino alla metà della loro altezza e il piano realizzato con quelle macerie, non affidabile, fu lasciato a futura strada interna. Nella parte solida dello sbancamento erano state tracciate quattro lunghe trincee, alte circa un metro e mezzo, che sarebbero state riempite con il calcestruzzo portato fino lì da una pompa e dai camion che lo portavano preconfezionato, dallo stabilimento che sorgeva a qualche chilometro da lì, sul fiume. Il primo aiutante in quest’opera fu ancora una volta Sabato Lingardo. Qui avrebbe potuto gridare “Ciao!” finché avesse voluto, ché nessuno l’avrebbe udito. C’era sul terreno un vecchio bunker dell’ultima guerra, perché lì c’era stata una delle postazioni della linea difensiva, l’altra era sul vicino Monte Marcello. RU c’era entrato, l’aveva ripulito ed ora vi passava la notte tra sabato e domenica. Quella volta aveva preso il lunedì di permesso, perché la centrale di betonaggio era chiusa il sabato e il dì festivo. Era domenica, l’appuntamento era stato già preso per le sette del mattino, quando cominciò a piovere. L’acqua avrebbe fatto franare la terra negli scavi e non si sarebbe potuto gettare le fondazioni se non rimuovendo il terriccio caduto nelle buche. Allora RU decise di ritornare a Milano, e di rimandare il getto alla settimana seguente. Giunti quasi a Carrara, dispiaciuti per l’inconveniente, RU si voltò verso il paesino di Nicola e vide un arcobaleno. Non ci pensò due volte e fece dietro front. L’acqua cessò di cadere e, lavorando febbrilmente, le buche furono svuotate dell’argilla che vi era caduta per la pioggia. Operazione resa pesante dalle pale che lui aveva acquistato, con il manico di ferro perché durassero più a lungo. L’argilla si attaccava a queste vanghe e quando, da dentro la fossa, si faceva il gesto di buttar via la terra dalla pala, l’argilla rimaneva appiccicata alla vanga. Si doveva bloccare di colpo il movimento e solo allora l’argilla si staccava dalla pala. Se non andava molto lontana, con una bella spinta, essa ricadeva nella buca e si era daccapo. Terminato lo sgombero, si rintanarono sfiniti nel bunker. Quando alle sei del mattino RU s’alzò, ecco l’amara sorpresa che era ripreso a piovere nella notte e ora s’udivano, distinti, i rumori sordi delle sponde di terra che franavano di nuovo sul fondo e lo riempivano di poltiglia. Saltò sull’auto e corse alla centrale di Betonaggio, ma lì seppe che erano già partiti, sia la pompa sia il grosso camion che conteneva sei metri cubi ormai da utilizzare, perché era stata già messa l’acqua. Quando ritornò allo scavo i camion

erano già lì. Allora decise di svuotare di nuovo, uno per uno, ogni scavo. A mano a mano che lo faceva esso era riempito di calcestruzzo. Più facile a dirsi che a farsi, perché erano lì solo in due: egli e Sabato. Si misero di nuovo all’opera col coraggio della disperazione. La buona sorte li aiutò: cessò di piovere e si ruppe la pompa, dandogli alcune ore di vantaggio. Nel pomeriggio ogni scavo fu così ripulito della melma depositata sul loro fondo e riempito coi sei metri cubi nell’autobotte, che costavano un capitale ed ebbero il loro giusto uso. Quel giorno restò nella memoria di RU perché non ricordava d’aver fatto mai, in realtà, una fatica come quella. Presto Sabato – che proprio faticava a trovare il suo posto – cominciò a pretendere egli pure un pezzo di quella costruzione. Ma era impossibile: tutto era già ben ripartito, ma anche se non lo fosse stato aveva un costo insostenibile per il suo amico. Glie lo disse ma lui s’immusonì e così fallì l’ennesimo tentativo di coinvolgerlo in qualche cosa che poteva fare benissimo. Sabato oscillava perennemente tra il subire passivamente la volontà altrui e l’imporre prepotentemente la sua. Non riusciva a trovare un giusto mezzo. O ascolta o doveva essere ascoltato. E poiché RU era uno dei pochi a cercare sempre di capire le sue ragioni, allora lo doveva ascoltarle sempre, anche quando sbagliava. Restato senza aiutante, Romano ne trovò uno molto più interessato: Sergio Venturelli, che venne a dare una mano a chi costruiva anche la sua casa. Iniziò così un lungo periodo in cui il venerdì sera partivano da Milano e vi ritornavano la Domenica sera. Sergio era il guidatore. Un giorno si presentò sul cantiere Silvano Cappetta, un muratore, e si propose d’aiutare quel lavoro fatto tutto nel fine settimana. Fu arruolato. Consigliò Franco, un manovale, che lavorava in segheria, e fu aggregato pure lui. Infine fu aggiunto un anziano, piuttosto malmesso, soprannominato “Zuì”, che abitando lì vicino, spesso portava via il legno dal cantiere. Gli si affidò l’incarico di fare il guardiano. Costui era così indigente che si fabbricava il vino con l’aceto, molto allungato con l’acqua. Dopo alcuni mesi, in cui fece il suo possibile, con la sua zappetta, quasi recuperò una condizione accettabile, di forza e di salute, ma accadde perché con la paga che riceveva, cominciò finalmente a mangiar meglio. Ebbene quest’omino che sembrava un fuscello aveva per figlio un giovanotto grande e robusto che, una volta, smantellò due metri cubi di roccia a forza di possenti colpi inferti con una mazza di molti chili, che batteva una decina di volte in ogni punto, prima che lì la roccia si segnasse e poi cedesse. Probabilmente era figlio di un altro padre.


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R-U-BEN erano ormai su due linee proprie e in questo anno, Benito entrò in SIR, la Società Italiane Resine, che aveva in progetto anche la dissalazione e la purificazione delle acque da ottenersi attraverso la Chimica. Qui a lato R-U-BEN sono nelle loro vacanza trascorse a Salerno. RU poggia le sue mani sulle spalle di Nicola e questo infine sarà uno dei motivi trainanti della sua vita. Di fianco a Benito c’è Fernando. I due fratelli Morra hanno 12 e 15 anni. La condizione unita di R-U-BEN come di due entità reciproche, li avevano lanciati sulle due opposte linee della gestione pubblica, che riguardava RU e di quella dei grossi gruppi privati che riguardava Benito Amodeo che ha 29 anni, contro i 32 di suo fratello. La SIR prometteva a Benito di perseguire il suo desiderio di essere utile all’uomo, come il CIMEP prometteva a RU di operare al meglio nel settore Pubblico e nell’Ordine Architetti

1971

Ai primi del 1971 furono consegnate alla famiglia dei suoi genitori ed a lui le case prenotate in Via Lattanzio. Avevano scelto due appartamenti posti di fronte, ma su due palazzi diversi. Ascoltando il parere di RU, i suoi genitori e Benito si erano trasferiti da Viale Omero in Via Lattanzio e quell’appartamento della loro giovinezza, era stato affittato. Benito, dopo avere frequentato per un anno Giurisprudenza, si era iscritto poi a Fisica, ed era divenuto dottore in questa disciplina. Voleva fare cose grandi per l’umanità, dissalare l’acqua del mare per spegnere la gran sete dell’uomo, scoprire i segreti della natura. Ma non era questo il suo destino: ricevette un’offerta d’entrare alla Società Italiana Resine, entrò in un gruppo di tecnici altamente specializzati, che poi passò all’Italcementi e fu a poco a poco portato a


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divenire un grosso esperto delle dinamiche produttive, un consulente sempre più ricercato. Aveva sfruttato la sua capacità, manifestata già da ragazzo negli scacchi, di sapere gestire al meglio situazioni molto complesse. Si era anche dato a giocare a scacchi entrando in un Circolo che partecipava alle competizioni sociali. Nelle gare egli, al livello iniziale, vinceva sempre il suo scontro. Passò al secondo livello, e vinceva ancora; ma si era accorto come ora dovesse avvalersi anche dei risultati cui erano giunti gli altri, studiando le loro partite, imparandole a memoria. Dopo anni che i due fratelli non giocavano più assieme, Benito aveva sfidato una volta RU, assicurando che ora non c’era più gara tra loro: lo avrebbe sconfitto anche giocando alla cieca. Era vero e lo dimostrò. Avendo davanti una tastiera vuota, egli mosse il fantomatico schieramento che aveva di fronte ed era presente solo nella sua prodigiosa memoria, mentre RU, in un altro punto della stanza, mosse lo schieramento concreto e reale dei pezzi; e vinse Benito. Gran cervello, quello di Benito Amodeo! Molto dotato dalla natura a gestire le situazioni certe, laddove le regole erano ben note, ben definite e inappuntabili. Tutto l’opposto del fratello Amodeo: casinista, avventuroso, sempre alle prese con questioni che non conosceva, che erano più grandi di lui e che, dopo l’ebbrezza, momentanea, del trionfo, lo portavano inevitabilmente sempre a perdere, avendo egli cercato sempre troppo, desiderato sempre troppo, senza badare assolutamente ai costi ed alle spese da tollerare e subire in conseguenza. Anche adesso che la vita stava dimostrando quanto anche Amodeo fosse dotato di mezzi, la sua situazione era resa sempre instabile e mai assolutamente definitiva. In questo modo l’esercizio di RU, ad aggiungere sempre più tenacia alla tenacia, era eterno e stava durando da tutta la sua vita. Era in questo modo che il destino lo stava preparando, lentamente, passo dopo passo, ad intervenire su scala sempre più allargata e con ambizioni sempre più grandi, sempre più irrefrenabili. Benito aveva ancora rapporti con Claudette, ma era alquanto preoccupato, perché temeva che lei potesse un giorno buttarsi giù da quel settimo piano in cui ora abitavano i resti della famiglia Amodeo. È l’anno in cui sono assegnate le case prenotate in Via Lattanzio. Ecco dove sono. 150 metri quadrati, la settimo piano quelli di RU e 120 quello dei suoi genitori, al 7° piano dell’a casa di fronte. Romano non andò ad abitarvi. Giancarla spettava sempre di poter divenire madre. Ma, pur non essendoci impedimenti, i bimbi non venivano e la casa assegnata rimase sfitta. I genitori invece si trasferirono.

L’avere impegnato ormai ogni fine settimana nell’attività di costruttore di Villa Colletto, a Nicola di Ortonovo, e i cinque giorni feriali nell’attività al CIMEP ad Amodeo evidentemente ancora non bastavano, tanto che nel 1971 decise d’entrare come Consigliere nell’ordine degli Architetti cui era iscritto. Quest’idea gli venne quando ricevette la convocazione per partecipare alla votazione. Andato per la prima volta ad eleggere il nuovo Consiglio, pensava che ci fosse molto interesse per la nomina di quell’organismo di rappresentanza della sua categoria, ma non era così: a distanza quasi fissa, riceveva una comunicazione che, non essendo stato ancora raggiunto il quorum del 25% degli iscritti ammessi a votare, era nuovamente aperto il seggio, presso l’Ordine, il giorno tot. Alle ore tot. Dopo due o tre inviti, fu stuzzicato dall’idea di farsi eleggere. Si era mosso in ritardo, comunque ci provò lo stesso. Fu il disinteresse generale a sollecitare il suo interesse. L’attività nel Consorzio lo aveva portato alla ribalta, cominciava ad essere conosciuto, aveva moltissimi amici, di tutte le estrazioni, molti parecchio legati a lui soprattutto per l’attività sportiva che avevano praticato assieme, prima nei Brocchi e poi negli Assenti. Gli amici n’avevano apprezzato lo zelo e l’accanimento che sempre aveva messo in tutte le sue iniziative quando si era deciso ad intraprenderle. Così fece sapere in giro che se l’avessero votato avrebbe partecipato volentieri ai lavori del Consiglio dell’Ordine e sollecitò tutti quelli sui quali contava ad andare ai seggi e ad inserirlo tra i 15 consiglieri da eleggere. Il Consiglio uscente si era ripresentato per intero e Amodeo, da solo, avanzò la sua candidatura. Il quorum dei votanti fu raggiunto. Allo spoglio risultarono subito eletti 14 dei 15 consiglieri e Amodeo risultò il quindicesimo, ma non fu eletto, perché non superò il 50% delle preferenze di tutti coloro che avevano votato. Fu necessario il ballottaggio ed Amodeo lo vinse, entrando in Consiglio, tra architetti famosi, egli che aveva 33 anni ed era stato laureato appena due anni prima di quel dicembre 1971 Con una certa emozione, tutti i martedì sera, iniziò a partecipare alle sedute. La sede dell’ordine era in Via San Nicolao, vicino alla stazione delle Ferrovie Nord. Essendo l’unico che era entrato da indipendente, in quel Consiglio che era stato nominato, per il resto, tutto attingendo dalla lista presentata dai Consiglieri uscenti, Amodeo non era tenuto a rispettar nessuna condizione imposta dagli altri. Così assistette a come quel Consiglio fosse in mano alla politica della sinistra italiana. Non era d’accordo che in un’istituzione obbligatoria, che aveva il titolo di Magistratura di secondo grado, esistessero scelte che si poggiassero


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sugli argomenti della politica. Osservò quest’aspetto con molto disgusto perché nelle scelte che spettava fare all’Ordine per la nomina di rappresentanti, le selezioni erano decisamente imparziali. L’Ordine degli Architetti era stato presieduto per una quantità enorme d’anni da Gattermajer; al suo interno erano stati inseriti grossi calibri che avevano fatto il bello e cattivo tempo in una gestione dell’Ordine mossa dal capitale e dal potere economico. Questa classe di marpioni era stata allontanata dopo il ’68, con la presa di coscienza della base ed ora il Consiglio che presiedeva quest’organismo era l’espressione di questi architetti della sinistra italiana che si erano fatti presenti, partecipando numerosi alle elezioni, ma che, tuttavia, per riuscire a portare cinquecento persone a votare ai seggi dovevano fare sempre molta fatica, a causa del disinteresse di quanti, non condividendo quelle idee precise, si erano dedicati all’assenteismo. C’erano architetti rinomati, tra i Consiglieri. Professori della Facoltà d’Architettura e gente di spicco. Amodeo ebbe modo di sedere al loro stesso fianco, di trattarli a tu per tu e di convincersi che tutto quello di straordinario che aveva attribuito a questi ruoli di particolare significato e rappresentanza, non corrispondeva poi ad una trasformazione dell’uomo che era chiamato ad occupare quel ruolo e restava sempre uguale a se stesso, pieno di difetti e virtù come qualsiasi persona. Il proverbio “Non c’è Napoleone in casa sua” era insomma vero: chi ha familiarità con le figure potenti finisce per accorgersi come tutti gli attributi possono fare d’una persona anche un potente, ma ciò non trasforma in potente l’uomo che non lo è, perché l’attributo è una cosa e la persona che lo riceve è tutt’altra cosa. Nell’operazione cui Amodeo era chiamato nella vita, quest’elezione in questo consesso diventa importantissima, perché egli era vittima del fascino delle persone illustri e dei maestri e un giorno sarebbe dovuto giungere a contraddire addirittura riconosciuti geni, in ogni campo, della scienza e della filosofia. Per farlo e porre all’attenzione del mondo intero il suo solitario giudizio egli avrebbe dovuto avvicinare ad una ad una tutte le figure da lui venerate, avrebbe dovuto conoscerle lavorando al loro fianco, fino a non venerarle più, pur non cessando di rispettarle per tutto quanto erano state capaci di compiere personalmente. Con questa elezione al Consiglio dell’Ordine degli Architetti, terminano i primi 33 anni di vita di Romano Amodeo, con il pieno successo nella sua professione e nella sua vita burocratica. Solo che è accaduto anche un grave inconveniente, che si è presentato anche come un grande peccato spirituale Il bisogno di una casa sua aveva portato RU a costruire personalmente una casa per la famiglia, dopo che quella di Via Lattanzio era stata affittata ad Ambrosio (nettare degli Dei, dei gelosi), a Nicola di Ortonovo: Villa Colletto (sarà un nuovo orto della vita conseguente ad un letto di morte, spirituale, per tutto quello che era riservato alla sua singola famiglia). Ortonovo era anche il luogo in cui Mariannina

insegnava quando RU aveva iniziato addirittura la sua vita e non la casa che darà inizio alla sua seconda vita. L’inconveniente ed il peccato fu che Giancarla non seguì RU che andava a costruire a Nicola e dissociò alquanto il suo interesse da una casa che il marito stava facendo proprio per la loro famiglia. Giancarla si comportò così come conseguenza del peccato di non aver potuto meglio sviluppare il senso della loro unione. Senza RU lei restava a casa con i suoi, come era stato già per tutta la sua vita. Sarà questo peccato di Giancarla, contro il loro essere un tutt’uno, che chiuderà, con un una morte della poesia che esisteva tra loro, la vita della loro singola famiglia. Non si vedevano quasi più nemmeno, tanto era impegnato RU. Ma i fine settimana avrebbero potuto passarli sempre assieme, se lei avesse voluto... Non volle e la poesia morì. Questo evento può avere la data precisa del mese dopo il Venerdì Santo del 1971, se RU era costretto a ripetere l’esperienza di Gesù a modo tutto nuovo ma sempre antico. Essendo nato il 25 esatto del mese successivo al dicembre (in cui la Chiesa Cattolica colloca tradizionalmente la nascita di Gesù) la morte spirituale della poesia, delle nozze di Romano e della fine della sua famiglia personale (dopo avrà quella di tutti gli uomini), può essere benissimo datata un mese esatto dopo quella della morte di Gesù. Tanto non si trattava di una morte fisica, ma solo di un’idea del fine che è posto sotto i gesti dell’uomo. Da quel momento in poi il fine di RU non fu più l’esistenza della sua famiglia borghese, ma quella della grande famiglia di tutto il genere umano. Se non fosse crollata la prima idea, non sarebbe potuto sbocciare la seconda, con la ricchezza con cui essa realmente rifiorì. Dite: non è strano che questo cambiamento inizi proprio mettendosi a costruire una casa nel Comune di Ortonovo? In provincia di La Spezia, come il condimento, di massima, della nuova coltura? L’Ortonovo in cui sua madre insegnava quando RU iniziò la sua vita? Quest’ultimo era in Lucania, l’altro, in Liguria, l’aveva iniziato con Lingardo... Non vi sembra che per quanto riguardi questa vita di Romano questi nomi si assomiglino troppo, quasi nel proposito che egli, così curioso, poi li notasse e ci ragionasse su, fino ad accorgersi di esistere assieme a tutti in un vero e proprio Assoluto Disegno?


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1972

R-U-BEN sono i due fratelli ora nel loro pieno ruolo. RU si è lanciato in una opera riguardante una molteplicità di direzioni, e le tiene tutte in ballo simultaneamente, come faceva brillantemente il fratello quando giocava a scacchi. Benito, il suo Alter ego uguale e contrario si comporta ora come si comportava RU giocando a mutare uno dopo l’altro tutti i suoi interessi, senza trascurarne mai uno, ma solo affrontandoli uno dopo l’altro. Infatti Benito Amodeo ha abbandonato la Società Italiana Resine ed è passato in Montecatini Edison, detta MONTEDISON; chiamato lì da un consulente della SIR che lavorava in Montedison e che ne aveva a tal punto ammirato la capacità, che l’aveva voluto aggregare al suo carro.

Il 1972 fu per R-U-BEN un anno in cui la loro reciprocità assume un aspetto condizionato da entrambi da una forte determinazione, in quella che era la loro natura specifica. RU, il 1°genito ha rovesciato totalmente la sua tendenza di soggetto libero in modo eccessivo e totalmente aperto ad ogni possibilità tanto che le prova tutte..., e ne ha preso una come il suo compito: è un membro tecnico dell’amministrazione sia nel settore pubblico sia dell’Ordine Professionale. BEN, il 2°genito ha capovolto la natura totalmente riflessiva, di chi non si è mai deciso a farsi avanti e a determinarsi con una ragazza non sapendo se volesse sposarla o no, e ne prende una per moglie.


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LA DETERMINAZIONE TOTALE DI ROMANO AMODEO. RU, lavorando da architetto e trattando con i più alti livelli, della gestione delle case per tutti i lavoratori italiani e dei Comuni, gestì per il CIMEP il Programma Straordinario d’interventi delle case popolari della Gescal. Fece risparmiare, con la sua personale tenacia, 1 miliardo di lire ai Comuni, una cifra che, equiparata ad oggi, sarebbe colossale. Succedeva che in Italia grandissime risorse, prelevate dalla tasca dei lavoratori, erano accantonate per realizzare le case popolari. Esisteva un ente che gestiva queste risorse e si chiamava Ges (come gestione) Ca (che stava per case) L (che si riferiva ai lavoratori. Gestione delle case per i lavoratori). Questa Gestione si poggiava su una legge dello Stato, legge che, per assicurare che i fondi fossero impiegati, stabiliva che essi, pur conservati dalle Banche, non dessero alcun reddito per l’Ente stesso. A questo punto in verità il reddito c’era lo stesso, ma finiva a chi, avendo veste decisionale, sceglieva questo o quell’Istituto di Credito come depositario delle risorse finanziarie. Era di sommo interesse per ogni Banca avere capitali così, che non dessero interesse ai titolari, per cui questi interessi c’erano lo stesso, ma finivano ai partiti, quando non alle persone dei partiti o della stessa Gescal. Erano restati così bloccati fondi immensi, ed era un vero scandalo. Allora era stato varato un Programma Nazionale d’interventi, che utilizzasse queste scorte finanziarie non ancora utilizzate. Si chiamava “Piano Straordinario”. I comuni consorziati nel CIMEP, forti del numero e dell’importanza d’un gruppo che conteneva al suo interno il Comune di Milano, erano riusciti ad avere un grandioso stanziamento e si doveva procedere all’attuazione del Piano. Furono mobilitate le competenze tecniche dell’Ente: l’Ingegner Calandra, come il Direttore del Servizio, e l’architetto Amodeo come chi avrebbe condotto all’atto pratico tutta la trattativa sotto il profilo tecnico. Era un aspetto fondamentale, perché i tecnici attuano il disegno degli amministratori. In questo caso quelli del Consorzio erano riusciti a compiere qualche cosa d’importante, a favore dei Comuni: impedire che gli interventi, indotti con tutti questi capitali, mettessero le Amministrazioni locali in crisi. La difficoltà sarebbe stata di realizzare le relative infrastrutture, primarie di strade fogne eccetera e secondarie, come le scuole ai vari livelli, per i nuovi lotti. I Comuni poggiavano i loro interventi sui contributi dei cittadini. Ma quando si realizzavano complessi notevoli e affluivano persone da tutto l’intorno e spesso da Milano, non potevano certamente i residenti accollarsi gli oneri per realizzare le infrastrutture ai nuovi arrivati. Pertanto l’azione politica degli amministratori aveva

portato all’accordo che gli oneri d’urbanizzazione fosse equamente spartiti tra la Gescal e i Comuni. Il piano riguardava interventi in oltre duecento lotti, essendocene diversi per ogni Comune. Lotti che potevano essere paragonabili a quartieri, con molte case, scuola materna, elementare, media. Pertanto l’accordo del Fifty-fifty andava controllato nel rendiconto totale, giacché, nel singolo svolgimento, le situazioni potevano anche essere attribuite tutto a carico del Comune o della Gescal, in quanto il CIMEP avrebbe poi fatto da mediatore, dando ai Comuni quanto avessero speso in più della Gescal per motivo d’opportunità. Cominciarono così ad essere preparati e presentati i progetti. Amodeo trattò con importanti funzionari dell’Apparato statale, e tenne la contabilità di tutti i lotti, affinché quell’accordo politico fosse rispettato. Ne riconosceva e condivideva l’importanza: i Comuni non potevano essere messi in crisi solo perché a Milano servivano addetti e questi si sarebbero insediati in modo massiccio nei piccoli Comuni dell’intorno, oberandoli così di costi non certo addebitabili alla popolazione che, prima, vi risiedeva e che si vedeva, poi, anche invasa da gente sconosciuta, di diverse tradizioni e diversi costumi, con disagi personali che RU ben conosceva, avendoli sperimentati sulla sua pelle come un vero e potenziale Inferno. Negli incontri di riepilogo degli interventi più piccoli, Amodeo vedeva l’arrivo del Direttore di quel suo servizio, l’ing. Calandra. I funzionari della controparte prendevano allora in mano le questioni e proponevano: “Qui è opportuno che tutti i costi siano attribuiti ai Comuni...”. Amodeo si rivolgeva al suo Direttore e gli faceva presente come la Gescal stesse troppo sbilanciando tutto e come, da un certo punto in poi, sarebbe stato indispensabile accollare tutte le spese a questa Gestione, altrimenti l’accordo del Fifty-fifty saltava e diveniva non più attuabile, nel concreto, a causa delle ripartizioni già concordate e degli impegni relativi già presi. L’ing. Calandra, che era un politico, in certe occasioni, più che un tecnico, gli rispondeva con un “Ma sì, poi vedremo..” ed Amodeo, tecnico e per nulla politico, gli ribatteva che poi non avrebbero più potuto vedere. L’ingegner Calandra avrebbe voluto che fosse il Cannarella, con il peso della sua Presidenza, a far rispettare un accordo preso in chiave politica. Amodeo sosteneva che spettava ai tecnici, che n’avevano avuto l’incarico, di controllare il rispetto di quegli accordi politici. Calandra era il Direttore e, ad un certo punto, Amodeo smetteva d’insistere. Colse allora la prima occasione in cui partecipò, finalmente, il Presidente del CIMEP Cannarella, e Amodeo, prendendo la parola nonostante Calandra cercasse di farlo tacere, rivelò come non si poteva più procedere così, perché stava saltando la fattibilità di tutto il faticoso accordo preso tra le due parti. Cannarella fu alquanto sorpreso di quanto sentiva, ne volle sapere di più, ed RU presentò il consuntivo delle ripartizioni fatte fino a quel punto: 70% a carico dei


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Comuni e solo il 30% a carico della Gescal. Presentò anche il quadro degli interventi che mancavano e dimostrò come solo se, da quel momento in poi, il CIMEP avesse giocato la sua autorità, i conti potevano essere pareggiati. Cannarella volle entrare nei dettagli, si documentò e concordò che era vero. Così si dovette alla tenacia d’Amodeo ed alla sua meticolosità se ai Comuni e, conseguentemente, al CIMEP fu fatta risparmiare una montagna di denaro. Amodeo era stato il solo ad avere spinto in questa direzione. Non lo aveva aiutato nemmeno il Segretario Generale del CIMEP, Dottoressa Raffaella Marchesi, alla quale più d’una volta aveva chiesto che il Consiglio discutesse di come stessero andando le questioni inerenti all’accordo del Fifty-fifty, tra il CIMEP e la Gescal. Quando, anni dopo, arrivò finalmente il Comune di Milano, con gli oneri d’urbanizzazione relativi al Piano Straordinario, il solo comune di Milano risparmiò un miliardo di lire. E ad Amodeo toccò d’udire, in una riunione, la dottoressa Marchesi che declamava trionfante: “Sono riuscita a fare risparmiare un miliardo di lire al Comune di Milano!”. In tutto questo tempo, RU visse un’attività totalmente determinata. Mattine e pomeriggi dei giorni lavorativi era al CIMEP, o in qualche cantiere. Il lunedì sera era alla commissione urbanistica del Centro Storico, Zona 1 del decentramento amministrativo di Milano. Il martedì sera era all’Ordine degli architetti. Il mercoledì e il giovedì restava a casa, se qualche impegno non subentrava, la sera, per qualche convegno o altro che lo interessasse. Il venerdì, appena cenato, assieme a Sergio Venturelli partiva per l’avventura di Nicola d’Ortonovo, dove si trasformava in factotum e impalava, legava ferri, tirava su muri, per rincasare stanchissimo la domenica sera. In questo modo RU aveva totalmente ribaltato tutta la sua natura passionale di chi era in grado di fare solo poche cose per volta. Questa sua natura specifica si manifestava specialmente nel gioco degli scacchi, in cui mentre RU giocava con pochi pezzi, era BEN chi teneva in ballo tutti i pezzi della scacchiera. Le cose si sono talmente ribaltate che ora + RU che si è talmente deciso di volere tutto che cerca di essere attivo in ogni contesto, e in ciascuno riesce ad essere operativo: sia al CIMEP, sia all’ORDINE ARCHITETTI, sia nel Cantiere di NICOLA di Ortonovo, sia nella commissione urbanistica dee CENTRO STORICO di Milano. Nel 1972 ha 34 anni ed è di per se stesso quel numero totale che realizza la presenza 1 di tutto il flusso di 99/1 unità che sono 100, ma che nel solo verso del flusso reale sono 33. In questo anno ha una casa in proprietà sua, anche se intestata a sua madre, la socia della cooperativa INCAM, ineliminabile, e essa è affittata ad Ambrosio, un suo

compagno di liceo. Vive con i suoceri, e dunque fruisce in toto anche del rapporto giornaliero con la sua famiglia di adozione scelta con il suo matrimonio. In tutti questi contesti è assolutamente rispettato e riconosciuto. Sulla Guida Monaci delle persone importanti in Italia, figura il suo nominativo e non quello di suo fratello. Quel successo che era sempre stato del fratello, in tutti i campi, ora è diventato il suo. Ma è per la ragione anzidetta: in questo anno le posizioni tra i due fratelli così reciproci, si sono totalmente ribaltate LA DETERMINAZIONE TOTALE DI BENITO AMODEO E LE SUE NOZZE CON MIRELLA BOSELLI Il sabato 29 luglio 1.972 Benito sposò Mirella Boselli. La conobbe nel 67 e poi incontrata di nuovo nel 71 era scoppiato l’amore. Non fece come il fratello che, conosciuta Giancarla nel 63 e fidanzato con lei, lo sposò solo dopo 6 anni. Abitarono in Piazza Francesca Romana, al numero 3


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Una cosa – come si è già scritto – balzerà con il tempo all’evidenza: alle nozze, l’alter ego di Benito, che con lui e come una cosa sola in R-U-BEN, cioè Romano sembrò assente... come era avvenuto al matrimonio del fratello. Sta di fatto che sposarono due donne di cui una – G.S, nata 11.1 e l’altra M.B. nata 11.3. come se anch’essere fossero una cosa sola – una e trina – in loro due, spose di quel tutt’uno collocato in R-U-BEN..

1973

Benito era nel pieno del suo successo. Laureato in Fisica, aveva sognato incarichi di grande impegno sociale. Aveva avuto un incarico importante con una Società di nome SIR, che cercava capaci organizzatori e gestori, in una attività di studi e analisi in vari settori e anche a notevole scala nazionale. Dal 1971 era passato in Montedison e pensava ora a dedicarsi all’analisi dei dati. In quell’anno l’Architetto Amodeo propose al Consiglio di cambiare sede all’Ordine degli Architetti, e la trovò vicino a casa sua, in corso Italia, quasi sui bastioni: una bella e dignitosa sistemazione, in locali che permettevano anche una sala in cui potessero svolgersi piccoli convegni ed attività che corrispondessero maggiormente agli interessi reali degli iscritti. Si stava sempre più convincendo, vedendola in atto, di come lì si facesse solo tanta, troppa politica. Cominciò a desiderare un cambiamento e si riprometteva che se ne sarebbe occupato al momento del rinnovo del Consiglio, che, durando 2 anni in carica, avrebbe dovuto ripresentarsi alle urne nel 1973, ossia l’anno seguente.

R-U-BEN continuaronono nella loro condizione di soggetti condizionati da una completa reciprocità. RU seguitò a esistere come se fosse suo fratello e viceversa, ossia tenne a bada il suo primato fino al momento della massima svolta, in cui rinunciò a tutto. Fu a quel punto che BEN ricominciò a brillare in quanto lo aveva reso sempre un vincente. IL RINNOVO DEL CONSIGLIO DELL’ORDINE, PER RU. Alcuni mesi prima delle votazioni per la nomina del nuovo Consiglio dell’Ordine degli Architetti, che si sarebbero svolte all’inizio di primavera, RU ricevette una telefonata da un suo amico, l’architetto Carlo Invernizzi. “Puoi venire mercoledì in Via Nirone, ad un incontro presso la sede cittadina della Democrazia Cristiana? Ci stiamo occupando dell’Ordine degli architetti ed abbiamo appreso che tu, attuale Consigliere, sei iscritto alla DC.” Era vero. A RU era toccato di iscriversi per fare un favore ai suoceri.


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Uno dei frequentatori del bar era Pippo De Nuzzo, un infermiere che lavorava alla Clinica Ronzoni, di Milano. Egli, facendo giocare il suo ruolo tutte le volte che gli ammalati dovevano essere ricoverati, faceva talmente pesare il suo intervento che tutti erano convinti d’entrare non perché ci fosse posto ma per la raccomandazione di Pippo. Chiedeva in cambio solo che, come egli sosteneva il loro bisogno, tutti sostenessero il suo quando si trattava d’eleggere il Segretario della Sezione Colonne della DC, chiamata così perché situata in prossimità delle colonne di san Lorenzo. Era una sezione pressoché fantasma, che non faceva quasi nulla di nulla se non partecipare poi alle nomine di più alte attribuzioni fatte ne partito, con la forza del numero dei tesserati. Quindi chi si iscriveva unicamente perché qualcuno, nella sua famiglia, aveva dei problemi di salute, non era tenuto a buttare via altro tempo che quello una tantum del momento del rinnovo delle cariche nella sezione Colonne, il cui Segretario era Pippo. Nella famiglia di Giancarla il problema sanitario riguardava Clara Benedetti, che ogni tanto necessitava di interventi. Ma talora anche Pina, non stava bene e faceva comodo che, chiamato Pippo, il posto ci fosse immediatamente. RU aveva dovuto pagare egli pure questo pedaggio, anche se gli seccava, perché non aveva mai voluto aderire a partiti in vita sua. Gli rimproverava proprio d’essere partiti presi. Li vedeva farsi guerra su idee che erano ritenute assolutamente sbagliate solo per il fatto d’appartenere agli schieramenti opposti. E ce n’erano tanti, in quell’epoca, che diveniva impossibile districarsi. La guerra arrivava fino all’aspetto portato avanti dai tecnici: lo vedeva nelle commissioni cui partecipava, perché gli stessi tecnici, prima di intervenire, ci tenevano ad essere informati della fonte delle varie istanze. Per cui si giungeva all’assurdo che la stessa cosa che era sacrosanta se fatta dall’uno, diveniva inaccettabile se fatta dall’altro, vuoi che fosse la necessità di realizzare parcheggi, vuoi che fossero altre licenze che dovevano avere assenso o rifiuto tecnico. Amodeo rispose a Invernizzi che ci sarebbe andato e ci andò. Chi aveva promosso quell’incontro era stato l’ing. Giacomo Elias. Questo laureato insegnava al Politecnico nella Facoltà di Ingegneria ed era riuscito a convincere i quadri della DC che bisognava fare qualcosa, in quanto l’Ordine degli architetti era di sinistra e faceva in modo evidente quella politica. Alla riunione partecipavano poco meno altre venti persone, tutti architetti. Amodeo spiegò, su richiesta, che da dentro il Consiglio il giudizio che si poteva dare era proprio quello. Egli era disgustato che la politica fosse presente anche lì, con le sue brave clientele che rendevano poi difficile la giustizia e l’imparzialità ad una Magistratura di secondo grado come era considerato ogni Ordine. Aggiunse che già si era riproposto di tentare di dare una correzione a tutto questo e come il momento giusto sarebbe stato nell’atto delle votazioni per il rinnovo del Consiglio. L’ing. Elias spiegò che quello era proprio l’argomento per cui tutti erano stati convocati quella

sera: si doveva preparare quelle elezioni, in modo che l’esito fosse secondo quanto non solo pareva giusto ad Amodeo ma era veramente giusto: l’Ordine non doveva occuparsi di politica. Quasi tutti i presenti concordavano con questo giudizio, per cui si decise di passare ai fatti. Ciascuno si desse da fare nel suo campo e tra le sue conoscenze e proponesse i nomi più idonei a dare quella svolta. L’incontro si ripeté due volte. Nel primo Amodeo segnalò una serie di nomi di persone con le quali egli aveva parlato e che erano convinte della necessità d’un Ordine imparziale. Gli altri fecero altrettanto. Nell’incontro successivo a RU risultò evidente che una cosa erano le parole, un’altra i fatti, giacché tra i papabili da presentare al voto erano state inserite le figure professionali che erano state spazzate via dalla rivoluzione del ’68. Delle persona segnalate da lui, eccetto se stesso, nessuna figurava tra questi papabili e c’erano, in cambio, coloro che in passato avevano fatto incetta d’incarichi e privilegi, favorendo soprattutto se stessi. Decise subito che egli non ci stava. Così telefonò all’amico che l’aveva invitato la prima volta, e gli lasciò registrato sulla segreteria che egli non era d’accordo sugli intenti revisionisti che aveva visto in allestimento. Facessero quel che volevano, ma senza di lui. RU non fu più chiamato.. Questo che stava accadendo fu la classica goccia che fa traboccare il vaso. Infatti, a mano a mano che le elezioni si avvicinarono divenne sempre più incerto se accettare tutto ciò o mettersi a fare la guerra contro chi faceva politica dove non doveva. Decise di battagliare e che si sarebbe dovuto presentare con un gruppo forte e agguerrito, che riuscisse nel difficile intento, di scalzare da lì la politica, specie in quel momento in cui tutto era reso politicizzato: perfino l’accettazione nella Clinica Privata Ronzoni! Egli avrebbe creato uno schieramento indipendente. Per riuscire doveva smuovere i colleghi a recarsi alle urne ed esprimesse la loro volontà di un Ordine Architetti senza politicanti. Sapeva che il Sindacato Architetti, presieduto da Alberto Scarzella, aveva queste stesse sue idee e vide opportuna un’alleanza, attraverso un appoggio esterno: Amodeo avrebbe candidato solo una decina di persone e incoraggiato gli Architetti a completare i 15 nomi (obbligatori affinché la lista non fosse annullata) con altri presi dalla lista del Sindacato.. Telefonò a Scarzella e si accordò. Iniziò poi un intenso periodo di colloqui e scelse una per una le persone del suo elenco. Non gli importava che fossero aderenti o no a un partito, ma che non puntassero a politicizzare l’Ordine Architetti. In quella lista furono inserite persone come Epifanio Li Calzi, che poi sarebbe divenuto sindaco ed era comunista e altre socialiste, come il suo amico Romano Gozzi. Era anche difficile trovare figure veramente capaci che, in quel momento in cui tutto era politicizzato, fossero fuori della politica.


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Compose un elenco con 11 nomi e preparò il suo manifesto, che annunciava il loro programma indipendente. In fondo c’era il consiglio d’aggiungere i 4 nomi mancanti prendendoli dalla lista del Sindacato Architetti liberi professionisti. Gli telefonò allora, un’altra volta Invernizzi, quel suo amico che l’aveva invitato alla DC: “Perché non sei più venuto? Perché fai così? Vieni a spiegarcelo?”. Amodeo sapeva molto bene che si sarebbe “cacciato nella tana del lupo”, ma se ne infischiò ed accettò di entravi. Il mercoledì seguente era lì, con una quantità dei suoi manifesti, che distribuì a tutti i convenuti. “Il perché non sia venuto più potete leggerlo chiaramente nel programma.” . Dopo un silenzio durato il tempo di leggerlo, cominciarono le proteste: “Ma che vuol dire? Cosa significa questa cosa qui? Ma che porcheria è questa!” L’ingegner Elias si assentò, mentre infuriava questa buriana e Amodeo taceva. Tornò alcuni minuti dopo, e guardò l’imputato con uno strano sorriso. Poco dopo un usciere chiese: “C’è qui l’architetto Amodeo? Lo vogliono al telefono” Nessuno tranne i presenti sapeva che Amodeo era lì. Era l’ing. Ferdinando Passani, democristiano di quella stessa corrente dell’ing. Elias, che era divenuto presidente del CIMEP, dopo l’uscita di scena di Cannarella. Sollecitato chiaramente dall’Elias – era quella la ragione del suo sorrisetto – il Passani chiese, al suo funzionario: “Architetti, ma che combina? Una volta che la DC tutta unita fa una cosa buona come questa, perché lei si dissocia?” “Presidente, la DC cerca di giocare sporco e a me non va. Non voglio la politica nel Consiglio dell’Ordine degli Architetti.” “Ma no! Su, architetto Amodeo, faccia quello che le chiedo: si accordi. Ci provi e vedrà che ci riesce.” Perché doveva farsi inutilmente nemico l’Ing. Ferdinando Passani che era il suo Presidente e la sua carriera? Gli disse che ci avrebbe provato. Tornò nella sala e restò zitto. Così, secondo il copione che l’Elias chiaramente aveva allestito in sua assenza, una dopo l’altra cominciarono a mutare giudizio sui contenuti del programma: “C’è anche del buono ...”. “Quest’idea è condivisibile, anzi: è proprio giusto così!” A quel punto l’ing. Elias concluse così la manfrina: “ma perché soli 11 nomi e non 15? Qui c’è gente che condivide i contenuti del tuo programma!” Amodeo non fiatò, finché parlarono tutti. Infine fu laconico e spiegò ai presenti che non aveva, per rispetto a tutte le persone della sua lista, la facoltà di inserire cambiamenti a sua libera discrezione. Però promise che ne avrebbe parlato agli altri. Gli segnalassero i 4 nomi che mancavano. Telefonò a Scarzella e gli chiese consiglio. Lo aveva sollecitato il suo Presidente del Consorzio da cui dipendeva ... poteva dirgli di no?

Scarzella gli disse di pensare alla sua carriera; quella lotta per l’Ordine era senza tante speranze. Non doveva fare il Don Chisciotte. Come il Sindacato anche lui doveva andare per la sua strada! Ebbe in seguito la conferma che in Via Nirone continuando a incontrarsi, per giungere a un compromesso politico con il Consiglio uscente. Cercavano di far sì che il Consiglio dell’Ordine uscisse da un accordo politico tra i partiti ... il solito compromesso, più o meno storico. Furono presi in giro e snobbati da tutte le altre parti: perché andavano agli appuntamenti presi e c’erano lì solo loro ... Insomma un vero fallimento. L’Elias, per dimostrare tutt’altro ai suoi referenti, inviò allora, su carta DC una lettera alla cinquantina d’architetti che risultavano iscritti alla DC e che diceva in sostanza “Andate a votare per la lista d’Amodeo che è una lista di amici”. . Amodeo mobilitò tutte le sue conoscenze. Fece scattare una sorta di Catena di S. Antonio informando del suo programma d’eliminare la politica dall’Ordine. Al momento del voto, c’erano tre liste di 15 nomi: quella del Consiglio uscente, quella di Amodeo e quella del Sindacato, e poi c’erano ancora altri candidati, proposti in ordine sparso. L’affluenza fu grande e Amodeo fu chi ebbe più voti tra tutti, il 48% dei votanti, una percentuale che, poiché inferiore al 50%, non elesse in quella fase nemmeno lui. Dopo lui, tra i 15 più votati, c’erano altri 11 nomi della sua lista e tre del Consiglio uscente. Se avessero superato il quorum Amodeo - a soli 4 anni dalla sua laurea – sarebbe stato il più giovane presidente della storia dell’Ordine degli Architetti di Milano Pavia e Sondrio, con i suoi 35 anni. “Avete visto che porcheria?” fu il commento che udì dai suoi avversari, recandosi il martedì seguente in Consiglio tra gli altri. “Sì, un vero schifo. Ma abbiamo commesso un errore che non dovremo ripetere, al ballottaggio. Dovremo denunciare l’entrata in campo della DC in una assemblea e solo dopo farli votare!” Amodeo intervenne: “ Non lo avete mai fatto e lo fareste la prima volta che siete stati messi così in minoranza? È contro a tutte le regole democratiche. Poi questo non è solo l’Ordine di Milano: gli iscritti di Pavia e di Sondrio devono potere aver modo di votare senza rincasare all’alba. Altrimenti non vengono.” Infatti di solito il seggio era tenuto aperto per giorni interi proprio per questo. Nessuno gli badò. Allora, mentre gli altri organizzavano il riscatto, scrisse: “Illustre Presidente dell’Ordine e membri del Consiglio, chiedo ufficialmente che nel ballottaggio il seggio resti aperto almeno per un intero giorno, al fine di potere far votare anche chi risiede lontano o non può esser presente in un orario troppo ristretto”. Consegnò la richiesta al Presidente dicendogli che avrebbe scritto a tutti gli architetti per comunicare loro l’esito del voto e che avrebbe reso, in quella occasione, di pubblico dominio anche la risposta data dal Presidente e dal Consiglio.


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Vide il Presidente d’allora, che non si era ripresentato nel nuovo biennio tra i 15 candidati, leggere il foglietto, con la mano che gli tremava letteralmente e non per il Parkinson, che non aveva. “Stava tremando per lui!”, pensò RU e non credeva ai suoi occhi e anche veramente gli dispiaceva. Nonostante la scelta di strozzare il voto fosse una chiara ammissione di faziosità, Presidente e Consiglio decisero ugualmente che non si doveva permettere la votazione a chi non avesse udito prima una pubblica e vibrante denuncia. “Dunque è questa la vostra risposta che devo far conoscere? È un no?” domandò Amodeo. Nessuno gli rispose. Partirono al contrattacco. Procuratasi una delle 50 lettere su carta intestata DC, spedite dal Segretario Cittadino ai soli 50 iscritti alla DC, decisero che occorreva fotocopiare quella lettera e spedirla a tutti e 2.000 gli architetti iscritti all’Ordine, affinché la vedessero: era una prova incontestabile di cosa succedeva. Indussero a pensare che la DC avesse deciso di scrivere a ciascuno di loro, per portare avanti lo schieramento d’Amodeo, descritto come amico, lui e la sua lista. A quel punto Amodeo si rese conto che, tiratovi dentro con le pinze, era divenuto l’oggetto d’un grosso scontro tra la DC e tutti gli altri partiti dello schieramento politico. Poteva resistere alla manovra d’aggiramento solo reagendo con forza e facendo apparire l’enorme aggressione alle regole democratiche, attuata dai suoi avversari, che avrebbero dovuto essere i tutori stessi della deontologia, ossia del retto comportamento su cui erano tenuti per legge a vigilare. Scrisse così a tutti gli Architetti, spedendo circa 2.000 lettere ed avvalendosi ora, per farlo, proprio della struttura di quella DC che lo aveva così maldestramente compromesso Coinvolto suo malgrado nella politica, ora era in ballo e doveva ballare! Su quelle lettere, spedite da Via Nirone e con i soldi della DC, Amodeo piegò come il Consiglio non avesse mai ritenuto lecito, in passato, di interrompere una votazione con un’assemblea straordinaria; lo faceva ora che era stata la prima volta in cui era stato battuto. Spiegò come la lista, che faceva capo a lui, avesse, al suo interno, rappresentanti di tutti i partiti, anche dei noti comunisti e socialisti, perciò quella non era la lista della DC. Ribadì come il suo scopo fosse davvero quello di togliere la politica dall’Ordine. Tutti i partiti allora ordinarono, a coloro che erano inseriti nella lista d’Amodeo, di darsi alla latitanza e non farsi vivi in sede di ballottaggio. Epifanio Li Calzi, comunista e uno del ’68, e il socialista Romano Gozzi furono sollecitati a non presentarsi all’assemblea, per rosolare la DC a fuoco lento. Così isolata, la stessa DC ora tremava e cominciò a spingere Amodeo affinché fosse evitato lo scontro e raggiunto prima un compromesso; ma Amodeo fu stavolta inflessibile e si rifiutò. Rimase a lottare da solo. Accorsero all’Assemblea e votarono oltre 900 architetti. Una cosa mai vista in quell’Ordine che doveva di solito fare quattro o cinque chiusure e riaperture dei seggi, per raggiungere il quorum di 500 votanti.

Nella sala, stretta e lunga, le prime cinque o sei fila erano tutte occupate dai giovani architetti che erano usciti sull’onda del ’68 dalla Facoltà d’Architettura. Contro quelli d’Amodeo si mobilitarono tutti: i Consiglieri uscenti, dell’Ordine; tutti i partiti (DC inclusa, che aveva preso le distanze da un comportamento così intransigente); tutti i docenti d’Architettura (che si erano sentiti provocare da un professore d’Ingegneria, qual era l’Elias); tutti i laureati delle ultime generazioni che erano al seguito di questi docenti ed erano schierati con l’ultrasinistra; infine tutti gli iscritti all’ordine, i più distratti; coloro che erano caduti nella trappola, tesa loro dai consiglieri uscenti, con l’invio della lettera su carta DC. Tutti costoro avevano organizzato il loro bravo tam-tam per convogliare quanti più alleati potessero quella sera al Circolo Socialista di Via De Amicis. A favore d’Amodeo... nessuno, tranne la Verità. Egli aveva spiegato a tutti le sue ragioni, e – a un certo punto – aveva addirittura cominciato a telefonare a casaccio – Albo nella mano – ad ogni iscritto, conosciuto o no, amico o nemico, esprimendo queste semplici parole: “Non m’importa per chi e che cosa tieni, ma qui si sta strozzando il voto ed è necessario che tu venga a esprimere quanto desideri!” Nell’Assemblea RU prese per primo la parola e sostenne e difese da solo la sua azione. Parlò a lungo e fece la cronistoria dell’accaduto. Gli altri interventi, numerosi, che seguirono furono tutti contro di lui ... anche se poi tutti sostenevano le sue stesse ragioni: “I partiti non dovevano impicciarsi dell’Ordine Architetti!” Amodeo in quell’occasione, denunciò in Assemblea il Consiglio. Proclamò il bisogno – quasi pretese – che si facesse un’indagine. Reclamava un castigo esemplare, per chiunque avesse violato le norme del retto comportamento, nell’esercizio di quella deontologia cui l’Ordine era deputato. “Sì, lo faremo! E vedrai che cosa ti succede!” Gli gridavano minacciosi contro coloro che occupavano le prime fila. Temibili, perché quel “cosa ti succede” in quei tempi significava gambizzare chi non la vedeva come loro.. Giancarla era andata a quell’incontro. Gli raccontò che la gente, era ammirata dal suo coraggio, e dalla tenacia e combattiva rettitudine che gli riconoscevano. Virtù che non bastarono. Allo spoglio dei voti risultò che il verdetto della prima votazione s’era esattamente ribaltato: Amodeo era sceso dal primo al 4° posto nelle preferenze ed aveva apparentemente perso la sua partita per 3 eletti contro 12. Invece si trattò d’un successo senza precedenti di quello stesso tredicenne che a 12 anni era stato umiliato e vilipeso, nei tempi in cui aveva abitato in Via Larga.


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Così alla fine risultò composto il Consiglio, che sarebbe restato in carica fino al 17 dicembre 1975 (... con Raffaella Crespi presidentessa) Presidente: Raffaella Crespi. Segretario: Gianfranco Facchetti. Tesoriere: Enrico Magistretti. Consiglieri: Romano Amodeo, Arturo Belloni, Ferdinando Belloni, Amedeo Clavarino, Antonio Dugnani, Alberto Ferrari, Marco Lucchini, Antonio Monesteroli, Vincenzo Montaldo, Aldo Monzeglio, Fulvio Raboni e Alfredo Viganò. MESSO UN TETTO A VILLA COLLETTO, DA RU. Nel 1973 Amodeo aveva ormai messo il tetto a “Villa Colletto”. Lavorando senza interruzioni per poco meno di tre anni nei week-end e nel mese di ferie che gli davano al CIMEP, aveva costruito, su quattro piani :Al piano terra, le cantine. l primo piano due appartamenti, uno intestato alla mamma, d’oltre 100 metri quadri con un ampio ed esclusivo giardino ed uno a se e Giancarla, subentrati come proprietari alla zia Emilia. Costei non aveva più voluto partecipare all’iniziativa quando aveva visto il suo, con la scusa che era in una posizione che non le piaceva e sprovvisto di giardino, pur essendo un appartamento di circa 80 metri quadri. In verità, in quel momento aveva grossi problemi economici, che orgogliosamente nascondeva. Al secondo piano, sopra i due appartamenti, c’era quello di Rinaldo Raho, quasi duecento metri quadrati ed un gran giardino a suo esclusivo uso. Al 3° e 4° piano – che poi era il piano terra venendo giù dalla strada comunale – sopra quello di Raho, c’era

il grande alloggio per RU e Giancarla, costruito su due piani per circa 400 metri quadrati tra interni e esterni dati da un’ampia terrazza con piscina al livello più basso e un’altra, panoramica, posta in cima a tutta la casa. Allo stesso 1° piano – venendo dall’alto e che poi era il 3° del caseggiato, partendo dal piano delle cantine – di fianco alla proprietà di R.A. e G.S., e sempre su due piani, c’era l’appartamento riservato a Sergio, con una terrazza antistante, ad uso esclusivo, ed una al piano soprastante. Nel 1973 i lavori erano ultimati al rustico e nell’estate Amodeo aveva passato le intere giornate sul tetto, a sistemarvi le robuste tegole rosse in cemento. Tutta la costruzione era stata realizzata in Cellublock, blocchi di cemento e lapillo, resistentissimi e notevoli anche sotto il profilo della coibenza termica. Erano manufatti di cm 30×25×50, che pesavano quasi trenta chili l’uno e che era possibile posare con pochissima malta. RU aveva acquistato una betoniera e, dopo quell’incresciosa esperienza che aveva fatto quando aveva gettato, con Sabato, una parte delle fondazioni, aveva provveduto ad impastare da sé tutti i calcestruzzi. Il sabato mattina si riapriva il cantiere, che era restato chiuso per tutta la settimana. Romano e Sergio erano già lì dalla sera precedente. Nei primi tempi, nel 1970, avevano soggiornato nel bunker, ma ad un tratto, con l’arrivo della bella stagione e dell’aria più carica di vapore acqueo, questo si condensava, contro le pareti fredde del bunker, tanto che, giunti da Milano, avevano trovato una sera tutto fradicio d’acqua. Passata la notte all’addiaccio, avevano poi cercato e trovato alloggio nel paese di Nicola, presso la Signora Geltrude. Ogni tanto arrivavano là, a trovarlo, Gino e Anna, Benito e raramente Giancarla. Ma nelle ferie estive, come sempre avevano fatto, la famiglia Benedetti prendeva in


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affitto un appartamento a Marina di Carrara e Giancarla faceva i bagni, assieme a loro, mentre il marito era lì tutto il giorno sul tetto. C’erano anche Luigi Luccini, sua moglie Silvana e Cinzia, la loro figlia, che vivevano per conto loro, ospiti del loro amico Monguzzi, che abitava a Milano nella loro stessa casa di Via Antonelli e passava egli pure l’estate a Marina di Carrara. La sera Luigi Luccini veniva a prelevare Amodeo e gli amici andavano a mangiarsi una pizza o a bere, o a mangiare un gelato. Luigi Luccini era ben lieto di mettere a disposizione la sua vettura per portare in giro gli amici. In una occasione erano venuti a soggiornare, nella costruzione in corso, anche Valeria e Umberto e avevano dormito tutti in tende piazzate all’interno della costruzione che era ancora allo stato di rustico. RU faceva fatica. Giungeva lì ed aveva solo due giorni a disposizione. Se pioveva doveva lavorare sotto l’acqua, protetto come poteva sotto impermeabili che mai lo coprivano del tutto. Ricordava una volta che pioveva a dirotto ed era lì, a testa in giù, a legare, con il fil di ferro e la tenaglia, i ferri d’una gran trave della sua casa. Per l’umido o chissà per cos’altro, era stato colpito dalla periartrite alla spalla destra, nello snodo con il braccio, che ogni tanto gli bloccava il movimento. Se fosse stato un dolore, si sarebbe messo ad osservarlo. Ma quel male interveniva all’improvviso, quando il braccio compiva un ben determinato angolo di rotazione, con una fitta che passava subito superato quell’angolo. Se faceva finta di nulla ed insisteva, la parte s’infiammava e il braccio si bloccava. La cura era un gel e impacchi a freddo, per togliere l’infiammazione. C’era quasi sempre anche il fastidioso rumore di quella betoniera a nafta, che scoppiettava impastando l’agglomerato. RU aveva fatto venire solo una volta ancora l’autobotte con il cemento preconfezionato e, in due ore di fatica, aveva cementato tutta la Via del Colletto, che, con tutti quei sassi rotondi e antichi e la sua notevole pendenza, era troppo sdrucciolevole. Aveva dovuto acquistare un pezzo di terreno dai Benelli per realizzare una scalinata ampia ed indipendente che portasse alla casa che sarebbe stata dei suoi genitori. Durante l’anno il lavoro trovava la partecipazione di quella che era divenuta la squadra dei costruttori. Come muratori Romano e Silvano, come manovali Sergio e Franco, come manovale aggiunto e guardiano “Zuì”. RU stava portando lentamente avanti questa costruzione, nel poco tempo che gli restava per le altre attività che conduceva. Un fabbricato che prevedeva, per sé e la moglie, in sostanza tre appartamenti, perché quello all’ultimo piano era stato fatto con due ingressi come due distinti alloggi intercomunicanti attraverso una porta e l’affacciarsi dell’uno nell’altro, dettagli facilmente modificabili ove si fosse voluto distinguerli nettamente.

RU AVEVA REALIZZATO UN BUON ASSETTO DI PROPRIETÀ Volendo aggiungere anche l’appartamento intestato alla mamma, Amodeo stava realizzando – senza spendere una lira oltre quello che guadagnava al CIMEP – una proprietà che valeva molto denaro. Aveva l’appartamento di Via Lattanzio, che era di fatto suo, anche se era intestato alla mamma, che era la socia dell’Incam costruttrice. Era suo perché aveva tirato di tasca sua il 10% che era stato richiesto come anticipo dalla Cooperativa costruttrice. Ora, come aveva previsto, quell’appartamento, di 150 metri quadri, a Milano, in via Lattanzio, valeva per lo meno 70 milioni, a causa dell’inflazione, mentre il mutuo residuo era per un importo di 10. Sfruttando l’inflazione e la sua gran capacità di lavoro, Amodeo stava arricchendo. Con quella casa aveva assunto impegni con sua madre, impegni, questi, da poco (una mamma è sempre una mamma); con lo zio di Giancarla, si trattava d’impegni un tantino più seri (perché uno zio acquisito non arriva mai a capirti e giustificarti, se occorre, come può solo una mamma), e molto seri con l’unico estraneo del gruppo, quel Rinaldo Raho che, mettendoci l’anticipo aveva consentito l’avvio concreto del tutto. Ora il Raho stava prendendo tempo. Aveva prenotato ed acquistato le piastrelle, ma non dava il via ad eseguire i lavori, prendeva tempo perché la sua ditta d’Importexport era in un momento di scarsa liquidità a causa d’un forte deposito che lo Stato italiano aveva voluto fosse fatto a garantire le operazioni internazionali. RU, senza saperlo, era posto in cattiva luce, da Rinaldo, con la signora Raho sua sposa, una donna autoritaria che faceva rigare dritto il marito in virtù d’una indubbia autorità che lei riusciva ad avere nei suoi confronti. La consorte gli chiedeva come andassero i lavori e quando quella benedetta casa sarebbe stata ultimata e Rinaldo le rispondeva che Amodeo non si decideva ad eseguire i lavori per lui, mentre era vero che era lui che li teneva fermi, perché se essi erano fatti poi andavano pagati. Rinaldo non voleva far conoscere alla moglie come la sua liquidità fosse divenuta praticamente inesistente. Forse temeva d’essere lasciato. Nel mentre accadeva questo, nel campo delle sue attività del 1973, e nel contesto dell’Ordine Architetti aveva condotto questa vera e propria lotta di potere, ce ne fu una seconda, che coinvolse il suo spirito, una terza che implicò la sua famiglia, e una quarta condotta nel CIMEP. Non ci fu luogo in lui che non giunse ad una clamorosa resa dei conti. È in questo preciso momento che R-U-BEN riassumono totalmente quella condizione basilare che vedono in RU chi rinuncia ad affermarsi nella SUA realtà, e in


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BEN chi invece recupera totalmente la sua predisposizione ad essere perfetto in ogni gesto che realmente compie in relazione alla sua affermazione, personale e familiare. Questo momento di SVOLTATOTALE ha una data precisa, ed è quella di quando si sono compiuti esattamente i 33 anni da quando Gesù Cristo venne in spirito in RU e in corpo in BEN, appena fu concepito nel seno materno.

anno è spezzato in due e sancisce questa data che corrispondeva esattamente ai 33 anni dalle sue nozze con Gesù, celebrate il 4 giugno 1940 in cui senza nemmeno saperlo era morto ed era subito stato riportato in vita in un miracoloso intervento del cielo, preannunciato da un sogno fatto fare a una bambina. Il Cristo risorto in lui aveva compito esattamente 33 anni, il 4-6-73. Erano esattamente 4 gli anni trascorsi da quando invece aveva sposato G.S. la inconsapevole controfigura per lui di Gesù, quattro anni nel segno dell’Unità e Trinità divina, trascendente, che umanamente non appare, se non nel suo aspetto reale e reciproco, che è quello esattamente uguale e contrario. Al CIMEP, era stata assunta, per concorso, come impiegata, Daniela Forlin, una bella ragazza di Seveso, semplice, schietta, leale e coraggiosa, profondamente cristiana. Era divenuta per RU l’esempio di quel qualcosa di impossibile che esisteva, secondo lui, nel Cristianesimo di quei tempi. Lei riusciva dove lui no. Ne avevano parlato. Un giorno le aveva detto espressamente: «Quello cui Gesù spinge è in realtà utopico. Io non riesco a compiere più del 60% delle cose indicate nel suo vangelo». La risposta era stata semplicissima: «Sei proprio sicuro che quel 60% sia proprio opera tutta tua?» Si era lasciato interrogare... Così si accorse che: 1) Se aveva vinto il Concorso al CIMEP era stata determinante l’amicizia di Clara Benedetti con il suo medico curante di Abbiategrasso, quel Sameck Lodovici divenuto poi Senatore della Repubblica e padre del Segretario Generale del Consorzio. 2) Se era entrato tra i Consiglieri dell’Ordine era avvenuto poiché era al CIMEP.

RU si era ormai convinto di se stesso e dei suoi mezzi, e, mentre tentò li mettere in ordine l’Ordine (che bisticcio!) tentò di fare maggior chiarezza in se stesso. Questo

Entrambe le cose erano accadute per condizioni eccezionali. Nell’Ente Pubblico volevano assumere i 4 che avevano elaborato il Primo Piano Consortile come Liberi Professionisti... e quelli avevano mandato deserto il Concorso, indispettendo l’Ente che a quel punto si era deciso a fare un vero e proprio Concorso. Questa fu la prima delle due condizioni eccezionali. La seconda fu che volevano laureati con l’esperienza di almeno 12 anni, ma poi pensarono che non era il caso di escludere qualche bravo professionista che non aveva esperienza ma capacità accertata. Per cui fissarono uno stipendio iniziale allineato ai 12 anni, e accettarono che anche uno senza tutta quell’esperienza, ma con la necessaria competenza, potesse partecipare. Nel campo dell’Ordine Architetti, una volta che era divenuto Funzionario Pubblico, se l’Ordine avesse curato davvero solo le cose dei Liberi Professionisti, avrebbe dovuto richiedere la sua cancellazione tra gli iscritti. Invece aveva potuto stare con loro fino ad essere lì per lì per divenirne addirittura il Presidente.


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Se la bravura sua dipendevano da queste due vittorie, tutto poteva dire tranne che si fosse fatto da solo! Si era permesso di giudicare utopico Gesù Cristo per la bravura che si sentiva addosso, ma la vera utopia stava nel credere alla sua personale capacità. Era divenuto la Bestia 666. Satana ammira le opere di Dio, ma vuole sostituirsi a Lui. Non indusse Adamo ed Eva a tradire Dio poiché Egli non dava loro dei beni, ma perché non glie li dava tutti! La differenza era solo una questione di percentuali: infatti quell’unica mela che Dio negava loro era però molto simile a quell’unico 30% che RU sentiva negato alla sua bravura. Aveva reagito allo stesso modo e sulla base di quel poco che egli sentiva precluso a se stesso aveva rigettato il tutto, definendo utopico Gesù Cristo anziché tutto il credito che aveva dato a se stesso. Era giunto a quei livelli, nella Pubblica Amministrazione e nell’Ordine Architetti poiché ci era stato portato in carrozza. Non per caso era nato anche il 25 gennaio in cui San Paolo si era convertito e vide nel suo destino lo stesso di quell’Apostolo delle Genti e Principe degli apostoli. Gesù aveva consigliato al Giovane ricco, che pagava le decime e desiderava la perfezione; ma a condizione di seguitare ad essere ricco ... di abbandonare ogni cosa e seguirlo. Quel Ricco non l’aveva fatto, e Gesù aveva commentato: “Non si può servire due padroni!”. La prima battaglia fu che così RU, che fino ad allora questo aveva fatto, avvertendo poi in se stesso tutta la sua difficoltà, non l’avrebbe più fatto. Avrebbe fatto esattamente il contrario: avrebbe dato a Gesù il suo corpo, per veicolare i suoi ideali della vera salvezza. Idealizzò in sé il  che portasse il Re nella sua Gerusalemme.

Il somàRo: il 

La seconda battaglia – che RU aveva combattuto e vinta in sé come giù aveva fatto san Paolo – fu una immediata conseguenza della terza, che avvenne nella sua famiglia. È vero: non si possono seguire due padroni. RU aveva deciso di mettere in campo tutto quello che aveva combinato fino a quel punto, e cioè le sue ricchezze di Giovane Ricco, per aderire in tutto al vangelo di Gesù Cristo, e si trovò nella stessa condizione in cui furono tutti gli apostoli di Gesù, che abbandonarono le loro famiglie per seguirlo. Pietro era sposato, aveva la sua famiglia. Matteo era l’esecutore delle tasse per i Romani. Ognuno dei dodici aveva il suo stato, e l’abbandonò, mettendolo in second’ordine rispetto alla sequela del Cristo. In RU questa cosa si tradusse nel tentativo che fece nella sua famiglia, affinché non lo lasciasse solo, ma lo seguisse, in questo suo proposito di essere il  del Re. Non ci stavano. Non erano arrivati alla sua stessa libertà di poter mutare tutta la vita, come il cercatore di perle che ne trova una di massimo valore e allora vende tutte quelle che ha e la compra. L’amore per gli altri, di RU giunse al punto che sua suocera un giorno gli pose questa domanda: «Tu parli tanto di dovere amare il prossimo ... Ma noi, per te, chi siamo?» Essi non avevano la sua stessa libertà di rinunciare a tutto, poiché erano come i mercati che non avevano trovato quella perla che invece aveva trovato lui. La terza battaglia cominciò a combatterla nel suo stesso Ente in cui lavorava. Si uni al gruppo di preghiera, striminzito, composto da Daniela Forlin e Wilma Menegaldo, che recitavano le lodi – l’ora media – nell’intervallo del lavoro. Mossosi lui, presto aderirono anche altri, ma solo tra le ragazze. Il sesso maschile non aiuta molto a prendere una decisa posizione, poiché è la sua stessa natura intraprendente che entra in contrasto, quando la proposta è quella del  che porta il Re a entrare decisamente nella sua Gerusalemme. Su tutti i campi, quando furono 33 gli anni rivissuti dal Cristo realmente ritornato il lui quando fu miracolato, il lui egli finalmente era portato bene. Gesù aveva detto agli apostoli di andare nel paese vicino. Avrebbero trovato legati davanti alla porta una asina e il suo puledro sul quale mai nessuno era salito; dovevano prenderli. E se qualcuno gli avesse chiesto «perché ci prendi l’asino?» dovevano rispondergli con fermezza: «Servono al Signore!».


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BENITO AMODEO RITORNA NEL SUO STATO DI VINCENTE Simmetricamente alla scelta fatta da RU di divenire il  del Signore, BEN sceglie di spostarsi dalla Montedison ad una sua consociata, chiamata Montedison Dati e più comunemente denominata DATAMONT. Ma vi trascorre pochi mesi passando poi all’ITALCEMENTI. Nello stesso tempo deve dare un frutto alla sua famiglia e non fare come suo fratello che non ha figli. Pertanto a differenza di RU, che dopo un po’ di impegno nel tentativo di superare quanto ci potesse essere di impedimento, persevera in tutto quello che deve, perché è totalmente determinato nel proposito di divenire padre. Si fa esaminare a fondo, a differenza di quanto aveva fatto RU. Il 1°genito, pur essendo venuto a conoscenza di uno stato di oligospermia, messo di fronte al fatto che quei pochi che aveva erano molto vitali, aveva deciso che essi dovessero bastare. Non si sottopose mai a cure che potenziassero questo suo aspetto. Per contro, suo fratello era totalmente fornito del numero normale, ma erano come addormentati, e questo era così proprio per il fatto che BEN era l’esatto contrario di RU. Fino al 4 giugno 1.953 in cui RU aveva il totale successo in tutte le cose che faceva. BEN aveva dovuto esistere nella condizione reciproca al successo che aveva suo fratello. Ma quando RU si decise a svestirsi volontariamente di tutto il suo successo personale per dare successo totale a Gesù Cristo, indusse il rovesciamento totale anche in quanto stesse facendo suo fratello. E Benito – inverso a RU – si comportò nel modo esattamente uguale e contrario e si decise a sottoporsi a cure che dessero dinamismo ai suoi spermatozoi un po’ addormentati. Fu una scelta che prese e della quale – data la sua discrezione – forse non aveva mai nemmeno informato sua moglie. Anche in questo RU e BEN agivano in modo opposto. Dopo il controllo fatto alla coppia tra Romano e Giancarla, appurato la presenza di spermatozoi vitale che potevano fecondare Giancarla, tutta l’indagine era stata spostata su Giancarla, che era stata sottoposta a indagini sempre più approfondite, mentre RU non fece mai nulla per modificare se stesso. BEN, prima ancora di coinvolgere sua moglie, si era recato da uno specialista a fare esaminare se stesso. Saputo di come fossero in numero sufficiente, ma lenti i suoi spermatozoi, senza nemmeno dirlo – forse – a sua moglie decise che per prima cosa dovesse essere totalmente idoneo lui.

1974

R-U-BEN nel 1974 avevano 36 anni compiuti in RU e 33 in BEN. Il 1°genito aveva ormai deciso di essere il  di Gesù Cristo e già cominciava a non vivere più per se stesso. Il 2°genito aveva ormai deciso di divenire un Padre e di vivere per se stesso e la sua famiglia. I suoi 33 anni erano ideali in questo proposito relativo ai figli. RU DECISE DI RISOLVERE I PROBLEMI DI SUA MOGLIE: SMISE D’ANDAR VIA IL VENERDI’ E LE CHIESE DI LAVORARE CON LUI. Uno dei primi giorni dell’anno nuovo, parlando con Marinella, un’intima amica di Giancarla, RU seppe da lei qualcos’altro che avrebbe fortemente contribuito a cambiare radicalmente tutta la sua vita. Fu quando lei gli diede questo avvertimento: “Stai attento, Romano, lasci troppo sola Giancarla e lei sta nutrendo qualche dubbio se ti voglia ancora così bene come una volta!” Era inevitabile che, andando a costruire sempre, in tutti i fine settimana, “villa Colletto”, per sé e la sua famiglia, Giancarla restasse sola. Avrebbe potuto seguire il marito, tanto più che egli vi andava con suo zio Sergio. Invece di restare a Milano, poteva unirsi a loro e – mentre loro due lavoravano – fare scampagnate, nell’attesa poi di pranzare, cenare e passare insieme la notte.


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Non era accaduto che tante rare volte che potevano essere contate con le sole dita di una mano. Piuttosto che quello, lei aveva preferito restarsene, durante ogni anno, ad intristire in malinconia a Milano e ad attirar critiche sul marito che la lasciava sempre sola. L’eccezione erano solo i periodi di ferie, nei quali andavano in ferie anche nonna, nonno, la zia e il suo giovane figlio Maurizio, e i suoi amici che in ferie anche loro, potevano accamparsi alla bella e meglio nella casa in costruzione. A un cero punto, agli occhi dei suoi amici, lei passò per vittima, e nel suo ufficio di Corsico, il ciellino Vincenzo Bassanisi, difendeva Romano. A lei, tutto sommato, questa cosa piaceva; trovava conforto nel sentire difendere le ragioni che portavano il marito a tutto quel suo daffare, in ogni dove ... Era pur sempre per la famiglia, per loro due che lui lo faceva ... Giancarla, confortata da queste parole di lui, alla fine gli si era affezionata. Così si era confidata con la sua amica Marinella, di essere attratta da Vincenzo, che tra l’altro era il suo supervisore, e questa, comprendendo come Giancarla corresse un serio pericolo, aveva giudicato opportuno di mettere in guardia RU: se ci teneva a conservare l’amore di sua moglie, doveva fare come Maometto: andare alla montagna se quella non andava a lui. Romano prese molto sul serio questa soffiata. Così propose senza indugi al muratore Silvano Cappetta. di mettere su lui una impresa edile, visto che tante volte aveva invidiato il fratello che n’aveva una. Terminare Villa Colletto poteva essere per lui un lavoro-base, cui dedicarsi tutte le volte che glielo avrebbero consentito i tempi morti determinati dagli altri. Sì, perché Cappetta doveva cercarne altri: Villa Colletto andava terminata in estrema economia, ancora più di prima, non lavorarvi più né lui, né Sergio. Glie lo propose anche nel sentimento cristiano di promuoverlo come persona. Fu una decisione difficile e pericolosa. Aveva assunto impegni con tutti i suoi, e con Raho, di realizzare l’opera ad un costo garantito da lui. Poteva farlo in quanto il costo del lavoro stava nella sola retribuzione delle ore fatte il sabato e la domenica da altre tre persone: Silvano Cappetta, un manovale e un custode. Per tre anni lo stipendio percepito al CIMEP gli aveva permesso di pagare tutti i materiali necessari a quanto realizzava per lui, mentre gli altri si pagavano per i loro. Smettendo lui e Sergio, di lavorare, da quel momento doveva pagare anche lui ogni cosa fatta per la sua proprietà, così come facevano prima gli altri. Si assicurò di poterlo diluire nel tempo con un mutuo, che gli fu concesso. Silvano accettò e RU, non andò più a Nicola di Ortonovo. Di fronte alla sua rinuncia, sperò che anche sua moglie rinunciasse a lavorare alla Mole Norton di Corsico e lo seguisse nel Cimep. Poteva dirlo al presidente Passani, che era in debito con lui, e certamente sarebbe stata assunta.

TENTO’ DI SMUOVER LA MOGLITE INGELOSENDOLA. Lo propose a Giancarla e lei rifiutò in modo deciso. Se lei fosse andata al CIMEP, marito e moglie avrebbero passato assieme tutta la giornata. Per lui era importante, ma – in modo molto evidente – si palesò subito che per lei non lo era. Lei si stava difendendo da un marito troppo al di fuori della sua portata, come aveva fatto quando si era rifiutata di studiare, e si erano lasciati, messi di fronte a questo ostacolo. Era però morto subito proprio quel Riccardo che era stato il loro filo conduttore e questo aveva determinato un nuovo tipo di unione tra loro due, in cui ciascuno faceva e dava all’altro quello che voleva, liberamente e senza ingerenze. La pretesa di Romano – lui Architetto – di averla lì come la dattilografa moglie dell’architetto era lesiva della sua volontà ferrea di avere i suoi indipendenti spazi, nei quali era quello che era e non la moglie di qualcuno a lei superiore. Aveva un certo disagio anche solo a farsi chiamare la Signora Amodeo. Alla Norton era restata la Giancarla Scaglioni di sempre, con il suo giro di amicizie, e se RU aveva voluto uscire con amici aveva potuto farlo solo con quelli di lei, tra i quali soli lei si sentiva come la reginetta della festa. A quel punto, cercò di smuoverla inventandosi di sana pianta un suo interesse per una ragazza, di nome Maria Grazia Vanni, che lavorava alla Opus Proclama, una società di pubblicità avente sede a Milano, nel palazzo di fianco a quello in cui era alloggiato il CIMEP, in Via Pirelli. Avevano entrambi il posto di lavoro allo stesso piano di due distinti palazzi a una decina di metri l’uno dall’altro e avevano cominciato col salutarsi; poi si erano incontrati al bar sottostante l’ufficio e avevano fatto amicizia. Insomma RU contrappose agli amici pericolosi di lei, per la loro unione, anche gli amici suoi, sia al CIMEP, con le ragazze che pregavano con lui, sia con Maria Grazia, conosciuta in quello strano modo. Voleva farle capire che non era un robot c che poteva andare in crisi anche lui... anzi, c’era dentro proprio adesso. Dovevano cominciare a lavorare allo stesso luogo e ciò avrebbe fatto superare tutte le difficoltà esistenti nella coppia: di non avere argomenti di comune interesse di cui parlare. Il bene c’era, ma il colloquio assolutamente no. RU aveva visto fin dall’inizio il rischio che correva con quel matrimonio, e se Riccardo non fosse morto... Nel fidanzamento, però, o non era stato così: lei si era mossa, era andata ogni settimana a trovarlo fino a Vercelli... Come mai, dopo, tutta questa estrema incapacità, prima di seguirlo nel lavoro a Carrara ed ora nel lavoro a Milano?


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Probabilmente si era stancata anche lei di trovare linee d’intesa che non si trovavano ... da sole. Se fossero venuti dei figli, forse i essi sarebbero stati l’argomento di comune interesse, ma anche in questo versante, e senza motivi, figli non ne venivano. Dopo un poco avevano pensato che ci potesse essere qualche problema, così si erano affidati agli esami. Fatto quello seminale a RU, c’era una piccola oligospermia, ma gli spermatozoi che c’erano, erano vivi e vegeti, dunque non dipendeva da lui. Fatti gli accertamenti a lei, anche la sua condizione era del tutto normale, per quanti esami avesse essa fatti. Si era copulato quando avevano detto i dottori, i due sposi si erano messi come da istruzioni, in questa posizione, in quella, con cuscini, con tutto... ma sempre senza alcun risultato. Dopo un po’ passava sempre a uno dei due la pazienza e non si procedeva più a sottoporsi ad esami. A un certo punto a RU venne anche l’intenzione che il suo sperma inseminasse artificialmente gli ovuli di lei, per poi impiantare ovuli fecondati. Detta la cosa, però, al Senatore Lodovici, primario d’Abbiategrasso, quegli aveva commentato schifato: “Uh, come con le bestie!” e bastò ciò perché l’idea passasse, per il resto della famiglia, come cosa turpe e volgare, da non farsi, cui non pensare nemmeno, a causa del commento del loro grande e sapiente amico. RU giunse a pensare che in sostanza Giancarla, con lui, non si era nemmeno sposata! Non si era mai coinvolta del tutto. Era restata a casa sua come a guardare una vita che, dopo le nozze, non le era cambiata per nulla; aveva avuto, solo in più, dal momento di quel “Sì certo!” di lui, uno che stava con lei sul divano mentre lei vedeva per conto suo la televisione ed uno che le stava nel letto e con cui faceva all’amore fisico, senza giocare nulla della sua anima, nel tentativo d’una fusione d’intenti! Per forzare la moglie a trasferirsi al CIMEP cominciò a far pesare sempre più il dichiarato sentimento ch’egli diceva d’avere per Maria Grazia.. Quando Marinella gli aveva ventilato l’idea che lei potesse distrarsi, egli aveva modificato tutto, assunto impegni gravosi, cercato di starle vicino. Lei, invece, non voleva far nulla, neppure controllare la situazione in cui si trovava il marito sul suo posto di lavoro. Dopo un po’ cessò di chiederle se si trasferiva al CIMEP: lei gli rispondeva seccamente di smetterla. Lo avrebbe fatto per pura gelosia? Per gelosia lei smise solo di avere dubbi sul fatto che tenesse a lui e non ad altri; ma la stessa non la portò a concludere che valesse la pena di marcarlo più da vicino nella sua vita d’ogni giorno.

Lui aveva abbandonato la costruzione di Villa Colletto nelle mani onerose di terzi, ma lei non volle abbandonare proprio nulla che fosse suo. Era tutta una questione di libertà. Chi è veramente libero riesce perfino a dar via in un atto estremo di generosità tutto quello che ha; chi non lo è si attacca a quel poco che ha e lo difende a costo della vita. Il fatto – tra loro due – era che Giancarla dava a RU questa vera libertà, e il suo affetto sentito da lui lo rendeva libero. Lei – viceversa – essendo amata, ma non nel modo che corrispondeva al suo sogno e al suo bisogno non era in grado di sentirsi libera di abbandonare quel povero e piccolo suo regno alla Mole Norton che lei aveva lì e solo lì. Lei – a 16 anni – aveva veramente sposato quella ditta e coloro che lavoravano lì con lei come i suoi amici. Li aveva eretti a suo intero mondo. RU c’era entrato solo per una esigenza molto più sotterranea e invisibile ed era quella del Regno di Dio che il Signore avrebbe attuato attraverso il suo asino, o meglio il suo , quello che avrebbe portato infine il Re nella sua Gerusalemme . Romano è già così, è già votato a questo Regno, nel mentre è in crisi nell’unità della sua famiglia. Giancarla invece – nella sua famiglia – non è affatto in crisi. Essa non è stata fatta con RU, ma è restata con suo padre e sua madre, che l’accolgono a sera quando le torna dal lavoro, e parlano, parlano tra loro, mentre mangiano; ma mai sono interessati agli argomenti di RU. Da quando egli iniziò a vivere con loro, sposandosi, entrò in quella casa come uno in più, incomprensibile, quasi un alieno, che presto iniziò a tacere, limitandosi solo ad ascoltare... finché poi, a nemmeno un anno dal matrimonio, il venerdì sera cominciò a partir via. Ora Maria Grazia Vanni aveva tutt’altro cui pensare, aveva già un fidanzato che si chiamava Gabriele e assieme partecipavano a gare d’atletica leggera. Lei ora si allenava particolarmente al salto in lungo, allenata da Giorgio Cortellezzi, un giovane ingegnere. RU per ingelosire la moglie prese a seguirli, a stare realmente vicino a loro e forse anche cercò, per una ripicca interiore, di trasformare in verità quella bugia che aveva inizialmente detto a sua moglie... Se lo meritavano, sia Maria Grazia, che era una bella e forte ragazza, una vera atleta, sia lei, che non stava facendo veramente nulla per impedirgli una storia come quella. A Giancarla ciò era bastato, se non altro, per spazzare dalla sua mente l'idea stessa di Vincenzo, ammesso che mai sul serio lei l’avesse avuta e supposto che Marinella vaneggiasse quando l’insinuò, cambiando così da quel giorno la sua vita.


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Romano si era avvicinato più che aveva potuto ai suoi amici della Norton, ma lei non aveva fatto altrettanto per avvicinarsi al mondo degli amici di lui, eppure aveva conosciuto Giorgio, aveva conosciuto Romano Gozzi. Ma non era una colpa: accadeva così anche nella famiglia dei suoi genitori, in cui i parenti e le cose importanti erano solo quelli del mondo della sposa. RU AL CIMEP SI MISE A LOTTARE PER IL BENE DI TUTTI. Coerentemente con questo nuovo e generale cambiamento avvenuto in RU, il 1974 fu anche l’anno in cui al CIMEP venne definito il riassetto delle carriere e degli stipendi di tutto il personale. Anche qui Romano fece la sua battaglia vittoriosa, che poi diede origine a tutti i mali che seguirono. I dipendenti CIMEP costituirono un sindacato indipendente e crederono che valesse la pena di portare avanti e di concludere un riassetto autonomo. Chi aveva forzato per questa decisione era stato il Geometra Manicone, cui mancava poco per andare in pensione. Egli era entrato per concorso in questo Ente perché, nella normativa CIMEP, si andava in pensione e si percepiva quanto l’ultimo stipendio. Furono nominati a rappresentanti tre geometri. Chiesero che si raggiungesse un accordo e il Consiglio incaricò una commissione ristretta di 6 Consiglieri a trattare. I tre rappresentanti del Sindacato CIMEP esposero ai dipendenti gli obiettivi, ne ebbero il mandato e su quella base la trattativa iniziò. Giunti vicini ad un accordo, la questione tornò nell’assemblea perché se ne discutesse. RU notò delle discordanze, tra l’incarico ricevuto dai rappresentanti, e la linea che, poi, era stata realmente portata avanti e volle andare a fondo in questa questione. Si accorse così che i tre geometri, con la loro condotta, avevano fatto gli interessi soprattutto della loro categoria. Era stato abbandonato il favorevole aggancio delle retribuzioni a quelle corrispondenti nel Comune di Milano, che prevedeva per tutti i ruoli (tranne il geometra) 6 anni d’anzianità a favore del dipendente consortile. Conoscendosi già gli stipendi accordati ai dipendenti comunali, tutti quelli del consorzio, eccetto quelli dei geometri, ci perdevano circa 30.000 lire il mese. I dipendenti rinunciavano all’aggancio, approvato anche dal Comitato di controllo sugli atti dei Comuni e che era così un dispositivo vigente. Amodeo osservò che si era stati troppo frettolosi e che non si doveva concludere l’accordo su quelle basi. Essendo assente il geometra Manicone, che aveva diretto la trattativa, gli altri due rappresentanti non seppero cosa ribattere e RU fu incaricato di portare avanti lui le operazioni. La Commissione ristretta del CD ignorava l’esistenza della delibera d’aggancio e gli spiegò come i rappresentanti sindacali non ne avessero mai parlato. Amodeo

svolse anche un’indagine presso il Comitato di Controllo, nel quale aveva per amico quel Brunelli conosciuto all’Ospedale di Baggio, nell’anno del militare. Seppe da lui che quell’aggancio Comune-CIMEP, riguardante le carriere, era forte e che un provvedimento che si fosse poggiato su quella base, sarebbe stato sicuramente approvato dal Comitato. Ritornò Manicone, seppe dell’accaduto, si mise a far fuoco e fiamme e volle che si riunisse nuovamente l’assemblea sindacale. Qui attaccò Amodeo, affermando che: “Gli architetti lavorano anche fuori, ma bisogna pensare ai disegnatori, alle dattilografe, a chi vive esclusivamente dello stipendio del CIMEP. La strategia sindacale è quella dei piccoli passi. Bisogna concludere l’accordo raggiunto, che è il massimo risultato possibile, strappato a Consiglieri che non ci sentono molto.” . Prese la parola Amodeo: “Nel breve periodo in cui ho gestito l’incarico, mi sono accorto che i Consiglieri neppure sapevano che esiste l’accordo che stiamo vanificando. Non c’è nessuna ragione per la quale proprio le figure più deboli rinuncino a 30.000 lire il mese, per concludere un accordo suicida. Questa è la verità. Se non credete a me ma a Manicone, peggio per tutti. Io non desidero rompere l'unità sindacale, perciò, se doveste essere tutti d’accordo con lui e non con me, firmerò anche io assieme a tutti, ma mi riterrò in diritto ed in dovere d’agire a quel punto come un singolo e seguiterò a battermi, a titolo personale, per difendere le ragioni della giustizia.” Si passò ai voti e tutti, credendo più a Manicone che a lui, firmarono l’accordo. Amodeo, come aveva detto, aggiunse la sua firma, sottoscrivendo quell’accordo capestro. A questo punto una persona normale si sarebbe arresa: il Consiglio aveva incaricato 5 Consiglieri di condurre la trattativa ed essa era stata approvata dai dipendenti all’unanimità. Non esisteva ragione possibile che le cose passassero in modo diverso da quello e più favorevole, soprattutto per l’accettazione unanime fatta da tutti. Eppure Amodeo non si scoraggiò, giacché esistevano, secondo lui, delle ragioni superiori valide secondo lo Spirito di Giustizia e cominciò a farle conoscere a tutti i Consiglieri. Gli dimostrò come il riassetto dei dipendenti del Consorzio non era una questione a se stante ma c’era una deliberazione, vigente a tutti gli effetti, che stabiliva come le posizioni dei singoli addetti dovessero essere esattamente riferite a quelle del Comune Capo del Consorzio. Se il Consiglio approvava il riassetto firmato dall’unanimità dei dipendenti, non rispettava le norme vigenti nel loro Spirito di Verità. Lo Spirito Santo assistette evidentemente Amodeo, al punto che il Consiglio direttivo approvò due dispositivi: quello sottoscritto dai dipendenti, ed uno, del tutto nuovo, che si poggiava su una tabella d’aggancio fatta preparare appositamente ad Amodeo e rispettosa della delibera in vigore, cioè della Legge Superiore che esisteva.


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La tabella d’Amodeo fece salvo il livello raggiunto dai geometri, (per una posizione un tantino equivoca che lo consentiva) e portò tutte le altre categorie ad un incremento di 30.000 lire mensili rispetto all’accordo sottoscritto da tutti all’unanimità, incremento che derivava dal rispetto dell’aggancio esistente. In conformità a quella tabella, preparata da Amodeo e giudicata, da tutto il Consiglio, “veramente giudiziosa”, il Direttivo del CIMEP deliberò una seconda soluzione al riassetto e propose all’Assemblea dei dipendenti di scegliere tra le due. Apriti cielo! Manicone si mise a protestare che non era giusto. Sostenne che il riassetto approvato dai dipendenti era stato un accordo equilibrato tra tutte le categorie, perciò ora non era accettabile che ben 4 su 5 avessero 30.000 lire in più il mese e solo quella dei geometri restasse stoppata sul valore di prima! Bisognava dare 30.000 lire in più anche ai geometri. Manicone non si vergognò del fatto che, per guadagnare 30.000 lire in più di pensione, aveva precedentemente proprio lui portato tutti a perdere altrettanto! Non si vergognò d’avere sostenuto in precedenza che era riuscito ad ottenere il massimo ... Se era veramente il massimo, come mai adesso di sua iniziativa il Consiglio Direttivo proponeva sbalorditivi aumenti quasi a tutti? Invece, attaccò Amodeo accusandolo d’avere le sue leve politiche, che le aveva messe in azione e che si era macchiato della grave colpa personale d’essere andato contro un accordo sottoscritto da tutto il personale! Poco ci mancò che gli credessero anche in questa occasione, perché, quando fu nuovamente indetta l’assemblea per scegliere quale delle due tabelle il personale volesse, passò la linea d’Amodeo appena per un voto di scarto: 16 a 15. Ciò significò che ben 12 persone, sulle 15 che avevano votato per l’accordo sottoscritto all’unanimità in seguito ad affermazioni false, non erano capaci di ragionare, o erano palesi vittime del Maligno che animava quel geometra. . Erano degli imbecilli? “No!” si rispose Amodeo. “Solo persone confuse. È difficile in molti casi arrivare a scorgere il vero. Specie quando esso è troppo evidente, tanto evidente ... che non lo vedi. Questo intervento fu miracoloso e possibile per lo Spirito Santo di Dio che sostenne la verità. Fu il primo segno prodigioso della capacità assunta, grazie a Dio, da Amodeo, da quando si era decisamente convertito a voler attuare sulla Terra un mondo, di amore e di Giustizia, che derivasse dalla fede nei valori di Gesù. In questo 1974, si crearono tutte le premesse grazie alle quali Amodeo poté invertire, in modo veramente deciso e integrale, la rotta assunta nella sua intera vita. Accade in tutte le questioni più importanti. Abbiamo appena visto che grande successo ebbe! Esso però gli creò nemici: infatti, molti dipendenti del CIMEP, sobillati finché Manicone restò nell’Ente e non andò in pensione, restarono con le idee confuse. Lo stesso Pietro Saviello Barbato, che

era suo amico, dopo la votazione ammise: “Avrei preferito nessun aumento di stipendio ma che le cose non fossero state trattate in un modo così sporco” ed attribuiva la sporcizia ad Amodeo che aveva avuto dalla sua solo l’arma del rispetto delle norme vigenti. RU, pensando a ciò ch’era stato consentito, gioiva, consapevole d’essere stato in grado, grazie a Dio, di fare l’impossibile. Il risultato tangibile era che tutti, anche i più indifesi, come i disegnatori e le dattilografe, grazie a 3 anni d’arretrati, si ritrovarono quasi un milione e mezzo di lire in più. Per dare l’idea di quanto ebbero, pochi anni prima, nel 1968, RU aveva acquistato il suo appartamento di 150 metri quadri, in zona abbastanza centrale di Milano, impegnandosi per 11 milioni di lire; furono appena 7 volte di più del milione e mezzo in più avuto da ciascuno di loro, grazie alla sua ragione ed alla tenacia. Certo, si era fatto dei nemici, ma il nemico di costoro non era lui, era colui per il quale, confusi, lo avevano scambiato. Buona parte dei dipendenti (coloro che ne avevano capito la grande amicizia) spinsero allora RU a rappresentarli sindacalmente. Nel Consorzio c’erano cose ingiuste, come alcuni geometri, assunti e pagati come disegnatori, che, avendone il titolo, facevano poi i geometri a tutti gli effetti. Quando il CIMEP tentò di fare un concorso pubblico per posti di geometra, Amodeo si oppose, minacciando lo sciopero e affermando che l’Ente doveva bandire concorsi interni, che regolassero prima le posizioni pendenti in atto. Per il timore del Direttivo del Consorzio, d’essere soppresso com’Ente inutile, il Direttivo riuscì a ottenere che solo il CIMEP (e non i Comuni) avesse titolo per eseguire gli espropri sui vari lotti 167 consortili. Chi avrebbe dovuto svolgere un mare di pratiche erano soprattutto i geometri, chiamati ad un laborioso lavoro, in Catasto e all’Ufficio del Registro, per individuare tutti i proprietari. Ecco allora che tutto divenne molto difficoltoso e che il piccolo gruppo dei dipendenti del CIMEP fu impari rispetto al bisogno. L’ing. Ferdinando Passani, Presidente del Consorzio, mandò a chiamare il rappresentante sindacale. “Amodeo, sempre qui io e lei in mezzo a queste questioni! Lei adesso fa il rappresentante sindacale e come tale mi impedisce d’assumere i geometri. Lei è – vedi un po’ – anche il responsabile degli espropri, che vanno a rilento. Come la mettiamo? Mi dica lei come possiamo uscire da questo stallo in tempo breve! Non se ne può più! Abbiamo scelto di fare gli espropri per dimostrare che non siamo un Ente inutile e ora sembra che, proprio a causa di questa scelta, lo siamo per davvero. Su, si muova e faccia una proposta sensata!”


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Amodeo ci pensò, cercò nel suo Ordine professionale tutte le figure che potessero fare al caso, sentì, a sua esclusiva iniziativa, architetti, ingegneri, geometri e compose una gruppo di tecnici di varia estrazione, che si impegnava, nel giro di due soli mesi, a spazzare via tutto l’arretrato che esisteva. Si recò dal Passani e gli comunicò che aveva la brava proposta che gli aveva richiesto. Il Presidente gli rispose che lui, Passani, aveva fatto già fin troppo, a titolo personale. Amodeo doveva così presentare questa proposta per le vie tradizionali e gerarchiche, nella meni della Dottoressa Raffaella Marchesi, Segretario Generale dell’Ente. Amodeo lo fece e la Marchesi, trovandosi una cosa come questa tra le mani, non la capì del tutto e non ne fece nulla. Allora Amodeo cominciò a scrivere lettere ufficiali in cui la metteva davanti alle sue chiare responsabilità! Ne aveva e molte, se un meccanismo, efficace come quello che aveva proposto, non era neppure portato in discussione. Di fronte ai documenti scritti lei presentò in Consiglio la questione in questi termini: “L’architetto Amodeo, responsabile del Settore espropri, per risolvere la situazione di forte arretrato, ha scelto e organizzato un gruppo di tecnici che, assunto l’incarico, assicura d’eliminare tutto l’arretrato in soli due mesi.” Suscitò un bailamme incredibile: “Come? L’Architetto Amodeo dà incarichi? Ma siamo noi a dare gli incarichi! Qui succedono cose dell’altro mondo!”. RU, sapute queste reazioni, ci restò malissimo. Erano passati i tempi di Cannarella! In quella occasione aveva dato a suo criterio tutti gli incarichi e solo grazie a ciò avevano potuto sistemarsi nella sede nuova in cui ora essi erano! Egli aveva dato in più di un’occasione prova d’estrema serietà ed ora, che aveva risposto solo ad una sfida del Presidente Passani, gli accadeva di sentire questo. Allora tirò i freni. Avvertì quella squadra che aveva costituito che il Consorzio non ci stava, con la stessa e dovuta sollecitudine che egli aveva chiesto loro. Porse loro le sue scuse e gli fece comprendere che non dipendeva da lui. Poi si mise in attesa degli eventi. Dopo circa sei mesi in cui, ogni volta, il Consiglio ritornava sulla stessa questione del “come si permette?” uno dei Consiglieri pretese dalla Marchesi che lei tirasse finalmente fuori quei nomi. Con rincrescimento il Segretario generale fu costretto a farlo e quando i Consiglieri lessero i nomi, esclamarono: “Ma cosa c’è qui che non va?!” Essi avevano temuto che Amodeo scavalcasse e tagliasse via tutti i tecnici che già lavoravano per l’Ente in forza del clientelismo. Trovati ciascuno, nell’elenco, i ari

amici che gli stavano a cuore, si erano accorti che quell’elenco andava approvato, e l’approvarono. Quando il Consiglio tentò d’attivare il meccanismo a suo tempo messo in piedi da Amodeo, il dispositivo già non esisteva più e il Consorzio seguitò a restare con l’arretrato e a dare gli incarichi, come sempre aveva fatto: solo ai tecnici clienti, senza risolvere il problema in modo ideale e una volta per tutte. Amodeo aveva avuto così ragione, ma gliela avevano data, stavolta, quando era troppo tardi, con il solo risultato di disamorarlo. C’era un motivo preciso in tutto quanto stava accadendo. Doveva accorgersi che un tecnico, in quella struttura, serviva quasi del tutto solo a motivare le scelte che gli Amministratori avevano deciso per tutt’altre ragioni. Infatti, quando erano poste serie opposizioni, tecniche, mosse contro le scelte degli Amministratori, esse erano sempre messe a tacere. Un tecnico era libero solo se era allineato perfettamente con le decisioni di chi sceglieva per ragioni politiche. E questo non doveva stargli più bene. Avrebbe dovuto lasciare il Consorzio. Chi l’obbligava a restare? NELL’ORDINE ARCHITETTI VOLLE FAR CALARE I COSTI Nell’Ordine Architetti era Consigliere per il secondo biennio. Dopo d’avere sfidato tutto il Consiglio precedente, fino al punto da volerlo far cacciare, era stato sconfitto da loro, che erano riusciti in modo malandrino a confondere le idee agli elettori. Ora tutto quello che egli proponeva, nell’esercizio della nuova gestione, era rifiutato, per partito preso. Un giorno fu posto in discussione, sempre nel 1974, il raddoppio della quota d’iscrizione all’Albo. Erano problemi che riguardavano oltre 2.000 architetti, che di punto in bianco si sarebbero visti costretti a spendere il doppio per esercitare la libera professione. In questo nuovo quadro di interessi, divenuti prioritari nel momento stesso della sua conversione, egli cercò di capire dove stava il grosso della spesa sostenuta dall’Ordine, tanto da vedere se non fosse possibile minimizzarla, prima che si procedesse a quel raddoppio. Accertò così come si spendesse oltre la metà del provento delle quote, per stampare il “Bollettino” dell’Ordine degli Architetti. Allora cercò e trovò dei pubblicitari che erano disposti ad assumersi interamente tutto questo costo, se gli si lasciava mettere su pubblicità. Chiunque sia nel settore può capire che prospettiva fantastica fosse stata proposta da Amodeo, perché solo in questi tempi esistono pubblicazioni che si sostengono interamente con la pubblicità, ma hanno una tiratura enorme e sono distribuite gratuitamente nelle metropolitane e in tutti i grandi punti di passaggio...


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Amodeo, agendo in modo molto illuminato, aveva anticipato di 50 anni questi tempi d’oggi, ma con uno strumento assai più debole, sotto l’aspetto pubblicitario, perché raggiungeva appena 2.000 lettori. “La pubblicità sul Bollettino? Ma che schifo!” fu il commento altezzoso di quel Consiglio prevenuto. “Fate presto – ribatté Amodeo – a decidere in questo modo incidendo sulle tasche della gente! Una proposta, eccezionale come questa, non può essere rifiutata. Gli parlerò io e, se questi pubblicitari accettano, mi avvarrò io di questa offerta, realizzando una rivista per gli architetti.” Lo guardarono come si guarda un demente e probabilmente pensarono: “Com’è possibile che uno si comporti così e, che, seppure per puro puntiglio contro il nostro stesso puntiglio, di punto in bianco decide di fondare una Rivista? La vedremo!” Così nacque Architettura e Pianificazione in Lombardia, un mensile d’informazione tecnica nel settore urbanistico: per un molto forte punto d’orgoglio, suscitato in lui dalla mancata accettazione di un’offerta favolosa.. I pubblicitari accettarono l’offerta d’Amodeo e aderirono al suo progetto perché lo conoscevano personalmente: erano suoi amici. Lavoravano nella Opus Proclama, un’azienda pubblicitaria ed erano Maria Grazia, due suoi zii, che si occupavano di pubblicità con una loro ditta, Gabriele Alberti, il suo fidanzato, e un altro che lavorava sempre come procacciatore di pubblicità nella stessa Opus in coppia con l’Alberti. Essi accettarono la proposta di realizzare Architettura e Pianificazione in Lombardia (A e P) anziché il Bollettino dell’Ordine, perché conoscevano Amodeo e cercavano d’assecondarlo, avendo anche moltissima fiducia e stima in lui. RU sperò ad un certo punto di aprire anche al mondo di Giancarla, quello che era accaduto nella sua vita e che riguardava gli Incontri di Comunione e Liberazione in Via Stelvio, con la comunità di Santa Maria alla Fontana, nella cui giurisdizione

cadeva no i dipendenti del Cimep, forse per la libera scelta operata da Daniela Forlin, che lì aveva suoi amici. Un giorno si recò con Daniela e il gruppo di amici che frequentava gli incontri ad una gita su quel monte che si raggiunge da Como con la teleferica, e di cui vedete queste immagini.

Che tutto stesse spingendo in modo fortissimo per un deciso cambio di rotta appare anche da quello che successe in relazione a Villa Colletto, di Nicola. Egli doveva raggiungere un accordo con Rinaldo Raho, che aveva bloccato i lavori e che, data l’inflazione, ora riprendevano con costi resi molto maggiori anche perché l’esecuzione era stata messa tutta nelle mani di Silvano Cappetta. Rinaldo Raho, persona per bene, avrebbe capito. Non era possibile che la sua villa di oltre 200 metri quadri, finita in questi periodi da Cappetta, gli venisse a costare i 25 milioni che erano stati pattuiti nel 1970, senza che l’importo fosse aggiornato almeno al valore inflazionato della lira. L’accordo non fu però possibile perché Rinaldo Raho un giorno, abbassatosi sotto una finestra che il vento aprì mentre era chino, si rialzò e lo spigolo perforò un neo della schiena, che iniziò a sanguinare. Si trovò, per sua somma sfortuna, in quel momento, la sua consorte in ospedale con sette costole rotte, tanto che non pensò a se stesso ma a lei. Solo quando la moglie tornò a casa volle far osservare da un medico la sua schiena. Fu prelevato immediatamente un frammento e risultò essere un terribile tumore maligno. Fu scorticato fino alle ossa, si intervenne sulle glandole, ebbe un trattamento a dosi rinforzate di chemio, ma non ci fu nulla da fare e morì. Lasciò una moglie convinta che la responsabilità di tutti i ritardi nella costruzione della sua parte di Villa Colletto fosse stata di Amodeo, invece che della penuria di liquidità in cui era finito il marito, quando lo stato aveva preteso forti depositi da parte di chi importava ed esportava. Per giunta, sua moglie presto si legò nuovamente con un tipo che, istruito da lei, cominciò a tentare di dimostrare a lei che egli era tutt’altra pasta rispetto a quella debole di Rinaldo, e Amodeo si trovò in difficoltà.


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Difficoltà che divennero grandi più ancora quando Cappetta, dopo d’aver tergiversato per oltre un anno, si decise finalmente a presentare i conti. Chiese ad Amodeo la bellezza di 100 milioni. Invece di lavorare a Villa Colletto in economia, quando non sapeva dove mandare gli operai, li mandava lì. Non era capace o non voleva controllare l’efficienza del suo personale e quello che doveva costare 10 costava 100. Cappetta aveva lasciato un giorno un assegno in bianco a RU e se ne era perfino dimenticato. Chi trattò un possibile accordo fu suo fratello, che esibì tutti i cartellini delle ore che i muratori avevano impiegato in Villa Colletto. Partecipò a queste discussioni anche Anna Baratta, nel tentativo di aiutare il figlio e, alla fine, si intesero per 70, ma anche quello era davvero troppo. Invece Cappetta, il fratello di Silvano, diceva che non era vero e che Romano si era veramente approfittato dell’amico. Allora Amodeo trasse di tasca l’assegno in bianco firmato da Silvano e lo mostrò al fratello: se avesse voluto avrebbe scritto qualsiasi cifra, su quell’assegno ed avrebbe messo in condizione Silvano di dovere egli a lui, con un documento che era ancora più forte di tutti quei bollettini di ore di lavoro. Quel suo fratello trasecolò e tirò un enorme sospiro di sollievo quando Amodeo, con fare deciso e per dimostrargli che egli e non il fratello rispettava lo Spirito della Bontà e della Giustizia, strappò quell’assegno. Se non altro era riuscito a convincere quella persona che uno solo si era alquanto approfittato dell’amico: ma era stato Silvano Cappetta. Messo in questa situazione, Amodeo si ritrovò davvero ad una svolta. Quello che guadagnava al CIMEP non bastava a pagare gli impegni che era stato costretto ad assumere. Doveva aumentare i suoi guadagni, oppure vendere qualcosa di quello che aveva costruito, appianando tutta la sua esposizione. Il capitale in immobili era di gran lunga superiore ai suoi impegni, tutti presi con le banche con mutui sulle case. Era moderatamente ricco, perché aveva un patrimonio che, valutato in euro, oggi sarebbe pari almeno ad un paio di milioni. Riguardava un appartamento di 150 metri quadri a Milano, un box nello stesso luogo e tre appartamenti a Nicola d’Ortonovo, per oltre 400 metri quadri tra interni e terrazze. Era come architetto in un Ente di grosso rilievo, in un ruolo che lo faceva coccolare dagli 80 Comuni del Consorzio, per il semplice motivo che il CIMEP era in grado di fare sovvenzioni, che toccava espressamente ai tecnici come lui di istruire. Il mensile A e P, oltre che un grosso strumento della cultura tecnica nel campo dell’urbanistica, in grado di dare lustro e notorietà sempre più grande, poteva anche divenire la concreta possibilità, non solo perché aumentassero le entrate e si appianassero i bilanci, ma anche di dare lavoro diretto alle persone e prepararle alla vita, avendo ben più possibilità di farlo di quanto poteva stando al CIMEP. (Attuazione che instaura condizioni nuove nella sua azienda).

Che voleva fare? Attento a tutte le sfide, spinto dalla semplicissima testimonianza di Daniela Forlin, si accorse, all’improvviso e prese coscienza di avere cominciato la più grande sfida, in assoluto, che avrebbe mai potuto combattere: quella contro il prevalere di se stesso rispetto agli altri, perché aveva visto “la perla” del Regno dei Cieli e si era accorto che voleva acquistarla con tutto il desiderio del suo cuore. In questo momento nevralgico della sua vita abbandonò decisamente l’uomo vecchio e indeciso e volle vivere nel reale tentativo di costruire un pezzo di vita pulita sulla Terra. Non voleva ricercare più nulla che fosse strepitoso e glorioso per se stesso, non gli interessava più la ricerca del suo potere personale. La sua vita doveva servire a dare testimonianza: nel piccolo e nel concreto, come una fede operosa che non brillasse neppure per particolare eroismo, ma fosse opera assidua, condotta nel silenzio delle azioni quotidiane. Quello di immensamente buono e positivo, che aveva ricevuto da CL, non doveva tenerlo per sé, doveva trasmetterlo agli altri, doveva testimoniare a sua volta, affinché altri fossero ora aiutati da lui a capire, in una staffetta operosa in cui il testimone passasse di mano in mano. Oh, Amodeo non intendeva ottenerlo con discorsi e proclami, ma interamente con le opere. Aveva osservato come egli non fosse stato conquistato da una teoria, ma solo a partire dall’esempio calato nella concretezza della vita d’ogni giorno. I cristiani che erano ancora come RU era prima, intendevano che Cristo pretendesse l’eroismo! Aveva finalmente capito come invece Gesù chiedesse una sola cosa: d’avere fede e di lasciarsi aiutare. Coerentemente a tutto ciò l’architetto Amodeo chiese al CIMEP, ed ottenne, d’essere messo in aspettativa per un anno, a partire dal 1975. Avrebbe intanto cominciato a testimoniare, a quelli che aveva intorno e dipendevano da lui, niente di più e di diverso che la sua vita mutata, ora dedicata interamente al bene per loro. Fu anche aiutato, in questa scelta, dal fatto che ebbe modo d’accorgersi come il suo supposto potere, in quell’Ente, fosse solo apparente e legato ad un ruolo più che alla sua diretta persona. Chi decideva erano gli amministratori. Aveva di certo partecipato, negli ultimi tempi, a dare con gli altri, in quell’ambiente, la testimonianza d’un cristianesimo vissuto anche nella fedeltà alla preghiera. Lo aveva fatto quando, di mattino e mezzogiorno, recitava le Lodi, assieme al piccolo gruppo di Daniela Forlin, Wilma Menegaldo e, qualche volta, Rosangela Sottocorno. Ma, in quel CIMEP, la sua possibilità non era come avrebbe potuto essere nella ditta A e P, in cui tutto dipendeva dalla qualità e dalle quantità delle sue scelte di vita.


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Valeva di più la pena vivere bene, in un piccolo gruppo, che faticosamente, in uno immenso, in cui quel gesto di fede e d’un volersi mettere nelle mani di Dio, era anche accompagnato dall’ironia e dal disprezzo di qualche Dirigente. Questi giudizi, sull’ottimizzazione del suo impegno, avevano alla fine favorito la sua decisione: d’abbandonare quel CIMEP che, pur così tanto, era servito alla sua crescita. Sentiva giunta l’ora che egli partisse, che finalmente cominciasse il suo vero e libero cammino, in cui, in apparenza, tutte le scelte sarebbero dipese interamente da lui e dall’aiuto della Provvidenza di Dio. Da quel momento RU divenne veramente un altro, irriconoscibile rispetto a prima e incomprensibile per quanti aveva avuto sempre intorno. Giancarla non era stata conquistata da CL, per quanto fosse stata invitata a molti gesti riconducibili a quell’idea del cristianesimo. Tuttavia lei s’accorgeva di dover essere lieta che egli avesse incontrato Comunione e Liberazione. Vedeva i benefici evidenti che ciò stava portando alla sua vita nuziale. Quella gelosia, che egli aveva voluto ingenerare, in lei, per Maria Grazia, s’era notevolmente spenta, anche se ora era lei a stare, di fatto, accanto al marito durante la giornata. Giancarla era nella condizione, alquanto dubbia, di chi credeva e non credeva. Da una parte sentiva che il pericolo, che aveva visto in quella ragazza, non esisteva, ma dall’altra vedeva come lui ora dicesse a tutti, persino ai suoi genitori, d’aver deciso di vivere per chi dipendeva da lui e da lui, ora, dipendeva proprio lei. Si rendeva conto di come il marito, per quella svolta decisa che aveva dato alla sua vita, ora fosse anche notevolmente più attento e premuroso con lei, sua moglie. Però intanto lui aveva cominciato a sostenere che viveva per gli altri ed era disposto a perdere ogni cosa per loro. “E noi?” osservava sua suocera. “Noi chi siamo?”. RU aveva cominciato a non percepire più i conflitti insiti nell’amore: poteva amare tutti senza che, quanto dato all’uno, fosse tolto all’altro. Egli amava, anche, chi avvinceva alla sua azione e convinceva a farla insieme, pur se essa era faticosa ed impegnava fino all’ultima delle personali risorse. In quel caso egli costava veri sacrifici a coloro cui voleva bene, perché essi erano davvero come alleati al suo fianco, erano un supporto che non era stato imposto da lui ma dall’avvincente e convincente amore che altri avevano per lui. Io, lo Spirito narratore di questa storia, osservo che è proprio così, che è interamente vero: quando una persona arriva a credere veramente importante il senso e l’esperienza del sacrificio personale, allora non si spaventa se trasmette agli altri anche questo sacrificio. Se si concepisse valido solo il sacrificio di se stessi, in fondo non lo si intenderebbe come un’esperienza utile e valida per tutti.

Nella vita, poi, occorre anche il coraggio di voler fare un’esperienza nuova. Se nessuno non si butta mai, per provare altre logiche fuor che la propria, mai altre ne avrà! Infatti, spesso, è solo la prova diretta e personale che può far cambiare idea alla persona, tanto da migliorarla. Questa era la risposta che anche RU dava – in sostanza – a quanti, della sua famiglia, si vedevano all’improvviso messi in crisi, da un possibile coinvolgimento, reso possibile proprio per l’affetto che avevano per lui. Per quell’ambizione suprema, che l’aveva invaso, Romano decise che quella sua Ditta doveva divenire un luogo in cui si accogliesse il bisogno dei ragazzi: di lavorare per le necessità del vivere, ma soprattutto per la costruzione del modello ideale in base al quale poi sarebbero vissuti. Doveva essergli infuso il gusto assoluto per il bene: attraverso gli assaggi che egli, il proprietario, avrebbe propinato. Dovevano sentirsi amati, dovevano trovare anche loro il coraggio d’innamorarsi di tutto quanto fosse giusto, nobile e bello. Per finanziarsi, RU mise allora in vendita una parte delle case che aveva costruite. La liquidità era indispensabile, ma non avrebbe fondato quella sua impresa sulla priorità del reddito e del vantaggio dell’impresa. Egli intendeva seguire i consigli di Gesù al giovane ricco: desiderava vendere, darne il vantaggio ai poveri, e seguire il Maestro. Il vantaggio l’avrebbe dato gestendo egli le risorse, esercitando il controllo sull’uso buono – secondo Gesù – di quei mezzi, dati proprio a lui, dalla Provvidenza, che aveva giocato sulla sua precedente ambizione per metterli proprio in mano sua. (Massima prudenza). Insomma RU iniziò a sentire solo in affido quanto la buona sorte gli aveva messo a disposizione. Se, gestendo le risorse per aiutare il suo prossimo, le avesse impiegate anche tutte, non le avrebbe certamente perdute, ma avrebbe accumulato un tesoro nei cieli. Detto in parole povere, avrebbe trasformato i suoi averi: in valori morali, idee che viaggiavano, assimilati nella mente di tutti quanti li avessero incontrati, avendo potuto concretamente ricevere il testimone da lui, nella grande staffetta del bene contenuto nella vita. Che ce la facesse – lo sapesse bene, non si scoraggiasse! – non dipendeva da lui, ma dai tempi di maturazione di quelli cui l’avesse consegnato: anche Don Giussani, incontrato da Romano a 17 anni, era infatti riuscito a dare il testimone a lui solo venti anni dopo! La testimonianza buona era un vero seme, impiantato nella parte migliore dell’anima, che avrebbe dato i suoi frutti, nel tempo e nel luogo della maturazione voluta dal provvidenziale destino d’un Dio infinitamente giusto e buono. Dio non poteva non dare a tutti il bene immenso che RU comincia a sentire ricevuto concretamente da Lui. Dio l’avrebbe dato a tutti, in quanto lo stava dando a lui! Se una sola persona non avesse ricevuto per lo meno altrettanto, Dio non sarebbe stato imparziale.


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RU aveva capito l’errore sostanziale della gestione presuntuosa della vita, da qualunque pulpito fosse fatta, perfino dalle Autorità Ecclesiastiche: era la presunzione più grande che si potesse avere, quel peccato contro il quale lo stesso Gesù, pur essendo Dio, si scagliava quando affermava che “Neppure egli era buono, ma solo il Padre. Romano pertanto iniziò il suo gesto di buona volontà e d’aiuto per il prossimo, sapendo che non doveva attendersi altri risultati se non quelli che gli sarebbero venuti – Deo gratias! – dalla Provvidenza buona di Dio, che gli avrebbe mandato riconoscenza o ingratitudine secondo i suoi sublimi scopi. Lo sapeva: uno scopo era sublime quando andava sub limen, oltre i limiti delle sembianze, tanto che i mali apparenti fossero solo beni reali. Ma se non avesse saputo anche come potesse essere, non ne sarebbe stato convinto... Sapeva che era in atto una assoluta partita tra un  del tutto incapace e il suo creatore che voleva, amava conferirgli assolutamente capacità. E allora gli sottoponeva un test, e se la bestia avesse gradito la risposta esatta, ce l’aveva fatto da sé. La risposta esatta in ogni caso era il gradimento del bene. Chi gradisce il male è solo un traviato... ma Dio saprà farlo raddrizzare... apparentemente da sé. In che modo? Mandandogli due esperienze esatte e contrarie: se da una parte lavora solo il 10% della giornata e riposa il 90%, dall’altra accade l’opposto. Tanto che tutti lavorano il 100%. Così Dio riesce ad essere buono e giusto in modo perfetto. Concede, finito il compito che ha richiesto una vita, un’altra vita, percepita in modo esattamente invertito e che serve da riscontro. È la partita doppia dei commercialisti, è la tesiantitesi che permette la sintesi esatta, è l’Inferno-Purgatorio che apre le porte del Paradiso. Il padrone dà un denaro sia a chi ha lavorato dal mattino sia a chi sembra di non avere lavorato per nulla, giacché quello che non c’è in una dinamica, esiste nella dinamica contrapposta. Insomma Dio consente a tutti di ravvedersi. Il suo metodo è perfetto. RU cominciò ad essere certo della fiducia e l’accordò, perché aveva capito come sussistono le cose in assoluto: non c’era il singolo, anche egli era la coppia conscio/inconscio che stavano tra loro come n/n=1, il soggetto unitario. S’instaurò, per lui una formidabile fede, che cominciò ad appoggiarsi anche sulla ragione, per credere, e non solo sulla parola di Gesù. Capire perché avesse ragione quel Gesù che era creduto follia della ragione, secondo lo stesso San Paolo, portava a una ragione complessa e non più lineare. La nostra realtà unitaria si poggiava non su una sola ragione, ma su due, ed erano reciproche. Tutto questo castello, dei buoni propositi di RU, non doveva corrispondere a parole o proclami... doveva essere semplicemente vero. Amodeo mise così in vendita le case di Villa Colletto, ma nessuno volle acquistarle. Doveva esserci un motivo, e c’era: costruite in collina, in una bellissima

posizione panoramica, le case distavano dal mare circa tre chilometri ed erano troppi per molta gente. L’unica offerta che Amodeo ebbe fu quella dei suoi due amici Maria Grazia e Gabriele. Essi s’impegnarono ad acquistare, pagandolo poco alla volta, quell’appartamento che la zia Emilia aveva rifiutato, in quanto era il più piccolo di tutti e l’unico dal quale non si vedesse nulla di particolarmente bello! I due fidanzati cominciarono ad andare là e Amodeo venne loro incontro in tutti i modi: praticò una grande apertura circolare nel bel mezzo d’un muro ed arredò gli ambienti in modo rustico e moderno: calcestruzzo a vista e moquette, mobili in muratura, il tutto realizzato con pochissime risorse. Venduto in quel modo, l’appartamento non dava nessun risultato reale, eppure fu l’incontro tra persone che desideravano aiutarsi, ed era questo ciò che soprattutto contava: stavano facendo una esperienza valida!. RU viveva ancora in Via Vetere, con Giancarla e i suoi genitori ed egli, così pervaso dei contenuti di CL, non aveva mai cercato un contatto con la Comunità ciellina che esisteva, in quella zona, e faceva capo alla Chiesa di San Lorenzo. Un giorno si seppe che un malvivente era entrato in casa di Don Angelo Cassani e gli aveva fracassato il capo con un estintore. Era un sacerdote che intendeva il suo apostolato secondo la linea di Don Giussani, insomma di CL. RU intese quest’evento come un preciso richiamo, a lui troppo pigro, di chi? Ma della Provvidenza! E si recò all’ospedale, si fece largo tra tutti coloro che l’assistevano e passò la notte al capezzale di questo sacerdote, che non conosceva e che era in rischio di morte, con il cranio fracassato e la necessità d’un serio intervento chirurgico al cervello. Gli tenne la mano nella sua, gli suggerì di confidare nella volontà di Dio: “Coraggio, coraggio, Don Angelo! Su, faccela!” Il sacerdote, operato, guarì, e Romano entrò tra loro, portando la sua esperienza, stupendo tutti, per quest’estrema chiarezza di cui dava segno. Raccontava loro come avesse del tutto abbandonata la pretesa d’un progetto suo e che quell’azienda, in cui egli operava, n’era il segno: sarebbe esistita solo finché Dio avesse voluto; egli non avrebbe mai chiesto e scaricato sui dipendenti il bisogno che la sostenessero. Sosteneva che “se una struttura chiede, a chi vive in essa, di farsi eccessivo carico dei suoi bisogni, diventa una pericolosa sovrastruttura. Sembra, così facendo, mettendo carichi troppo pesanti su chi non può tollerarli, che in tal modo si difenda il posto di lavoro di chi vi opera, in quanto la struttura diventa in apparenza più forte. “Ma se io facessi così avrei fatto proprio quello che noi diciamo di non fare: un bel progetto personale, addebitato poi agli altri... No! Finché le sostanze messe in mia mano, da Dio, basteranno a sorreggerlo, questo lavoro esisterà. Se non basteranno,


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avrò compiuto il mio compito e dopo toccherà ad un altro. Ma, fino allora, sarò stato una risposta valida, autentica ed immediata, per chi sarà restato con me. Io confido nella Provvidenza ed Essa difenderà questa cosa sua, finché essa sarà utile al progetto di Dio che passa in questo modo attraverso di me.” La gente si stupiva, in quanto questo benedetto progetto personale, da non fare, era una questione difficile per chi, essendo datore di lavoro, un “progetto” doveva pure averlo fatto. E Amodeo cercava di fargli capire meglio, dicendo: “La stessa Chiesa sbaglia quando non confida, in modo assoluto, sulla Provvidenza di Dio e fa il suo bravo progetto umano...” erano i tempi in cui imperava, nella Chiesa, il finanziere Marcinkus. Erano quelli in cui Padre Pio tribolava per il tentativo fatto, da una parte della Chiesa veneta, di sottrarre a lui e destinare ad altri scopi, le offerte che egli riceveva soltanto per erigere la sua Casa della Misericordia... Come doveva operare, un imprenditore che non facesse un progetto? Doveva stare con le orecchie e tutti i sensi aguzzi, per cogliere qual fosse, nelle diverse situazioni e circostanze, la volontà di Dio, al fine di divenirne un umile strumento. Così RU fece altre conoscenze, attraverso quelle persone di CL che frequentavano la Chiesa di San Lorenzo. Erano le membra d’una Comunità viva che aveva seguito il loro Don, quando egli era stato mandato via da una Chiesa il cui Parroco non amava CL. Era stato mandato lì, a San Lorenzo e la Comunità lo aveva seguito trasferendosi di casa, in molti, per stare in comunione con quel Don Angelo che, poi, un malintenzionato aveva ridotto in fin di vita, richiamando, di fatto, Amodeo ad una minore pigrizia: “Se intendeva veramente dare testimonianza, perché non la dava nella Comunità cui apparteneva, vivendo a due soli passi dalle Colonne di san Lorenzo?” Conobbe così, un giorno, attraverso loro, Ivo Deitinger, che era attento alle questioni dell'occupazione e delle cooperative di produzione e lavoro. Tra le varie attività, non aveva mai dimenticato nemmeno il calcio. Lo aveva dovuto sospendere tra gli anni 70-73 che aveva trascorso sempre al mare, a fare il costruttore sulla collina di Nicola di Ortonovo. Avendo cessato e avendo nuovamente liberi i fine settimana, riprese i contatti con i suoi amici e a partecipare ora ai

tornei organizzati il sabato pomeriggio dal Centro Sportivo nella categoria di tornei riservati alle aziende. Qui a lato è in un raro incontro di calcio tra i suoi colleghi al Cimep. Di seguito è insieme alla squadra di calcio “Esse”, nella quale militavano i fratelli Raho, che avevano permesso al loro primogenito Rinaldo di partecipare con RU e i suoi familiari, alla costruzione in Versilia. Originari dall’Egitto, rappresentarono in chiave attuale il sostegno egiziano dato alla edificazione del popolo Ebraico, durante il lungo periodo trascorso dai 12 figli di Israele che nel volgere di quattro secondi si erano trasformati nelle dodici tribù del suo popolo. Questa squadra era organizzata da Ivo Cavalieri, che abitava in viale Omero al 24, e che aveva spinto la ditta Esse, in cui lavorava, a partecipare al Torneo Aziendale. Di fianco a Romano, alla destra di voi che guardate, c’è Tullio Spezia, un altro abitante di Viale Omero al 24, poi Mimmo Furiosi, Viverit, e di fianco a lui il più giovane dei fratelli Raho, e fratello di Enrico e Rinaldo. In basso, da destra verso sinistra Massimo Orlando, un vecchio amico dell’Oratorio di San Michele e Santa Rita, e a lui di fianco, l’organizzatore, Ivo Cavaglieri.

RU viveva ancora in via Vetere l’ultimo anno che vi avrebbe trascorso. Aveva cominciato a frequentare il gruppo ciellino della parrocchia di San Lorenzo, e nelle riunioni in cui portavano in comune le loro esperienze, raccontava della sua. Di come avesse costruito quella grande casa al mare, ormai abitata e vuota. Deitinger cominciò a vagheggiare l’idea che potesse divenire uno sbocco per lo stesso gruppo, e che potesse con questo aiutare RU alla sua stessa gestione. Propose la


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cosa e furono organizzate delle visite. Ne sortì l’interesse solo di una coppia di sposi, che era disposta ad affittare la grande proprietà. Lo fece. Nello stesso tempo, si rese libera l’appartamento di RU in via Lattanzio, che – una volta ultimato e restato sfitto per un certo tempo – aveva poi incontrato l’interessamento di un vecchio compagno di liceo, Ambrosio, che lo aveva affittato per la sua famiglia. Dopo averlo abitato per un paio d’anni, rinunciò all’affitto così spiegando la cosa all’amico: “Abbiamo bisogni in futuro di due alloggi, distinti e più piccoli, e siamo così costretti a lasciare il tuo che è troppo grande per me, restato solo”. La preparazione di Architettura e Lombardia era stata localizzata in un primo tempo in casa di una zia di Maria Grazia Vanni. Lei e suo marito, erano parte di quei pubblicitari che avevano, con Alberti, fidanzato di Maria Grazia, fatto l’offerta all’Ordine degli Architetti, di realizzare gratis il Bollettino, e che aveva visto il loro sdegnato rifiuto a metterci su la pubblicità. Per cui RU aveva reagito in quel deciso modo di creare lui una rivista, se i pubblicitari accettavano che la preparasse lui. Non era infatti garantito che essi l’accettassero. Una cosa era avere un veicolo ufficiale, dell’Ordine Architetti, che garantiva agli inserzionisti una reale consegna del mensile a tutti gli Architetti di Milano Pavia e Sondrio, che erano circa 2.500, un’altra che fosse un giornale tutto nuovo, che non dava agli inserzionisti la stessa certezza. Avevano accettato il rischio,.. però solo per modo di dire. L’editore infatti sarebbe stato RU e il rischio dell’impresa l’avrebbe corso solo lui. Le cose – insomma – non stavano più esattamente come prima. Di fatto loro non se la sentivano di impegnarsi per realizzare quanto Romano aveva dichiarato ai suoi colleghi dell’Ordine. Se questa rivista non fosse uscita, RU ci avrebbe fatto una pessima figura. Nella tornata elettorale era stato il promotore della rivoluzione nei quadri direttivi, avevano rifiutato la proposta di realizzare gratis il Bollettino, poiché l’aveva presentata lui, e adesso se il nuovo mensile non fosse uscito, si sarebbero sbellicati a deriderlo. Aveva molta carne al fuoco, in quel tempo. Un alloggio a Milano, di 150 metri quadri che da solo valeva un patrimonio. Poi c’erano gli alloggi che aveva costruito in Versilia, circa 400 metri calpestabili dei quali i 2/3 in alloggi e il resto in terrazze panoramiche. Non aveva liquidità, ma i costi per produrre il mensile potevano essere dilazionati. I pubblicitari erano in rapporto con Favrin, un veneto che promuoveva lavoro alla Tipografia Antoniana di Padova, e attraverso lui la Tipografia era disposta a concedere un semestre di stampa della rivista, senza chiederne il pagamento. Questi sei mesi potevano consentire la messa in moto di tutto il necessario per organizzarne la pubblicità. RU ben ricordava quanto aveva sperimentato a diciotto anni, ma riteneva di avere sufficienti mezzi, adesso, per far fronte all’iniziativa. Aveva messo la

costruzione di Villa Colletto nelle mani di Cappetta e da quel punto era abbastanza coperto dai mutui assunti con le banche di La Spezia. Al contrario la rivista poteva divenire uno strumento che desse anche reddito, e che veicolasse anche le sue idee, sull’urbanistica e sull’architettura. I primi sei o sette mesi da quando aveva segnalato ai colleghi che avrebbe colto lui quella ghiotta occasione, trascorsero in colloqui, tramite Favrin, con la Tipografia Antoniana di Padova. Poi iniziò il lavoro vero e proprio, di redazione. Ed esso era interamente condotto da RU, negli uffici pubblicitari della zia della Vanni, che erano poi a casa loro, di fianco all’abitazione. Quando Maria Grazia e il suo fidanzato, che aveva cominciato a giocare a calcio nella stessa squadra di RU, gli avevano descritto della Società pubblicitaria della zia della Vanni, avevano un po’ ingigantito la dimensione di questa Società ... familiare, che soprattutto si interessava di distribuire casa per casa i vari volantini, e non aveva alcuna esperienza pubblicitaria. Questa però era dell’Alberti e di un suo collega, che erano esattamente addetti alla pubblicità raccolta dalla Opus Proclama, che aveva gli Uffici – costosi – in via Pirelli, nel palazzo di fianco a quello del Cimep. RU si rese ben conto che doveva praticamente anche strutturare lui un qualcosa che soprattutto dipendeva da Alberti e dal suo collega, che – lavorando per l’Opus Proclama, avrebbero proposto la pubblicità anche su questo nuovo mezzo, dando così modo a Romano di non avere tutte le spese relative a loro due, già coperte dal loro posto di lavoro dipendente. Le cose andarono così avanti senza che vi fossero spese, e intanto RU cominciò a lavorare presso quegli uffici. Quando si ritrovò che il suo alloggio in via Lattanzio si era reso disponibile, poteva cogliere finalmente l’occasione per trasferirvisi. E ci provò. Ma Giancarla era troppo più comoda per andare al lavoro vivendo a non molta distanza da Porta Ticinese, da ove partivano i tram per Corsico. Era troppo ancora servita in tutto dalla sua famiglia, che la liberava da ogni disturbo di cucinare e tenere in ordine una casa, per cui gli rispose che dovevano avere pazienza, e aspettare che finalmente divenisse mamma, prendesse l’aspettativa dal suo lavoro, e solo allora si sarebbe trasferita. Alquanto contrariato, RU allora trasferì la preparazione della sua rivista a casa sua, in via Lattanzio e strutturò un ufficio assumendo anche chi lo gestisse; lo chiese a Maria Grazia, che di mestiere già era una segretaria, batteva a macchia e si era coinvolta, assieme ai suoi zii, e lei accettò, licenziandosi dalla Opus Proclama; poi fu assunto Fabio Cozzi che con Alberti organizzava la raccolta pubblicitaria. Intanto una parte di Villa Colletto era stata presa in affitto dai due ciellini abitanti in zona ticinese e che partecipavano agli incontri in casa di Don Angelo. Il sacerdote ormai si era totalmente rimesso in sesto da quella botta in testa che gli avevano dato tempo prima, e che aveva richiamato RU a farsi vivo, lui ciellino, con


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il gruppo di Comunione e Liberazione vicino a casa sua e che non aveva mai prima frequentato. IL SUCCESSO DI BENITO AMODEO NEL VOLER ESSERE PADRE Essendo R-U-BEN totalmente antitetici, a tutta questa dimissione da parte di RU delle sue posizioni personali, corrispose la totale assunzione da parte del fratello. Mentre lavora ancora in ITALCEMENTI, nel 5 maggio, mentre il fratello RU si sente dire NO alla proposta fatta agli Architetti dell’Ordine di mettere pubblicità sul Bollettino e CREA un prodotto culturale, decidendo di pubblicare ARCHITETTURA E PIANIFICAZIONE, il suo alter ego, BEN riesce a rendere feconda sua moglie Mirella. Nessuno lo ha mai saputo ma la data precisa in cui ciò avvenne fu il 5 maggio, assecondando esattamente quello che era stato con la generazione di Romano, concepito il 4 maggio e generato il 25 gennaio. Il 1°genito del secondo a Romano avrebbe totalmente assecondato il 1°, in una fecondazione avvenuta il dì dopo e in una nascita reale anche prevedibile il dì dopo la nascita il 25 gennaio di lui, dopo 266 giorni trascorsi nel grembo materno. E – data la presenza Una e Trina dello Spirito Santo di Dio sul – anche Benito avrebbe avuto un successo Paterno Uno e Trino. Poiché in questo caso tutto si sarebbe svolto in 333 giorni messi in relazione al Natale di Cristo, la mediazione del Dio=10 sarebbe stata di 5 giorni, e sarebbero nati due gemelli il 20 dicembre, quanti tutto il moto 328, di 5 giorni in 333. Non l’avrebbero fatto per questo riferimento a Romano, ma il 1°genito di Benito si sarebbe chiamato come il 4° nome di Romano, quello della sua realtà della Conversione di San Paolo il 25, rispettata anche per chi sarebbe nato il giorno 26. I nomi dei due gemelli sarebbero stati come il primo apostolo di Gesù e il primo seguace di san Paolo: Andrea a Marco. Anche il 1°genito di Benito sarebbe stato tolto di mezzo nel suo primato. Pertanto sarebbe stata una femmina, chiamata Paola. Essa avrebbe fatto perdere il primato del cognome Amodeo ai suoi figli, ma avrebbe mantenuto quello del nome PAOLA, però privata della sua A, per cui in vita sua si sarebbe legata in matrimonio ad un POLA. Edoardo POLA il terzo, farà grandi cose. E do A.R. dopo la... morte di A.R.

1975

R-U-BEN il 25 gennaio e il 17 febbraio ebbero 38 anni il nato nel 38 e 35 il nato nel 41. Mentre il 1° rinacque in un prodotto culturale, il 2°, che lavorava all’Italcementi, fu in festa poiché il 26 gennaio era nata la sua primogenita Paola. SEGUIAMO PRIMA LA NASCITA DA RU. Nonostante tutta l’incredulità del Consiglio dell’Ordine, la rivista A e P venne alla luce, nel gennaio del 1975 ed era anche bella... in complesso! Allo stesso TG1 essa fu presentata, come la novità che riguardava il milanese, cogliendo l’occasione per far presentare dall’architetto Amodeo, il suo direttore e editore, anche il Piano di intervento CIMEP per la Città di Milano, in relazione a tutta l’edilizia popolare in zona di recupero. Chi aiutò Amodeo a farlo fu l’Assessore all’Urbanistica del Comune di Milano, Antonio Velluto, che era anche un consigliere del Cimep che aveva molta stima di Amodeo e per natura era molto attento a tutto quanto accadesse nell’editoria. La comparsa sul TG1, in un servizio di ben 5 minuti, fu per RU un vero successo.


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Giancarla seguiva anche con un certo suo orgoglio tutta la crescita del marito, ma poi non accettava di prendervi parte, come se si vergognasse del suo stato, ma questa non è la verità; lei era fiera di quanto faceva il marito, ma voleva solo i suoi spazi d’autonomia. Era restata sconcertata per la questione di Maria Grazia e vedeva nel tentativo editoriale fatto dal marito qualche cosa in cui c’era troppo lo zampino di lei. Le cose, invece, non erano andate così. Ad una completa stima delle cose, sembrava che il destino, dopo d’avere dato tutte le occasioni, a Romano Amodeo, di congratularsi con se stesso per tutti i suoi successi, stesse ora creando le basi sempre più evidenti per un possibile distacco, che nascesse da una sostanziale delusione. RU doveva essere preparato, con molta gradualità, ad una solitudine sempre più grande, perché il suo compito sarebbe stato unico, personale e irripetibile. Anche per questo Dio non volle dargli dei figli. ORA LA FELICE NASCITA DI PAOLA A BENITO E MIRELLA EREDITA’ DI DISCENDENZA ANCHE A RU-BEN Non RU, BEN ebbe quel dono il 26 gennaio 1975, il giorno dopo in cui RU aveva compiuto i suoi 37, a BEN, che ne aveva 34. Nacque Paola, subito dopo il 25 gennaio di RU, così come BEN era stato concepito poche ore dopo la rinascita di RU. Il Nome, Paolo era il quarto nome, quello della realtà, di Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo. In tutto questo c’è il segno di quella cosa sola che riguardava i due fratelli. Erano due, ma RUBEN era uno solo ed era il primogenito di Giacobbe che come tutti gli autentici primi la Storia Sacra ha sempre trasceso, in ragione del loro vero primato posto nel lato trascendente, e visibile solo in quello reciproco. Paola era figlia di entrambi, proprio per il loro essere un tutt’uno. Abitavano in una casa prossima alla Chiesa di santa Francesca Romana, a Milano. Grande tra gli Amodeo! Tanta fortuna a Paola!

GESTAZIONE DIFFICILE NEL PARTO DI RU: AeP. Senza capitali, per RU la gestione di A e P si rivelò molto più difficile del previsto. Inoltre, l’Italia stava per attraversare una crisi che sarebbe durata anni e che sarebbe divenuta sempre più grave. Il Paese aveva superato il momento gravissimo del terrorismo, ma c’era, in tutto il mondo, una paurosa recessione che si ripercuoteva anche in Italia. L’inflazione galoppava al 20% e tutte le aziende cominciarono a spendere per fare scorte, essenziali, spendendo capitali enormi. Per gli stampatori conveniva comperare la carta l’anno prima e usarla l’anno dopo, quando sarebbe costata il 20% in più comprarla. Altra scelta in atto era quella di ridurre al minimo tutte le spese superflue. La prima che tutti ridussero riguardò la pubblicità, che restò solo sugli strumenti di collaudata efficacia. Far mettere pubblicità, su A e P, si rivelò così difficile che RU si convinse che era meglio non provarci più e puntare tutto sulla diffusione del mensile. Con campagne promozionali e iniziative coraggiosissime bisognava far sì che i lettori si abbonassero. L’abbonamento postale era il solo modo per ricevere A e P. Non poteva uscire in edicola: era un rivista troppo specialistica e tecnica e ci sarebbe stato un reso, così alto, che avrebbe superato il costo della distribuzione. La conseguenza, per Amodeo, fu che RU cominciò a conoscere terribili finemese, in cui si concentravano tutte le uscite e doveva pagare gli stipendi. Fu proprio allora che la Provvidenza, in cui lui confidava, gli mandò un’offerta strabiliante: 180 milioni di lire, se vendeva il suo appartamento, in Via Lattanzio, in cui non ancora abitava. Sarebbe stata la soluzione a tutto il suo problema, poiché avrebbe abbattuto quasi completamente tutta la sua esposizione con le banche. Avrebbe potuto agire di testa sua e senza chiederlo a Giancarla. Infatti il loro accordo tra loro, fatto subito dopo le nozze, era che ciascuno agiva nel proprio ambito, e quella casa era stata comperata da lui, coi proventi del suo lavoro. Lui aveva dato a sua madre l’importo per l’acconto necessario a comperarla. Invece volle interpellare Giancarla. Lei coinvolse del problema la sua famiglia, in cui vivevano lui e lei. Via Lattanzio era il luogo in cui si sarebbero dovuti trasferire da via Vetere, nel momento opportuno. La mamma di Giancarla intervenne: «Vuoi togliere a tua moglie la sua casa?» Le cose non stavano interamente così. Lo disse a Giancarla, che si era troppo esposto, costruendo a Nicola, e che solo quella soluzione mandata veramente dal cielo, lo avrebbe tolto dalle difficoltà. Ma


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metteva la cosa nelle sue mani. Che però lo sapesse e se l’appuntasse bene nella memoria: se non vendevano quel bene, egli non le garantiva più di riuscire a farcela. Era un azzardo di cui lei si doveva rendere conto. Giancarla – a quel punto – decise di correre il rischio, sapendo bene che RU ce l’avrebbe potuto fare solo se aumentava il suo reddito. Poiché il solo stipendio al Cimep non gli bastava. Il primo numero d’A e P, stampato a Padova dalle Arti Grafiche Antoniane in 8.000 copie, costò 8 milioni che, secondo gli accordi, avrebbe pagato solo sei mesi dopo, in modo che prendesse, nel frattempo, il cosiddetto giro. Fu composto interamente a Padova, in fotocomposizione e risultò che quasi il 50% del costo derivava dalla fotocomposizione e dall’impaginazione grafica. Qui a lato è con Giancarla e con Favrin, che ne curò la grafica. Quando si arrivò alla fattura, si ritrovò una maggiorazione del 10% che saltava fuori all’improvviso e non aveva giustificazione. Mise alle strette Favrin, e lui gli confessò che era una percentuale che lui doveva alla zia di Maria Grazia, come provvigione, per essersi servita di lui. RU ci rimase molto male. I suoi “soci” erano proprio così poco soci che non solo lo avevano reso unico titolare e responsabile dell’impresa di A e P, ma anche ci volevano guadagnare sopra il 10%. Disgustato, RU abbandonò quel locale presso quella Ditta di consegna a domicilio di volantini, e trasferì tutto, in casa sua, a Via Lattanzio, una volta che si era deciso a non venderla. E la mutò in parte in un ufficio vero e proprio, che doveva avere il personale e quant’altro, affinché potesse produrre anche reddito . Si attrezzò d’una Composer dell’Ibm, che scriveva in caratteri tipografici usando la pallina, su un supporto molto simile al Topalar, che ben conosceva, e che poteva essere usato al posto delle pellicole.

RU aggiunse così chi battesse i testi, affiancandoli a Maria Grazia, Fabio e Gabriele, che curavano la pubblicità e gli aspetti gestionali e commerciali della ditta. Anche Romano batteva forsennatamente sulla tastiera! Egli che già scriveva, personalmente, tutti gli articoli: d’una rivista che pubblicò 48 pagine nel primo numero, più la copertina. Iniziò – finalmente! – ad aiutarlo anche sua moglie Giancarla. Fin dal secondo numero, infatti, lei è elencata tra i collaboratori. Le pagine d’A e P erano divenute 64 di testo, più 16, esterne, tutte a colori e piene di pubblicità, in gran parte regalata, a chi regalasse, a sua volta, abbonamenti agli architetti loro clienti. In marzo uscì un numero doppio, 3-4, di 52 pagine e 4 di copertina a colori. Il grosso scoop ci fu in quei mesi. Milano stava discutendo sul suo Piano Regolatore Generale e – quando ci fu la presentazione per la prima discussione in pubblico, alla Sala della Balla del Castello Sforzesco – Amodeo aveva realizzato un manifesto che riproduceva, a 4 colori, la grande planimetria affissa al tavolo degli Amministratori! Roba da Premio Pulitzer! Aveva messo alcune ragazze ad offrire il grande manifesto, leggibilissimo, a tutti i presenti che si abbonavano al suo mensile. Fu un successo strepitoso perché moltissimi architetti, per avere l’anteprima assoluta del Piano, si abbonarono ad Architettura e Pianificazione in Lombardia. Ci fu anche chi osservò: “Ma questi qui come si permettono? Chi li ha autorizzati!” RU spiegò che era un vero servizio fatto all’informazione, roba da premio Pulitzer per davvero! Nel maggio 1975 al gruppo delle dattilografe s’aggiunge Giusy Fiadino, la moglie del suo fratello-cugino Gennaro. Il mese dopo si aggiunse Franco Provenghi. Nel novembre arrivarono Anna Cordara e Cristina Volpini. In tutto uscirono nel 1975 nove numeri. La grossa delusione, per RU, fu suo padre, Luigi Amodeo, Direttore Didattico negli ultimi 20 anni della sua vita. Era andato in pensione nel 1975, dopo avere iniziato come insegnante nel 1935. Per tutta la giovinezza aveva desiderato di scrivere e


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pubblicare novelle sui giornali dell’Italia e, ora che aveva un figlio editore e direttore d’una rivista, apprezzata e qualificata nell’ambiente degli architetti, lo lasciava solo. La sua redazione era ora situata nel palazzo di fronte a quello in cui egli viveva, e suo figlio aveva un terribile bisogno di collaboratori in gamba come lui, e inopinatamente egli non partecipava e lo lasciava solo, del tutto in balia della sua personale... capacità. (Ma ne aveva, veramente, Amodeo?) RU aveva cercato di coinvolgerlo in tutti i modi. Ma il padre, che anni prima aveva cercato e trovato tutte le occasioni per essere il primo tra i compagni dei suoi figli, ora aveva rifiutato d’accorrere in suo aiuto, proprio ora che suo figlio ne avrebbe avuto moltissimo bisogno. Luigi Amodeo sapeva molto bene, infatti, come egli stentasse. Il suo primogenito non si avvaleva di giornalisti, sarebbero costati troppo. Tutti coloro che si aggregavano ad A e P erano ragazzi da costruire come forze di sussidio: dattilografi, impaginatori. Egli li stimolava anche a produrre documentazione, ma non ne erano capaci. Così RU, nel giro d’un anno, aveva dovuto scrivere da sé i testi di tutti i servizi, per oltre 500 pagine complessive. Un lavoro pesante, ma non impossibile: la Rivista puntava alla documentazione, perciò molti testi erano documenti prodotti da Enti, gruppi, singoli. Sul primo numero di A e P fu indicato chiaramente il programma di documentazione e RU iniziò dalla struttura del CIMEP e dal suo modo d’operare, stabilito dalle leggi, i cui testi furono riportati. Tra la pubblicità c’erano le ditte costruttrici di Villa Colletto, come l’impresa Silvio Silvano Cappetta, Mana, falegnameria artigiana, Pastine Silvano, l’idraulico, Lorenzini l’elettricista. Nella pubblicità della Cellubloc ci fu una foto in cui fu presentata una truppa

straordinaria di costruttori che stavano usando i blocchi: Silvano, Franco, Zuì con l’aggiunta di Giancarla, nel gesto d’impalare, Renata, in quello di misurare una parete con il metro da carpentiere, e il marito, Sergio, nel gesto di sigillare i blocchi d’una parete. Come mai Luigi Amodeo non aiutò suo figlio?! Il suo destino lo doveva mutare alla fine della sua vita in un creatore di Radio – il dio RA – e in un falegname, poiché di fatto era un nuovo San Giuseppe. Infatti si era dedicato a due nuove passioni: la radiotecnica (costruendo radio e televisori dopo che aveva frequentato per corrispondenza la Scuola Radio Elettra, di Torino), e la falegnameria (acquistando banco di lavoro, morse, frese, pialle, colori mordenti, lucidi, insomma ogni cosa che fosse utile a quello scopo). Solo anni dopo lo avrebbe appreso, da sua cugina Barbara, che allora abitava con i suoi genitori: egli si era convinto che RU aveva fatto tutto quel cambiamento solo a causa delle sottane di Maria Grazia Vanni! Romano invece pensava che probabilmente il padre non volesse incoraggiarlo, in un’impresa che non condivideva perché, secondo lui, non prometteva nulla di sicuro nel reddito. Come faceva il figlio a voler lasciare un posto sicuro e importante come quello che aveva al CIMEP, al massimo livello della pianta organica, per dedicare, com’egli diceva, la vita a quei quattro ragazzi che lo derubavano del suo futuro? Tutti questi giudizi logoravano chi li udiva e avrebbero logorato anche RU, se non avesse capito, fin dal principio, che egli non si sarebbe dovuto aspettare nulla, in cambio di quello che avrebbe fatto: nemmeno la riconoscenza di quanti avrebbe beneficato. Quei ragazzi che lavoravano per lui, non ne avevano. Non si davano da fare come faceva lui. Anche Gabriele, che avrebbe dovuto procurare pubblicità e che viveva di quello, non cavava ragni dal buco e tuttavia non si dannava l’anima. Quasi tutta la pubblicità apparsa su A e P – anche quella! – era venuta per l’interessamento di RU stesso anche in questo settore. Inoltre erano cominciati dissapori tra Gabriele e Maria Grazia e le cose, che non andavano bene tra loro, si ripercuotevano sul lavoro di Gabriele per A e P. Ad un certo punto litigarono in un modo così sonoro che Gabriele sparì. Giancarla – almeno lei! – si era finalmente avvicinata al mondo del lavoro del marito! Ora qui avrebbe potuto avere un posto di rilievo, quello che avrebbe desiderato, ma non si fidava e continuava a restare legata alla Norton di Corsico. Le sue prestazioni avvenivano la sera. L’ufficio era in quella che doveva essere la loro casa, per cui, andando là ad aiutare il marito, aveva l’impressione di stare a casa sua.


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Cominciò a venire in aiuto anche Luigi Luccini. Era un turno serale che si rivelava spesso necessario ed indispensabile a coprire alcune necessità. Si eseguivano lavori assunti per conto terzi, che potevano essere fatti con la Composer IBM. La loro amica Neda Giannetti aveva una copisteria che si avvaleva tutta di quelle macchine. Giancarla, che non capiva né condivideva la necessità che uscisse la Rivista, era convinta che vi potesse essere utilità nel lavoro di battitura per conto terzi, proprio come faceva Neda. .I tre erano ancora lì e Valeria, collega della Norton, telefonò affranta: “Mi ha piantata. Ma perché non vado bene mai a nessuno?” Valeria era una collega di Giancarla e di Luigi Luccini, che era divenuta anche una comune amica di RU, come Umberto, che l’amava da anni in silenzio. Questa donna assumeva, specie con costui, l’atteggiamento supponente di chi la sa lunga, mentre, all’atto pratico, era quasi del tutto acerba nelle relazioni con l’altro sesso; era una che, per quanto adulta, ancora praticamente ignorava cosa fossero amore e corteggiamento. Quell’atteggiamento, di chi si tiene su, intimoriva Umberto e lo bloccava. Un giorno si era presentato a lei un dirigente d’azienda, un certo Giorgio che lei neppure conosceva, un tipo ricco, che viaggiava in Porche e che era restato vedovo. Aveva una figlia e cercava una compagna adatta a che le facesse da mamma. Saputo di lei, le propose di sposarlo, perché sua figlia aveva bisogno di una come lei. Questa donna, messa di fronte ad una cosa così particolare e inattesa, sentitasi all’improvviso lusingata, aveva molto sorpreso tutti, accettando. Avevano cominciato a frequentarsi e lei aveva già iniziato ad assumere, con la bambina, gli atteggiamenti dell’educatrice. Così, quando il padre domandò alla figlia se la gradiva, lei gli fece capire che voleva una mamma e non una maestra ed egli, senza pensarci due volte, le aveva telefonato dandole il benservito, pochi minuti prima che lei avesse telefonato in Via Lattanzio, dove sapeva che i suoi amici erano al lavoro, anche a quella tarda ora. Era sconsolata e chiedeva conforto. “Ma come nessuno ti vuole? – le osservò RU – Sono anni che Umberto sta morendo, poveretto, per te! Dimmi, come l hai trattato? Non te l’ha mai detto?”

“Si, molti anni fa, forse, ci si provò e io mi misi a ridere. Poi niente più.” “Ascolta me: vieni in gita con Umberto, me e Giancarla domani che è domenica? Umberto ancora non lo sa, ma quando saprà che ci sei anche tu credo che verrà senza dubbio! Bene, se vuoi dargli un poco di coraggio, mentre sei nel posto indietro in macchina con lui, io ti consiglio di fare una semplicissima cosa, e credo basterà: poggia la testa sulla sua spalla.” Valeria non commentò e rispose che sarebbe venuta. Il mattino dopo anche Umberto acconsentì e la gita ci fu. Ad un certo punto RU, guardando nello specchietto retrovisore, vide che il capo di Valeria era poggiato sulla spalla d’Umberto e pensò che era fatta. Infatti! Si sposarono appena tre mesi dopo. Con l’avvicinarsi dell’anno nuovo e tutti i soggiorni che vi aveva fatto lavorandovi di sera, e il sabato, e la domenica, a Giancarla era finalmente venuto il desiderio di vivere in quella sua casa, e finalmente vi si trasferirono.

Avevano avuto a disposizione, e sfitto, quel grande appartamento di 150 metri quadrati per oltre tre anni, e sempre lei aveva preferito restarsene a casa con i suoi, dove era vicina ai pullman per Corsico e dove, soprattutto, aveva chi la servisse di tutto punto: la brava Pina.


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Temeva la difficoltà del tragitto tra Via Lattanzio e Corsico. Avendola sperimentata ed avendo visto che tutto sommato non era una grande impresa, aveva rimosso l’ultimo ostacolo. Due o tre Anni dopo anche Benito venne in Via Lattanzio 16, in un appartamento regalato a lui e a Mirella dal suocero. Così RU decise di cambiare sede alla sua ditta; trovò in Via Colletta al 65 un ufficio idoneo e lo prese in affitto. Pose anche mano a completare l’arredamento in Via Lattanzio. Goffi e Boraso, i falegnami che confinavano con il bar dei coniugi Scaglioni, erano stati già incaricati dei lavori. RU aveva fatto realizzare, su suo disegno, le travi che reggevano una grossa porta scorrevole in legno. Anche tra l’ingresso e l’anticamera, era stata istallata una porta scorrevole. In quell’appartamento c’era un soggiorno gigantesco, triplo, in cui uno dei vani poteva essere usato a studio e separato momentaneamente attraverso la chiusura della grossa Modernfold, che attraversava tutto il locale. Stava per finire, per

Amodeo, l’anno d’aspettativa che aveva avuto ed avrebbe dovuto scegliere se rientrare al CIMEP o dimettersi definitivamente. Anna e Gino Amodeo decisero d’immischiarsi e si misero in contatto con Barbara, la figlia della sorella, Giovannina, che a Salerno si era diplomata maestra d’asilo e stentava a inserirsi in strutture pubbliche, guadagnando pochissimo nelle poche occasioni che trovava un’occupazione. Le scrissero chiedendole se avrebbe avuto interesse a venire a Milano. Avrebbe vissuto con loro ed avrebbe aiutato RU. Per le questioni economiche se la sarebbe visto lei con il cugino, ma egli certamente le avrebbe dato molto di più di quello che guadagnava a Salerno. Lei acconsentì e i genitori affrontarono l’argomento con il figlio. A lui stava benissimo. Romano giunse a sperare che avrebbe trovato in sua cugina Barbara una persona di cui si potesse fidare interamente, così concluse che poteva rimandare a dopo la sua scelta di rinunciare per sempre all’Ente pubblico. Poteva rientrare nel CIMEP, allo scadere dell’anno d’aspettativa. Un giorno Maria Grazia Vanni si confidò con RU che tra lei e Gabriele le cose si erano incrinate soprattutto perché l’allenatore di Lei, un ingegnere, era diventato sempre più significativo ai suoi occhi. Gliene parlò a cuore aperto e gli domandò consiglio. RU cercò di capire che cosa lei volesse. No, Gabriele era ormai lontano dalla sua mente, lo considerava solo un bamboccio immaturo e capriccioso e assicurava che tutto era veramente finito tra loro due quella volta in cui egli aveva cercato di sequestrarla e di prenderla con la violenza. Era Giorgio Cortellezzi il suo ideale, ma non sapeva indurlo a dichiararsi a lei. Giorgio era conosciuto da RU, perché più d’una volta aveva parlato con lui dei metodi d’allenamento di Maria Grazia in salto in lungo, una pratica alla quale lei si era appassionata e che le dava anche qualche soddisfazione. Romano non le anticipò niente, ma il giorno dopo andò a cercare Giorgio e lo trovò al Giuriati. Non gli disse d’essere andato lì apposta ma, parlandogli come per caso, gli domandò lo stesso e senza mezzi termini che cosa ne pensasse di Maria Grazia. Gli spiegò che s’era accorto di come egli guardasse e trattasse in un modo speciale quella sua dipendente; non certo come si fa con una propri atleta ... Come mai allora non le diceva niente? Giorgio rispose che non dipendeva da lui, che era lei che non gli sembrava molto chiara. Allora RU gli fece capire che lei sentiva molto per lui, ma era anche sconcertata dal fatto che lui non l’avesse mai invitata a casa sua, a conoscere sua madre. Il giorno dopo Maria Grazia era esultante. Appena vide RU gli rivelò che Giorgio l’aveva finalmente invitata a casa sua.


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NASCONO DUE GEMELLI A BENITO E MIRELLA. E COME IN GENESI 25, UNO HA SERRATO IL CALCAGNO DELL’ALTRO Benito lavorava ancora in Italcementi. Il 20 dicembre dello stesso anno Mirella partorì ancora una coppia di gemelli, che furono chiamati Andrea, il primo dei due, e Marco, il secondo, che uscì con i segni precisi, descritti in Bibbia, in relazione ad Esaù, che era stato trattenuto al calcagno dalla mano di Giacobbe. Infatti il bimbo aveva il calcagno così deformato che il difetto fu presto eliminato con un intervento chirurgico. Come Paola nacque un giorno dopo RU, così i due gemelli 5 giorni prima di Gesù Cristo. Nati 10 mesi, 3 settimane e 3 giorni dopo, nel segno di 10 e 33. In giorni la distanza è di 328, nel segno di 300 più tutto il rapporto di curvatura 7, uno e trino, dato da 7 sommato a tre volte 7. Riferito al valore 381 di tutto il moto (che poi è il valore numerico di tutto il nome di RU) indica il movimento di 53 giorni in esso, che sono il 16° numero primo indicante quello corrispondente a tutta la carica 4×4=16 di tutta la realtà. Questi gemelli staranno a Paola (la primogenita) come i due gemelli di Esaù e Giacobbe stettero alla discendenza venuta prima da Agar e Abramo, tramite Ismaele. Paola, sposandosi, perderà il suo cognome Amodeo, per la sua prole. Ma quello che contava in lei era il suo nome PAOLA, più del cognome (per i suoi riferimenti allo zio PAOLO RU), e la sua prole perderà la primogenitura, nel modo stesso di Esaù. Essa perderà la stessa a=1, e PAOLA si sposerà ad un POLA, che rispetto a lei difetta sella A, come lo difettò ASAU, che divenne ESU’, accodandosi alla primogenitura G di Giacobbe per dar luogo a G+ESU’. Alla sua prole, che si chiamerà PaOLA senza la a, POLA, accadrà come all’eredità di ESAU.

1976

Benito lavorava sempre all’Italcementi mentre RU, nel gennaio del 1976, trasferì la nuova sede della rivista, da Via Lattanzio, in Via Colletta, al n. 65, a duecento metri di distanza. Era un grosso locale con un’anticamera e un bagno, al piano seminterrato d’una casa di civile abitazione. Barbara Baratta era arrivata da Salerno, RU si apprestava a rientrare nel CIMEP. Così si presentava la situazione quando uscì il primo numero del secondo anno di A e P. Nella grossa sala RU aveva ricavato una camera oscura e trovavano posto, oltre al tavolo luminoso, le prime tastiere della fotocomposizione. Le macchine di fotocomposizione stavano facendo ovunque il loro ingresso, lento ma trionfale, conquistando tutti i mercati specializzati alla stampa. Costavano un occhio della testa e non era nemmeno pensabile che una simile attrezzatura potesse servire a tradurre in materiale fotocomposto il lavoro d’una o due tastieriste. Per quanto veloci potessero essere, il costo a battuta sarebbe stato troppo alto. Su cinque posti di scrittura, il discorso cominciava ad essere commercialmente valido. Le prime tastiere che furono acquistate erano cieche, a nastro perforato; bisognava scrivere senza nemmeno vedere che cosa si scriveva. Poi c’era una macchina che leggeva il nastro, lo visualizzava e correggeva, perforando un nuovo nastro.


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Le novità del 1976 – oltre Barbara Baratta – furono Linda Borroni (che era stata, con Maria Grazia Vanni, in quell’ufficio della Opus Proclama di fronte a RU, quand’egli era nel CIMEP), Giorgio Cortellezzi e RU che dopo l’aspettativa rientrò nel Consorzio. Linda era ella pure un’atleta, bionda, bella ed aitante, anche se dal corpo più tozzo di quello di Maria Grazia. Una volta che RU si cimentò con loro, le due gazzelle, con la loro lunga falcata e la spinta che davano ad ogni passo, staccarono facilmente lui, che aveva dieci anni esatti più di loro due, ma, soprattutto, il passo corto che era caratteristico di tutti i calciatori, come sostennero loro, forse per giustificarlo. L’entrata di Giorgio, in redazione, non fu come dipendente. Giorgio era un ingegnere, aveva il suo lavoro, ma ogni tanto ora veniva a dare una mano alla sua fidanzata ed all’assente RU, che era rientrato al CIMEP. Intanto Deitinger gli aveva presentato Marilena Fraschini, una sua collega in gamba che avrebbe potuto essere l’anima di una cooperativa di produzione e lavoro, se la fondavano e usava i macchinari da fotocomposizione della Ditta Romano Amodeo, che si era accollata i relativi pesanti Leasing. RU giudicò la proposta molto interessante. Poiché era suo vivo interesse aiutare i giovani a trovare un lavoro, ma la sua ditta personale era appesantita dei suoi debiti, sarebbe stato facile, secondo lui, lo sviluppo cooperativo se alla sua base non vi erano doverosi investimenti di macchinari, ma solo le ore del necessario noleggio, costi che però c’erano solo quando c’era il lavoro a giustificarli. RU sarebbe stato così aiutato a pagare le macchine, scaricando una parte dei costi relativi alle ore in cui la cooperativa avrebbe fotocomposto i suoi lavori. Così assieme a Giancarla, Deitinger, Luigi Luccini, Marilena Fraschini crearono la Cooperativa Astralon, di produzione e lavoro. E Marilena fu la prima che iniziò – non come dipendente ma come socia – a usare le strutture installate in Via Colletta. RU rientrò negli uffici di Via Pirelli intorno al marzo del 1976. Tornò in contatto, quotidiano, con Daniela Forlin e le svelò che non riusciva a portare a pieno avanti il suo

impegno di testimonianza nella fede, specie ora che era rientrato nell’Ente. Le persone erano come abbandonate a se stesse, senza esempi che fossero significativi sotto il profilo del cristianesimo inteso alla Comunione e Liberazione. Ci sarebbe voluto, oltre lui, almeno un altro ciellino. Daniela propose sua sorella Anna, che divenne presto una vera pietra viva della Ditta, con il suo esempio. Con il rientro nel CIMEP, il dado, almeno per il momento, era stato tratto, ma chi adesso doveva veramente fare i numeri era proprio RU. Non ce la faceva – lavorando altrove – a preparare i servizi per A. e P. Così preparò un numero doppio per il gennaio-febbraio ’76; poi uno normale, il n. 15, del marzo, e fu costretto a pubblicare ancora un numero doppio per l’aprilemaggio, il 16-17. Sulla sua copertina riprodusse la fotografia di Paola, la sua nipotina che era nata il 26 gennaio dell'anno prima, a Benito e Mirella. Paola aveva in mano una copia d’Architettura e Pianificazione e di fianco c’era la scritta “Sedici mesi e tanta volontà di crescere”. Paoletta, nata assieme a questa rivista, crebbe, ma A e P s’impiantò in quell’esatto momento e non riuscì più ad uscire, nonostante fosse stato preparato e in più di un’occasione, il numero successivo. Infatti una dipendente del CIMEP, Daniela Brovidi, in aspettativa, tentò di dare una mano, preparando, sotto la guida di Amodeo, la base del numero successivo, già interamente sistemato, sia nei testi, sia nelle foto, ma esso non fu fatto stampare e così fu decretata la fine di A e P. La causa di questa scelta fu un’ennesima svolta che Il Nostro volle dare a tutta la situazione: A e P era diventato un fior all’occhiello che portava via a lui ormai troppo tempo. La sua azienda aveva cominciato a dare vero lavoro alle persone, macchine costose erano state acquistate in leasing, ed occorreva un lavoro che fosse remunerativo il più possibile.


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In questa situazione, nell’incertezza se cessare o no di lavorare nell’Ente pubblico, bisognava che le persone si abituassero ad un lavoro quanto più possibile metodico, automatico ed indipendente da quello che avrebbe fatto Amodeo. Non che egli fosse entrato in crisi e stesse facendo marcia indietro rispetto ai suoi obiettivi. Tutt’altro. La rinuncia ad A e P lo toglieva da un ruolo di rilievo, perché avrebbe cessato d’avere voce in capitolo nel campo della cultura architettonica ed urbanistica. Presagendo come presto o tardi si sarebbe licenziato dall’Ente e si sarebbe dedicato interamente alla sua azienda, la rinuncia a pubblicare A e P avrebbe significato il definitivo abbandono d’un campo, l’architettura, per prepararsi al quale aveva speso addirittura 12 anni della sua vita. In quei mesi Maria Grazia Vanni sposò il suo Giorgio Cortellezzi e si licenziò. La Vanni fu, nella storia del Nostro, una ragazza, molto importante, che entrò nella sua vita, riuscendo tutto sommato ad avvicinare tra loro – solo un pizzico in più – Romano e Giancarla. Fu una persona che aveva avuto molta fiducia e s’era licenziata dal suo posto alla Opus Proclama per seguirlo; aveva tentato d’acquistare uno dei suoi alloggi al mare ed era stata aiutata a trovare, infine da lui, la sua giusta collocazione, di fianco a chi amava e stimava: il suo Giorgio Cortellazzo. La Vanni, restata a contatto con RU per circa V anni, gli fu recisa secca dal coltellaccio di San Giorgio, solitamente famoso solo per la sua spada, quando si trasferirono da Milano un paio d’anni dopo. Quell’estate Romano e Giancarla andarono a Nicola in casa loro, poiché i due coniugi ciellini che l’avevano affittata, l’avevano fatto solo per un anno. Luigi Luccini e Silvana furono ospiti, nella stanzetta vicino alla piscina. Quella casa, anche se non ancora finita, per lo meno, era abitabile. La piscina sulla terrazza, voluta da RU, non era stata ancora attivata, anche se erano stati posati i rivestimenti in lana di vetro che impedissero il passaggio dell’acqua nell’appartamento sotto dei coniugi Unito. Andarono anche, nell’ultima settimana del mese, tutti e quattro al Meeting di Comunione e Liberazione. RU frequentò, mentre sua moglie e i suoi due amici parteciparono molto di sfuggita a quella che era la più grande espressione, nel corso dell’anno, del Movimento. Per quanto sforzi il Nostro fece, non riuscì a coinvolgere Giancarla come aveva sperato, pur avendo lei visto quanto CL avesse giovato alla loro vita. In Villa Colletto, la Signora Raho, morto il marito Rinaldo, era già convolata a nozze con quel tipo con il quale RU aveva avuto molto da discutere, perché non aveva voluto riconoscere come era giusto i lavori fatti da Cappetta e pagati profumatamente da lui solo. Romano non aveva insistito più di tanto: se erano disonesti, peggio per

loro. Egli non aveva di che incolparsi; Rinaldo era morto e solo lui avrebbe potuto chiarire il vero a sua moglie. In ultima analisi, poi, quella sua proprietà valeva pur sempre più del doppio dell’impegno complessivo che aveva assunto con le banche. Questa era una cosa che molto lo tranquillizzava. L’azienda di grafica, per quanto vissuta dai dipendenti non con il necessario fuoco sacro di renderla prospera, non produceva né perdite né guadagni. Gli unici costi che, nell’anno, non erano pagati, derivavano dalla pura inflazione. Nel 1975 l’esposizione con le banche era di circa 150 milioni di lire. L’anno dopo, con un’inflazione del 20%, si era inevitabilmente a 180. Se la banca dava 150 milioni di prestiti, era perché riconosceva alle proprietà il valore almeno doppio di quello, ossia di 300 milioni. Questa proprietà, l’anno dopo, s’incrementava del 20%, cioè di 60 milioni, e il valore cresceva a 360, con la conseguenza di potere avere altri 30 milioni come un mutuo aggiunto. Si aveva l’impressione che i 30 milioni di debiti in più derivassero dalle perdite dell’azienda, invece erano conseguenza solo del livello dell’esposizione e dell’altissima inflazione ch’esisteva allora in Italia. Ora i costi, pagati da Amodeo, più alti dell’inflazione, erano intorno al 25%. Facendo il calcolo, partendo da 150 milioni prestati in lire e dall’incremento medio del 25% annuo, questa sarebbe la crescita dell’esposizione in 10 anni, se mai niente abbatte l’esposizione: 187 → 234 → 292 → 366 → 457 → 572 → 715 → 894 → 1.117 → 1.396, dal che si vede che in 10 anni un importo si moltiplicherebbe più di 9 volte. Lette in questi termini le prospettive sarebbero state terrificanti. Se RU non avesse abbassato questo tasso di crescita, non restituendo nulla, avrebbe retto solo finché l’inflazione si fosse mantenuta almeno a quegli stessi livelli. Dopo 10 anni sarebbe arrivato a oltrepassare un miliardo di lire in debiti, avendo però un patrimonio che sarebbe valso sempre il doppio del debito. Sembrava che così fosse. Non si vedeva in che modo l’economia italiana potesse riprendersi. Perciò RU non si preoccupava più del dovuto, nel vedere impegnato per una metà, il patrimonio immobiliare che aveva. Non era prevedibile che la sua azienda non producesse mai un reddito tale da consentirgli di restituirne almeno parte. Ciò stava accadendo allora solo poiché si era in anni di crisi.


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Romano era rientrato nel CIMEP anche per quello. Almeno così gli entrava il suo stipendio. Passato il primo momento, in cui le aziende avevano cominciato a non investire più tanto nella pubblicità editoriale, e optavano per quella televisiva, era cominciata, dappertutto, un’opera di ristrutturazione, delle ditte, al ribasso. Ogni azienda cercava d’individuare, al proprio interno, i rami improduttivi per la siccità e li tagliava: non solo settori di produzione, ma il personale. C’era ovunque una gara coi sindacati per potersi liberare di chi non produceva reddito; non s’inserivano più i giovani. Andando via da un lavoro per lui improduttivo, RU riprese a guadagnarsi lo stipendio ed esso tante volte impedì alla goccia di far traboccare il vaso. I momenti di difficoltà dei fine mese erano divenuti una costante cui si era abituato, ciononostante l’abitudine non riduceva di certo la fatica. Nel periodo trascorso al CIMEP, dopo d’essere rientrato dalla sua aspettativa, ebbe modo di riprendere tutti i contatti, con gli amici di Santa Maria alla Fontana di Via Stelvio. Riprese a pregare, di mattino e a mezzogiorno, con Daniela Forlin, Wilma Menegaldo e qualche volta Rosangela Sottocorno. Si buttò a capofitto a parlare di fede, nel tentativo di testimoniarla, con tutti al CIMEP, secondo un’opera missionaria che troppo leva faceva sulla parola, anche se non era la sua ma quella di Gesù. Poco alla volta vide, recuperata a pieno, nei suoi amici, quell’immagine che il geometra Manicone aveva deturpato. Alcuni di questi, come Onofrio Alemanno e Corrado Di Battista divennero (e poi lo furono a lungo) la mano concreta della Provvidenza, in più d’una occasione. E quel Geometra Pietro Saviello, divenuto ora Architetto studiando la sera, e dimessosi egli pure dal CIMEP, andò a cercarlo lì, nell’Ente pubblico, perché componesse e stampasse per lui il suo importante libro “Il Piano di Zona per l’Edilizia Popolare”, nel quale sviscerò l’argomento, dando agli operatori tutti i consigli tecnici per la migliore attuazione, egli che aveva fatto parte del primo tra tutti i gruppi che l’avevano gestito come libero professionista. Intanto in Versilia, al 1° piano sopra i box, di Villa Colletto, i genitori di RU avevano sistemato anche l’arredamento del loro alloggio, e vi si recavano quando volevano, ospitando anche alcune volte Benito e la sua famiglia: impegnativa, per i tre nati tutti nello stesso anno 1975. Mirella aveva molto tribolato a tirarli su nel primo loro anno di vita; lei non chiedeva aiuto, sperando che i parenti si proponessero; ma quelli non sentendosi invitati, l’attribuivano a un suo desiderio d’indipendenza. Quando – nel momento del bisogno non si chiede aiuto – si corre questo pericolo, tra persone troppo bene educate. RU, se necessitava di qualcosa, lo diceva. Così ebbe dai suoi genitori cose non date a

Benito poiché da lui non richieste, e solo per delicatezza e non perché non ne avesse bisogno. Tra persone che si vogliono bene, troppi scrupoli portano poi a ingiustizie. Nel 1970, per la prudenza sua solita, Benito, per quanto già laureato da un pezzo, non se l’era sentita di impegnarsi in un piano edilizio. Nel 76 Anna e Gino vi provvedevano, contenti di avere vicino ogni tanto i cari nipotini, ospiti della casa per loro costruita a Villa Colletto. Nella foto in alto si vedono Benito, le due mamme (di lui e dei suoi figli) e i tre bambini, di circa un anno. Furono i rari momenti in cui poterono trascorrere insieme qualche momento di vita in comune. In basso, Benito e le due mamme: sua e dei suoi figli.


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1977

Così Aldina, si aggiunse al gruppo, una ragazza piuttosto taciturna, seria, gran lavoratrice. Nonostante vi fosse un deciso sviluppo, nessuno intorno a lui, della famiglia, approvava la sua testardaggine nel continuare a tenere in vita quel gruppo. Attribuivano i debiti a quella ditta, mentre essi dipendevano dal debito da lui assunto nella costruzione di Villa Colletto. Con i soli proventi del suo stipendio al Cimep non avrebbe potuto estinguerli mai. Poteva mantenere quel livello di proprietà solo attraverso quella sua azienda, se essa arrivava a produrre un giusto reddito. Oppure poteva vendere tutto o parte di quanto aveva costruito. Ma non vi erano compratori. Barbara era divenuta un elemento importante, ma non aveva la preparazione né la voglia per essere interamente quello che il cugino desiderava fosse. Lei, da parte sua, vedendolo

R-U-BEN erano con Benito passato dall’Italcementi al CIS (in cui lavorò solo per un paio di mesi), e con Romano che restò più d’un anno al CIMEP. Lì Daniela gli propose d’assumere sua sorella, Anna Forlin, che era ben disposta ad andare fin da lui, provenendo da Seveso, come anche lei faceva ogni giorno. Anna stava cercando lavoro e si sarebbero aiutati a vicenda. Fu come il cacio sui maccheroni: Anna iniziò a lavorare, in Via Colletta, inquadrata in un primo tempo sotto la Ditta A e P di Romano Amodeo Editore, la cui contabilità, piuttosto ingarbugliata, era seguita da un pensionato, conoscente dei Luccini ed abitante in Via Antonelli. Uno dei Clienti era divenuto nel 1977 Il Sole 24 ore, che commissionava le pellicole d’alcuni libri che occorreva battere ed impaginare in fotocomposizione. RU era entrato nelle simpatie del responsabile, Gianni Maraboli, che, appena poteva, dava da preparare ad A e P libri editi da quella casa, di cui produrre le pagine, fotocomposte e in pellicola. Il lavoro per conto terzi accrebbe, sempre più, e Daniela, per aiutarne il disbrigo, propose anche Aldina Podenzani, una ragazza di Lodi che lei aveva conosciuto e che secondo lei avrebbe corrisposto ai desideri di RU: che quel luogo fosse un ambiente sano, cristiano, insomma il piccolo pezzo di mondo, nuovo e pulito, che egli desiderava realizzare.

spesso intervenire a indirizzarla, arrivava a credere che lui non volesse darle autonomia, mentre lui invece cercava solo di metterla in grado di sostituirlo. Non vedendo sé come guida, si sentiva poi come una spia della guida. Lei fremeva per il menefreghismo che vedeva negli altri, non si sentiva abilitata a intervenire personalmente con loro, né di raccontarlo a RU; poiché lo giudicava la causa stessa di quel loro atteggiamento. Cosa insegnava loro RU, quando arrivava al mattino presto, e recitava le Lodi con Anna, Aldina e Giusy? Lei lavorava. Si prega in Chiesa e non sul posto di lavoro, dove si è pagati per la produzione e non perché ci si rivolge a Dio! Altre volte il missionario veniva e profittava, di quei pochi momenti che poteva distrarre alla sua stessa presenza nel CIMEP, per promuovere Gesù anche in questioni lontane dalla religione. Non agiva bene! Dava cattivo esempio! Poi faceva conoscere sempre i suoi affari, la sua situazione d’impegno, di difficoltà? Ma perché?! Erano fatti suoi e doveva tenerseli per sé. RU aveva tentato di lanciare la rivista in tutti i modi: creando delle redazioni autonome e staccate nelle varie province della Lombardia, che fossero in grado di fare il lavoro di redazione che a lui era divenuto impossibile. Non aveva più tempo, da quando era rientrato al CIMEP. I proventi di certi lavori lunghi, come i libri, arrivavano solo ad opera ultimata, e ci volevano mesi; i costi evidenziatisi nel frattempo andavano fronteggiati. La liquidità era l’eterno problema, che fronteggiava a breve, medio e lungo termine. Nel breve era grazie all’aiuto che gli dava qualche parente o amico; altrimenti, uno strozzino. Uno di questi vendeva quadri e, se glie ne comperava uno per l’importo che gli serviva, l’uomo gli dava subito il denaro contante, in cambio di quattro assegni post-datati per un importo doppio. O comperava quel dipinto, o falliva. Poiché se fosse restato protestato per non aver voluto fare quell’acquisto, le banche gli avrebbero chiuso i conti e imposto un impossibile rientro.


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Arrivavano le cambiali date alla tipografia Antoniana, e che dopo sei mesi, mise all’incasso, anche se a un certo punto non la stampava più; lo stesso era per le rate del pagamento delle macchine fotocompositrici, e le cambiali fioccavano. Era Barbara che a fine mese correva a pagarle, quando si poteva. Altrimenti erano provvisoriamente protestate, poiché, con una procedura in Tribunale, quel protesto poteva essere immediatamente cancellato, prima che fosse definitivo. La legge sulla cambiale dava 5 giorni di tempo per la sua cancellazione, dopo il protesto provvisorio di un notaio che accertava che tu avessi ricevuto l’avviso di pagamento e non avessi voluto rispettare l’impegno. Ricorrendo a quel punto ai mezzi estremi. RU riusciva a pagare il suo debito. Si doveva portare allora l’effetto pagato al Tribunale di Milano, nella Cancelleria fallimentare. Qui si doveva compilare, su carta bollata dai diritti giudiziari, un modulo che raccontava tutti gli estremi della vicenda. Fatto ciò da Barbara – poiché RU lavorava al CIMEP – il Tribunale rimandava al Notaio che aveva elevato il protesto tutta la cronistoria con la cambiale pagata in tempo, e quegli, alla metà del mese, controllati i titoli pagati, le date in cui ciò era avvenuto e dunque la regolarità della vicenda, cancellava il protesto provvisorio che aveva emesso il 3, per un fine mese non rispettato, ed esso, non divenendo definitivo, era come se non fosse mai esistito. Ma in cambio RU aveva solo spostato il pagamento da fare, che se aveva potuto grazie a quel venditore di quadri, ora aveva raddoppiato quel suo impegno. Se invece aveva potuto provvedere solo con un giro di assegni in tempo reale fatto magari con un suo amico che abitava a Torino, la sua banca lo accettava e gli dava il contante per ritirare la cambiale in una altra banca, ma era un provvedimento che gli dava solo quei quattro o cinque giorni ti tempo che impiegava il suo assegno versato a Torino, per arrivare a Milano. Nella febbrile corsa tra gli sportelli, che poteva fare solo lui, un giorno, l’impiegato della Cariplo ubicata sotto al CIMEP, gli dichiarò che lo voleva iscrivere nel Guinnes dei primati, per il “Giro da Banca a Banca.” Quel che è peggio è che RU faceva poi brutte figure, con tutti: amici, parenti, conoscenti. Stretto dal bisogno, era costretto a chiedere, presto o tardi, l’aiuto in denaro, a tutti. Ma è chiaro: prima d’acquistare una crosta dallo strozzino e di raddoppiare la sua esposizione, ne parlava con chi forse lo poteva impedire. Non pensate – a questo punto – che fosse facile ad avere il denaro anche a usura. Chi faceva quel rischioso mestiere era chi diffidava più di tutti, e – di punto in bianco – non era per nulla facile trovarne uno. Impedire il protesto di un titolo, era fondamentale. RU faceva di tutto (cercava anche uno strozzino) per rispettare la sua scadenza, altrimenti gli sarebbe costato anche molto di più in tempo e in denaro. Ogni volta che a fine mese si arrendeva e non manteneva un impegno, le aveva veramente provate tutte, e invano: doveva ammettere a se stesso di non essere stato capace quanto sarebbe occorso. Quel tempo supplementare – quando aveva già battuto tutte le piste – che aiuto gli poteva dare?

Non aveva ormai più un santo cui potesse votarsi. Eppure il quei pochi giorni all’improvviso l’aiuto – che prima non c’era – gli veniva sempre dato, e lui lo percepiva come una mano che fosse scesa dal cielo. Barbara (nata come RU il 25 gennaio, e che qui di fianco vedete mentre spengono tutte le loro candeline sulle due torte), saputo per la prima volta d’una difficoltà come questa, che sembrava più grande della capacità di RU di superarla, telefonò senza dirgli niente alla mamma, a Ostigliano, e si fece mandare 5 milioni di lire. Fu lei stessa uno di quei tanti mezzi piovuti dal cielo. Una cosa di questo tipo si fa però una sola volta, quando si crede che sia una cosa rara e proprio inevitabile; poi essi continuano e allora passa proprio la voglia, perché ti pare che quegli aiuti non servano ad altro che a tamponare in modo provvisorio una falla impossibile da chiudere. Tutti quelli che vedevano Romano finito in questa morsa, per la carenza cronica di denaro liquido, si chiedevano chi gliela facesse fare, e anche lui non voleva certamente andare avanti in quel modo! Aveva messo in vendita i suoi beni, ma non c’erano acquirenti e allora doveva far buon viso a cattiva sorte e accettare sia la crisi, sia le continue brutte figure. Chi lo conosceva, si stupiva! Prima ci teneva molto alla sua immagine. Chi gliene parlava, per sapere come mai fosse mutato così, si sentiva investito – come risposta – dal Vangelo di Gesù. Era il Cristo che lo chiedeva non solo a lui ma a tutti. E si sentiva allora raccontare la parabola del Giovane Ricco. Lui aveva scelto la via indicata da Gesù e aveva tentato di vendere i suoi beni, ma nessuno li voleva. Li volevano forse loro? “E allora che fai? – continuava – accetti con fede quello che la Provvidenza ti manda!”... ed essa ti aiuta. Vedi queste cambiali? – e ne tirava fuori un centinaio – sono stata tutte protestate, poiché non ho potuto pagarle. Poi, nei soli 5 giorni per togliere il protesto ho potuto pagarle tutte! Quante probabilità avevo? Nessuna, eppure ho potuto pagarle tutte! Il “tutto”, il 100%, non esiste in statistica. Queste cambiali tutte pagate, amico mio, documentano veri miracoli!” Poiché tante volte era proprio Barbara a trattare con lui questi argomenti, RU le ricordava di essere lei stessa stata un miracolo della Provvidenza. “Provvidenza? – gli ribatteva Barbara – Un corno! Sono stata io! Avrei voluto vedere come la Provvidenza t’avrebbe soccorso se non t’avessi aiutato io!”


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Barbara aveva ragione, ma, nello stesso tempo, anche torto, a detta di RU: “La Provvidenza agisce solo attraverso la libera predisposizione delle persone. Non fa certo spuntare il denaro dal nulla; qualcuno deve ben mettercelo. È la Divina Provvidenza che tocca i cuori delle persone!” Le emergenze, di questo tipo, acute, venivano poco a poco appianate e risolte, prima a medio termine e poi finalmente a lungo quando RU, essendo aumentato il valore dei suoi immobili, a causa del deprezzamento della lira, riusciva ad ottenere da una Banca un mutuo aggiuntivo sui vari appartamenti che aveva. Risolti quei problemi, non c’era pero tanto tempo per respirare e ne saltavano fuori altri. Non c’era un fine mese – per lui – che non fosse stentato e tribolato. In questa situazione per Romano era difficile dover decidere quando avrebbe dovuto rinunciare allo stipendio fisso che il CIMEP gli garantiva, assieme a tutta lì importanza reale che il suo ruolo gli dava. Era, infatti, al massimo livello tecnico tra i dipendenti di ruolo, godeva d’ampia facoltà di spostarsi nei Paesi a sua discrezione, era perfino riverito dai Comuni in cui andava, perché il CIMEP erogava poi quattrini, in base ai giudizi emessi da lui. Non aveva da timbrare un cartellino. La sua funzione gli consentiva tutto ciò. Quel posto inoltre gli aveva permesso di divenire Consigliere dell’Ordine, e quasi il Presidente degli Architetti ... di Milano Pavia e Sondrio, tra provincie importanti! Soprattutto i suoi genitori cercarono, più d’una volta, di dissuaderlo dal lasciare quel posto sicuro. Fosse prudente! Pensasse alla vita! alla vecchiaia! Specialmente sua madre si raccomandava con lui in tal senso, e glie lo rammentava. Appena lei aveva potuto, aveva cominciato a pagare, mensilmente, per ottenere anche la pensione del Comune di Milano, per il quale aveva gestito per cinque anni la refezione. Si era assoggettata al pagamento dei contributi integrativi di ben 14 anni, per arrivare ai 19 necessari, per avere la pensione minima dal Comune. E a quel punto Gino, suo marito, dissentiva: “Ma goditi questi soldi! Chi ti assicura che arrivi a prenderli?” Tra Anna e Gino c’erano vere discussioni, già su questo semplice argomento; figurarsi quante ce n’erano, sullo strano e scriteriato modo adottato da RU, dal 1975 in poi, nella gestione della sua vita! Un ragazzo che aveva agito sempre di testa sua, al quale non si poteva dir nulla (tanto, se non era di quell’avviso, faceva quel che voleva!) ecco che – così all’improvviso – si mette a vivere rinunciando alle sue idee per seguire Gesù! Glie lo avevano insegnato loro due? Loro certo No! Come aveva tratto da se stesso tanta smania di sacrificarsi, proprio lui che – pur di non piegarsi allo studio – ci aveva messo 12 anni a laurearsi, quando ne bastavano 5 o 6? Avevano sbagliato in qualcosa? E – se sì – in che cosa? E iniziavano a discutere. Il padre era più severo. La mamma – come tutte – era più comprensiva.

Lei si aspettava moltissimo – anche andando contro ragione – da quel figlio di cui avevano tutti e due sempre rispettato tutte le fasi dello sviluppo, senza violentarle mai. Lei aveva una buona ragione: era stata scottata personalmente quando a due anni il figlio stava per morire innocente per colpa sua. E ora lo sentiva ancora tale: piccolo, ben intenzionato, pronto, generoso. Emergeva in lui questo lato – così altruistico e in buona fede – che non era una colpa o un dolo da cui doverlo proteggere o salvare. Quando il padre si vedeva dipingere da sua moglie in quel modo la situazione, per cui quelle che lui giudicava gravi colpe per lei erano grossi meriti, allora non ne poteva più e – totalmente dimentico della sua stessa storia, che era stata tutta e per davvero plasmata da lei, una donna, e nel senso del bene – allora Gino tirava fuori la solita ma negativa motivazione del «cherchez la femme» (cercate la donna) e la trovava – negativa – in Maria Grazia Vanni (poverina, che non c’entrava nulla). Se mai c’entravano – ma in positivo – Daniela Forlin, Don Giussani e CL. Daniela Forlin era stata la sua Tamar, quella che diede eredità di figli al suo congiunto morto, e il Padre, Don Giussani, chi aveva messo in lei quel seme. Giancarla era d’accordo con tutti e due i suoi suoceri, per quanto divergessero. “Perché non chiudeva quella ditta e non restava al CIMEP? Per lei la colpa era tutta di quella ditta che non dava reddito! Ma aveva torto. Se vi era un neo, era come quando si dice che il difetto stava nel manico. Stava nel suo manico di non aver voluto seguire RU quando egli andava a costruire la loro Villa Colletto; stava nella confidenza che Marinella gli aveva fatto di «non lasciarla sempre così sola nei suoi fine settimana». Per puro amore verso la loro unione RU si era indebitato a nome di tutti. Non si erano accollati i costi in più che aveva assunto RU e che lui di certo non poteva imputare loro. Ma intanto Sergio Venturelli aveva avuto la sua casa al prezzo iniziale pattuito senza più che Romano si potesse avvalere, a scorporo, delle sue ore di lavoro. Ma poteva RU rivalersi? Lui vi aveva rinunciato. Barbara finì per giudicare il cugino come uno che poggiava i piedi su una nuvoletta, pur assistendo al continuo miracolo di quella marea di cambiali pagate sempre, sempre, sempre e solo quando sembrava che non si potesse più. Diceva: “Romano, non credere d’essere aiutato dall’alto! Tu non sei povero, hai le proprietà; e allora perché il cielo non te le fa vendere, visto che lo vuoi? Per me tu sei perseguitato e proprio da Chi tu credi ti soccorra. Infatti, se ti mandasse il compratore non perderesti più il tempo con queste baggianate ma faresti, dove vuoi e con chi vuoi le cose che ami. Così mi sembri invece solo uno schiavo, che non è nemmeno libero di svolgere quel compito per cui vuole abbandonare il CIMEP”.


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1978

Fu assunta Daniela Finotti, dopo che Gianni Maraboli, il responsabile dei libri del Sole 24 Ore, fece capire a RU d’avere bisogno d’un aiuto da lui: c’era una ragazza in gamba, amica sua e voleva che imparasse quel lavoro... l’assumeva lui? La cosa era stata presentata un po’ come un ricatto, perché le commesse provenienti da quella fonte erano le più remunerative, tra tutte quelle che i vari clienti passavano alla fotocomposizione. La ragazza, bella, bionda, alta e slanciata come un’indossatrice, prese servizio nel luglio del 1978. RU, cessati i due periodi in cui era stato Consigliere dell’Ordine degli Architetti, non si staccò del tutto dalle questioni dell’Architettura e del suo Ordine, perché ora il Presidente, nel periodo successivo al suo fallito tentativo di modificarne l’andazzo, era proprio quell’Alberto Scarzella, già fondatore e capo del Sindacato Architetti Liberi Professionisti, che cinque anni prima era stato per qualche tempo suo alleato, nella votazione del 1973. Scarzella poté porre in atto quanto RU aveva intrapreso. Un giorno gli propose la soluzione di quello che era stato il casus belli, che aveva portato alla nascita di A e P: “Vuoi occuparti tu della preparazione del Bollettino degli Architetti?”.

Dopo i primi tre anni, questi i dipendenti e collaboratori che erano venuti e anche andati via: Gabriele Alberti, Maria Grazia Vanni, Fabio Cozzi, Franco Provenghi, Anna Cordara, Linda Borroni, Daniela Brovidi e una ragazza di 16 anni, il nome che sfugge, ma il volto no, bellissimo, che – intimidita dalla differenza di età – non se la sentì mai di dare del tu ad Amodeo ... l’unico caso. Essendo andati via Maria Grazia e Giorgio nel 1976, dopo essersi sposati, nel 1977 ritornò Gabriele Alberti, per un brevissimo periodo: aveva la sua nuova fidanzata, una bella mora, Susanna, che dopo un poco sposò, e volle che RU fosse il suo testimone. Anche questa sarà, per Romano, l’unica volta in cui qualcuno gli chiederà di essere testimone, o padrino.

Si trattava di prenderne in mano tutta la realizzazione, dalla battitura dei testi, all’impostazione grafica, alla stampa e alla distribuzione. A e P era stato, tutto sommato, un bel biglietto da visita, distribuito a tutti, ed ora erano gli stessi Consiglieri dell’Ordine a chiedergli d’intervenire a loro sostegno. Una clamorosa rivincita. Amodeo cominciò a sentire le offerte degli stampatori. Non si sarebbe avvalso della Tipografia Antoniana, a buon mercato ma troppo lontana. Andò da lui uno dei tre fratelli Jodice, in Via Pirelli, negli ultimi giorni della sua permanenza al CIMEP e fu impressionato dell’ambiente e dal suo ruolo in esso. I prezzi delle Arti Grafiche Jodice erano competitivi; Amodeo andò in visita allo stabilimento che avevano a Gaggiano, elaborò un’offerta complessiva all’Ordine e fu accettata. Così il destino non gli permise di staccarsi del tutto dalla sua professione, anche se, in un certo senso, ora vi partecipava a latere, come un puro osservatore esterno, che aveva solo il semplice compito d’illustrarla al meglio, a tutti gli Architetti.

Il nuovo organo si chiamava AL – Architetti Lombardi – e rappresentava non solo l’Ordine di Milano, ma di tutti quelli della Lombardia. Essendo un mensile, questo nuovo e costante lavoro, con le sue entrate affidabili, era un sostituto del suo stipendio fisso, nell’Ente Pubblico e gli diede il coraggio di licenziarsi definitivamente dal CIMEP. Avuto nuovamente tutto il tempo a sua disposizione, RU cominciò a vivere la quotidianità come egli intendeva che essa fosse: quella testimonianza di fede cristiana,


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a beneficio degli altri, che per lui era stata prima Daniela Forlin, e poi tutti coloro che aveva potuto conoscere a CL. Questa carica rinnovata si manifestò nel modo esteriore come i gesti di preghiera compiuti ora tutte le mattine, assieme ai suoi dipendenti che volevano liberamente pregare con lui: Anna Forlin, Giusy Baratta e Aldina Podenzani. Invece Barbara Baratta ed altri non volevano. Pregare non era un obbligo, era semplicemente un riconoscersi, in una vita voluta da Dio e che il Signore solo veramente conduce; era un assentire, al suo disegno, per quella fede secondo la quale “un Dio che ti ama non ti dà mai serpenti.” L’intento di RU era molto chiaro e si chiamava testimonianza. Non aveva la pretesa di calare, sulla sua gente, uno stampino CL, che sarebbe stato il peggiore dei ricatti. RU, pertanto, non era avvilito dal fatto che alcuni dei dipendenti non pregassero con lui, e che non lo facesse impunemente proprio Barbara, sua cugina, dava il coraggio di dissentire a chi non si accorgeva che stava cercando di mutare quel luogo in un piccolo pezzo di paradiso terrestre. Che non lo capissero – a cominciare da Barbara – non lo intristiva. Anzi era lieto che ciascuno fosse spiritualmente libero. Non nascondeva il sacrificio di se stesso e della sicurezza della sua vita cui aveva rinunciato pur che esistesse tutto questo, e Barbara ne soffriva: erano fatti suoi, perché si spogliava così in mezzo a loro? Lei, carattere risoluto, costatava che – nonostante le buone intenzioni che pur riconosceva al cugino – tutto ciò non portava a nulla di concreto e tangibile. S’infischiavano di lui, in molti. Non facevano, di quel posto, quello che egli credeva. Era una ditta di persone che non s’impegnavano come lei avrebbe voluto, tanto più sapendo i sacrifici che lui faceva per loro, a danno non solo suo, ma della sua famiglia. Quale “Paradiso”, allora? Che “Provvidenza”? Era solo gente che non meritava nulla. Oh, non tutti. Lei salvava Anna, Aldina, Daniela e pochi più. Giusy? Sì, volenterosa. Ma lì occorreva ben altro! Occorreva fare come faceva lei, che si metteva con la testa china sulla tastiera e sfornava chilometri di battitura. Vennero, in quel frattempo, a lavorare da loro, Angela Minella, la bellissima e giovanissima figlia di Titina Baratta, la cugina che RU aveva fatto volare sul calcinculo e che era cugina anche di Barbara. E venne Emilio, il suo futuro marito; impararono quel lavoro e stettero in Via Colletta, a collaborare per qualche tempo, prima di ritornare al sud e sposarsi giovanissimi. Alcune volte, trovandosi anche di sera, a discutere, Emilio con Luigi Luccini, emergeva quel furbesco comportamento dei meridionali, che venivano al nord dell’Italia per trovare un lavoro degli Enti pubblici e poi facevano di tutto per ritornare alla terra d’origine.

Luccini non approvava, lo giudicava un approfittarsi, e criticava Emilio, la cui vita sarebbe stata molto breve, perché la bella Angela sarebbe restata vedova prima di arrivare ai suoi 25 anni. Barbara, a disagio per quanto osservava attorno a sé, non resse più in quella condizione, disgustata anche dalla mancanza di realismo di RU. Fece il percorso esattamente opposto al suo ed entrò nell’Ente pubblico, appena vinse un concorso. Sarebbe anche restata col cugino, che, bene o male, l’aveva tratta da quella mancanza di futuro professionale che prima viveva nel meridione, ma si era convinta che suo cugino era incorreggibile. Secondo lei – poi – lui era incapace di delegarle veri compiti. Dunque che cosa ci stava più a fare in quel luogo? Si era anche fidanzata, con Gigi Flocco, un professore che aveva conosciuto grazie a Giusy Fiadino, che lavorava in quel tempo con lei in via Colletta 65, ed era moglie di Gennaro, cugino anche suo. Quando si giunse al commiato, Barbara rimproverò RU di non essere stato giusto proprio con lei, e di non averle quanto lei meritava. Per stare in pace con se stessa, che percorreva il tratto inverso a quello fatto da lui anche per lei, doveva dargli qualche colpa, e s’inventò quella. Romano non ne restò deluso. Evitava di giudicare come si comportavano intorno a lui; sentiva solo il compito di dimostrare, lui a loro, come si comportava lui. Se in un certo momento non lo capivano, quella cosa restava e forse l’avrebbero capita quando il Signore lo voleva. I genitori di RU giudicarono invece con tristezza il comportamento di Barbara. Lei, che aveva avuto tanto da ridire contro l’agire di tutti, era stata accolta nella loro casa come una figlia e non come una serva; ma lei non si era sentita mai così, ma come una persona controllata e perennemente sotto giudizio. L’avevano tenuta con loro in cambio di nulla e solo per l’aiuto che stava dando a RU e per il quale era pagata allo stesso modo di tutti. La sola differenza era che non era una dipendente messa a libri paga. Questa fu l’accusa fatta in sostanza a lui da Barbara: aveva perso un paio d’anni di contributi, come se – stando invece senza lavoro a Salerno – lei ne avesse. Come se questi contributi non li ricevesse avendo vitto ed alloggio gratuiti e una famiglia che l’amava, in cui vivere. RU supplicò i genitori di non giudicarla. Sapevano per davvero cosa lei avesse nel cuore? Gli telefonò un’amica ciellina, della Comunità di San Lorenzo: “Mia sorella ha un figlio che cerca lavoro; ha bisogno di vivere in un luogo come il tuo, prendilo con te!”


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Così RU assunse Piero Vitti, il 2 marzo del 78. Aveva avuto piccoli problemi con la droga e il disadattamento, quelli che, quando sono gravi, si curano con i centri d’accoglienza e di recupero dei tossicodipendenti. Piero non era a questi livelli, ne era molto, molto lontano, e aveva bisogno solo di un luogo pulito, in cui vivesse la speranza. La ciellina s’era rivolta a RU esattamente con quell’attesa, delle cose buone che nascono dalla fede che si riconosce vissuta. Romano fu veramente aiutato da questo soccorso chiesto a lui: perché ebbe modo di parlare, a lungo, con questo ragazzo ed anche con quella che poi sarebbe diventata sua moglie, e i due giovani ne erano conquistati. Piero Vitti e la sua capacità di sentire, fu per lui, un conforto grandioso, dopo la tristezza e la malinconia che inevitabilmente seguì all’abbandono di Barbara. Il ragazzo domandò aiuto, a RU, anche perché sistemasse la casa dei suoi genitori, in cui viveva alle porte di Milano ed anche queste brave persone diedero, in quel momento, il segno dell’attenzione per RU, che la Provvidenza metteva in essere, con chi, come lui, non era un eroe, ma solo un animaletto impotente, che cercava, con le sue forze che non c’erano, di dare corpo a Gesù. L’attività del Bollettino dell’Ordine s’era intanto sviluppata, nella mole e nell’impegno. Quando Romano l’aveva preso in cura, il suo direttore era l’arch. Giulio Redaelli, che era preciso, scrupoloso nel mantenere i tempi della redazione dei testi. Con Redaelli Direttore, la rivista aveva rispettato le dimensioni che erano state previste in 32 pagine di testo. Redigevano i testi, all’inizio, una coppia d’architetti, un maschio e una femmina mora e bellissima, di cui sfugge il nome. Cominciava a collaborare con loro, facendo i piccoli passi iniziali, anche Luciana Calvano, una splendida architetta bionda, messa su bene, molto dinamica e intraprendente, di fresca laurea. Quando le due ragazze venivano in Via Colletta, c’era non poca animazione e turbamento, pur tra le belle dipendenti della Romano Amodeo, tra le quali spiccava Angela Minella, dal volto bellissimo e dolce, Anna Forlin, Aldina, Daniela... Presto anche Pasqua Solla, che era stata impiegata dal Dell’Antonio, che raccoglieva pubblicità, stette per qualche tempo con Amodeo. Si aggiunse al gruppo anche Simona Ginevri, che abitava nella stessa scala in cui era stato l’ufficio, in Via Lattanzio 16. RU aveva perso, con Barbara, una preziosa alleata, che aveva agito sempre con correttezza e criterio. Gli serviva una figura così, ma ciascuno deve poter seguire il cammino della sua personale Provvidenza. Spettava a lui, ora, adeguarsi e realizzare un bel quadro di tutta la situazione, per decidere le cose più opportune da farsi.

Fu proprio in quel tempo che la Provvidenza, in cui Amodeo credeva ormai ciecamente, gli mandò un’offerta strabiliante: 180 milioni di lire, se vendeva il suo appartamento, in Via Lattanzio. Dio t’induce in tentazione, Dio ti prova, fino allo stremo, ma non perché è una carogna, bensì perché è infinitamente buono, con ogni suo Amodeo. Siamo nel 1978 e gl’impegni finanziari di RU avevano assunto l’entità di quasi 300 milioni di lire. S’erano addirittura raddoppiati, rispetto al 1975. Era in atto, inoltre, nella situazione generale dell’Italia, il tentativo fatto da Bettino Craxi, di far rientrare dall’inflazione l’economia del Paese. Finché perdurava l’inflazione galoppante, RU non correva grossi rischi, poiché come cresceva l’ammontare dei suoi debiti, così saliva il valore delle sue case. Craxi lanciò i BOT, i CTC, e tanti altri titoli, ad un tasso d’interesse che, all’inizio, superava di qualche punto lo stesso 20% dell’inflazione. Successe allora che il denaro divenne il fattore che dava più reddito. Le case persero immediatamente valore, giacché chi le aveva cercava di venderle, per ricavare più reddito con il sicuro grande reddito ottenuto dai Titoli garantiti dallo Stato. RU si ritrovò all’improvviso senza più la reale possibilità di avere altri prestiti dai beni che fossero aumentati nel loro valore, per via dell’inflazione, poiché l’intervento del Governo ora li deprezzava. Il Dottor Cattagni lavorava alla Norton ed era al corrente delle difficoltà di RU. Avendo analizzato la cosa, Romano doveva solo letteralmente tirare i remi in barca, a costo di un fallimento. “Ma perché non chiudi, molto più semplicemente, la tua Ditta?” Questo era il pensiero di Giancarla. E RU le rispondeva: “Se lo facessi, resteremmo con nulla fin da adesso. Io mi metto nelle mani della Divina Provvidenza, e sarà di noi due quelli che vorrà.” RU pensava all’occasione che aveva avuto, un paio di anni prima, di risolvere drasticamente le sue pendenze economiche e che vi aveva rinunciato forse troppo frettolosamente. Era inevitabilmente portato a riesaminare le proprie scelte perché, con la penuria di liquidità che aveva, la situazione era divenuta insostenibile. Il disastro sembrava essere già giunto alla porta e bussare con insistenza. Ci voleva poco: bastava solo non riuscire a pagare una cambiale e non avrebbe trovato più credito da nessuna parte. Si recò dai genitori e così gli disse: “Voi sapete d’avere solo due figli e che saremo i vostri eredi. Sapete bene come voi non volevate comperare questa casa in cui abitate, quanto io abbia insistito e che enorme affare voi abbiate fatto. Non volevate comperarla, vi contentavate della casa, molto più modesta di Viale Omero. Bene, proprio considerando che avete due case solo grazie alla mia insistenza d’allora, tornate ad essere come volevate, con una sola


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casa: non quella, ma questa che vale di più e lasciate a me, ora, quella che vale di meno, come la vostra eredità. Altrimenti io temo di finire rovinato. Se non entrano almeno 30 milioni entro breve tempo, io salterò e perderò tutto.” “Hai la tua casa...” osservarono. “Non posso venderla, mamma! A parte che è intestata a te e, come sai bene, l’ho pagata finora io.” “Ma c’è anche Benito, tuo fratello! Non ci sei solo tu...” , era vero, c’era l’altro fratello, nella parabola del Figliol Prodigo. “Benito erediterà per intero questa in cui vivete, che vale molto di più.” Il padre non voleva. Non stava più tanto bene, Gino, non era più lui: gli era venuto un disturbo all’equilibrio che certe volte non gli consentiva di camminare. Anna riuscì a capire le ragioni del figlio e convinse il marito. Furono essi stessi che si diedero da fare per cercare un acquirente e lo trovarono. Diedero il magrissimo ricavato a RU: 30 milioni. Con quelli il figlio tamponò l’improvviso buco che si era aperto, e che il sistema bancario non aveva più potuto coprire, non essendo più aumentato il valore delle case di RU e Giancarla. Accadde tra i due fratelli quello che aveva portato un giorno alla morte di Riccardo Passer. Egli, per quella lezione che la settimana prima RU gli aveva impartita, quando cadde nella buca sull’Adda assieme ad altri, si mise a galleggiare, mentre gli altri gridavano, e, implorando aiuto, l’ebbero. Riccardo no, galleggiava a mala pena, ma non chiedeva aiuto. Anche Benito galleggiava a mala pena in quel suo appartamento in cui viveva in piazza Santa Francesca Romana, e gli avrebbe fatto comodo andare in Viale Omero. Ma se lo tenne dentro e non lo confidò nemmeno ai suoi genitori che – se lo avessero saputo – non avrebbero accondisceso alla richiesta di RU. Per l’estrema ritrosia, sia di Benito, sia di Mirella a sbandierare i fatti loro, perfino coi loro genitori, se ne stavano in una difficile solitudine, con tre figli piccoli da tirare su e che avrebbero avuto un grandissimo aiuto dai rispettivi genitori, se glielo avessero chiesto. Ma niente! Da una parte i figli attendevano che fossero i genitori a proporsi, dall’altra – in perfetta simmetria – essi avevano l’impressione di essere stati invadenti, se ci avessero provato con loro due che tanto amavano la loro privacy ...

Così la loro prima casa di proprietà, di RU e BEN, fu cancellata, senza nemmeno risolvere definitivamente il problema che aveva RU. Al momento volevano ancora tentare di avere un figlio. Così consultarono il prof. Acerboni, della clinica Mangiagalli, che mise in piedi tutta una nuova lunga serie di analisi, a lui e a lei. Una volta, per vedere se le tube erano aperte, provocò un fortissimo dolore a Giancarla, perché fu insufflata dell’aria che aveva il compito di gonfiare quelle come se fossero palloncini. All’esame chiamato post-coital-test tutta la mobilità degli spermatozoi di Amodeo, dopo una notte d’amore, al mattino era cessata: morti, defunti; forse era solo questione d’una pura e semplice acidità per la quale sarebbero bastati i lavaggi termali, a Fiuggi o in un altro di quei posti in cui di sovente andavano i suoi genitori. Ma Il Prof. Acerboni non lo prescrisse e nulla fu fatto anche questa volta.

Benito passò nel 1978 alla PRICE WATER HOUSE, prima come consulente, e poi come un suo Dirigente.


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1979

Benito era ancora al PRICE WATER HOUSE, mentre U, valutata la situazione, decise che doveva bruciare le tappe per non più trovarsi nella stessa situazione degli anni prima. Iniziò così a chiedere fidi commerciali, portafogli clienti, e aprendo molti conti in banca. Stabilì tutta una serie di relazioni con amici e aziende che si prestavano a far emettere titoli di pagamento inesistenti, che egli avrebbe potuto portare allo sconto. Poi ci avrebbe pensava lui stesso a ritirarli al momento giusto, non facendo fare brutte figure di insolvenze a chi lo avrebbe così aiutato. Una di queste ditte era l’Arti Grafiche Gorlini. Era gestita dal Dott. Zanocco e da sua figlia Paola, che avevano cercato di sostituirsi alla titolare, la Signora Zanocco, quando era morta, lasciando in crisi una tipolitografia che aveva avuto una storia, alquanto lunga e anche gloriosa. RU cercò di dare un aiuto, come poteva; conobbe e divenne amico di Carmen Lombardi, Antonella Dall’Oglio, Loredana Russo e tutti gli altri dipendenti della stamperia. Conobbe Paola Barazzetti di Saronno, che aveva la funzione di direttrice esecutiva d’un gruppo editoriale, non meglio qualificato, che avrebbe dovuto far decollare le edizioni, dopo la morte della titolare. Conobbe il Prof. Michele Colabella, un cliente che faceva loro comporre e stampare libri su Bonefro, e il Professor Potì, un altro autore che si occupava d’una matematica innovativa che sapeva solo lui. In un momento in cui necessitava d’impellente aiuto, attraverso la Gorlini, venne fuori, un giorno, uno dei proprietari d’un bel mensile che da decenni era stampato da quelle Arti Grafiche: un ometto anziano e piuttosto claudicante, di cui sfugge il nome, che, saputo delle difficoltà impellenti che in quel momento Amodeo

aveva, divenne uno dei tanti finanziatori mandati a lui dal cielo e all’ultimo momento, l’ultimo d'una schiera inesauribile, sempre in rinnovamento. Cominciò a fare concorrenza allo Stato, cercando fondi e offrendo più di quanto essi rendessero in BOT. Chiedeva prestiti che, in cambio d’un deposito di 10 milioni, garantivano un puro reddito di 200.000 lire mensili. In un anno l’investitore incassava 2.400.000, pari al 24%, ma era molto di più perché sarebbe stato solo il 24% se tutto l’interesse fosse stato corrisposto alla fine dell’anno. Fece ottimi affari chi provò ad aver fiducia e si accordò con RU, come Maria Proietti, che l’aveva sostenuto molte volte, quando, essendo egli in gravi difficoltà, andava da lei al quarto piano della casa di Via Vetere, in cui egli stesso abitava con i suoceri. Un giorno gli telefonò un amico ciellino, di quelli di S. Maria alla Fontana, che gli raccontò come un suo conoscente cercasse validi investimenti. Avendo saputo che egli cercava fondi, gli segnalava questo nominativo: Giuseppe Volpe, che andasse a trovarlo e vedesse lui. Giuseppe Volpe, molto religioso, ebbe fiducia di RU e fu uno dei primi che gli diedero fondi di rilievo, consentendogli così di superare la difficoltà ingenerata nel sistema creditizio con l’emissione dei Titoli di Stato a prezzi astronomici ed esentasse. La necessità vera, in questo momento, trovato il modo d’esporsi con i privati, e di sostituire così i non più possibili incrementi dati dai mutui aggiuntivi dello Stato, era che l’azienda incrementasse la sua capacità di produzione. Anche se in apparenza l’esposizione aumentava, era tuttavia sempre abbondantemente al di sotto del valore della proprietà immobiliare. L’aumento era tutta o quasi inflazione della lira. Ma, anche così, per riuscire a ridurre l’investimento al di sotto del 50% del valore immobiliare, essendosi bloccato il valore delle case, doveva bloccarsi anche il disavanzo, comunque generato. Altrimenti non ce l’avrebbe fatta, come aveva detto alla moglie, ad acciuffare le lepre sempre più veloce dei costi che levitavano. Infatti l’esposizione avrebbe avuto percentuali sempre più alte ed avrebbe raggiunto, presto o tardi, il 100% del valore delle case. Per farlo occorreva innanzitutto un vero stabilimento, spazioso, in cui potessero trovare comodo posto le persone e i modelli, sempre più aggiornati, della macchine fotocompositrici. Senza un’attrezzatura adeguata, non ci sarebbero stati possibili utili, non sarebbero serviti neppure i miracoli cui assisteva ad ogni fine mese. Romano trovò quanto cercava ai primi del 1979, in Via Colletta al numero 29. Acquistò un laboratorio, molto mal messo, e cominciò a predisporre i lavori di ristrutturazione. Era intanto giunta la metà del maggio 1979 e stava per ricorrere il decennale delle nozze di Romano e Giancarla. Nozze che, essendo state celebrate il quattro del


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mese di giugno, erano in un periodo solitamente turbolento di RU, tra stipendi, cambiali, protesti e poi protesti da farsi togliere. Decise che era proprio il caso di ritornare con Giancarla ad Ibiza, dove avevano passato la luna di miele. Per farlo doveva finanziarsi in tempo. Così telefonò all’amico Romano Gozzi e gli propose il compromesso di vendita di quel laboratorio, per 20 milioni. Più avanti esso sarebbe stato annullato, ma intanto questi quattrini gli avrebbero consentito di coprire tutto, in tempo, e di ritornare ad Ibiza. L’amico acconsentì e, a questo punto, iniziarono tutta una serie di cose molto strane: Gozzi diede distrattamente un assegno di 20 milioni intestato a Romano Gozzi anziché Amodeo e senza girata (prima grossa distrazione). RU distratto, non controllò (seconda). La Provinciale Lombarda respinse il versamento di Amodeo, e allora egli telefonò al suo amico e gli confidò: “Bei fessi siamo stati!”. Il suo omonimo raccomandò allora all’amico di andare da lui assolutamente l’indomani mattina, perché poi sarebbe partito e non sapeva quando sarebbe ritornato. Alle sette Romano Amodeo fu da Romano Gozzi e ricevette un altro assegno, stavolta giusto. A questo punto ecco la terza sciocchezza che incoscientemente fece: decise d’andare a farselo cambiare in contanti in quella banca, La Popolare di Lodi, in cui non era minimamente conosciuto. Sapendo già, per esperienza fatta, che le banche, in quei casi, arrivavano a cambiare solo fino a 500 mila lire! Come un vero incosciente, ci andò lo stesso: a perdere tempo, è ovvio! Altrimenti a che altro fare? La Popolare era ancora chiusa e allora entrò nella Chiesa, a Piazza della Vittoria. C’era un prete nel confessionale e lui si confessò. Quello al termine gli diede un foglietto, da leggere dopo, per penitenza. RU lo fece. C’era scritto testualmente: “Dio ti ama fin dal principio del tempo e quello, apparentemente perduto, non è perso, è solo tempo d’attesa e di maturazione! È fatto per il tuo bene!” “Cavoli che bello! Vale anche il tempo perduto! Lo leggerò più tardi ai miei dipendenti in ufficio!”, esclamò RU, entusiasta, conquistato dall’idea.. Entrò in Banca. Quando allo sportello l’impiegata, ricevuto l’assegno, gli chiese: “Lei è conosciuto qui?”, a lui venne di pensare: “Ma sono rincoglionito? Cosa sono a fare qui? A perder tempo?” L’impiegata notò il suo disappunto e gli chiese: “Vuol parlare con il Direttore?” Andò da lui e si sentì proporre: “Aprirebbe il conto qui?” al che lui, sincero, rispose: “Ne ho già sette, sono di Milano”.

“Poco male, poi lavora con l’agenzia di Milano. Accetta se le do 20 milioni di rosso e 20 di fido?”. RU stupefatto rispose di sì e l’altro riprese: “E l’assegno versato stamani le serve tutto? Può lasciare qualcosina sul conto?”. Al che lui propose: “Sta bene un milione?” Poco dopo RU uscì da quella Banca, in cui ad un certo punto era andato veramente a perdere tempo (nel tentativo assurdo di farsi cambiare 20 milioni in contanti!), con 19 milioni in denaro liquido, 20 di rosso e 20 di portafoglio commerciale. Fu allora che si ricordò del foglietto datogli da leggere dal prete, per penitenza. Lo rilesse e scoprì che quello che stava per succedergli, stavolta gli era stato rivelato addirittura per iscritto. Più tardi RU mostrò in ufficio a Daniela quel biglietto. A questo punto RU e Giancarla, in un modo così eccezionalmente favorito – baciato! – dalla Provvidenza, poterono partire, ai primi di giugno, per Ibiza, nel tentativo d’una nuova luna di miele. Essa ci fu e non ci fu: sovente erano tesi, pronti alle schermaglie. Fecero quel che potevano, ciascuno avendo forse troppo la testa in problemi dai quali non riusciva del tutto a staccarsi. A RU imprenditore occorreva soprattutto un Direttore che si occupasse efficacemente della produzione. Fu Benito, il fratello, che lavorava ancora a Price Water House, a indicargli la via che poi fu presa. Accadde in Via Lattanzio, dove Benito, Mirella, Paola e i due gemelli Marco e Andrea, si erano trasferiti, in un appartamento che i genitori di Mirella avevano comperato e regalato alla famiglia di lei. RU raccontò della tensione morale che stava mettendo in quello che stava facendo e Benito consigliò a quel Figliol Prodigo di stare attento: presto le persone che lavoravano con lui, persa la carica iniziale, avrebbero perduto anche il senso concreto di ciò che egli faceva, per cui avrebbero colto solo gli aspetti negativi.


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Conosciuta l’intenzione del fratello, di ristrutturare in modo serio la sua attività, Benito aggiunse: “Ho incontrato, proprio domenica scorsa, Vittorio Del Grossi, alla partita del Milan. Abbiamo parlato anche di lavoro. Fa quello che cerchi tu, ma non è soddisfatto della sua attuale sistemazione; perché non lo senti? Vittorio potrebbe forse fare proprio al caso tuo”. Ecco in che modo la Provvidenza combina le cose, facendo incontrare due vecchi amici, in un catino in cui ci sono decine di migliaia di persone. L’incontro accade nel momento giusto, quando le due parti si stanno cercando. Se quest’incontro non fosse stato voluto e deliberato dal Dio Creatore, ancora una volta, tutta la trama della vita del Nostro Personaggio, questo  del Re che entra nella sua Gerusalemme, sarebbe cambiata. Infatti l’ingresso, di Vittorio Del Grossi, Deus ex machina – ma impotente, nella Ditta Romano Amodeo, animata da un altruista il cui Dio non era il denaro per se ma per gli altri – segnò tuttavia una svolta, di primaria importanza, sotto l’aspetto non solo tecnico, ma economico. Infatti l’entrata in scena del suo vecchio portiere della squadra Anni Verdi, in cui aveva militato talvolta anche con Benito, tutto mutò di scala, come una visualizzazione che passasse dal 10% al triplo. I questa vecchia foto, sono coinvolti in una vera questione di vita e di morte almeno quattro persone: Riccardo, che introdusse la conoscenza di Giancarla, RU e BEN che introdusse Vittorio come quel suo collaboratore che fu poi determinante nella sua vita. In tutto questo, il primo in alto a destra, Renato Mariano sta lì a fare il Presidente dell’Anni Verdi, e sempre si terrà in contatto con RU in tutta la sua vita, divenendo davvero essenziale negli ultimi anni.

1980

In R-U-BEN, Benito passò a lavorare per INTER AUDIT, mentre RU ascoltò il suo consiglio e chiamò Vittorio e poi s’incontrò con lui nei primi mesi del 1980. Romano gli espose la situazione. Del Grossi rispose che non era preoccupato dai problemi di RU. Ci sarebbe stato anche lui e la sua mano si sarebbe sentita. Vittorio cominciò ad occuparsi così della Romano Amodeo nei nuovi uffici in allestimento, al numero 29 di Via Colletta. I locali erano nel cortile in fondo, cui si accadeva attraversando un altro piccolo cortile, al primo piano d’una palazzina che ne aveva due fuori terra, con un ballatoio esterno. Per comperarli Amodeo aveva speso una ventina di milioni, ma essi valevano molto di più. Non avevano i servizi, erano da ristrutturare e, nello stato in cui erano stati acquistati, avevano l’aspetto sciatto e insignificante di un laboratorio mal messo. Annesso a ciò c’era tutta la soffitta del primo palazzo su strada, 200 metri quadrati al 5° piano fuori terra, dai quali si sarebbe potuto realizzare una discreta mansarda. Queste modifiche per lui architetto e impresario non erano state un problema. Aveva costruito con le sue mani nel laboratorio al primo piano un servizio, una camera oscura finalmente come si doveva, e pavimentato tutti i 110 metri quadri con piastrelle in monocottura. Nel momento dei preliminari con Vittorio, stava completando la sistemazione.


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Alle pareti mise tutti scaffali, armadi e le Compugrafic dell’ultima generazione che esisteva allora, nel 1980. Foderò il soffitto di pannelli di polistirolo decorati che non facevano passare il calore e nel sottotetto sovrastante questa palazzina ricavò, da una parte un locale cui si accedeva con una scala, e dall’altra un ripostiglio e un rudimentale sistema di condizionamento ad aria, che immetteva aria fredda, d’estate, nei locali sottostanti. Due grossi tavoli luminosi 100 per 140, sui quali eseguire i montaggi delle pellicole e tutta l’attività di grafica, sedie, poltroncine e, nella sala in fondo, uno specchio a tutta parete che dava l’impressione d’un ufficio lunghissimo e spazioso. L’ambiente, diviso in tre sezioni, aveva, a sinistra, un’anticamera che dava sul servizio e la camera oscura, al centro, un ampio locale lungo 10 metri e largo 5, nel quale sarebbe stata eseguita tutta la composizione e la grafica e, in fondo, visibile attraverso una parete nella quale RU aveva ricavato una grande apertura circolare, un locale lungo 6 e largo 5 metri, in cui sarebbe stata la direzione e la segreteria. Questo locale, situato nel mezzo delle due palazzine disposte ad angolo retto, prendeva aria da un ampio lucernario, che illuminava anche il locale più piccolo sovrastante, cui si accedeva con una scala interna. L’attrezzatura era finalmente degna d’un moderno stabilimento e anche le persone erano, e dovevano diventare, idonee ad assicurare un’ottima resa. Fu data una sterzata, secca e decisa, nella direzione dell’efficienza e della professionalità. Bisognava riuscire ad acchiappare quella lepre del disavanzo che cresceva, però senza andare oltre quanto fosse giusto e normale, per i dipendenti.. Vittorio Del Grossi, assunto l’1.3.80 in cat. A/1, aveva esperienza e capacità direttiva. Era pagato profumatamente, perché aveva anche un bel nero a compenso del compito piuttosto essenziale e pesante, ma reale di procacciare e curare un lavoro adeguato. La Romano Amodeo fotocomposizione divenne la ditta che Barbara avrebbe definito finalmente “seria”. La gente stava concentrata sul lavoro e tutti si erano mobilitati, sollecitati da Vittorio, a voler “dare una mano a RU”. Il quale aveva dato a Vittorio quel compito di dirigere l’apparato tecnico che Barbara era certa egli non avrebbe mai ceduto a nessuno. Il compito, specifico di RU era quello, essenziale, di far quadrare tutti i conti. I fine-mese assunsero poco a poco entità tripla, perché la produttività fu quasi moltiplicata per tre, triplicarono i costi e, come si sperava, anche le entrate. La ditta, nonostante ciò, seguitò ad avere lo scopo datole dal missionario. Era stata messa però in atto una netta suddivisione di compiti tra il braccio e la mente. Il braccio era tutto l’apparato esecutivo, che doveva trarre i benefici derivanti dalla ragione di tutto quell’operare e la mente era tutto quanto vi era nella tensione morale di Amodeo: che tutto fosse funzionale e servisse al corpo e all’anima. Quando qualcuno sollecitava un aiuto, era RU l’arbitro assoluto, e faceva sempre uno strappo, in ogni situazione, al fine di potere assumere il bisogno del suo

prossimo. Cosa che era, nel giudizio di tutti, come se facesse salire, ancora un’altra persona, su un tram già abbastanza pieno; ma l’indicazione, l’imposizione data dal cuore, più che ancora dalla mente, era che bisognava fargli posto, bisognava far del bene. Alla momento dell’entrata in campo di Vittorio, Deus ex machina operativo, sopravvivevano, del vecchio organico di Via Colletta 65, solo Anna Forlin, Daniela Finotti e Michela Lombardi. Le altre persone se n’erano andate tutte, tranne Giusy Baratta, cui RU comprese di dover rinunciare, nel momento in cui decise una stretta vigorosa, che non voleva imporre a quella sua cugina acquisita, perché aveva intuito che ne avrebbe patito, sotto il regime imposto da Vittorio, e non voleva che accadesse. Rimase mortificato, quando si vide costretto a rivelare a Gennaro: “E’ meglio che Giusy non mi aiuti più.” Si rammaricò, perché diede forse l’impressione d’averlo fatto per se stesso, e non era affatto vero, l’aveva fatto per Giusy. Lei ed Anna erano state le più sensibili, sempre, a quello che lui cercava di far capire, in quelle preghiere e quelle riunioni che Barbara non approvava. Aveva affetto per quella cugina acquisita. I dipendenti furono inquadrati in un nuovo organigramma, ripartito da zero. Michela Lombardi, essendo, in quel momento, solo la terza dipendente, fu assunta senza difficoltà, nominativamente e come apprendista: le fu insegnato tutto quanto ancora non conosceva e divenne in breve capace e pienamente all’altezza del compito assegnatole, una vera forza. Il lavoro crebbe e venne Carla Forte a provare; fu assunta il primo giugno. L’amica di tante vacanze e tante serate, Silvana Barattieri, già in pensione e moglie di Luigi Luccini, già aiutante anche quando il laboratorio era al n. 65, era tentata di rimettersi al lavoro, seriamente, a libri e voleva provare ad occuparsi in modo deciso del lavoro fotografico fatto in camera oscura; fu provata. L’anno dopo furono assunti: Rosi Franzelli (2.2.81) una ciellina, che si sarebbe occupata della contabilità e del lavoro di segreteria, Giusi Feroldi (18.2.81) nel ruolo di grafico, Carmen Lombardi (16.3.81) che lasciò la Gorlini che stava andando in crisi, Marco Fecchio (2.6.81) grafico, Maria Teresa Casirati (2.9.81) altra ragazza di CL che subentrò a Rosi. Silvana, dopo la prova, si convinse che valesse la pena di ricominciare a lavorare e fu assunta il 2.7.81 come fotografa. Era stato agganciato al carro, con la mansione di fattorino, anche Giuseppe Farina, un uomo valido anche se già in pensione. Mentre il corpo lavorava duramente, la mente, guidata dal cuore, vigilava che non si eccedesse, che gl’intenti fossero sempre quelli per cui esisteva quel luogo. Una divisione netta di compiti che realmente accadde con l’entrata in campo di Vittorio. L’amico di tante partite, che giocava in porta, venti anni prima, nella squadra del Circolo parrocchiale Anni Verdi, di cui RU era stato già l’anima, era entrato in


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campo, con lo stesso scopo con il quale aveva lottato, tanti anni prima, nel campo sportivo: per evitare che la squadra subisse i goal. E anche ora la sua funzione, tutto sommato, era la stessa. A RU serviva un moderatore. Lo era stato Raffaelli all’università, che aveva calmierato di prudenza la sua grinta, con risultati encomiabili per entrambi. RU era un attaccante puro, nato così per vocazione, nel disegno di Dio, e si scopriva inevitabilmente agli attacchi altrui, non badando affatto alla difesa, perché era, nel suo giudizio, solo l’ardimento l’arma della vittoria, alla difesa ci avrebbe pensato la Provvidenza del Dio creatore sommo ed arbitro unico di quella comune storia. Come avrebbe potuto, un Dio Buono, non difenderla? Vittorio era allora il difensore d’ufficio, perché comunque uno vi doveva essere! Altrimenti sarebbe poi parso, ai miscredenti, che RU non avesse usato ogni mezzo e modo, per vincere e sopravvivere nella dura lotta per la vita, in cui sembra che anche si perda. Nell’essenza ultima delle cose, per Romano, la sconfitta era impossibile. Lo spirito, l’intesa tra loro due, RU e Vittorio, attaccante ed estremo difensore, era veramente quello giusto: il portiere capiva profondamente l’amico e ci stava mettendo davvero anch’egli l’anima, per rendere quel corpo, che gli era stato affidato, una delle migliori difese che esistessero in Milano; la comandava egregiamente, come sanno fare tutti i bravi portieri. Il salto tecnico, nella qualità, fu notato da tutti. I clienti antichi avevano rinnovato la loro fiducia, ed altri furono mandati dalla Provvidenza, come la Melchioni, che cominciò a servirsi della sua Ditta perché RU, da onesto conducente, aveva danneggiato involontariamente, facendo manovra, la macchina del Dott. Sardano. Era chi gestiva tutte le commesse per la Melchioni ed aveva lasciato il suo biglietto da visita, sul cruscotto dell’auto danneggiata, invece di far finta di niente e d’andarsene, come fanno molti: colpito da tanta correttezza, quel Direttore volle servirsi della Romano Amodeo fotocomposizione. Divennero clienti il Gruppo Editoriale Fabbri, che faceva realizzare il fumetto di Candy-Candy e molti libri e riviste, La Pirola Editori, che dava da fare manuali e altre cose sulla normativa, Mondadori e tanti altri che RU perfino giunse a ignorare. Aveva messo nelle mani di Vittorio ogni cosa e questo braccio era quello ideale per la sua mente. Una mente che aveva costantemente le sue gatte da pelare, nel solido modo: le scadenze del fine mese, divenute adesso ancora più impegnative. La ditta produceva, stava in piedi, ma non riusciva, nonostante ciò, ad inseguire come si sarebbe dovuto la lepre degl’interessi passivi, che fuggiva ancora più veloce.

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43 anni compiuti da Ru Nel duo di R-U-BEN, Benito lavorava da un anno in INTER AUDIT. Mentre RU, avuto quanto era entrato di denaro fresco, dalle vendite, aveva visto come i 30 milioni dell’eredità dei genitori erano andati per 2/3 assorbiti dall’acquisto del laboratorio di Via Colletta 29. In esso la ditta poteva lavorare come si deve, dunque era stato un acquisto necessario ed anche estremamente vantaggioso, che però aveva assorbito parte di quel rimedio che era venuto dalla bontà dei genitori. Così l’esposizione pregressa, non frenata, aveva cominciato a levitare. Nel trend cominciato nel ’75 con 150 milioni e che era, lo si ripropone in milioni, con di fianco le date: 187 (1976), 234 (1977), 292 (1978), 366 (1979), 457 (1980), 572 (1981), 715 (1982), 894 (1983), 1.117 (1984), 1.396 (1985), nel 1981 RU avrebbe dovuto essere a quota 572 milioni, e invece era finito oltre, sfiorando i 600.


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La causa era stata l’assoluta mancanza di denaro a basso costo. Non erano più possibili i mutui bancari, ma solo le operazioni di scoperto e di portafoglio commerciale. Sua mamma sembrava divenuta piccola piccola... Pativano le difficoltà del loro 1°genito. A conti fatti, 3 mesi di anticipo, tra interesse della banca, bollo della cambiale e quanto c’era di resto, di un effetto scontato, costava circa il 40%, perché all’interesse vero e proprio, che si aggirava sul 25%, si aggiungevano i costi fissi che incidevano moltissimo. L’interesse pagato per lo scoperto di conto, tutte le volte che si andava oltre, era una penale che alzava l’interesse al 29%... cose da strozzini. Poi c’era il salasso, vero e proprio, derivante dalla tecnologia che per vera necessità si doveva aggiornare con nuove macchine. Ogni due anni uscivano modelli nuovi e bisognava mandare a monte leasing di 5 anni, per farne di nuovi e pagando ogni volta penali. RU s’accorse che l’ingresso di Vittorio aveva accelerato la crescita e il bisogno d’un giro ancora più grande di capitali, aumentato il giro del lavoro. SI SPOSA BARBARA ALLA MADONNA DEL GRANATO, CAPACCIO

Un giorno RU, Giancarla, Luigi Luccini e Silvana partirono per un lungo giro in Italia Meridionale: il 21 giugno 1980 si sposava a Capaccio, in un noto Santuario alla Madonna del Roseto, sua cugina Barbara Baratta con Gigi Flocco. Luigi Luccini era stato richiesto da lei come l’autista che accompagnasse la sposa, con la bella Mercedes argentata imprestata loro dall’amico Monguzzi. Colsero l’occasione per un giro fino in Sicilia. Giancarla si sentiva libera e brillante solo in compagnia di quegli amici, sempre ospiti al mare, sempre compagni di tanti fine anno. Era ancora viva, nella memoria, quella sera in cui Luigi Luccini aveva avuto le attenzioni d’una bella ragazza dai capelli rossi e ricci ricci, in uno dei tanti cenoni cui avevano partecipato tutti e quattro. RU aveva mille preoccupazioni nella testa, per delle scadenze, allora, addirittura di fine anno, mentre Luccini aveva questa rossa che gli si strofinava addosso ... Poi si era scoperto che era un travestito e RU, vincendo sui pensieri, si era sviscerato dal ridere. Luigi Luccini assomigliava a Ugo Pagliai, un attore che in quei tempi era finito ogni settimana in televisione perché interpretava il personaggio principale nello sceneggiato a puntate, che parlava della storia della “Baronessa di Carini”. Quell’anno del matrimonio di Barbara Baratta, tornando verso Milano, i quattro amici si fermarono a pranzo ai Castelli Romani. In vena di giocare, RU cominciò a chiamare Ugo il suo amico e a parlare della Baronessa di Carini, di set, ed altri argomenti teatrali, tutte le volte che passava il cameriere. Tanto fece che a un certo punto venne al tavolo il proprietario del locale, gli chiese scusa per non averlo riconosciuto subito e portò colui che credeva fosse Ugo Pagliai in visita dappertutto. Poi volle che firmasse il libro delle celebrità che erano passate per quel luogo e Luigi Luccini – naturalmente – firmò “Ugo Pagliai”. Nel ritorno, tutti e quattro risero per centinaia di chilometri, evidenziando tutte le moine che avevano fatto, dopo che lo avevano scambiato per chi non era. Non erano mai stati prima così allegri, nei venti anni ormai che si conoscevano.


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1982

In R-U-BEN, il 2°genito si era dimesso da INTER AUDIT ed era divenuto ora il Direttore Generale di SG2, una società tra una Banca Francese e una Italiana; ciò mentre RU proponeva all’Ordine Architetti di curare la pubblicità sul Bollettino. La proposta di RU giunse in un momento opportuno, perché anche l’Ordine stava cercando di far assumere al mensile una maggiore consistenza. Infatti era stata creata una Consulta Regionale tra tutti gli Ordini e gli altri, avendo visto la bontà della Rivista degli Architetti di Milano, da quando era stata gestita da Amodeo, avevano pensato d’agganciarvisi. Fu stabilito un accordo secondo il quale Amodeo s’impegnava tassativamente a diffondere il mensile in 15 giorni dalla consegna di tutti i testi, e l’Ordine accordava a lui anche la raccolta della pubblicità. Era un patto di ferro grazie al quale il mensile doveva essere affidabile sotto l’aspetto pubblicitario. Era un’esigenza comune, sia dei lettori, sia di quanti affidavano i messaggi destinati ad uscite precise. Il nuovo direttore, seguito a Redaelli, colse l’occasione che ora uscissero 9.000 copie e fossero uniti assieme tutti gli Ordini della Lombardia, per fare del mensile, chiamato ora AL (Architetti Lombardi), di 80 pagine anziché 28.

La conseguenza fu che, nonostante la Calvano si fosse fatta una valida esperienza, i redattori non riuscivano a rispettare i tempi e questo preoccupò notevolmente Amodeo, perché un mensile, che non è puntuale, non raccoglie come dovuto, perché scontenta tutti. C’era, messo in affitto, sempre a Via Colletta n. 29, un piccolo ufficio, per 500.000 lire al mese. Era su strada. RU stipulò il contratto e ne fece il reparto separato da quello diretto da Vittorio, e dedicato alla raccolta pubblicitaria per AL. Dopo gli anni terribili, ora la pubblicità sulla carta cominciava nuovamente ad assicurare buone possibilità di resa e il mensile AL realmente era distribuito ai 9.000 Architetti iscritti ai relativi Ordini di tutte le province della Lombardia.. Fu incaricata di curare questo servizio Paola Barazzetti, che RU aveva conosciuto alla Gorlini e che cercava ora d’occuparsi, visto le arie di fallimento che tiravano in quel luogo. RU aveva già assunto Carmen Lombardi, che lavorava lì ed era la sorella di Michela, la prima aggiunta dell’era di Vittorio Del Grossi. La Barazzetti era pagata a rendimento e doveva preparare la schiera dei pubblicitari. Tra i primi rinforzi furono Susan Marinkovic e il marito Giuseppe Pirola, detto Beppe. Susan! Bella e dolce bionda jugoslava, che non s’era occupata mai di questo settore, ma aveva venduto le automobili nella vicina sede della Fiat. Profittando delle sue grazie e del suo fare accattivante, era riuscita ad appioppare a RU, sempre affascinato dalla bellezza femminile, però al 75% del costo, un Fiat 131 nuova, che tuttavia ne aveva sempre una. Faceva parte d’uno stock d’auto che dovevano andare in Germania e non erano state accettate per questioni imprecisate. Restate già in strada e fuori quota, potevano essere vendute con forti sconti. Susan affermava di vivere sotto una spada di Damocle: aveva avuto anni prima una macchia nera nel cervello e se si fosse sviluppata avrebbero dovuto toglierla chirurgicamente. Anche il marito era un venditore d’automobili. Coordinati ed istruiti dalla Barazzetti, i due coniugi si misero a raccogliere la pubblicità di AL. Ci riuscivano abbastanza, ma il fatto d’essere nuovi nel settore, si rivelò per loro un ostacolo più grande del previsto. RU si avvalse di Susan e poi del marito, perché un giorno lei gli confidò che la mandavano via dall’esposizione della Fiat, in cui lei aveva un suo piccolo ufficio, in bella vista, nel quale vendeva le vetture, poiché il Concessionario Fiat voleva adibire anche quello spazio per l’esposizione dei nuovi modelli. Romano, come Dio l’aveva fatto, non poteva esimersi dal farsi avanti lui! Anche la necessità d’aiutare la Susan licenziata ebbe il suo rilevante peso nella nuova dimensione che aveva assunto la ditta Amodeo, diventando anche Agenzia di


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pubblicità, così come lo era stata quella di aiutare anche l’altra bella persona: Paola Barazzetti restata senza lavoro per le angustie della Gorlini. Una gran brava e bella donna, Paola Barazzetti, alla quale egli voleva bene e che si lasciava amare nel rispetto, senza che temesse che lui si mutasse in qualcosa’altro. Cominciò a lavorare, in quel settore, anche Enrico Goglio, che aveva egli pure rappresentato, fino a quel momento, solo la vendita di motociclette. Goglio abitava nel suo stesso palazzo in Via Lattanzio, dove ormai vivevano RU e Giancarla. Assunto assieme a Beppe Pirola, Enrico indicava come non solo la bellezza femminile mobilitasse RU, ma il bisogno di lui che avevano le persone. L’ufficio, proprietà del Dott. Benvenuti, mise a contatto Amodeo anche con costui, che presto divenne uno dei suoi più forti finanziatori. RU gli sottopose un piano d’investimenti, che egli trovò interessante. Avrebbe così impegnato in esso 70 milioni, ma desiderava la garanzia d’un mutuo. L’appartamento di RU era già impegnato al 50% e non aveva capienza aggiuntiva, così ne parlò ai suoi genitori, sottopose le tabelle e fece vedere quali fossero i costi attuali che era costretto a pagare per il denaro impegnato. I suoi genitori allibirono, vedendo come, in certi momenti, gli interessi chiesti dalle banche superavano il 30% annuo. Pensarono che si erano liberati della casa di Viale Omero per aiutarlo e si rendevano conto che il sacrificio gli aveva consentito di non saltare letteralmente in aria, ma che ora, se non cercavano di fare essi stessi ancora qualche cosa – ammazzargli il vitello grasso – si metteva molto male per quel loro figlio che – mannaggia! non ascoltando – era andato via dal CIMEP, la sua Casa paterna. Lo rimproverarono e RU gli dimostrò, calcolatrice alla mano, che tutta la difficoltà aveva avuto inizio dai 150 milioni che egli s’era trovati sul gobbo per la conclusione della costruzione di Villa Colletto. “Tu stessa, mamma, venisti con me e vedesti come Silvano Cappetta volesse 100 milioni e gliene demmo solo 70”. Quei soldi io non li ho potuti recuperare da nessuno, né da Raho che morì, né era giusto li accollassi a Sergio, che aveva lavorato per tre anni tutti i sabati per tenere controllati i suoi costi. Per arrivare a 150 io ho aggiunto solo altri 80 che ho speso per me, in mutui fatti fare sulle mie case”. I suoi genitori, valutato il tasso che pagava, decisero che l’offerta del Dott. Benvenuti era molto buona: il costo non superava il 17% annuo, era allo stesso livello del Prime rate che le banche facevano pagare, in quei tempi, ai clienti privilegiati. Così, sulla casa dei genitori dei due fratelli di quella Parabola, intestata al solo Luigi Amodeo e che sarebbe stata del solo Benito, quando i genitori fossero morti, in quanto il Figliol Prodigo Paperino aveva già avuto la sua parte, fu aggiunta una ipoteca di secondo grado, per 70 milioni, a favore d’Ermenegildo Benvenuti, e il danaro fu ancora dato a chi già aveva avuto la sua parte: era niente più ed altro se non il vitello grasso della Parabola.

Il Benvenuti controllava la situazione, sia perché era il proprietario dell’ufficio, sia perché aveva una azienda collocata proprio di fianco, al civico 29: la Manes, in cui lavorava il figlio ingegnere e che si occupava di macchine termiche. Inoltre stava vedendo il forte momento di sviluppo dell’azienda, che aveva preso in affitto i suoi locali su strada; aveva abbastanza competenza anche per capire che AL era un veicolo molto forte, nel settore, arrivando a tutti e 9.000 gli architetti della Lombardia. I suoi 70 milioni servirono a coprire l’inflazione d’un anno, ma non ad eliminare i problemi che erano all’origine di tutto: l’esposizione. Infatti, pur essendo una bella cifra quella che entrò, andò a coprire ed a sostituire impegni a tassi più gravosi. Egli doveva capire, sempre più, l’importanza essenziale dei mezzi, fino a divenire egli stesso il mezzo più efficace nell’intenzione di Dio, quel  che si era proposto di essere fin dal principio della sua conversione, nel 1973, nove anni prima. Ormai aveva rischiato centinaia di volte di finire sul libro dei protesti, e sempre era stato salvato in extremis, da una Provvidenziale mano, che si era levata amica, all’ultimo momento: vuoi che fosse quella turpe d’uno strozzino, che accettasse di rilasciargli un prestito, vuoi che fosse quella santa, d’un vero amico che gli desse aiuto senza chiedere nemmeno gl’interessi. Si era talmente affidato alla provvidenza, che ogni persona che gli chiedeva aiuto, quando vedeva che lui, per riuscire ad assumere il suo nominativo, l’integrava nella categoria C/1 dell’operaio con una specializzazione e lo pagava per tale ... capiva di essere finita in un posto irreale che non era governato dal profitto. In ciò non scavalcava l’autorità che aveva data a Vittorio; anche lui doveva accettare l’idea di trarne fuori qualcosa di buono. Era come il proprietario di una squadra di calcio che prima di comperare a peso d’oro un giocatore chiedeva al suo allenatore se era un profilo interessante. Chi era assunto in questo modo dimostrava allora grandissima riconoscenza a lui così buono e si metteva in testa che, per assumere proprio lui era stata fatta una eccezione, ed era molto riconoscente per il privilegio. Ora accadeva che (magari pochi mesi dopo la sua assunzione) RU privilegiasse ancora un’altra persona. Tutti si guardavano e dicevano tra loro: “Ma come? Un altro?”. Allora il penultimo assunto cominciava ad essere dubbioso sul privilegio concesso anche a lui. Ancora mesi dopo, se fosse stata fatta salire ancora un’altra persona, su quel loro affollatissimo tram, allora anch’egli, dimenticandosi cosa aveva pensato quando egli era stato privilegiato ed accolto, si metteva ad osservare, assieme a tutti gli altri: “Ma come? Ancora un altro?” e il privilegio per lui non esisteva più! Una storia infinita e ciclica.


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In 15 anni passeranno per l’ufficio di RU oltre 50 persone. 50 perché, ad un certo punto, molte di queste, pagate troppo rispetto alla loro stessa preparazione, divenute veramente specializzate a spese della ditta, si rivolsero a lui e gli dissero: “Ti devo parlare”. Significava – dopo un poco RU lo capì – che era comparso chi, per avere una persona divenuta così brava, era ora disposto a pagarla ancora di più. A quel punto,RU gli avrebbe potuto rinfacciare: “Amico, ho investito su di te, quando non sapevi fare niente; come fai ora a voler dare ad altri i frutti della tua esperienza? Moralmente tu non puoi!” Non gli diceva altro che: “Va’ con Dio”. Infatti pensava che quella persona, era come il seme raccontato da Gesù, che il Buon Seminatore aveva sparso ovunque ed era finito sulla strada, o tra le spine; non sul terreno buono che dava poi il suo giusto frutto. Lui doveva essere il Buon Seminatore, il resto erano fatti che riguardavano il piano di Dio. Nessuno, di quelli che restavano nella Ditta – però – rimaneva contento del fatto che RU accettava così supinamente l’evidenza che era stato sfruttato. A loro sembrava fosse una estrema debolezza e finivano per non sentirsi al sicuro, in una impresa il cui titolare era così... Erano stati assunti grazie a lui che era così, ma ora gli sembra una sfortuna. Poi concludevano: “Per fortuna che c’è Vittorio!” Vittorio, per chi non era già capace, era come il Diavolo, proprio come il Milan quando per vincere i campionati assumeva solo campioni già affermati. Mai – con le sue sole idee – avrebbe messo in squadra ragazzotti cui insegnare il calcio. Se fosse stato per lui, nessuno di loro sarebbe stato mai assunto... e adesso lo ritenevano “la loro fortuna”. , con chiarezza espositiva, da chi già la aveva trovata e si comportava in conseguenza: dal Paperino assoluto credente, che confidava solo nella divina Provvidenza che aggiungeva creazione a creazione, a modo tutto suo. Paperino l’aveva capito: egli non era un Creatore, ma solo una sua Creatura, ed esisteva, attimo dopo attimo, solo grazie a Lui che faceva salti mortali per dargli un futuro. Così succedeva, alle 22 e all’improvviso, che RU doveva correre a Torino, dal suo amico Armando Errichiello. Cambierà un assegno con la Sideltronic, che lui dirige: 5 milioni contro 5 milioni. Perché? Il motivo è che l’indomani arriva, sulla Cariplo, un assegno di 5 milioni, ed occorre versare del contante per coprirlo.

Il giorno dopo, a Milano verserò l’assegno d’Armando, sulla Popolare di Lodi, presso la quale aveva un fido. Preleverò in cambio 5 milioni in contanti e li porterà alla Cariplo, per pagare, in contanti, l’assegno arrivato. Certamente RU non avrà dato ad Errichiello un assegno della Popolare di Lodi, ma della Cariplo. 5 giorni dopo, se non trova il modo di coprire più stabilmente questo scoperto di conto corrente, deve rifare un giro, così con altre persone e su altre banche. Giri mostruosi fatti da Amodeo pur di permettere a chi aveva preparato a sue spese, d’andare – gratis et amore dei – a portare altrove il frutto della sua preparazione. Continuando l’esempio relativo al calcio, era come se egli avesse profuso capitali per allevare i ragazzi fino a farli essere campioni, per poi lasciarli andare gratis a far vincere le altre squadre, che adesso li pagavano come tali... In alcuni giorni, dell’anno successivo – il 1983 – RU arrivò a fa girare in una sola mattinata, quasi mezzo miliardo di lire! Voi chiederete: “Ma perché tutto questo? Lo faceva per pura follia?” No. Amodeo lo faceva per pura Fede. E, mentre andava a Torino a fare il suo giro vizioso, avrebbe potuto legittimamente osservare – notatelo bene! – stavolta a Dio: “Ma come? Sto preparando tutto per te... e tu, tu che puoi molto di più di chi io preparo e mi lascia, mi lasci pure tu, in mezzo a queste difficoltà? Io voglio vendere tutto, per comperare la tua perla; ma perché nessuno compra le mie case? Eccomi sballottato come una pallina di flipper. Mantieni il tuo impegno o mi stufo e non ti seguo più!” Invece non si lamentava e pregava così, sì Dio: “Signore, sembra che io vada a battere moneta falsa a Torino, e così fatua che dura solo una settimana... Ma non è così. È eterna, vera, autentica moneta, della tua zecca! Tu mi stai saggiando, per vedere se io ci sto, a pagare con la mia sofferenza. Sì io ci sto! Sei buono, Signore e non m’inganni, e non m’induci in tentazione. Grazie e benedizioni a te, ché mi hai spiegato tutto, come veramente è.” Così quelle ore di viaggio erano, all’improvviso, per lui d’una bellezza estrema; tanto che spesso, pieno del senso dell’amore di Dio, RU piangeva, ma di gioia e commozione. Estasi? Se non lo era, le assomigliava molto. Per uno strizzacervelli sarebbe stata solo esaltazione mistica. Sì, poiché per la fede nel Doctor Freud, non puoi ringraziare chi ti tortura così, a meno di non essere una vittima di puro e semplice masochismo. Accade allora che, di fronte a una persona così, Dio lascia anche chiari segni.


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Una volta gli successe questo: aveva lasciato andare in protesto 10 milioni... non li aveva! Li recuperò e pagò la cambiale, ritirandola il giorno dopo il protesto. La legge sulla cambiale prescriveva che, dalla data del protesto, il titolo fosse pagabile per 5 giorni e che, se il giorno dopo d’essere stato pagato, si fosse chiesta la cancellazione del protesto, essa sarebbe stata concessa. Doveva essere tassativamente il giorno dopo che la cambiale era stata pagata e ciò risultava dal “pagato il...” che la banca timbrava sul retro dell’effetto. Ora c’era una norma stupida: una cambiale protestata il 3 avrebbe potuto essere pagata fino al giorno 8, e il 9 si sarebbe potuto ottenere la cancellazione. Ma se fosse stata pagata il 4... ma il 5 la cancellazione del protesto non fosse stata chiesta, il protesto non sarebbe più stato tolto. Non si poteva neppure rendere la cambiale alla banca perché aggiornasse la data del timbro, come se il pagamento fosse avvenuto il giorno 8 anziché il 4. Ora questo fu proprio ciò che accadde quando RU: pagò i 10 milioni il giorno dopo il protesto e poi, l’indomani, si dimenticò di chiedere la cancellazione. Due giorni dopo se n’accorse, piombò in Tribunale, ma il Cancelliere gli ribadì che non si poteva fare più nulla. Solo il notaio, sapendo la cosa, poteva risolverla: era lui chi dichiarava se l’effetto era stato pagato o no entro i 5 giorni da quando il titolo era stato protestato. RU cercò allora il notaio. Era il Notaio Sessa di Milano, e purtroppo era in ferie. Riuscì, facendo immediate ricerche, ad avere il suo numero e gli telefonò al mare, assicurandogli che aveva bisogno solo d’incontrarlo per 5 minuti. Dopo la sua protesta “che era in vacanza!”, accettò un appuntamento per le 3 del pomeriggio a Sestri Levante, dove era in ferie. Grossa corsa in autostrada e, alle 3, fu ricevuto solo dalla moglie del notaio, che non volle sentire ragioni. Sancì: “Chi sbaglia paga”. RU tornò avvilito perché, con un protesto di 10 milioni, perdeva tutti i fidi e praticamente avrebbe dovuto chiudere la sua ditta. Allora si mise a pregare, chiedendo perdono, al Signore, della sua disattenzione: “Ho peccato contro di Te! Tutto ciò che faccio, lo sto facendo per Te e ora crollo! Come posso essere perdonato?” Volle confessarsi, nella prima Chiesa che trovò, per lavarsi, del tutto, appena giunse a Milano. Era tornato da 5 minuti in Via Pietro Colletta, quando squillò il telefono. Era il Cancelliere del Tribunale. Lo aveva rintracciato chissà come e gli raccomandava di portare in Tribunale il titolo lunedì, ‘ché l’avrebbe aiutato. Lunedì RU andò in Tribunale e rientrò in bonis. Ritenne di ringraziare quell’uomo e, saputo dove abitava, inatteso, gli fece visita e portò ogni ben di Dio: vino, salami, prosciutti... Il Cancelliere si commosse e RU volle allora sapere come mai l’avesse chiamato, dopo che gli aveva già detto al mattino di non potere fare assolutamente nulla.

Il Cancelliere rispose che non aveva mai fatto prima una cosa del genere; ma, intorno alle 4 del pomeriggio, era stato indotto a pensare a lui, e a provare così tanta pena che aveva proprio dovuto mettersi a cercarlo. Si ricordava d’aver visto altre volte la sua faccia, allora era stato in archivio. Dopo quasi un’ora di ricerca tra le molte scartoffie, fu sicuro d’averlo individuato e infine aveva trovato il numero sulla guida del telefono. Amodeo allora osservò mentalmente la scena: egli che si pentiva e pregava Dio sull’autostrada, e il Cancelliere che era costretto ad aiutarlo in Tribunale ... Ora il racconto non è ancora finito. Infatti, il mese dopo, a RU arrivò la comunicazione d’essere stato protestato, e che non era scattata la cancellazione. Gli venne un colpo. Corse in Tribunale. “Ma no! Il protesto è stato cancellato. Vedi?” e il Cancelliere la mostrò sulla sua matrice. Poi girò il foglio e, in fondo, vide segnata un'altra cambiale, di 10 milioni, a carico de Romano Amodeo. “Erano due?” No era una, ma il Notaio Sessa, di Milano, s’era sbagliato e ne aveva messe in elenco due. Ora Chi se non Dio metteva, nelle mani del suo amato e fedele , il Notaio e l’inflessibilità del “Chi sbaglia paghi” di sua moglie? RU si recò nel loro ufficio, volle incontrarlo per una questione urgentissima, e gli ricordò l’episodio del mese prima, di come era stato trattato con durezza, egli che sperava esistesse solo un pochino di misericordia. Aggiunse: “Invece mi fu risposto che chi sbaglia paghi, Beh, sa, Notaio? Chi ha sbagliato... dopotutto è stato lei.” “Come io?!” “Sì, il suo Studio Notarile ha segnato due volte la stessa cambiale!” “Impossibile!” No, era possibile! Controllò immediatamente e vide che lo avevano veramente fatto. Trasecolò. E RU gli disse: “Dottore, io che chiedevo misericordia per me, ce l’ho per lei. Mi basta solo che lei ammetta, pubblicamente, il suo errore”. Era necessario tutte le volte che quel protesto veniva alla luce e – tirando fuori il mea culpa del Notaio Sessa – il problema più non sussisteva. Il Notaio Sessa dovette farlo, innumerevoli volte. RU aveva sbagliato e il protesto non gli fu cancellato: risultava sempre tutte le volte. Però Dio aveva trovato come stupendamente perdonarlo: sempre, il Notaio Sessa, era tenuto ad avvertire che era stato solo un suo molto increscioso disguido. Ed era la verità! Il Cancelliere, toccato da Dio dichiarò il falso: che s’era sbagliato lui! Ora, se a qualcuno l’episodio può sembrare inventato, controlli tutto. Questi atti notarili sono conservati vita natural durante... e ancora oltre. Da una ricerca seria può risultare che questo racconto è interamente vero.


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A un certo punto la frequenza di questi eventi, veramente fuori dall’ordinario, fu tanto evidente che RU volle avere una testimone. Avvenne questo. Al 15 del mese Amodeo incassò i 15 milioni che gli mancavano per il fine mese. Ora Goglio, amico e dipendente, che aveva investito 15 milioni nella sua ditta, gli riferì che sapeva come gli accordi prevedevano due mesi di preavviso, ma se non aveva questa somma, perdeva una grand’occasione. RU si mise nei suoi panni e restituì il denaro, anche aveva altri 5 modi per rifarsi entro la fine di quel mese. Ma niente funzionò. Non trovò aiuti e nemmeno strozzini. Fu protestata una cambiale di 15 milioni esatti. Quando arrivò il quarto giorno dal protesto e l’indomani sarebbe stato l’ultimo per pagare il titolo e farsi cancellare quel protesto, non seppe più come fare e a che santo votarsi. Allora chiamò Antonella Dall’Oglio, sua segretaria in quel momento e le raccontò tutto. Alla fine le comunicò: “Ho bisogno della tua testimonianza, perché domani io e te ci ritroveremo qui, per vedere in che modo imprevisto e straordinario Dio avrà fatto uscire questi soldi”. Poi se n’andò a casa a mangiare, lasciando sconcertata Antonella. Colà giunto, ecco – sorpresa! – Pietro Saviello Barbato, il suo amico del CIMEP che s’era licenziato. Si era mosso senza avvertire, andando da lui per la prima ed ultima volta, attraversando tutta Milano. Aveva in tasca un assegno che aveva firmato già da 15 giorni e che era intestato a Romano Amodeo. Pietro aveva pensato da sé e ben da 15 giorni che “forse servivano al suo amico”, lo aveva cercato senza riuscire mai a parlarci, finché si era deciso che non poteva più attendere e che doveva andare personalmente da lui! Ed eccolo là, questo straordinario messo della Provvidenza infinita, d’un Dio che aspetta sempre l’ultimo momento, per fare sospirare e benedire il suo aiuto! Chi non ci crede, senta quest’architetto di Milano, senta Antonella. In quanto a lei, un’ora dopo, rientrato in ufficio, RU la chiamò subito e le comunicò: “Ti avevo annunciato che avremmo visto domani. No, ecco, è accaduto oggi!” e scoppiò a piangere, davanti a lei, come un bambino di due anni. Il fatto, ancora più straordinario, stava nella costanza di questi interventi e nel loro numero. Tutte quelle persone, sono state per Amodeo vere mani della Provvidenza: sia quelle dei santi, sia quelle degli strozzini, sia, tra i due estremi, quelle di tutti. Interventi tutti ricostruibili, se un giorno qualcuno ci si vorrà mettere, indagando, chiedendo a queste persone.

Ecco i principali nomi delle persone che hanno aiutato economicamente Amodeo tra il 1975 e il 1987, in ordine d’intervento e avendo escluso parenti e strozzini: Antonio Barassi (Castelveccana), Romano Gozzi (Lodi), Alberto Scarzella, Onofrio Alemanno, Corrado Di Battista, Pietro Saviello, Eduardo Di Marco, Giulio Fiorese (Besnate), Giovanni De Bastiani (Seveso), Vittorio Del Grossi, Enrico Goglio, Giuseppe Farina, Peppino Citterio (Corsico), Luigi Luccini, Maria Proietti, suo fratello, sua cognata, due sue amiche, Neda Giannetti, Serafino Quadri (Pozzo d’Adda), Lina Putelli (Varese), Luigi Sansone, Cesare Merola (Lodi), Spiridione Macchiarulo (Cologno Monzese), Giulio Redaelli, Sabato Lingardo, Giuseppe e Donata Volpe, Giovanni Lanzarini, Franco Dolfini (Paderno Dugnano), Armando Errichiello (Torino), Mauri, Giuseppe Farina (Torino), Giuseppe Ortenzi, Ermenegildo Benvenuti, Francesco Tagliarini, Riccardo Tagliarini, Renzo Vivian (Arese), Luciano Bidoli, Michele Colabella, Graziano Pallini Dagna (Marinella di Sarzana), Elda Scarzella, Armando Savastio, Don Francesco Mambretti con le due sue sorelle, Giuseppe Jodice (Rosate), Carlo Alio (S. Giuliano Milanese), un amico della Gorlini, e ancora altri di cui sfugge il nome, comparsi e poi spariti, persino dalla memoria. UN CELESTE SALUTO DI MADRE E FIGLIO PRIMA DEL BUIO Un giorno, infine, a RU accadde un fatto normale, per il modo in cui avvenne, ma che egli intese e sentì in un modo davvero incredibile e straordinario. Aveva da poco superato l’ingresso dell’androne di Via Colletta e stava per giungere al cortile in fondo in cui era il suo ufficio, che gli vennero incontro due figure come di marocchini, madre e figlio. “Buon giorno, Romano!” “Vi serve qualcosa?” “No. Volevamo incontrarla.” RU domandò perché, per qual motivo. Gli risposero che avevano solo desiderato d’incontrarlo e lo avevano atteso, sapendo che sarebbe passato da lì. “Posso fare qualcosa? Vi serve qualcosa?” Le due persone gli sorrisero amabilmente un’ultima volta e andarono via. A lui restò dentro la domanda: “Ma cosa volevano?”... ed anche il sentore, assolutamente straordinario, d’aver avuto un incontro importante. Quella cosa che aveva appena vissuto, non aveva, infatti, alcun senso reale. Raggiunse il suo ufficio al primo piano e notò che era pervaso, questo sì, d’un senso profondo, di pace e di gioia come se coloro che lo avessero atteso e voluto incontrare personalmente fossero stati Gesù e la Madonna. Non si sbagliava: alla vigilia della perdita di suo Padre, il Cielo scendeva da lui in questo modo reale: attraverso queste due persone in carne ed ossa, ma caricate di tutta quella enorme valenza celeste, che avevano veramente per lui.


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1983

ANNO SANTO SPECIALE dello SPIRITO SANTO

Nel marzo 1983 una chiamata straziante: “Corri, papà sta male!”. Luigi Amodeo, nel dì in cui in Milano il Papa fu in visita ufficiale, fu trovato rannicchiato, rigido, paralizzato, pugni stretti e occhi che chiedevano aiuto. LA SALITA IN CIELO DI LUIGI AMODEO, LAMECH Trasportato d’urgenza all’ospedale di Via Francesco Sforza, restò a lungo con il braccio destro piegato e sollevato, come se s’aggrappasse a qualcosa in alto che solo egli vedeva e a cui puntava il dito. Molto dopo si rilassò. Riusciva a spostare solo gli occhi, e l’indice della destra in un tic, dell’unghia che grattava quella del pollice, un gesto minimo e involontario, che RU poi si sorprese in più occasioni di ripetere anche lui, come se fosse unito in ciò a suo padre. Gli furono tutt’intorno, ad assisterlo, per come si poteva. Gli vennero piaghe da decubito, perfino sui talloni dei piedi. Ma capiva. La sua mente era vigile, però non avvertiva il senso tragico della sua sorte. L’unico gesto libero, che non si sa da dove sia emerso e come sia stato possibile, fu quando Giancarla, osservando come non gli fosse dato nulla da mangiare, gli osservò in modo scherzoso (ma tutto sommato maldestro, versi chi sta per morire): “Ma vogliono farti morire di fame?”. Dal suo volto rigido emerse una risata ultraterrena, divertita, attinta veramente a chissà quali energie dell’altro mondo. Si aggravò, giorno dopo giorno. Si doveva cercare d’alimentarlo per bocca, a poco servirono le flebo, non trovavano le vene! Ma il cibo, sebbene liquido, spesso invadeva i polmoni e allora sembrava che soffocasse. Pochi cucchiai che riuscivano ad andare nello stomaco sembravano un gran successo.


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Anna, che lo aveva seguito e combattuto, soprattutto guidato nel corso di tutta la sua vita, si ritrovò d’un tratto senza più uno scopo. Quando seppe che egli era morto mentre lei non c’era, si addolorò, avrebbe voluto tenergli la mano fino all’ultimo, ma era toccato a RU e BEN e non a lei. Cadde in uno stato di prostrazione profonda. Sembrava un automa e diceva che la sua vita era ormai finita, ora che il suo Gino non c’era più, a darle uno scopo e anche un ostacolo contro cui lottare, tante volte, il suo compagno. Si era dimenticata dei momenti in cui aveva detto che non ne poteva più, che non ce la faceva. Ora, soltanto ora, si rendeva conto. Lei voleva essere una madre Badessa o un ingegnere! a lei, che si sentiva una filosofa sognatrice, era toccato d’essere il perno d’una famiglia, da gestire usando tutto il criterio che occorre nella vita reale, per se stessa e per tutta, tutta la sua famiglia, altro che filosofia ed altro che sogni! Non si sapeva che fare per consolarla, e ci pensò, ancora una volta, il destino, la Provvidenza buona che ricorre ad ogni cosa per aiutare. Prima cominciò a paralizzarsi a lei un piede mentre camminava: di colpo non si articolava più, si rilassava e sbatteva per terra, inciampando. Poi cadde. Riuscì a chiamare soccorso e fu portata all’ospedale in Via Sarca, alla Bicocca, con la rotula del ginocchio destro frantumata. Specializzati in quegl’interventi, al Paolo Pini le legarono in una matassa di filo tutti i frammenti e ricucirono, sicuri che sarebbe restata menomata per sempre, specie considerando i suoi 75 anni. Ignoravano la volontà di Anna e la sua capacità di reazione. Quando la piccola grande donna si rese conto che avrebbe potuto trascorrere il resto della vita come una vecchia zoppa, recuperando la grinta di quando, bambina, rispondeva “Vecchia no!” alle preghiere fatte fare da lei alla Madonna, rispose a se stessa: “Zoppa no!”. Passò in seconda linea la morte del marito e la sua solitudine e si dedicò tutta a guarire, a non restare zoppa. Gl’infermieri e gli addetti alla rieducazione restavano strabiliati a vedere quanto fosse capace di forzare sempre più i tempi verso la definitiva guarigione. E ce la fece, non le restò che un ginocchio decisamente più grosso dell’altro e la grande ferita del taglio, ma neppure l’accenno d’una zoppìa. RU vide in ciò il modo, ineffabile, con cui la Provvidenza aveva soccorso sua madre, attraverso ciò che tutti avevano chiamato una nuova disgrazia.

Mentre sua madre pativa queste cose, RU stava patendo il suo personale calvario e giunse ad un punto nuovamente nevralgico. Nonostante la nuova struttura della sua Ditta fosse ora all’avanguardia, avesse le macchine, le persone giuste e la conduzione ideale, quello che essa arrivava a produrre, d’utile, non bastava più in alcun modo a coprire un disavanzo che non era dovuto al lavoro, ma al suo stato d’indebitamento. Stava rincorrendo una lepre irraggiungibile. Aveva nel 1983 circa un miliardo di lire in finanziamenti e pagava 270 milioni d’interessi all’anno. La ditta non dava un utile di questo genere: significavano 22,5 milioni al mese che erano portati via solo dagl’interessi. Discusse con Giancarla la situazione. La mamma, Anna, era restata sola nell’appartamento di fronte. Aveva 75 anni e bisogno di compagnia e d’aiuto, allo stesso modo di loro due. Perché non vendevano quella loro casa ed andavano a vivere con lei, occupandosi di lei? Giancarla, che era fondamentalmente molto buona, decise di acconsentire, più che per tutto il resto, per l’affetto verso Anna, cui voleva un gran bene. Fu messo l’avviso e un commerciante di frutta, che aveva lo stand nel vicino Ortomercato, fece l’offerta migliore. Entrarono, per l’appartamento di 150 metri quadrati ed il box auto, 250 milioni e andarono a risolvere la situazione, ma il beneficio netto fu solo la metà circa della cifra, perché la parte relativa alle ipoteche fu incamerata dalle banche. Il beneficio fu grandemente inferiore a quello che sarebbe stato se il bene fosse stato venduto 6 anni prima, quando c’era stata l’offerta d’acquistarlo per 180 milioni. A conti fatti e considerando che Amodeo aveva pagato di media il 27% d’interesse sul danaro utilizzato, questo è il trend di sei anni, a partire dai 180 milioni che erano stati offerti, meno i 30 avuti per la vendita di Viale Omero. Quindi per un impegno di 150 milioni nel 1977: 190 (1978), 241 (1979), 307 (1980), 390 (1981), 495 (1982), 629 (1983). Nel momento della vendita, anno 1983, l’esposizione era di 1 miliardo. Se RU avesse venduto nel 1977, a parità di condizioni, avrebbe avuto nel 1983 un debito di 371 milioni, quanto 1 miliardo meno 629 milioni. Avendo venduto ora, 1 miliardo meno 250 milioni portava a 750 milioni.


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La differenza tra 750 e 371 era di 379 milioni, ed era la perdita secca che c’era stata, non avendo venduto al momento opportuno. Il problema, che sarebbe stato quasi del tutto risolto se nel 1983 l’esposizione fosse stata di 371 milioni (equivaleva a 8,3 milioni al mese d’oneri finanziari, perfettamente tollerabili), al livello di 750 milioni era ancora abbastanza grosso e corrispondeva a 16,8 milioni al mese d’oneri finanziari. Affinché Giancarla, nella sua nuova abitazione, si trovasse come a casa sua, RU avrebbe spostato in casa di sua madre tutti i loro mobili, dando a lei l’impressione d’essere ancora tra le sue cose. Iniziò così una ristrutturazione della casa d’Anna, furono spostati i muri, rifatto quasi tutto, e costò una decina di milioni. Costò anche molta fatica fisica a tutti, anche a Pina, che andò molte volte a far opera di manovalanza, portando via decine e decine di secchi di macerie per aiutare i suoi due figli. La solidarietà e le attenzioni di tutti, eccetto stranamente Benito, confortarono Giancarla, che si sentì a casa sua anche in quella casa di fronte. Dal primo di ottobre del 1982 il secondo dei fratelli Amodeo era divenuto il Direttore Generale dell’SG2, una cooperazione bancaria tra una francese e una italiana che avevano interessi opposti tra loro: la francese, di introdurre anche in Italia quei servizi collaterali che gli Istituti di Credito mettevano su per assistere meglio i vari settori della produzione; la italiana per espandere in Francia la sua area di raccolta e gestione pura del credito. Erano obiettivi differenti che idealmente potevano essere complementari e che era difficile coordinare, per le pretese di ciascuno di prevalere. In tal contesto, il Direttore Generale aveva l’enorme difficoltà di essere quel moderatore e nello stesso tempo promotore di iniziative opposte tra loro. Quel lavoro l’assorbiva. Si era messo da molto tempo in un atteggiamento strano, immotivato se riferito a quei genitori che aveva avuto sempre così vicino. Ma era una questione vecchia, questa, nata da incomprensioni assurde in una famiglia che si era sempre capita al volo, cioè senza grandi necessità di spiegazioni. Situazioni che, se manca il dialogo, nascono quando non si parla e non si tira fuori il proprio bisogno, nella convinzione e speranza che sia l’altro a vederli. A partire da quando si sposò, Benito e la sua famiglia si tennero in questa condizione discreta di tenere in se stessi i loro bisogni, e divennero rospi.

C’era anche una sostanziale divergenza di vedute: per Gino era il figlio che doveva fare chi portasse a lui i suoi nipoti, mentre, per Benito, egli doveva fare il nonno affettuoso, alla stesso modo di come lo era sempre stato da padre. E Anna? La tanto equilibrata Anna? Non prese posizione e, non facendolo, i rospi restarono in chi li aveva. Gino morì e non ebbe la gioia di poter avere avuto per una notte un nipote a dormire con lui in casa sua. Quando i tre ragazzi, nati tutti e tre nel 1975, furono in grado di spostarsi liberamente in quello stesso condominio in cui abitavano, andarono più volte a trovare i nonni, ma erano visite fuggevoli, non avevano avuto il modo di gustare i nonni neppure loro. Così stavano insieme tutti, nelle festività di rito, e gli uni tenevano dentro le amarezze che anche gli altri serbavano. Poi, quando i genitori venderono l’appartamento di Viale Omero per anticipare a RU la sua eredità non lo dissero a Benito, e questo figlio aggiunse in sé un altro e ben motivato rospo. Un altro n’aggiunse quando non gli fu chiesto se fosse d’accordo che Romano e Giancarla andassero a vivere con la madre, in quella casa che, secondo quanto gli aveva poi detto RU, sarebbe stata la casa che avrebbe ereditato solo lui. Ci rimase, ancora, malissimo quando i genitori, perché fosse accordato al fratello RU il prestito di 70 milioni dal Dott. Benvenuti, misero in garanzia quella casa che avrebbe dovuto toccare a lui per eredità. C’era più d’un motivo, come si capisce, per avere risentimenti, per un difetto di riguardi verso di lui. Ora sarebbe bastato parlarne e tutto si sarebbe risolto, ma nessuno lo fece e il malessere, ad un certo punto, era divenuto la regola che imperava tra le famiglie, mentre i sorrisi splendevano, affinché nessuno restasse offeso e ciascuno seguitasse a tenere il tutto religiosamente chiuso in uno scrigno rugginoso. RU non era così e faceva perfino fatica a immaginare che si potesse essere così. Egli era restato nel cuore, il piccolo di sempre. Queste cose erano fuori della portata della sua logica. Aveva bisogno? Chiedeva. Non stava a mettere il carro davanti ai buoi. Spesso gli altri erano profondamente a disagio con lui proprio per questa sua schiettezza, che era giudicata sempre eccessiva. Il suo cuore è restato sempre di quel piccolo che doveva morire e fu preservato così com’era, non corrompibile dal passare del tempo. Dava ragione e torto alle due parti, poiché era giusto in tutte le cose stabilire un ordine di precedenze, ma al primo posto doveva essere messo sempre l’ultimo. E non solo per ragioni morali, ma effettive, quelle dei cinque fratelli Baratta, di Ostigliano, tre generazioni a monte della sua, che capivano che solo i più grandi avevano la forza per sostenere e mettere al primo posto il più piccolo tra loro... che poi giunse perfino ad uccidersi per amore.


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1984

In R-U-BEN , mentre BEN era Direttore Generale del SG2, per RU, l’attività pubblicitaria relativa ad AL, Architetti Lombardi, dopo tre anni, andò in crisi. La causa fu tutta attribuibile ai redattori che, nel desiderio di realizzare una vera rivista, avevano accresciute le pagine fino ad una ottantina, con la conseguenza di non riuscire più a tenere il passo con le date di pubblicazione, a causa della mole degli articoli che dovevano preparare. Susan Marinkovic, suo marito Beppe Pirola e Enrico Goglio, aiutati anche da RU e coordinati da Paola Barazzetti, riuscivano nel loro intento di raccogliere la pubblicità, ma poi avevano tutte questioni con le ditte inserzioniste, che desideravano che gli annunci comparissero in un mese e uscivano invece mesi dopo, a causa dei ritardi cui si poneva rimedio con i frequenti numeri doppi di AL.

RU, più d’una volta, fece osservare alla Segreteria dell’Ordine lo stato estremamente difficile in cui quel veicolo veniva a trovarsi; fece notare come egli avesse scalato per ogni numero una quota di costi che avrebbe dovuto controbilanciare con i proventi della pubblicità e come quelle entrate fossero state vanificate dal mancato rispetto degli accordi, tassativi, che erano posti alla base dei contratti. Egli aveva l’obbligo di fare uscire il mensile entro 15 giorni dal termine della consegna dei dattiloscritti, con la condizione capestro che se avesse tardato d’un solo giorno non avrebbe ricevuto alcun pagamento per il lavoro tuttavia eseguito. Lamentò come, di fronte a un simile rigore, essi pure fossero tenuti al sicuro rispetto degli accordi: che il periodico fosse un mensile ed uscisse nelle date prestabilite. Sul contratto stipulato a suo tempo aveva richiesto, per garanzia, che fosse tenuto sempre pronto un numero speciale, di leggi e disposizioni riguardanti l’architettura e la professione, che potesse essere utilizzato per coprire eventuali buchi redazionali; ma esso non era stato mai preparato. Precisò che in tre anni aveva dovuto veder vanificati, così, quasi 100 milioni di lire di sconti che aveva fatto già in fattura, all’Ordine e secondo il contratto, e che non era negli accordi ora che quest’imponente cifra restasse come una sua perdita. Non ci sentivano. Il Consiglio in carica in quel tempo non era più quello che aveva curato l’accordo, così Amodeo avrebbe dovuto rivolgersi al Tribunale, per fare rispettare quegli accordi e, se lo avesse fatto, quell’importo gli sarebbe stato certamente riconosciuto, ma sarebbe dovuto entrare in una nuova guerra. Dopo attente considerazioni, preferì avere lavorato per gli ultimi anni pressoché gratis, al mettersi a litigare nuovamente con l’Ordine degli Architetti. Per quanto ne sapeva avrebbe messo in difficoltà gli attuali consiglieri per colpe non loro, ma della comprensibile voglia, del Direttore, che AL fosse una bella rivista, corposa, invece d’un mensile scarno di sole 32 pagine. Se, per far questo, i redattori non erano stati in grado d’uscire ogni mese e lo avevano danneggiato, non era colpa del Consiglio Direttivo, ma d’una Redazione che lavorava gratis, d’una Calvano bravissima, simpatica e molto volenterosa, ma che lo faceva anche lei solo nel tempo libero... La causa, più che la colpa, stava nel dilettantismo che esisteva là, tra persone che dovevano dedicare solo quanto concesso dalla loro libera professione d’architetti. Pertanto, se avesse compiuto un’azione decisa per fare valere i suoi diritti, si sarebbe inimicato tutto quell’ambiente, perché avrebbero giocato a palleggiarsi le responsabilità. L’architetto Amodeo non voleva più guerre coi colleghi, una già l’aveva fatta, dodici anni prima, ma non per difendere i suoi personali interessi. Decise così che, dopo un decennio in cui si era prestato come Direttore tecnico editoriale e, scendendo nel dettaglio, come fotocompositore, impaginatore, fotografo e grafico del mensile del suo Ordine, poteva ritirarsi – in buon ordine – lasciando almeno un buon ricordo di sé.


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Fu spinto a questo anche da un fatto che molto l’addolorò: Susan fu ricoverata all’Istituto dei tumori, perché quella spada di Damocle che le pendeva sul capo aveva deciso di cadere. La massa nera che risultava alle lastre, nel suo cervello, aveva ripreso a crescere e i medici avevano giudicato ora necessario l’intervento chirurgico, per asportarla. Fu operata e perse del tutto l’uso della parola, perché fu toccata quella parte della materia grigia che comanda il linguaggio. All’ospedale aveva ora, al posto dei bei capelli d’oro, una fasciatura di garze che le coprivano il gran taglio che avevano fatto sulla calotta cranica; sorrideva, muta e triste, con quel suo viso dolcissimo e il gran turbante bianco. Fu necessario un anno, per rieducarla faticosamente a parlare e, quando infine ci riuscì, giunse la morte, e con la sua anche dell’ufficio di pubblicità, nei locali affittati dal Benvenuti, che fu chiuso. Le Arti Grafiche Gorlini terminarono esse pure, con un fallimento. Il Dott. Zanocco, commercialista e non esperto come la moglie defunta, per quanto fosse stato aiutato dalla figlia Paola, non era riuscito a proseguire in quell’attività. RU aveva tentato di dargli aiuto in tutti i modi e si trovò così preso in mezzo, tra la dirigenza e i dipendenti, essendo divenuto personale amico di tutti. Assunse allora nella sua ditta tutte le persone che poté, e entrarono nella Romano Amodeo, ditta individuale, Loredana Russo e Antonella Dall’Oglio, mentre Carmen Lombardi era già venuta via da lì tempo prima, alle prime avvisaglie della tempesta, e si era aggiunta a sua sorella Michela. Maurizio, il cugino di Giancarla, veniva spesso in ufficio, attratto da Michela, che aveva conosciuto e le piaceva. Ci voleva poco! La ditta raccoglieva tali fiori di bellezze che molti, fornitori e assistenti alla manutenzione delle macchine, venivano volentieri in Via Colletta solo per... lucidarsi gli occhi: Anna, Daniela, Michela, Giusi, Carmen, Marilena, Simona, tanto per citarne solo alcune oltre Michela, erano ragazze da far mozzare il fiato e sarebbe parso a tutti che Amodeo le avesse scelte in un concorso di bellezza, anziché perché mandate lì, semplicemente, da un destino che non avrebbe mai potuto essere così selettivo. Uno dei visitatori, attratti da quelle ragazze, era Sabato Lingardo, l’antico amico di RU. Quando egli veniva, nasceva un gran casino, perché portava da bere a tutti e Vittorio certe volte fremeva. Ora abitava in un piccolo appartamento datogli dal comune di Milano, in una traversa di Viale Romagna. Era in pensione e la sua gioia stava nell’offrire a tutti da bere. Risparmiava accanitamente sulla pensione,

andando a raccogliere per mangiarli gli scarti del mercato, e avendo persi tutti i denti, li condiva con il pane ammollato nell’acqua. Coglieva l’occasione, per andare in Via Colletta, da un piccolo commercio che aveva intrapreso: vendeva rotoli di nastro adesivo, un prodotto largamente in uso nella ditta Amodeo Anche alcuni clienti della Gorlini passarono alla ditta Amodeo: il professor Potì, matematico innovativo, e Michele Colabella. Potì scriveva libri nei quali portava avanti un suo nuovo metodo d’indagine matematica, ma a RU parve che certe volte desse i numeri, quando, nella composizione dei testi, cambiava con troppa disinvoltura le formule, nella loro espressione matematica. Gli ricordava per un certo senso il commendator Barassi, buonanima perché morto da poco, che s’era battuto per l’ecologia, come la sua pubblicità per mettersi in mostra con il suo vivaio presso il lago. Se le formule del Potì fossero state esatte, sarebbe stato un genio e a RU non sembrava vero... e mai e poi mai avrebbe immaginato che molti anni dopo sarebbe stato lui stesso in quell’identica situazione... e anche in quella del Barassi. Il Prof. Colabella, da parte sua, era un serio ricercatore, innamorato del suo paese, Bonefro, nel Molise e n’era divenuto lo storico. Insegnava in una scuola media di Milano e si dimostrò coi fatti vero amico di RU, quando – saputo di un suo momento di crisi – gli offrì spontaneamente l’aiuto economico, e essendo lui in quell’occasione la lunga mano della Provvidenza. Altro grande amico si dimostrò Luigi Scipione. Gli commissionò i cataloghi della Galleria d’Arte contemporanea, di cui era addetto alla segreteria. Quanti amici meravigliosi dava a lui la Divina Provvidenza. RU aveva conosciuto il Sansone attraverso Lina Putelli, una poetessa di cui la Gorlini aveva pubblicato molti libricini di poesie. L’incontro di Romano con la Putelli, fu uno di quelli magici. Già molto anziana, viveva con la sorella, entrambe nubili, in una sua casa nella parte alta di Varese, facente parte di un bel condomino alberato. Lei si era eretta a vate di suo fratello Aldo Putelli, del quale voleva pubblicare un libro dei disegni e dipinti. Aldo era stato in un campo di concentramento nazista, aveva molto sofferto e Lina, poetessa e romantica, aveva una venerazione per lui, così bravo e importante, morto purtroppo da anni. Non andava dimenticato, perché, con l’intera vita – solitaria anche la sua – aveva dimostrato e annunciato la necessità che l’uomo che non facesse più guerre e recuperasse tutti i suoi valori positivi. RU amò Lina appena la vide, per quella sua passione tenera che animava il volto vecchio e provato dagli anni e l’illuminava dell’immensa bellezza dello spirito. Si piacquero entrambi, appena si videro, perché anche Lina intuì la stessa cosa in quel giovane imprenditore che inseguiva egli pure il suo sogno. RU prima le pubblicò alcuni libretti di poesie scritte da lei, poi passò a realizzare l’opera per il fratello. Ne venne fuori una bella pubblicazione che costò a Lina 22 milioni di lire, una cifra rilevante.


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La Cooperativa Astralon, che era stata fondata quando la Ditta Romano Amodeo era ancora in via Colletta al 65, nel frattempo era restata senza dipendenti, poiché la sola socia Fraschini eseguiva i lavori che riuscivano a trovarsi. Erano due strutture totalmente indipendenti tra loro e tante volte era la stessa Romano Amodeo che dava del lavoro alla Astralon, era fatto dalla bella Marilena, che quando c’era aggiungeva anche la sua alle altre bellezze, veniva a lavorare lì, usava le macchine ed era chi teneva la contabilità per la cooperativa, e regolarmente fatturava. Cinzia Luccini, la figlia di Silvana e Luigi (nella foto in basso) socio della cooperativa, fece il suo ingresso – finalmente! – come la prima candidata apprendista. Fecero infatti la necessaria domanda e indicarono che essa avrebbe lavorato presso la ditta Romano Amodeo. Vennero subito lì gl’ispettori, incuriositi dal fatto strano di chi chiede d’assumere una persona per poi farla lavorare da un’altra parte. Cominciarono ad indagare sui rapporti tra la cooperativa Astralon e la Romano Amodeo ditta individuale. Marilena fece vedere le fatture del noleggio delle macchine, spiegò come Amodeo avesse voluto favorire il loro lavoro, come lei da anni lavorasse come socia e come adesso si volesse introdurre un’apprendista. Gl’ispettori se n’andarono, tutti soddisfatti. Pochi mesi dopo la ditta individuale si vide accusata d’avere cercato il modo di evadere le tasse, dividendo il lavoro su due tronconi. La conseguenza fu una pesante multa. La cooperativa – senza dir nulla di tutto questo a RU – pagò la multa, ritenendosi la causa di quell’intervento. Anni dopo, quando Amodeo lo saprà, si vedrà affibbiare una multa colossale per avere evaso i contributi da dare a Marilena, per tutto il tempo che lei aveva dichiarato

d’aver collaborato come socia della cooperativa. Non poté nemmeno opporsi, perché l’avere pagato quella multa era in se stesso una ammissione di colpa; né poté comunicarlo all’Astralon, perché la cooperativa, nel frattempo, si era ormai disciolta. Cinzia, aveva lavorato nell’Astralon per due anni e fu assunta allora da RU, che diede lavoro anche al suo ragazzo. Ci fu un momento in cui in Via Pietro Colletta, n. 29, gravitarono poco meno di trenta giovani e meno giovani: 15 assunti a libri, il resto come agenti di pubblicità. Il periodo tra il 1980 e il 1985 fu soprattutto quello degli anni di Vittorio Del Grossi. L’amico di RU gli fu amico, com’era successo a Barbara Baratta, fino a quando Romano non fece un’esperienza che non poté capire, o condividere. Ve la racconto. Un giorno – era il 1984 – Vittorio andò da RU e gli disse: “Basta, mi sono stancato! Vuoi andare bene? Allora ascolta me: costei? Via! Quest’altro? Via! ...” e fece una lista di proscrizione: dei buoni e dei meno buoni, se non cattivi, tra tutto il personale. Dichiarò che se l’amico seguitava a tenere in organico persone che rendevano vano tutto il lavoro ch’egli procurava a fatica, non poteva mai aspettarsi di risolvere la sua situazione economica. Gli spiegò dettagliatamente che tutto il lavoro dato a quei dipendenti non portava alcun frutto alla ditta, era come se non ci fosse. RU aveva deciso d’avvalersi di lui già da tempo e gli diede retta: lasciò alle dipendenze della Romano Amodeo, in Via Colletta quanti aveva voluto e prese una decisione che sbalordì Vittorio. Nei locali che erano stati occupati dalla ditta Gorlini trasferì, sotto la sua diretta responsabilità tutti le persone scartate dal suo Direttore Tecnico, rispettando totalmente, per la Ditta Amodeo, quello che era stato il suo consiglio. Rispose al Del Grossi che lo scopo suo non era quello di fare soldi, ma di dare il modo di lavorare a chi cercava di farlo: se alcuni non erano bravi come serviva, non era motivo sufficiente perché fossero abbandonati. Proprio però per dargli retta, visto che lo aveva fatto capo e non voleva dargli il dispiacere di vedere vanificato il suo lavoro, che restasse a lavorare lui con i bravi, giacché, dei meno bravi, si sarebbe occupato egli in persona, Amodeo. Il titolare della Ditta convocò il personale e quando fece sapere come sarebbe stata aperta una succursale in Via Varese, nella sede dell’Ex Gorlini che era fallita e che “Costei, costei, e costui...” – le persone scartate da Vittorio – sarebbero andate là, proprio esse si arrabbiarono molto che RU togliesse loro Vittorio e – fatto questo – le mettesse allo sbando. Come sempre, seguitavano a vedere il Vittorio il loro supremo difensore, e RU lo lasciò intendere, per non creare attriti interni tra le due ditte che avrebbero dovuto andare per la loro strada in pace.


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GSA, GIESSEA, DI GIANCARLA SCAGLIONI. Le perone non furono abbandonate, ebbero modo anche quelle persone di dare un valido contributo. Nacque la GSA, di Giancarla Scaglioni, casa editrice. Così prepararono libri e fecero il meglio che fu loro possibile. IL PROGRAMMA DI INNOVAZIONE TECNOLOGICA RU aveva iniziato da tempo lo studio del problema delle macchine dedicate alla composizione elettronica dei testi: era troppo grande la loro obsolescenza. Le ditte costruttrici giocavano sulla difficoltà del loro uso e costringevano gli utenti ad un furioso e perpetuo aggiornamento, ogni volta dovendo eliminare del tutto il sistema vecchio giacché inconciliabile con il nuovo. Ora il problema eterno di Amodeo era la liquidità; ebbene c’era una legge dello Stato che finanziava l’innovazione tecnologica. Era possibile avere stanziamenti anche di miliardi che costavano per cinque anni solo il 2% e che poi sarebbero stati restituiti in 10 anni a tasso fisso: 8%. Questa legge riconosceva il costo degl’immobili, del personale e delle macchine per cinque anni. Dato che RU spendeva circa 300 milioni l’anno per il solo personale, se avesse fatto in modo che esso facesse sperimentazione, aveva già pronti 1,5 miliardi di giustificativi sui quali poter avere il 90% circa di rimborso, dunque 1,35 miliardi di lire. Per cinque anni avrebbe pagato un interesse di soli 27 milioni l’anno, pari a 2,25 il mese e sarebbe riuscito a risolvere il suo problema, che era sempre il solito: pagava troppo alto il costo del denaro. Allora intraprese tutta una serie di nuove amicizie finalizzate a trovare una possibile via esecutiva di questo progetto. Venne in ufficio Lanzarini, un tipo che non godeva molto della fiducia di Vittorio, vennero altri, e l’amico di sempre restò sconcertato: “Cosa cavolo stava facendo Romano? Non vedeva che tipi erano?” Essendo rispettoso, Vittorio non se la sentì mai di consigliare all’amico: “Sta attento che questi ti menano in giro!” Poi RU aveva iniziato a trafficare con i leasing: sembrava prendere macchine che non gli servivano e usare i noleggi con riscatto come una sorta d’anomalo finanziamento. Era venuto in ufficio Renzo Vivian, un procacciatore che neppure lui godeva eccessivamente della stima di Vittorio. Insomma, dalla morte del padre e da quando poi si era trasferito nella sua nuova casa, secondo Vittorio, RU era troppo cambiato. In effetti, buona parte della sua disamina era corretta, ma la questione era che occorreva fare approvare dal Ministero dell’Industria un Programma d’Innovazione

tecnologica e che RU stava cercando di toccare tutti gli aspetti della questione per poterne venire a capo. Era proprio questa cosa del Programma – era questo! – che a Vittorio e a tutti sembrava la cosa più assurda e fuori del mondo. Che un laboratorio di fotocomposizione, seppure avente un laureato per proprietario, potesse trasformarsi – zaff! – in un Ente che fosse riconosciuto capace d’una innovazione tecnologica nel campo dei computer, infatti, era fantascienza! RU pensava d’ottenere un miliardo di lire dal Ministero dell’Industria? Follia! Chi cavolo glielo aveva messo in testa? Cosa volevano da lui i Lanzarini, Dolfini, Bidoli, Errichiello, Farina, Vivian, la Sideltronic, Tagliarini...? Se una azienda cerca di fare una cosa così, per primo deve sapere che cosa... perché nessuno ti dà soldi su una pura fantasia! E che cosa poteva venire in mente a RU di fare e di saper fare, di così importante, che lo Stato la riconoscesse talmente di pubblica utilità da dargli, quasi gratis, tutta quella barca di soldi? Come si vede le domande erano serie e alquanto fondate. Vittorio però commise lo sbaglio d’avere a un certo punto sottovalutato non tanto RU, quanto la sua buona stella. Il comportamento mite che Amodeo usava con le persone, che per lui era l’esercizio d’una vera forza, per il Del Grossi era secondo la manifestazione d’una sua vera debolezza. La logica del mondo, di Vittorio, era ben diversa da quella che invece cercava di seguire il suo titolare: quella di Dio! E RU lo faceva perché giudicava la logica di Dio veramente molto migliore di quella del mondo. Va bene, d’accordo. Ma la logica di Dio non è quella di mettersi a stravolgere le vicende e le cose! Il tuo lavoro è fare il fotocompositore? Ebbene fa quello! Dici, secondo CL, di non avere un progetto e ti metti a fare un Programma? Tra Programma e Progetto non c’è differenza. E allora? RU “la metteva” affermando che il suo compito era anche d’aguzzare la mente come un serpente ed era quello che stava facendo, nella massima delle libertà. Dio poi non ti chiede d’essere un coglione. Ti chiede solo d’essere il meglio che puoi. E il meglio non significa essere uno che vince, o arricchisce: il meglio è chi vive nel tentativo concreto d’aiutare gli altri. Allora egli stava usando proprio questo meglio e tutto quello che faceva era proprio per consentire, con il frutto del suo lavoro, il guadagno anche delle persone meno brave, quelle che, nella logica di Vittorio, sarebbe stato giusto mandare via perché vanificavano tutto il guadagno. Certo, dal punto di chi ha la vista corta, una lira guadagnata su un lavoro è pur sempre una lira, ma nella concezione di assoluto attaccante, di RU, i piccoli colpi della malasorte erano quisquilie se messi di fronte alla vittoria assoluta. La sorte di queste persone messe all’indice da Vittorio andava allora risolta in modo grandioso.


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Non sarebbe stato possibile cavare sangue dalle rape? D’accordo, ma allora Vittorio non si stupisse che il rimedio cercato da RU prescindesse dal guadagno che le persone riuscissero a procurare. Però bisognava provare, dargli credito e dargli il modo; e ci doveva essere uno che prendesse a cuore questa loro vita. Le questioni in questi due anni, dal 1984 al 1985, furono così intricate che se le si dovesse raccontare per esteso occorrerebbe un libro per ciascuno dei due anni. RU però riuscì a creare due aziende e una delle due fu intestata a Giancarla Scaglioni, sua moglie, che divenne titolare d’una ditta individuale. In essa lavorarono persone che se la cavarono più di quanto dicesse Vittorio. Quello fu un attestato grandioso di stima e di fiducia, espresso da Giancarla a suo marito, perché si trattava d’una ditta individuale: la GSA, Giancarla Scaglioni in Amodeo, iscritta alla Camera di Commercio come GIESSEA di Giancarla Scaglioni. Fu arredato un bellissimo ufficio in Via Varese al n. 14 e vi fu svolta soprattutto attività editoriale, pubblicando libri. Anche Benito il 30 novembre dell’84 si trovò senza più il suo Gruppo SG2, che si risolse brevemente, quando appurò l’inconciliabile condizionamento derivante da interessi tanto opposti tra i due soci che cominciarono ad adire l’un contro l’altro alle vie legali. Il primo a pagarne i danni fu il Direttore Generale che si vide messi in ghiacciaia ben due anni di spettanze che erano palleggiate tra i contendenti e che pertanto erano inaccessibili. E aveva una famiglia di cinque persone che dipendevano totalmente da lui. Momento molto fluido tra i due fratelli Amodeo. Il 1°genito sperava in Dio, il 2°genito cercò l’aiuto delle persone autorevoli con cui era in contatto e che molto stimavano per le sue capacità di giudizio in tutti i settori. Totalmente diverso da quello sperindio del fratello da cui si tennero sempre molto alla larga. RU aveva il suo giro differente di amicizie e gli avevano consentito possibilità di accedere ad una importante INNOVAZIONE TECNOLOGICA nel campo del dialogo tra differenti sistemi informatici applicati all’industria editoriale e aveva da badare a due ditte che presto divennero tre, quando il progetto, approvato dal Ministero dell’Industria si mutò in un vero e proprio CONTRATTO. Non era possibile stipularlo con ditte individuali, ma solo con Società di capitali, per cui dovette presto nascere anche la ROMANO AMODEO S.r.l.

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Il Programma d’innovazione tecnologica studiato da Amodeo cercava di risolvere un gravissimo problema nazionale: la mancanza di dialogo tra i computer. Chi entrava, come aveva fatto lui, nell’orbita della Compugraphic, vi restava imprigionato e non poteva passare ad altre case. La schiavitù di fatto derivava da macchine così difficili e particolari nel loro uso che quanto imparato per l’una non valeva per l’altra. Di conseguenza, se lui avesse voluto passare ad una macchina della concorrenza, doveva accettare l’idea d’impegnare un gran tempo perché il personale conoscesse gli altrui sistemi. La cosa incresciosa era che, ogni biennio, una casa come la Compugraphic sfornava nuovi modelli e che neppure i loro nuovi dialogavano con i vecchi: bisognava buttare via le somme spese per macchine costose (e parzialmente acquistate con leasing quinquennali) dopo soli due anni, pagando costi osceni. Amodeo studiò il modo di superare quest’inconveniente. Fece un Programma nel quale evidenziò la soluzione. Essa fu riconosciuta possibile da un esperto e allora il Programma fu presentato al Ministero dell’Industria. Il Ministero, valutato l’impatto della nuova tecnologia sul territorio, riconobbe la qualifica d’alta tecnologia, il che significava un riconoscimento e finanziamento del 90% circa dei costi. Fu firmato un Contratto e la sperimentazione cominciò, svolgendo la traccia del Programma. Ditte specializzate, esterne, prepararono le macchine, portando avanti lo sviluppo ideato da Romano Amodeo. Infine una Commissione ministeriale venne a controllare se il Programma era stato svolto o no.


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Nel caso di RU riconobbe che il successo era stato ottenuto solo al 95% e fu scorporato così il 5% dello stanziamento. Il progetto era stato approvato per 1,2 miliardi di lire. La divisione in due dell’organico della Ditta individuale Romano Amodeo era stata l’occasione, molto utile a Vittorio, per vedere come, divenuta essa la ditta ideale per lui, difettava solo nel non essere “di lui”. Il vincente così si decise a mollare il perdente, per il quale il denaro prodotto era come versato in un pozzo senza fine. Un giorno di marzo, nel 1985, anche Vittorio, gli disse, compunto:

“Romano, ti devo parlare.” Vittorio, così spiegò la cosa ad Amodeo: “Ho due figli che si appressano all’età del lavoro. Io so che se ti dico di prenderli tu lo fai; ma sarebbero loro a non voler venire. Con una ditta intestata a me, invece, probabilmente li avrò al mio fianco e questa per me è la soluzione ideale. Tu cosa ne dici?” “Vai, Vittorio, ma ti dico di più: a te spettano tre mesi di preavviso, visto che sono cinque anni ormai che lavori qui. Va via fin da stasera e ti pagherò i tre mesi come se avessi lavorato. Non desidero che questo periodo diventi, senza che tu lo faccia apposta, un’occasione tale che tutti i clienti, che conoscono te, poi ti seguano! Da domani andrò io al tuo posto e forse si affezioneranno anche a me prima che tu sia in grado di cominciare a lavorare con questa ditta che, immagino, devi ancora mettere in piedi.” Vittorio restò senza parole. Tanta decisione, dall’amico così remissivo con tutti, proprio non se l’aspettava. Il giorno dopo e, di punto in bianco, Vittorio uscì da un percorso che per cinque anni li aveva rimessi nuovamente insieme. Avevano anche ricostituito la squadra di calcio, in memoria dei tempi passati, iscrivendola ai tornei CSI nella categoria “tempo libero”.

Non era più l’Anni Verdi, ma la Romano Amodeo e sarà un’esperienza che proseguirà, avendo fatto a meno di Vittorio Del Grossi, per degli anni, fino a quando giocheranno, in questa squadra, i due diciassettenni nipoti di RU: Marco e Andrea, figli di Benito e nati nel 1975; dunque fino al 1992. RIUNIFICAZIONE DEL PERSONALE NELLA DITTA R.A. LA GSA DEDICATA ALL’INNOVAZIONE TECONOGICA Andato via Vittorio, non c’era più alcun motivo di tenere separate le due attività, e la GIESSEA fu chiusa e tutto il personale, fu riunito tutto in Via Colletta 29. RU cominciò a dover curare tutto il rapporto coi clienti che conoscevano Vittorio, prima che l’amico preparasse il suo ufficio e fosse realmente in grado di eseguire i lavori, in concorrenza con lui sugli stessi committenti. Tutta la sperimentazione e le macchine relative avvenne allora nei vecchi locali della Gorlini, in cui si era insediata la ditta GIESSEA. Questo inconveniente ritardò paurosamente i tempi per la conclusione del Programma d’innovazione tecnologica e fu per RU una grave perdita. Una quantità enorme di milioni da pagare fu dovuta essere spostata di mese in mese, oberandosi ogni volta dei costi aggiuntivi per i rinnovi. Il Dott. Tagliarini, della SNAM Progetti, che aveva seguito le vicende del Programma di Innovazione, e che aveva testato le prospettive, chiese che suo figlio Riccardo entrasse come socio, apportando 150 milioni di capitali. Onestamente, RU accettò il denaro provvisoriamente come un prestito, garantito da una ipoteca di terzo grado messo sulla casa in cui abitava, ma consigliò prima un periodo di prova, di lavoro, relativa a suo figlio. Il giovane venne a far pratica e assisté a tutte le fatiche fatte da Amodeo in quel periodo, tanto da scoraggiarsi e scoraggiare il padre. Se fosse stato meno onesto, RU avrebbe avuto un Socio potente, essendo il del Signore, si caricava da solo, come un asino e spesso finiva per trovarsi in vere difficoltà. UN MIRACOLOSO AIUTO DELLA PROVVIDENZA Aveva atteso un forte pagamento, ma invano, e si trovò a fine mese con una cambiale firmata di 20 milioni che fu andata protestata. Giunse l’avviso del notaio e scattarono i 5 giorni di possibile cancellazione di quell’atto, se faceva fronte al pagamento. Trascorsero in vane ricerche i primi 4 e non sapeva più a che santo votarsi. Passò per puro caso (?) in prossimità della Chiesa vicino a piazza Chiaradia, a Milano, e decise di andare a confessare il grande turbamento che aveva dentro. Non era orario di messe, ne di altro per cui potesse trovare un prete disposto alle sue necessità, ma entrò in quella Chiesa nel cui campo di calcio aveva anche giocato


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con la sua squadra Anni Verdi, e c’era un lumicino acceso a un confessionale, in una chiesa deserta a quell’ora strana, Disse pressappoco queste parole al confessore, che non conosceva: “Sono venuto a chiedere l’Aiuto di Dio. Dal 1975 mi sono proposto come l’asino del Signore, che porta in giro la sua parola di verità ed opera nel concreto. Da allora con una azienda sto aiutando i giovani verso i fondamenti di un lavoro finalizzato non solo al reddito economico ma anche a quello cristiano. Ma ora sono in grande difficoltà rispetto a Dio. Non sono stato prudente come un serpente e domani salta tutto. E dire che sono in attesa di una barca di soldi dallo Stato, per una Innovazione Tecnologica che sto conducendo. Ma non arrivano ancore non tolgo di mezzo il protesto di 20 milioni di una cambiale entro domattina, salta tutto. Io chiedo solo perdono al Signore. Mi sento in difetto rispetto a Lui se devo ammainare le Sue vele”. Il sacerdote – che nemmeno lui aveva mai visto RU – gli diede l’assoluzione e poi gli disse di attenderlo in fondo alla Chiesa. Aveva quasi terminato il servizio che lui – confessore del Duomo di Milano – faceva anche in quella chiesa. Era questione di pochi minuti. RU nemmeno immaginava cosa sarebbe accaduto. “Non li ho, io i 20 milioni che le servono – gli disse il Sacerdote appena lo raggiunse – ma se lai ha ancora la cortesia di attendere pochi minuti, io ho due sorelle che li hanno e possono prestarglieli”. RU restò di sasso, e forse diede l’impressione anche di non avere quel tempo... ma era accaduto un vero miracolo. Quando mai un sacerdote, in quelle condizioni, si fa avanti e si propone da solo? E nemmeno con denaro suo, ma che si farà prestare lui dalle sue sorelle? Don Mambretti, questo il nome di chi Dio mandò in suo soccorso, e la mattina dopo con i 20 milioni in contanti che ricevé, recuperò la cambiale e estinse il protesto che – altri8menti – lo avrebbe affondato. ARRIVANO I SOLDI DAL MINISTERO! Finalmente il 28 maggio il Ministero dell’industria emise la prima tranche di contributo versando 450 milioni su un conto di transito. Romano Amodeo riconobbe a se stesso (con molta, molta faccia tosta): “Sono stato bravo! Sono finiti finalmente tutti i miei guai”. La Provvidenza aveva da sempre sostenuto RU ed aveva fatto sì che veri miracoli facessero sorgere capitali quando non ce n’erano affatto... Ebbene, fu proprio in quest’occasione,: quella in cui lui ebbe sul conto 450 milioni di lire e giudicò: “Sono stato bravo!”, che...

ARRIVA UN PROTESTO DI 40 MILIONI, NON RISANATO! A Roma i 450 milioni erano stati consegnati su un conto di transito e dovevano giungere a Milano depositati sul conto presso il Credito Artigiano che aveva come correntista la ROMANO AMODEO S.r.l. I 40 milioni da pagare a fine mese erano della R.A. Ditta Individuale. Dal 28 maggio al 31 c’erano 3 giorni sufficienti per un giro-conto, tramite fattura. Infatti i rapporti con lo Stato erano stati assunti dalla sua SRL, società di Capitali che acquistava il Programma di Innovazione che era attuato presso lo stabilimento di Via Varese, in cui era esistente ancora – nominalmente – la GIESSEA. Avrebbe fatturato i 450 milioni alla SRL ed avrebbe avuto il denaro utile a mantener fede ai proprio impegni, che erano il 10% soltanto delle risorse in arrivo. Emise la fattura e chiese al Credito Artigiano sul quale erano già nominalmente caricati i 450 milioni, di riceverne 40 in denaro liquido. Glieli negarono. Non erano ancora disponibili, essendo in viaggio da Roma a Milano. Che avesse un po’ di pazienza e il giorno dopo li avrebbe avuti. Questo “giorno dopo” fu spostato di giorno in giorno fino al giorno del 19 aprile, e intanto RU ebbe il protesto e – nell’attesa di disporre di quanto era già suo” non poté più cancellarlo! Quando non aveva avuto nulla aveva sempre potuto far fronte agli impegni, e adesso che aveva 10 volte più di quanto strettamente gli servisse, non aveva potuto! Era disperato. Non si rendeva conto che il Signore aveva completato tutte le esperienze che gli servivano per aver fede il Lui. Aveva ricevuto LA PROVA, fatta al diritto e al suo rovescio, che tutto riguardasse lui dipendeva dal signore. La conseguenza del protesto u che tutte le banche gli revocarono centinaia di milioni di fido, e il rientro da tutti i crediti che aveva e che oltrepassavano il miliardo di lire SCATTA ANCORA L’AMOR DI DIO A SALVARLO Fu costretto a utilizzare quei 450 milioni di lire, più altro ancora, che gli fu dato dai suoi genitori tramite garanzie a loro volta assunte per amor suo, per tappare gli enormi buchi fatti nella barca, e in questo modo evitò di ottemperare al totale rientro che gli avevano chiesto. Sperò a quel punto d’affidarsi solo ai risultati della sua innovazione tecnologica. Il contratto stipulato con lo stato – per fortuna sua – era stato effettuato con una società di capitali che aveva sì il suo nome, ma che non era lui e non dipendeva dalle disavventure finanziarie della sua persona Il Programma Innovativo, approvato, fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale UN CRIMINE CONTRO LA SUA SPERIMENTAZIONE.


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RU andò in a Nicola d’Ortonovo, dove aveva concesso in affitto uno dei suoi appartamenti (per recuperare del denaro liquido almeno da lì) ad un maestro. Lo avvertì che d’essere in ritardo poiché impegnato in una Commissione di esami. Lo aspettò di giorno in giorno a Villa Colletto per una settimana. Quando poté tornare ebbe la sgradita sorpresa che guastatori erano penetrati nello stabilimento di Via Varese evidentemente per metterlo in crisi. Trovò spariti prototipi, sottratte schede e tutto ciò che doveva essere assemblato in un unico sistema operativo. Costituito da un grosso mobile rec contenente 27 apparecchiature, in un unico computer, in grado di leggere i dischetti delle varie case costruttrici, formattati diversamente. Aveva tentato di assicurarli quando erano stati portati in Via Varese, ma essendo 27 prototipi per non buttar denaro in premi che poi non avrebbero mai pagato, in caso di danneggiamento o di furto, sarebbero occorse 27 perizie. Imprudentemente RU aveva ritenuto di attendere che il tutto divenisse quel solo sistema previsto e che avrebbe avuto bisogni di una sola perizia, anche perché poi doveva essere venduto alla S.r.l. sulla base di un reale valore e non di fumo.

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IL CALVARIO PER IL SOMARO DI GESU’ Le tre sciagure una dietro l’altra: la sostanziale protesta di Vittorio, il protesto di 40 milioni avendone 400 e il pretesto del boicottaggio, furono il chiaro segno del destino che la Divina Provvidenza aveva capovolto totalmente il suo intervento, e ora sembrava indirizzare ogni cosa verso un reale Calvario chi aveva tentato di dar corpo al Cristo: il . RU però non era ancora convinto di questo testa-coda della Provvidenza. Aveva ancora una macchina che era stata trasferita in via Colletta, e che già in parte era capace di compiere una piccola parte della necessaria stras codificazione, tra sistemi usanti codici differenti nel loro linguaggio. Infatti i 450 milioni che erano arrivati erano solo il primo contributo su un totale che era di oltre 900. Quindi non era saltato tutto quanto il Programma. C’era ancora tempo per correre ai ripari. Le indagini dei carabinieri di via Moscova avrebbero potuto avere successo e forse avrebbe così recuperato altre componenti.. MUORE LA SUA MAMMA DEL ROSA-RIO Il 29 luglio dell’85 spirò Rosa Baratta, la mamma che unita al suo RIO padre avrebbero fuso in un tutt’uno male e bene, per realizzare poi addirittura quel ROSARIO da tenere sempre presente, nelle indicazioni di Nostra Signora di Fatima!

Profittando di quanto era restato in Via Colletta al numero 29, RU tentò dunque la resistenza. Per firmare il Contratto con lo Stato, che non ne sottoscriveva con Ditte individuali, aveva dovuto costituire una Società di capitali, di 250 milioni versati, che aveva chiamato Romano Amodeo s.r.l. Con gl’impegni che aveva, la ditta individuale Romano Amodeo non poteva trasformarsi in S.r.l., perché avrebbe dovuto avere l’assenso di tutti i creditori... e chi avrebbe acconsentito a perdere le garanzie derivanti dagl’immobili in cambio solo d’un capitale versato? Allora RU aveva semplicemente venduto il Programma e il know-how alla Romano Amodeo S.r.l. e tutti i pagamenti, fatti alla S.r.l., avvenivano attraverso regolari fatture che la ditta individuale presentava alla società. Alle dimissioni di Vittorio, come anzi detto, il titolare aveva riunito tutto il personale nella sede di Via Colletta e in Via Varese erano state portate avanti solo le


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attività relative al Programma d’innovazione tecnologica. Il disastro in Via Varese aveva salvato fortunatamente tutto quanto collocato in Via Colletta e su questa base si poteva tentare di resistere. La ditta GIESSEA di Giancarla Scaglioni, ubicata in Via Varese, fu subito chiusa. I materiali che vi si trovavano furono trasferiti in un box che Sabato Lingardo, l’amico fidato, aveva affittato a Rozzano. Altri furono sistemati a Lodi, in un locale messo a disposizione da Romano Gozzi. Chi si prestò per trasportare il tutto a Lodi fu Carlo Alio, dell’Aligraf, la tipografia che aveva stampato i libri della GIESSEA e il cui titolare era divenuto un amico. Nell’ultimo giorno della smobilitazione, mentre tutti erano tesi e nevrotici, Sabato offrì ai presenti da bere e il suo gesto rasserenò gli animi: quell’uomo che stava peggio di tutti, si dimostrava notevolmente il migliore. IL CALVARIO IN CUI PERDE OGNI VALORE DELLA SUA VITA TRADISCE SUA MOGLIE, CON LA SUA GIESSEA Giancarla pagò personalmente lo scotto per questa chiusura, quando il marito non fu più in grado assolutamente di farlo. Dimostrando senso di partecipazione e coerenza, lei si assunse, facendosi forza del suo lavoro, tutte le gatte da pelare lasciategli dal marito e che sarebbero dovute essere solo di lui. La sua era una ditta individuale e lei ne rispondeva con tutto, anche se era stata solo una prestanome, ma solo per sua libera scelta. Pur essendo divenuta una Editrice, lei preferiva restare la semplice impiegata della Mole Norton che aveva come sposato a 16 anni. Aveva sempre disposto per conto proprio delle sue entrate della Norton e decise in modo molto nobile che, trovandosi costretta a ballare a causa del suo nome, dovesse farlo senza neppure far tanto le mosse d’essere un’eroina; infatti, non fece mai pesare al marito i carichi assunti. Ciò non toglie, però, che quando egli poneva in campo la possibilità, sempre più concreta, che si perdesse ogni cosa, lei sprofondasse in una terribile crisi. Ricordando come erano andate le cose, forse anche lei ricordava come, quando ancora vivevano in Via Vetere e si era aperta la possibilità di vendere la casa di Via Lattanzio, in cui non erano mai andati ad abitare pur essendo stata consegnata da anni, RU avesse spinto affinché fosse venduta. Il marito accettò di non farlo, ma l’aveva avvertita che, da quel momento, iniziava una lotta serrata di cui non garantiva l’esito. Poi però recentemente l’aveva anche persuasa che non correva rischi personali ad iscrivere alla Camera di Commercio una ditta intestata a sé; non era andata così ma lui non l’aveva fatto apposta.

Ora, per come si erano messe le cose, seppure in una condizione difficile, esse potevano ancora evolvere in modo felice: il Programma d’innovazione era valido ed offriva vere possibilità di scavalcare le strozzature finanziarie che avevano. RU però cadde in uno stato di frustrazione estrema e non poté giovarsi del conforto di Giancarla, perché lei era atterrita. Se Romano la lasciava in pace, senza mostrarle la sua preoccupazione, lei riusciva a vivere serena. Se all’improvviso lui era teso e funereo e lei gli chiedeva: “Ma che hai?” e lui malauguratamente tirava fuori il suo rospo, ecco che lei ricadeva in un abisso di disperazione, ancora più profondo ed era doloroso vederla così. RU da un canto non poteva dirle più niente, dall’altro non ce la faceva più a resistere, perché ora avvertiva la sua solitudine e il senso di miseria e abbandono che aveva in tutte le sue questioni relative ai suoi affari. Non poteva neppure parlarne più con le persone dell'ufficio: non voleva che, spaventate come non era il caso che fossero, cercassero di mettersi al riparo prima del tempo, cercando un altro lavoro nel mentre erano essenziali per questo. TRADISCE SE STESSO. La fede di RU s’era involuta. S’era accorto d’avere compromesso senza volerlo persone amate che ora gli si ritorcevano contro, con cattiveria, accusandolo di mala fede. Aveva ricevuto una lettera anonima, pesantissima, e vi aveva intuito la mano di Volpe. In essa era scritto che egli aveva preso in giro tutti, perfino i giudici, ma che non sperasse di farla franca, sarebbe stato punito. TRADISCE CHIUNQUE SI SIA FIDATO DI LUI Un giorno Parrinello, il marito di Vanda Baratta, la sorella di Gennaro, Anna, Titina, Adriana, accolti ed ospitati per anni in casa, era venuto nel suo ufficio e lo aveva colpito con due schiaffi simultanei, tiratigli con entrambi le mani, davanti a tutti. Affermava che il cugino li avesse imbrogliati e fosse la causa di Vanda che stava impazzendo. Aveva già versati mensilmente in tre anni 70 milioni per l’acquisto d’una parte di Villa Colletto che stavano già usando da quel tempo, per sentirsi annunciare che non poteva più venderglielo, perché sarebbe intervenuta la legge a sottrarglielo, con una revocatoria, perché, dopo il fatto del furto dei macchinari, rischiava molto di fallire. Lello aveva, a casa sua, un assegno in bianco, della S.r.l. a firma di RU, per 70 milioni, pari all’intera cifra ricevuta; glielo aveva lasciato come un pegno del suo obbligo, che intendeva rispettare nel futuro, quando avrebbe potuto. RU aveva agito correttamente. Avrebbe potuto dirgli:


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“Dammi i 30 milioni che ancora devi darmi che facciamo subito la vendita” e lo avrebbe così consegnato nelle mani del curatore... se fosse fallito, perché quella vendita sarebbe stata certamente annullata. Ma a quel punto Parrinello avrebbe versato ancora altri 30 milioni e, se avesse voluto quella casa, l’avrebbe dovuta pagare di nuovo tutta. In quante cooperative edilizie era successo proprio questo! Nonostante il suo comportamento molto corretto e giusto, gli toccò d’essere schiaffeggiato e d’udire che Vanda stava uscendo fuori di testa, letteralmente impazzendo, per il tradimento fatto a lei dal cugino! Maria Proietti, che tante volte era stata il suo aiuto, la mano stessa della Provvidenza di Dio nei suoi confronti, gli telefonava insistentemente facendogli pesare quelle due amiche che gli avevano dato cinque milioni in cambio dell’offerta d’otto e che, restate senza nulla, ora si lamentavano a loro volta con lei. Volpe, terrorizzato dalla paura di perdere il suo denaro, era divenuto senza volerlo ma realmente un persecutore accanito, che telefonava a lui, scriveva lettere, gli rammentava come avesse investito tutto su di lui, persino la sua liquidazione. Per la carità di quel Dio in cui credevano entrambi, non lo trattasse in modo così spietato! TENTA UN GRAVE INCIDENTE PER L’ ASTIO DI UN PRETE. Don Francesco Mambretti, mandato da Dio – e da chi altro, se no? – in suo soccorso, quella volta che, perfetto sconosciuto, si era confessato da lui, ora lo cercava, con insistenza, e RU non aveva assolutamente la faccia di parlargli. Il giorno in cui il Prete aveva gridato carico di astio contro la ragazza incolpevole che gli aveva risposto che “Romano non c’era”, quando rientrò e si senti le lamentele di quella ragazza per essere stata trattata lei così, uscì mortificato sulla sua macchina, in cerca veramente di un grave incidente, se non ne veniva la morte, scagliandosi contro un muro con il suo veicolo. Lo cercò. LA PROVVIDENZA MANDA A.R SALVO DAL SUO ASTIO Si trovò così sena volerlo sotto l’abitazione d’ ARMANDO SAVASTIO. La Provvidenza glielo diceva col suo stesso nome: A.R. mando SAV. salvo dall’ASTIO del mio buon Prete. A.R. era Amodeo Romano. Vistosi sotto casa sua RU intuì di essere stato mandato li deliberatamente, e allora parcheggiò l’auto e salì da lui; gli raccontò tutto, e l’amico, che pure era in credito di 30 milioni con lui, lo salvò veramente, ricordandogli che il denaro non era nulla, che la sua vita e la sua salute erano ciò che valeva e che sapeva per certo che non era lui che doveva spiegargli queste cose.

SAVASTIO GLI IMPEDISCE ATTI AUTOLESIONISTICI Gli disse così e gli tolse ogni possibilità di agire contro se stesso per il premio di una assicurazione: “Tu ti senti in dovere speciale nei confronti di questo sacerdote che fu grandioso nei tuoi confronti e che non si meritava un simile trattamento, ebbene, io sono ateo e tu mi devi 30 milioni e non 20. Ebbene io ti preferisco vivo e in salute e senza il mio denaro. Merito – secondo te – che tu rispetti anche me? Ebbene io ti proibisco di tentare in futuro cose di questo genere, per rispetto verso un ateo che ti vuol bene e che... se lo merita!” Erano queste le terribili pene di RU: il risultato che aveva ottenuto, orribile, proprio lui ch’era animato dal proposito di dare testimonianza di fede, alla gente, nella Provvidenza, attraverso i gesti della vita. Dopo segni così evidenti di favore che aveva voluto perfino Antonella Dall’Oglio come testimone, all’improvviso ecco il più sconfortante degli abbandoni, addirittura tre in rapida successione: dall’amico, dal sistema bancario, dalla fortuna. Quella Provvidenza che l’aveva sempre assistito, perché ora gli si era rivolta così contro? E – poi – che tipo di testimonianza era divenuta la sua? Quale testimonianza aveva dato ad un sacerdote che l’aveva aiutato in un modo così meraviglioso, per non dire santo? Solo d’ingratitudine e di falsità. Veramente quel giorno – e non se ne rendeva conto – ancora una volta la meravigliosa mano di Dio aveva condotto i suoi passi verso quella casa, proprio mentre egli andava cercando solo di dare testimonianza, con un incidente che potesse dare a tutti quello che avevano offerto in aiuto della sua opera... e a lui la realtà ineccepibile di un impostore, che aveva rubato ad una Assicurazione sulla vita e sugli incidenti, che aveva stipulato con un premio di quasi 2 miliardi di lire. Giancarla aveva avuto da RU – e la conservava – una lettera, molto precisa, in cui era scritto e segnato tutto quello che avrebbe dovuto fare lei, se egli per caso fosse morto. Perché altrimenti lei non avrebbe potuto districarsi tra le richieste di tanti che avrebbero preteso ciò che non era giusto. Ogni giornata che Amodeo stava vivendo in questo modo disumano era un qualcosa che lo faceva sentire braccato, inseguito, da una ridda di cani ringhianti. Il cane è il migliore amico dell’uomo, ma quando è inteso così, è una paurosa insidia per la mente. Anche una compagna è così, ma quando ti accorgi che è addirittura più vulnerabile di te e che non ti è lecito chiederle aiuto, capisci che diventa essa stessa il tuo nemico più grande, perché allora non c’è rimedio, non c’è sollievo, c’è solo una terribile solitudine quando ti basterebbe udire, da lei, soltanto: “Coraggio, non sei solo, io resto con te!”.


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TRADIMENTO FINALE: DI SUA MOGLIE Esso ci fu quando arrivò in ufficio, un giorno, una poetessa e pittrice di bei disegni a pennarelli, professoressa alla scuola superiore, per farsi realizzare un libretto di poesie da regalare agli amici... In lui bisognoso di tutto, in quel terribile momento della sua vita in cui Dio gli chiedeva il Calvario, lei – vedendo in lui chissà che cosa di grande di cui potersi innamorare – se ne innamorò e gli diede il senso reale dell’autostima che ancora poteva avere in se stesso: non era tutto da buttare. Infatti percepiva che se tutti lo avessero potuto, lo avrebbero buttato il più possibile lontano dalla sua vita! Persino sua moglie, con la quale tutto era filato liscio, ma solo fino a quando avrebbe avuto bisogno lui del suo conforto, e non glielo dava. Non poteva più darle né dirle niente che si ritraeva impaurita come una lumaca nel suo guscio. Costei veniva come una Sirena, di quelle che catturano i marinai, dopo averli incantati. Affermò che la mandava un amico comune: l’architetto Daniele. Si chiamava Maria Teresa Mazzola. Senza che nessuno lo sapesse, era prevista fin dal principio del tempo e rimandava alla figura biblica di ZILLA una delle due spose del Lamech, che esisteva sia nella discendenza negativa da Caino, sia in quella positiva da Set. Lamech , nel suo nome rimandava a L.AM. è 38 L(uigi) AM(odeo), in cui “ech” rimandava a ”è 38” per c=3 e h=8, per cui si agganciava a lui, al suo primogenito nato nel 38. Nel ramo negativo aveva due mogli, ZILLA e ADA, e questa Maria Teresa Mazzola era ZILLA. Ce ne era ancora una seconda, di nome ADA, in programma, sempre nel ramo negativo, ma sarebbe entrata in scienza molto più in là nel tempo. Nel rampo in positivo Lamech era il figlio di Matusalemme ... quelle Ma.Te.sa M della Maria Teresa mazzola, che nel ramo negativo sbagliato era sua moglie.

Con Zilla, Lamech, ossia RU, uno in suo padre, era figurata come la moglie facente parte del ramo cattivo, disceso dal cattivo Caino che uccide perfino suo fratello. Matusalemme, nonno di Noè, in Bibbia vive fino all’anno del Diluvio Universale e in quello muore – la Bibbia non lo dice – se prima del diluvio o solo per non essere stato portato con lui dal nipote sull’Arca. Vissuto esattamente 969 anni secondo le notizie in Bibbia, se provate ad aggiungere alla sua pura presenza, di questi anni, il loro intero spostamento, con 969+969=1.938 arrivate esattamente all’anno di nascita di Romano Amodeo. Sono necessarie due Matusalemme, e in Genesi, capitolo 4, Lamech ha due spose delle quali una è la Zilla, e poi ce n’è un’altra, chiamata Ada. Ad esse Lamech dice testualmente: «Ada e Zilla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamech, porgete l'orecchio al mio dire: Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette». Era insomma previsto dal principio del tempo che il cuore di RU si indurisse fino a vedere solo le sue sofferenze. Una sola scalfittura o un livido in Lamech, Luigi Amodeo, alias il suo primogenito che era una cosa sola con lui, sarebbero stati oggetto perfino di un castigo divino. Anche Caino è egoista e terribile, al punto da uccidere il suo stesso fratello. E Dio aveva messo un segno su Caino in modo che nessuno l’uccidesse o facesse un torto, poiché sarebbe stato vendicato da Dio per 7 volte tanto. Certamente chiederete come mai il Signore difenda così a spada tratta l’assassino di suo fratello... Il fatto è che Caino e Abele, sono uomini... per modo di dire. Sono predisposizioni generali della natura che impone l’essenza DIVINA Una e Trina. Dopo il PRIMO fattore, chiamato Adamo, che le la originale PRESENZA UNITARIA della causa paterna di ogni possibile effetto, viene l’EFFETTO prodotto dalla causa nel tempo, e questo è dato dal flussi lineare di una AREA. Caino e Abele sono i due lati dell’area trasversale che è eliminata dal flusso ridotto solo al terzo effetto di nome SET. Il Piano, fatto da due valori opposti come il MALE e il BENE, mette in atto prima il MALE affinché poi possa divenire BENE. Sono un piano solo. Così è anche programmata la vita di RU: in MALE e BENE, E – una volta che è esistito – ecco si pone come un MALE inevitabile. Guai a togliere di mezzo il 7 in Caino e il 77 in Lamech!


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Della prima parte della sua vicenda con MT Mazzola, RU scrisse un libro, intitolato “Margherite impossibili”. Ne stralcio alcuni brani. . «« Il canto della sirena. Avete mai udito il canto d’una sirena? È il canto di cui si racconta nelle storie dei marinai, che compare nella vita, la distrae e l’avvince. È apparsa nella mia, nell’ottobre del 1986, in un momento veramente particolare. Avvenente, bionda, statura media, una frangetta sugli occhi marroni, 35 anni, una grazia ed una tenerezza che realmente colpivano. Ciascuno, in fondo al desiderio, ha proprio questa massima aspirazione nella vita: una persona che sappia essergli realmente vicina, con la sua delicatezza e il vigile amore. Non servono dopo tutto opere eccezionali, solo una continua presenza amorevole. È il massimo cui ciascuno di noi aspira. Se poi hai la percezione di un’effettiva possibilità da parte tua anche di realizzarti attraverso il bene fatto a chi accompagni, e vedi che la conseguenza è un nuovo bene, gioia riconoscente legata proprio ai tuoi gesti, sei, in una parola, felice. Era proprio la promessa contenuta nel canto di questa delicata creatura che, oltre che poetare, dipingeva, da vera artista. Non diamole un nome, chiamiamola

semplicemente MT. Quello vero non ha importanza, anche se in una poesia poi l’ho chiamata Maria Tristina. Io ero in un momento veramente critico della mia vita, in cui facevo progetti di morte e tutto pensavo mi sarebbe potuto succedere tranne che... innamorarmi. E invece, per quest’apparizione improvvisa, come preso da una forza che mi trascendeva, mi venne un desiderio d’avere ancora un avvenire, di cantare pur io, di far poesia e, dopo un silenzio di decenni, mi unii al canto che udivo. Ed era poi come se dimenticassi d’essere già sposato; con una donna di cui ero stato il primo amore e che era stata la mia compagna fin dai suoi 19 anni: fedele, generosa, altruista, paziente, che vedeva in me quasi il suo Dio, ormai da oltre 20 anni. Ma accade, quando si sente il canto d’una sirena e quando il navigante è, per di più, un naufrago che ha la sensazione d’essere ormai in una condizione di solitudine disperata ed estrema. Io realmente ero così e non percepivo più il bene che moltissimi avevano per me, perché esso era costruito secondo il loro metro e non il mio grandissimo bisogno di quel momento. Io, più che mi si volesse bene, ma da lontano, avevo bisogno che chi mi volesse bene fosse lì, al mio fianco, in quei difficili momenti e mi dicesse: “Coraggio! Non è finita, non disperare, ci sarà ancora un domani!” Invece tutti, pur amandomi molto, proprio perché da me in concreto coinvolti nei miei stessi guai, erano impauriti, contratti, silenziosi; non avevano più nemmeno la forza e l’ardire per tentare d’infondermi coraggio. Per giorni interi non mi parlavano. Chiedevo aiuto e quella piccola parola di conforto tanto preziosa che avrebbe potuto essere detta, restava serrata nelle gole dei miei cari, degli amici. Al più, come a dimostrare la propria innocenza nei confronti delle difficoltà, prendevano le distanze dicendo: “Te l’avevamo detto...” Ma io non avevo bisogno di cercare colpe o motivi: dovevo essere solo incoraggiato a credere ancora e sempre nel domani, dal momento che ero costretto assolutamente a vincere. Per restare fedele a tutti questi amici, a mia moglie, a mamma, a mio fratello.. se non avessi vinto, sarei dovuto giungere ormai solo all’estrema rinuncia di me, come a dimostrargli che avevo fatto proprio tutto il possibile. Mia moglie non ne sapeva ancora nulla. Ed io non ne parlavo, sia per timore che, richiamato alla coerenza della mia vita e alla fedeltà verso lei non sapessi più resistere e perdessi quell’unica speranza promessa dal canto della sirena, sia perché non ero più realmente coerente con me stesso e non sapevo più che cosa fosse giusto fare; se vivere da quel momento esclusivamente per gli altri (e così probabilmente morire), o ricominciare a vivere per un domani che, fondato sul mio stretto bene personale, finisse per non escludere né me né gli altri. E, nell’ipotesi che tutto il nuovo che mi stava capitando potesse presto finire, non era proprio neppure il caso di dare dolori inutili da aggiungere e nuove angosce alle vecchie già così intollerabili.


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Pertanto stavo fuggendo dalla mia dura realtà, consapevolmente e assistevo all’insorgere, nella mia vita quotidiana, di momenti che costituivano un taglio, assoluto, con tutti i miei stati d’animo che mi accompagnavano durante il lavoro e le difficoltà connesse con i debiti. Questi momenti di fuga erano meravigliosi: sapevano prendermi in maniera assoluta. Quando riudivo il canto della sirena non c’era ragione, non c’era memoria, non c’era riconoscenza che tenesse. Era una storia così avvincente alla vita, da sembrare vitale in se stessa e immortale. Invece, passati pochissimi giorni... “Ti devo parlare”, mi dice MT al telefono: “E’ finita. Io

non cerco avventure: non credo alla nostra storia”. Era bastato che il suo psicanalista l’avesse messa in guardia. L’impegno fu allora di non chiamarci più, ma durò una giornata. Io scrissi un sonetto: Maria Tristina, che ami le rose che non cogliesti, come il tuo Gozzano vivendo, sogni e, non sognando, cose tremende temi e già fuggi lontano. Mossette allegre e titubanze ombrose sorrisi e risi e pianti piano piano ami e rigetti e, adulta, non hai pose da grande. Lasci... e cerchi con la mano. E scorre la tua vita altalenante di paura in paura, di carezza in carezza. Tu sei splendida amante, personetta gentil, tutta dolcezza e tutt’ardore. – Tu vuoi speranze? Tante!” – Ma tu non vuoi sognar, tu vuoi certezza. Erano ormai 20 anni che si sottoponeva alla psicanalisi, ed era restata tanto asservita da questo metodo, che non sapeva più cosa volesse. Poiché io ero attratto da persone così cariche di problemi, l’idea, anche, che potessi esserle utile, arrivava a dare qualche giustificazione al dolore che avrei dato a mia moglie quando glielo avessi detto e se lo avessi fatto, perché questa storia viveva veramente di nulla e come era cominciata, così sarebbe potuta finire di colpo, come quella prima volta che mi aveva detto “E’ finita.”

Avevo il terrore che mia moglie venisse a conoscere la mia condizione, perché non vedevo io stesso chiaramente in me: come era possibile che una persona con i miei

principi, che non aveva mai fatto male a nessuno nella sua vita, decidesse di farne proprio a lei? Lei che aveva accettato per amor mio il suo ruolo di vittima numero uno; che aveva avuto l’unico torto di non capire come (nella condizione che io stavo attraversando) non avevo tanto bisogno che mi pagasse l’assistenza malattia, o un debito (che faceva quasi di nascosto, per non umiliarmi) ma che fosse solamente presente al mio fianco, viva e in carne ed ossa, con una parola di conforto, nel momento stesso in cui dovevo sopportare i pesi più penosi della situazione. Ma, in quei momenti, lei era lontana, nel suo lavoro fuori città. L’ultimo semestre era stato terribile. Per lo stress non andavo più a letto la sera (non mi affascinava l’idea che mi risvegliassi, di nuovo, di lì a poco – il sonno era come un taglio nel tempo – per affrontare di nuovo una giornata di tensioni). Sfinito restavo a guadagnar tempo sul divano, davanti al televisore, passando di programma in programma, sperando che il giorno dopo se ne stesse il più lontano possibile, finché mi addormentavo. All’inizio, ogni tanto veniva a chiamarmi, ordinandomi quasi d’andare a letto, poi ci aveva rinunciato, ben convinta che, cocciuto come sono, in certi momenti per risolvere i problemi dovevo restarmene da solo. Non sospettava che si stesse sviluppando in me qualcosa di molto pericoloso addirittura per la mia vita. Quando era apparsa MT sul mio cammino ero in una situazione limite. Non ne potevo più ed avevo perso tutto il mio equilibrio, arrivando a volte perfino a chiedere a Dio che mi facesse morire. Chi mi aveva fatto più bene di tutti, paradossalmente, era chi rischiava di farmi più male adesso che non sapevo come evitare di deludere, come ricambiare, mentre sapevo che avrei solo causato sofferenze ancora più grandi. Quando poi lei, mia moglie, metteva avanti qualcuno dei danni che avrebbe patito anche lei per le garanzie date in mio favore, si metteva alla stregua di tutti coloro che mi perseguitavano, rinfacciandomi la fiducia che avevano riposto in me. Che cosa dovevo fare? Dovevo smettere di fuggire. MT era una fuga dalla realtà, il suo era proprio il canto d’una sirena che ti alletta e poi t’imprigiona. Ma, ogni volta che stavo per lasciarla, ero preceduto e succedeva che lei lasciasse prima me e ciò mi sconvolgeva al punto che non volevo più lasciarla. Avevo trascorso in ufficio una notte. Non tornai a casa. I miei sapevano che ero andato a Padova, ed erano preoccupati perché non ero tornato. Tentarono di chiamarmi a tarda ora in ufficio. Sentii il telefono squillare a lungo; non me la sentii di rispondere perché avrei dovuto dare spiegazioni. Ebbi degl’incubi. Quando, nel dormiveglia, percepii in un attimo che tutto questo mi avrebbe portato a perdere mia moglie mi svegliai del tutto esclamando atterrito: “No!”. Al mattino del sabato, 21 febbraio 1987, mi alzai presto: girovagai e alle 10 fui da MT a scuola. Non sapevo assolutamente in che condizioni l’avrei trovata e non mi chiedevo che cosa sperassi veramente. MT era tranquilla. Andammo a visitare una mostra al Palazzo Reale. Poi ci fermammo in centro, all’aperto, a bere un aperitivo ed a gustare alcune patatine. Spiegai bene a MT la mia condizione economica e del


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perché ci fossero buone speranze. Non era vero, ma stavo ingannando me stesso, cercando io di vederle buone a tutti i costi. Sì, c’erano speranze. La mia ditta era sempre aperta e questo era un segno che ancora contassi di mettere a partito quanto avevo programmato in favore dei computer. Andai a casa a mangiare: c’era solo mia madre e si tranquillizzò nel vedermi. Affermò che avevo tenuti tutti in pensiero. Mangiai in fretta e tornai in ufficio. Si sparse la voce che ero tornato. Ricevetti la visita di mio fratello. Avendogli confidato la mia situazione, mi consigliò d’attendere e di non confessare nulla. Mia moglie, che aveva perso di me le tracce da alcuni giorni, aveva deciso d’affrontarmi: venne nel mio ufficio intorno alle 16, “Romano, cosa sta succedendo?” domandò seria. Io non risposi. “Non mi vuoi più bene? C’è un’altra donna?” “Sì”, risposi, non potevo più mentire né tacere. Cadde in uno stato terribile di sofferenza e cominciò a disperarsi chiedendosi e chiedendomi “Ed ora che faccio, dove vado? Oh, Dio, io non ho più niente!” Furono due ore di pianti, cui si aggiunsero presto i miei, veramente disperati, pure i miei. Si vedeva che ero in una terribile situazione: ebbe pena di me. “Ma tu, chi ami?” “Io amo lei” aggiunsi “ma non l’ho fatto contro di te; io ti voglio bene, come sempre: io voglio che tu sia felice e non voglio perderti.” Ero veramente in una situazione pazzesca. Lei se n’accorse e prese a consolarmi. Non so dove abbia potuto attingere tanta forza, tanta dignità, tanta umanità da volermi soccorrere in quel momento. Cercò d’interrompere i miei singhiozzi convulsi: “Non fare così, ti prego! Io ti voglio bene, voglio che tu sia felice. Chiamala, falla venire qua, le voglio io stessa consigliare di non aver paura, di vivere con te, di farti felice”. Non ci sono commenti. Accettai di recarmi a casa con lei. Tentavamo di dirci e di darci tutta la nostra solidarietà e la nostra stima. Volle che dormissimo insieme, nel nostro letto nuziale “senza far nulla, ma stammi vicino, ti prego”. Io non potevo evitare di seguirla. Stava dimostrando in quel momento tanta attenzione per me quanta sarebbe bastato, se n’avesse fatto un miglior uso in precedenza, a non farmi andare mai in crisi, a farmi affrontare spavaldo tutte le difficoltà, sicuro d’essere seguito e capito dalla mia donna. Fu impossibile dormire insieme: infatti, allorché lei tentò di parlare con me mi assalì un tale pianto convulso che non le rimase che lasciarmi solo; lei dormì con mia madre. Nei giorni che seguirono alla mia confessione cercai d’essere il meno duro possibile con mia moglie. Mi fermavo a dormire a casa, ma nel letto degli ospiti. Lei

cercava di parlarmi, al mattino, prima d’andare al lavoro, facendo tardi in più di un’occasione. Ora che lei aveva capito, lei cercava di correre ai ripari. Ma era tardi: non avrei potuto in quel momento cedere in alcun modo ai suoi tentativi di recupero. Ma le asserivo la verità, dichiarandole di volerle bene e che non le rimaneva altro che aspettarmi, se nonostante tutto teneva a me e voleva avere ancora speranze: avrei potuto cambiare, chissà. Inoltre io e l’altra c’eravamo lasciati già due volte, avrebbe potuto finire, presto. Portavo ancora la fede. Da quando nel ’69 me l’aveva infilata al dito non me l’ero tolta nemmeno una volta. Me la sfilai, con tristezza, la baciai e la riposi con cura nel cassetto del mio vecchio comodino. Guardai il segno che mi era rimasto al dito, una piega addirittura della pelle. Mi sarebbe rimasto a lungo, come ad ammonirmi che il passato non si cancella mai. » Maria Teresa Mazzola, fu la smazzolatrice della vita di RU Con lei, RU avrebbe sperimentato tutto il fallimento di se stesso. Messo di fronte alla paura e al dolore, fece come il Pietro che rinnegò Gesù, dicendo “Non lo conosco”. Anche RU finì per rinnegare ogni nodo che aveva annodato quando, cercando di seguire Gesù, su di lui aveva buttato tutte le sue reti. Deciso a sperimentare fino in fondo quello che gli stava accadendo, scelse di provare a vivere con MT. Comperarono un gran letto e il 2 marzo ‘87 fu issato nel grande alloggio che lei aveva a Milano in Via Tunisia. Maria Teresa viveva là con la madre e il fratello, e RU fu accettato in casa, a vivere con loro, ma come un ospite: non gli fu data la chiave di casa, né egli la pretese. Visse una settimana dando spazio a tutta la sfrenata voglia che aveva di vivere e far vivere, facendo all’amore una ventina di volte. La domenica pomeriggio, dopo una simile attività forse eccessiva per un uomo di 49 anni, ebbe la spudoratezza di partecipare all’incontro settimanale di calcio che disputava con la sua squadra al torneo “tempo libero” del CSI. E lo strano fu che giocò anche bene, riuscì ancora a correre. Fece con lei dello spirito sul fatto che lei l’avesse... allenato a dovere. Quella sera, dopo la partita di calcio, si amarono nuovamente e in quella data, otto di marzo, provò lo scoppio di riso più allegro e intenso della sua vita. Dopo che giunse a quel limite, divenne confidente, divenne serio. Pose l’attenzione sul suo quotidiano, pieno di tensioni e di momenti veramente difficili da vivere: egli desiderava solo stare con MT perché, quando ciò avveniva, come era accaduto poco prima, toccava il cielo con un dito. Il suo tono fu così esplicativo che descrisse deliberatamente la sua vita d’inferno. Stava tirando fuori subdolamente la verità, perché vedeva bene che la stava spaventando, ma voleva sapere chi avesse veramente davanti, avendo lei. A lei, ricca e timorosa d’esser povera, giunse a insinuare che neppure a lei, se avesse voluto, sarebbe stato possibile tirarlo fuori dai debiti.


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Era come una miccia accesa, lunga, lunghissima, ad un esplosivo. RU accese quella miccia per vedere se poteva fidarsi di lei. Aveva notizie di come Giancarla stesse male, avesse avuto bisogno del dottore. E aveva deciso di mettere tutte e due su un piano di parità. MT aveva avuto il privilegio, ricambiato, di un’esperienza che aveva provato solo nel suo lato dolce. La vita non era solo questo. Che conoscesse anche la verità da cui Romano stava fuggendo. Che conoscesse come lei rappresentasse più che un incontro... un fuga. Così anche lei fuggì. RU stesso le diede l’occasione perché l’indomani, 9 marzo, andò a Padova a prendere un libro da realizzare per Piccin e insinuò che sarebbe tornato tardi. “Che faccio, ti citofono?” “No, per favore!” “Allora ci vediamo domani” “Domani sono da Daniela”. Ecco, gli aveva chiuso la porta, e non lo faceva più nemmeno entrare in casa alla prima avvisaglia della verità. Dove avrebbe passato la notte se ormai viveva con lei? E – l’indomani – che RU non la chiamasse, perché non sarebbe stata a casa. RU non la chiamò. L’indomani, il giorno 11 di marzo, in ufficio lo avvertirono che MT gli aveva chiesto di chiamarla da Daniela, tra l’una e le due, e gli diedero il numero. Erano due giorni che Anna, sua madre, nell’intervallo del pranzo del mezzogiorno, gli riferiva come Giancarla fosse stata male, tra sabato e domenica: continuava a svenire. E continuava a sospirare, allucinata, il “suo Romano, che voleva il suo Romano!”. Queste notizie lo rattristarono. Giancarla soffriva disperatamente per averlo lasciato andar via, per avergli detto di provare ad essere felice almeno lui. Telefonò così a casa di Daniela, ma oltre il limite massimo, sperando di non trovarla, ma era ancora lì. Così le disse: “Sono tutto sottosopra; mia madre mi ha riferito che Giancarla stava per morire... Ti telefono questa sera”. Che le telefonasse era una bugia, non lo avrebbe fatto. I racconti di sua madre e la situazione di crisi che aveva montato deliberatamente tra sé e MT, lo avevano richiamato con forza al passato e questo per lui significava, in quel momento, il suo naufragio definitivo. Non poteva, rifiutato l’ultimo appiglio, più assolutamente reggere alla situazione di prima. Aveva per di più consentito che in lui montasse la tensione ed ora era agitatissimo. Aveva deciso che quella sera l’avrebbe fatta finita e che avrebbe attuato il piano estremo che aveva costruito da gran tempo. Avrebbe avuto un incidente, che doveva apparire fortuito, una vera disgrazia, in seguito al quale avrebbe perso quattro dita: pollice ed indice delle due mani, che sarebbero andate distrutti in un incendio scoppiato in ufficio. Lo so, è una cosa estrema, ma RU, per quanto potesse sembrare davvero impazzito stava pensando al risarcimento da dare agli altri, e non voleva più

tergiversare. Se il Padreterno non era intervenuto aiutandolo in quel senso, ne avrebbe fatto lui le veci. MT era riuscita a riportarlo per gran tratti come in un porto riparato, ma non era affatto un riparo sicuro: egli voleva tornare a casa. Dopo d’avere rimesso in sesto le vele, rinforzato le sartie e preso fiato, doveva riprendere la navigazione e arrivare nel suo porto, di riffa o di raffa. Solo che, dopo il rilassamento, ora non ce la faceva più a pensare che avrebbe trascorso anni, forse decenni ancora in quella situazione. Voleva vivere e voleva uscirne subito, immediatamente, perché non ce la faceva più a resistere così. Così si sarebbe infortunato. Aveva preparato tutto, meticolosamente: una taglierina acquistata apposta, cui aveva fatto aggiungere un gran piombo sul manico, affermando che non premeva con la giusta forza sui fogli e che quel peso avrebbe consentito di fare meno fatica. L’aveva fatta issare al piano alto dell’ufficio, su un tavolo che era pericolante in una gamba. I suoi dipendenti, specie Farina, gli ripetevano che era pericoloso, si sarebbe potuto ribaltare se la gamba cedeva. E allora aveva fatto mettere libri sul tavolo dalla parte della gamba opposta a quella, tanto che il peso fosse sulle tre gambe e il tavolo non s’inclinasse. Faceva ancora freddo e in ufficio c’era una stufetta elettrica, di quelle a filamento incandescente e ventilatore. La teneva alle sue spalle. La dinamica dell’incidente sarebbe stata quella di chi, trovandosi seduto davanti alla taglierina, per l’improvvisa caduta dei libri dal tavolo e il cedimento della sua gamba, si trovasse all’improvviso la pesante taglierina venire addosso sul tavolo che gli veniva contro. Sarebbe stato schiacciato, mentre la sedia si ribaltava, se non avesse cercato d’allontanare in tutti i modi quel gran peso dal suo costato. Avrebbe effettuato una spinta verso sinistra, per evitare di restare sotto e la taglierina si sarebbe messa di sbieco ed avrebbe urtato violentemente per terra. Il contraccolpo avrebbe fatto scattare il saltarello delle sicura e la gran mazza, a causa del contrappeso, si sarebbe mossa di colpo in avanti attivando il meccanismo di chiusura delle lame. Disgraziatamente, per afferrarla così come si poteva, alla bell’e meglio, e spostarla verso sinistra, le dita sarebbero finite sotto le lame e sarebbero schizzate via. Il tutto sarebbe finito addosso alla stufetta e la carta sul tavolo (e le dita) avrebbero preso fuoco. Questo piano era stato preparato e poi rimosso, fin dalla memoria, allorché MT era entrata in scena, distraendo così RU, salvandolo per un po’ e riuscendo poi addirittura a fargli mutare indirizzo. Ma adesso, che l’aveva definitivamente lasciata, aveva deciso che non avrebbe più vissuto nella situazione di prima: troppo intollerabile, troppo angosciante. Dall’incidente, a conti fatti, avrebbe avuto un risarcimento di più d’un miliardo, tutto sarebbe stato risolto e ciò gli sarebbe servito anche da dura lezione: che un’altra volta non coinvolgesse più gli altri nelle sue questioni.


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Sì, perché tutta l’angoscia di Amodeo era provocata dagli altri. Egli non aveva colpe se erano restati danneggiati, ma lo colpevolizzavano e per lui questo loro atteggiamento era la fonte d’un immenso ed intollerabile dolore. Avrebbero avuto quello che reclamavano e sarebbe restato anche abbastanza per la moglie. Era l’11 marzo 1987, mercoledì. Telefonò a Luigi Luccini, dicendogli se andava lì la sera che gli doveva parlare. L’amico assicurò che sarebbe passato verso le nove e mezzo. Quando Luigi suonò al citofono, RU gli aprì e corse a mettere in atto il suo folle disegno: Luccini ci avrebbe messo più d’un minuto ad arrivare e c’era tutto il tempo. Infilò le dita, con attenzione, sotto le lame mentre con la testa sollevava la pesante leva che attivava il movimento, cui aveva agganciato una treccia d’elastici. Spostò la testa e gli elastici si tesero, controllò con attenzione che le dita fossero in posizione giusta. Ora occorreva fare ancora un piccolo gesto, quello di tirare indietro la testa. L’elastico e il gran peso attaccato alla leva della taglierina avrebbero attivato il meccanismo ed avrebbe avuto tranciate nette le sue quattro dita. Luigi Luccini, chiamato là, sarebbe stato solo il testimone di quella sciagura, colui che avrebbe spento le fiamme e lo avrebbe portato all’ospedale, evitandogli di morire dissanguato, chissà, dopo un probabile svenimento. Ecco, tutte le prove che il Signore aveva dato nella sua vita, d’essere sempre al suo fianco, si resero così evidenti che, in quel momento estremo, RU si rivolse a Lui: “Dio, che faccio?” E udì, nettamente, chiaramente: “Aspetta!”. Udì. Dio gli rispose! Oh, gli era chiaro che non era una risposta che lui RU aveva dato a se stesso! Se egli avesse parlato a se stesso avrebbe detto: “Manda tutti all’inferno, se non ti capiscono e tu arrivi a gesti come questo!” RU si convinse di aver sentito davvero, il giorno 11 di quel marzo 1987, la voce di Dio, che stavolta gli aveva ordinato così: semplicemente, categoricamente ed autorevolmente, di aspettare. Era tanto imperativo che non gli restava altro che ubbidire. Abbassò lentamente la testa riportando la sbarra nella posizione iniziale e scese ad aspettare l’arrivo dell’amico. “Cosa c’è?” Gli chiese Luigi appena lo vide. “Vieni a vedere” e lo portò al piano di sopra, a fargli costatare che cosa l’aveva chiamato a fare. Gli riferì che, però, qualcosa glielo aveva impedito all’ultimo momento. “Ma tu sei pazzo! Questa gente mandala a cagare!” Luigi Luccini era più esplicito. Non si poteva finire così. Lo aveva conosciuto come una persona capace, gli aveva visto fare una carriera strabiliante, poi la stranezza

di tutto quel darsi da fare per tenere in piedi quella baracca dicendo di farlo per Gesù. Così gli disse: “Romano, ti ha rovinato Gesù!”. RU capì che doveva smettere di lottare, doveva lasciare che i suoi desideri trovassero pace. Non poteva fare colpi di testa, in questa situazione. MT gli aveva salvato la vita, per mesi. Era la sola che riuscisse a distrarlo dai brutti propositi, non doveva rifiutarla. Egli doveva solo riuscire a fare ordine su tutto ciò, senza fretta, senza colpi di testa, senza chiedere a se stesso sacrifici che non poteva sostenere. Era veramente un povero uomo, incapace ormai di tutto, e non gli restava che aspettare, secondo l’ordine ricevuto, che quella tempesta passasse. Gesù stesso visse questo nel momento del presunto abbandono di Dio, quando invocò: “Allontana da me questo calice!”; ma superò il pericolo della fede in se stesso più che in Dio, aggiungendo “pero non la mia, sia fatta la tua volontà”. Abramo superò questo stesso impaccio quando Dio gli propose di sacrificare a Lui Isacco. Egli lo portò sul monte perché colà fosse immolato addirittura quel figlio donatogli a tempo scaduto dalla bontà del Signore. Chi approva la bontà in un simile Dio e chi approva la bontà nella scelta fiduciosa d’Isacco? RU doveva smantellare davanti ai suoi occhi la propria figura, grandiosa, buona, generosa, come se queste virtù fossero veramente sue e non solo affidate a lui dalla buona sorte d’un Dio che così aveva voluto. Questa era la penitenza che ora doveva accettare, la più grande mortificazione che fosse possibile a lui giunto a questo punto: di scoprire d’essere una merda. Gi tornò in mente quel foglietto letto quasi dieci anni prima: “Il Signore ti ama e perfino il tempo in apparenza perduto è solo tempo d’attesa”. Aveva avuto nella sua vita tante prove che Dio rispetta le sue promesse, che si mise allora nuovamente ad aspettare e, come faceva quando doveva sentir male e non poteva evitarlo (si metteva ad osservarlo minuziosamente), si mise ad osservare e a cogliere per bene tutta quella sua miseria, in se stessa e in se stesso, per vedere in verità di che cosa il tutto fosse fatto e fosse fatto egli pure. Il 12 marzo 1987 Amodeo ritornò a vedere MT, e il giorno dopo le regalò una spilla Liberty anni 40, di fattura statunitense, che le piacque molto e la rese molto contenta. Non tornarono però a vivere insieme. La domenica successiva invitò Giancarla a vedere la sua partita di calcio, poi andarono a pranzo a Como. Giancarla fu cara, gentile, premurosa e volle assolutamente offrire lei. Settantamila lire di pranzo.


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Gli faceva la corte e RU gradiva le sue gentilezze. Non era un mistero che lui le volesse bene: gliene aveva sempre voluto, anche se ultimamente lei era divenuta per lui poco più che una sorella. Aveva quel giorno una sensibilità particolare al sole indotta dai farmaci che aveva preso la settimana prima: “Sono proprio sfortunata, sono così brutta proprio il dì in cui vorrei essere più bella”. A sera telefonò alla Mazzola raccontandole che aveva preso una botta sull’alluce giocando alla partita, che era voluta andare a vederlo la moglie e che egli restava a casa a dormire. Lei, come era prevedibile, si turbò, ci restò male. Il 16 marzo, seduti al bar di fronte alla Casa dello studente, MT gli dichiarò: “E’ finita, sono triste, ma è finita. Non sento più niente per te”. Egli rispose: “E va bene”. Si alzarono e andarono via, senza consumare niente. Poi lei aggiunse: “Ti chiedo la promessa d’aver cura di te, di non fare sciocchezze”, perché egli le aveva raccontato che cosa avesse cercato di fare in quel giorno 11 di marzo. RU andò prima in ufficio, poi, zoppicando, tornò a casa di lei, per rimuovere quel grosso letto che vi era stato portato il 2. “Sta male, lo farà un’altra volta” ribatté la madre. L’indomani mattina le telefonò, leggendole tre poesie che egli aveva composto e lei gli rispose che gli avrebbe scritto una lettera. Fu una lettera d’apertura, il cui senso, in sintesi era questo: “Io sono una persona ferita che preferisce i dolori già noti della fine d’un amore a quelli ignoti d’un amore difficile. Forse ho avuto troppa fretta: proviamo ancora, chissà! Vediamo di costruire un rapporto con più calma e meno precipitazione.. Se vuoi ancora... Se non sei ritornato con tua moglie...”. RU ebbe l’idea d’andare lontano, dove si potessero esprimere tutto, con calma e chiarire definitivamente cosa volessero. Pensò a Venezia, perché gli venne in mente il film “Anonimo Veneziano”, sulla fine d’un amore a Venezia. Così l’indomani, 21 marzo, alle 14, partirono, prendendo lo stesso treno sul quale il 2 febbraio lei l’aveva accompagnato mentre andava da Piccin e s’erano dati i primi baci in una carrozza vuota. Ora c’era una signora. L’indomani, visitarono la mostra d’Arcimboldo, oziarono per le calli, sedettero ai bar, stettero bene, dimenticarono tutto, finché RU non riaprì quel tema, doloroso, di Morte a Venezia, ed iniziò a parlare di quanto era successo, per trovarvi una possibile logica.

Allora si ruppe di nuovo tutto. Andarono egli avanti e lei dietro lamentandosi finché giunsero al treno. Ma non partirono, andarono nuovamente in albergo e fu una serata davvero molto triste. Da parte sua, la moglie di RU viveva queste situazioni molto allarmata. Luigi probabilmente le aveva confidato che cosa fosse stato per fare Romano e lei stessa si rendeva conto che la sua situazione era tutt’altro che tranquilla. Intanto una cosa era successa e veramente importante: gli affari e gli aspetti economici erano finiti tutti in secondo ordine. Fintantoché la questione vitale era quella sentimentale, la sua prepotente esistenza impediva l’angoscia per il resto. RU invitò Giancarla a uscire a prendere una pizza e lei gli rispose: “Smettila di trattarmi come un burattino!”, ma la domenica 29 volle lei sapere perché l’avesse invitata. Le rispose che gli era parso normale tra loro due. Presero parte alla discussione la madre di lui e Mira Balconi, la sorella del padre, l’unica che non gli avesse voltato le spalle, e la questione si complicò, perché stavano cercando tutti e tre di farlo tornare alla ragione. Allora RU, per la riprovazione manifestata da tutti contro di lui, se ne uscì di casa e fu ospitato gratuitamente dall’amico Romano Gozzi in una delle stanze dell’Hotel Lodi a Lodi, di sua proprietà. Vi restò 4 notti. Il 2 aprile volle tornare dalla Mazzola e stette con lei; l’indomani, venerdì, all’Hotel Lodi tutte le camere erano occupate, così fu costretto all’una di notte a tornare in Via Lattanzio. Il 10 aprile, di fronte a MT che gli diceva di non sapere più cosa volesse, RU la lasciò lui. Lei stette male, vomitò. Stette male anche tutto il giorno dopo. Il giorno seguente quello gli chiese se andava da lei e lui lo fece. Andarono sull’Adda e lì RU le propose: “Riconosciamo che siamo separati! Non va bene così. Che vuol significare tutto questo prenderci per poi subito lasciarci? Smettiamo anche con le intimità. Poi vedremo.” Fecero progetti per le vacanze di Pasqua e trascorsero tre giorni a Grantola, tra Luino e Ponte Tresa, ospiti della sua amica di Via Vanvitelli, figlia dell’avvocato Dell’Ora. RU portò un lungo lenzuolo preparato con la cementite e dipinsero. La Mazzola non stava bene, era ridotta a uno straccio, ansimava dopo soli pochi passi che fossero più spediti del solito. Così, al ritorno, non si videro che il 28, al Giamaica, un locale nel quale avevano fatto un patto di ritrovarsi sempre, anche se si fossero lasciati, perché gente instabile come erano loro due avrebbe sempre avuto modo di ritrovare un’armonia, anche decenni dopo. E proprio quell’appuntamento consentì a lei di chiarirsi le idee: gli voleva bene, ma aveva un’ansia terribile derivante dalle condizioni economiche di lui. Quella notte, restata sola, non riuscì a dormire neppure avendo raddoppiato la dose già alta dei tranquillanti.


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Queste sollecitazioni che MT faceva a RU lo spronavano nuovamente a vincere la sua battaglia del lavoro, ora con lo scopo di tranquillizzare lei. Così, tentando di dare serenità a lei esponendo plausibili ragioni, egli le trovava e funzionavano bene anche con lui. Le scrisse una lettera il primo maggio, in cui le dettagliò la sua situazione economica, che poi non era così terribile come aveva detto a lei nel tentativo di spaventarla: restavano sempre le proprietà immobili che aveva a bilanciare circa un miliardo d’investimenti in lire. Solo che erano beni invendibili. Poi le suggerì che il problema vero era lei: non aveva più la capacità d’autocontrollo e la madre, lo psicanalista, lo psichiatra e perfino le amiche, erano coloro che finivano per decidere al posto suo. Lei, toccata sul vivo, tentò d’affermare la sua autonomia e dichiarò a tutti che la smettessero, perché lei “voleva bene a questa persona”. E a RU esclamò: “Ora io non ti lascio più. Da questo momento in poi, se uno di noi due lascerà l’altro, sarai tu”. Sull’onda di queste sicurezze iniziarono a cercar casa e trovarono due possibili alloggi nella via che faceva angolo con la sua abitazione di Via Tunisia. Poi, tanta era stata la sua sicurezza, che il 7 maggio, atterrita da tutto quello che stavano organizzando insieme, gli comunicò per telefono quello che – secondo lei – mai più gli avrebbe detto: “Ti lascio”. L’artefice di questo ravvedimento era stato il Monteverdi, lo psicanalista, che s’impicciava degli affari non suoi fino al limite della denuncia. RU non restò molto convinto d’essere stato lasciato, le ritelefonò quasi subito e lei gli dichiarò: “Sono disperata!”. Tutto ricominciò, ma solo per poco. Passata la disperazione le mancavano ora gli stimoli del sesso, bastonati dalla cure cui la stava sottoponendo lo psichiatra, con pillole ed altro che inibivano la libido. Rimessasi e smesse le medicine, si convinse di desiderarlo con tanta forza che gli comunicò d’avere ora deciso di lasciare il Monteverdi, che cercava sempre di condurla verso l’assenza d’ogni legame, come l’ideale condizione per lei. Ricominciò a pensare alla casa, alle ferie con lui, a quando si sarebbero messi a vivere insieme... Sì, perché intanto RU viveva sempre a casa sua, in Via Lattanzio, assieme alla madre e alla moglie. Si parlavano per telefono, ma un giorno Anna rivelò al figlio che non gradiva che egli telefonasse a lei da casa sua, così Romano, che già era andato via di casa più d’una volta, sfilò dal suo mazzo le chiavi di quella casa, le rese a sua madre e se ne andò.

Riprese a stare con la Mazzola, in due in quel letto ad una piazza e mezza in cui lei ora dormiva, dopo che era stato rimosso il letto grande di quella settimana di fuoco. Ripreso lei il possesso della sua libido, furono nuovamente notti di fuoco. Ci fu un lungo periodo di serenità, l’ultimo, giacché un giorno RU dovette correre in ufficio perché erano andati a scollegare la luce a causa di un’insolvenza. Era stata solo una svista, ma gli operai non avevano sentito ragioni. Fu un fatto che impressionò molto Maria Teresa, e cominciò a farsi nuovamente mille domande. Il Monteverdi, che non era stato lasciato, soffiando a quel punto a tutta forza come un mantice sulla sua insicurezza, la portò nuovamente a scegliere per la dignitosa solitudine e a comunicare ad Amodeo: “Sono triste, è finita.”. RU scrisse entro il 6 luglio 1987 “Margherite impossibili”, la storia dei primi sei mesi tra lui e la sirena, e glielo inviò. Lessero insieme dei brani e ripresero a vedersi. Affittò l’appartamento in Via Franchetti 117, che avevano scelto, e andò ad abitarvi, ma non riuscì a restarvi per una questione sorta tra il proprietario e Romano Gozzi che aveva fatto da mallevadore ... ma solo fino ad un certo punto. La brutta figura incattivì la madre della Mazzola e la stessa figlia. Egli cercò di parlarle al telefono, ma la madre non volle passargliela. Lei andò a Marchirolo e lui corse là, per incontrarla, ma anche là trovò lo stesso Cerbero che lo impedì. MT era stata chi lo aveva salvato avendogli saputo dare momenti di fuga ed ora proprio lei lo cacciava in nuovi dolori legati alla sua incertezza, facendogli provare nuovi e orribili patimenti, che in certi momenti divenivano intollerabili. Si mise a osservare se stesso quanto soffrisse, così riuscì a calmarsi, a darsi una ragione: stava bene così. Gli stava bene così, a lui che dava le stesse pene a sua moglie! RU allora si diede anima e corpo a sistemare le sue cose. Il suo programma d’innovazione doveva essere ancora collaudato. Con le poche macchine sopravvissute all’azione di boicottaggio, perché rimaste in Via Colletta, aveva messo a disposizione ogni cosa per dimostrare l’esecuzione di quanto aveva programmato. La sua iniziativa aveva riguardato più l’hardware che il software, perché la sua iniziale macchina doveva essere in grado di leggere tutti i differenti dischetti in uso alle varie case che servivano la fotocomposizione, tanto da accentrare i dati per poi decentrarli su qualsiasi altra macchina. Un testo poteva così passare da dischetto a dischetto di sistemi differenti. Non essendoci più i 27 lettori di dischetto dovette correre a un ripiego, passando ad una transcodifica che inerisse di più l’aspetto della programmazione. Cominciò ad approfondire l’aspetto del linguaggio dei computer e s’impratichì a tal punto delle


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regole base che riguardavano l’intelligenza artificiale che questa sarà poi la base di tutto il suo futuro ragionare, anche rispetto all’intelligenza dell’uomo. Con una macchina transcodificatrice, poté dimostrare come fosse in grado di passare agevolmente da un linguaggio all’altro, liberalizzando in un certo senso il mercato per come aveva inizialmente inteso. I due ispettori venuti in settembre a controllare per conto del Ministero dell’industria conclusero nella loro relazione che la Romano Amodeo S.r.l. era riuscita nel suo programma per il 95%. Fu possibile così ricevere il saldo finale. Con questo secondo accredito del Ministero, RU si recò dalla Mazzola e le mostrò il libretto con quasi duecento milioni sul conto, ma lei non fece una piega. Questa cifra, rilevante, entrò ed uscì con la stessa velocità con cui vi era entrata: consentì però di risolvere alquante questioni restate in sospeso. Consentì di pagare tutti i dipendenti che, da un po’ di tempo, erano finiti in condizioni difficili ed erano andati in molti da RU a dirgli: “Ti devo parlare”. Si erano licenziate Daniela Finotti, Carmen Lombardi, Maria Teresa Casirati , Giusi Feroldi e Marco Fecchio, una vera ecatombe. Erano tuttavia presenti ancora, in settembre: Anna Forlin, Michela Lombardi, Carla Forte, Silvana Barattieri, Anna Lombardi l’ultima delle tre sorelle entrate in ditta, Gloria Bianchi, Giorgio Conti, Anna Cortese, Paola Giangualano, Cinzia Luccini, Giovanni Stefanelli, Loredana Russo, Anna Vian e Agnese Tiziani, con il già pensionato Giuseppe Farina. Della squadra entrata in azione con Vittorio sopravvivevano solo Michela e Carla, essendo Anna Forlin e Silvana già attive fin da prima dell’80; per cui l’uscita di Del Grossi aveva causato una grande perdita anche di capacità produttiva. Aveva dovuto assumere e preparare altre persone, dalle quali non si potevano pretendere miracoli. La Mazzola, attraverso amicizie, aveva messo RU in contatto con il Dott. Giovanni Napodano, presidente dell’Ordine dei Commercialisti ed egli, ai primi d’ottobre dell’87, ritenne ancora possibile che si procedesse ad un piano di vendita degl’immobili, teso ad evitare il fallimento. Gl’immobili avevano tutti ipoteche, ma la sua figura, stimata dalle banche, avrebbe potuto garantire che, raccolte le offerte sufficienti a pagare tutto, si procedesse alle vendite nonostante le ipoteche. Anche le Banche convennero che i beni, venduti sul libero mercato, avrebbero fruttato di più che se messi all’asta. Fu fatto il tentativo di vendita, con offerte irrinunciabili d’acquisto, perla durata di un anno.

La Compugraphic, giocando in anticipo, e saputo che in ditta erano recentemente arrivate buone risorse, aveva presentato al Tribunale una richiesta di fallimento per la ditta individuale. Il Tribunale diede un tempo ultimativo a pagare i 15 milioni richiesti. Il giorno prima di questo termine, alla metà d’ottobre, RU andò a Padova, da Piccin, che gli doveva anche di più di 15 milioni: purtroppo ne ricevette solo 8 milioni, che non bastavano. Deciso a tornare alla svelta a Milano per vedere in che altro modo tentare di provvedere, alla stazione di Padova trovò la sorpresa d’un improvviso sciopero dei treni e si accorse che faceva in tempo solo a recarsi a Venezia, da dove sembrava che sarebbe potuto tornare a Milano in aereo. Giunto così a Venezia, seppe però che neppure quel mezzo era disponibile. Stava cercando di capire cosa fosse meglio fare quando vide per caso una pubblicità del Casinò di Venezia. Osservò che le aveva provate tutte, aveva rischiato in ogni modo con la sua azienda ma non aveva mai rischiato in modo deciso al gioco. Aveva studiato sistemi probabilistici al totocalcio, alla stessa Roulette, ma si era sempre limitato a simularli al computer, concludendo che i sistemi vincenti non esistevano. Giocando poche volte e assistiti soltanto dalla fortuna, si poteva anche vincere, ma giocando molto si entrava inevitabilmente nel conteso dei valori medi, e quelli erano largamente perdenti. La costante perdita media di tutti i giocatori è alla base del costante enorme guadagno fatto dalle case da gioco. RU sapeva bene tutto ciò, ma aveva solo 8 milioni e gliene servivano 15 per non fallire la mattina dopo. Vista per caso quella pubblicità mentre si chiedeva come e cosa fare, si decise d’affidarsi a quella sorte. Mettendo in atto il sistema che meno aveva visto perdere nelle simulazioni fatte al computer e giocando a 500.000 lire a colpo nella giocate semplici (rosso, nero, pari, dispari, ecc.), uscì dal Casinò con 25 milioni in tasca e 17 di pura vincita. Tornò in taxi e gli costò come uno di quei colpi. La mattina dopo rispettò il suo impegno e decise che, essendo in credito con la buona sorte, poteva anche arrischiare quello che gli era rimasto. Tornò a Venezia e vinse 10 milioni, poi 15 la sera dopo e si trovò con 42 milioni di vincita. Si recò dal fratello e gli mostrò quel bel mazzo di biglietti di banca. Benito ricordò che quel denaro gli sarebbe potuto servire a risolvere le difficili situazioni personali che gli erano rimaste in sospeso. Ma RU aveva visto che il suo sistema funzionava: la sequenza di segni consecutivi che lo avrebbe fatto sballare, arrivava puntualmente, ma accadeva solo quando aveva già vinto parecchio, e allora smetteva. Andò da un orefice di Venezia e si fece costruire una spilla d’oro e rubini copiando quella bigiotteria in stile Liberty che alla Mazzola era piaciuta e che gli aveva restituito, quando si erano lasciati a fine giugno.


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Fece in tempo a pagarla sul finire d’ottobre e poi – appena pagata quella e all’improvviso – vide che tutto gli si voltò contro: accadevano le sequenze più improbabili che ci potessero essere, infilate di 15 eventi negativi tutti di fila, il che è tutto dire. Un giorno aveva una sola probabilità di perdere su tutti e 37 i numeri, 0 incluso, e vide la pallina schizzare contro il lato opposto, fare una traiettoria volante verso di lui, come quelle che vedeva fare ai palloni, calciati dai calci d’angolo e che prendeva molte volte egli di testa, grazie al suo colpo d’occhio. Ebbene, quella pallina che volava verso di lui, mentre sorvolava il centro, piegò nettamente da un lato e andò ad incastrarsi, come se un magnete potente l’avesse attratta imprigionandola, nell’unica casella che lo faceva perdere. Smise di giocare, perché quella sera perse, essendosi così accanito, tutto quello che aveva portato. Ma si era talmente convinto che ad un certo momento avessero cominciato a marcarlo scorrettamente, che il giorno dopo tornò con una calamita, per vedere se la pallina che usavano fosse sensibile all’attrazione magnetica. Non volle far la prova e preferì non andare più al casinò. Infatti, non era nemmeno molto sicuro che quella serie d’eventi così improbabili avesse all’origine un imbroglio. Quanti ne aveva osservati a proprio favore, fino a chiedere ad Antonella d’essere testimone? Ora gli era stato concesso d’assistere al prodigio di quella pallina deviata senza ragione perché capisse che non doveva più giocare. Infatti, stava cercando, con 10 raddoppi, di passare da 1 milione ad 1 miliardo. Nella serie: 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 258, 512, 1024. era già a 64, essendo già arrivato a 6 raddoppi; gliene mancavano solo 4. Smise comunque il 28 ottobre, restando in vincita: non era fallito e gli era restato un gioiello. Quel gioiello fu donato il 29 a MT, e lei, ricevuto un dono così costoso, giudicò che poi la situazione di RU non doveva essere così temibile come a volte le sembrava; ed ebbe inizio un nuovo e tormentato periodo. Se RU non fosse rimbecillito lo avrebbe dato alla moglie, l’1 novembre, per il suo compleanno. Lo avrebbe donato a quella moglie che, senza rimproverarlo per i guai dati a lei in relazione alla GIESSEA, aveva speso molti milioni per pagare multe e risolvere altre grane, indotte a lei da quella ditta per la quale aveva solo accordato, al marito, la funzione del prestanome. Si era dovuta sentire anche tutte le pretese di quei creditori che, non pagando Romano, pretendevano ora da lei. Se RU fosse rimasto coscienzioso, non si sarebbe comportato mai così! Ma poi pensava anche che, se il marito lo fosse restato e non fosse diventato a un certo punto più egoista, forse si sarebbe fatto del male per non deludere gli altri, come era stato già sul punto di fare.

Perciò Giancarla, volendogli veramente bene, aveva capito la difficilissima situazione del marito e lo giustificava, lei sola, mentre tutti gli altri gli davano addosso, sostenendo che non si sarebbe mai e poi mai dovuto comportare così con lei. Un po’ più duro, con gli altri, sì, certamente! Ma con lei, sua moglie, mai e poi mai! Avevano anche loro la loro brava parte di Ragione. RU viveva, in questi mesi del 1987, in Via Lattanzio ed abitava con la madre e la moglie, dormendo egli nel letto degli ospiti e lei in quello nuziale. Fisicamente lontani, ma solo in apparenza, perché tra i due letti c’era solo una parete di non più di 10 centimetri... di fatto erano sempre restati a trascorrere tutte le notti vicinissimi l’uno all’altro, ma senza accorgersene. Si erano verificate le condizioni espresse simbolicamente a San Donato quando, sposati ed entrati nell’ascensore, erano restate fuori tutte le loro valigie. Sul finire del 1987, Napodano rivelò ad Amodeo che non poteva fare altro che fallire: le case erano stata poste in vendita ma non c’erano state proposte a livello tale che il raccolto potesse saldare tutti i debiti. Quindi, se voleva riscattarsi dai suoi impegni, non gli restava che affidare tutti i suoi beni al Tribunale, chiedendo il fallimento per se stesso e per la sua ditta individuale. Il commercialista gli dichiarò che, lo sapeva, era una scelta dura da prendere, ma doveva rendersi conto che se solo fosse fallito l’anno prima, quando aveva patito il furto, ora avrebbe avuto un 25% d’interessi in meno, quelli maturati nel frattempo. Più aspettava e meno riusciva a coprire con il ricavato delle vendite. Fallendo adesso, probabilmente gli sarebbe restato ancora qualcosa, per sistemare al meglio i suoi impegni personali. Dunque R-U-BEN sono due che, mentre il 2° crebbe nella sua funzione e passò come consulente al massimo livello, alla AMBROSETTI, una società di consulenze, il 1°genito giunse al capolinea: al momento decisivo di concretizzate la sua totale caduta.


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1988

R-U-BEN vissero il 2°genito il passaggio dall’Ambrosetti alla TELOS, altra società di Consulenza. Il 2genito, RU, seppure a malincuore, il giorno 28 febbraio, San Romano Abate, si decise a fallire. Non sapeva che in quello stesso giorno aveva grande compagnia a Montesilvano. Circa 20.000 persone attesero di assistere a un grande miracolo e andarono deluse: non poterono di certo vedere quanto stava accadendo a RU, a Milano. Romano poi Preparò e presentò la sua istanza e il 3 maggio 1988 il Tribunale di Milano comunicò la sentenza dichiarativa di fallimento, fissando il 30 settembre per la chiusura verbale di verifica dei crediti. Romano non lo sapeva, ma nel progetto della sua vita tutto era già stabilito accadesse nel momento giusto.

Da quando era nato aveva compiuto ½ di una vita piena in 100 anni. Dal giorno 4 giugno 1940 in cui era stato miracolato e Gesù era ritornato tra gli uomini, aggiungendosi a Padre e Spirito santo già discesi da lui aveva 47 anni, uguali al valore numerico del suo cognome Amodeo, che rappresentava tutto il moto della trinità 3 nel solo ½ positivo esistente in 100 anni. Il 381, valore numerico di Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo, trascendente poiché messo dopo il 18, trascendeva la sua nascita 138 avvenuta nel mese 1 dell’anno 38. Ebbene in questo valore, trascendente e palindromo, sarebbe esistito un piano unitario a lati 10 e 10 che sarebbe venuto meno, decretando il suo fallimento. Poiché aveva deciso di essere il  che introduceva il Re nella sua Gerusalemme falliva proprio nel suo disegno di farsi portatore di Cristo, dandogli il suo corpo reale. Dalla data della Parusia di Gesù, in cui era realmente rinato in lui, i 17500 giorni esatti erano tutta l’unità intera in 10.000 giorni uguali a 104, sommata a tutto il suo spazio, dato dai suoi esatti ¾. Ciò era predestinato, ma non lo sapeva e per quanto riconoscesse il Dio l’unico che fa tutto, dava colpe a se stesso. Poiché nello stesso 4 giugno in cui era stato miracolato aveva sposato G.S. (facsimile di Gesù) e nello stesso 4 giugno del 1973 aveva deciso di dargli realmente il suo corpo, anche le distanza da questi due momenti così impegnativi dimostrano, rispetto alle nozze che in tutto il moto esistente e configurabile in 7.000 giorni, veniva meno tutto il moto dell’unità 1 presente nel 47=Amodeo, e questo in tutti e due i lati del piano. Rispetto al giorno in cui fu coinvolta la sua volontà e decise di dar corpo a Gesù, agì realmente come quel Padre che lo ricrea in se stesso, Poiché il reale padre di RU si


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chiamava Luigi, nome che vale 54 in valore numerico, Luigi avrebbe avuto il centuplo quaggiù (tutta la sua riuscita come padre) nell’unità comune 47=Amodeo, del cognome suo identico a quello del figlio. Fallita la ditta individuale, proseguiva però il lavoro della Romano Amodeo S.r.l.: i clienti c’erano e le speranze pure. Sennonché sul conto della S.r.l. – come un fulmine a ciel sereno – arrivò all’improvviso un assegno di 70 milioni da pagare. Era quell’assegno che Amodeo aveva dato a Vanda e Lello Parrinello, perché lo tenessero come una pura garanzia. Così Mariannina Baratta, che era divenuta, per il fallimento di RU, l’amministratrice momentanea della s.r.l., fu costretta a chiedere il fallimento – prima che vi fosse costretta da altri – anche della società che per il 95% era del figlio e il 5% di Giancarla. Se RU fosse stato quel disgraziato che Lello e Vanda accusavano essere, egli non avrebbe messo mai in mano loro quell’assegno, ed ora si sarebbero trovati a vedersela con il curatore fallimentare, che gli avrebbe chiesto di pagare 100 milioni perché non avrebbe mai creduto che ne avessero già pagati 70, ad un milione al mese, per comperare quella casa e toglierla così dalle case messe all’asta. Questo provvedimento si chiama revocatoria. Essendo stati tali, invece, loro due, vanificarono l’unica ed ultima speranza che ancora restava a RU per raddrizzare la situazione. Portarono all’incasso 70 milioni mentre era in atto l’accordo di non versarli, e era un atto l’accordo che glieli avrebbe resi la zia, Mariannina, a 500.000 lire al mese, tanto che in un anno avevano avuto restituiti già 5 milioni da lei. A parte che avevano anche goduto di quella casa al mare e avevano creduto di non dover sottrarre nulla, Mariannina in persona, con il versamento di quei 70 milioni tondi, s’intese derubata di quei 5.000.000 che lei stessa si era come tolti di bocca, per restituirglieli e si sentì trattata come peggio non si sarebbe potuto: per di più, da una sua nipote, che era la sorella di Gennaro, Anna, Titina e Adriana tenuti per anni ed anni come veri figli in casa sua. Di fatto era successo che, non contenti che fosse già in atto la restituzione del loro debito, era subentrata un’irresistibile bramosia di vendetta in Lello e Vanda, secondo la quale dovevano punire RU. Col senno di poi si può sostenere che RU con loro sbagliò? Doveva farsi dare da Lello e Vanda gli ultimi 30 milioni che ancora gli spettavano e fare l’atto di vendita? Insinuate che poi si sarebbero arrangiati loro quando egli fosse fallito? La ragione umana ragiona così. Quella di Dio afferma che si deve essere buoni, anche se poi si passa per cattivi e si ricevono schiaffoni. Da questa logica qui, almeno in questa circostanza, RU non sembrava d’essersi scostato.

L’amara conseguenza fu, purtroppo, che a partire dal maggio 1988 si prepararono a restare senza un lavoro le ultime tra le 14 persone che avevano combattuto fino all’ultimo e tra queste Anna Forlin, la sola che aveva vissuto tutti e tre i momenti di questa esperienza fuori del comune, iniziata in un modo e finita in un vero fallimento, d’ogni valore, ultimo quello umano dello stesso RU, che appariva d’avere rinunciato ad ogni cosa che avesse una dignità, per divenire un vero miserabile agli occhi di tutti e dei suoi. Infatti non era solo Amodeo a sperimentare in se stesso questo pesantissimo giudizio su se stesso, erano anche coloro che egli aveva intorno ed ai quali aveva, un giorno, voluto dare tutt’altra testimonianza. Un giorno giunse una lettera minatoria e si capiva che era mandata da Volpe. Un altro giorno la segretaria dell’ultima generazione, Agnese Tiziani, riferì che aveva trovato messo sottosopra un cassetto. Poi fu sfondato il lucernario da ignoti. RU corse dall’amministratore della casa denunciando questi fatti e chiamò i carabinieri, che però non vennero, saputo che nulla era stato portato via. Sbarrò il lucernario con tavole di legno. Una settimana dopo udì un miagolio. Trovò 5 gattini, nascosti nel sottoscala dietro dei cartoni: uno piccolissimo bianco e nero che miagolava disperatamente, e 4 classici soriani più grandicelli, muti e rannicchiati tra loro. Si capì così che due grosse gatte incinte erano le colpevoli dello sfondamento del lucernario. Rimaste intrappolate in ufficio, avevano partorito di nascosto e in date differenti, poi avevano approfittato d’una porta aperta ed erano fuggite per andare a mangiare. I gattini non erano ancora capaci di leccare il latte da una ciotola e furono lasciati entro uno scatolone vicino alla finestra aperta e protetta da sbarre, inaccessibili a una persona ma non a un gatto. La speranza era che durante la notte le mamme venissero a prendersi i figli. Al mattino i gattini erano ancora là. La scatola allora fu portata in cortile e lasciata lì per tutto il giorno e la notte. Al mattino non c’era più neppure la scatola. RU chiese e seppe che alcuni tra i vicini, infastiditi dai miagolii, li avevano portati nel recinto di dietro, che era pieno di gatti. Corse là, entrò spostando una tavola. Gli si presentò lo spettacolo dei 4 soriani che, vedendolo, cominciarono a miagolare e a corrergli incontro, mentre l’altro, quello più piccolo, era lì in terra ormai morto. RU li raccolse tra le braccia e li adottò. Li portò in ufficio; avevano gli occhi quasi chiusi dalle lacrime asciugate e indurite. Li lavò, riempì di latte un contagocce e lo spruzzò nella bocca d’un gattino: quello serrò la bocca, succhiando disperatamente. Il metodo valido fu così trovato e tutti e quattro furono salvati.


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Gli sembrarono il segno evidente d’un destino buono: anche in quell’ambiente, in cui tutto sembrava stesse andando allo sfacelo, era stato donato ancora, a lui, di poter salvare delle vite. Si riusciva a nascere e crescere anche là, anche tra le macerie. Del resto non è la merda il concime migliore per un fiore? I gattini furono tenuti un poco nella scatola, poi in un piccolo recinto fatto nell’ufficio. Impararono a mangiare e a vivere mentre i dipendenti, ad uno ad uno, uscirono lentamente dalla scena, ultimi tra tutti: Giorgio Conti e Agnese Tiziani. Dovendo lavorare per vivere, RU aveva deciso che era giunto il momento d’avvalersi dell’offerta che gli aveva fatta Benito. Il fratello, seguendo le sue vicissitudini, gli aveva consigliato fin dall’ottobre del 1987 di tenere di scorta una azienda di salvataggio. Se Romano gli permetteva d’aiutarlo (com’era diplomatico e discreto suo fratello!) ci avrebbero pensato lui e un suo collega, il Dott. Aicardi. RU li aveva ringraziati e aveva risposto che facessero quello che potevano, ma che comunque egli sperava di non averne bisogno, perché in quel tempo le sue due ditte erano ancora in piedi. Così, sul finire del 1987, alle prime avvisaglie che RU avrebbe per forza chiesto il fallimento, essendosi deciso a rivolgersi al Napodano, era stata costituita la Compel s.r.l., azienda grafica. Benito aveva intuito bene: il fratello non ce l’avrebbe fatta. Egli conosceva già quella situazione che il commercialista ancora ignorava: le case costruite a Nicola erano difficili da vendere; inoltre il fallimento d’una ditta si sarebbe ripercosso sull’altra, intestata a RU per il 95%. Come poteva sperare il fratello di non perdere anche la seconda se falliva la prima? L’intuito di Benito avrebbe però fallito, se Lello e Vanda non fossero, in un certo senso, usciti di senno. Così Romano sollecitò la Compel s.r.l. affinché intervenisse: occorreva un piccolo impianto di fotocomposizione per servire i clienti che fossero da lui recuperabili. Ora Aicardi aveva aderito solo per fare un favore a Benito e costui si sarebbe dovuto impegnare a pagare personalmente quasi 200 milioni se la ditta non avesse poi funzionato. Come faceva lui, Benito, l’unico a lavorare in una famiglia con 5 persone a carico? Proprio allora Alberto Scarzella offrì all’amico RU il compito di riordinare tutto il lavoro fatto dalla madre Elda, che aveva scritto una imponente autobiografia. C’era l’intenzione di trasformarla in un libro. C’era un finanziamento di 20 milioni per questo lavoro. Se la sentiva? RU ringraziò l’amico, accettò il lavoro come una vera manna della Provvidenza, e fece conoscere ad Alberto come egli fosse mal combinato; Scarzella, persona

generosa come sua madre, gli assicurò che l’avrebbe soccorso lui, in cambio dell’aiuto che tante volte avevano ricevuto da lui. Fu trovato e preso al volo, in Via Teodosio al n. 2, un ufficio piccolo, due stanze una sull’altra, collegate da una scala a chiocciola, affittato per mezzo milione al mese. Divenne immediatamente la casa dei quattro gatti. Quando il loro salvatore arrivava lo assalivano, cercando d’arrampicarsi sulle sue gambe mentre egli al lavandino apriva per loro le scatolette. Ci davano dentro con quelle loro unghiette, di cui ancora non avevano capito la pericolosità; così RU aveva anche tutte le braccia segnate dai graffi. Seppe quasi subito che, nello stesso indirizzo, si affittava anche un appartamento al primo piano che, se fosse stata aperta una porta, avrebbe comunicato con il locale di sopra, del futuro laboratorio. In previsione del giorno in cui la casa di Via Lattanzio sarebbe stata espropriata, quella sistemazione sarebbe stata ideale. Nel frattempo Romano avrebbe anche visto come si sarebbero messe le cose tra lui e la Mazzola. Alberto così sostituì Benito come socio della Compel s.r.l., e l’altro socio, sostituito d’Aicardi, fu quell’amico di RU, Armando Savastio, che già una volta gli aveva salvato la vita, quando voleva buttarsi con l’auto contro un muro; cercò di dargli anche ora, generosamente, un possibile futuro, impegnandosi a seguire tutta la contabilità della ditta. Mentre si facevano tutte queste cose per lui, RU trascorse settimane al fianco d’Elda, conoscendo anche chi l’aveva finanziata, Anna Ramazzotti, comproprietaria della casa dell’Amaro omonimo, una bella signora con cui egli entrò immediatamente in simpatia. Il lavoro relativo alla biografia era stato diviso in quattro parti ed avrebbe occupato alquanto tempo. Completata la raccolta d’un certo quantitativo, lo si sarebbe composto al computer e poi lo si sarebbe stampato e consegnato, perché fosse controllato. L’ufficio di Via Teodosio fu arredato utilizzando una parte delle Modernfold in legno che già erano state impegnate nella prima casa di RU in Via Lattanzio, quella venduta nel 1983. Il locale alto al piano rialzato, era stato frammezzato con un soppalco e, lottando con i centimetri, RU aveva creato al piano terra la zona di rappresentanza e nel soppalco uno spazio nel quale aveva collocato uno dei grandi tavoli luminosi del suo laboratorio in Via Colletta, che aveva potuto riscattare dal fallimento, aiutato da Romano Gozzi, che aveva rilevato tutte le attrezzature mobili per soli 5 milioni. L’aiutante in questi lavori d’arredo fu Sabato Lingardo. Lottando con la sua pinguedine, l’amico fece l’impossibile, specie quando rivestirono il soffitto utilizzando il grande specchio che RU aveva in fondo al suo laboratorio e che copriva tutta la


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parete. Ora una parte di quello specchio era contro il soffitto, avvitata. Posta sopra il tavolo luminoso, permetteva a chi stava lì di non sentirsi soffocare per la bassezza dell’ambiente. Il locale al primo piano era destinato alla fotocomposizione. Una porta, aperta tra questo locale e il corridoio del vicino appartamento, lo mise in comunicazione con questo: un ingresso, due grandi camere, un bagno e una grande cucina. Al pavimento fu messa una moquette rossa e tutto l’arredamento costò 10 milioni, anticipati da Alberto Scarzella. All’affitto mensile di 500.000 lire si aggiunsero 1.300.000 lire. Lo stesso Alberto firmò il 4 luglio 1988 il contratto di Leasing con la Solfina, anticipando 5 milioni circa come corrispettivo. Quel nuovo assetto mise addosso nuove speranze anche in MT. Quando RU era là, a mettere giù il testo dattiloscritto del libro della Elda, lei, se poteva, andava da lui e dipingeva. Era un appartamento abbastanza vicino alla sua scuola, per cui faceva ogni tanto una capatina, per un rapido saluto. Lo inaugurarono, un giorno, ufficialmente, invitando i loro amici: Daniela e suo marito. Fu servita una gigantesca insalatona, tutto quello che loro due sapevano fare come cuochi. Comunque, tra loro, il fuoco scottava sempre, sotto la cenere. Infatti venne l’estate del 1988 e la Mazzola partì per un giro all’estero; assicurò che vi andava con una amica. Ma quando ritornò, corse disperata a cercarlo, confidandogli d’essere andata in uno di quei viaggi organizzati per trovare un compagno. C’erano state il doppio delle donne ed aveva vissuto un periodo d’estrema rivalità, di tensione così grande, che per lei quella esperienza era stata un incubo. Cosa stava cercando tra quelli, quando lei ne aveva uno che era meglio di loro? Lo supplicò d’essere perdonata. Era andata a fare quell’esperienza anche per istigazione della madre, alla quale non faceva da tempo più sapere nulla di RU, per l’avversione netta che lei aveva manifestato contro di lui da quando aveva lasciato intendere che nemmeno le risorse loro sarebbero bastate ad appianare i suoi debiti. Non era vero, possedevano beni che valevamo molto di più della sua esposizione e se avessero voluto lo avrebbero salvato facilmente. Per quanto questo elemento, dei soldi e d’una possibile salvezza che derivasse dall’aiuto della famiglia Mazzola, fosse possibile, RU più d’una volta si chiese se per caso non fosse stato il denaro la molla che gli aveva fatto superare tante questioni difficili sorte tra loro due... Voleva capire se stesso e capì molto bene che questo aspetto non era stato mai considerato importante da lui: nei primi tempi aveva creduto addirittura che lei vivesse stentatamente con i proventi del suo lavoro d’insegnante, tanto che le aveva fatto pagare quel libretto di poesie, per cui si erano conosciuti, la metà di quello che valeva; lo aveva fatto “per darle una mano”, così come era possibile a lui.

Avrebbe potuto chiederle: “Ma di che ti preoccupi, se io ce la faccio o no a mantenerti, tu che hai tanto da poter mantenere facilmente tutti e due?”. Non glielo aveva mai detto. Ma quel giorno, con lei che gli chiedeva d’essere perdonata, giunse a dir questo: “Ti rendi conto che tua madre gioca sulla mia situazione e t’impedisce di fare quello che tu vuoi? Tu hai tanto denaro da poter fare a meno del mio. E allora perché ti viene messa in mente costantemente la paura che io non possa mantenerti? Tu non hai bisogno né di me, né di nessuno, e stai veramente mantenendo in vita, già da venti anni, una persona più costosa ed impegnativa: il Monteverdi. In 20 anni gli hai dato forse più di 150 milioni e in nero. Accorgiti! E poi ribellati! Non mettere la testa nelle fauci di chi è palesemente uno che se ne approfitta, se non altro evadendo le tasse.” La professoressa, capita la lezione, si decise intanto ad affrontare la madre e le ordinò di smettere di fare guerra a RU, perché lei gli voleva bene. Dopo andò con lui a Tirrenia. Romano portò le tele e dipinse una quantità enorme d’immagini, quasi tutte di lei. Vissero in un bungalow d’un residence tra i lecci, un periodo alquanto sereno. Giocarono anche a tennis, parlarono con la gente, specie con quelli che agganciavano lui mentre dipingeva. Insomma procedeva tutto e sempre così, secondo un “ti prendo, ti lascio” più o meno detto che, mentre intrigava un tipo come RU, anche lo portava ad accorgersi di come egli fosse veramente un miserabile, perché sempre gli veniva in mente Giancarla, che aveva affittato una comoda casa a Corsico, a poche centinaia di metri dall’ufficio e che ancora preferiva fare un lungo e scomodo viaggio per andare a vivere a Milano, assieme a lui, sua suocera e una famiglia di gattini. RU sentiva però sempre più una pesante responsabilità anche nei confronti di Maria Teresa, anche se vedeva sempre più distintamente come mancasse tra loro due ogni presupposto d’una possibile stabilità e fedeltà... e la sua analisi era sempre più incisiva e spietata. Fatto lei il discorsetto a sua madre e poi allo stesso Monteverdi, tutto per un po’ sembrò andare bene, finché stettero per conto loro al mare. Poi, tornati nel quotidiano – e all’improvviso – le cose peggiorarono nuovamente. RU non capiva come mai lei mutasse atteggiamento spesso in modo così repentino, ma era perché si dimenticava, ogni tanto, di come due volte alla settimana lei andasse dallo psicanalista. Quando era seduta là cominciava a cercare cosa raccontare e così, anche se una questione non era importante, presto lo diventava, a forza di scavarci dentro, allo stesso modo che succede con il prurito che, quando ti gratti eccessivamente, diventa sempre maggiore fino ad essere intollerabile. Questi atteggiamenti alla fine stancavano e, finalmente, RU non ne poté più e, per la prima volta, alla fine di quel 1988, pregò finalmente Dio che lo salvasse da quell’impossibile ed ingiusto amore che aveva finito per imprigionarlo così. Non aveva ricevuto nulla di serio e affidabile ma gli era stato tolto tutto quello che di buono prima aveva avuto: la lealtà, la rispettabilità, la famiglia.


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MT era stata come un bulldozer che aveva spianato tutta la sua esistenza, demolendo tutto quello di buono e cattivo che egli aveva costruito. Fu una preghiera ascoltata immediatamente. Soli tre giorni dopo, ai primi del gennaio 1989, lei gli rivelò che s’era innamorata d’un altro: un avvocato cui si era già dichiarata e che la voleva. Era uno dei tipi che lei aveva sempre sognato, un professionista stimato, con tanto di studio in corso Europa. Da un poco ci provava ma non riusciva ad agganciarlo; poi, il giorno che era stata da lui accompagnata sotto casa e gli aveva detto “Questo palazzo è per un pezzo mio” lei divenne irresistibile ai suoi occhi. Occhi veramente molto interessati e lei lo sapeva: così anche la Mazzola incontrò il suo bel dorato castigo. RU tirò un respiro di sollievo: le cose si erano risolte da sole. Pensava di riprendere la sua vita, ma lei ritornò sotto e teneva i piedi in due scarpe: le sue e dell’avvocato. RU, allora, andò nel suo studio, fingendosi raccomandato dalla Mazzola e proponendogli una consulenza. Gli fece pena, perché egli – un pacioccone – non sapeva nulla di loro due. Allora, una sera che sapeva che erano insieme, si presentò sull’uscio della casa di lui e bussò: fu una scena incredibile; lei, smascherata senza pietà, si buttò ai piedi dell’avvocato dicendo di non cacciarla, che era disposta ad essere la sua schiava. Romano restò a parlare con lui due ore. Gli raccontò come lei fosse una ragazza incerta, di cui tutti si approfittavano e che stava a loro due, adulti, di mettere le cose nel modo che fosse più giusto per lei. Niente altro a lui interessava d’udire e decise che, essendo così semplice, si sarebbe approfittato lui stesso. E lo fece: impose a lei la schiavitù che lei gli aveva offerto. Si faceva solo quello che lui voleva, se no la lasciava. E in quanto a Romano – via!” Così RU finalmente andò via. Costrette le cose a mostrarsi nel loro viso aperto ed anche spietato, nel febbraio del 1989 tornò a essere chi aveva sempre voluto afferrare il toro per le corna. Si era veramente e finalmente liberato di quella donna: ora c’era un altro e ne avesse cura lui. Da quel giorno riprese a vivere con più gusto a casa sua, in Via Lattanzio, con la mamma, Giancarla e 4 gatti che presto restarono in 2, in quanto riuscirono a trovare delle famiglie che li vollero per sé. Restarono Bambo e Teo, due fratelli che giocavano tra di loro tutto il giorno e allagavano di pipì la moquette in un punto nascosto della casa...

1989

R-U-BEN vivevano, in BEN l’attività di alta consulenza per la TELOS, mentre RU l’estremo tentativo di sopravvivere con la SRL Romano Amodeo. Il 12 aprile del 1989 il Geom. Gino Mutti iniziò le operazioni peritali. Tra le macchine inventariate nel fallimento della ditta individuale, per 150.000 lire, ci fu la taglierina in ferro che l’11 marzo di due anni prima, in una terribile sera – per un “aspetta” che provvidenzialmente fu udito da RU – non era stata fatta funzionare. Andarono nel fallimento 4 appartamenti in Villa Colletto a Nicola d’Ortonovo, e a Milano un appartamento di 128 mq, un box di 17 mq, un laboratorio di 117 mq, un sottotetto di 200 mq. RU si era sempre dichiarato pronto a spendere tutto quanto aveva per comperare il tesoro, la perla. C’era finalmente riuscito, ma nel modo con cui le cose si erano concluse, tutto era andato perduto, anche la perla. Infatti Giancarla non spiccò gran salti di gioia per tutto quello che aveva saputo. In secondo luogo perché troppe volte RU aveva detto d’essersi liberato, ma, in primo, perché era ora lei ad avere un altro affetto: Gianfranco, abitante a Carrara. Era restata a vivere con RU, ma si era sempre più sentita umiliata e delusa, tradita in tutte le più grandi speranze che aveva riposte nel marito.


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Poi sua mamma, mamma Pina, si era ammalata di tumore e dopo un lungo anno di sofferenze nel 1988 era morta. Al funerale RU era andato seguendolo da lontano, messo ormai all’indice da tutta la famiglia di lei, eccetto Mira Balconi. Tutti conoscevano le crisi che lo avevano angosciato, ma non gli avevano perdonato d’essere divenuto un simile miserabile con sua moglie. Non faceva nulla che Maurizio fosse vivo perché un giorno egli l’aveva salvato da annegamento. Essendo stato salvato, era ormai un dettaglio insignificante, di nessun peso, perché egli non era morto, quella mattina. Questo passava nella mente e nel cuore di RU, costretto a seguire il corteo funebre stando a 100 metri da tutti. Giancarla, lei sola, era corsa ad abbracciarlo, quando l’aveva visto. La morte di Giuseppina Benedetti aveva messo Giancarla nella condizione in cui era stato RU quando si era fatto aiutare dall’amore che MT gli mostrava, in un momento in cui egli aveva bisogno che qualcuno ancora vedesse qualcosa di buono nella sua persona. Si era trattato d’un puro istinto di sopravvivenza. Così, in perfetta simmetria rispetto alla sua, successe anche a Giancarla. Incontrò d’estate al mare, a Marina di Carrara, Gianfranco: un uomo che, con lei che disprezzava ormai se stessa, dimostrava di scorgere in lei tanta bellezza, tanti valori che lei credeva d’avere perduti. Provò sulla sua pelle che in queste situazioni l’uomo, giunto al momento più basso della sua fiducia, si aggrappa miserevolmente alla mano amica che gli è porta, con tutta la disperazione e la speranza di salvezza che egli ha nel cuore. Per una pura questione di sopravvivenza. Tuttavia se non ci fossero stati Luigi Luccini e Silvana a spingerla, lei non si sarebbe fatta convincere. Quei due amici furono determinanti. Così era già qualche tempo che lei andava su e giù a Carrara, per tenere in piedi, come per un suo specifico castigo di Dio, un rapporto anche per lei d’emergenza, ma dal quale sentiva ormai che dipendeva interamente la sua vita. Se Giancarla avesse fatto, ormai quasi venti anni prima, quello che faceva adesso per tenere in piedi questo affetto, ed avesse seguito RU e lo zio Sergio, quando andavano a Carrara e c’era sempre posto per lei sulla macchina, non sarebbe successo nulla di tutto quello che vi sto raccontando. Ma era questa e non altra la trama che era stata preparata per tutti dal destino: ciascuno, commesso il suo apparente delitto, doveva trovare il suo apparente castigo. Ma non per punizione, bensì per una possibile promozione, ottenibile solo quando l’anima si fosse messa con tutto il cuore ad implorare Dio affinché andasse a salvarla. RU non avrebbe fatto quei 150 milioni di debiti che non aveva più potuto rimontare, se sua moglie fosse andata su e giù con lui, a Carrara venti anni prima. Ora avevano perso tutto.

Sarebbero dovuti uscire anche dalla casa della mamma di RU, che occupavano con lei facendole compagnia. Ad una parete lui aveva dipinto direttamente sul muro questa bella opera che vedete qui a lato e che probabilmente il nuovo proprietario non avrebbe valutato come si meritava... Con la richiesta di fallimento tutti i beni erano stati rimessi al Tribunale perché fossero venduti una un’asta e coi ricavi fossero pagati tutti i debiti. E lei aveva ormai assunto l’impegno con un altro uomo, perdendo anche suo marito. Perdendolo lei, per la sua costante incapacità di seguirlo. Infatti, riuscito finalmente a liberare lui, dopo una lotta acerrima durata tre anni, ora non era più libera lei. Tuttavia, anche se lei aveva affittato ed arredato un appartamento a Corsico, viveva ancora sotto lo stesso tetto del marito, sentiva ancora che quella era la sua famiglia e restavano tutti e due uniti da tutto quello di buono che c’era sempre stato tra loro: l’indipendenza. Ciascuno aveva portato quello che gli era stato possibile, senza mai pretendere dall’altro quanto fosse oltre la sua libertà, ed ora, con altri affetti conflittuali che erano entrati in scena, per essi in sostanza non era mutato nulla di quello che veramente era esistito, c’era tra loro ed era sempre contato: si volevano bene. Dopo un po’ Teo e Bambo doverono essere castrati, perché avevano preso l’abitudine di marcare il territorio ed allagavano la moquette da tutte le parti. Dopo non lo fecero più e restarono due simboli viventi, per RU, con la loro vivacità e la loro allegria, d’una vita che riesce a nascere con vigore, anche in mezzo alle macerie, se la Provvidenza gli dà quel minimo che le serve per non morire. Il povero micino bianco e nero, che aveva salvato gli altri 4 miagolando disperatamente, mentre gli altri se ne restavano muti, aveva avuto segnata dal destino un’altra sorte, in apparenza peggiore; ma in realtà era stato l’unico tra tutti e cinque ad avere assunto la dimensione straordinaria del salvatore.


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1990

Romano e Anna Ramazzotti Nel duo di R-U-BEN, Ben era consulente alla TELOS . RU salì un giorno dalla Ramazzotti, che gli diede il saldo di 5 milioni per il libro che ormai aveva redatto sulla storia d’Elda Scarzella. Era l’ultima volta che quel loro lavoro di riordino, durato mesi e finito ormai da qualche tempo, dava a tutti e due l’occasione di trovarsi assieme. Lei gli si avvicinò con atteggiamento più che amichevole, stava come per abbracciarlo, con la sua bella anima se non con quel corpo pure straordinario che aveva, d’una signora ancora molto giovane. RU intuì tutto ciò come una chiarissima proposta, un desiderio che cominciasse tra loro un vero incontro, dopo che tra loro era esistita solo una evidente grande stima e simpatia. Si sentì a disagio, lei se ne accorse, si frenò. Eppure a RU lei piaceva molto: era una bellissima figura, degna di quella Elda cui aveva concesso che fosse scritta al meglio la storia della sua vita. Anna Ramazzotti era entrata in quella storia d’Elda sui venti anni, come assistente volontaria del Villaggio della Madre e del Fanciullo fondato da Elda Mazzocchi in Scarzella. Avevano tifato tutti, al Villaggio, affinché la giovane coronasse il suo sogno d’amore con uno dei dottori, e ci era riuscita. Dal loro matrimonio erano nati due figli ma aveva poco più di due anni il maggiore che il marito, facendo il sub, immersosi, non era più risalito. Lei aveva vissuto tutta la vita pensando a loro. Si era trasferita a vivere in Svizzera, nel timore che fosse attuato un loro rapimento, cose che andavano di moda in Italia per tutte le persone alquanto ricche.

Nel 1990 mancava poco alla sistemazione dell’ultimo figlio, alla sua laurea e Anna poteva forse ricominciare a pensare a se stessa. Aveva una notevole stima ed ammirazione per RU, di cui aveva sentito la storia, raccontata dalla Scarzella, madre di quell’Alberto che era stato testimone di tutto quello che lo aveva visto come promotore di gesti coraggiosi, all’Ordine degli Architetti. Questa donna ammirava le persone come RU e sarebbe stata colei che lo avrebbe potuto facilmente risollevare anche sotto il profilo economico, se RU e lei si fossero legati, unendo così assieme due figure belle, sotto il profilo morale. Anna Ramazzotti sapeva anche che Romano era ormai diviso ufficialmente dalla moglie, già da due anni, da quando egli aveva chiesto il suo fallimento. Aveva così pensato a lui. Ma RU, in quel momento, aveva già troppi problemi con due donne per aggiungerne uno con una terza, anche se questo fosse poi corrisposto alla sua fortuna. L’essersi tirato indietro fu giudicata la risposta migliore, che gli dava in questo modo la sorte, alla domanda che un tempo RU si era fatto a riguardo della Mazzola: no, non si era attaccato a lei per questioni venali. Infatti nel 1990 la madre di Maria Teresa Mazzola morì, mentre lui era restato ad attendere e forse a sperare che sua moglie, visto che il tempo passava e la sua storia sembrava decisamente finita, tentasse di sganciarsi anche lei da Gianfranco. Ma la moglie, da cui era ormai separato ufficialmente, non era come lui: se aveva deciso di farsi aiutare, poi non avrebbe tradito chi l’avesse fatto. Resosi conto che quella strada d’un possibile ritorno era sbarrata, non cercò di forzarla. Forse se l’avesse fatto ci sarebbe riuscito. Ma non volle: doveva essere lei, nella sua libertà, a scegliere il suo destino. Saputo della morte della Madre di MT, aveva deciso allora di telefonarle per porgerle le sue condoglianze. Era bastato per innescare il terzo periodo della loro storia, che si credeva sempre finita e sempre risorgeva dalle sue ceneri. Erano ridivenuti amanti. Ora era anche Lei a tenere i piedi in due scarpe, perché l’avvocato era divenuto una sorta di tutore e RU era l’amante che le dava invece le gioie fisiche che una donna desidera. Romano ara stato a questo gioco, perché gli piaceva far l’amore con lei ma anche perché si era incolpato d’averla costretta, quella sera, a fare una scelta obbligata che lei certamente non voleva fare in quel modo. E ora che RU vedeva per l’ultima volta Anna Ramazzotti e lei mostrava inclinazione verso di lui, Maria Teresa Mazzola era giù in macchina che lo aspettava Se RU fosse stato uno che anteponeva la sua condizione economica a tutto, non sarebbe mai venuto via dal CIMEP, non si sarebbe mai messo in quelle acque procellose fino ad annegare. E ora che la sua buona stella gli aveva messo sulla sua strada questa donna meravigliosa e ricchissima, come una poderosa ancora di salvataggio, egli, per quanto le piacesse molto, in tutti i sensi, aveva tirato dritto. E lo aveva fatto perché aveva già troppe donne nel cuore per mettervi una terza.


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Egli si accorgeva, nonostante tutto quanto gli accadeva, d’avere sempre scolpito nel cuore quel vincolo sacramentale che aveva assunto nel 1969, quella prima promessa alla quale non poteva aggiungerne altre senza sentirsi molto a disagio, se non in colpa. Sulla fine dell’anno e il principio del 1991, RU giunse così alla stessa decisione già assunta in passato: almeno MT doveva scegliere tra lui e l’ingegnere. Non si possono tenere i piedi in due scarpe! Egli non ci stava più d’andare avanti in questo modo. Dunque che MT si decidesse, altrimenti lo faceva lui e se ne andava. Stavolta lei scelse con decisione lui. Però non aveva il coraggio di dirlo all’altro e allora lo fece ancora una volta Romano, procurando nuovamente all’avvocato la stessa grossa sorpresa che aveva ricevuto la prima volta, perché tutto si poteva attribuire ad un tipo come MT, così naturale e così pulito, tranne che avesse assieme due uomini. L’avvocato allora andò su tutte le furie, si precipitò in casa di lei e iniziò a scaraventare per terra tutte le cose da sopra i mobili; e Maria Teresa – che aveva la vocazione della schiava, più che quella d’essere una compagna – di fronte ad un “padrone” di questo tipo, si decise come la prima volta e scelse nuovamente lui. Ai primi mesi del 1991 questa storia, tortuosa e distruttiva, aveva avuto finalmente termine. MT era stata un terremoto che aveva sconquassato l’esistenza della vita di RU tanto da ridurlo in solitudine, perché Giancarla, per quanto abitasse ancora con lui, ormai era d’un altro, non era più quella sua Giancarla del cui amore era andato fiero per 20 anni. Era così, eppure abitava ancora sotto il suo tetto, assieme a sua madre, perché? Bisognerebbe chiedere a Dio, perché la sua fantasia nell’organizzare la trama delle singole vite e le sue tante cose è senza fine. RU le dichiarò: “Finalmente sono libero! E tu?” La risposta che ebbe fu: “Io però no!” A questo punto in cui la vita di RU a 52 anni deve ripartire, sapete cosa succede? Gli telefonò Anna Badari, la prima fidanzate, che RU voleva sposare ancor prima di Giancarla e gli chiese aiuto. Era tornata nel 1991 da Trento, in cui aveva abitato da quando si era sposata nel 1974 e aveva con se una figlia di 14 anni, Lucy. Lei era già in pensione, ma guadagnava poco, l’aiutava RU a trovarle un lavoro? Cosa credete che lui ora farà?

1991

Anna Badari bis Mentre BEN era consulente alla TELOS. Anna Badari, dopo che si era lasciata con RU nel gennaio del 1963, si era pentita, ma non ne aveva fatto nulla per riavvicinarsi. L’anno dopo aveva incontrato RU nuovamente dall’Architetto Longoni, e aveva cercato di riagganciarlo. Saputo che egli si era fidanzato, ci era restata male. Era rimasta in contatto con lui, sperando che ritornasse, ma non accadde. Quando egli si sposò, gl’inviò un regalo, ma non andò al suo matrimonio. Iniziò un periodo piuttosto tormentato. Essendo molto bella aveva molti inviti ad uscire e lei accettava, ma, dopo neppure una settimana, si traeva in disparte, nulla andandole più bene. Giunta all’età di 28 anni, si era chiesto se voleva restare forse zitella. E si rispose che doveva andare meno per il sottile e accettare la prima proposta seria che le si fosse presentata. Così aveva sposato alla fine Gianmaria Trintinaglia, un farmacista. Era andata ad abitare con lui vicino Monza, lei esercitando il ruolo di professoressa d’arte e lui facendo il farmacista in una località vicina. Nel 1974 era sposa da un anno quando il marito ebbe una Farmacia Condotta nel trentino e vi si insediò. Lei restò da sola a completare l’anno scolastico.


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Un giorno di quell’anno aveva telefonato a RU se poteva andare a trovarla, perché voleva far cimentare i suoi allievi in una delle questioni d’architettura che lui trattava al CIMEP. RU era andato da lei, portando Giancarla e si era passata tutta la serata parlando del lavoro. Una settimana dopo lei aveva richiamato RU, per dirgli se poteva ritornare da lei, ma, per favore, da solo, perché la volta precedente era stata molto a disagio per la presenza di sua moglie. Romano lo riferì a Giancarla e, avendo lei grande fiducia in lui, gli permise d’andare. Il motivo vero per il quale Anna aveva voluto vederlo era stato che lei tra pochi mesi sarebbe andata Via dalla Lombardia in cui aveva sempre vissuto, e voleva salutare, come spiegò: “La sua giovinezza”. RU era il suo simbolo e quindi voleva dirgli “Addio”, sentendo che, con lui, salutava quanto di meglio aveva avuto in quegli anni trascorsi a Milano. Lo aveva avuto sempre nel cuore, ma, ultimamente, era stata sul punto di morire, le avevano dovuto operare la tiroide, togliere un’ovaia, un mucchio di glandole e si era, chiesta, in quella occasione, perché aveva rinunciato alle cose migliori. Si era così convinta che doveva assolutamente incontrare di nuovo RU, almeno per dirgli addio. Fu una serata molto dolce e romantica, in cui rammentarono le loro esperienze, le loro speranze, nel rammarico che la vita poi fa quel che crede e sconvolge ogni cosa, nel segno d’un destino insormontabile. Si salutarono con un abbraccio. Tempo dopo, Anna fece sapere d’avere avuto una bambina e che l’aveva chiamata Lucy. Due anni dopo iniziò a telefonargli frequentemente e gli raccontava che non stava bene, che voleva vederlo. RU era anche andato una volta da loro e aveva conosciuto Gianmaria e la piccola Lucy. Le cose non andavano bene tra loro due e forse Romano era stato chiamato per ingelosire il marito. Nelle telefonate che seguirono lei gli aveva confidato che il loro matrimonio era in crisi, gli chiedeva consiglio e RU suggeriva la pazienza, di considerare che aveva una bambina. Consigli inutili perché si divisero quando Lucy aveva due anni. La Badari restò lì a Trento, dove aveva avuto la cattedra d’insegnante d’arte. Telefonava a RU con frequenza e lui aveva sempre parole buone e d’incoraggiamento. Anna nel 1978 gli annunciò che aveva dei risparmi e che voleva investirli. Non sapeva in che cosa, e RU, che aveva cominciato ad assumere cifre in prestito pagando interessi ancora più alti dei BOT, le propose questo sicuro affare per lei, perché gl’interessi superavano molto quelli dei Titoli di Stato.

Da quella volta Anna non lo chiamò più. RU pensò che era stata messa in crisi dalla richiesta che egli le aveva fatta d’un finanziamento e osservò a se stesso che Anna seguitava ad essere per lui il solito fumo, che, appena vai a cercare l’arrosto, vedi che assolutamente esso non c’è. Ne aveva avuto l’ennesima prova. 22 anni dopo questo ultimo contatto, RU ebbe, a casa sua, la chiamata d’Anna, una sera. Gli raccontò che era ormai in pensione, che aveva fatto uno sforzo e con i suoi risparmi aveva comperato una abitazione a Milano, in Via Marostica, ed ora viveva lì con Lucy. La ragazza era una patita del calcio. Conosceva Romano una squadra di calcio femminile? RU non ne conosceva, le suggerì a chi rivolgersi. Qualche mese dopo gli arrivò una sua seconda telefonata e in essa Anna gli chiedeva se potesse aiutarla a trovare un lavoro, ma in nero. Lei ormai era in pensione, raggiunti i 19 anni di minimo ci era andata, ma quanto percepiva di pensione, più gli alimenti che riceveva da Gianmaria, non bastava a lei e alla figlia perché passassero una vita decente. RU allora le consigliò d’andare da lui in Via Teodosio, così ne avrebbero parlato a quattr’occhi. Quando la vide entrare, intorno al marzo del 1991, provò una terribile stretta al cuore. L’aveva lasciata l’ultima volta che l’aveva vista, nel 1976, ed era ancora una bellissima donna dai capelli nero corvino, molto somigliate a Rossana Schiaffino e assieme a Silvana Mangano, un favoloso misto delle due. Quella che gli si presentò era una donnetta grassoccia, tozza, con il volto gonfio e tutti i capelli bianchi. Quello che più di tutto impressionò RU fu lo stato mentale che le vide: una persona come congelata, irrigidita, quasi un oggetto. Provò quasi un rancore contro la vita che l’aveva deturpata così riducendola in quel modo. Romano, non sapendo come veramente sciogliere quella sagoma di ghiaccio, l’abbracciò, la strinse al suo petto, poi cominciò a riandare alle ultime cose che erano loro appartenute. Rivelò che poco era mancato a che egli si dividesse da Giancarla, in quel primo anno in cui si erano separati, ma il destino non lo aveva voluto. Raccontò della morte del suo amico Riccardo e trasse fuori da un cassetto una sua poesia in cui aveva descritto quell’episodio. Lei lesse e scoppiò a piangere come può piangere una statua: le uscivano le lacrime dal volto impietrito, tozzo, gonfio, irriconoscibile risultato d’una vita cattiva. Non sapendo come altrimenti aiutarla, RU le spiegò che poteva dare, se lei lo voleva, una mano proprio... a lui.(Ne dubitavate?) Da tre anni avevano aperto la Compel s.r.l. e le mostrò l’ufficio dall’altra parte della parete.


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Poteva offrirle un lavoro in nero perché già RU aveva fatta lì l’esperienza di darlo anni prima ad una amica di MT, che aveva imparato ad usare quella macchina, ma poi era andata via perché si era lasciata con il suo Briciola e si sposava con un altro. Inoltre i soci non volevano assumere nessuno a libri. Il lavoro esisteva e RU da solo non poteva fare tutto. Anna poteva dargli una mano, visto che se la sentiva di farlo così, in nero. Lei accettò e parve cominciasse lentamente a sciogliersi. Nei giorni che seguirono Anna si trasformò. La fiducia che stava ritrovando nuovamente specchiata sul volto di RU le dava quel calore nuovo che riusciva a squagliare il ghiaccio che aveva dappertutto. Si rilassò, tornò ad assumere quella libertà che aveva, di spaziare con la fantasia, sui sentieri anche della poesia e dell’arte. A Romano parve sempre meno gonfia, sempre più avvicinarsi a quell’immagine che gli era restata dentro, finché – come per un miracolo del foto-shop – esse coincisero. Si accorsero, all’improvviso, tutti e due, di volersi bene, e ancora, e quella ritrosia che un tempo aveva impedito a lui di rispondere al richiamo del sesso, che l’esperienza con la Mazzola aveva interamente frantumato, non ostacolò più i loro comportamenti. Si ritrovarono nel grosso letto che era stato acquistato per MT e che ora era in quei locali. E la casa di Via Teodosio, già nido d’amore con la Mazzola, divenne all’improvviso il nido di lui e Anna. Il lavoro d’ufficio, che avevano cominciato, fu interrotto: passavano intere giornate a letto, facendo ininterrottamente all’amore, dalle 9 del mattino fino alle 5 del pomeriggio. Nemmeno con MT era stato così. Qui non c’era ansia, non c’era la necessità di controllare l’orgasmo, sempre latente, sempre minaccioso, che poi portava a ripetuti gesti d’amore, fino a sette volte per giorno. Con Anna il sesso era dolcezza, armonia. Un amplesso durava ore e alla fine d’una giornata si era raggiunto l’orgasmo non più di due volte. Ma, mentre con la Mazzola il tutto era una sorta di sfida al possesso, e si articolava nella stessa nevrosi che c’era in quel loro gioco sottile, per cui era in sostanza l’attimo dell’orgasmo vissuto in comune il momento che veramente dava piacere, accadeva che con Anna tutto era sommamente dolce e gradevole. Tutto: ogni singolo gesto, ogni movimento del corpo, come se ci fosse un incontro ogni volta che entrava in lei. Questo era veramente amore, perché coinvolgeva tutto l’essere, nel sentimento, nella fantasia, nella passione, fuse assieme meravigliosamente nella dolcezza. Almeno per RU... Fu una luna di miele di circa quindici giorni vissuti così, tutto il giorno ad amarsi. Un miele che finì all’improvviso, il giorno dopo che RU portò Anna a conoscere due amici che avevano il negozio in quella zona: Anna Albani e suo marito Lino Raspa.

RU discusse con quegli amici e Anna vide che la sua omonima gli teneva testa, lo confutava e lui, sol per questo, non si offendeva nel vedersi contrastato, anzi si sforzava di venirle incontro e di farsi capire... Risultato? La mattina dopo, Anna Badari riprese tutti i suoi vestiti che aveva portati nell’armadio di quella casa e li riportò a casa sua in Via Marostica. Gelosia? No, probabilmente lei era convinta che RU fosse uno che non accettava d’essere contraddetto. Quando lo aveva fatto a 19 anni poi egli se ne era andato e non lo aveva avuto più. Nel vederlo il giorno prima contrastato da un’altra, senza che egli la ripudiasse come amica, forse si era chiesta perché solo lei subiva, da lui, tutte quelle violenze ... Possibile? No, non poteva essere questo! Non c’era stata assolutamente violenza, lei gli aveva regalate le sue mutandine nere, era stata libera e aveva cooperato in ogni cosa. E allora? A quanto pare in quello stato così paradisiaco c’era solo lui!Lei forse si sentiva violentata dal suo datore di lavoro... Gli tornò in mente quello che gli aveva raccontato: del fastidio che provava, di notte, quando il marito la cercava. Si era ammalata per quello. Aveva dovuto rivolgersi allo psicanalista e questi le aveva spiegato che il problema della sua vita era che ella non tollerava fisicamente il marito. Per questo doveva lasciarlo. Altrimenti avrebbe seguitato a soffrire di malattie psicosomatiche. Malattie dell’animo che si ripercuotevano sul suo fisico. Da quel giorno RU tirò i freni; le cose non furono più le stesse e ricominciarono a lavorare più che a far altro. Il lavoro più importante da portare a compimento era quello di vendere la casa in cui RU viveva ancora con la mamma e Giancarla, in Via Lattanzio. Era la possibilità restata per recuperare qualcosa dal fallimento. Anche quel bene era finito inglobato, perché Luigi Amodeo, cui era intestato, morì nel 1983 senza aver lasciato testamento e quel bene finì ai tre eredi, un terzo a ciascuno: la vedova e i due figli. Pertanto era stato inglobato nel fallimento di RU per la quota di proprietà che vi aveva, un terzo. Su quell’appartamento gravavano ancora l’ipoteca iniziale dell’Incam costruttrice,; la seconda era quella di 70 milioni a favore di Benvenuti e la terza quella a favore di Tagliarini, che aveva prestato 150 milioni a RU in attesa che lo Stato gli pagasse il dovuto secondo il contratto. Dopo il furto dei macchinari e quei 40 milioni finiti in protesto, Romano aveva potuto evitare il fallimento, trasformando le pretese del sistema bancario, di un immediato rientro, in garanzie relative a quell’immobile; tanto che su di esso, oltre le tre citate ipoteche, vi erano quelle aggiunte dal sistema bancario, tanto che gravavano in tutto sull’appartamento di 125 metri quadrati circa, ben 450 milioni di lire in ipoteche. RU chiamò BEN, che ancora lavorava alla Telos e gli disse:


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“Benito, questo alloggio sarebbe dovuto essere tuo quando mamma, finito di abitarlo, sarebbe morta. Se noi lasciamo andare avanti le cose così, esso è tutto divorato dal fallimento e dalle ipoteche. Io però credo che, adesso che il fallimento è in atto, sia possibile riscattarlo e ancora ottenere dei reali fondi dalla sua vendita. Certo non è facile, ma forse, a operazione conclusa, possono restare disponibili anche 100 milioni. Questi potrebbero essere molto utili a me e alla mia ripresa. Tu scegli: io mi sento impegnato a che tu abbia in morte di mamma un appartamento come questo. Questi 100 milioni potrebbero essere l’inizio della mia ripresa. Tu sai come posso far fruttare il denaro: costruendo.” BEN rispose a RU: “Non voglio che i miei figli mi rimproverino che ho avuto solamente un fratello e non loro. Ti dico: Pochi maledetti e subito. Mi contenterò di quanto tu riuscirai a ottenere dalla sua vendita. Chiudiamola lì con l’eredità. Poi c’è un’altra cosa: capisco che mamma, venendo via dalla sua casa, deve abitare con te. Allora io, erede di lei costretta fuori di casa sua, parteciperò ai costi del suo affitto con 300.000 lire al mese di contributo.” Mariannina Baratta, la guida di tutta la famiglia, alla data di questo accordo tra i due suoi figli, aveva 80 anni e dava segni d’instabilità mentale. Romano e Giancarla vivevano con lei e dovevano davvero preoccuparsi: usciva e quando rincasava ne aveva sempre una. Si perdeva, o aveva le gambe graffiate perché era finita sulla scarpata d’una ferrovia e tra i rovi. Le fu chiesto che cosa ne pensasse. Accettava che si vendesse quella casa (che altrimenti era interamente perduta) e si desse il ricavato a Benito? Che lei poi andasse a vivere con RU, in Via Teodosio? Anche così mal ridotta, il suo immenso cuore materno rispose per lei, senza esitare: “Sì, mi sta bene”.

Leasing con la Solfina datava 2.2.89, dunque erano già due anni che la ditta tentava di dare a RU una concreta possibilità di ripresa, attraverso i due soci Scarzella e Savastio. Ma, senza aiuti, si era rivelato arduo. RU doveva fare tutto e, con quello che guadagnava, era stato possibile solo pagare l’affitto, il leasing delle macchine e poco altro. Nel momento in cui Anna Badari era arrivata, si era in un momento di stallo, e si stavano aspettando che le offerte per la casa arrivassero. Aveva parlato al suo grande amico e gli aveva spiegato come la cosa più utile che forse potesse esserci era quella che lui, RU, si desse da fare per la vendita della casa, prima che ne scattasse la messa all’asta. Alberto si dichiarò ben disposto a firmargli il progetto di ristrutturazione ex art. 26. RU aveva spiegato al fratello che, ove avesse dovuto interrompere il suo lavoro per occuparsi della vendita della casa, Alberto avrebbe anticipato lui tutte le somme per pagare i leasing, ma che poi quel denaro doveva essergli reso con i ricavi della vendita. Questo doveva essere tassativo: Benito si doveva impegnare, prima d’intascare denaro per sé, a restituire all’amico le somme che egli spendeva per rendergli possibile quei 100 milioni puliti. Benito s’impegnò.

Per vendere quella casa, che nel 1983 era stata rivoluzionata da Romano e Giancarla che vi erano entrati come ospiti, occorreva un condono edilizio per quella ristrutturazione, me non c’era. Dunque andava fatto il progetto d’una sistemazione – come se avvenisse ora – e che partisse dal vecchio stato di fatto. Dopodiché occorreva fare i lavori in pochissimo tempo, in modo che sparissero tutti gl’interventi non condonati, prima d’un controllo sullo stato di partenza. Prima però occorreva un acquirente, perché nessuno avrebbe acquistato un bene in fase di ricostruzione. E occorreva il riscatto dal fallimento. Allora erano stati messi gli avvisi e Anna Badari raccoglieva le offerte che arrivavano per telefono, o faceva altri lavori di battitura. La ditta aveva un piccolo impianto di fotocomposizione. Al tempo in cui Anna era giunta nell’ufficio della Compel, nel 1991, questa ditta aveva già 4 anni di vita, essendo stata fondata il 17.09.1997 dal notaio Lainati ed aveva sede nominale in Via Lattanzio 16. Il contratto

In luglio, telefonò Romano Gozzi, da Lodi e gli propose di realizzare un pavimento in seminato alla veneziana nel ristorante in costruzione nel suo albergo. Iniziò così un periodo in cui sembrava si fosse ritornati veramente al passato: non solo avendo a che fare con Anna Badari, ma anche con Romano Gozzi, suo compagno all’università, e poi socio per quasi un anno. Il rapporto con entrambi divenne quotidiano, stretto, nel lavoro e negli affetti, così come era accaduto in gioventù, trenta anni prima. E prima ancora che RU si sposasse. Come se il destino, nel tentativo di fargli realmente recuperare il rapporto con Giancarla, stesse attuando le stesse premesse che poi a lei avevano portato. Un sarto, quando deve chiudere uno strappo, va a prendere di solito i due lembi ...


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Il Gozzi aveva pensato d’aiutare l’amico fallito e, sfruttando il suo senso artistico e la sua grande versatilità – che da sempre gli riconosceva – aveva creduto che, assieme, sarebbero stati capaci di fare qualcosa che mai nessuno dei due aveva mai provato a fare. Allora – mentre era tempo di ferie in cui la vendita non decollava, in mancanza dei preliminari che erano necessari – RU poté trasferirsi per un mese a Lodi, affittando un monolocale. E, profittando che Lucy era in vacanza dal padre a Trento, portò Anna a Lodi, a vivere con lui. Dopo trent’anni ebbero così finalmente quasi la loro famiglia, con lei che faceva la donna di casa, preparava da mangiare e lui che veniva all’ora del pranzo; finita poi la giornata lavorativa, trascorrevano insieme la sera e la notte. Il lavoro di cinque operai si svolgeva, nel cantiere, agli ordini d’Amodeo, che alla fine aveva saputo imporre all’amico la tecnica ideale, secondo lui. Il Gozzi temeva il lavoro di levigatura e che i colpi prodotti dalla macchina che l’avrebbe realizzata, spaccassero il pavimento in graniglia riempiendolo di fessure. Per evitarlo, RU aveva fatta mettere la rete elettrosaldata su tutti e 120 metri quadri del pavimento. Poi aveva rivestito, di pannelli di truciolato di 2 cm, tutta la superficie. Aveva disegnato su di essa il motivo decorativo e con un seghetto alternativo aveva ritagliato i pannelli secondo il disegno. Impastata la graniglia colorata, era sollevato un pannello ed essa era messa al suo posto. In tal modo tutto restava perfettamente in piano. Era stata completata una metà del lavoro, secondo le indicazioni d’Amodeo, e i due amici avevano concordato di concedersi un periodo di vacanze dal ferragosto fino alla fine del mese, in cui il cantiere fosse chiuso. Andato a casa il 14 agosto, RU non trovò Anna. L’attese a lungo. Alle 23 provò a chiamarla e la trovò a Milano. Lei se ne era andata all’improvviso, senza dir nulla. Allora lui saltò in macchina e corse in Via Marostica dove abitava lei. Le citofonò; lei gli chiese cosa fosse venuto a fare. “A prenderti, su, vieni!” “No, ci vediamo domani.” “Mi fai salire?” “No, ci vediamo domani.” “Senti, se non mi apri, io e te non ci vediamo mai più!” “Va bene.” RU, incollerito tornò come un razzo a Lodi, prese tutti i vestiti che Anna aveva là, li caricò sull’auto e ritornò in Via Marostica alle prime luci dell’alba. Li consegnò alla portinaia, affinché, per favore, li desse ad Anna Badari. Ritornò a Lodi, andò al ristorante dell’albergo in costruzione, riaprì il cantiere e quel giorno posò da solo tanto quanto di solito era fatto da 5 operai. Venne, di sera, il suo amico Gozzi e lo sorprese lì al lavoro. Si urtò: “Ma non si era detto che oggi qui era chiuso?

“Sono pagato a mese, e allora sii contento che ti ho fatto quanto 5 persone!” “No, non sono contento. Avrei preferito che tu non lo facessi.” “Beh si fa presto” rispose RU e, afferrato un badile – tanta era la rabbia che aveva in corpo – iniziò a disfare tutto quello che aveva fatto quel giorno. Quand’ebbe finito, dopo due ore, andò da lui, restato esterrefatto, e l’avvertì: “A settembre vedi d’ultimare tu tutto come meglio credi. Poiché se io qui, fatto responsabile da te, poi non lo sono... allora fai tu.” E se ne andò. Anna qualche giorno dopo l’andò a cercare, volle fare la pace, che andassero in ferie a Vasto, come avevano deciso. RU a malincuore, ma lo fece; non trovarono però gli amici. Era restato troppo disgustato dal fatto che lei non lo avesse fatto salire a casa. L’idillio era finito. Ritornò, a fine mese, anche dal suo amico e gli rivelò che non era suo costume piantare mai nessuno in asso; era lì, ma, da quel momento – sempre se a lui stava bene – sarebbe restato solo ai suoi ordini e privo d’ogni iniziativa. Il suo amico gli fece allora notare che quello che aveva fatto nel suo metodo non era stato fatto bene: i due strati sovrapposti, che dovevano restare uniti, erano invece staccati. Lo si capiva dal rimbombo, quando si colpiva la superficie con una mazzetta. Così, di testa sua, cambiò sistema. Oggi chi va al ristorante dell’Hotel Lodi, può notare, se fa attenzione, una parte dello stupendo pavimento che è senza fessure e l’altra che è tutta fessurata. La prima fu eseguita da RU a modo suo, la seconda dal Gozzi. Alla riapertura in settembre, dopo le vacanze, RU andò a Lodi da solo, anche perché Lucy era rientrata da Trento. Dopo quindici giorni – terminato il lavoro con Gozzi - RU riprese con Anna il lavoro in Via Teodosio e, a poco a poco, la situazione tra loro si normalizzò. Lui però reclamò concretezza, le impose un ultimatum: lo voleva si o no? Solo allora lei si decise e ne parlò finalmente con Lucy, che cadde dalle nuvole, e, alla domanda “Che dici se mi sposo?”, ribatté in modo deciso: “Piuttosto mi butto dalla finestra”. La madre, che, a 19 anni, in sostanza aveva smesso con lui perché il padre non voleva, a 49 anni smise perché fu la figlia a non volerlo. Così le interruppe anche il suo impiego. Dandoci sotto e con molta fortuna, RU riuscì a perfezionare anche la difficilissima questione riguardante Via Lattanzio: per prima cosa aveva ottenuto al momento della stima che il Geometra Mutti la stimasse il meno possibile: 203 milioni; per seconda ottenne che il fallimento accettasse 1/3 dei 180 milioni residui (tolta a 203 la 1° ipoteca del Costruttore), e si facesse da parte; per terza che tutte le banche si ritenessero soddisfatte con 10 milioni soltanto; per quarta trovò chi fosse disposto a


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comperarla al giusto prezzo di mercato e per ultima rese vendibile il bene con l’art. 26, passando alla sua fulminea ristrutturazione. Alla fine d’una operazione piuttosto complessa e impegnativa, riuscita perfettamente, a Benito fu dato un assegno (che comprendeva anche la parte di Scarzella) e che pertanto era ben superiore ai 100 che erano stati previsti per lui: furono 220 milioni. Si dimenticò della “conditio sine qua non” pattuita con Scarzella, e usò tutta la somma per pagare le sue tasse. Toccò a RU l’enorme vergogna di dover chiedere lui scusa al suo amico. Lo pregò di pazientare e non temere nulla, poiché suo fratello s’era trovato in una situazione estrema, che aveva superato solo grazie a quella manna scesa dal cielo e che appena possibile, lui avrebbe saldato i suoi conti. Alberto era lui pure lì ad attendere quel denaro che aveva anticipato, ma da gran signore, non fece pesare troppo la cosa col suo amico, che non c’entrava nulla: il denaro era passato per le mani appiccicose non sue, ma di suo fratello... Fu un momento risolutivo, eppure difficile per tutti. Romano e Giancarla – dopo quasi 30 anni che si volevano bene – abbandonando quella comune casa, avrebbero cassato di vivere insieme. Uno strazio che passò anche in sottordine perché fu Mariannina che rubò la scena: voleva portare in Via Teodosio tutti i suoi tesori, che aveva messi nella vasca da bagno. Erano le buste di plastica della spesa che raccoglieva sempre, per risparmiare.... La povera donna, in stato di grande confusione mentale per il dolore che stava provando, si attaccava disperata agli unici beni che le erano personalmente rimasti. Tutto ciò dopo una vita dedicata interamente alla famiglia e dopo che era stata personalmente capace di comperare tre case e due box con una incessante opera d’accanita risparmiatrice e perennemente lottando contro tutti i gradassi della famiglia Amodeo. Giancarla si trasferì a Corsico, in quell’appartamento che aveva affittato anni prima, per dimostrare ai creditori del marito che lei era separata per davvero e viveva altrove, ma nel quale non si era mai spostata. Preferiva un lungo viaggio ogni giorno, perché – per quanto il suo legame con Gianfranco durasse – lei seguitava a credersi a casa sua con RU. Avevano mantenuto entrambi fede agli impegni presi subito dopo sposati: ognuno sarebbe stato libero di portare all’altro tutto quello che avrebbe voluto e potuto, e l’avevano entrambi fatto. Il Destino – solo lui – aveva fatto da padrone..

1992

Nel 1992 abbandonarono così la loro casa: RU, che aveva 54 anni, Mariannina di 83, Giancarla di 49 e i due gatti Teo e Bambo, che ne avevano 4. Benito lavorava alla Telos e i suoi figli di 7 anni andavano alla seconda elementare. Con l’abbandono di Via Lattanzio e di una vita divenuta un Inferno, iniziò il Purgatorio di questa vicenda che segnò i loro destini. Accadde quando Mariannina fece l’estremo gesto d’amore per quel figlio che non voleva temendo di doverlo allattare soffrendo, vendendo la sua casa in Via Lattanzio per dargli l’eredità mentre era ancora viva. Abitarono mamma e figlio, ridotti infine a loro due soltanto, in Via Teodosio, un nome che significa Zeus doxis, la “Ragione di Dio”, il suo “Criterio”. Mariannina non era più lei, il morbo d’Alzheimer aveva cominciato già da qualche anno a farle perdere colpi. Seguì RU in Via Teodosio e cercò di tenere sotto controllo la demenza senile che si accompagna a questa malattia. Si rendeva conto che la sua mente era sempre meno presente a se stessa, che svaniva la memoria e, per difendersi, lasciava – scritti ovunque – i suoi promemoria, su chi fosse lei, chi i suoi familiari, ove abitasse. Per un po’ cercò d’essere indipendente e il figlio la lasciò provare. Lei purtroppo si perdeva spesso e quando le chiedevano dove lei abitasse si confondeva. Portava scritto sempre tutto con sé, in modo che, quando necessitava, potesse tirar fuori i suoi pro memoria; ma in quelle occasioni, si dimenticava di averli. Gestiva ancora lei tutti i suoi conti e cominciava ad essere un disastro perché non trovava il denaro e allora incolpava il figlio d’averlo preso. Ogni tanto era in preda allo sconforto, ricordava la sua vita passata e, messa a confronto con quella attuale,


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entrava in crisi e accusava RU d’avere rovinato ogni cosa, d’averla portata lì. Diceva che voleva andare a casa sua. La vendita della sua casa risultò costarle moltissimo. RU per farle capire che quella era ormai la sua casa scrisse sugli armadi bianchi, in maiuscolo: ABITO QUI. Alcune volte, chiamata a leggere, quando più non ricordava d’essere in quel luogo, leggeva le prime tre lettere di quella scritta come l’acronimo di Anna Baratta Insegnante. Allora RU cancellò e riscrisse tutto in lettere minuscole. Ad un certo punto fu evidente che non poteva più essere lasciata sola. E il figlio si decise: «ti prendo io per mano, mamma! Io non ti lascio sola». Un dì si fece viva MT Mazzola e propose a RU di uscire insieme a cena, solo come amici. Lui accettò. Mise a letto sua madre e insieme, in quella esperienza alla Matusalemme che non finiva mai, vissero un po’ il ricordo di tutte le loro cene, quando andavano al ristorante cinese d’Inzi ed Inscia, che si chiamava Fortuna. La sera finì, trascorsa simpaticamente e si salutarono finalmente come due cari e vecchi amici. La sera dopo RU era già a letto, assieme ad Anna. Già dormiva. A un certo punto squillò il telefono, situato nel corridoio d’ingresso. Era la Mazzola, e gli piagnucolò: “Basta è la fine, non ho chiuso occhio tutta notte; non vediamoci più neppure come amici!”. Al che RU l’interruppe: “Aspetta un momento!” Si era accorto che c’era una gran puzza di gas. Corse in cucina e vide che tutti e sei i fornelli erano aperti ed esalavano a pieno volume. Sua madre, che aveva l’abitudine, acquisita in una vita intera, di controllare sempre alla sera che il gas fosse chiuso, al controllo di quella sera – eseguito a rovescia – li aveva lasciati tutti e sei interamente aperti. Tornò da MT e le rivelò: “Mi hai detto che è finita, ma con questo sappi che hai salvato veramente la vita, a me, a mia madre e forse a tutto il palazzo. Qui c’era acceso tutto il gas!” Come era strana la vita! Questa Maria Teresa Mazzola, che era stata un bulldozer, gli aveva salvato la vita due volte. Nella prima – forse – RU non si sarebbe tratto fuori dalla sua condizione di responsabilità, e sarebbe finito se non proprio morto, di certo soffocato dall’essere incapace a scavalcare le asticelle posta sempre più in alto dalla vita. Perché ora fosse più chiaro ed evidente il senso della salvezza portata a RU da questa donna, ora la Provvidenza mostrava che lei gliela aveva salvata davvero, quella in carne ed ossa. Quella di lei, Maria Teresa, fu l’unica telefonata di quella sera e se non lo avesse chiamato per dirgli proprio “E’ finita” sarebbe proprio finita...

RU, dopo quella sera, prese l’abitudine di lasciar sempre chiuso il gas con la chiave centrale che era situata sul balcone, fuori della portata della mamma. Lo apriva per cucinare e lo chiudeva subito dopo. A 54 anni, RU ne aveva ancora davanti quasi una dozzina per rifarsi, prima dell’età della pensione. Il suo fallimento, però, era ancora ben lungi dall’esser terminato e non poteva emettere fatture, né più se la sentiva di coinvolgere amici. Allora prese una decisione a suo modo eroica: il suo lavoro principale sarebbe stato da quel momento in poi sarà solo quello d’aver cura di sua madre. Da questa scelta coraggiosa spuntò fuori un tempo più grande ed importante di quello che si aspettava e iniziò con più decisione a scrivere quel libro al quale da tanto tempo aveva pensato. La convivenza era però difficile. Mariannina in certi momenti non capiva e doveva sentire, percepire a modo suo le cose che le accadevano intorno. Così RU si accorse di come, quando lei giungeva al momento più acuto della sua instabilità, poteva essere richiamata alla serenità ed alla pace solo se vedeva lui ancora più disperato di lei. Fu proprio con le dimostrazioni di dolore che RU più di una volta diede a sua madre che riuscì anche a purgare sempre le paure e le incertezze di lei. Scattava allora, recuperato chissà in quale luogo recondito in quei momenti, il suo senso materno e, vedendo il figlio piangerle davanti, disperato, riusciva ad avere la meglio sulla sua malattia e lo consolava, gli diceva di non fare così, e lo accarezzava con quelle sue mani piccole e nodose e piene di vene. Successe più volte. In una di queste fu presente Sabato Lingardo, che s’impressionò, vedendo il suo amico così disperato; poi però comprese tutto, quando vide che era stato necessario fare proprio in quel modo affinché la Maestra recuperasse il suo equilibrio e si calmasse. Non era sempre così, erano, quelli che si verificavano nel 1991, ancora i momenti iniziali; e quando, specialmente nelle ore di sera, essi cominciavano a manifestarsi, c’era da aspettarsi di tutto. Sabato prese a venire lì con frequenza. RU gli chiese aiuto, gli spiegò che la mamma doveva camminare, perché questa era restata la sua forza. Quando si muoveva, tutta la circolazione del sangue era agevolata e il cervello ne aveva a sufficienza, per non dare i numeri che dava quando era intorpidito. Sabato tentò anche di cucinare: bisognava però lasciargli campo interamente libero, e lavava facendo schizzare acqua su tutto il pavimento. E se RU gli diceva: “Perché fai tutto questo disordine?” s’immusoniva, rispondeva che dopotutto era solo acqua.


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Romano aveva chiesto il suo aiuto perché aveva cominciato finalmente a scrivere la famosa risposta a quanti la pensavano come Luigi Luccini, e cioè che fosse stato Gesù a rovinarlo, a tradirlo. Il primo modo che scelse, per sostenere che, nel mondo, domina l’equilibrio, fu con la poesia. Ultimò la prima parte d’un poema di centinaia di sonetti. Qui riporto i primi 4

Da questi quattro sonetti s’intravede lo sviluppo di tutta l’opera: la natura è percepita, nel flusso e nel riflusso del suo ondeggiare, dai sensi dell’uomo. La tempesta della vita porta tutti a cercare il porto in cui scampare. L’autore è una persona presa alla sprovvista dalla tempesta, ma il tutto gli dà coraggio, perché gli eventi avversi ne han temprato la resistenza.

RU voleva scrivere una storia dell’uomo e della sua avventura esistenziale, una sorta di nuova Divina Commedia. Scrisse la prima parte, poi si accorse che non c’era bisogno della poesia, per superare gli scogli della ragione con la fantasia e le altre virtù legate dell’immaginazione: bastava l’intelligenza. Così passò alla prosa e alla geometria, iniziando a studiare le condizioni dell’equilibrio, perché, per intuito, quello assoluto era il punto di partenza e d’arrivo d’ogni fenomeno. RU passava il tempo libero non a studiare che cosa ne avessero pensato e capito gli altri. Rifuggiva da ciò e cercava di tirare fuori tutto solo dalle sue riflessioni e dalla sua esperienza. Diceva che se tu fai un solo passo e lo accerti ben saldo, allora non ti devi bloccare se qualcuno, chiunque egli sia, ti dice che non lo è senza riuscire a dimostrare che tu hai torto. Fino ad allora devi aggiungere un altro passo al primo, e percorrere un cammino tutto tuo, interamente controllato dalla tua intelligenza e dai risultati della tua diretta esperienza. Se in questo modo giungi dove altri coi loro processi non arrivano, i loro non vanificano i tuoi, ma viceversa. Diede così credito alla sua intelligenza, se portava a risultati concreti, e non a quella degli altri che non li ottenevano. Coi suoi processi cominciò a giungere dove l’intera Fisica ancora non aveva saputo, e si accorse di una cosa che la mente ha scritta nel suo stesso nome: essa mente. Non mostra mai le azioni, o la diretta presenza delle cause, se non quando, entrando in atto determinavano negli effetti sempre dei risultati uguali e contrari, affermandosi tramite i loro valori reciproci. La domenica RU andava molto spesso al Cimitero di Musocco, ove era sepolto il padre, per portarvi la mamma, che cercava in quel modo estremo il contatto reale con lui. Un dì vide mimose dappertutto, nei fiori in vendita davanti al camposanto e capì ch’era la festa della donna. Poiché andando a Musocco passava vicino a dove abitava Anna Badari, decise di regalargliene un mazzetto che le avrebbe portato sua madre. Aveva tagliato corto in modo troppo brutale, e lei – tutto sommato – era stata la vittima dell’egoismo altrui, stavolta della figlia. Anna Baratta era salita su da lei, con suo mazzetto di mimose, e RU attendeva sulla via e in automobile, che tornasse. Invece fu la Badari a scendere da lui e quasi gli ordinò: “Vieni su, c’è il mio ex marito, così mettiamo in chiaro alcune cose.” RU non capì cosa ci fosse da mettere in chiaro, tuttavia la seguì al quinto piano, dove lei abitava. Scambiati i convenevoli di rito con Anna e con Gianmaria, che dopo il divorzio si era risposato, lui cominciò a criticarla, riguardo a come lei si comportava con la loro figlia. “Tu la tieni troppo nella bambagia. Ha 14 anni e neppure un’amica. Scuola, casa e te. No, devi lasciarla più libera.”


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RU, che se ne stava in silenzio, a questo punto s’intromise: “E’ vero. Tu sai che cosa ci fu in giovinezza tra me e Anna. Ebbene avevamo deciso di riprovarci, trent’anni giusti dopo, e lei aveva celato tutto a sua figlia. Io la forzai a decidersi, così quando glielo rivelò, Lucy le risposto che piuttosto lei si buttava dal quinto piano.” “Che errore, RU! Dovevi prima farti conoscere e entrare in simpatia con lei. Solo dopo le doveva essere fatta quella domanda!” “Sì, è così e io lo dicevo a sua madre, ma lei neppure le diceva della mia esistenza. Hai ragione: lei tiene troppo Lucy all’oscuro di tutto.” Gianmaria a quel punto chiamò sua figlia, ch’era nell’altra stanza e – senza chiedere nulla a lui – le disse: “Lucy, ti presento RU; è un buon nuotatore e tu non sai stare a galla. Vuoi farti insegnare?” La ragazzina rispose di sì, al che RU si allarmò e ci tenne a precisare alla ragazza: “Non credere che io lo faccia per essere accettato da te, Sappi bene che tra me e tua madre non c’è più niente; se io t’insegno, lo faccio solo per te.” Nelle settimane che seguirono, andarono una sola volta al Lido, ma faceva freddo. Le piaceva il calcio, ma si pratica in tanti, invece il tennis in due. Così scelsero così di andare al campo che c’era nella sua stessa via, con racchette, palline e sua madre e quella di RU ai bordi del campo che osservavano e parlavano. Due volte la settimana affittarono quel campo in Via Marostica a duecento metri da casa sua. RU fu costretto a forzare quel braccio destro che ogni tanto gli doleva per la fastidiosa periartrite che si trascinava ormai da quasi venti anni, e che gli era venuta costruendo Villa Colletto. La violenza dei colpi e i muscoli tesi, poterono macinare le calcificazioni di così vecchia data e il malanno scomparve e lui prodigiosamente guarì. Aveva mantenuto fede ai patti e Lucy si rese conto che non c’era più nulla tra lui e sua madre, che dovesse temere o da cui stare in guardia. Si avvicinava agosto e RU capiva che sua madre si avvicinava sempre più alla demenza senile. Mancava da oltre un ventennio da tutti i parenti che le restavano a Salerno e nel Cilento. Ora che ancora aveva molti momenti buoni era giunta l’ora di ritornarvi, per salutare e dire addio a tutti. A un certo punto della sua vita, la mamma aveva assunto il proposito di non tornare più in quelle terre. Quando però RU glielo propose nel 1992, lei non si rifiutò di fare quella rimpatriata, con suo figlio, perché probabilmente aveva dimenticato quei fieri propositi. Non potevano portare Teo e Bambo, e allora RU riempì una grande bacinella (50×70 cm) del contenuto di ben sette scatole di croccantini. Una seconda della stessa misura era stata riempita del loro terriccio per evacuare, e la vasca da bagno fu riempita fino all’orlo affinché avessero sempre da bere.

RU voleva incaricare la portinaia dell’altra scala, che già si era prestata una volta ad accudire quei gatti, di passare ogni tanto a dare un’occhiata. Non sapeva quando sarebbe tornato, ma certo sarebbe rimasto via almeno per tutto agosto, per non dare troppo strapazzo alla mamma andando e tornando troppo presto con l’automobile e il caldo. Ebbe però l’idea di chiederlo prima alla Badari, se lo faceva lei. La strada la conosceva... Che però non lo facesse, se non le andava! Già altre volte aveva lasciato la chiave di casa a quella portinaia. Anna rispose che lei non amava molto i gatti, ma l’avrebbe fatto lo stesso. Doveva perdere – lui – la brutta abitudine di lasciare agli estranei la chiave di casa. RU, sicuro d’avere scelto per il meglio, diede a lei le chiavi e partì in macchina, per il sud, con sua mamma e con Sabato, che voleva accompagnarli. Maria Teresa, figlia dello zio Antonio e di Maria Borgia, erede con la sorella Elsa del patrimonio lasciatole dal padre, già morto da qualche anno, aveva accettato che il cugino e la zia occupassero la vecchia casa in disuso, ad Ostigliano, in cui Anna era nata e aveva trascorso la sua giovinezza. RU imbiancò in cambio un locale, dopo d’aver sigillato qualche crepa nelle pareti, in quel palazzo ormai abbandonato a se stesso e gestito per via di una concessione da un siciliano che puntava solamente a impadronirsi di tutto per usucapione. Ora lui diceva in giro che era tutto suo. Non poté opporsi alla decisione di Maria Teresa. A lei però mancava la voglia di mettersi a combattere per quelle proprietà e rimandava d’anno in anno il rendiconto, con il rischio piuttosto consistente di vedersi alla fine espropriare tutto attraverso l’intimidazione e la prepotenza, fatte in maniera sottile, con il sorriso sulla bocca e il coltello in mano. Anche Sabato trovò una stanza in cui sistemarsi. Cominciarono un primo giro, e l’amico volle essere con loro. Quando un dì passarono in vicinanza di Felitto, cominciò a insistere tanto che si andasse là, che RU lo fece. Così la Maestra Baratta tornò dopo oltre 40 anni in quel paese dal quale era quasi scappata, dopo l’arrivo degli Americani con lo sbarco a Salerno, per evitarle ritorsioni di taluni del luogo. Cercarono chi ne avesse memoria, ma non trovarono nessuno dei suoi scolari, nel breve tempo che si fermarono lì, ospiti nella casa d’una cortese zia di Sabato. Passarono anche per casa Di Dario e RU rivide la sua antica fiamma di quando aveva 16 anni e prima uno scarafaggio e poi Lillì Cassani, mandarono a monte tutto. Stavano lì, lui e lei, e cercavano il ricordo della loro giovinezza, quando si intromise Sabato e (come un nuovo scarafaggio) diede tanto disturbo che RU fu costretto ad andar via. Teresa non si era sposata; aveva passato tutta la sua vita in quella casa cinque chilometri fuori del paese, e forse per lei quel breve periodo trascorso a Capizzo con lui era stato molto più importante.


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Lei non aveva incontrato una Lilli Cassani che le desse un taglio cos’ netto con il tempo appena passato. Il ricordo che RU aveva lasciato in lei, lui lo capì, era stato lungo e tenero, anche se tra loro non c’era stato mai neppure un bacio. Sabato aveva fatto tutto quel pandemonio perché voleva che RU e la mamma si fermassero a casa sua. Quando capì che gli aveva dato veramente fastidio mettendosi così in mezzo, e che RU si rifiutava, con la scusa che dovevano fare ancora un largo giro, Sabato s’immusonì, cominciò a protestare e pretese che RU lo facesse scendere. Ne aveva abbastanza e se ne sarebbe tornato a Milano. Sabato era fatto così: i suoi amici dovevano fare come diceva lui, altrimenti cessavano d’esserlo. Non arrivava a capire che in certe condizioni bisogna stare tranquilli, e non lo era stato, immischiandosi in un incontro tra lui e Teresa che necessitava d’una delicatezza che non c’era stata, a causa della sua inopportuna intromissione, Non ci sarebbe stata un’altra occasione e forse loro due dovevano avere il tempo di salutarsi per sempre, come la sorte non gli aveva mai concesso. RU prese Sabato in parola, e lo fece scendere dalla sua auto. Restati soli, lui e sua madre fecero una bell’esperienza, soprattutto per lei. Il figlio la portò a trovare tutti i suoi parenti, perché – andato via Sabato – poteva lui pure tuffarsi nella sua stessa storia personale. La portò con se in visita agli altri parenti, nei paesi vicini. E quella gente, rivedendo lei vecchia, minuta, bonaria e sorridente, le facevano tanta festa come si fa a un bambino, allietandola ancora di più. Erano andati a Perito, Orria, Capizzo, Lustra, a trovare famiglie che avevano conosciuta la mamma quand’era bambina e che da allora non l’avevano più vista. I Lebano sopravvissuti ancora la ricordavano alle prese con la sua istruzione Dopo un po’, a mano a mano che si trovò antenati in quasi tutti i paesi del Cilento, RU cominciò a sentirsi presente come se egli fosse stato già là e fosse ovunque, insieme a quei trapassati che erano stati tutti con lui, che in quel tempo esisteva in loro. ma solo in potenza, di futuro. Fu la prima volta che RU intese se stesso come la sua stessa origine nei suoi antenati. A Ostigliano durante la giornata, furono ospiti, a pranzo e a cena, della zia Giovannina, la mamma di Barbara. Le due sorelle passavano, assieme, tutta la giornata e Anna faceva disperare Giovannina, ogni tanto, perché, invece di fare le cose, le disfaceva. Quando si propose di rattoppare un lenzuolo glielo ridusse, nello sconcerto dell’altra, tutto in fazzoletti. Romano sapeva che la mamma era al sicuro e, per passare il tempo nel migliore dei modi, si era dato da fare per conoscere in modo documentato la storia dei suoi antenati. Sua madre gli aveva sostenuto che, in epoca borbonica, in famiglia c’erano stati altissimi funzionari del governo di Napoli, e voleva attingere notizie dirette. Si rifece vivo allora Sabato, che, andato via in quel modo infelice, e tornato a Milano, si era subito pentito e telefonava ogni giorno da lì in casa di Giovannina per

avere notizie; non riuscendo mai a parlare con RU. Rendendosi conto che era restato a vivere in casa loro per anni, e che si era ritrovato nuovamente solo, aveva deciso alla fine di scendere nuovamente al sud per riprendere il filo di quanto aveva interrotto. Ma – ripresentatosi a lui di persona - si trovò di fronte ad un Romano che si era imbarcato in una delle sue tante improvvise passioni e che non lo degnava dell’attenzione che voleva lui e – secondo la quale – dovessero seguitare a passare il tempo andando di qua e di là, ma come piaceva a lui. RU invece si chiudeva nell’ufficio d’un Comune e vi restava finché quello non chiudeva, poi doveva trascrivere tutte le annotazioni sui suoi quaderni e non era questa l’occupazione ideale per Sabato, così non resistette a quel nuovo assetto delle cose più di due giorni e andò nuovamente via. In agosto erano aperti solo i Comuni e RU vi trovò gli atti che esistevano prima dell’unità d’Italia, quando Napoleone aveva messo a capo il Murat e da allora era stato istituito il registro dell’anagrafe obbligatoria anche in questa parte dell’Italia. No, nessun “viceré” era esistito in famiglia, ma molte figure che erano state importanti in quel luogo, amministrandone i paesi. Scoprì così che quel suo trisavolo, il Baratta che tutti avevano accusato d’essere un debole, che non sapeva farsi pagare le tasse, tanto che poi aveva dovuto risponderne di tasca sua, vedendosi espropriare tutte le proprietà, era stato uno dei capi dei famosi Moti cilentani, d’insurrezione contro i Borboni e per la creazione dell’Italia unita. Aveva l’incarico, datogli dalla struttura borbonica, di raccogliere le tasse e non lo faceva per danneggiare il Regno di Napoli, accampando la scusa che in paese non volessero pagare e che egli aveva a disposizione solo la pittima, una persona che stesse alle costole di chi fosse insolvente e gli rammentasse l’obbligo, in tutte le situazioni, e quindi con brutte figure laddove il pagamento del dovuto era un titolo d’onestà. In un ambiente in cui nessuno pagava, la pittima non aveva alcun potere. Quando i Borboni gli ebbero espropriato quasi tutto, rivalendosi su di lui, cercarono più d’una volta di catturarlo, con la gendarmeria mandata da Napoli, perché avevano saputo come fosse stato tra i capi di quei moti insurrezionali. A riprova, molti decenni dopo, fu trovato un sottotetto pieno d’archibugi e schioppi che erano stati raccolti e tenuti pronti per la rivolta armata; armi che furono immediatamente fatte sparire per la paura che ancora era rimasta nei discendenti. Il figlio maggiore, vedendo da Perito, il paese di fronte, venire i gendarmi o avvisato di quanto stava accadendo, si caricava in quei casi il vecchio padre sulle spalle e lo nascondeva in qualche fienile nella campagna. Tutti in paese furono solidali e nessuno fece la spia, contro quell’eroico patriota che riuscì a morire a tempo debito e nel suo letto. Restati vivi solo i due figli, il minore, che si sposò, cominciò a raccontare ai discendenti che tutto quanto era stato loro; così il padre dei cinque Baratta maschi di cui si parla all’inizio di questa storia, aveva ritenuto giusto che la famiglia si riprendesse il suo. In questo modo si trovava una plausibile ragione sul perché essi


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avessero portato avanti anche metodi crudeli: gli sembrava di farlo come per un senso di legittima rivendicazione e di giustizia. Avendo perso il senso stesso degl’interessi comuni, patriottici, che avevano portato il bisnonno a lottare per l’Italia a costo di perdere ogni possesso personale, i discendenti avevano gettato il discredito su di lui: era un debole che non riusciva a farsi pagare, ci aveva rimesso del suo e chi non aveva versato nulla per le tasse si era comperate poi le terre con quei denari. Ora era giusto, nella loro ottica rivendicativa, che pagassero i figli per quei padri, anche a costo di subire strozzinaggio e soprusi da parte loro. Con un certo senso di giustizia, ora, RU ne parlava con quelli che incontrava e che n’erano i discendenti: avevano avuto nella loro storia comune un eroe e un patriota e ora andava riabilitato. Ci avrebbe pensato lui, in futuro, scrivendo un libro di documentazione. RU riuscì a risalire ai suoi antenati sparsi in tutti i paesi fino al 1802. Dopo agosto fu riaperto l’archivio di Vallo della Lucania e qui Amodeo si accorse che esisteva veramente un tesoro di notizie: atti di nascita e stati delle anime che risalivano fino a poco dopo che il Concilio di Trento aveva, ai primi del 600, resa obbligatoria la registrazione delle nascite, dei battesimi, dei matrimoni e dei decessi in tutte le Parrocchie amministrate dalla Chiesa. Colpito davvero da una ricerca che dava risultati interessantissimi, RU presto iniziò a portar fuori da quell’archivio, con il tacito consenso del sacerdote che l’aveva fondato e gestito da oltre 40 anni, libri e documenti da fotocopiare. Andava a farlo a quarantina chilometri da lì, a Battipaglia, per non ingenerare pettegolezzi. Un giorno portò con se la madre, alle tre del pomeriggio e la pregò d’attenderlo mentre egli faceva alcune copie. Quando le ebbe finite Anna era scomparsa. Si mise a cercarla dappertutto, chiamò carabinieri, questura, gli ospedali. Niente, si era come dissolta. Continuò a girare a piedi e in macchina riuscendo a trovarla alla stazione ferroviaria solo alla 11 di sera. Nelle otto ore in cui RU l’aveva cercata nella cittadina, lei, allontanatasi e dimenticatasi dove fosse, aiutata da qualcuno, aveva preso un treno, era andata a Salerno, poi, tentando d’andare a Milano aveva sbagliato, grazie al cielo, prendendo il treno che andava nella direzione opposta. Ancora per la pura carità di Dio, un controllore era subito salito, dopo Salerno e l’aveva fatta scendere alla prima stazione, proprio a quella di Battipaglia in cui aveva iniziato il pellegrinaggio in direzione della sua casa. Lei non aveva danaro con sé, ma aveva tuttavia in mano due biglietti: uno Napoli-Bologna e l’altro Salerno-Milano, entrambi ceduti, chiaramente, da persone che l’avevano vista in crisi e che avevano cercato di darle una mano in quel modo. Il biglietto Napoli-Bologna doveva averlo ricevuto da qualcuno che lo aveva già, mentre l’altro le era stato donato chiaramente da qualcuno che, invece di metterla nelle mani della polizia, la stava mandando sciaguratamente chissà dove, spendendo per di più il costoso biglietto relativo ad un tragitto di 900 chilometri.

La Provvidenza le aveva fatto fare un bel viaggetto e poi l’aveva fatta tornare esattamente al punto d’inizio, mentre RU proprio di là stava passando. Tornarono a Milano, carichi di 30.000 fotocopie preziosissime, verso il 10 d’ottobre. Si aspettavano d’essere accolti con festa dai due gatti Teo e Bambo, lasciati in quella casa alla cura d’Anna Badari. Scoprirono invece che la luce era stata tagliata e che essi non c’erano. RU pensò che Anna, stanca d’andare avanti e indietro, li avesse portati con sé. La chiamò al telefono e le domandò: “I gatti sono con te?” “No. Ma dove sei?” “A casa; siamo arrivati adesso da Salerno.” “Ma io non ci sono più andata!” “E allora sono morti!” Si fece prestare una candela e, alla sua fioca luce, vide i due gatti a pochi centimetri l’uno dall’altro, morti stecchiti, per la fame e per la sete. Anna, sicura, chissà per quale ragione, che RU tornasse finito agosto, aveva tolto, in quella data, dal grande vassoio, tutti i croccantini lasciati lì (che sarebbero bastati forse per un anno) e li aveva riposti nelle scatole. Aveva inteso fare pulizia e, ai primi di settembre, si era messa ad attendere che RU tornasse e la ringraziasse. Non sentendosi trattata così, non si era più preoccupata nemmeno d’accertare che RU fosse realmente rientrato, sicché i gatti, ai quali aveva portato via l’alimento e l’acqua da bere, erano morti rinsecchiti. RU, quando vide in terra i due micetti ai quali si era così affezionato, cadde in ginocchio e pianse su di loro, come non aveva fatto per il padre. Non chiamò più Anna, ma pensò soltanto che quei due gatti, che anni prima aveva salvato dalla morte, avevano pagato ora con la vita affinché egli ricevesse un severissimo insegnamento: quella era la donna nelle cui mani aveva inteso, e per ben due volte, di voler riporre la sua vita! Quella Anna Badari che abitava in Via Marostica era stata sufficientemente ostica a Maria (Teresa), tanto da averla rimossa dagli interessi di RU, ma ora era stata così tanto ostile da martirizzare Teo e Bambo, al RU bambino, in via Teodosio, poiché identificò se stesso in quei due gatti, sacrificati dal Criteri di Dio (Teo doxis) affinché egli si decidesse a rimuovere anche lei dal suo cuore.


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1993

Aveva ormai 55 anni e Benito, che lavorava ancora alla Telos, gli propose di studiare la ristrutturazione del suo appartamento. Aveva pagato il suo debito ad Alberto Scarzella e ora aveva bisogno d’un finanziamento di una banca. Pensò che lo avrebbe potuto avere dalla sua se presentava un progetto di sistemazione della casa in via Lattanzio, donata alla famiglia della figlia da suo suocero. RU ne discusse con tutti loro e fu trovata la soluzione, che comportava la demolizione interna di tutte le pareti. L’appartamento, di 128 metri quadrati, aveva due servizi separati. Si decise di spostare quello piccolo e vicino alla cucina, in modo che fosse nella zona notte affiancato a quello grande. “Quanto si può ottenere, dalla Banca, quanto viene a costare?” “Demolire tutto l’interno, portare in discarica le macerie e ricostruire l’appartamento per intero, è un lavoro di centinaia di milioni, ma se te lo faccio io, e da solo, te la cavi con una ventina di milioni. Tu puoi chiedere certamente un grosso finanziamento, e ti resta quasi tutto in mano, come somme non spese” “Quanto tempo ti ci vuole?” “Posso farcela nei due mesi estivi, mentre voi siete in ferie” rispose RU che aveva pensato di non demolire le pareti, ma semplicemente di spostarle. Non s’intesero

bene e gli lasciarono l’appartamento con i mobili e le pareti tutte piene d’oggetti vari e di scaffali e mensole d’ogni genere, avvitate ai muri. Per tagliare le pareti studiò la realizzazione di due cavalletti, con rotelline a cuscinetto a sfera sotto la base. Avrebbe passato i cavalletti sotto la parete, l’avrebbe imbullonata in modo che restasse perfettamente verticale; poi avrebbe tagliato il muro con un grande disco, in modo che restasse appoggiato sui cavalletti. Poi, grazie ai cuscinetti a sfera, avrebbe traslato la parete fino al punto esatto in cui doveva essere riposizionata. A parte l’enorme polvere, il lavoro fu molto rischioso per la sua incolumità: ogni tanto il disco rotante, agganciandosi contro i lati del taglio, ne usciva con tutta la forza della sua rotazione, rischiando di tagliare tutto quello che incontrava. Due volte RU lo bloccò a solo pochi centimetri da una gamba che, se fosse stata urtata, sarebbe stata sfettata come se l’avesse fatti una motosega. Presto si trovò a non avere più spazio per camminare, tra mobili a tutta altezza, accumuli di vestiti e pezzi di muro che cercavano la loro giusta nuova posizione. Per spostare le pareti doveva avere sgombero il percorso e per ottenerlo doveva ogni volta spostare la stessa roba. Impiegò il doppio del tempo che aveva preventivato, ma soprattutto a causa della lentezza delle operazioni. Si pentì di non aver detto al fratello, dovendosi spostare tutte le pareti, che almeno gli desse un appartamento sgombero. Le forze estranee di lavoro in campo furono un idraulico, per spostare le tubazioni dei servizi e un elettricista. Tutto l’intervento murario lo fece da solo. Stette nei ristretti limiti del bilancio, perché l’intera ristrutturazione, che la banca aveva valutato 150 milioni, ne costò solo 22, eccetto i pavimenti in parquet che poi i due sposi vollero mettere. Mentre RU era al lavoro, sua madre era accompagnata da Sabato, che restava con lei in Via Teodosio. Alcune volte Mariannina voleva andare con il figlio e tentava di dargli una mano; lei, piccola e mingherlina, era alle prese, assieme al figlio (che vigilava attentamente), con una parete d’oltre una tonnellata da spostare, loro due da soli. Quando due mesi dopo la famiglia di Benito tornò, il lavoro grosso era pressoché fatto, ma restavano le piastrelle dei bagni, i ritocchi dell’intonaco, piccolissimi dettagli in relazione al grosso che era stato fatto. Tentarono allora di convivere mentre egli completava il suo lavoro, ma c’erano troppa polvere e disordine ed avevano tutti poca voglia di fare sacrifici, così andarono a vivere tutti in un Residence. RU si sentì rimproverare d’avere fatto male i suoi calcoli e d’averli costretti a spendere altro denaro. Aveva – invece – fatto una fatica terribile ma richiesta per rispettare tutti i grossi armadi che andavano da terra fino al soffitto ed erano ingombranti al pari delle pareti.


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Udì allora Benito e Mirella che discutevano, perché stava per arrivare il venditore dei mobili nuovi che aveva raccomandato che ci fosse spazio adeguato per smontarli. Così, affinché non litigassero, a RU toccò per colmo di fare spazio a quegli stessi mobili che gli avevano complicato ogni cosa, per la loro altezza a tutta parete... non per spostarli ma solo per smontarli! Se l’avessero deciso prima (che poi li avrebbero dati via), sarebbe stato lui a toglierli di mezzo, anziché dannarsi per spostarli senza rovinarli e muovere le pareti con tutti quegli ingombri che c’erano sempre di mezzo. RU in quella occasione aiutò il fratello, dedicandogli quattro mesi. Benito invece – un laureato in fisica – si rifiutava di dare retta ai suoi studi sulla reale composizione del mondo. Ci aveva provato qualche volta ma la lettura degli elaborati di RU era giudicata impossibile da Benito. Gli diceva: “Ti devi decidere se vuoi parlare per te o perché gli altri ti capiscano. Se vuoi quest’ultima cosa, allora devi usare il loro linguaggio”. Il ragionamento non faceva una grinza, ma la visione che RU stava cominciando ad avere del mondo era rivoluzionaria. Egli non partiva dallo studio oggettivo, ma da quello soggettivo della mente umana. L’uomo vede e concepisce prospetticamente tutte le cose, ma il termine “prospettiva” non apparteneva alla terminologia della fisica. Benito ci aveva anche provato, dicendogli; “Dammi dieci righe di testo e cerca di essere dettagliato e sintetico” Quando due mesi dopo Benito riusciva a trovare un paio d’ore per capire e giudicare quel breve testo, RU, avendo colte tutte le difficoltà a capirlo del fratello, aveva già rigirato il tutto in un modo che fosse ancora più comprensibile. Benito si trovava un testo tutto nuovo e diverso, affrontato da un differente approccio e il tutto nuovamente si bloccava. Così un giorno Romano si lamentò con lui, dicendogli: “Io ti ho dato 4 mesi, rischiando di farmi male, per la polvere o una parete che mi cadesse addosso, ma tu non hai voluto darmi un giorno solo d’attenzione”. “Ma dove vuoi arrivare? Non l’ho fatto, certo, ma di proposito. – gli rispose Benito, laureato in fisica – Non hai laboratori, non hai nulla; come ti salta in mente di potere arrivare a capire qualcosa di nuovo? Stai semplicemente perdendo tempo. Ora che a te piaccia, mi sta bene, ma che tu pretenda che ti si dia retta e si perda tempo con te è tutta un’altra questione!” Ma Romano pensava: “E perché mai? Io sto affrontando la questione a partire dalle pure possibilità dell’intelligenza a darsi una immagine delle cose. Questo approccio, che io sappia, non è stato mai affrontato e risolto con soddisfazione da nessuno. I miei ricordi di Filosofia mi segnalano che Pitagora aveva una percezione di questo tipo, quando diceva che alla

base della realtà stava il numero. Ma non si era chiesto perché. O se lo aveva fatto ignorava il calcolo binario. Eppure quel genio era arrivato a riconoscere che il mondo consisteva, si poggiava su un fondamentale dualismo”. RU stava imboccando la via giusta, lentamente, e non gli servivano laboratori per osservare come la natura fosse una rappresentazione del cervello. Se il cervello ragionava per numeri, attuando lo stesso meccanismo del computo binario che vale nell’intelligenza artificiale, quello che doveva vedere era secondo i numeri. Ma era così solo a causa del cervello e non della cosa vista in se stessa. Ora l’uomo era riuscito già a scoprire che alcune qualità erano del tutto inventate dal cervello, come la luce e i suoi colori. Ma non riusciva ancora, secondo lui, a fare un ragionamento ancora più essenziale: che tutte le qualità – e non solo le luci e i colori – fossero così come apparivano nella loro qualità oggettiva solo a causa del cervello. Tra esse dunque anche il tempo e lo spazio, come categorie della percezione umana. Lo aveva già detto il grande Emanuele Kant! Ora perché invece per la fisica il tempo e lo spazio erano cose in se stesse? RU una volta discusse con un fisico cattolico praticante, che gli diceva che la massa e lo spazio erano costanti universali oggettive. Quell’uomo di scienza non riusciva – pur essendo un credente in Dio – a vedere queste entità come una emanazione di un soggetto Assoluto, quale l’Onnipotente, perché, quando faceva il Fisico, il suo cervello si divideva in due, ed usava un linguaggio inappropriato allo stato assoluto, nel mentre si calava nel relativo. Come si fa a spiegare l’elettricità, tanto per prendere come esempio una cosa nuova scoperta negli ultimi secoli, senza introdurre quanto gli è caratteristico? Si mise a scrivere allora un libro nel quale cercò d’essere ordinato. Cominciò dicendo che i sensi dell’uomo danno tutti quanti una immagine qualitativa che non esiste di per se stessa, perché è solo una rappresentazione. Poi passò ad evidenziare un metodo di possibile analisi: individuò quello che chiamò “il cubo d’Amodeo” e che era un cubo ridotto a pura superficie. Chiedete come si fa? Si divide il volume per il flusso 1, e resta lo stesso valore ma come area. Si mise a controllare tutti gli atomi con tutti gli elettroni in modo da spianare virtualmente anche il loro volume. Per fare questo non occorrevano laboratori, perché i processi virtuali sono una pura estrapolazione dalla realtà e non si possono sperimentare in quanto essi sono, ma solo nel modo con il quale il nostro cervello li mostra: a tutto-tondo. Era evidente che, istantaneamente, in un flusso come un fiume, in cui lo spostamento dell’acqua nel tempo era il movimento in linea, si dovesse porre presente la sua sezione, come la quantità della presenza trasversale al flusso. Essa non dipendeva dal movimento, ma solo da condizioni geometriche.


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Il cubo, ridotto a piano, era per RU la rappresentazione virtuale della presenza istantanea, indipendente dal tempo in evoluzione nel flusso. Facendo questa operazione cominciò ad accorgersi di strane relazioni che venivano a porsi, e ritenne d’essere arrivato a una determinazione sufficientemente chiara, anche per i Fisici. Solo che chi avrebbe dovuto valutare questo lavoro si sarebbe dovuto mettere di buzzo buono a seguire meticolosamente il filo della logica usata. Invece uno studioso importante, che non ha tempo per occuparsi delle idee altrui, messo di fronte a queste, saltabecca qua e là, convinto d’afferrare tutto a vista d’occhio. Così vede in una pagina qualche cosa che è così nuovo che a lui sembra una affermazione del tutto gratuita e allora tira via dritto e abbandona la lettura. RU pubblicò questo libro e lo intitolò “L’Universo Impensato”. In esso introdusse l’universo negativo, che esiste al pari di quello positivo (che noi vediamo con il suo aspetto materiale ed è lo stesso universo formato dal suo aspetto anti-materiale). E qui cominciano i terribili limiti che sono imposti dell’intelligenza. Quando un bravo e famoso giornalista arriva a sostenere che “Milioni d’anni or sono, la materia vinse la sua battaglia con l’antimateria” – e sto parlando di Piero Angela – significa che ancora non fa parte della cultura contemporanea quello che già appartenne a Pitagora: che il mondo ha realmente due aspetti anche se è vero che se ne vede solo uno. Noi vediamo l’universo materiale perché poggiamo l’osservazione sul suo aspetto anti-materiale preso a riferimento. Altrimenti nulla apparirebbe muoversi: principio fondamentale della dinamica chiamato d’Azione e Reazione. Ora non occorre essere grandi competenti della Fisica per affidarsi a un principio generale come è questo. Allora va capito per forza che noi vediamo un movimento sempre perché lo riferiamo a quello opposto. L’universo materiale che noi conosciamo è sia materiale, sia anti-materiale. Pertanto su quel libro si poneva l’attenzione su quella che è la causa del nostro materiale apparire. Una causa reale, che esisteva e che aveva un suo spazio di realtà. E allora dove esso era, visto che non si vedeva? Quel libro arrivava a spiegare dove potesse essere, e poneva l’esempio d’una clessidra. La prima parte la boccia piena, dunque di materia, la seconda piena della mancanza della materia. Noi non vediamo mai la materia spostarsi dall’altro versante perché questo è il fenomeno più veloce che esiste. Ogni volta che l’elettrone compie un giro va a finire dall’altra parte e noi vediamo come elettrone quello che prima era un positrone invisibile. Come se la clessidra si svuotasse a velocità assoluta e fosse ruotata e noi assistessimo poi all’alternanza di tutto. Scritto il libro, RU inviò questa notizia a Maurizio Costanzo: “Per quanto si presume io abbia scoperto, sono un «nuovo Leonardo?»”

Costanzo, che coglie sempre il modo di deridere questi atteggiamenti, non si lasciò scappare l’occasione di prenderlo in giro e lo invitò il 6 ottobre del 1993 alla puntata televisiva del suo Maurizio Costanzo Show. Quella era – per caso? – una puntata già da lui programmata sui casi riconoscibili come paradossali. C’era già nel programma un personaggio con la voce da gallinaccio che si stupiva come non lo prendessero come attore, ed altri personaggi così. Costanzo colse al volo l’occasione che gli si presentò, di inserire all’ultimo momento come invitato tra il pubblico, un architetto che ora si chiedeva se un giorno lo avrebbero riconosciuto un genio al pari di Leonardo. Dunque risate in più. Avvenne che D’Agostino (già schiaffeggiatore di Sgarbi), uno scienziato presente e un altro, che avrebbero dovuto avere la funzione di chi ridicolizzava Amodeo, restarono invece zitti. Mai il giornalista Costanzo e lo sarebbe aspettato! Così toccò a lui – che di fisica non capiva nulla – assumere quella parte, con RU, anche per alleggerire la questione troppo tecnica. Si vedeva bene che mentre gli altri personaggi della serata avevano un po’ di auto-ironia, RU non rideva affatto della sua questione. Aveva la grinta che già avevano osservato all’Ordine Architetti quella sera che lo contestarono, quando ne avevano ammirato la tenacia e la buona fede. A nessuno dei telespettatori piacque il tentativo di Costanzo di mutarlo in un comico. Quando RU tornò a Milano trovò molti – tra i quali Elda Scarzella


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Mazzocchio – più o meno inferocite contro l’atteggiamento di quell’ancorman, che banalizzava la persona e l’argomento (forse non del tutto chiaro. ma non ridicolo). Anche Benito, in quel tempo, cominciava a dubitare che quelle notate dal fratello fossero pure scemenze. Si sostenevano su conteggi e schemi (mai visti!) che però risultavano perfetti, alla cifra. Sempre cose apparentemente paradossali, come ad esempio l’interpretazione della costante “e” logaritmica, che conteneva in se stessa la quantità esatta numerica del volume della Terra (10,8 ×1021 m3) e del suo anno siderale: 365 giorni, 6 ore 9 primi, 9 secondi e 54 centesimi di secondo. Oppure come la riduzione di Pi greco a 360°, attraverso l’aggiunta di tutti i valori costanti della fisica, espressi nel loro valore assoluto e nel modo umano di vedere ogni cosa in una prospettiva decimale, in quanto al tempo. A quel punto, Benito diceva che «forse le cose non stavano esattamente così... ma qualcosa di vero doveva pur esserci!». Arrivò a consigliare al fratello di portare il libro ai Costa, due docenti di Fisica, nella Facoltà di Fisica, di Milano. E RU lo portò. Ora tutto questo stava a indicare che – in un modo o nell’altro – si stava aprendo uno spiraglio per il successo e RU aveva cominciato a capire che cosa dovesse aspettarsi, secondo quel comando “Aspetta!” che ebbe l’11 marzo 1987: forse si trattava di un premio nobel in Fisica. Una cosa mai tentata, ma aveva saputo conformare la realtà sommandole quel lato immaginario che la matematica deve forzosamente aggiungere, per definire le funzioni di giro, e che la fisica aveva scoperto esistere nell’anti-materia. Già risultava alla Fisica che l’atomo fosse poggiato su una esatta simmetria tra la materia (percepibile) e l’antimateria (impercettibile). Nei modelli c’erano elettroni e positroni, neutroni ed antineutroni, protoni ed antiprotoni, quark e antiquark... Ora RU aveva saputo collocare l’antimateria (invisibile), nello spazio visibile della materia: era semplicemente dall’altra parte. Era l’altro cono della clessidra, quello che appariva vuoto. E il pieno passava furiosamente da un cono a quello opposto e noi lì a vedere sempre e soltanto quello pieno, per cui poi tutta appariva realmente alternante e ruotante. L’antimateria era la stessa materia, ma quando era collocata dall’altra parte, ossia in quell’apparenza di piccolissimo esistente nello spazio sub-atomico. A RU stavano aprendosi tutte le porte, seppure in modo anomalo, passando attraverso una iniziale derisione. Il 1983, uguale a 661+661+661 era l’anno in cui il ciclo 10 di tutta l’energia 66 era 660 in quantità trasversale ed esisteva nel flusso 1, unitario del tempo, nelle tre dimensioni dello spazio. E questo era il successo di RU=66 in numero.

Ora accadde questo: la mattina dopo, il 7 ottobre 1993, c’era la replica del Maurizio Costanzo Show e RU, per farsi bello con quell’Anna che l’aveva snobbato l’anno precedente, al punto da disinteressarsi che i suoi gatti morissero, le telefonò per dirle d’accendere il televisore e sintonizzarsi su canale 5. Apprese da una Anna in lacrime che Lucy si era ammalata d’anoressia. Dai suoi 54 chili ora era ridotta a pesarne 28. RU corse subito da loro e gli venne una stretta al cuore a vedere lo scheletro d’una testa con quasi la sola pelle e gli occhi nelle orbite. Non aveva più muscoli, si sorreggeva ancora in piedi ma chissà come. Anna e la figlia si spostarono, nel novembre del 1993, a Trento, perché suo padre voleva controllare la situazione da vicino: era pur sempre un farmacista! RU allora andò più volte con sua madre fino a Trento. Cercava di farle svagare e sempre, senza dare l’impressione di premere, metteva Lucy in condizione d’assumere calorie, almeno in forma liquida se non voleva i cibi solidi. Mariannina, una sera che era in albergo a Trento, prese una storta e camminava a fatica. Volle tuttavia stare ella pure di fianco alla ragazza, di cui intuiva la grave difficoltà. Fu in uno di quei viaggi che fecero mamma e figlio a Trento che RU, che profittava stranamente di quei momenti per farsi esami più o meno approfonditi di coscienza, fece un importantissimo voto a Dio: “Signore, tu lo sai quanto io tenga a concludere il disegno che mi sembra tu abbia fatto per me. Lo sai che io so ormai d’essere nulla e che tutto questo che sto ricevendo è solo in ragione di questo tuo disegno. Ebbene, se mi è possibile esprimere un voto, io vi rinuncio. Non farmi prendere sul serio da nessuno finché io viva, ma tu salva questa ragazza.”


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Dio ama queste grandiose offerte di sé che l’uomo ogni tanto gli rivolge... RU il dì dopo cercò Anna a Trento, telefonando per avvertirla che non poteva andare là, essendo precarie le condizioni di sua madre, a causa di quella storta. Ma non la trovò. Allora provò a chiamare a Milano e gli rispose Anna. Lui si mostrò risentito e le disse: “Ma caspita, se mamma stava bene, adesso io e lei saremmo lì a Trento! Perché, sapendo bene che saremmo andati là, non hai ritenuto d’avvertirci che eri tornata a Milano?” Anna non rispose. E allora RU: “Senti, sembra che io ti debba pregare per darti un aiuto! Allora facciamo così: se hai bisogno di qualcosa da me, chiedimelo! Il mio numero di telefono lo sai” e lei gli rispose: “Va bene!” Non chiamò più. Era accaduto, subito dopo il voto fatto da Romano, che Gianmaria – che non aveva fatto nulla fino a quel momento – decise di punto in bianco che era il caso di sottoporre Lucy alla cura del sonno all’ospedale, e sua madre non era d’accordo. Lui s’impose e lei per ripicca tornò a Milano. Quando RU la chiamò il giorno dopo, pensò che fossero tornate tutte, e così scrisse – sbagliando – in quell’Ortonovo degli Ulivi” da cui questa rielaborazione è tratta. Dopo un mese di sonno, in cui fu nutrita con le flebo, Lucy fu svegliata con 10 chili di più e una rinata voglia di vivere. RU apprese questa stupenda notizia da Maria, la sorella d’Anna, alla quale aveva infine telefonato per avere notizie, dopo avere invano atteso per tutto quel lungo mese che la Badari lo chiamasse. Fu ferreo nella sua decisione, e non la cercò più. Gli bastava sapere che Lucy aveva risolto il suo problema e ormai stava bene. Romano non si accorse che il Signore aveva preso molto sul serio quel suo “patto”. Non collegò l’improvvisa guarigione a quanto aveva offerto di così prezioso: la rinuncia a tutto il suo successo che già era in atto, da quando tutta l’Italia e il resto, lo aveva visto e udito al Maurizio Costanzo Show. Ignorava poi una seconda cosa che in quegli anni era fuori della sua portata. Quella bambina che era stata concepita da due congiunti che si chiamavano Angelo e Angela, quando lui compì esattamente i suoi 22 anni e che era nata il 3 ottobre 1960, ed abitava non a Trento, ma in via Trento a Saronno, era da due anni a casa sua, ammalata dello stesso male di Lucy. Nel novembre del 93 – lei nata nell’ottobre del 60 – aveva esattamente 33 anni compiuti e forse anche 33 giorni o pochi di più. Si era fatta suora e dopo 10 anni si era ammalata in quel modo. L’avevano mandata a casa sua sperando che tra i suoi recuperasse la salute. Il Signore, in quei giorni in cui salvò Lucy a Trento, salvo lei in Via Trento.

La permanenza in via Teodosio non era più né giustificabile, né sostenibile. Infatti si pagavano due affitti: uno per quella che prima era stata la portineria, che aveva un locale al primo piano raggiungibile con una scala a chiocciola in metallo, l’altro un appartamenti con un corridoio-ingresso, che aveva a destra dietro una parete divisoria, il vano al 1° piano facente parte della ex-portineria. Dopo quello, in fondo a destra una ampia cucina abitabile, mentre alla sinistra di quel corridoio vi erano due ampie camere da letto con in mezzo un ampio bagno. RU, praticando una apertura (di nascosto) sulla parete divisoria, aveva reso quel corridoio centrale, che serviva a sinistra lo studio, ricavato nella stanza al piano alto della ex portineria. La soluzione era adeguata a quando lavorava e produceva reddito, ora che non c’erano che le entrate della pensione di sua madre, certe volte bisognava fare quasi la fame, per arrivare a fine mese. RU E LA MAMMA COSTRETTI A CAMBIAR CASA Con la sola pensione della mamma, non era più possibile rimanere in quel luogo. Così RU iniziò a cercare soluzioni diverse. Benito non aveva potuto rispettare l’impegno che aveva preso, di compartecipare con 500,000 lire al pagamento dell’affitto, dopo che aveva incassato l’eredità della madre, fatta uscire da una casa che – mentre era ancor viva – era la sua, che era stato opportuno solo vendere, per non essere sfrattati dalla legge, per il fallimento di RU. Dopo molte ricerche, credé opportuno di allontanarsi da Milano.. Trovò, proprio alla fine del 1993 una soluzione che si presentava molto interessante. Sulla sponda del Ticino era in vendita un gruppo di case per 40 milioni. Se Benito avesse chiesto a una banca un mutuo per acquistare questa proprietà, il costo mensile dei ratei sarebbe stato uguale alla metà di quello che RU e sua madre pagavano in affitto, in via Teodosio,


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1994

Mentre BEN era consulente alla Telos, per RU, la soluzione di quel gruppo di case sul Ticino, si muto in una vera e propria trattativa. Solo che Benito, che già non era in grado di contribuire per l’affitto di casa di sua madre, non lo era nemmeno per chiedere un mutuo. Si era troppo esposto, quando aveva ristrutturato casa sua spendendo una minima parte di quello che la banca gli aveva dato e che gli era servita per appianare alcune sue necessità. Esse erano insorte poiché aveva abbandonato il lavoro che inizialmente aveva alla SIR, ed era divenuto il Direttore generale di una società costituita tra due banche, una italiana e una francese, che tentavano una operazione di comune interesse, dato, da quella italiana, nel settore finanziario e in quella francese, nel tentativo di creare gruppi di lavoro facenti poi capo ai francesi. L’accordo non poteva continuare, poiché i due soci cercavano l’uno di strumentalizzare l’altro. Benito si trovo in mezzo ai due litiganti, come era toccato a sua padre a Felitto. E come in quella occasione il padre ne era uscito con le ossa rotte, così capitava ora a Benito. Perse due anni interi di quanto gli sarebbe spettato di diritto

per il suo incarico, quando i due gruppi si sciolsero e le questioni assunsero ora i toni estremi che si risolvono solo dopo molti anni e con le cause in Tribunale. Pertanto l’idea che il fratello potesse chiedere un mutuo era inconsistente. Fu stranamente Sabato – sì Lingardo sabato il suo amico disadattato che lo aiutava in casa a intrattenere sua mamma, che gli disse che poteva parlarne a sua fratello Rosario, che chiamava Saruccio. Sapeva che aveva molti milioni in banca e che poteva lui prestare quei 40 milioni che servivano. Benito non poteva chiedere nulla in banca, ma avrebbe volentieri fatto da mallevadore, da garante, con suo fratello. Le famiglie si conoscevano e rispettavano, per cui secondo lui non vi erano problemi. Sabato mentiva al suo amico. Infatti era proprio lui che – a conti fatti – aveva 1/3 di qu7asi 200 milioni di lire che Stella Mucciolo, loro madre aveva risparmiato in tutta la sua vita e alla sua morte aveva lasciato in eredità ai tre fratelli. Sabato aveva circa 70 milioni, ma non lui direttamente. Li aveva in banca suo fratello Saruccio. Infatti i tre non avevano voluto dividersi l’eredità, e il fratello di mezzo, che era l’unico che avesse fatto carriera nell’esercito, come sergente, si propose come amministratore in come e conto di tutti e tre. Pertanto, quando sabato disse a RU che poteva chiedere a Saruccio, se era disponibile, non fu sincero. Come mai? La ragione – o lettori carissimi – era trascendente tutte queste persone e stava nella Divina Provvidenza che aveva accettato il patto che RU aveva proposto a Dio, di non essere preso sul serio più da nessuno. Perfino Sabato non ritenne di dirgli come realmente stava, e che cioè quel denaro lo aveva lui. E quando interpellò suo fratello Saruccio, si sentì un bel «Non si può! Il denaro è tutto capitalizzato in titoli bloccati ad alto reddito! Anche se io volessi darteli, caro sabato, non li darebbero a me!» La brutta notizia fu portata a RU, che in verità non aveva mai nemmeno sperato che dai Lingardo potesse venir fuori la soluzione. Nella speranza di trovare aiuto si rivolse al Colabella, il professore che gli aveva fatto scrivere i libri su Bonefro, ma nemmeno lui aderì Nonostante questo, RU chiese lo stesso che si concludesse la vendita. Allora accadde che tutto quello che RU aveva perso in tempo e in incontri, si risolse in nulla, poiché uno dei proprietari di quel gruppo di case era un furbacchione. Quelle proprietà erano state ereditate da più fratelli che dovevano dividersele. Uno di loro aveva bisogno di denaro e spingeva per la vendita. Si sarebbero spartito il ricavato. La proprietà era stata messa sul mercato e il furbacchione della famiglia voleva comperarla lui per un tozzo di pane.


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Poiché non c’erano state molte offerte, pur di riuscire a vendere il prezzo era stato portato a un livello così basso che alla fine avevano trovato un Romano Amodeo disposto a comperarlo, Il furbacchione faceva la parte di chi non voleva assolutamente vendere nulla a quel prezzo, Gli altri invece gli si opponevano, dicendo che avevano bisogno di denaro e che se non c’era altro gli stava bene anche quella miseria. Fu allora che il furbacchione intervenne e concluse: “A questo punto allora a questo prezzo me la compero io!! E lo fece, riuscendo a comperare il tutto pressoché a un terzo del suo valore e con il ringraziamento degli altri eredi che finalmente riuscivano a vedere del denaro. Dopo questa disavventura, ne venne un’altra. C’era una bella possibilità a Milano, in un alloggio in via Monza, presso una delle fermate della metropolitana. Aveva trovato questo affare in una agenzia di vendite immobiliari. Proposto questa volta quell’acquisto al Colabella, Michele – visto il vero affare – si prestò a sottoscrivere lui di persona il compromesso. C’era solo da concludere, ma qualcosa di assolutamente imprevedibile successe: venne fuori il suo nome di fallito e l’affare sfumò. Il Colabella ci perse anche il denaro dell’acconto e si rinforzo nell’idea che mai aveva avuto che non ci si poteva fidare più di RU. Anche questo però dipendeva solo da quel patto che RU aveva fatto con Dio, nel quale aveva accettato tutto il discredito per se stesso, purché guarisse Lucy dalla sua malattia. Infine si rassegnò a trasferirsi in piazzale Cuoco, al numero 8. RU si affrettò a murare quel passaggio che – senza chiedere a nessuno il permesso – aveva arbitrariamente praticato tra i due alloggi in via Teodosio, messi in comunicazione attraverso un varco e una porta – dissimulata – che aveva aperta nel muro tra l’uno e l’altro e in un modo che all’occorrenza sparisse... Il trasloco, fu verso il marzo del 1994, fatto dalla cooperativa di Walid, un laureato egiziano divenuto in quegli anni amico di RU. I mobili furono sistemati tutti in una stanza e, nell’altra, venne piazzato il letto grande, quello dell’amore con Maria Teresa, quello dell’amore con Anna ed ora veramente quello dell’amore tra una mamma e il suo figlio che sarebbe già dovuto essere un angelo del cielo. Alle due di notte un frastuono. RU si guardò in giro e non vide sua madre. Corse nella stanza vicina e giaceva per terra, sotto una tavola, per fortuna illesa. Era andata a gabinetto e – non ritrovando la via della camera da letto – era entrata in quella che era ancora un deposito. RU si accorse che in Via Teodosio, dopo d’essere andati nel bagno, si tornava in camera da letto andando verso destra, mentre qui bisognava girare verso sinistra. Nella memoria della mamma restava quel percorso...

Allora fu costretto a sbarrare il corridoio posto davanti al wc, in modo che lei, di notte, potesse andare nel bagno e poi fosse costretta a rientrare da dove era partita. Una notte, però, erano verso le tre, suonò il citofono. Svegliatosi, RU non vide in letto la madre e non era nel gabinetto. Scavalcò la barriera e vide aperta la porta dell’appartamento. Rispose subito al citofono e la portinaia gli gridò: “Corra che c’è qui sua madre nuda che cerca d’uscire in strada!” Era scesa di gradino in gradino, dal settimo piano fino al piano terreno e per fortuna, cercando d’aprire il cancello, aveva citofonato alla portinaia. RU allora sbarrò meglio il corridoio e chiuse a chiave la porta, prima chiusa solo da dentro, con la manopola. E cercò d’allertarsi e svegliarsi al minimo rumore che udiva. Così gli riusciva d’accorgersi quando – a notte inoltrata – la mamma stava per uscire, e allora la bloccava con la voce... e, puntualmente, seguiva anche un grido che gli arrivava dal piano di sotto: “Basta!” Divenne un incubo. Sotto abitava una zitella che aveva l’udito di Nembo Kid. Allora RU mise la moquette per terra, attutendo un po’ la trasmissione del suono, ma fu un provvedimento che non risolse mai la situazione, perché in certi momenti bisognava proprio urlare – ferma lì! – per bloccare al volo un gesto pericoloso che sua madre faceva alzandosi di soppiatto. Per cercare di tenerla sveglia di giorno (e così di notte dormisse) RU la portava al gruppo della terza età in Parrocchia. Anna seguiva con fiducia il figlio e stava bene, in mezzo a quella gente, anche se non era in grado di scambiare parole con nessuno. L’unico con il quale lei riusciva ancora a parlare era RU, e non tanto perché fosse il suo unico riferimento ma perché veramente lo intuiva al suo servizio e questo senso le dava pace. Quando da bambina gridava “vecchia no!” sua madre già sapeva che sarebbe divenuta così, in questo stato, e non voleva giungervi anche per preghiera. Quando in tutta la vita aveva voluto accumulare più pensioni era perché sapeva che ne avrebbe avuto bisogno lei e suo figlio, ridottisi a vivere a tu per tu. Quando diceva “Io da vecchia voglio andare in un ospizio perché non voglio gravare su nessuno” era perché già sapeva quanto lei avrebbe gravato su RU. Ecco, nella vita ciascuno incontra il suo castigo e Anna aveva trovato proprio quello giusto ed esatto per lei che aveva sempre sostenuto gli altri, ora doveva farsi sorreggere lei. Ciascuno trova il suo castigo perché la Provvidenza castiga le persone cui vuole bene. È una logica rovesciata perché noi non stiamo andando in avanti nel tempo, ma all’indietro. Noi siamo come su una macchina che proceda in retromarcia e che, abituati come siamo a vedere così, crediamo che in quel modo si vada in avanti. No si va all’indietro. Il vero avanti inizia dopo la morte, quando si ritorna all’origine e si rientra nell’originale potenza.


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Il vero avanti è il miglioramento, è il riequilibrio, per cui questa vita che vediamo è la reazione all’avanzamento che già adesso c’è, nell’anima che va solo verso Dio – ritornando a Lui – e vede, per pura e semplice reazione materiale (a quella spirituale di Dio), il corpo avviato alla tomba. RU dovette molto all’osservazione accurata fatta a suo madre per accorgersi dei due versi della vita: quello dell’essenza che vede e quello del corpo visto da qual moto, essenziale, dell’io osservatore.. Infatti, fu qui, in questo campo dei due dell’esistenza in cui una parte del cervello di sua madre era in apparenza già morta, fu proprio qui che apparve evidente come spesso essa viaggiasse all’indietro nel tempo rispetto all’avanzamento in esso, compiuto dal figlio. Per mettere in ordine un letto. lei lo disfaceva tutto, apriva i cuscini, ne tirava fuori la lana, spargendola ovunque come neve; poi si fermava, aveva finito. Da brava sarta durante la vita, aveva fatto orli su orli alle lenzuola, ed ora seguitava: disfaceva tutti gli orli. Cominciava da un piccolo punto e, appena trovato modo di rompere il filo, pezzo dopo pezzo disfaceva e toglieva tutto l’orlo. RU ne divenne certo: nella sua ottica rovesciata, lei aveva ancora continuato a mettere orli laddove invece al figlio sembrava che lei li levasse. Ora tutto questo non avrebbe senso se la vita non fosse espansa sui due versi, contemporanei, nella direzione del tempo. L’uomo è un tutt’uno: in ogni punto dello spazio-tempo esiste quanto è appropriato a quella data d’esistenza. Tutta la struttura è come se fosse un’insieme di rulli che semplicemente girano, e sono tanti: chi vi si mette sopra è trasportato, ma i rulli girano ancora anche quando il soggetto osservatore è posto su un altro rullo. Si rendeva sempre più conto che, per lui, la vita era stata tutta un insegnamento e che ora la principale maestra l’aveva davanti a sé. Si rendeva conto sempre più che le doveva la vita tre volte: per averlo messo al mondo, per averlo salvato da morte e per quello che stava facendo proprio adesso che si era azzerato del tutto per amore di lei. Lo sentiva, RU, l’amore, ed era reciproco. Lei lo guardava con l’anima e, forse, lo sentiva veramente suo proprio per quello che aveva saputo fare: desiderare che d’essere il di Gesù, perché lei, la sua Madonnina, l’amasse ancor più. Bisognava ricordarsene e farne tesoro per quando le cose invece non filavano lisce; allora Anna cominciava a dire e a ordinare di portarla a casa sua. La scritta sulle pareti e sulle parti in vista “abito qui”, nemmeno quella spesso non funzionava più. Bisognava – a quel punto – darle la sensazione che era ascoltata ed era accompagnata dove voleva. Magari alle due di notte occorreva così alzarsi e uscire in strada, fare qualche centinaio di metri e poi ritornate allo stesso posto di prima.

Vuoi che la circolazione del sangue camminando avesse fatto affluire più sangue al cervello, vuoi che si dimenticasse, il rimedio funzionava. Il 29 giugno del 1994 RU, pagata la tassa di lire 365.000, presentò al Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, Ufficio Italiano Brevetti e Marchi di Roma la domanda che fosse brevettato il suo Motore a fusione nucleare dell’idrogeno. Romano era passato allo studio di questo progetto perché si era accorto che l’impatto della sua teoria si era come arrestato... sì, da quando aveva pregato per Lucy, offrendo la rinuncia a tutto il suo successo perché lei fosse salvata da Dio. Aveva saputo che Lucy era guarita e non era mai riuscito a vederla ristabilita, perché lei era ormai via, a Trento con il padre farmacista. Anna Badari, sua madre, era restata sola e per conto suo. Aveva visto RU disposto una seconda volta a legarsi a lei, ma con totale evidenza, non era questo il destino. Trovava insormontabili ostacoli alla sua teoria; ad esempio i Costa, docenti di Fisica ai quali, attraverso Benito aveva fatto giungere il libro l’Universo Impensato, erano stati bene educati nel riceverlo, per rispetto alla famiglia degli amici della figlia, ma poi non gli avevano assolutamente dato retta. E quando si rivolgeva per consulenze, anche a pagamento, non riusciva a trovare neppure così – pagando per il disturbo – chi fosse disposto a dargli retta. Quel periodo, da quando si era trasferito da Via Teodosio a Piazzale Cuoco, fu passato molto studiando. Gli costò caro, perché non usò per mesi l’automobile e non si accorse che era scaduta l’assicurazione. Ridotto senza più assegni per riscuotere la pensione della mamma, andò con lei in auto alla posta che curava i conti correnti, collocata lontano e fu fermato. Gli sequestrarono l’auto. Ne rientrò in possesso tre mesi dopo e fu costretto a pagare multe salate e una forte cifra per il ricovero della vettura. Il guaio era derivato dal fatto, anche, che l’assicuratore aveva mandato gli avvisi al vecchio indirizzo e che RU, abituato ormai ad essere avvisato, non aveva saputo che fossero scaduti i termini.


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1995

Mentre Ben era consulente alla Telos, per RU, lui e sua madre erano i due nuovi parrocchiani che, trovatisi in Piazzale Cuoco abbastanza vicini alla Chiesa, cominciarono ad essere sempre più frequenti al gruppo della terza età e ad andare anche alle catechesi, facendo ammenda dei propri limiti. Conobbero Gigi Rocco, un pensionato che seguiva il movimento dei focolari e che ogni mese gli dava un foglietto di meditazioni scritte da Chiara Lubich. Divenne presto un carissimo amico. Gigi abitava di fronte al Parco Alessandrini e spesso riceveva a casa sua la visita di RU e sua madre. Faceva accomodare la mammina (la chiamava così) in una comoda sdraio ed iniziava con RU una appassionata conversazione sulla vita, sulla fede, sulla scienza. Pubblicava egli stesso una piccola dispensa che chiamava scuola povera nella quale cercava d’introdurre nei bambini l’osservazione sulla geometria, sui numeri. Gigi era una persona polemica con il sacerdote, che diceva troppo poco attento e spesso nelle catechesi iniziavano vere discussioni tra lui che attaccava il cattivo senso artistico del Parroco e costui che tollerava male il tono accalorato assunto dal Rocco. Finché gl’impose di non andare più alle catechesi. Gigi serviva, durante le messe, ed aveva avuto il permesso di distribuire la comunione. Quando RU, un giorno avvicinò il Parroco e cercò di fare in modo che l’amico fosse riammesso alla catechesi ottenne l’effetto contrario e gli fu tolto anche quel servizio di cui andava felice,

Nelle catechesi RU stava recuperando anche l’adesione alla sua fede nuovamente praticabile, ora che non aveva più relazioni che andassero contro al suo essere sposato con Giancarla. Stava recuperando il senso della missione nella sua vita. Una sera, durante una di questa catechesi si trattò il tema dell’accoglienza, e RU parlò brevemente della sua storia, di come avesse accolto il bisogno dei ragazzi in cerca d’una sistemazione nella vita. Uscito, secondo una delle prove che la Provvidenza aveva iniziato a rimettergli sul cammino, fu avvicinato, verso il maggio del 1995, da un uomo in visibile stato di crisi. Si chiamava Umberto e supplicava aiuto, affermando che non possedeva più una casa. RU lo accompagnò subito nella Parrocchia vicina, dal Parroco che ancora non aveva avuto il tempo di ritirarsi nel suo alloggio. Umberto fu interrogato attentamente e ricevette il consiglio di rivolgersi alla Caritas cittadina. RU aveva sperato che si facesse un po’ di più per questa persona così visibilmente bisognosa d’essere accolta e gli diede il suo numero di telefono, dicendo di chiamarlo tutte le volte che aveva bisogno. Cominciarono così telefonate disperate, di quest’uomo che stava male, piangeva, diceva d’essere sofferente. Aveva trovato alloggio presso le suore di madre Teresa, a Baggio, tuttavia raccontava di non essere contento, perché egli cercava una famiglia. Ben sapendo in che fastidi si sarebbe cacciato, RU volle sapere prima sua madre che cosa ne pensasse. Lei sorrise, mansueta, a dimostrare il suo assenso. Andarono tutte e due a trovare Umberto. Lo portarono fuori a mangiare una pizza. Non gli raccontarono ancora del loro proposito di dargli ricovero, di fargli posto nella camera che – sgomberata l’accozzaglia derivata dal trasloco – era adibita a studio di RU. Quella sera telefonò Sabato. L’amico, non appena RU gli svelò la sua intenzione d’ospitare Umberto, colse la palla al balzo e gli chiese il favore d’ospitare per una notte Lia, una donna ch’egli aveva incontrato alla stazione e che dormiva là, su una panchina della sala d’aspetto. Doveva andare là proprio la mattina dopo, e se RU voleva conoscerla. Poteva andare con lui e gliela avrebbe presentata. “Sabato a me non interessa conoscerla. Interessa forse a te?”. Era così, Sabato, notoriamente trattato come uno spostato... voleva far vedere a questa donna che aveva anche amici... a posto. Così, la mattina dopo, RU e sua madre furono all’appuntamento. Sabato vi giunse da solo, affermando che lei non era voluta venire. Poi, in un nuovo atteggiamento di speranza, ritornò sui suoi passi, per fare un nuovo tentativo. Questa seconda volta l’aveva convinta. Fu così che Romano conobbe questa donna di cui Sabato si era innamorato e al cui fianco passava le notti, dormendo egli pure sulle panchine della sala d’aspetto della stazione, per farle compagnia, lui che aveva un appartamento datogli dalle Case Popolari....


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Salirono entrambi sull’automobile e RU chiese alla donna, piuttosto arcigna e scorbutica, come stesse, di che cosa avesse bisogno. Lei si presentò: si chiamava Lia, era italiana d’origine jugoslava e aveva bisogno d’un Lavoro. Disse che Sabato continuava a ronzarle intorno e le dava fastidio. Lei non cercava avventure con uomini, doveva solo lavorare. Le sarebbe andato bene un posto come cameriera o come aiuto in casa. Un’idea balenò nella mente di Romano. Sabato aveva quel suo appartamento che da tempo era divenuto inabitabile, perché riempito di cianfrusaglie fino al punto da non potervi più accedere. Tanto che era costretto a passar fuori la notte non solo per far compagnia a qualcuno. Un suo amico tempo prima era riuscito, con uno stratagemma, a farsi dare le chiavi di casa e, in assenza di Sabato, aveva svuotato tutto l’ambiente, in modo che potesse nuovamente entrarvi. Il risultato fu che non ebbe ringraziamenti, ma fiere accuse d’avergli portato via, rubato i suoi beni. Facendo leva sul cuore di lui, RU suggerì al suo amico: “Mi è venuta un’idea. Tu sai che sto per ospitare da me Umberto. Non gliel’ho ancora detto. Posso invece ospitare a casa mia Lia – come ospite e non come mia lavorante – se lei poi vuole, può darmi anche, in cambio, una mano ad aver cura di mamma... nel mentre io non ci sono, poiché sono impegnato con te. Sì, con te, se tu accetti di sistemare casa tua, in modo che diventi un’abitazione possibile. Dopo si vedrà: o Lia verrà a stare con te e io al posto suo ospiterò Umberto, oppure tu – se lei non ti vuole – tu accogli in casa tua Umberto.” Si decise – tutti quanti – che la prima cosa da fare era d’andare a conoscere Umberto, e partirono per la casa d’accoglienza in cui egli era ospitato. Sabato si commosse talmente, quando vide quest’uomo, conciato assai peggio di lui, che dovette essere sorretto, perché gli erano, all'improvviso, mancate le forze e stava par cadere in terra. Umberto, saputo che si stava facendo qualcosa per accoglierlo in una casa, era felice e avrebbe atteso gli eventi. Anche Lia era d’accordo. Così le fu ricavato un posto letto d’emergenza, su una brandina chiudibile posta nello studio, e le fu spiegato come aver cura della mamma. Dal canto loro, Sabato e Romano iniziarono subito i lavori di sgombero. In 30 metri quadrati d’alloggio era stipato l’inverosimile. Cassette della frutta, strati di giornali uno sull’altro, ombrelli rotti, tutte le cose rifiutate che Sabato raccoglieva in strada e portava in casa, erano state accolte da lei nel loro bisogno d’essere amate. L’amico intendeva risistemarle, ripararle, identificandosi, probabilmente, in ciascuno di quei pezzi che, con un po’ di cura in più, nessuno avrebbe più buttato via... come facevano con lui. La sua storia personale era simile ad ogni cianfrusaglia che era affastellata in quella casa: nessuno l’aveva voluto e tutti l’avevano scartato come una roba inutile e vecchia. Il fatto è che era difficilissimo trovare un accordo con lui. Sabato o ascoltava in modo supino gli ordini altrui, o li dava lui. Non esisteva una via di mezzo.

Anni prima la mamma di RU aveva cercato di dargli una sistemazione definitiva, parlandone con Adriana, sua nipote, e si erano perfino fidanzati!!! Fu un’esperienza disastrosa perché, una volta che Sabato vide d’essere stato accolto, concluse che se una donna lo amava doveva fare quello che lui diceva, e divenne un tale assurdo tiranno che Adriana dopo breve tempo cambiò idee. Gli dichiarò categoricamente di non volerne sapere più niente, ma Sabato non n’era convinto, e le ronzava continuamente attorno nel tentativo di recuperarne l’affetto. Forse l’affetto esisteva ancora in Adriana, perché Sabato era una persona con il classico cuore in mano, ma non aveva più le intenzioni di prima di sposarlo. Divenne tanto uno stalker che dovette intervenire Gennaro, ad allontanarlo e con le brutte, minacciandolo di prenderlo a botte. Entrambi erano vissuti per anni in casa RU; Sabato fu così mortificato dal gesto minaccioso di Gennaro che non osò più avvicinarsi alla sorella. Tutti i tesori di quel buon uomo furono messi nei sacchi neri dell’immondizia e portati giù in cortile. Presto arrivò Saruccio, il suo fratello di mezzo, a dare una mano. Era commosso, diceva, perché RU faceva tutto questo per il suo amico. Le sorprese cominciarono in quel momento. A mano a mano che gli strati di macerie erano alzati, controllati e insaccati, emergevano scatolette di cartone con dentro soldi: biglietti di taglio vario, anche da centomila. Sabato per un poco usava quel modo per conservare il denaro, poi la scatola finiva ricoperta da questa pioggia d’ogni cosa che giorno dopo giorno cadeva dall’alto e restava sepolta, perduta anche nella memoria. “E’ la Provvidenza, che sta mandando i soldi, per costruire poi anche i mobili, in questa casa che non li ha!” esclamò RU. Per non lasciare lì quel denaro, col rischio che finisse in qualche sacco, Saruccio volle portare a casa sua, in totale, più di due milioni di lire, raggiunti a poco a poco, a causa dei... ritrovamenti archeologici, quando la casa fu finalmente svuotata e tutte le famiglie di scarafaggi furono sfrattate. Ci volle una quindicina di giorni e quasi un centinaio dei sacchi neri dell’immondizia. Finito tutto, pulito e imbiancato, RU andò in falegnameria e ordinò i pannelli di truciolato nobilitato, fatti tagliare su misura, con cui realizzare il letto e gli armadi. Firmò un assegno della mamma, scoperto. Poi chiese a Sabato di avvertire Saruccio, affinché portasse il denaro che era stato trovato durante lo sgombero, e che lui aveva messo da parte e conservato a casa sua, perché doveva versarlo in banca. Rosario si diede alla latitanza e RU fu nuovamente costretto a spiccare i soliti salti mortali perché quell’assegno, sul conto della mamma, andasse a buon fine. Dopo d’esserci riuscito, chiamò Sabato e si lamentò molto del comportamento del fratello. Fu solo allora che Sabato rivelò che quel suo fratello aveva da parte un capitale di quasi duecento milioni lasciato in eredità a loro tre, i figli, dalla mamma loro quando era morta. La brava donna li aveva risparmiati durante tutta la vita, facendo la


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domestica a Milano. Appena morta, Sabato, Rosario e Mario avevano deciso che questo capitale fosse conservato momentaneamente da Rosario. Quella volta in cui, 2 anni prima, Sabato aveva chiamato il fratello in Via Teodosio, quando RU necessitava di 40 milioni per comprare una casa in riva al Po, Sabato stava cercando di fare in modo che il fratello gli desse una parte di quanto spettava a lui. A quel punto RU ci rimase molto male, che il suo amico gli avesse nascosto tutto questo, e si rivolse risoluto a lui e gli disse: “Sabato, fatti dare la tua parte. Vivi come un disperato. Non credi che se ti metti in ordine hai anche più successo con le donne? Questa Lia, per la quale stiamo facendo tutto questo, non credi che ti starebbe più volentieri al fianco se sapesse che hai del denaro da parte?” Al che Sabato: “Rosario ha cercato più d’una volta di darmelo. Io mi sono opposto dicendogli che era meglio che lo tenesse lui. Saruccio ha insistito, anche. Una volta mi disse che non sapeva che farsene della mia parte e se io insistevo a non volere quei soldi... lui li stracciava” Sabato, s’infuse coraggio, e rivelò così a Rosario che aveva finalmente deciso di prendersi la sua parte d’eredità. Fu allora che venne fuori la verità: non glieli voleva assolutamente dare, perché era straconvinto che lui aveva le mani bucate e sarebbero finiti presto in mano altrui. Tanto valeva che fossero le sue. Almeno lui era suo fratello. . Emersa la verità – che disgustò molto Sabato – accettò l’idea di RU e andarono da Donatella Rocco, parente dell’amico Gigi, avvocatessa e lei iniziò una serie di trattative pacifiche con Rosario, che non sortirono alcun effetto. Rosario Lingardo, agendo nella logica di chi, in questo caso, per il voto fatto a Dio da RU non gli poteva assolutamente credere, si rivelò all’atto pratico e senza sua colpa il più disgraziato dei fratelli: impedì a Sabato di spendere il suo denaro, non dandoglielo. Iniziò a non voler vedere più il fratello, a trattarlo come se fosse stato Sabato il disgraziato che solo egli era davvero (ma pensava, in buona fede anche lui, che lo doveva fare, per correggere quel fratello dalle mani troppo bucate e troppo buono). Così, alla fine, il più buono tra loro due cedette e tornò a riverire Rosario che, ogni tanto, in segno di magnanimità, gli girava qualche abito smesso. Finita la sistemazione intorno al giugno del 1995, l’appartamento era finalmente decoroso. Sabato n’era contento, ma rimpiangeva anche i tesori suoi ai quali per amore aveva dovuto rinunciare. Ora era in condizione d’alloggiare come si deve e d’ospitare a casa sua, o Lia, o Umberto, secondo gli accordi presi. Lia non volle, preferiva restare ospite di RU.

Ma nemmeno lei in questo gli credeva. RU era stato chiaro: le sarebbe stata solo ospite. La famiglia non era in grado di spendere denaro per una badante. Invece lei si giudicava una badante, e in se stessa giudicava anche di aver diritto a un compenso per quello che faceva. Quando – rifiutato Lia l’appartamento di sabato toccava ora a lui di ospitare Umberto – neppure Umberto volle. Disse che preferiva stare con le suorine di madre Teresa di Calcutta, anziché con quell’anormale persona, che, perfino per Umberto, stava peggio di lui. Lia si atteggiò allora a governante. Non era mai stata una lavorante, fin dal primo giorno RU aveva chiaramente espresso che quello non era un lavoro, era pura accoglienza. Lei facesse quello che voleva. L’unica cosa importante che poteva fare in cambio al vitto e all’alloggio gratis era di tener d’occhio Anna e di fare insieme qualche camminata; ma la faceva solo se lo voleva, come puro scambio di favori. A lei stava bene così. Aveva trovato in un certo senso una casa e una famiglia, pranzi e cene regolari e poteva anche cercarsi con calma un lavoro. Spiegò a RU perché non aveva documenti: glieli avevano rubati alla stazione. Aveva fatta la denuncia? No. Allora bisognava farla, in modo che le dessero dei duplicati. Così RU si trovò immischiato nelle bugie di Lia e seppe, poco alla volta, che era sposata e separata. Arrivò a dirgli il nome e il recapito del marito ed accettò che fosse chiamato. Quell’uomo, quando finalmente ebbe notizie della moglie scappata e che da tempo stava cercando, volle andare a trovarli e venne da lontano. Fu contento, Mario Visintin, d’aver ritrovato la moglie ed anche di come si era sistemata, tra brave persone. Un giorno Michele Colabella, lo storico di Bonefro che era restato scottato dall’affare non portato a termine in viale Monza, chiamò RU e lo sorprese, poiché ebbe l’incaricò – come una sorta di risarcimento – di risolvere il suo problema: la sua piccola abitazione in Via Pietro Custodi era assediata dai libri. RU gli suggerì che avrebbe dovuto realizzare un anello che girasse per tutto il locale nella parte alta delle pareti, tanto da avere libero sotto. Occorreva realizzare una struttura che fosse forte e resistente al peso enorme dei libri. Michele gli affidò l’incarico di realizzarla mentre egli sarebbe stato a Bonefro, finite le scuole e per il periodo estivo del 1995. RU, essendoci Lia ad aver cura della mamma, avvalendosi dell’aiuto di Sabato, costruì quanto dovuto, poi telefonò da lì a Bonefro e si accordò di sistemare anche il pavimento dell’altro locale, perché i muratori che negli anni precedenti avevano aggiunto un massetto di 10 cm, non avevano messo sotto la rete e, in quei pavimenti sostenuti da travi di legno, ciò aveva procurato quelle crepe nelle piastrelle di cui tanto Colabella si lamentava. Romano dovette rinunciare, dopo poco, all’aiuto di Sabato, volenteroso ma sempre piuttosto problematico. Si avvalse allora di Walid, un immigrato che aveva conosciuto durante il trasloco da Via Teodosio a Piazzale Cuoco.


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In breve RU, aiutato dalla giovane forza di Walid, smantellò tutto arrivando fino all’assito e poi realizzò un pavimento in graniglia colorata, come aveva già fatto all’Hotel Lodi del suo amico Gozzi. Mise tre strati di reti, una sull’altra ed ottenne una tale rigidità che poi poté mettervi sopra tranquillamente il nuovo tramezzo tra il bagno e la zona cucina. Tornò Colabella e cominciò a convivere anch’egli con le difficoltà. RU, facendo una terribile fatica, lui e Walid, a issare, su per le scale, un enorme specchio di due metri per tre senza che si sbeccasse o si rompesse, ne rivestì una parete, in modo tale da dare uno sconfinato senso di spazio. Michele aveva però una sorella cui non piacevano gli specchi, perciò, non credendo a lui ma a sua sorella, gli chiese di toglierlo. L’architetto il cui giudizio non contava più nulla, che aveva sudato sangue per mettere in opera una simile meraviglia, davvero incredulo per l’atteggiamento così di disprezzo dimostrato dal suo amico che sempre si era fidato ciecamente di lui, in tutti i libri che gli aveva fatto editare, allora afferrò la mazzetta e diede una tale botta allo specchio.... che quello neppure si scheggiò. Allora, con più foga, vibrò un secondo colpo. Lo specchio, che era stato egregiamente incollato con il silicone, alla parete, assorbì come nulla anche questo secondo colpo. Fu così che Michele si decise di lasciarlo lì. Volle però che fosse tinteggiato, come se la superficie fosse stata quella dell’intonaco. Dopo un poco vennero fuori altri problemi. Ora va detto con chiarezza che lì Romano non stava facendo un lavoro retribuito. A quelle condizioni, che impiegasse un giorno, un mese o un anno, non c’era proprio di che dolersi. Secondo voi quale credito aveva ormai il tempo di RU, se lui pennellava per l’amico una soluzione affinché fosse bellissima, e invece tutto questo a Michele dava solamente fastidio? Per sistemare quasi interamente un appartamento, anche questa volta non era stata impiegata più che una novantina di giorni, eppure il disagio era di chi riceveva tanti segni di amicizia, e arrivava a odiare lui che ci metteva così tanto tempo. Quando si accorse che si era giunti a un punto estremo, RU raccolse le sue cose e lasciò l’amico in due giorni, quasi di malo modo, affermando che il resto se lo facesse fare da chi era più veloce di lui. Tutte le volte che RU aveva tentato di portare al meglio un suo compito – dopo quel patto stipulato col Signore – aveva ottenuto alla fine l’assoluta mancanza di riconoscimenti. Gli successe anche dopo poco, perché al piano terra di quella casa c’era una galleria d’arte. Avevano apprezzato il bellissimo pavimento realizzato da RU e la titolare aveva un problema con sua mamma, che doveva sistemare una casa a Paderno Dugnano, ad una ventina di chilometri a nord di Milano.

In breve Romano e Walid assunsero il lavoro, nel settembre del 1995 e poi, giocando sulla buona fede, gli diedero, dopo oltre un mese di lavoro e la sistemazione d’un intero piccolo fabbricato, quel tanto che bastò a RU solo a pagare Walid, e lo fecero perché non avevano riconosciuto ben fatto un lavoro portato avanti veramente con poco o nulla di denaro. La proprietaria era una Anziana dottoressa che era stata anche consigliere dell’Ordine degl’ingegneri, e non ebbe considerazione alcuna per quanto gli avesse fatto quasi gratis uno che era stato Consigliere dell’Ordine degli Architetti. RU cominciò a chiedersi da che cosa stesse derivando questa sostanziale e improvvisa incomprensione nei suoi confronti. Nel campo delle sue ricerche peggio che peggio. Dapprima veniva anche qualche accenno di riconoscimento, ma poi tutto si metteva sicuramente a pollice verso. Succedeva anche di trovare simpatia, quando provava con i docenti, ma solo finché l’interlocutore non capiva che era messa in gioco la sua cultura per la pazzesca illusione d’un architetto d’avere qualche cosa da comunicare e da aggiungere, nel campo della fisica. D’un tratto capì perché: aveva rinunciato per voto a che il mondo lo capisse, quando, perché fosse fatta salva la vita a Lucy, aveva rinunciato ad ogni possibile riconoscimento per se stesso. Lucy era stata salvata, pertanto adesso avrebbe visto come non sarebbe riuscito a cavare più un ragno dal buco, anche se, nel momento in cui era andato in televisione, sembrava che chiaramente ci fosse attenzione per lui. Ora queste attenzioni erano assolutamente vietate. Lo stesso Costanzo, che si era impegnato, in trasmissione, a richiamarlo per sapere che cosa fosse successo dopo che era stato visto da tutte le parti, non rispettava la promessa; non rispondeva neppure alle sue lettere, per quanto interessanti esse fossero. La Provvidenza stava castigando RU al rispetto delle promesse fatte con l’adesione di tutta l’anima: non voleva colpe per la morte di Lucy. Se non fosse guarita, ne avrebbe avute, perché non si può trattare in questo modo una adolescente: probabilmente aveva molto contribuito ad ingenerare nella fanciulla quel malessere che l’aveva poi portata all’anoressia. Fu in quest’esatto momento, ed era il luglio del 1995, che RU ricevette una telefonata da quel versante: era la madre d’Anna Badari che gli chiedeva notizie della figlia e che si dichiarava preoccupatissima della sua sorte, perché era divenuta magra quasi com’era stata Lucy. RU si spazientì, s’incupì: “Ancora?”


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Questa donna, che gli aveva fatto morire i gatti e che aveva avuto messa a rischio di morte per mancanza d’alimento la figlia, ora era anche lei punita in questo stesso modo? RU si mosse subito e andò in Via Marostica alla casa di Anna. Citofonò. Fu fatto salire. La trovò che si gingillava davanti a lui con un maglia di lana, aperta sul davanti su una camicetta, afferrando i lembi di quella magia, e poi facendosi cingere con quella i fianchi, tanto da mostrare chiaramente quanto fosse magra! Romano l’invitò a fare un giro in automobile e tardò finché giunse l'ora di cena. Non si oppose ad andare in un ristorante e mangiò, normalmente. Incoraggiato dal fatto che almeno lei ingerisse cibo, almeno quando era in sua compagnia, l’invitò ancora nei giorni seguenti e sempre cercava l’occasione buona perché si consumasse qualche pietanza. Fu quando RU le svelò che ospitava in casa Lia, e che si trattava d’un aiuto, che Anna cominciò a sperare ancora che lui la soccorresse. Così gli rivelò in che condizione disperata ella fosse. Una volta guarita, Lucy era restata a vivere a Trento con il padre e lei era rimasta sola. Chiaramente era avvilita, a terra. Una sera in una taverna era stata avvicinata da un uomo che aveva cominciato a corteggiarla. Lei era in uno stato così pietoso che afferrò al volo l’occasione che la sorte le mandava e divenne sua amante. Solo quando ritornò serena, grazie a lui, si rese conto di che cosa avesse fatto, lei così raffinata. Quello era un cafone siciliano, un muratore grossolano che mancava di qualsiasi senso di finezza. A RU, in un attimo, balenò il ricordo di quando, giovane, trovandosi di fronte a lei che si lamentava della mancanza di una finezza che era la sua, per aver avvolto un pane in un giornale, in quel tempo ormai così lontano aveva pensato “Anna meriterebbe di trovare uno che fosse veramente un bifolco!”. Ora lei gli stava rivelando che l’aveva trovato! Tutti i tentativi che lei faceva, ormai da tempo, con lui per toglierselo di torno naufragavano miseramente. Raccontò che lei gli faceva scenate terribili, e lo offendeva in modo terribile e sembrava che il muratore patisse il colpo. Invece si caricava solo di tutta la grinta che poteva metterci proprio nel fotterla e alla fine lo faceva, lui la violentava. Sarà stato vero? Si era sentita stuprata dal marito e poi anche da lui... e se ne ricordava bene. Quell’uomo – a dire di Anna – trovava allora una scusa, assicurava che voleva solo parlare, ma, arrivato ad essere poi solo con lei, le saltava addosso e la violentava. Ora Anna stava chiedendo soccorso a lui. RU solo poteva aiutarla. Nino, suo fratello, no. Lo avrebbe ucciso! Solo Romano aveva la capacità d’affrontarlo e metterlo al suo posto. Ora tutto questo credito parrebbe una eccezione a quel discredito generale di cui faceva esperienza in quegli anni, dopo la guarigione di Lucy, ma era solo il primo tempo di una vicenda a due.

RU affrontò il muratore, poche sere dopo. Fu in strada, davanti a casa di lei, dove egli era in agguato da tempo: “Questa donna non è sola, ha me per amico. Non ne vuole sapere più di cose di questo tipo, dunque lei stia alla larga!” “Io però non ho fatto nulla di male.” “D’accordo; ma lei vuole essere solamente lasciata in pace. Anna, diglielo qui davanti a me!” “Sì, lasciami in pace!” “Sentito? A buon intenditor poche parole. Ha capito?” Dopo RU ospitò la Badari sulla sua auto gialla e si allontanò dicendole: “Devi assentarti dalla tua casa. Ti do io il modo di stare alcuni mesi nel sud dell’Italia. Così costui si stancherà d’appostarsi.” La convinse a passare quella notte in albergo. Fu quando si trovarono finalmente in una pensione che aveva posto e vide che sarebbe restata sola che cambiò idea. Chissà, forse aveva sperato che loro due tornassero assieme ... Decise e fu resoluta che era meglio se tornava a casa sua. Non volle sentire ragioni. Giunti intorno all’una di notte davanti a casa sua, il muratore era ancora là, ma Anna riuscì a sgusciar via e a varcare il cancello, richiudendoselo dietro; RU si allontanò verso casa sua. Passò di fianco a un bar e vide una pantera della polizia lì appostata. Percorse un altro chilometro, poi ritornò sui suoi passi ed andò da quei poliziotti. Spiegò la situazione, di costui che non si sapeva rassegnare a mollare la presa. I poliziotti gli spiegarono che potevano intervenire solo se chiamati dalla parte lesa. Un terzo non poteva denunciare nessuno per atti di questo tipo. Allora lui chiese solo la cortesia che lo seguissero. Il posto era a neppure un chilometro di distanza, gli bastava che il muratore vedesse la loro macchina dietro la sua. Furono comprensivi e lo seguirono. Il muratore, vista la pantera dietro la 131 gialla, si diede alla fuga. Due giorni dopo Anna raggiunse l’Architetto Amodeo che era ancora impegnato in quel tempo a sistemare l’appartamento del Colabella e lo trovò esattamente uguale a... un muratore; gli domandò in modo secco: “Hai chiamato la polizia?” “Sì, Anna. Con persone così o attui il metodo di tuo fratello Nino, e vai in galera, o fai intervenire le forze dell’Ordine che mandano in prigione gli altri! Questa persona deve sapere che tu sei difesa e che non sei sola.” Anna lo salutò e non si fece più viva. Forse la cosa che più aveva inciso era d’aver visto che, dopotutto, anche RU faceva il muratore. Discreditato perfino come Architetto, le preferì chi era quello che era.


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Un giorno di novembre del 1995, Sabato Lingardo entrò in casa e voleva parlare con Lia. La donna, assumendo un atteggiamento sprezzante nei confronti suoi, si chiuse nello studio, in cui dormiva e non volle dargli retta. RU cercò di convincerla: “Lia, parla con Sabato! Non dimenticare che tu sei qui perché egli è come un mio fratello. Abbi un pochino di riconoscenza con lui e non trattarlo scortesemente.” “No, egli non entra in camera mia.” “Quella non è camera tua, è lo studio mio. Apri e fa’ l’educata con Sabato.” “No. Io non apro.” “Tu invece apri.” “No” “Chiamo i carabinieri?” Nessuna risposta. La stanza restò chiusa a tutte le sollecitazioni di RU. “Guarda che li chiamo per davvero!” Nessuna risposta. Nemmeno lei prendeva più sul seri RU. Così lui chiamò al telefono le forze dell’ordine, che – era evidente – giammai si sarebbero mosse per una questione del genere. Lei non gli credeva più. L’indomani Lia fece fagotto ed andò via, in silenzio, dopo d’essere restata quasi sei mesi come una sorella, in quella casa. Non se ne seppe più nulla. Accade il peggio quando si perde il totale credito delle persone. È con questa totale perdita di valore che si concluse il secondo terzo della vita di RU, all’età di 58 anni, 29 spesi a divenire laureato architetto, e altrettanti a veder perso tutto il significato relativo ad essa. Non – però – per ignavia. Al contrario, nel 1993 aveva toccato un momento di divulgazione mondiale, quando era stato Ospite al Maurizio Costanzo Show. Proprio nel momento in cui aveva telefonato ad Anna per dirle: vedimi in televisione, dà uno sguardo a dove sto arrivando – per un estremo atto di amore – aveva rinunciato a ogni cosa offrendo il suo sacrificio a Dio e il Signore l’aveva accontentato. Anna l’aveva infine retrocesso a meno che muratore e una altra donna ospitata nella sua casa come una sorella, aveva preferito piuttosto andarsene che mostrare rispetto per quel Sabato Lingardo che le voleva bene e le aveva trovato un fratello e una madre. Ma anche questa diseredata preferì a tutto questo tornare a dormire alla sala d’aspetto della stazione, o chissà dove. Era il punto più basso possibile del discredito: preferire il ruolo di un cane randagio ad avere RU come fratello, Anna come mamma e Sabato come amico. Del resto erano un Fallito tre volte, un cotto nel cervello e una demente. .


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3° decimo numero 1° di 29 anni

Comincia l’ultimo gruppo di 29 anni della vita di Romano Amodeo. Essa praticamente riparte da zero. RU ha rinunciato davanti a Dio ad essere compreso e apprezzato per la sua opera; lo ha pattuito con il Signore per salvare la vita alla figlia della prima donna con cui lui voleva mettere su famiglia. Ebbene in questo ultimo terzo della sua vita che terminerà il 4 ottobre 2.025, come lui ha decifrato scritto sulla sacra Bibbia relativo al 7° fattore (Enoch, figlio di Iared, figlio di Malaleel, figlio di Kenan, figlio di Enos, figlio di Set, figlio di Adamo, figlio di Dio), ma solo a 10 anni di distanza dalla sua morte, c’è la sua umana ripresa. Il Progetto di Dio diede modo di fargli capire che il patto era stato accettato, ma che il Signore aveva per lui una grandissima sorpresa. Poiché aveva rinunciato a tutto il suo credito per salvare una vita, il Signore ne salverà due e la seconda... ma è meglio non anticipare tutto.


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1996

MocciaRo “Roccia mo’” Il nuovo periodo di 29 anni, l’ultimo che si poggia sul 10° numero primo, il 29, e lo considera nell’unità del tempo terrestre, dato da un anno, esiste nel segno di una grande novità. Entra in scena, portato da un amico di Sabato, un architetto che sarà la nuova Roccia, nel segno di un Pietro Ora, per RU, che così tanto si era investito nel voler essere il  che introduceva il Re nella sua Gerusalemme da avere rinunciato a tutto affinché Dio salvasse una ragazza che avrebbe potuto essere sua figlia. L’Architetto Mocciaro, sarà come il suo nome: Salvatore e aprirà a RU Internet e il Mondo cui la sua rete porta. Ma occorre procedere in ordine.

L’anno di questo nuovo inizio cominciò come era terminato il precedente, con Benito consulente alla Telos, e RU alle prese con Umberto, che seguitò a telefonare i suoi disperati messaggi di soccorso! Cercava una famiglia, ma egli pure aveva avuto, offerta da Sabato, l’occasione che cercava, di avere una casa assieme a lui e l’aveva rifiutata, giudicando Sabato uno che stava ancor peggio di lui.. Dopo un po’ non chiamò più. L'appartamento di Sabato ricominciò a riempirsi di tutto il resto che egli cercava di salvare: ombrelli rotti, scarpe, borse rotte, tutto il possibile rottame che gli arrivava sotto mano e suscitava in lui il suo terribile senso di pena. Continuava solo ad introdurre rifiuti, senza mai scartarne uno. Anche lui li vedeva conciati peggio di sé e dunque li accoglieva in casa come avrebbe fatto con Umberto. RU ebbe allora l’idea di stare più vicino al suo amico e di reintegrarlo alla sua famiglia. Era stato disposto ad accogliere Umberto, aveva accolto Lia, perché non aiutare proprio lui a tenere più diritta la barra? Frequentava i dottori del centro Psicosociale e si faceva controllare e seguire da loro. C’era una dottoressa che cercava di renderlo responsabile e si rese colpevole d’una gran colpa, nel tentativo d’indirizzarlo al meglio, Sabato infatti le ventilò la possibilità che RU e sua madre si unissero assieme a lui e si sarebbero trasferiti loro due da lui. Avrebbero risparmiato l’affitto della casa di Piazzale Cuoco che – soprattutto per colpa della donna che abitava al piano di sotto e sentiva anche quando fiatavano – sarebbero stati finalmente anche in pace. La dottoressa . che pure aveva saputo che quella casa gli era stata resa nuovamente abitabile da RU, che aveva disegnato e costruito anche i mobili, decise che non era il caso: Lingardo ce la doveva fare da solo. A quanto pare anche al Centro Psicosociale avevano sconsigliato che Sabato si mettesse in casa RU e la sua mamma. Un giudizio che poteva avere come motivazione solo quel patto che RU aveva fatto con Dio. Parlandogli, lui gli diceva: «Lo so, Signore, io stesso ho rinunciato ad avere credito con le persone, e non ti posso chiedere di aiutarmi su questa linea. Sarebbe come se io mi dichiarassi pentito di quel che ho fatto. No, non sono pentito, anche se non ho mai avuto la gioia di vedere Lucy guarita. A me basta che lo sia.» Forse per questa ragione fu il Signore a fare una deroga, e procurò a RU quel sostegno e quel lievito di cui egli aveva bisogno. Infatti è veramente improbo fare sempre tutto da solo, senza chi realmente ascoltare e rispondere. Il Signore così decise che avrebbe risposto a lui realmente attraverso la voce amica di un Salvatore che, essendo Mocciaro di Cognome, era davvero la Roccia Mo , cioè adesso, nel momento in corso, sulla quale – come su un


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nuovo Pietro, la Roccia, egli stesso si poggiasse nell’erezione della chiesa di Gesù in linea con il suo atteggiamento di del Signore Barbara, che nel frattempo viveva a Caronno Pertusella con suo marito, e aveva trovato posto in una Scuola di Saronno, come responsabile della segreteria, vedendo le condizioni di sua zia era la prima a non capire proprio perché suo cugino non facesse almeno la domanda per una assegno di accompagnamento. L’avrebbero accolta magari molto tempo dopo, ma poi quando la riconoscono ti danno gli arretrati che partono dalla data della domanda. Ecco come entra in scena il Salvatore. Fu Sanato che in uno dei primi mesi proprio pretese che RU telefonasse ad uno studioso che lui aveva conosciuto e che metteva avvisi alla stazione perché cercava cavie umane per esperimenti. RU, nonostante fosse stato piuttosto scottato da certi strani amici di Sabato,tuttavia lo fece, seppure a malincuore, affinché la smettesse di insistere.

emosistemi

Conobbe così l’autore di tutte le scritte “ ” dipinte come graffiti sui muri delle strade, lui si dimostrò molto interessato alle sue teorie, tanto che un giorno lo chiamò, annunciandogli che voleva andare a trovarlo a casa con un tipetto sveglio, un ragazzo che definì molto, molto interessante. Fu così che RU conobbe, assieme all’amico del Lingardo, l’Architetto Salvatore Mocciaro, che si dimostrò davvero molto interessato agli studi di RU e gli telefonò moltissime volte, chiedendo spiegazioni di tutti i tipi. Mocciaro fu l’unica eccezione,e clamorosa: quella che solitamente “confermava la regola” ormai accertata in tutti i modi, che nessuno gli desse retta. Non era solo uno che gli dava attenzione, ma anche aiuto, poiché presto Salvatore si mise con pazienza a leggere tutti i suoi scritti, per controllare se le affermazioni andavano contro alle verità della scienza. Apparentemente RU ne trovò anche un altro, ma solo in apparenza. Scovò un consulente cercando gli avvisi nella bacheca di Fisica in via Celoria, e trovò un esperto in fisica e matematica che si offriva per la preparazione privata degli studenti universitari. Al prezzo di 100.000 lire l’ora iniziò così un lungo controllo, durato tutto il 1996. RU sottoponeva quattro paginette della sua teoria al suo controllo, e alla fine il testo gli ritornava con tanti segni di matita rossa e blu a seconda della gravità degli errori. Conforme al patto con Dio che nessuno gli credesse, le quattro paginette erano piene di errori. La cosa però a quel punto aveva un seguito a tu per tu: si incontravano e discutevano degli errori,

Accedeva a quel punto sempre una cosa sorprendente: ogni errore che era stato rilevato, sembrava esserlo, ma solo sulla base delle osservazioni che la scienza ha in corso. RU introduceva condizioni nuove alle quali la scienza non aveva pensato. E poiché questo professore era competente e ben elastico nel suo ce5rvello, era in grado di capire quali risultati accadevano con l’aggiunta di quelle nuove condizioni. E allora quelli che erano stati rilevati come errori, erano solo conclusioni avventate fatte dalla scienza corrente, che non le aveva pensate tutte. Tutti e due si resero presto conto che il metodo seguito da RU, che scendeva nel particolare partendo da presupposti certi, era molto più affidabile, se le deduzioni erano corrette, poiché – come detto – partivano da dati esattamente conosciuti. SE ad esempio si fissa il ciclo 10, in principio a ogni altra valutazione, per indicare un ciclo intero di presenza, se una costante ciclica non risultava conformata esattamente in decine, era perché, partendo dal basso, non si sapeva dove si andava a parare andando in alto. Viceversa, discendendo dall’alto, si arrivava a un dato che era certo. Dopo un anno che andò sempre così: sempre errori colti subito... che poi non erano errori quando ragionavano insieme, il consulente concluse che la teoria era perfetta. I guai venivano con le altre varie riviste, come “Il Nuovo Cimento” (rivista dell’Associazione Italiana Fisici), perché gli expertise segreti fatti fare da Esperti (come il consulente di RU) sortivano gli stessi primi effetti che risultavano sempre, nella prima lettura fatta di un testo, da quanti non avevano potuto introdurre le condizioni nuove – viste da RU – e non viste né da loro, né dalla scienza corrente. Infatti erano consulenze segrete, quelle cui ricorrevano le riviste. A nessun Esperto sarebbe molto facile fare le pulci a un preteso collega, a viso aperto. Quando invece agisci nell’ombra, sei libero di dire la tua senza tanti peli sulla lingua... dal momento che colui a cui tu le fai non sa chi sei. Per questa Ragione RU tenterà sempre di far pubblicare le sue deduzioni da dati certi, senza mai riuscirci, poiché nel cammino inverso praticato dalla Fisica sperimentale, che va dal particolare, essa parte da un qualcosa che vede e non conosce ancora e da lì – basandosi su quella partenza ignota – arriva a conclusioni tali per cui, se la base di partenza deve essere unitaria (ma non lo è all’atto pratico), da essa non si risale al valore esatto, ma lo si giudica tale. Infatti se pongo 1 quello che è un vero 1, allora 16 = 1, ma se se lo pongo 1,2 ( e così lo giudico 1) arrivo con 1,26 a quasi 3, e il risultato è creduto esatto, ma non lo è. Non si è liberi di porre 1 quello che non è veramente 1 proprio per questa fondamentale ragione. Ora il metodo inverso di Amodeo partiva da 1 e ne estraeva la radice sesta, arrivando al vero lato da considerare 1 esattamente poiché lo è. La radice sesta di 1 è sempre 1. Con un esperto nascosto, che fa il suo expertise segreto, per il quale è notorio che quel valore (falsamente unitario) elevato a 6 è quasi 3, l’affermazione di RU che quel valore è 1 risulta sbagliata, e RU non gli può dimostrare invece perché è giusta.


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Ora accade che in partenza RU non poteva sapere quali errori gli avrebbero trovato (avrebbe dovuto conoscere totalmente come giudicavano loro, cosa che non conosceva). Di proposito non aveva voluto saperlo, per non cadere inavvertitamente nei loro stessi errori. Se infatti tutti ti dicono (sbagliando) che non c’è alcun modo per andare da A a B, è inutile che tenti di provare tutte le vie seguite da essi. Tu segui la tua, e se la tua da A porta a B, tu hai ragione e han torto tutti gli altri. Poiché se un solo percorso raggiunte un obiettivo, è del tutto esatto che tutti gli altri non lo raggiungono. In sostanza – ridotto all’osso – RU ha sempre spiegato come da A si procede e si arriva a B, e si è trovato contro expertise segreti che hanno detto che era errato, poiché tutte le vie seguite dalla scienza conseguono altri risultati. È paradossale, ma è così. RU avrebbe dovuto sapere, in ogni singolo caso, che cosa non avessero considerato, che invece c’era realmente in atto, per avergli negato la pubblicazione dei suoi articoli. Nessuno lo prendeva sul serio. Ora voi lettori non trovate alquanto strano, che un Professore preparato e intelligente, che per un anno intero ha accertato in una tesi rivoluzionaria la mancanza di errori – fatta questa scoperta – poi non ne tenga alcun conto? Di solito non è così. Essendo intelligente ed essendosi scoperta l’America, di solito uno preparato e intelligente lo proclama a tutti! Non si accende una candela per tenerla nascosta sotto un letto... ma questo è però vero solo quando questo scopritore dell’America (Romano) non ha offerto a Dio di non essere creduto da nessuno, affinché Lui salvi una vita. Sì, perché alla fin fine a quel Fisico consulente di Amodeo, sembrò sempre che la sua teoria era – per certi versi – gratuita, come un bel modello che poi non servisse a nulla. Come a voler dire: “Che ci vai a fare in America, quando tu Colombo vuoi solo scoprire la via più corta per le Indie?”

All’atto pratico si dovrebbe rivoluzionare tutto, quando il sistema che abbiamo in atto ci ha fatto andare sulla Luna e arrivare dove siamo arrivati. La perfezione cui spingi tu è inopportuna! Noi avremo sempre errori di misurazioni con cui avere a che fare! «È vero – risponde Amodeo – ma una cosa è avere questo nostro limite è un conto avere errato il valore unitario, in quanto è di per se stesso imperfetto. Siamo allora ciechi che non hanno nemmeno un ambito certo e sicuro in cui muoversi e fare errori». L’affermava in alcune conferenze che cominciava a promuovere a Milano. In una di queste fece filmare tutto l’intervento, ma poi, quando anni dopo l’avrebbe cercato non l’avrebbe ritrovato. La conferenza di cui parlo riscopriva il numero perfetto di Pitagora e il ciclo della decina che non era più solo numerologia, quando divenne il riferimento per agganciare ad esso le unità nuove imposte come il metro e il chilo, da riferire ai secondi tramite il riferimento di tempo e spazio al moto libero del pianeta terrestre. Il tempo, che era misurato sulla base delle due rotazioni della terra – la propria e l’impropria – trovava in naturale riferimento al metro e al chilo se anche le due nuove unità partivano dalla stessa circonferenza terrestre. Tutto quello che diceva era giusto... ma a che serviva? Una soddisfazione riuscì a togliersi e fu con il calcio. Aveva iscritto il torneo al campionato dell’Endas, giocato alle Lavanderie di Segrate ed aveva messo in squadra i suoi due nipoti: Marco e Andrea. Il campionato procedeva senza infamia e senza lode, come i tanti giocati in quegli ultimi anni, in cui non aveva mai cessato di praticare il calcio. Ad un certo punto anche i suoi giocatori ebbero da ridire: Tutti si alternavano in squadra, tranne le persone della famiglia Amodeo. RU li riunì e chiarì che tutti i soldi per le iscrizioni, per i campi e per le spese arbitrali le affrontava lui e lo faceva per il piacere di giocare con i suoi amici. Lo capivano? bene, altrimenti bene lo stesso. Iniziarono a protestare, così fece qualcosa che non aveva mai fatto in vita sua: sciolse quella squadra e tesserò immediatamente tutti i giovani amici dei nipoti e la squadra si ritrovò con tutti sedicenni e il capitano di 55 anni suonati. Chi si trovò più a disagio di tutti fu lui stesso, perché quei ragazzini correvano molto e usavano poco il cervello a differenza sua che ormai correva poco e ragionava forse troppo. Questo provvedimento, preso anche nel calcio, dimostrava davvero che gli si era presentata nella vita una situazione tutta nuova: nessuno lo capiva più, nemmeno gli amici del calcio con i quali giocava ormai da anni e che non avevano avuto mai da obiettare prima sulle scelte che faceva nella sua squadra, finanziata da lui e impostata da lui secondo le sue direttive.


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Ebbe delle rogne anche con i giovani ragazzi che avevano occupato il posto degli altri, i quali, trovandosi tutti tra coetanei, non si fidavano molto di lui che avrebbe potuto essere quasi il loro nonno e non capivano quasi niente dei consigli che gli dava e non gli passavano la palla che raramente. RU comunque fu contento, perché trascorse molto tempo assieme a quei due suoi unici nipoti maschi, che non aveva visto che nelle feste comandate. Marco era cresciuto in altezza e giocava con molta calma, da centrocampista, Andrea era restato d’altezza media ed era un attaccante, frenetico e scattante, molto di più di quanto fosse stato lo zio alla sua età. Avevano ereditato la passione per quello sport, ma, a differenza dei fratelli RU e BEN, Marco e Andrea, pur essendo gemelli, erano uno interista e l’altro milanista. Nella lunga attività, RU aveva conquistato trofei, targhe e un mucchio di medaglie: ormai era sempre premiato con la coppa per il giocatore più anziano, in tutti i tornei cui prendeva parte. Specie a San Donato presso I Riberesi, ragazzi di Ribera in Sicilia, che avevano ricostituito un gruppo, la loro squadra e gestivano un campo ceduto loro dalla Snam, nel quale per alcuni anni RU era stato ospite con la sua squadra. Perfino Maria Teresa Mazzola una volta era stata a festeggiare la partecipazione ad uno dei tornei estivi, che sfociava poi in un gran pranzo offerto da Matteo Chinzi in mezzo a tanta, tanta allegria. Quanti amici ormai aveva, in giro: ragazzi che erano stati con lui, al lavoro o alle tante iniziative che aveva assunto nella sua vita. Perché in certi anni aveva partecipato contemporaneamente a 3 campionati di calcio: all’università con i Brocchi e gli Assenti, al sabato con la Esse di Raho, Cavalieri e Vivian; alla domenica con l’Anniverdi. Si era allenato giocando ed era sempre stato un organizzatore imbattibile, uno che entrava dalla porticina e diveniva presto il numero uno in tutto quello che faceva... Arrivato però, a questo punto, era finito in stallo, bloccato in ogni cosa: lavoro, sport e sentimenti. Il voto capestro che aveva fatto a Dio per Lucy si faceva sentire.

1997

Margherite impossibili. N. 2 Mentre Benito, consulente alla Telos, seguitava a prestare servigi ai massimi livelli, per RU il 25 gennaio del 1997 erano quasi tre anni che lui e la mamma si erano trasferiti in Piazzale Cuoco, e si festeggiava il compleanno di lui. RU stava spiegando da dieci minuti a sua madre, che accompagnava nella solita passeggiata, che l’apparente solitudine, lo starsene nel piccolo proprio guscio, quando è per amore, ha il palcoscenico enorme di tutti gli uomini che siano mai esistiti. Sono tutti nascosti e contenuti nel polo positivo di quell’onda elettromagnetica che è il nostro “io”, comune riferimento di tutti gli uomini esistiti ed esistibili: in una sola parola, Dio. “Mamma, non siamo soli... tutti sono con noi!” Fu proprio allora – come per dimostrare la verità che stava affermando – si levarono intorno a loro, sbucati quasi dal nulla, degli estranei, a far loro veramente festa. Dapprima tre ragazzini, pieni – come angioletti – di dolcezza e gioiosa ammirazione per la sua mamma ottantasettenne; e poco dopo, nel bar Fortuna di via del Turchino, ecco Paola Vecchi, una avvenente e sconosciuta frequentatrice del bar,


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che alla prima occasione e saputo che fosse il suo compleanno, s’inserì, con una bottiglia di spumante offerta a tutti da lei in suo onore. Paola gli si presentò subito con la sua intraprendente spudoratezza, poi vi furono telefonate, gli lesse le sue poesie e le sue novelle e si accorse che la prima impressione aveva corrisposto esattamente alla sua verità. RU scrisse un libro su di lei, raccogliendo tutte le sue poesie e le sue novelle ed aggiungendoci la sua personale reazione emotiva. Non le diede del Lei quando l’incontrò e fu perché gli parve d’averla già vista e conosciuta da sempre. Lei, infatti, non metteva distanza tra le persone, usava consapevole la sua avvenenza e andava dritta allo scopo, che poi non sapeva neppure lei con sicurezza quale fosse, agitando il complesso delle sue virtù e risorse e superando alla grande ogni formalismo. RU vide in lei fin da subito, l’interlocutrice esatta per l’uomo, laddove si voglia l’incontro, ma anche l’appassionante scontro con l’altro sesso, per il suo essere femmina, compagna e rivale. La donna è perennemente in bilico, tra l’essere femmina e l’essere mamma, e non accetta veramente d’amare se non “sente” anche la bramosia di chi voglia possederla, a cui poi si concede solo però se alla fine ciò indica la sua stessa vittoria. È insomma un vero e proprio antagonismo, quello che s’accende tra gli opposti poli e che poi sfocia in tutte le possibili forme d’adattamento tra le due parti. Paola Vecchi aveva la nostalgia d’un padre che non aveva mai avuto e RU fu adottato a padre, da questa ragazza che aveva 16 anni meno di lui e che cercava, disperatamente, di coronare il suo sogno d’amore con il suo Marcello. RU aveva così risposto ad una “lettera a suo Padre” che Paola aveva scritto: “Domani sono nove giorni che ho compiuto 59 anni: ormai credo che il mio carattere non cambi più. Eppure anche io, dopo d’aver terremotato in lungo e in largo la mia vita e d’essere cambiato nel colore della pelle come un camaleonte, sento di non essere molto diverso da quel ragazzo che sognava grandi cose, e anche io pongo oggi tante domande e assieme tante risposte che credo d’avere trovate. Una sola risposta io non ho ricevuto nella mia vita: “perché a tanti che non li desideravano sono stati dati figli e a me no?” E allora me li sono presi, adottati, quasi senza neppure che essi lo sapessero. Così ne ho avuti quasi 50, ed ora mi accorgo che quello più bello e desiderato, e che non sapevo nemmeno d’avere, mi si è aggiunto spontaneamente, come un dono della vita, nel giorno del mio compleanno. Sei una figlia arrembante, che da subito ti sei fatta largo nel mio sentimento e a cui ho voluto bene con gratitudine, senza che io nemmeno sapessi perché. Solo poi ho capito, quando mi hai scritto, il giorno 8.4.1984, una lettera che solo poi io ho ricevuto, il perché di questa breccia che si è aperta e attraverso cui sei penetrata tu e la tua vita.

Paola, questa può sembrarti solo una finzione, ma io sento davvero vibrare dentro di me il tuo stesso sangue, tu carne della mia carne, frutto d’un mio momento d’amore...” Ma neppure questo era il destino. Il rapporto paterno si macchiò, perché lei cominciò ad usare Romano mettendolo in mezzo in un primo tempo tra lei e Giuliano. RU preparò per Paola l’edizione d’un libro così bello che lei non se lo sarebbe mai immaginato, e poi lei lo deludeva, perché, chiamata a fare la sua parte nella redazione di quest’opera, si comportava con estrema sufficienza, tanto che RU si urtò per la prima volta con lei proprio quando glielo finì e lasciò le copie tutte al bar Fortuna, perché gliele dessero. Lei, che pure lo ammirava, si comportava talora come se non lo prendesse assolutamente in considerazione e questo gli dispiaceva. Lei gli telefonava, lamentandosi che Giuliano aveva approfittato di lei, e lo aveva fatto in strada, prendendola quasi con la violenza ed egli le consigliava di lasciarlo, di non dargli più corda. Ma poi veniva a sapere che gli aveva dato una delle poche copie del libro stampate in formato grande, A4. Paola non era capace di capire un amore normale. Era stata allevata dalla nonna, a cui la madre l’aveva affidata dopo d’essere stata messa in cinta da un avvocato che poi l’aveva abbandonata. Suo nonno la picchiava e poi l’accarezzava e Paola aveva imparato da lui a capire l’amore in quel modo: se uno non usava la violenza con lei non riusciva a catturare le sua attenzione, non lo vedeva proprio. RU, che cercava di farle capire come l’amore fosse ben altro, si accorgeva di non riuscire per l’assoluta mancanza di potere che all’atto pratico aveva su di lei chi non alzava mai la voce e neppure mai le mani, nemmeno per uno schiaffo. Ecco, se RU avesse usato le maniere forti, forse solo allora sarebbe stato capito, perché solo allora lei avrebbe prestato attenzione a lui e all’autorevolezza delle sue parole. Eppure Paola lo cercava, si vedeva che aveva molto affetto per lui. Anche sua figlia Chiara, di nove anni, si era attaccata ad Amodeo quando, per un breve tratto, aveva intuito che poteva anche divenire una specie di suo padre. Paola era una delle pochissime persone che riuscivano a parlare con Anna e, soprattutto, a far parlare lei. E allora l’ultraottantenne raccontava della sua infanzia, le unica cose che ricordava ancora nitidamente. Una sera Paola domandò a RU un favore ed egli, assieme a sua madre, percorsero quasi duecento chilometri per farglielo. Quando RU rientrò a casa e si presentò, con sua madre, sul suo uscio di casa, lei – che era dentro con Giuliano, e non doveva esservi – non lo volle fare entrare, né tirò fuori la testa dalla porta. RU le scrisse una lettera annunciandole che non sarebbe più passato da lei e che sua figlia non lo chiamasse, se per caso aveva bisogno. Chiamasse chi sapeva lei. Iniziò a scrivere allora, uno al giorno, una serie interminabile di racconti e glieli infilava nella casella della posta: una specie di Mille e una notte, i cui personaggi


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erano solitamente animali. In pochi mesi ne scrisse quasi 100, e fu un peccato che andarono distrutti quando, legatasi lei finalmente con chi aveva veramente nei pensieri, Marcello, per fargli piacere li stracciò tutti. Anche questa fu una cosa che addolorò RU, perché egli aveva promosso lei, cercando di riportarla al livello del diploma che lei aveva, mentre per sbarcare il lunario si era ridotta a fare i servizi nelle case; l’aveva promossa stampando le sue poesie e le sue prose, mentre lei, per fare contento un altro, distrusse le sue. Legatasi a Marcello, una sera però fu coinvolto, perché Paola lo chiamò in soccorso: egli l’aveva picchiata, le aveva buttato addosso indumenti in fiamme e, dopo averla afferrata per il collo nel tentativo quasi di strozzarla, non voleva andarsene dalla casa che lo aveva ospitato. E RU si trovò nuovamente nella condizione in cui si era già trovato con Anna e il suo muratore. Marcello fu fatto andare via e Paola attinse forza dal grande equilibrio di quel suo mancato padre. Mancato perché l’adozione, che pure era stata tentata, non poté avvenire a causa d’una legge che l’impediva quando non vi fossero almeno 18 anni di differenza d’età, e tra lui e Paola erano 17 anni e tre mesi. Quando lei tornò sui suoi passi e si accorse che amava Marcello, lo sentiva – ed era per quel senso infame dell’amore datogli dal nonno – perché egli la picchiava, cominciò a servirsi di RU facendo balenare al suo compagno che fosse un temibile rivale, non come un padre, ma un amante. Quando lei litigava perché Marcello non aveva fatto quello che lei sperava facesse e decideva di piantarlo, piangeva sulla spalla di RU e lui sapeva talmente calmarla e rimetterla in sesto che lei subito si scordava del malessere nei confronti di Marcello e chiudeva immediatamente la questione, come se quanto le avesse dato Romano glielo avesse dato lui. Accettava da questa persona di tutto, perfino d’essere picchiata. Allora si ribellava e, per sbattergli in faccia il pericolo, gli assicurava che RU l’indomani sarebbe andato a vivere con lei. Poi stava male, sveniva o fingeva d’essere svenuta e sua figlia Chiara lo chiamava disperatamente al telefono: “Vieni Romano, la mamma sta male!” E RU percorreva in un baleno i quasi 200 metri di distanza tra le due case e la trovava ancora lunga e distesa per terra. La doveva sollevare di peso, portare sul divano, farla rinvenire, se era svenuta davvero. Allora cominciava a muovere prima gli occhi sotto le palpebre chiuse e lentamente le sollevava, dicendo “Dove sono? E cosa fai tu qui?” Tirato dentro non come un padre, RU assunse presto i connotati diversi, ma non si amarono neppure una volta, anche se per lei questo non era un gran problema: aveva avuto due mariti e una figlia da ciascuno, ma Simona era già grande e viveva con il padre.

A un certo punto RU finì così coinvolto nelle beghe di Paola che fece sul serio con lei, cercò di mettere ordine nella sua vita, e di dare anche un avvenire migliore a Chiara, che gli si era affezionata. Ma neppure sotto questo profilo aveva più armi adeguate: non lo prendeva sul serio. Si ricordò all’improvviso del voto che aveva fatto a Dio “Non farmi più prendere sul serio da nessuno, ma salva Lucy”. La spiegazione doveva essere questa! Un giorno dovette intervenire con i servizi sociali perché qualcuno aveva mandato lettere anonime velenose nel tentativo di farle sottrarre Chiara. Fu determinante la sua immagine e le affermazioni che egli fece, perché quella lettera non fosse considerata dal Tribunale dei Minorenni. Anche lo psicanalista della Vecchi aveva voluto conoscerlo e alla fine gli aveva rivelato che quella donna non avrebbe mai potuto capire le qualità che egli aveva; n’era ammirata ma per lei non contavano. Lei prendeva sul serio solo gli uomini che le volevano bene maltrattandola! Anni dopo la stessa Paola si chiederà, stupita con se stessa, come mai non lo avesse preso sul serio: RU aveva tutto per essere considerato con la massima attenzione... Ma lei non sapeva che c’era quel voto capestro fatto a Dio, che avrebbe difeso RU dall’esser preso sul serio da tutti. Se Paola l’avesse considerato con l’attenzione che forse anche si meritava, RU sarebbe stato afferrato nuovamente in una prigione di cose da fare, e con urgenza, perché quella famiglia aveva un mucchio di problemi; mentre l’unica, vera e sola cosa che ancora egli doveva fare, eccetto le attenzioni per la mamma, era d’aver cura dell’altra sua Mamma, la Madonna, che l’aveva fatto restare in vita perché sostenesse, con la sua, il Verbo di Gesù. Infatti, RU, con tutte le sue ricerche, stava arrivando proprio a questa conclusione: affermare la fondatezza del messaggio cristiano a partire dalla ragione. Gesù andava creduto in un modo tutto nuovo: perché aveva detto la verità. RU stava andando con decisione contro la logica del mondo, per confutarla, scientificamente. Secondo i contenuti espressi dalla scienza, secondo RU, si doveva arrivare a credere nella vita eterna dell’anima; e ciò perché essa si manifesta com’energia elettrica e tutta l’energia è riconosciuta e posta essere eterna proprio dalla scienza, attraverso il principio di conservazione dell’energia. Con l’io come attività elettrica cerebrale si arriva a capire che anche l’io, come tutti i fenomeni elettrici, era un fenomeno indotto. L’induzione è una catena che si trasmette di primario in secondario in terziario, ecc., tutti circuiti chiusi e non comunicanti tra loro, come attimi ciascuno eternamente relegato nella sua data. Se allora io ricevo induzione, e seguito a riceverne, è perché in fondo a tutto, al principio dei tempi, c’è un Potere Assoluto che seguita ad indurre


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l’attività elettrica esistente sul tutto l’insieme. Se mio padre fosse veramente morto adesso, io da chi ricevo corrente indotta adesso? Tutta la linea, dal principio fino a me, deve essere attiva elettricamente, se io seguito a essere così indotto. Dunque tutto esiste e coesiste, passato e presente. Ma allora anche il futuro, che è solo un evento che ancora non è stato visto. Questa è la dimostrazione scientifica dell’esistenza di Dio. E la risurrezione è l’inversione del flusso elettrico, sul filo della vita, quando il Nord del polo magnetico, finito sul Sud, poi ritorna a Nord. Il Nord che si sposta sul Sud è la causa che appare divenire l’effetto e noi tutti, vivendo, stiamo vedendo solo e sempre in questo modo. Per vedere l’effetto che rientra nella causa dovremo aver raggiunto e superato il punto estremo del percorso; e quel punto è la morte in quel senso, in quel verso – uni-verso – che tutti gli altri continuano a vedere nell’Universo. Allora l’elettrone che torna indietro è la dimostrazione scientifica di quella risurrezione che il nostro flusso elettrico (l’anima) vedrà quando inizierà a manifestarsi l’altra direzione, quella mossa dallo Spirito Santo, che trascendendo dal Nord che diventa Sud o dal Figlio che genera il Padre, mette in atto l'esistenza inversa, quell’unica che riporta il Figlio nel Padre e chiude il circolo. La risurrezione del nostro flusso elettrico sarà la percezione a ritroso nel tempo, una percezione che sarà reale e che sarà consentita dal fatto che le stesse cose sono percepite tuttora a rovescio da chi sopravviva. È veramente il caso dello Jo - Jo. Chi ha svolto tutto lo spago e ha causato la rotazione del corpo, ora dalla stessa rotazione è costretto ad assistere al riavvolgimento dello spago. La stessa rotazione, per un Jo - Jo che avesse uno spago più lungo, porterebbe ancora al suo svolgimento. Per cui, dato lo stesso giro corporeo, si assiste allo srotolamento o all’avvolgimento solo a partire da quanto è personalmente lungo il filo d’ogni singola vita. Il corpo comune, visto girare realmente, sono tutti i corpi liberi dell’universo, visti realmente dotati di rotazione, di spin, da quello dell’elettrone a quello della Terra e di tutti quanti, astri e pianeti. Dunque non era in potere di Paola di prendere sul serio RU, per quanto serio e attendibile potesse mai essere. E RU farà ad un certo punto di tutto per farsi accettare da questa ragazza, ma non ci riuscirà. Anche se Paola prenderà sempre sul serio la sua buona fede, non prenderà mai sul serio lui. E ciò non gl’impedirà d’occuparsi delle cose di Gesù. RU, accorgendosi di non potere sperare più d’essere veramente preso sul serio, cominciò però ad accorgersi anche che stava assistendo solo ai fiaschi che faceva nelle intenzioni, per cui ad un certo punto cominciò a ragionare così con Dio:

“E’ un po’ ingiusto! D’accordo, sono stato io a rinunciare a tutto, e tu mi fai vedere d’averlo gradito, ogni giorno. Il contraccambio però non lo vedo mai: Lucy, graziata dall’anoressia, è via a Trento” Un giorno di maggio del 1997 ottenne un appuntamento con il professor Fazio, docente di Fisica che era stato anche uno dei professori di Benito. Stettero a parlare quasi due ore e il Professore rivelò ad Amodeo che aveva fatto un lavoro meraviglioso. Esso aveva una sola difficoltà: era troppo vasto. Era un nuovo sistema così completo e generale che avrebbe fatto fatica a far capire. Per riuscirci avrebbe dovuto spezzettare tutti gli argomenti e porli all’attenzione uno dopo l’altro. Per carità: non provasse a presentare tutto assieme che avrebbe solo generato un impatto assolutamente negativo trovando l’assoluta impreparazione del mondo scientifico ad accogliere questo nuovo quadro di riferimento. Parole, come si comprende, molto lusinghiere. Se si aggiunge che Fazio aveva dichiarato ad Amodeo che era disposto senza alcun dubbio ad aiutarlo, si comprende come quest’importante professore della Facoltà di Fisica di Milano aveva capito bene. Benito, sentito che il fratello sarebbe andato a presentare il suo lavoro al suo professore d’una volta, si era messo probabilmente le mani tra i capelli. Fu veramente stupito quando RU gli raccontò come fosse andata e quanti elogi e complimenti avesse ricevuto da quel professore di cui conosceva la severità. Allora, per la prima volta, cercò d’andare un poco più a fondo, nell’osservare il lavoro del fratello, perché gli chiese di portare anche a lui quanto aveva dato al professore. Fu Benito che cercò d’istruire l’illustrazione del nuovo metodo di calcolo inventato dal fratello. E RU portò a Fazio quanto redatto da Benito. Il suo vecchio professore fece tutta una serie d’appunti, e RU cercò di svilupparli.


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Ma era difficile ed estremamente complesso. Quanto richiesto da Fazio, di spezzettare gli argomenti, era reso impossibile dal fatto che la costruzione tutta nuova di Amodeo si puntellava tutta nel suo insieme, si autogiustificava. Quando un sistema è complessivo, ogni singola parte non sta in piedi da sola. È come pretendere che stia in piedi solo un pezzo d’un arco che è sorretto solo quando c’è tutta la volta. Nel bel mezzo di queste cose s’inserì nuovamente un problema di cuore, di sentimenti e RU, avendo deciso di dover mettere chilometri tra lui e Paola Vecchi, partì di nuovo per il Sud dell’Italia, sospendendo, alla metà di giugno del 1997, i lavori con il Professor Fazio e non riuscendo più a riprenderli al suo ritorno poiché aveva lasciato l’insegnamento. Il docente non rispose più ai suoi appelli, alle sue chiamate. RU si rese conto che anche questo comportamento era divenuto incomprensibile, per un assoluto voltafaccia senza nessuna spiegazione. Non riuscì più, per quanto ci avesse provato, a mettersi in contatto con quel professore. Giugno 1997. Fu per Paola Vecchi che RU, un giorno alla metà del giugno 1997, abbastanza addolorato, prese in macchina con sé sua madre e partì per il Sud. Viaggiò fino a Vasto, andò a trovare i suoi amici Anna Albani e Lino Raspa che da due anni si erano trasferiti lì da Milano. I due amici, saputo che voleva restare un po’ via da Milano, gli proposero un villaggio di Bungalow sul mare. Era ancora chiuso, ma fecero uno strappo e diedero un ricovero a RU e sua madre. Nella camera c’era un letto a castello ed egli si mise in alto. La mamma, mentre egli era lì sopra, si alzò e, rigida come un pezzo di legno, perse l’equilibrio e cadde di schiena per terra, rischiando d’urtare la nuca contro lo spigolo d’una sedia. Ancora una volta la Provvidenza impedì che si facesse male. Al mattino, per assicurarsi che la mamma non si allontanasse mentre egli andava a fare la spesa, cercò delle tavole e le legò alle quattro piantane del letto, in modo da creare un recinto da cui non potere uscire. Si allontanò solo un attimo, senza chiudere l’uscio. Quando tornò dopo dieci minuti, sua madre vagava seminuda sul bordo della scogliera. Aveva saputo chissà come uscire dal suo box e dal bungalow. La ricondusse all’interno, le diede una zuppa di latte e biscotti, quelli frolli che vi si scioglievano dentro, la rivestì e la portò con sé a Vasto, non fidandosi più a lasciarla sola. Si assentò un attimo per entrare nel supermarket e la lasciò in macchina. Poi si mossero. Aveva percorso nemmeno mezzo chilometro che Mariannina gli s’inclinò addosso. La guardò, si atterrì: aveva gli occhi aperti e incoscienti, strabuzzati, la bocca aperta e il corpo afflosciato, da persona svenuta.

Fermò la macchina e, reggendo il suo corpo morto, afferrò il suo capo, lo chinò in avanti e lei vomitò quel latte che le aveva provocato una improvvisa congestione. Tornò al Bungalow; lei non si reggeva in piedi. Dovette prenderla in braccio. I proprietari di quel luogo di villeggiatura che avevano fatto uno strappo, in giugno, perché la loro licenza partiva con il luglio, lo videro e lo seguirono. Quando videro il recinto protettivo realizzato sul letto basso, si guardarono sbigottiti, impressionati e dichiararono che non gli stava più bene che restassero lì. Gl’intimarono d’andar via e gli resero il denaro già accettato. RU cercò d’opporsi, proprio facendo notare il momento di fatica patito dall’anziana sua madre, ma fu più forte in loro la paura che lei morisse lì che le stesse minacce di RU che li avvertiva che se sua madre fosse stata male, dopo d’essere stata cacciata in quel modo, sarebbe stato ancor peggio. Telefonò ai suoi amici e li avvertì che si sarebbero mossi da Vasto. RU vide che sua madre si era ripresa, e cercò un alloggio che potesse consentirle una visita medica e soprattutto il riposo, affinché si riprendesse da quell’episodio acuto che aveva rischiato di farla morire. Trovò posto in un albergo. Per quanto sua madre si reggesse sulla gambe, compiva passetti lenti e malfermi, tanto che si decise a prenderla in braccio. Con lei così entrò nell’albergo, domandò ospitalità e che fosse mandata loro la guardia medica. In quel luogo furono gentilissimi; il dottore arrivò in nemmeno mezz’ora d’attesa e la visita confortò in pieno RU. La pressione era giusta, il cuore pure, pativa solo una gran fatica indotta certamente dalla crisi avuta al mattino. Stesse tranquilla lì un paio di giorni e poi, se fosse occorso, il dottore sarebbe ripassato. Non ci fu bisogno. Assumendo yogurt e omogeneizzati di carne, i cibi più digeribili per lei, si riprese, iniziò a camminare normalmente e RU tirò un gran respiro di sollievo: il peggio era passato. Non era venuto al Sud per fare una passeggiata. Se avesse trovato le condizioni opportune, vi sarebbe rimasto. Tutto questo viaggio era stato fatto in base ad un cieco affidamento alla Provvidenza. Aveva un milione, e non sarebbe bastato a far nulla. Era andato allora a Campione d’Italia, con sua madre e, lasciatola in macchina per un breve attimo, dopo avere accuratamente chiuso il veicolo in modo che non uscisse, s’era affidato interamente alla sorte. Entrato, puntò il milione sulla prima terzina e divennero tre milioni; lasciò i tre sullo stesso posto e divennero nove. Con questa cifra aveva potuto arrischiarsi a partire per il sud. Attraversò l’Appennino. Passò per Bonefro e fece visita a Michele, con il quale alla fine si era riappacificato. Proseguì per Salerno andando dalla zia Emilia. Lei fu molto contenta d’avere un poco con se la sorella. RU descrisse tutti gli accorgimenti che doveva fare per evitare che lei si facesse male, e sembrarono esagerazioni.


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L’indomani chiese alla zia se poteva assentarsi, voleva andare nei paraggi in cerca d’una sistemazione che gli permettesse di restare al sud. Lei ne fu contenta; ma quando RU tornò intorno alle 4, trovò tutti in gran fermento. Sua zia iniziò a lamentarsi con lui, perché Mariannina aveva letteralmente dato i numeri e si erano atterriti tutti. Quando la mamma vide suo figlio, tornò a essere la persona serena che era stata vista da sua sorella il giorno prima e restarono, cenarono, andarono a letto. Al mattino furono svegliati da Emilia: “Ve ne dovete andare, stanotte non siamo riusciti a chiudere occhio, Anna è entrata in corridoio e ha svegliato tutti.” Furono praticamente cacciati di casa,ma con le buone maniere. Una cosa inaudita, giustificabile solo per la precoce vecchiaia d’Emilia, che cominciava a dare – RU li vedeva – i primi segni di disturbo che riconosceva, avendoli visti nella madre. Si fermarono attorno a Capaccio, in un grande albergo che in quella stagione di giugno era ancora deserto. I proprietari si dimostrarono comprensivi verso loro due. Avevano saputo della versatilità di RU, di come cercasse un modo per vivere al sud ed essi avevano bisogno d’una figura così. Gli proposero una collaborazione. Avevano nel cortile in fondo una palazzina incompleta di cui era stato costruito un solo piano e “Lei architetto – suggerirono – potrebbe edificare il secondo”. Per il momento avevano dei locali molto umidi; poteva rifare l’intonaco marcito? RU era incerto se fermarsi in quel luogo. Poi vide, in una delle pareti dell’albergo, una nicchia cin l’altare della Madonna, e intuì di doversi fermare. Fu il momento buono perché Mariannina si rinfrancasse. Nell’ampio giardino lei poteva avere modo di camminare libera, quando voleva. C’era un prato che stavano zappando e lei si provò a sollevare una zappa divenuta troppo pesante... Le era ritornata del tutto la sua salute e la sua debole forza. Quando si fu del tutto ripresa, dovettero però venir via di lì. Perché RU pretese di fare i conti dopo la prima settimana e vide come non ci fosse equilibrio tra la valutazione delle cose che egli e la mamma ricevevano e i lavori fatti da lui. Mangiata la foglia, diede addio a quelle persone, che trovarono anche molto da lamentarsi per le macchie lasciate da Mariannina, che aveva allagato d’urina il materasso. Lei già portava i pannoloni, ma le davano fastidio e, con quelle mani che lavoravano sempre in modo disfattivo, quando più incombevano i suoi bisogni, tanto più cercava di toglierseli. E spesso vi riusciva e – finalmente libera – bagnava lenzuola e infradiciava materassi, finché passava l’acqua sotto il letto, per terra.

Giunti in Piazzale Cuoco, quando il suo stato era divenuto più grave, era stata visitata dall’USSL e riconosciuta invalida al 100%. RU era ancora in attesa di ricevere il primo contributo per l’accompagnamento. I due, rimessisi in viaggio da Capaccio, percorsero pochi chilometri ancora più a sud e, chiedendo informazioni ad un bar lungo la strada, seppero che loro stessi avevano una casetta in riva al mare, che potevano affittargli a poco prezzo. Quello che era più interessante, era una costruzione iniziata e lasciata a mezzo, che egli avrebbe potuto finire e, se gl’interessava, gliela vendevano anche se la pagava a poco a poco. Si fermarono in quella villa. RU andò con sua madre a vedere il fabbricato lasciato a mezzo e vide che era sotto sequestro. S’informò e, essendo competente, capì che il sequestro poteva essere tolto, mettendo in regola il progetto edilizio e pagando una piccola multa. Quell’occasione, ancora una volta, gli era stata mandata dalla sorte e, volendo cogliere tutte le indicazioni che riceveva, decise nuovamente d’affidarvisi. Doveva andare però prima a Milano a sistemare qualcosa d’importante, e i titolari del bar proposero due donne della famiglia, che erano infermiere e avevano esperienza degli anziani. Conosciutele, si fidò di mettere nelle loro mani sua madre, e in un giorno fu a Milano. Andò a fare un saluto a Paola Vecchi, tranquillizzandola per essere fuggito così all’improvviso da lei, ma le spiegò che non ne poteva più: doveva mettere chilometri tra di loro, perché il suo modo di trattarlo non gli piaceva. Aveva voluto essere per lei un padre, ma lei glielo aveva impedito, ponendolo al livello d’un amante che poi non lo era stato mai. Completò quello che doveva fare e ripartì subito nuovamente per il Sud. Per vera fortuna poté evitare un grave incidente, alle porte di Roma e tornò così vivo e vegeto da sua madre. Nelle 24 ore di sua assenza tutto era stato normale. Trascorse tutto luglio in quel luogo e, giunto al momento di stabilire un accordo complessivo per la ristrutturazione di quella casa e il suo soggiorno alla villetta al mare, appena vide la stessa sperequazione tra il lavoro dato e quello ricevuto, come già avevano fatto a Capaccio, salutò con cortesia anche questi e lasciò perdere di nuovo ogni cosa: n’aveva abbastanza di doversi difendere; desiderava stare con gente che fosse onesta di per sé e non grazie ai controlli. Arrivarono allora ad Ascea. Trovarono una stanza, nel paese, che una famiglia affittava e quell’anno i soliti inquilini non erano potuti venire. Dato che l’agosto era già inoltrato e non avevano ancora affittato la stanzetta, concordarono un prezzo ridotto e gli Amodeo restarono lì. Seppe dal locale ufficio della Tecnocasa che c’era in vendita per pochissimo una casetta, a 100 metri dal paese, sulla strada. La vide, gl’interessò, ma fu tenuto in ballo


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per tutto il tempo, finché gli spiegarono che i proprietari erano troppe persone e non riuscivano mai ad accordarsi tra loro. Intanto aveva cominciato a fare lunghissime passeggiate con sua madre, sempre mano nella mano. Lei, respirando l’aria di casa sua, quell’atmosfera salsoiodica tipica degli ambienti marini, stava riacquistando vigore. Cominciarono ad andare in uno stabilimento, nel quale c’era anche un ristorante alla mano. Presto una delle ragazze che servivano ai tavoli lo notò, cominciò ad essere più gentile del normale, si mise a parlare con lui. In quei tempi, mentre sua madre riposava su una sdraio, lui scriveva. Elaborava i suoi sistemi filosofici poggiati sulle verità fondamentali della scienza. Quella ragazza – si chiamava Ketty – s’incuriosì; lei era vissuta fino all’anno prima a Roma, si sentiva che n’aveva ancora la cadenza. Era di quelle parti, d’un paesino poco lontano, Rutino. In breve nacque tra loro una simpatia, RU vide in lei una persona che cercava di promuoversi, di crescere e tutte queste persone avevano sempre su di lui un fascino immenso. Si accorse che stava, grazie a Ketty, mettendo a tacere il disturbo che sempre provava nel ricordare Paola. Una mattina si alzò con l’idea che dovesse tenere una conferenza in quel luogo. Era un luogo famoso, quello in cui era nata, duemila e seicento anni prima, la filosofia: l’antica Elea della scuola eleatica di Parmenide e Zenone. Era la scuola che affermava che a base d’ogni cosa c’era il suo essere, e a queste stesse conclusioni RU era stato portato dalle meditazioni personali di tutta la sua vita. Concepì che in quel luogo potesse rinascere l’antica scuola eleatica; l’avrebbe chiamata Nuova Scuola Eleatica. Intendeva parlarne, in una conferenza e si recò all’agenzia della Tecnocasa a parlare con il responsabile. Non c’era lui ma solo le due bellissime sue impiegate, con le quali era entrato in confidenza. Quando il capo giunse, RU gli chiese a chi si doveva rivolgere per organizzare tutto ciò. Si sentì annunciare che era la titolare della pro loco di Velia e si recò lì. Lei non c’era... Insomma! Aveva trascorso tutta la mattina girando a vuoto! All’improvviso decise d’andare a trascorrere il resto della giornata a Novi Velia, il paesino nel quale era Parroco Don Zennaro, il responsabile dell’archivio di Vallo che anni prima gli aveva permesso di fotocopiare quello che aveva voluto. Don Zennaro era morto, lasciando le sorelle, una delle quali sposata con l’ing. Ugo Fabroni, e la figlia d’Ugo, una simpatica ragazza che quattro anni prima aveva mostrato molta simpatia per lui e tutte le sue idee. Andò allora a trovare Ugo e seppe da lui che era divenuto il segretario di tutte le pro loco del Cilento. La persona che doveva mettere ordinare le sue conferenze non era la titolare della Pro loco di Velia, ma era proprio lui. RU, che cominciava a vedere tutti gli strani segni della sua vita, concluse quella giornata giusto nel segno dell’idea che alzandosi gli era balenata nel cervello.

Il suo alter ego, la sua presenza negativa, che veniva dal futuro, gli aveva segnalato che a sera si sarebbe imbattuto in questa cosa, e l’io di qua, che sta ancora andando verso la morte, per non essere da meno, aveva assunto quell’indicazione trasmessa dal futuro come una sua idea fattiva, riferita al futuro. Questo convalidava le sue teorie, proprio quelle che erano l’oggetto delle conferenze che voleva fare in questo luogo. Il giorno dopo Romano fu nuovamente – egli e la madre, coppia sempre indivisibile – all’ufficio della Tecnocasa. Spiegò alla bella Maria Cristina, cui aveva fatto il ritratto, la stranezza di quanto gli era successo il giorno prima e di com’egli volesse, se ci riusciva, riaprire l’antica scuola eleatica di Filosofia. La ragazza gli rivelò che suo zio aveva una villetta sul mare collocata proprio sotto la rupe d’Elea antica. Erano due villette e lei, con la sua famiglia, abitava in una delle due, mentre le risultava che l’altra stavano cercando d’affittarla, ma erano incerti se farlo per tutto l’anno o solo per il periodo estivo. Lo accompagnò a vederla. Era una costruzione ad un solo piano fuori terra, a solo 100 metri dal mare sabbioso di Velia, il nuovo nome dell’antica Elea. Solo il prezzo era un po’ alto, ma quella costruzione poteva divenire anche benissimo la sede della nuova Scuola Eleatica di Filosofia della fisica, ossia d’Epistemologia, che vi avrebbe fondato. Nello stesso tempo il suo amico Ugo, di Novi Velia, gli propose un appartamento alle porte di Vallo della Lucania. Ma anche di costituire con lui una società, perché egli aveva modo di ricevere molti incarichi e poi bisognava pure che qualcuno gli facesse i progetti. Stando tranquillo in quella casa, assieme a sua madre, avrebbe potuto eseguire la progettazione, mettere le firme, e lui, Ugo, avrebbe provveduto alle varie esecuzioni, essendo ingegnere. La cosa avrebbe potuto funzionare, ma solo se RU avesse avuto un aiuto. In quel momento gli premeva di coinvolgere quella ragazza della trattoria, che sempre gli sembrava fargli le fusa, sempre più seguirlo con interesse, attratta da lui anche per com’egli era: un uomo di 59 anni, ma al quale n’aveva dati non più di 40, fino a quando non aveva appreso, molto sorpresa, la sua età. Ciò in quanto RU, pur nelle sue tribolazioni, sembrava miracolosamente protetto dall’invecchiamento. Aveva ancora tutti i capelli castani, mentre suo fratello Benito, nonostante i suoi tre anni in meno, li aveva già abbondantemente brizzolati. Una volta, era andato dal medico dell’assicurazione per un esame globale e quello quasi non stava nella pelle – come se si trattasse di lui – nel vedere come fosse ben conservato quest’Amodeo: la sua età fisiologica era d’almeno 15 anni minore di quella cronologica.


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RU propose a Ketty di diventare la sua assistente. Bisognò andare dal padre, a Rutino, e ci andò. Al padre RU più che un uomo di cultura e di scienza parve un esaltato, perché aveva iniziato a parlargli di resurrezione dopo la morte e d’altre baggianate di questo tipo; così sconsigliò la figlia d’azzardarsi in quella avventura. Anche il bagnino dello stabilimento sconsigliò Ketty e – quello che fu forse più incisivo – anche il figlio del proprietario; entrambi si decisero a farsi avanti con lei. Il risultato fu che quella ragazza, di punto in bianco, fu tolta di mezzo, non si vide più e non si seppe che fine avesse fatto: forse se n’era tornata a Roma. Stava ad Amodeo, adesso, di decidersi. Poteva scegliere d’insediarsi a Vallo della Lucania, per esercitare la sua professione, ma non poteva contare sulla presenza e l’aiuto di quella splendida Ketty che soprattutto si prendesse cura di sua mamma quando lui avrebbe dovuto lavorare... e poi chissà?!... Oppure poteva insediarsi sotto la rocca dell’antica Elea, a 100 metri dal mare, per una full immersion nella natura, nella storia antica e nella filosofia. L’alternativa, nel Nord dell’Italia, poteva essere Saronno, in provincia di Varese. Qui Barbara Baratta, la sua cugina ed aiutante tra gli anni 1986-89 e Gigi Flocco avevano quote di proprietà in una società che possedeva, nel cortile d’una cascina di Cassina Ferrara, estrema periferia della città, due stanze senza servizi, situate distanti tra loro, e un magazzino ricavato nel fienile della vecchia cascina. Un giorno lo avevano chiamato e gli avevano proposto d’abitare lì, gratis. Bastava ch’egli migliorasse un poco la sistemazione di quei locali che, al momento, non avendo i servizi, non erano assolutamente abitabili. RU aveva accolto l’offerta di Barbara con molta gioia. Ricordava quanto s’erano aiutati, a partire da un qualcosa che i due cugini avevano in comune (erano nati entrambi il 25 gennaio, seppure a decenni di distanza tra loro) ma anche da vedute molto distanti tra loro, che si poggiavano su una caratteristica unica, che apparteneva a entrambi e che non dava adito a molte possibilità d’intendersi: la cocciutaggine. Barbara era stata lieta di potere offrire a sua zia Anna l’ospitalità che aveva avuto in casa sua, quand’era ancora ragazza. Neanche a farla apposta – ma esiste il destino, o meglio la Provvidenza, non c’è assolutamente da dubitarne! – il padre di Maria Cristina lavorava nella zona del Saronnese e cercava un monolocale che non costasse le 800.000 lire al mese che egli già spendeva. Una delle due stanze di quella proprietà in Cassina Ferrara poteva andare benissimo per i bisogni del padre. Allora fu raggiunto un accordo che, se l’affitto della casa al mare fosse stato ritoccato, fino a rientrare nelle possibilità di RU (che non voleva spendere più delle 900.000 lire al mese che spendeva già a Milano) la cosa si poteva fare.

I due fratelli s’intesero tra loro e conclusero che, anche per loro, si poteva fare. Ma occorreva, nel frattempo, che quella stanza a Cassina, così com’era stata descritta, contenesse almeno un cucinotto e il bagno, cosa ritenuta possibile da Amodeo. Fu così che RU prese la sua decisione: si sarebbe prima trasferito a Saronno, avrebbe sistemato le cose, e poi avrebbe lasciato definitivamente il Nord per ritornare là dove erano certamente vissuti tutti i suoi antenati, quelli antichi, proprio nei tempi d’Elea. Tutti gli abitanti di quei luoghi erano suoi antenati, non poteva essere che così e adesso era come se essi lo reclamassero. Ora tante affermazioni di Romano Amodeo sembrano insensate... Come fa a sostenere di discendere, se non proprio da Parmenide, almeno dal suo ceppo? Lo dice in base a questo semplice calcolo: in ogni secolo ci sono tre generazioni, nonno, padre e nipote. Nei 26 secoli di distanza dai nostri giorni, rispetto al V secolo avanti Cristo in cui visse Parmenide, il calcolo 26×3=78 quantifica 78 generazioni. Ora ogni 10 generazioni, partendo da 1, il numero degli antenati diventa 1.024, come possibile vedere: 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, 512, 1.024 Allora 78:10=7,8 indica che occorre passare di mille in mille per 7,8 volte. In 78 generazioni della vita, 1 persona discende da 1.000.000.000.000.000.000.000.000 antenati. Il numero significa un milione di miliardi di miliardi d’antenati. Tanti dovrebbero essere gli antenati se le linee generazionali non si fossero mai intersecate. In quel tempo, ammesso pure che abitassero 1 miliardo di persone – cosa sproporzionata – ciascuna d’esse sarebbe un milione di miliardi di volte un possibile parente. Ossia significava che ci sarebbero così tante linee diverse di comunicazione per arrivare alla famiglia di Parmenide. Come potrebbe questa famiglia non essere antenata, non solo d’Amodeo, ma di chiunque? Si può arrivare addirittura a presumere che tutti i geni di Parmenide sono rappresentati in ciascuno di noi che discende da ciascuno di tutti loro. Questo “mucchio” è la Comunione dei Santi, è quel livello antico che ad un certo punto accomuna, veramente tutti in uno, sotto il profilo dell’esistere in potenza. Il difficile da capire è come arrivarci: lo si può ritornando all’indietro realmente, appena varcato il punto della morte Alla fine, proprio quando RU era andato al Sud per restarvi, le cose si misero – proprio al Sud – in modo che lui tornasse al Nord e scegliesse Saronno. Ma sarà la storia che si ripete, perfino noiosa.


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Come nel 51 RU partì dal Sud per andare in Via Larga a ricevere la fondamentale lezione datagli dalla vita, così nel 1987 sarebbe partito dal Sud per andare di nuovo in Via Larga e fare una esperienza altrettanto fondamentale. Entrambe sotto l’egida della mortificazione, una esperienza che però non è qualcosa che dà la morte, ma – tutto al contrario – qualcosa che parte proprio da lì, dalla morte, per dare addirittura la vita eterna e la gloria, così in cielo come in terra. Come RU uscì da Via Colletta portando con se 4 gatti trovatelli, così uscì da Piazzale Cuoco portando con se Tigre, un cane trovatello, un cucciolo di 10 mesi. Anche Tigre gli venne come lo stesso augurio d’una vita che sempre si ripropone anche quando si smantella ogni cosa della vecchia... anzi di Vecchi, di Paola, la causa intima del suo allontanamento da piazzale Cuoco. Era tornato, infatti, da poco e stava facendo i preparativi per trasferirsi a Saronno, quando Paola gli telefonò per un favore: “Abbiamo trovato un cucciolo in strada, io ho già un cane, lo tieni tu per la notte? A quest’ora il canile è chiuso. Lo porterai tu là domani. Puoi?” Andò a prendersi il “cucciolo”: aveva pochi mesi ma era un cane di grossa taglia già interamente sviluppato. Gli fu messo un guinzaglio da Patrizia, la portinaia delle case in cui Paola abitava, e Tigre lo seguì docilmente fino al settimo piano e si accucciò docile sulla moquette, ai piedi di Anna. Più tardi Paola lo invitò a portare un po’ a spasso il cucciolo; avrebbe condotto lei anche il suo e sarebbero andati nei prati li vicino. Quando si ritrovarono là, suggerì a RU di togliergli il guinzaglio: lì, era sotto controllo. Il cucciolo cominciò ad avvicinarsi agli altri cani e successe una cosa strana: ogni volta che un cane adulto lo molestava, Tigre correva a difendersi mettendosi dietro RU. Il suo istinto gli diceva già con molta chiarezza che lui sarebbe stato il suo protettore. RU si lasciò commuovere da questi chiari segni di riconoscimento che stava avendo da quell’animale. La mattina andò al canile senza di lui e spiegò che aveva trovato un cane “così e così” e che se il padrone lo avesse cercato gli fosse detto che il cane era da lui. Quel cucciolo doveva avere un padrone, essendo ben educato al contegno da tenere in una casa. Non voleva lasciarlo nel canile per non traumatizzarlo. Gli risposero che non doveva fare così. Doveva portare là il cane e lo avrebbero visitato, tatuato nell’orecchio e tenuto in custodia. Se il padrone non lo avesse reclamato entro 10 giorni sarebbe stato a disposizione di chi lo volesse. Egli, se lo voleva, poteva prenotarsi e sarebbe stato senza dubbio assegnato a lui. Fece così. Cinque giorni dopo andò a vedere se il padrone lo aveva prelevato e vide che il cane era ancora nel suo box. Il cane si era però già accorto, ancor prima che arrivasse, ch’egli stava per giungere, tanto che gli fece una gran festa appena gli apparve da lontano, oltre la rete di protezione del box in cui era rinchiuso.

Tigre adottò RU per suo Padrone e Signore e gli diede tutta la comprensione che gli uomini più non gli davano, in modo evidentissimo, se n’era accorto, da quando aveva fatto quel voto a Dio perché salvasse Lucy. Seguitava però, e già da un po’ di tempo, a osservare questo, a Dio, nelle sue preghiere: “Non mi sembra che ci sia molta giustizia! Vedo l’incomprensione per me ogni giorno, ma non posso vedere ciò che io ho chiesto in cambio: Lucy, graziata dall’anoressia, è via a Trento” Nel settembre del 1997 Sabato assistette Anna, mentre RU cominciò ai primi di settembre del 1997, il suo trasloco, fatto in cinque o sei viaggi d’un furgone condotto da un privato che abitava in vicinanza di Piazzale Cuoco. L’ultimo spostamento trasportò anche la mamma e Sabato. Giunsero di sera, sul finire di settembre 1997. Tentarono d’introdurre un letto che aveva il cassero in legno, passando per la strettoia che immetteva nella stanza al primo piano e il letto s’incastrò nello spazio angusto davanti alla porta. Tentarono spingendo e dando colpi. Accorse chi abitava al piano di sotto, molto anziano, magro, iniziò a lamentarsi che era stato rotto il suo muro. Sceso al piano di sotto, RU fu assalito dalla scortesia d’una signora sulla sessantina, che iniziò ad urlare contro di lui. Perse le staffe e, quasi naso contro naso iniziò a protestare anch’egli che “Sì, chiamassero la polizia...” . Questa fu l’accoglienza al primo ingresso nella casa di Via Larga, al numero 12, di Saronno, località Cassina Ferrara. RU, Anna e Tigre si sistemarono al piano terra, nel locale più piccolo: in tutto 17 metri quadri, un lavandino con l’acqua corrente ma senza lo scarico, con al suo posto un secchio, poi da svuotare a mano. Il servizio era all’esterno, a 20 metri di distanza, davanti al magazzino. Compresero, pochi giorni dopo, che neppure quello aveva lo scarico, perché il pozzo perdente, dopo una nevicata e l’eccessivo ammollo del terreno, era crollato e i proprietari avevano preferito interrarlo. Prima di spostarsi là, RU aveva dato una sommaria sistemazione a questo locale, così la prima notte non fu il disastro che era stata quella del trasloco in piazzale Cuoco, quando Anna aveva rischiato d’essere schiacciata dai mobili, essendosi infilata nel locale sbagliato. Non c’era molto da sistemare in 17 metri quadrati. Collocato il famoso letto grande contro la parete, restava appena lo spazio per passare da un lato e da una parte e, ai piedi del letto uno stretto passaggio tra il letto e il tavolo. Il locale era stato tramezzato con l’armadio, messo per traverso, in modo da avere uno spazio di servizio ai due lati della porta: uno nel quale era il lavandino, l’altro un localino, il futuro gabinetto, che divenne la cuccia di Tigre.


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Subito RU decise che doveva rinunciare ad uno dei due lati del letto, affiancandolo tutto contro il lato della finestra, dalla parte dove dormiva la mamma, in modo che, se avesse tentato d’alzarsi, sarebbe dovuta passare sul suo corpo. La cosa buona fu, in quest’ultima sua residenza in Via Larga 12, a Saronno, che ora aveva quasi di fronte la Chiesa e, di fianco al suo ingresso, una nicchia con la statua della Madonna. RU cominciò a frequentare assiduamente la Chiesa, e cominciò a partecipare alle catechesi. In una di queste, Maria Rosa Cogliati, che dettava i canti in Chiesa, alla domenica, nella messa del pomeriggio, e che lo aveva sentito cantare, l’invitò ad aggiungersi ai membri de Coro della Chiesa. Era stato sempre un solista, ma perché no in un Coro? Acconsentì. Gli fu spiegato come dovesse recarsi a poca distanza da lì, sempre in Via Larga, dove c’era la Scuola Materna. Ma ci sarebbero andati insieme, si diedero appuntamento per il lunedì successivo, davanti alla Chiesa. Il 19-10-97 entrò nel Coro parrocchiale e non sapeva cosa avesse per lui la Provvidenza: il suo incontro con Ada, 2a sposa del Lamech disceso da Caino. MTSLMMè=ADA Maria Teresa Legnani Maestra Musica È RU andò a presentarsi dalla direttrice . del Coro, una donna avvenente, dall’apparente età di 35 anni, castano biondo, con una frangetta. Quando seppe che si chiamava Maria Teresa, chiese a se stesso: “Ancora?” La differenza indica che 1-38 è in quel flusso 22.000 e si muove tutto.

Il calcolo mostra un numero di giorni che, riferito alla presenza 1/3 di mille Romano=66 (quella intera del flusso) era meno 138 il suo natale 1-38. RU andò a presentarsi dalla direttrice del Coro, una donna avvenente, dall’apparente età di 35 anni, castano biondo, con una frangetta. Quando seppe che si chiamava Maria Teresa, chiese a se stesso: “Ancora?” e fu una vera premonizione, perché se l’ultima MT gli aveva scombussolato la vita, questa l’avrebbe rifondata. RU si era lamentato con il Signore di non avere mai visto chi era guarito per il suo voto che tanto insuccesso gli era costato, poiché era via a Trento.

Ebbene La maestra era guarita dallo stesso male, nello stesso tempo ed abitava a via Trento. Poiché le si affezionò molto, subito, quando lo seppe, questo disse a Dio: “Signore, grazie! Non mi hai mostrato Lucy guarita, ma una persona cui tengo di più. Hai esaudito al meglio la mia preghiera. Ora è giusto così: patisco l’insuccesso, nei miei tentativi d’affermare i risultati delle mie ricerche, ma almeno gioisco nel vedere quanto è bella una vita, guarita da quel male.” RU, mentre così pregava, ancora ignorava tutto il resto, della trama ordita dal destino: che proprio dall’esistenza, nuda e cruda, di questa donna, che sarebbe stata piena d’inspiegabile disprezzo per lui, egli sarebbe stato liberato anche dal suo voto. Un giorno infatti tutti avrebbero dovuto credergli, poiché avrebbe portato notizie di capitale importanza per la vita sulla terra. La Provvidenza aveva tramato in questo modo: con RU che pregava Dio di salvare una vita, il Signore ne salvò una in più:


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attraverso Lucy, Dio avrebbe accettato l’offerta di RU; attraverso Maria Teresa avrebbe reso il centuplo, ma in cambio della rinuncia di RU proprio alla comprensione di lei, per la quale egli avrebbe barattato il credito del mondo, come già aveva fatto con Lucy. La prima cosa che gli disse, quando le fu presentato fu quale fosse la sua voce. Anche questa domanda sembra naturale, e lo è per chi deve poi metterlo tra i tenori o i bassi. Ma quello che sta dietro a questa domanda sarà proprio coerente con che voce si sarebbe posto nei confronti della Religione, della Scienza e della storia umana. RU rispose d’ignorare quale voce fosse la sua. Allora lei si mise sulla tastiera dell’organo elettrico e partì da una nota, invitandolo a cantarla. Scese, sempre più, verso le note basse, finché lei si ritenne soddisfatta e decretò: “Basso!” Così RU seppe d’essere quello. Si stupì, non lo avrebbe mai creduto, perché di solito cantava al di sopra della nota suonata per prima dalla maestra. Anche il momento in cui questo avvenne fu altamente simbolico: si stava preparando i canti per la celebrazione del Natale, e le prove c’erano tutti i lunedì. RU fu subito aiutato da Sergio Ventura, un basso dalla voce sicura che gl’insegnò le parti, facendosi seguire; non era abituato al simultaneo canto di tutte le voci e spesso si faceva portar fuori; l’aiuto datogli da Sergio fu prezioso. Ogni giorno portava a spasso sua madre, facendole fare il giro dell’isolato, lungo circa un chilometro; un giro che ripeteva talora anche due volte. Poi doveva portare a fare i suoi bisogni anche Tigre. Tigre era esattamente come lui: si avventava sulle persone per leccarle e le spaventava tutte. Il resto del tempo RU cominciò a trascorrerlo al computer, come già faceva a Milano, redigendo con lo stesso impeto le sue solite relazioni, che limava, correggeva, integrava, divenivano enormi, troppo. Passava allora a farne una sintesi nuova, scarna, e ci riusciva; ma poi cominciava a riguardare anche quella, ad espanderla, approfondirla e diveniva una avanzata versione della precedente. Attraverso questo sistema corresse gli eccessi di slancio e avventatezza. Avrebbe dovuto cominciare a ristrutturare i locali, perché l’intenzione era quella d’andare al sud, a fondare ai piedi dell’antica Elea, la Nuova Scuola Eleatica. Ma si accorse che, strada facendo, sul filone iniziale della realtà presente come essere, si era sempre più inserito il significativo apporto dei numeri, già stimato da Pitagora come l’essenza della realtà. Dunque decise che la sua non sarebbe stata una Nuova versione della sola scuola d’Elea, ma anche della Scuola Italica, quella fondata a Crotone da Pitagora, intorno al VI secolo avanti Cristo. Così, essendo Elea in Italia, il nome esatto era Nuova Scuola Italica, N.S.I..

Ci sarebbe stata una importante componente in più, rispetto al mixaggio di quelle due filosofie: il Vangelo di Gesù, il cui Dio era la prima espressione, assoluta, d’una regola generale poggiata sui numeri 1 e 3. L’impressione che RU destò quando giunse a Saronno nel settembre del 1997, fu quella della brava persona, venuta a vivere, con sua madre ammalata d’estrema vecchiaia, in condizioni di gran disagio e povertà. Un giorno, mentre camminavano sotto la casa di Don Luigi, di fianco alla Chiesa, si affacciò, al primo piano, la madre del prete, che non li conosceva, li vide e, impietosita, chiamò: “Voi due, fermatevi, aspettate un momento!” L’attesero; lei aprì il cancello, tra la casa e la Chiesa e, tesa la destra verso lui: “Tenga!” Erano un mazzetto di banconote da 100.000 lire, che la coetanea d’Anna cercò di dare, mossa a pietà da quanto aveva visto. I due la ringraziarono, rifiutarono e spiegarono di non essere così indigenti. Era vero. Ora il denaro non gli mancava: alla pensione della mamma si era aggiunto l’accompagnamento per il quale tanto aveva insistito Barbara, la proprietaria assieme alla Società del marito, di quella casa in cui era ospitato gratis. Così entravano 3,5 milioni di lire al mese, senza più costi per l’affitto di casa. Il 23 dicembre 1997 sentì, dopo anni, l’esigenza di telefonare ad Anna Badari, per augurarle “Buon compleanno” ma nessuno rispose.


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1998

Benito era passato ad una altra società di Consulenza: la BAGE. Nel locale in cui RU sistemò sé e sua madre non vi erano i servizi igienici. Lui si arrangiava, ricorrendo ai servizi igienici attrezzature del vicino Centro Sociale e sua madre ai pannoloni che ormai teneva notte e giorno. Tigre, il cane, scaricava nel suo prato, posto oltre il cimitero. Avevano per le emergenze una tazza da campeggio, in plastica, avuta dai proprietari e cugini Barbara e Gigi, in cui feci e urina finivano in un serbatoio poi da svuotare; era collocato nel vano in cui, su una coperta posta a terra, dormiva Tigre. Il problema maggiore derivava dall’incapacità di Anna di star ferma con le mani, che lavoravano perennemente per disfare ogni cosa, soprattutto gli orli dei lenzuoli e delle coperte anche pesanti. Così, tutte le volte che sentiva la necessità d’evacuare, iniziava a litigare con il pannolone, per toglierselo sfilacciandolo. La chiusura adesiva, ottenuta incrociando i due lembi, era stata messa dietro, di proposito, dove lei non arrivava con le mani, perciò lei provava a logorare l’oggetto per levarselo. Se vi riusciva, dopo una paziente e tenace attività notturna, scaricava tutto nel letto. Se RU si svegliava, doveva subito provvedere, raccogliendo gli escrementi dal lenzuolo, cambiandolo, lavando il materasso e asciugandolo con un aspiratore adatto ai liquidi. Il materasso, inevitabilmente cominciava a puzzare, per quanto fosse stato lavato accuratamente, con la poca acqua da usare in un ambiente in cui lo scarico a mano era nei tombini del cortile.

Fu acquistato subito un altro materasso e un altro supporto a doghe di legno. RU dispose un letto sull’altro, di traverso, in modo che l’inferiore sporgesse di quanto bastava a fungere da divano. Acquistati i materiali dal “fai da te” di Saronno, costruì un recinto facile da collocare attorno al letto di sopra, in modo che, quando sua madre era coricata, fosse come un bimbo in un suo box perfettamente protetto. Non tolse la robusta plastica di protezione al nuovo materasso, così da impedire all’urina d’entrarvi, cosa che non riusciva mai perfettamente con i teli di plastica: Mariannina, nel suo perenne lavorio notturno, li sfilava, per quanto fossero imboccati in profondità e, logorandoli accuratamente in un punto, tagliuzzando con le sue piccole unghie, li bucava; poi, cacciato un dito nel buco, lo rendeva un varco e il telo, per quanto robusto fosse, doveva essere sostituito. Sabato Lingardo, dopo i primi giorni del trasloco, era tornato a Milano. Viaggiava molto e, anche se andava all’estero, si teneva in contatto giornaliero, telefonando in tutte le ore, anche di notte. I suoi messaggi erano laconici: “Ciao Romano! Come stai? E la mammina?” Lingardo era parco, nell’uso del telefono, perché si teneva analogamente collegato anche con altre persone: tutte quelle che non lo mandavano all’altro paese se l’orario era inopportuno. Ed erano chiamate quasi sempre gratuite, perché aveva preso l’abitudine di saggiare ogni apparecchio che incontrava, a monete o a schede, perché spesso vi erano lasciati i resti che poi egli usava al momento. LA MORTE DI ANNA BADARI Provò più volte a chiamare Anna, a casa sua, ma non ebbe risposta.

Il 15 gennaio telefonò allora a Maria, sua sorella e seppe che anche il destino d’Anna si era compiuto: si era uccisa, buttandosi da quel quinto piano dal quale aveva minacciato di gettarsi Lucy se lei avesse sposato RU!


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Ora era come se Dio fosse passato a saldare tutti i conti lasciati in sospeso. Il tipo di morte che aveva scelto, ai primi del 1998, fu un messaggio straordinario per RU: si era pentita d’aver dato retta a Lucy e d’averlo respinto per la seconda volta, dopo che la sorte le aveva dato un’incredibile seconda occasione. Così quel gesto, minacciato dalla figlia se avesse sposato RU, in definitiva, piena d’un immenso sconforto, lo fece lei.

Cassina Ferrara, pur essendo integrata con la città di Saronno, era, per le sue tradizioni, come un paese; così i fatti diventavano presto di dominio pubblico, trasmessi dal tam-tam del pettegolezzo minuto. Gli abitanti del cortile raccolsero firme, per fare sloggiare RU e la madre da lì. Davano fastidio, per il cane, per il puzzo di urina che esalava da quella stanza, e che, volendolo sentire, percepivano anche oltre la porta chiusa. Quella vigliaccata non riuscì giacché non firmarono tutti: si rifiutarono Barbara Edyta Gorzawska e Vincenzo Fiorinelli, i due cuochi che abitavano di fianco. Barbara, una venticinquenne e bella valchiria polacca bionda, dal volto pulito, era stata l’unica gentile che aveva accolto con ospitalità la nuova famiglia, offrendo una tazzina di caffè al vicino, quando egli aveva iniziato a fare i primi lavori.

Vincenzo, un quarantenne napoletano di razza, robusto, altezza media, spavaldo e praticone, come la maggioranza degli uomini di quel luogo. Non erano sposati, convivevano da anni, ed erano presenti in casa quando gli altri erano al lavoro, per quel loro mestiere che si svolgeva nel tempo libero altrui. Ogni tanto era possibile uno scambio di parole, ma anche Vincenzo si era sempre rifiutato d’entrare nella stanzetta, per i miasmi che non sopportava, indotti anche da Tigre. Tutto, in Cantoria, proseguiva ordinatamente, e RU guardava con crescente interesse il lavoro della sua Maestra, facendo del suo meglio per cantare come diceva lei, all’unisono con gli altri, a bassa voce tanto da sentirli, egli che aveva sempre fatto il solista e s’era preoccupato, fino ad allora, della qualità del suono più che del suo volume. La Maestra era piuttosto attenta, con tutti: la prima volta che egli mancò ad una prova, quella successiva gli domandò il perché; e una sera, mentre aspettavano, davanti all’uscio, che l’asilo fosse aperto, gli chiese chi egli fosse. RU le spiegò, in cinque minuti, la sua insolita storia: come fosse stato ricco, celebre e avesse lasciato tutto per realizzare un concreto aiuto al suo prossimo, un lavoro condotto per anni così disinteressatamente, da non aver retto alla malasorte quando ignoti gli derubarono macchinari ed altro per centinaia di milioni di lire. Avrebbe potuto riprendersi ma, divenuta sua madre bisognosa d’aiuto, aveva deciso di rinunciare a tutto, persino ad una pensione dignitosa, per prendersi cura di tutto quello che gli era restato di buono: lei. Però Dio l’aveva ricompensato, ed ora si aspettava grandi cose, soprattutto nel campo della fisica. La Maestra s’informò a che riguardo e, sentito che era la relatività, aggiunse che lei non ci capiva nulla. In un mercoledì, aggiunto ai lunedì per completare il programma relativo alla Pasqua, lei domandò chi potesse trascrivere le note d’un canto sul pentagramma, escludendo quanto non interessasse. Si propose RU. Le copiò, disegnando tutto, perfino il pentagramma e l’indomani, incontrata casualmente la Maestra, mentre passava, con altre donne del Coro, davanti al numero 12 della via in cui egli abitava, ebbe modo di darle il foglietto. Visto come egli avesse disegnato perfino il pentagramma, lei l’apprezzò, e rivelò alle altre persone: “Se voi lo conosceste! Ha una storia incredibile, così inusuale che, forse, varrebbe la pena che, una sera, ci trovassimo insieme per ascoltarla!” Fu un notevole segno che quei cinque minuti di colloquio erano stati sufficienti a che lei capisse di trovarsi di fronte come ad un mistero: quell’uomo, che sembrava scostante nell’aspetto e che certamente mandava anche cattivo odore, era in quella condizione, per sua libera scelta e si aspettava grandi cose.


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Un giorno RU l’incontrò mentre lei, dall’altro lato della strada, stava compiendo lo stesso percorso verso l’asilo. La Maestra lo salutò, ed egli, attraversata la strada, le domandò di lei. Che lavoro faceva? Come passava il tempo, dello svago e del divertimento? Lei rispose che andava a Milano, ad insegnare da Maestra elementare in un Istituto retto da suore e che, in quanto a divertimenti, stava a casa. RU non era fiero di come aveva disegnato quella partitura: sapeva che il computer l’avrebbe fatta perfettamente, così acquistò, nel negozio d’articoli musicali, un programma che abilitasse il suo calcolatore a scrivere musica. Preso poi dall’entusiasmo, per quell’interesse crescente che stava provando, acquistò una pianola professionale. Con quell’attrezzatura, finalmente idonea, cominciò a trascrivere tutti i canti che il Coro preparava. Individuata la sua parte da basso, la faceva anche suonare, attraverso la pianola: una due, tutte le volte che voleva, mettendo la sequenza in circolo. In tal modo non ebbe più bisogno di seguire Sergio Ventura, oppure Ambrogio Busnelli, i bassi più bravi, perché il computer eseguiva il canto meglio, anche simulando la voce; così esattamente come era scritto; ed era un maestro paziente all’infinito, che ripeteva finché egli avesse bene imparato. Come travolto dall’improvvisa bellezza del canto corale, RU ci si buttò dentro, come aveva sempre fatto, in tutta la sua vita, per tutto quanto gli era piaciuto. Un giorno, notato il profondo cambiamento intervenuto su di sé, a riguardo della musica, attinse anche alla poesia e scrisse dei versi sulla Maestra del Coro, riconoscendola come la causa del suo grande cambiamento. Piacendogli il risultato, immaginò di far ossequio anche alla Maestra, e un giorno che l’incontrò, andando alle prove, diede a lei quella poesia. Ottenne però un risultato veramente inatteso: da quel giorno divenne per lei come uno improvvisamente divenuto invisibile. La Maestra passava in rassegna le persone del Coro e – giunta alla sua – aveva l’abilità di “saltare” la sua vista, come se – lì in mezzo – non ci fosse nessuno. Lei aveva creduto d’avere già capito tutto: quella persona, così vecchia per lei, ci stava provando: con lei notevolmente più giovane. Bisognava fargli capire, immediatamente, che lei non lo vedeva nemmeno Le intenzioni della Maestra erano buone, ma il metodo scelto da lei, per portarle avanti, fu proprio quello giusto, per un tipo come RU, per ingabbiarlo in una rete sempre più fitta di pensieri su di lei e di sofferenze, per non vedersi trattato alla stregua degli altri. Questa prima forma d’ostracismo durò fino a quando, una domenica, RU si trovò a cantare in Chiesa, alla messa delle diciotto, fianco a fianco con Nadia, il migliore soprano del Coro della Cassina. Udendo lei che cantava a volume spiegato, tirò fuori finalmente anche la sua bella voce piena e venne una grande armonia tra le due parti, come fatte apposta, dalla

natura, per cantare assieme. La stessa Nadia lo notò, al punto che, trovandosi il giorno dopo assieme a RU e alla Maestra, davanti all’asilo e in attesa d’entrare, le disse: “Dovresti sentire che voce che ha!” La Maestra non poté evitare di notarlo poiché, da quella sera, cantò come sapeva e – aumentato il volume – lei cominciò a sentire la sua voce. Una sera Fiorenzo Banfi fu costretto a cantare da solo, dalla Maestra, che voleva capire chi stesse stentando tra i tenori, in un brano; così tutti s’accorsero che era lui. Fu tale la sua mortificazione, che decise di non partecipare più al Coro. RU corse a cercarlo, per convincere l’amico a recedere da quelle ingiuste intenzioni: MA.TE.SA LE. (MME) non l’aveva fatto certo per mortificarlo, ma perché chi stava sbagliando potesse correggersi. Il solo modo per eliminare un errore è che esso sia notato. “Sì, sarà come dici, ma io faccio solo ciò che posso. A che serve farmi fare brutte figure davanti a tutti? No, io non vengo più. Maria Teresa l’ho vista bambina, ragazza, signorina; sono stato io e non i suoi genitori che l’ho accompagnata con la macchina a Milano, perfino quando partì per farsi suora e i suoi non volevano; mi conosce, sa il mio carattere.” All’inizio della prova successiva, RU raccontò alla Maestra: “Ho parlato con Fiorenzo, ma è rimasto mortificato, per essere stato costretto a manifestare agli altri una sua difficoltà.” Lei gli rispose torva, come se ce l’avesse anche con lui: “Quando anch’io andrò via da questa Cantoria, essa non si fermerà, farà a meno anche di me. Tutti sono utili ma nessuno è indispensabile. Approfittando del fatto che le cose si erano normalizzate, RU una sera le telefonò e le fece sentire la musica, suonata dal computer, d’un Santo che egli aveva composto e che avrebbe avuto piacere che il Coro, se lei giudicava opportuno, imparasse e cantasse. “Bello! Mi piace” fu il suo commento; e aggiunse: “Mi faccia avere la musica.” RU portò in Cantoria il suo computer a pile, e, fermatisi un momento, dopo le prove, lei osservò la musica, udì il suono e concluse così: “La partitura è troppo difficile; mi dica: questa parte qui chi la fa? Io, poi, non sono in grado di giudicare se l’armonizzazione è corretta; non rientra nella mia preparazione musicale.” Lei aggiunse: “Una volta io stessa composi un canto e lo detti ad un musicista affinché lo giudicasse: aveva molti errori!” Gli dava del lei, si rivolgeva talora a lui, quando indicava le persone in mezzo al Coro, chiamandolo “Signor Romano”. Una sera il cantore domandò il permesso di portare una telecamera e filmare una delle loro prove. Lei rispose: “Faccia come vuole...” E RU: “Per favore, posso avere il tu, come è per tanti altri?”


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Lei si rivolse a Nadia, che era lì in quel momento, e rivelò: “Io sono fatta così! Vado a prime impressioni. Se non mi viene fin da subito, non riuscirò mai più a dare del tu!” Nadia le rispose: “Io non faccio fatica a dargli del tu”. La Maestra ribadì: “Io non lo farò mai.” RU, il lunedì successivo, portò la telecamera e filmò tutta la prova. Issò la macchina da presa su un treppiede posto in alto, su un tavolo; e ogni tanto, nei momenti in cui i bassi non cantavano, saliva e movimentava la ripresa fissa, azionando il teleobiettivo e facendo così, con lo zoom, primi piani, delle persone del Coro e della Maestra. Lei non s’interessava di cosa facesse, ma una sola volta, che pensò di non essere ripresa e cacciò lo sguardo nell’obiettivo, trasalì in modo evidente, come se fosse stata colta sul fatto. RU, osservando a casa sua il risultato della ripresa, capì che poteva fare un ritratto alla Maestra. Così glie ne fece tre, su cartoncino adatto ai colori ad olio: uno di fronte, uno di tre quarti ed uno di profilo, nel gesto di dettare il canto. Gli piacquero, l’incorniciò e telefonò nuovamente a casa sua, chiedendo di lei, per dirglielo ed offrirglieli. Si sentiva autorizzato a chiamare a casa sua, giacché gli era stato dato l’elenco di tutte le persone della Cantoria, Maestra e Don Luigi inclusi, con i rispettivi numeri telefonici. Ciò significava, era ovvio, che, se ci fosse stato bisogno, si poteva chiamare ciascuno a casa sua. Se no perché erano stati dati a loro quei numeri? “Chi la desidera?” rispose una voce di donna, con tono molto gentile. “Sono una persona del Coro della Cassina.” “Un attimo, vedo se c’è – e, data una voce, per sapere se Marì fosse presente, aggiunse: “No, è già uscita”. Il giorno dopo RU fece un gran pacco, in cui mise una lettera di spiegazioni, i tre dipinti incorniciati e, quale segno della verità di quanto aveva spiegato, il libretto (di poesie e novelle) che aveva pubblicato a Milano per Paola Vecchi. Aveva deciso infine di non darglieli di persona; l’avrebbe messa certamente in difficoltà. Giudicò che lei avrebbe visto e considerato il tutto – nel migliore dei modi e in piena libertà – solamente se non fosse stata costretta ad assumere, così sui due piedi e davanti a lui, atteggiamenti dettati dalla pura buona educazione, che è in uso tra tutte le persone civili. Così telefonò a casa sua verso le due del pomeriggio, quando era certo che lei fosse a Milano. Rivelò, alla donna che gli rispose, d’avere del materiale da lasciare per la Maestra del Coro. Lei gli spiegò come dovesse portarlo al numero 2 di via Trento e, dopo pochi minuti, lei raccolse il pacco dalle sue mani.

Nella lettera di spiegazione, RU rivelò il perché di quel dono. Era venuto a Saronno per fuggire da una donna che aveva voluto come figlia e lo aveva invischiato, come uno strano amante, in una storia impossibile, da cui doveva prendere le distanze. Lei, la Maestra, lo aveva aiutato, perché con la sua grazia e l’evidente impegno che profondeva in quello che faceva, aveva catturato il suo interesse, liberando felicemente i suoi pensieri. Sul libretto allegato era riportata quella storia. Ora egli si era accorto come, dopo quella poesia che le aveva dato mesi prima, lei, di proposito, non l’avesse più degnato d’attenzioni. Facesse dunque lei, adesso che riceveva addirittura questi tre dipinti, quello che riteneva di dover fare. Egli non s’aspettava nulla in cambio, per cui se lei non avesse voluto neppure parlarne, gli stava bene! Che facesse pure così! I suoi non sarebbero stati né i primi, né gli ultimi sentimenti buoni e silenziosi, d’un allievo per la sua Maestra! Il lunedì seguente, alle prove, si cantò come al solito e per tutto il tempo. RU non notò nella Maestra nessuna reazione, capì così come lei avesse scelto il riserbo e la salutò come faceva sempre, accingendosi a uscire. “Romano, un momento!” Egli attese. Quando tutti se n’andarono, lei gli spiegò: “Tutto va bene, ma la cattiva educazione no! Le voglio parlare di quello che ha fatto, ma anche darle una cattiva notizia: io sto bene così RU le obiettò che forse lei non lo aveva capito. Non le aveva fatto nessuna proposta. Quindi le domandò: “Le ha fatto piacere?”. E lei, senza alcuna titubanza: “Sì!” Al che egli dichiarò: “Ecco! Solo questo io volevo! Essere amici”. E lei, con estrema sicurezza: “Sì, ma solo in Cantoria!” Avviatisi per uscire, avevano intanto raggiunto Nadia, che si apprestava a chiudere l’asilo. Egli salutò entrambe e si allontanò, per ritornare dalla mamma, chiusa nel suo recinto a prova di fuga. Si mise al computer a comporre musica, e Tigre, mentre RU lavorava, restava in estatica sua ammirazione, con la grossa testa appoggiata sul tavolo, di fianco al calcolatore, sempre desideroso d’una carezza, se quel suo riconosciuto Dio aveva la misericordia di fargliene. Quel cane era il suo compagno ed assistente più fedele, qualsiasi cosa RU facesse. Anch’egli stava bene così! Si rese conto che non sarebbe mai stato un vero amico, per la sua Maestra, se seguitava a dimostrare così tanta differenza d’età. Si rasò, finalmente, quel pizzetto che già tante volte Benito aveva sollecitato fosse eliminato dal suo viso, affermando che non gli donava, che l’imbruttiva e l’invecchiava. Era vero: il suo volto riacquistò, di colpo, 15 anni d’apparente giovinezza, quel vero inganno che dava a tutti quelli che non lo conoscevano e che, con la sua faccia pulita, gli attribuivano al massimo 50 anni.


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Vanitoso per il risultato ottenuto, ne parlò con la sperata amica MATESALEMME, alla fine della prova seguente, quando tutti si concedevano un attimo per parlare d’altro: “Con quel pizzo Nadia mi aveva dato 67 anni, sette in più di quelli che ho!” Al che lei, pronta: “Romano, bisogna credere a chi dice la verità!” E lui pensò: “Lo dice calcando la voce, come se Nadia dicesse una bugia intenzionale! E perché mai dovrebbe farlo? O invece, forse, mi vuol far capire che è impossibile che sia cambiata una prima impressione?” Il martedì successivo, tentando d’essere “amico in Cantoria”, di loro due così palesemente amiche, spiegò a Nadia e alla Maestra che Gesù suggerisce che “a chi ti chiede un mantello devi dare anche la tunica, a chi ti chiede di fare un miglio di strada con lui, tu devi farne due.” Allora MATESALEMME, prontamente esclamò: “Sì. Ma non speri mai di fare un giro in macchina con me. Lo decretò mentre saliva sull’automobile di Nadia, per fare un giro con lei. RU fece copie della registrazione della prova e le regalò a tutta la gente del Coro. Quando l’offrì anche alla Maestra, lei non la volle, non aveva un videoregistratore. RU insistette, sostenendo che un giorno l’avrebbe posseduto, ma lei fu ferma: così dimostrò, a Maria Rosa Cogliati, che era assieme a loro in quel momento in cui stavano andando verso l’Asilo per le prove, che lei non ci stava ad accettare quello che avevano accolto, e con piacere, tutti gli altri. Pochi giorni prima del giugno 1998, nell’imminenza della fine delle prove, la Maestra propose di fare come si faceva in molte altre cantorie: una cena d’arrivederci o una puntata in pizzeria. Potevano venire anche i parenti e sarebbe stato un gesto molto simpatico. Al che RU udì nettamente Nadia comunicare, ad alta voce e rivolta a lei: “Verrà anche il mio fidanzato segreto! Si andò alla pizzeria La vela. RU portò in macchina Enrica Brambilla, che gl’indicò la strada. Lei, l’unica che, un giorno, offrì un pacchetto di biscotti alla sua mamma. La Maestra era davanti all’ingresso della pizzeria, del tutto afona, per aver fatto troppo uso dell’ugola con i bambini della sua classe: “Che bella voce!” esclamò RU. E lei rispose con un “Grazie!” strozzato. Fu la prima volta che, per andare a mangiare una pizza, il cantore vide che erano stati fissati i posti a tavola, addirittura con i bigliettini. Non l’intese come una ricercatezza, ma come uno squallido e volgare stratagemma organizzato così, fatto apposta contro di lui, dalla Maestra e da Nadia, affinché questo non gradito loro “amico” se ne stesse alla larga. Infatti si ritrovò collocato il più lontano possibile da loro due.

Nadia, invece era vicina a MATESALEMME, e, tutt’intorno, non c’era nessun altro possibile “fidanzato segreto”... all’infuori che la Maestra del Coro. Lo avevano messo in disparte, le due amiche che sentiva più care, lì, tra tutte ed alle quali avrebbe gradito di stare vicino. Avrebbe preso in pugno allora la situazione, in un modo singolare: avrebbe offerto lui, a tutti, quella bella pizza che gli stavano facendo andare per traverso! Emarginato così, sarebbe stato lui a pagare! Quale santo proposito! Esistevano anche motivi ben più importanti e profondi: era il 4 giugno, l’anniversario delle sue nozze con Giancarla. Subito – rifiutato in quel modo, anche nell’amicizia che gli era stata promessa, con quel “Sì, ma solo in Cantoria” – gli era venuta, nell’anima, un fortissima e struggente nostalgia, per quello che aveva avuto e non aveva più. Doveva rivelare, a tutti, come avesse questo sentimento, nel suo animo, per sua moglie! Quanto ancora gli fosse caro. RU si alzò dal tavolo e si recò dal titolare della pizzeria. Chiese quanto fosse il costo di quella ventina di pizze, perché voleva pagarle lui stesso. Dovette forzargli la mano, giacché si erano accordati diversamente. Gli diede uno degli assegni del conto della mamma, che consentiva, a lui fallito, di potere gestire ancora il libretto di un conto corrente bancario. Quando più tardi Nadia andò a pagare, tornò e domandò chi lo avesse già fatto. RU annunciò allora d’essere stato lui, giacché avevano partecipato – senza sapere d’essere stati tutti invitati – alla sua festa per l’anniversario delle sue nozze, avvenute esattamente il 4 giugno del 1969. Avevano celebrato i 29 anni della sua felice ricorrenza. Non ci fu verso, nessuno volle accettare quella novità e Romano dové riprendersi l’assegno. Vedendolo fortemente contrariato, tanto che egli annunciò che allora se ne andava via, gli vennero incontro, promettendogli che, dopo, avrebbe offerto, da un’altra parte, un rinfresco, o un gelato. Si ritrovarono così, poco dopo, seduti attorno ad un tavolo della gelateria, in un giardino dietro Corso Italia. La Maestra non era lontana da lui e poteva ascoltare la sua voce. Allora fece come tante volte aveva fatto lei: finse di non curarla ed attaccò un’interminabile e noiosa chiacchierata, con il marito d’una corista, seduto alla sua sinistra, a proposito dei Testimoni di Geova, aggressori delle coscienze. Sì, perché era veramente arrabbiato, contro tutte le violenze patite, da chi aggredisce la coscienza ed inibisce il bene! Perché impedire a lui di vivere un’amicizia che sentiva davvero autentica? I testimoni di Geova, contro cui si stava scagliando, erano, in quel caso, Nadia e la Maestra, che avevano sputato sulla sua amicizia per loro, cianciando scemenze! Gli raccontò che quando quegli “invasori” andavano da lui, lui faceva con loro patti chiari, dicendogli: “Avete qualche cosa da comunicare a me? Anche io a voi. Allora prima un patto: parlate voi ed io vi ascolto, poi mi ascolterete voi, per lo stesso tempo...” Ebbene


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succedeva che, quando attaccava lui, li metteva talmente alle strette che essi non ne potevano più e non vedevano l’ora di scappare.” “Poveretti!” uscì di bocca alla Maestra, sebbene non avesse nemmeno un filo di voce... Si era messa nei loro panni ed aveva fatto veramente bene, perché lui stava rimproverando proprio lei, di non avergli voluto concedere il tempo che spettava anche a lui, se era un amico e se quella era una attività che si stava ancora svolgendo in cantoria... Due giorni dopo RU cercò d’informarsi, se la Maestra aveva recuperato la sua voce e le telefonò a casa, dimentico di quanto lei gli aveva detto: “Amici solo in Cantoria!”... ma no, se ne ricordava, ma se lei non rispettava i patti, non li avrebbe osservati più neppure lui. “Chi la vuole?” rispose una voce femminile. “Romano.” “Oh Madocine!” e quella donna gli attaccò su il telefono, con una immensa ed ingiustificabile villania. Restò sbalordito. Che cosa aveva indotto quelle persone a divenire improvvisamente così villane con lui?! Non aveva fatto nulla di male; avevano accettato tre dipinti e, invece d’una naturale riconoscenza, contraccambiavano con tanta maleducata scortesia! Ma di che l’accusavano? Forse d’essere un molestatore? Egli non aveva pressato né molestato nessuno! Queste cose stimolavano, fortemente, un tipo come lui, a non accettare stati di fatto assolutamente ingiusti ed ingiustificabili. Se quella gente si comportava così con lui, credendolo un debole privo di nerbo, si sbagliava di grosso! Facendo così con lui, essi si tiravano da soli la zappa sui piedi! Così si sentì costretto a scrivere una seconda lettera alla Maestra e le spiegò il suo stato, la sua condizione. Egli non era un cascamorto. Non voleva combinare proprio nulla con lei. Neppure lo avrebbe potuto: era sposato in chiesa, e, anche se divorziato dalla moglie, per lui, cattolico, quel divorzio non esisteva. Poi non aveva un bel nulla da poter offrire, in quanto a risorse economiche. Aveva solo sua madre da curare e un grande compito da portare avanti in tutt’altra direzione... Pertanto RU si rivolse a lei a cuore aperto, sapendo che mai lei avrebbe potuto equivocarlo. E, così come egli si sentiva libero di scriverle, così riconosceva a lei tutta la libertà di non leggere e cestinare le sue lettere, se non le gradiva, o di porgli un alt deciso a che seguitasse in questo modo che aveva assunto, comunicando unilateralmente con lei. Più chiaro ed esplicito di così non avrebbe potuto essere, ma la Maestra del Coro non rispose nulla, né gli fece mai alcun cenno, né di assenso, né di dissenso, e neppure di aver ricevuto quelle lettere. Allora RU insistette, visto che lei non gli aveva intimato: “Non scrivere!”.

E scrisse, usando quel mezzo, tutto unilaterale, per comunicare con lei, senza avere mai risposte; rivelò sinceramente quel crescente suo appassionarsi, che gli stava accadendo. Lei non gli rispose mai, nemmeno una volta, né a voce gli disse di smettere. Un giorno, però, RU andò in crisi nel Coro: Maria Rosa Cogliati gli aveva osservato che correva troppo; e c’era poi Ambrogio Busnelli che, talvolta, cantava a modo suo. Ormai RU, aiutato dal computer, era in grado di cogliere le differenze e si accorgeva come, spesso, l’amico andasse dietro ad altre versioni di quei canti, imparate e cantate nella sua lunga attività di corista. RU non volle rispondere, in Cantoria, a Maria Rosa, né voleva fare rimproveri ad Ambrogio, così scrisse alla Maestra di chiarire lei presto la cosa. Le domandò di spiegargli come avrebbe dovuto cantare, nell’imminente festività di San Giovanni, quando Ambrogio, con la sua voce possente, avrebbe attaccato una versione diversa dalla loro. Doveva seguirlo, o provare a farsi seguire? E se Ambrogio non lo faceva? Era sicuro che MATESALEMME avrebbe assunto provvedimenti. Invece, alle prove, non ci fu nemmeno un accenno, da parte della maestra, a quei problemi suscitati da lui. Eppure lei gli parlava! Una volta gli consigliò di non stare piegato in quel modo, mentre era seduto su uno scanno della Chiesa, perché la voce non sarebbe uscita bene, con il diaframma così schiacciato... Un giorno, in cui stava infilando una sua lettera nella cassetta postale della Maestra, una donna di quella famiglia, forse la stessa dell’‘O Madocine’, l’apostrofò con la stessa estrema maleducazione e l’identico sgarbo: “Lei non osi più mettere posta in questa casella!!!” E lui: “Ma che cosa ho fatto di male, per meritare questo? Che le ho fatto?” La donna girò sui tacchi, non lo degnò d’una risposta e lo lasciò lì, come se egli fosse un cane rognoso o una persona inacidita dalla vita... come lei. Avrebbe dovuto smettere? E perché? La Maestra non aveva certo bisogno che altri facessero il lavoro nero per lei. Probabilmente avevano cominciato a lottare contro di lui come era già accaduto quando avevano distrutto, una ventina d’anni prima, il romanzetto sentimentale della ragazza ed avevano trasformato due innamorati... in un prete e in una suora, come nelle barzellette! Se avesse smesso di scriverle, solo per questo, si sarebbe sentito come un verme, che avesse considerato validi quei metodi coercitivi ed assolutamente inaccettabili, fatti contro di lei, da chi avrebbe dovuto invece volerle veramente bene, cioè lasciarla libera di vivere le proprie scelte e non le loro. Perché seguitavano a volere opprimere la sua libertà? E come faceva, la Maestra, a gradirli? Oh, non li aveva graditi, era andata a farsi suora. Ma poi aveva visto nell’Ordine più limitazioni ancora che in famiglia, dunque tanto valeva accettare queste


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imposizioni da quelli di casa, che, almeno, erano persone che le volevano bene a modo loro e lo facevano a fin di bene, seppure nella loro ottica spesso dura da accettare! Da quel giorno RU cominciò a scrivere, alla sua Maestra, usando la posta ed attaccando il francobollo. Venne così il 28 giugno, Festa di San Giovanni Battista, ultimo impegno per la Corale e giorno del: ”Rompete le righe!” RU, come aveva temuto, si trovò in seria difficoltà con Ambrogio. Privo delle indicazioni che aveva richieste, non seppe che fare, e s’impappinò vistosamente. Ne restò così mortificato da decidere che, se le cose non cambiavano, egli non avrebbe più accettato di partecipare al Coro in quelle condizioni. Alla fine dell’ultimo canto della messa, mentre tutti si apprestavano a trovare l’occasione per un commento, un saluto, un augurio di “Buone vacanze!” e un sentito “A rivederci a settembre!”, RU si defilò, senza salutare nessuno, tanto avvilito e mortificato si sentiva. Scrisse una lettera, di dimissioni dal Coro, alla Maestra. In essa fece sapere come avesse ormai capito che, per motivi che certamente non dipendevano da lui, lei non lo accettava in alcun modo, non lo tollerava e probabilmente si sentiva veramente infastidita da lui. Egli non desiderava tutto questo, non lo gradiva: un Maestro deve sentirsi a suo agio con tutti. Avrebbe preso parte, nuovamente al Coro, solo se lei gli avesse rivolto il chiaro e preciso invito: “Vieni a cantare! Tu non mi dai fastidio!” Fu l’unica volta che invocò la cortesia d’una risposta. Evidentemente pretese troppo, perché l’attese invano. Decise così che avrebbe fatto il ritratto anche a tutte le altre persone della Cantoria, e più di uno a ciascuna, come aveva fatto alla Maestra. Così RU si mise al lavoro e durante l’estate dipinse una quarantina di ritratti, singoli e di gruppo. Ne avrebbe fatto, prima, una esposizione all’Oratorio e, poi, avrebbe donato le opere a tutti i cantori. Per non mettere in difficoltà la maestra, che probabilmente non aveva rivelato a nessuno di avere ricevuto quelle tre opere da RU, ne dipinse altre tre, anche per lei, affinché non si notasse che trattava lei in modo diverso da come si comportava con gli altri. Il valore commerciale, di quello che RU dipinse, superò i venti milioni, perché egli vendeva i ritratti di quella misura, dipinti su commissione, a mezzo milione di lire l’uno.

Aveva sempre venduto quasi tutte le sue opere, fin da quando era stato al servizio militare e le richieste avevano sempre superato la sua stessa capacità d’evaderle. Giunse domenica 6 settembre 1998 e l’indomani la Cantoria avrebbe riaperto i battenti. RU si era dimesso dal Coro, non era stato invitato ed aveva deciso che non ci sarebbe più andato. Incontrò, alla messa delle 18, l’amica Nadia, che gli domandò: “Ci vediamo domani?” “Non credo” le rispose. “Perché?” “Motivi personali.” Finita la messa stava percorrendo colla mamma, il corridoio centrale, per uscire dalla Chiesa. Era giunto in mezzo, quando la trama del destino fece ‘sì che MATESALEMME entrasse, percorresse la corsia laterale di destra, lo vedesse e gli sorridesse con molta, molta affabilità. RU, fortemente sorpreso, rispose al saluto. Accompagnata a casa la mamma, la mise nel suo recinto e corse alla Chiesa, perché, improvvisamente, l’estrema cordialità di quel saluto gli aveva fatto balenare, in mente, l’idea che forse lei non avesse nemmeno ricevuto le sue lettere... Forse quelle “così brave e protettive donne” della sua casa, che evidentemente intendevano difenderla da quel pezzente che – secondo loro – aveva osato alzare gli occhi su di lei, non si erano solo limitate a impartire a lui l’ordine di “non osare più d’imbucare le lettere”, ma le avevano anche sottratte alla lettura di lei... Per qual motivo? Già scritto: per difenderla da quell’Amodeo che si era sentito già sbattere in faccia il telefono con quel “O Madocine!”, fin dal sei di giugno, quando le sue missive ancora non erano neppure incominciate. Volle così chiarire le cose. Trovò la maestra con Nadia, davanti alla Chiesa e, rivoltosi a lei: “Ti ho inviate delle lettere, le hai ricevute?” “Sì, ma dopo un poco mi sono stancata di leggere...”, stava probabilmente difendendo la sua famiglia... RU non le credé. “Bene, allora sappi che, nell’ultima, ti comunicavo che non sarei più venuto a cantare nel tuo Coro per non infastidirti. Ti avevo scritto che sari venuto solo se tu mi avessi invitato a farlo.” E lei: “Io non invito nessuno. Il Coro parrocchiale è una istituzione libera. Non siamo pagati per fare quello che facciamo. Vero Nadia? Siamo forse pagate? Tu Romano fa’ quel che vuoi e non chiedere a me cosa vuoi o devi fare!” Era visibilmente irritata e gli stava finalmente dando un bel “tu” deciso! Messa a tu per tu con le questioni, questo pronome saltava fuori... Proprio in lei che aveva sostenuto che non l’avrebbe mai fatto, con tanta naturalezza.


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RU restò perplesso. Che centrava Nadia con un pagamento? Nadia era una corista come lui. Capiva che potesse esser pagata una Maestra, ma perché si accomunava ancora con costei? Allora domandò in modo ancora più diretto: “Vuoi che venga o no?” “Tu sei come gli altri; mi dispiace se non vieni perché tu hai una bella voce.” “Non ti do fastidio?” “Non mi fai né caldo né freddo. Fa’ quel che vuoi!” “Lo sai che in casa tua m’hanno attaccato su il telefono, che tua madre m’ha intimato, molto volgarmente, di non osare di mettere mai più corrispondenza nella tua cassetta delle lettere?” “Non fu mia madre, fu mia zia” Allora RU tirò fuori dalla borsa, che aveva preso con sé, le fotocopie a colori dei quadri che aveva dipinto, anche a Nadia, in quei due ultimi mesi. Si vedeva che il lavoro eseguito era stato imponente. Lei commentò: “Ah, ti sei divertito!” Questa osservazione, scaturita liberamente, gli restò a lungo nel cervello. Che cosa aveva voluto significare? Divertito a dipingere tutti quei ritratti o divertito, prima, con lei, ad aver dato a lei quelle tele, per le quali lei gli aveva anche dichiarato d’aver provato piacere nel riceverle? Opere che aveva forse ritenuto un dono prezioso, unico nel loro genere, mentre invece ora lo vedeva inflazionato in una maniera così evidente? Che egli l’avesse forse illusa, ed ora, di colpo, delusa? Fatto sta che, da quel momento, lei assistette alla scena d’un RU che portava – tra l’ammirazione di tutti – i suoi innumerevoli quadri alle prove, cogliendo l’occasione per ultimare quelli che non aveva potuto, non conoscendo molto le fisionomie loro ed aiutato solo, nella sua memoria, dalla registrazione televisiva, spesso inadatta allo scopo. Qualcosa di molto particolare dovette sicuramente essere scattato. nella mente notevolmente orgogliosa e selettiva, di Maria Teresa: delusione? Invidia? Gelosia? Aveva perso il primato, di lui e su di loro? Chi può conoscere che cosa si agiti, di consapevole ed inconsapevole, nella psiche umana?! Arrivò il giorno dell’inaugurazione della mostra, alla fine di settembre. Le persone del Coro, in un momento in cui il pittore era assente, chiesero alla Maestra cosa dovessero fare in cambio della sua opera, e lei esclamò loro testualmente: “Quello lì è matto! Se avesse bisogno delle cinquantamila lire d’un regalino, le verrebbe a chiedere a me. E io gliele darei!” In parole povere, convinse le persone che non dovevano assolutamente fare nulla per lui, come Cantoria; anche se il dono era fatto a tutte le persone del Coro parrocchiale.

Chi ritenesse, a titolo personale, che RU meritasse un “grazie!”, glielo desse pure per conto suo. In quanto a lei, dichiarò che non avrebbe accettato le sue opere! (e ne aveva già accettate tre, con tanto di costosissime cornici) Un simile atteggiamento è così immotivato che è inaccettabile sia stato compiuto liberamente dalla Maestra. Solo il Destino può avere costretto una persona come lei ad assumere un comportamento così privo dei fondamenti stessi della riconoscenza umana, verso chi è stato così buono con te e non chiede nulla in cambio. RU non voleva niente da lei, non le aveva chiesto niente altro se non di dirgli con franchezza se le dava fastidio o no che fosse lì con loro. E allora quale altra possibile giustificazione, se non quella dovuta alla forza maggiore della volontà di Dio? RU fu aiutato a montare la mostra da Enzo Vannucci, ed accadde un fatto chiarissimo e molto simbolico: i tre dipinti, che raffiguravano la maestra non restavano appesi e cadevano. Caddero ben tre volte e furono bloccati in modo diverso da tutti gli altri! Dio gli stava dando persino dei segni, inequivocabili, che la Maestra sarebbe stata solo una nemica di tutte le sue iniziative. RU aveva realizzato un unico pannello, con tutte le opere, accostate una all’altra, in modo da determinare come un immenso mosaico. La mostra era a tema: era l’offerta, al suo Coro, di un cantore giudicato come un lebbroso del sentimento, uno da evitare, come se, invece che offrire gratuitamente come faceva, desse invece solo per ricevere contropartite. C’era il chiaro invito, rivolto a tutti, affinché ritrovassero il senso generale di un volersi bene e di una comune appartenenza. RU, presenziando alle sue opere, indossava una delle due maglie che aveva realizzato per l’occasione e che riproducevano a colori, intorno, una parte delle opere e, in mezzo, il volto della maestra, ma rappresentato a grossi pixel in modo tale da potersi riconoscere la figura solo a notevole distanza. Quel bel viso apparteneva, a quanto sembrava, ad un cuore divenuto spezzettato nelle mille pietruzze d’un illeggibile e freddo mosaico. L’altra maglia era indossata da sua madre. E un registratore diffondeva la musica d’alcuni canti di Chiesa, scritti da RU e fatti suonare al Computer! Un giorno vennero alcune persone e si fermarono a parlare con lui. Rivelarono che erano parenti della Maestra, e si mostrarono molto gentili con lui. Tutte le persone del Coro visitarono la mostra, tranne la maestra, nell’assoluta determinazione di dimostrare a lui, agli altri e soprattutto a se stessa, che ella era superiore ad ogni cosa e non teneva assolutamente a niente di tutto questo.


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Avendolo notato, RU le chiese come mai e le spiegò che, se voleva ancora vedere la Mostra, ormai chiusa, le avrebbe aperto apposta l’Oratorio, subito dopo quella prova. Lei non gli rispose nulla. Quando si finì di cantare, egli si rivolse a lei, dicendole che l’aspettava in Oratorio e lei gli rispose solamente: “Buona notte!” Il cantore chiese le chiavi a Don Luigi ed aprì apposta l’Oratorio e attese inutilmente la sua Maestra. Passò due volte di lì Isidoro Busnelli, e la seconda gli chiese che facesse lì, invece d’andare a casa, e RU glielo spiegò. Infine si arrese quando riconobbe, molti minuti dopo, l’automobile di Nadia che, avendo portato a casa MATESALEMME, se ne ritornava alla sua. Si dispiacque: forse avevano anche riso di lui, visto lì davanti, ad attendere invano un puro segno di gentilezza. La dichiarazione della Maestra, che non avrebbe ritirato le opere che ritraevano lei, e il suo non riferire (piuttosto grave, visto l’atteggiamento che stava assumendo) che n’aveva già accettate tre, alcuni mesi prima, portarono RU ad affermare a tutti che, finita la mostra, avrebbe fatto un bel falò dei ritratti non ritirati. Ciò creò perplessità, in molti: perché distruggere opere creative dello spirito? Maria Rosa Cogliati, seguendo l’esempio della Maestra, non volle ritirare le sue opere. Invece Nadia fu gentile, invitò RU a casa sua e n’ebbe le confidenze. I dipinti più belli, fatti da RU, furono proprio quelli riguardanti lei: n’aveva dipinti quattro, ma due non le piacquero, e non li volle. RU, in un’esposizione del mercatino, di fianco alla Chiesa, in cui Nadia vendeva le merci a favore della Parrocchia, un giorno portò quei due ritratti, sui quali aveva ridipinto disegni astratti, nello stile del suo Pantareismo. Spiegò a lei che erano i suoi, ricoperti, che dovevano essere venduti e il ricavato dato alla Chiesa. Dopo appena un’ora, lui stesso si recò al mercatino e li comprò, pagandoli 100.000 lire: erano un pezzo della sua vita, che voleva tenere per sé. Se a Nadia non erano cari, per il bene che egli vi aveva infuso dipingendoli, erano molto cari a lui. Egli sapeva che cosa gli erano costati. Quando RU fu ospite da Nadia, le raccontò d’essersi appassionato alla maestra, ma che era una questione tutta sua, del suo spirito, con la quale lei non doveva sentirsi coinvolta, perché non c’era davvero nessuna intenzione di chiederle nulla o di ricevere nulla in cambio. Tutto finiva lì, nel suo solo cuore. Visto che erano così amiche, poteva fare a lui il favore di dirle che non aveva nessuna intenzione di mancarle di rispetto? Da come si comportò la Maestra, la prima volta che si videro, parve a RU che Nadia l’avesse fatto, perché MATESALEMME aveva ricominciato a essere gentile.

Questa storia del perché, infine, lei avesse deciso d’assumere questo atteggiamento, RU se lo spiegò solo addebitandolo al fatto che lei voleva difendersi dal giudizio malevolo della gente. Se dimostrava a tutti di disprezzarlo, non avrebbero fatto fantasie, perché, da come RU si comportava, dovevano aver capito tutti come lei gli piacesse molto. Una sera, infatti, Maria Rosa Sposato era entrata, a sproposito, su quell’argomento con lei e le aveva suggerito: “Ma perché non vuoi le cortesie di Romano?” “Nemmeno se lo vedo vestito d’oro!”. Il motivo? Non lo sapeva neppure lei. Lo addebitava, mentendo a se stessa, alla differenza di anni, ma in verità dipendeva solo dalla Provvidenza, dal “destino”. Se lei gli avesse dato amicizia o affetto, tutto sarebbe restato imprigionato in quei limiti. Invece, così, Dio accendeva – per sempre! – tra loro, una passione così grande che avrebbe portato di certo patimenti (perché non avrebbe avuto mai reali sbocchi nella cosiddetta vita reale), ma avrebbe indotto una sete eterna, di cui si sarebbero poi giovati entrambi, in Paradiso, dissetandosi all’infinito. Questo sentimento, di RU, non avendo alcun possibile futuro, sarebbe restato puro, non sarebbe stato in contrasto con il suo terrestre matrimonio, non avrebbe oltraggiato nulla della sua fede. Al contrario era costruttivo, edificante, era qualche cosa di cui non si sarebbe dovuto mai vergognare e che l’induceva a cantare lodi in Chiesa al Signore. Per RU era il massimo che avrebbe potuto trovare. E un atteggiamento, all’apparenza ostile, come quello della Maestra, era mandato a RU da Dio proprio affinché egli se ne giovasse, in tutti i possibili e leciti modi. RU s’accorgeva molto bene di come lei avesse assunto, all’improvviso e in esatta contrapposizione, il fortissimo bisogno di mostragli disprezzo. Ma, in una personalità complessa e controversa, come quella della Maestra, quell’atteggiamento corrispondeva solo al proverbio “Chi disprezza vuol comprare”... Lei per prima se ne rendeva conto ed allora si accorgeva che anche quel metodo che lei usava con lui non era così perfetto come le sembrava... E s’indispettiva con se stessa, entrava in lite, le si rompeva l’anima. RU la destabilizzava. Sta di fatto che il dono, di quasi quaranta ritratti, forse non è stato mai fatto, da nessun cantore, ad un Coro parrocchiale. Eppure la sua Maestra osò schifarlo: non volle neppure andare a vedere la mostra, lei che però aveva accettato i suoi tre quadri e gli aveva anche affermato che n’era restata contenta, quando la faccenda non si era così aggrovigliata. Ci doveva essere per forza sotto qualcosa, ma RU – fino a quel momento – ignorava che sotto ci fosse semplicemente la mano della Provvidenza di Dio.


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All’incredulità e alla non considerazione, per lui, da parte di tutto il mondo (offerta da lui al Signore, con un Voto capestro, per salvare una vita), Dio aveva sostituito soltanto l’incomprensione di lei, e aveva liberati – entrambi – dai loro Voti. Per RU le situazioni si ripetevano, sempre a livelli superiori e sempre più tendenti al limite del sublime. Così, come nel suo potenziale Purgatorio Anna Badari portò involontariamente alla morte dei gatti, a causa della sua leggerezza, così, in questo potenziale Paradiso, lei, MATESALEMME, a causa dell’indisponenza della sua parte, portò involontariamente alla morte del suo cane, di Tigre. RU, solitamente, portava il cane nei prati esistenti dietro al Cimitero passando per la via Prampolini. Un giorno, nella speranza di vedere la Maestra decise di passare per Via Trento. Non la vide. Osservò invece il prato che cominciava a metà di quella via, nella parte sinistra della strada. Allora tolse a Tigre il guinzaglio e l’animale cominciò a correre, come faceva di solito, in quel campo in cui entrava per la prima volta. Se RU non fosse stato chiuso, nei suoi pensieri, riguardo ai dolori che stava provando in quei giorni, sarebbe stato più attento, non avrebbe commesso l’errore di proseguire lungo quella via. Il cane, restato indietro, si portò allora sulla carreggiata e prese a correre a tutta velocità verso di lui. Raggiuntolo, per dimostrare al suo padrone quanto egli fosse intelligente e che aveva capito che, quella, era un’altra strada che portava al suo solito prato, per andarvi da sé, prima che vi fosse condotto, superò, di corsa, RU, senza rallentare e senza ascoltare gli ordini del padrone che, presagendo stavolta il pericolo meglio di lui, prese a gridare con forza: “Tigre! Tigre!” Attirato dal suo destino inesorabile, il cane cercò d’attraversare la via che fiancheggiava il cimitero, un camion con rimorchio passò e Tigre fu travolto dalle ruote del trattore. Il camionista bloccò come poté, ma Tigre giacque riverso tra le ruote dell’avantreno e del rimorchio. RU corse subito là e vide il suo cane sollevarsi, attraversare tutta la strada sebbene la spina dorsale si fosse rotta, venire fino a lui per un ultimo saluto. A RU che disse: “Tigre, cosa hai fatto?!” quel suo grande amico rispose, a modo suo, come faceva tutte le volte che, dopo ore di vera venerazione per lui e accanto a lui, RU lo mandava alla cuccia: fece il gesto come di morderlo, come per dirgli, “Vado via malvolentieri, ne sono costretto! Vorrei restare ancora con te!”. Solo ora, che RU era a Saronno, Paola era riuscita a cogliere quella dimensione diversa, che apparteneva a lui e a pochi altri. Gli telefonava frequentemente e, in presenza di problemi, quasi gl’intimava di recarsi a casa sua, percorrendo quella quarantina di chilometri di distanza tra Saronno, posta a Nord, e l’estremo sud di Milano in cui lei abitava, in Via Del Turchino. Una sera Paola lo supplicò più intensamente del solito:

“Vieni, c’è davvero bisogno del tuo aiuto! Qui c’è Patrizia, la mia portinaia, che è veramente fuori di testa! Credo che solo tu le possa dare aiuto! Se tu sei cristiano come dici, non puoi non rispondere a questo appello!” PATRIZIA, RU NON FECE TESORO DI SÉ... E FU UNO SCHIFO. Fu una sollecitazione che ebbe alle 23 dell’11 ottobre 1998, in un momento in cui RU era profondamente deluso e rattristato per la morte di Tigre e per come la Direttrice del Coro aveva accolto male i suoi ritratti offerti alla Cantoria. Di fianco a questo rifiuto, come spesso faceva il destino per lui, ci sarebbe stato, adesso, l’estremo dono di se stesso, corpo e anima, a una sconosciuta, in un giorno in cui Dio=26 si sarebbe mosso in tutto, come dicono i giorni di vita che aveva RU. Giunse all’abitazione di Paola Vecchi. Veramente Patrizia era fuori di testa. Stava soffrendo per una delusione d’amore. Oh, non quello, diciamo così: regolare, per il marito, ma per il suo amante, quello che al momento lei prediligeva. Per la sua esperienza con la Maria Teresa «carnale», la Mazzola, che gli aveva smazzolato ben bene la sua virtù, RU non si scandalizzava più, delle forme. Lo preoccupò in quel momento lo stato di quella donna: una sfiducia così forte in se stessa, che poteva davvero sconfinare nel tentativo di suicidio, paventato da Paola. Patrizia era la custode di via Del Turchino i cui abitava Paola. Era stata chi aveva donato museruola e guinzaglio all’amico Tigre morto da poco. Anche questo era stato un segno di ciò che lei avrebbe poi fatto proprio a loro due, mettendo museruola e guinzaglio proprio alla sfrenatezza della loro vita. Viveva col marito, il portinaio e un loro figlio di 12 anni, e lui aveva seguitato a tenerla in casa, nonostante i suoi ripetuti tradimenti con un handicappato; nelle condizioni in cui quella sera lei era non poteva tornare a casa sua. Doveva essere assistita e l’avrebbe trascorsa in casa di Paola. RU, chiamato a sera tarda a dare una mano, sarebbe stato lì, a darla anche lui, per come gli sarebbe stato possibile. Parlarono a lungo. Intorno alle due del mattino, provarono a dormire. Paola e sua figlia andarono nella camera da letto, in cui, incorniciato e in bella mostra, c’era il grande ritratto fattole da RU, che raffigurava lei, nel gesto di dar latte alla sua piccola Chiaretta. Nell’altra stanza, il soggiorno, divennero due letti – uno per Patrizia, l’altro per RU – due poltrone.


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La donna piangeva, era scossa da fremiti, non riusciva a dormire nel suo letto... così d’un tratto s’infilò decisa in quello di RU e gli si aggrappò, come a un’ancora. Gli si strinse contro e asciugò il pianto sul suo collo, grata con lui che, in quel frangente, capiva che le serviva un uomo cui lacrimare addosso, mettendogli con ciò museruola e guinzaglio ... RU per un po’ si negò alle sue mani, quando iniziarono a tentare di toccarlo più sul vivo e le riportò al posto loro; ma quando lei riprese a piangere, messa di fronte anche a lui che, in quel momento, così si ritraeva, il grand’uomo capì che non poteva più fare tesoro di se stesso con quella disgraziata. Capendo che moralmente si salvava solo se non lo faceva per finta, l’amò anche con l’anima, finché lei non se fu appagata e prese sonno, tornata nel suo letto. Al mattino Paola si stupì molto di quanto beneficio avessero portato, su quell’essere sfinito, solo poche ore di sonno. Preparò un caffè doppio e, con l’amica che dormiva serena nel suo divano-letto, lo bevvero e lui se ne ritornò alle sue gatte da pelare a Saronno. Non poté pelarle, quelle gatte, perché, il dì dopo, fu Patrizia in persona a telefonargli: ora aveva bisogno di lui; e quando RU si negò, ricominciò a piangere. Il grand’uomo capì d’essere divenuto il metadone per quella drogata, e per quel grande valore morale che assegnava a se stesso ritenne di non potere esimersi dall’essere lui la cura. Ma non si accorgeva che faceva esattamente come Sabato, quando trovava sulla strada un ombrello scassato e se lo portava in casa per rimetterlo a posto. Infatti RU in Patrizia stava vedendo se stesso buttato via, dalla Maestra, e non lo riteneva giusto! Insomma – come tutto il movimento di quel 26=Dio in quei 22200 giorni in cui fu chiamato – si metteva letteralmente nei panni di un deus ex machina. Ripartì da Saronno e ora andò stavolta dritto a casa di lei. Fu accolto dal marito, che capiva molto bene quello che stava accadendo. Lei dichiarò sincera, al suo consorte, che doveva staccarsi un poco dalla sua vita, che doveva andare da RU, perché lui solo – non deus ex machina ma Lancillotto – era la sua salvezza, accorsi lì sul suo cavallo bianco. Il marito l’ascoltava in silenzio, disposto a fare e a concedere, lui stesso, ogni cosa, purché quella persona, cui voleva bene e che s’era legata a lui per Sacramento, uscisse da quello stato critico, per la sua incolumità e forse per la vita. Mentre erano lì, giunse una quarta persona: un mongoloide. Era parte in causa anche lui. Abitava il quel condominio e, sapendo quanto a lei piacessero alcolici e vino, l’attirava a casa sua e, con quella merce di scambio, quand’era fatta finita, lei amava lui handicappato, che nessun’altra voleva. Fu una scena indefinibile, se tragica o comica, certamente pietosa e paradossale, con quest’uomo crudelmente colpito dalla sorte, che si attaccava, come un corpo

morto, alla sua Patrizia che andava via su quel triste e doloroso cavallo bianco e un cavaliere che non sapeva nemmeno lui che pesci pigliare. In casi come questo – sentendosi un deus ex machina – lui si affidava a Dio. Quando poi fu solo con lei, cercò d’usare la ragione e d’attivare tutta la dialettica di cui era capace, per far comprendere, a quella donna, che egli era semplicemente RU, un povero cristo più di lei. Secondo la sua ragione, lei lo avrebbe visto, poiché la stava portando a vedere come era conciato, a vivere proprio in un buco con sua madre, e non ci sarebbe stato nemmeno lo spazio in cui mettere anche lei. Una stanza di 17 metri calpestabili, che spesso puzzava talmente d’urina, che in essa il suo vicino – come un giorno gli disse – non entrava, altrimenti stava male. Lei la vide, trovò sua madre reclusa nel suo letto con le sponde, dal quale non poteva uscire per le stesse contro-misure usate nelle culle dei bambini e perseverò a vedere il lui Lancillotto. Sapeva che in realtà lui con lei non aveva elargito la sua pietà o misericordia: invece era stata amata, poiché lui aveva visto in lei – non la persona schifosa che si sentiva – ma un essere umano, così neppure a lei ora faceva schifo la sua casa. Chiese del vino, che lui non aveva non facendone uso. Già lei risentiva della sua astinenza in quelle due ore passate senza bere. Sarebbe bastata una bottiglia di rosso, da bere in due!. Ricorse a Barbara e Vincenzo, e i vicini gli diedero tre quarti di rosso. Lei ne bevve appena una metà e, all’improvviso, gli psicofarmaci – di cui era intossicata – e quel poco vinello, formarono una miscela esplosiva. Cominciò a smaniare, a far la voce grossa fino a pretendere che riprendessero da dove avevano smesso la notte prima. Ora era lei che lo stava proprio violentando, senza scrupolo alcuno per quella vecchia signora chiusa li tra le sbarre. Cercò di frenare l’ossessione che si era scatenata in lei e, grazie alla quale, il suo amante mongoloide riusciva infine ad avere tutto. Vistosi, in quel momento, esattamente al posto di quel povero cristo, RU ebbe profonda pena, per lui, per lei, per se stesso e per suo marito, così decise al volo di riportargliela subito. “Bastardo! Sei un bastardo!” strillò Patrizia, quando lui glielo disse.. Anna, la madre di lui, era lì, nel suo recinto, non capiva cosa accadesse e con occhi dubbiosi guardava lei, interrogativi il figlio, muta, confinata, impotente. RU telefonò al marito e chiese a lui come dovesse comportarsi. Lo aiutasse lui, che certamente aveva più esperienza. Lui gli confidò ch’era addolorato, che le voleva bene, ma che quand’era così anche lui non conosceva i rimedi. Per questo lei l’aveva lasciato e lui la lasciava andare.


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Il suo rimedio era quella persona che aveva visto, quell’infelice che rendeva infelici tutti loro. L’attirava a se e la faceva bere, ed era divenuta un’alcolizzata, che solo istituti specializzati avrebbero potuto aiutare come si deve. Ora, che si trovava in quella situazione, vedesse RU di fare come si poteva, come era capace, perché soluzioni vere e proprie non esistevano. RU fu lieto d’avere parlato con lui, perché, per come da Lancillotto si era posto con sua moglie, gli era restato dentro un disagio che quel colloquio dissolse. Ne uscì più forte e responsabile. Quando gli fu chiaro che, a lei, serviva una medicina chiamata sesso, non fece più alcun tesoro né di sé né di sua madre costretta a partecipare senza colpe a quello schifo e glielo diede. La differenza fu che stavolta lo fece capire bene a lei che era solo la sua medicina, datale solo da un medico e non da un innamorato. Volle strapparsi dal viso la maschera che li gli aveva messo, del Lancillotto che s’involava con la sua Ginevra, lasciando di sasso Re Artù. Ci riuscì. Accettò d’essere riaccompagnata ipso facto a casa sua, spaziosa, profumata, con tutti i servizi e nessuna vecchia incosciente da accudire. Qualche giorno dopo Paola pretese nuovamente, che RU andasse a trovare lei e sua figlia Chiara. Doveva farlo! Lei voleva apprendere cosa fosse successo, perché era venuta a conoscenza che Patrizia era stata portata a casa sua, a Saronno, e che erano successe poi altre cose che lei doveva sapere. RU andò la lei e le spiegò esattamente ogni cosa. Non appena Paola seppe che, mentre lei dormiva con la figlia nella loro stanza, il suo amico aveva consolato la sua portinaia, e che quello stava alla base della serenità che aveva visto poi nella sua amica, anche dopo che si era svegliata, ne restò costernata. In primo luogo gli chiese come si fosse permesso, di scopare lì, nella sua abitazione. Gli fece notare come quella fosse una casa e non un casino. Lo rimproverò, ferocemente, d’essersi approfittato, d’una persona così debilitata. Non se ne vergognava? Ma erano solo scuse: lei aveva capito che RU era un uomo in carne ed ossa e non quella pura idealizzazione che ne aveva fatto, insomma un fantasma... Come mai lei, proprio lei, che si era ben accorta di quanto lui le volesse bene, l’aveva tenuto così a distanza? E per così tanto tempo? Quell’uomo non si era mai negato quando gli aveva chiesto aiuto e poteva essere un grande e reale sostegno, per lei e sua figlia.

Lui laureato aveva cercato di riportare lei, una diplomata, nel ruolo in linea con questo e non coi mestieri che lei faceva, di donna di servizio e domestica, dopo che era stata risparmiata da un tumore maligno guarito grazie a Padre Pio. RU le pubblicò il suo libro di poesie... perché l’aveva sempre snobbato? Lo aveva usato solo per fare ingelosire Marcello! Poi lui si era allontanato, era andato prima al Sud, poi a Saronno, e un giorno era ritornato da lei, con le immagini dei ritratti che aveva fatto alla suorina... che non le erano piaciute per niente. RU gliele aveva portate per mostrarle che non era più suo? Ricordava come le aveva reagito, tutto sommato da persona gelosa, dicendogli: “Questa qui, caro Romano, è una mangia... e stai in guardia, perché è cattiva, veramente cattiva!”. Povera Maria Teresa! Eppure Paola era una sensitiva, aveva solitamente un bel colpo d’occhio, nel riconoscere le persone! Ma stavolta – aveva pensato lui – lai si era sbagliata con la sua Maestra. Vedeva solo la durezza evidente posta in superficie, e glielo aveva spiegato: “Quello che leggi, di duro, in questo volto è solo una grande sfiducia che vi è penetrata, per la deludente esperienza che lei ha fatto dell’amore. Hai ragione: lei ha bisogno d’amore, anche quello fisico, ma è divenuto, in questo momento della sua vita, il suo vero problema, perché ne ha terrore, e io vorrei toglierglielo.” RU, non essendo più protetto – dopo il fattaccio della Patrizia, saputo da Paola – scoprì incredulo che lei in fin dei conti disse a se stessa: “Se lui ha fatto l’amore, a casa mia, con la mia amica, come mai io no? Si mise cos’ subito a fare in modo da eliminare questa lacuna. Ora RU era un uomo, fatto di carne ed ossa e Paola era una donna mica male... dotata di notevole fascino e ciò l’intrigava. Inoltre anche lui – esattamente come Patrizia! – aveva dentro, in quei giorni, una grande frustrazione, indottagli dalla Maestra, che con lui era sprezzante, per quel ruolo destinatole da Dio, dopo che lui aveva fatto quel famoso “patto” con Lui. Fu proprio il disprezzo per lui, di Maria Teresa, la suorina, che frantumò ogni ritrosia a che Paola ora concretamente gli si desse. E si ebbero, tutti e due, recuperando sul tempo stranamente perduto, anche se lei s’accorgeva che RU, sotto-sotto, non era più suo. Lo percepiva preso proprio dalla suorina, come la chiamava lei, quando voleva essere meno cattiva. Ora voi vi chiederete che cosa ne sia allora di quel “patto” stipulato con il Signore, visto tutte queste donne che gli si diedero... Queste vicende ebbero sempre i due tempi, reciproci, di un iniziale successo, che gli mostrava in atto quanto realmente poteva ottenere, e poi l’evento tutto a rovescio di ciò cui aveva veramente rinunciato e proprio grazie a quel patto.


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Ecco come la Provvidenza distolse per sempre RU e Paola da quello che avevano assaporato, e in un modo privo di spiegazioni plausibili. Quando Paola si mise a letto con RU, chiese a chiave la porta della stanza di fianco in cui dormiva sua figlia Chiara, di 10 anni. Erano lì che si amavano ed ecco che la porta – che era stata chiusa a chiave – invece si aprì e Chiara li sorprese in quello che stavano facendo, e si mise a piangere! Che figura di merda! Tutti e due! A conti fatti anche RU uscì – come ne era uscita Patrizia – da quella storia impossibile, nello stesso identico modo: sprofondando nella vergogna e nella mortificazione. Avvilimento, desolazione, umiliazione e vergogna così profonda (e così definitiva sorgente di benessere) che lui non andò più a trovare Paola e lei più non glielo chiese. RU ritornò così a immergersi nella realtà tutta virtuale e positiva, possibile solo con la sua Maestra. Si era reso conto di una cosa importantissima: il particolare rapporto, instaurato con lei, non aveva nessuna possibilità che sfociasse in tutto quello schifo che, nonostante tutte le buone intenzioni, c’era stato, con Patrizia e con Paola, proprio nei giorni prima. L’incontrava ogni lunedì alle prove e poteva donare a lei, il suo cuore, senza il pericolo che si dovesse trovare mai, un giorno, ad averne vergogna, come era capitato quando l’innocenza di Chiara lo aveva sorpreso e mortificato come più non si può, come se fosse stato l’occhio puro di Dio ... Proprio Dio avvalorava così il suo patto con lui. RU aveva rinunciato a ogni successo esattamente come fece Abramo quando decise di non tenere in vita l’Isacco da cui il successo di una prole superiore al numero delle stelle in cielo. RU l’aveva fatto non perché glielo avesse chiesto Dio, ma il suo cuore che non voleva che Lucy morisse, di anoressia. Gesù, sul dorso di tanto , aveva salvato – da parte sua – la sua suorina che era in Via Trento e impersonava il discredito di tutti, liberandolo da quello altrui. Poiché tutto sarebbe venuto da lui.

Lei si dichiarò felice ed esclamò testualmente che Dio proprio esisteva! RU andò, felice, a riferire a Don Luigi che avrebbe aiutato quell’uomo. “Sta calmo, Romano! Quella famiglia ha molti problemi. Ti cacci nei guai!” Non successe, poiché Fiorella l’avvertì che l’ammalato, tolto dall’ospedale, era stato spostato nella casa che avevano, in un paese a nord di Milano. Così un dì l’uomo – non ben sorvegliato – uscì, andò con il treno a Milano e alla stazione delle Ferrovie Nord, fu travolto da un convoglio e morì. Anche qui RU si era posto come un possibile angelo salvatore, ma era stato rifiutato e quell’uomo era morto. RU si convinse che il Signore lo stava mettendo alla stretta finale, per fare ordine e pulizia, e temeva terribilmente quello che Dio avrebbe potuto fare ora contro questa “suorina” Ada così sprezzante verso le sue attenzioni terra-terra. Aveva identificato Maria Teresa Lenagni Maestra di Musica e ex Monaca come una Ma.Te.sa Le.MM è , una Matusalemme che richiamava il padre di Lamech (disceso dal ramo buono di Set) e sposa di Lamech (disceso dal lato sbagliato di Caino) precisamente individuata in Ada, mentre la Maria Teresa Mazzola era l’altra sposa sbagliata, individuata in Zilla. Per RU segnavano le due sposi irregolari sbagliate (discese da Caino) che aveva avute: una tutta carne (Zilla) e l’altra tutta fantasia e spirito (Ada). E in Genesi 4 Lamech avverte tutte e due di stare bene attente a non fargli del male perché sarebbero state punite 77 volte, mentre solo 7 volte colpendo Caino. Mentre si dibatteva e si tormentava in tutte le passioni che riguardavano il suo sentimento amoroso, da tempo RU stava anche predisponendo quanto occorreva a diffondere le sue idee scientifiche e filosofiche. Aveva fondato la Nuova Scuola Italica ed essa doveva cominciare ad esistere, con una sua attività concreta. Ottenne dal Centro Sociale la disponibilità di una sala e si accinse a presentare il programma nella città di Saronno.

FIORELLA. RU AVREBBE VOLUTO SALVARE SUO PADRE RU si ritrovò in Chiesa, e stava pregando così: “Signore, dopotutto io che vorrei?! Solo una donna amica, che mi fosse vicina, qui, di fianco a me.” Gli si sedette vicino Fiorella e gli rivolse la parola. Il dì dopo l’incontrò di nuovo, e seppe del padre ammalato, ricoverato in una clinica troppo costosa. Le propose di prenderlo in carico lui! Aveva già da curare sua madre. Sarebbe stata la volta buona per ristrutturare il locale al 1° piano!

Avrebbe tenuto una serie di incontri-dibattito, con chi si fosse sentito di partecipare ai lavori e, ufficialmente, l’antica scuola di Pitagora e degli Eleatici sarebbe rivissuta, illuminata della fede portata dal Cristianesimo Cattolico.


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In settembre del 1998 fu affisso per le vie di Saronno il seguente manifesto: La scienza può accertare... un “io” che risorga dalla morte? La vita è... come su un treno, che non si sappia di dove venga, dove vada, perché sia partito... In base alla SCIENZA (e non alla fantascienza!), si può trovare, oggi, qualche ragionevole spiegazione su questo tema che riguarda l’intero percorso della vita? Ne parlerò, con ragionamenti e parole davvero semplici, io, Romano Amodeo – un architetto, cristiano cattolico praticante, appassionato studioso di scienza, filosofia e religione. Ne parlerò per un anno, presso il Centro Sociale Cassina Ferrara, di Saronno, tutti gli ultimi giovedì d’ogni mese, per mezz’ora ed a partire dal prossimo 29 ottobre 1998, poi ne discuteremo. Ci appelleremo al sacrosanto rispetto di due fondamentali leggi scientifiche (la conservazione dell’energia e la legge statistica sul perfetto equilibrio che esiste tra le perfette alternative) per giungere a prevedere (nel modo ragionevole suggerito dalla scienza) quale sarà l’intero percorso della percezione umana: flusso, riflusso e sintesi conclusiva. Un percorso che riguarda la vita del nostro “io”, la cui esperienza sarà “complessa”, cioè formata da un primo tratto “positivo, reale” (la vita com’è da noi percepita ora) e da uno che per ora appare solo... in negativo (cioè non è percepibile, è solo “da immaginare”) ma che poi apparirà, sarà percepito in positivo! Ogni realtà naturale così fatta, come quella complessa (elettro-magnetica) del nostro “io” (onda positiva-negativa, reale-immaginaria o elettro-magnetica) alterna sempre gli opposti. Lo fa sempre! Noi non possiamo tirarci fuori! Poi vi sarà l’inevitabile sintesi... come il Paradiso chiamato così dalle religioni. Con ciò si riapre un’antica scuola di pensiero, fondata 2.500 anni or sono dal greco Pitagora, e chiamata da lui SCUOLA ITALICA, perché fondata a Crotone, colonia a quel tempo della Magna Grecia, ubicata nella parte meridionale dell’Italia. In quella scuola di pensiero si sosteneva che la realtà fosse costituita su un fondamentale dualismo e che si esprimesse “per numeri”. Questa NUOVA scuola, che sorge ora a Saronno, si chiamerà NUOVA SCUOLA ITALICA, proprio perché continuerà il percorso conoscitivo di quell’antica, sulla base di tutta la scienza acquisita da quei lontani tempi ad oggi. Giungerà così veramente a “riconoscere” su quali numeri precisi si poggi l’umana rappresentazione dell’universo. La NUOVA SCUOLA ITALICA si pone come continuatrice, anche, di quella SCUOLA ELEATICA che fu fondata pressoché nello stesso periodo, ad Elea (in provincia di Salerno) dal greco Senofane e che sosteneva che al fondamento di tutta la realtà vi fosse il suo ESSERE. Non lasciatevi spaventare dalle parole. Questa SCUOLA è aperta per tutti: sia per la gente colta, istruita, che per la gente comune. E’ necessario, soprattutto, che si abbia una sana curiosità, e tuttora una discreta fiducia sulle possibilità dell’intelligenza umana: di riuscire a capire i misteri tuttora privi di spiegazione. Infatti questa SCUOLA giunge a spiegarli in modo veramente ragionevole e molto, molto semplice, pervenendo, con le sue sole povere gambe, agli stessi risultati cui è giunta la Fede per “rivelazione”... non certo dell’irrazionale! La NUOVA SCUOLA ITALICA ha lo straordinario, meraviglioso proposito di spiegare, in sintesi: perché quel treno sia partito, da dove venga, dove vada. Ma non sulla base – ripeto ancora! – di FANTASIE, o di FANTASCIENZA. A partire dal vero rispetto delle leggi scientifiche fondamentali. Nel primo incontro, infatti, il tema sarà imperniato sul VALORE DA DARE ALLE LEGGI DELLA SCIENZA. La domanda cui si tenterà assieme di dare risposta è: “Una Legge scientifica vale o no se – una volta che essa è stata stabilita con certezza – essa non è più verificabile da nessuno?” Ovvero: “Siamo noi autorizzati, possiamo progettare ragionevolmente la costruzione d’una casa se non potremo verificare mai che poi essa stia in piedi... giacché sarà costruita solo dopo la nostra morte?” Lo scopo iniziale è di riconoscere fino a che punto ci si possa servire delle nostre attuali leggi conosciute, per prevedere in modo “certo” quanto non potremo mai personalmente vedere “da vivi così”, trattandosi di quanto ci toccherà di vedere solo dopo l’apparente nostra morte. Coraggio, venite numerosi! Vi attendo. Romano Amodeo

Questo fu il programma, per gli argomenti sui quali discutere, ragionando:


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Pertanto Romano Amodeo iniziò a compiere un completo riesame di tutto il pensiero filosofico, a partire dai suoi fondamenti e tentò esattamente quella sintesi tra la filosofia, disciplina della ragione umana e la fede cristiana, nella sua specifica tradizione del cattolicesimo dei Papi di Roma. Ma non si trattò solo di filosofia, si trattò anche di matematica, di geometria, di tutta la scienza dell’uomo, da quella fisica a quella delle varie discipline della medicina e della nuova scienza dell’intelligenza artificiale. . Nel novembre, a Santa Cecilia, la Santa della musica e del canto, tutte le cantorie saronnesi avevano un momento d’incontro, patrocinato da Monsignor Angelo Centemeri, preposto della Chiesa prepositurale di Saronno. Nella Chiesa di San Francesco i vari Cori parrocchiali cantavano assieme la messa, poi eseguivano due brani a testa. Per preparare quell’evento ci fu un periodo di viva tensione nella Corale di Cassina Ferrara: MATESALEMME era preoccupata perché notava un calo della tensione nel gruppo dei cantori. Minacciò che, se non ci si metteva più impegno, non si sarebbe andati a cantare assieme agli altri, per fare solo brutte figure. Una sera, uscendo dall’asilo, rivelò ad Amodeo che il Coro andava rifondato. Rivelò che, se si fosse decisa, sarebbe ripartita da zero, con un gruppo piccolissimo di sole 4 voci, poi avrebbe, a poco a poco, ristabilito il gruppo, poggiandolo su un’altra serietà e un ben altro impegno. Nella preparazione, una sera, Ambrogio Busnelli fu rimproverato di non seguire con attenzione, di sovrapporsi agli altri, seppure cantando in sordina, mentre i bassi dovevano restare in silenzio. Ambrogio aveva quel modo di comportarsi, evidentemente, non si rendeva conto che la profondità della sua voce era tale che, anche se il suo volume era tenuto basso, era udita in modo molto più distinto, di quanto egli supponesse. Si offese, protestò con forza eccessiva nei confronti della Maestra del Coro, che subì in silenzio il rimbrotto di lui, che aveva quasi il doppio della sua età e si mise in disparte, in fondo a tutti. Alla fine dichiarò che non sarebbe più stato tra loro, e che la sua lunga attività canora terminava lì. RU andò a casa d’Ambrogio, gli spiegò le responsabilità enormi di chi guida un Coro e deve tenere ogni cosa in ordine. Bisognava mettersi nei suoi panni. Il problema d’ogni cantore era il suo unico, mentre la Direttrice n’aveva uno per ogni partecipante, e per motivi diversissimi tra loro, alcuni che non c’entravano minimamente con la musica e il canto. Gli ricordò come se ne fosse andato Fiorenzo Banfi, offeso perché, pur essendo un amico d’antica data e conosciuto nel suo modo di prendere le cose, era stato lasciato allo scoperto, una sera, e si era sentito umiliato. Gli ricordò come Sergio Ventura avesse abbandonato il Coro, non essendo d’accordo con le scelte dei canti, troppo poco rispettosi della tradizione classica del canto corale.

Chi era persona matura, doveva cercare di mettersi nei panni della Maestra e remare assieme a lei, perché altrimenti tutto si sarebbe sfasciato. Dunque rivedesse la sua posizione. Inoltre, rivolgendosi all’amico: “Io ho bisogno di te. La mia voce è potente, ma, senza la tua, perde quella profondità che tu hai molto più di me. Avevo Sergio, come punto di riferimento, ora ho te. Ma non solo io, Enzo e tutti gli altri bassi, ci riferiamo a te. Non puoi lasciarci senza il tuo appoggio.” Se i motivi di prima non avevano fatto molto breccia, in Ambrogio, questi lo convinsero. Entrò allora a dir la sua anche, sua moglie: “Se non viene a cantare lui vengo io, in Cantoria!” Il martedì successivo Ambrogio fu al suo posto. Restò tuttavia la tensione generale. Enzo Vannucci, girandosi verso RU, gli confidò: “Mi sento in colpa; credo che tra non molto ci lasci. Non dovevo consigliare a Maurizio di telefonarle, perché dirigesse anche a Cogliate!” “Non è stata una scelta solo tua, sta tranquillo. Comunque Maurizio mai e poi mai accetterebbe che lei lasciasse noi, dopo che, proprio da noi, è venuta la proposta d’avvalersi anche di lei. Questi sgambetti, sta sicuro, non li farebbe mai.” La Maestra fece il suo possibile, perché le cose migliorassero. Già lei era impegnata ogni lunedì a Cassina e ogni martedì a Cogliate; aggiunse anche il giorno del mercoledì, nuovamente alla Cassina, affinché la preparazione fosse adeguata. Tuttavia, arrivati all’ultima prova dei due canti, per la Chiesa di San Francesco, sembrò decisa a non portarvi quel gruppo, ma non fu così: dichiarò solo che era delusa, non vedeva più amore nelle cose che stavano portando avanti. RU decise che lei dovesse ricevere una prova concreta, che non era così: nella serata in cui tutte le Cantorie sarebbero state riunite in San Francesco, quella della Cassina si sarebbe presentata in bell’uniforme. Egli che, nella sua lunga attività nel calcio, aveva vestito ormai una ventina di formazioni, comperando maglie, pantaloncini e calzettoni, poteva stavolta comperare le venticinque divise necessarie per vestire questo Coro. Cercò quale divisa vi potesse essere, e concluse che un maglione unisex avrebbe potuto risolvere il comune problema, d’uomini e donne, di tutte le taglie. Trovò l’indumento giusto alla Standa; n’avevano il quantitativo che occorreva. Non stette a sentire nessuno, perché, se avesse coinvolto altri in quest’aspetto, sarebbe successo come le altre volte in cui le persone del Coro avevano affrontato il problema: l’impossibilità d’un accordo. Memore del proverbio che “A caval donato non si guarda in bocca”, le persone non avrebbero più avuto difficoltà. Gli venne un dubbio e telefonò a Nadia:


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“Per favore, chiedi alla tua amica se le sta bene che ci si presenti così in divisa, senza averle chiesto nulla. Inoltre desidero farti vedere il capo e chiedere se è di tuo gusto.” “Romano, chiamala tu.” “Io non le telefono più. Lei attribuisce sempre secondi fini che non ci sono.” “Fa’ come vuoi!” E RU s’azzardò a comperare l’uniforme. Venticinque capi che gli costarono 25.000 lire l’uno, già scontati, a causa del numero. L’addetta della Standa lo consolò, dicendogli che era stata un’ottima scelta: anche lei aveva comperato, per se stessa, quel maglione e le stava benissimo. Mentre era in quel magazzino, incontro Mauro Bronioli, assieme alla moglie e a loro due la scelta, di cui si stupirono – ma che faceva? Spendeva tutti quei soldi per loro? – tuttavia piacque molto. RU distribuì rapidamente agli uomini la divisa, le donne invece, e non se l’aspettava..., non la vollero. Pazienza: si sarebbero messi in divisa solo gli uomini. Per completare quella risposta, che desse prova, alla Maestra del Coro, che non mancava lo spirito di corpo tra i suoi cantori della Cassina, si recò da un fioraio e fece spedire, a casa di lei, un gran cespuglio di margherite bianche, contenute in un vaso di terra: erano le sue eterne “Margherite impossibili”, che erano esistite per lui, fin dai tempi della Maria Teresa terrestre, la Mazzola. Aggiunse un biglietto, in cui si spiegava come dovesse rinfrancarsi: in quella corale c’era ancora l’amore, per quello che si stava facendo tutti assieme. Nella serata a San Francesco, le donne erano in camicia bianca e gli uomini indossavano la divisa offerta da RU: un maglione liscio, d’un azzurro carta di zucchero. Quando si ritrovarono il lunedì successivo, RU portò il video registratore, con la registrazione che il Maestro Monticelli aveva fatta eseguire per tutte le corali. Una cosa risultò evidente: il volume troppo alto dell’organo, che copriva le voci e portava i cantori a strillare, più che a cantare, tanto che poi, più che un Coro, sembrava una kermesse a chi meno si facesse coprire dagli altri. Dei fiori e di quanto fosse stato fatto, per lei, in nome di tutti, la Maestra non parlò, non mormorò nemmeno un piccolissimo e semplice “grazie”, per la cortesia che essi avevano avuto con lei, con quel bellissimo fascio di margherite, da potere trapiantare nel suo piccolo giardino. Aveva capito benissimo, chi fosse stato il materiale esecutore, di tutto in nome di tutti, cosa che ogni tanto RU faceva, ponendosi come il galletto del pollaio. Quel gallinaccio doveva essere messo a tacere, e il modo migliore era di non dargli ascolto, l’assoluta indifferenza, per tutte le cose da cui si sarebbe atteso un sia pure piccolo e semplice “grazie”.

Parlandone tempo dopo, la Maestra gli confidò che non si accorse nemmeno, della novità della divisa, indossata dagli uomini del Coro, tanto era preoccupata da questioni ben più essenziali. In quell’occasione, aveva veramente intenzione di rimeditare, ogni cosa che inerisse la Cantoria di Cassina Ferrara. Stava facendo i confronti, con l’altra che dirigeva: persone brave, serie, volenterose, per niente polemiche, che la tenevano in palmo di mano. Lì, invece, certe volte doveva venire ai ferri corti, perché le persona venivano a mancare all’improvviso. A San Francesco erano state assenti ben 5 persone! Ma sarebbero state 6 se RU, che pure la Maestra e Nadia criticavano, perché insisteva troppo con i cantori, per farli venire, come se fossero chissà chi... non avesse intuito che Mauro Bronioli, assente nell’ultima prova, non sarebbe venuto, ignorando l’appuntamento. Era stato, ancora una volta, RU a telefonargli e a dargli l’indicazione. Le due amiche si spalleggiavano troppo, nel gettare inutile discredito sulla volontà delle persone. Secondo loro non bisognava insistere. Se RU non l’avesse fatto si sarebbero persi Ambrogio, Mario Atzori, Angelina Legnani e la sua amica e Pinuccia Borghi. Non riuscì a convincere invece Fiorenzo Banfi e Sergio Ventura. Specie Nadia aveva il difetto di disprezzare la buona volontà altrui, e MATESALEMME, che teneva conto del suo giudizio e che faceva, sempre più, il confronto con Cogliate, giunse a sostenere: “A queste condizioni, a che vale che noi ci si ritrovi anche il mercoledì, per preparare il Natale? Anzi, sarebbe quasi il caso che si facesse tutti una bella pausa di riflessione...” La pausa non ci fu, ma la riflessione cominciò a divenire il chiodo fisso di RU: nei giorni che seguirono, scrisse lettere su lettere (che non spedì) alla Maestra, e le rimproverava le incongruenze, le contraddizioni: se erano così indietro tutti, come lei diceva, non era il caso di fare meno prove, semmai di più. Il fatto è che la Maestra era, in quel periodo, veramente sovraccaricata: faceva due prove molto soddisfacenti a Cogliete, e due molto insoddisfacenti a Saronno, poi qualche volta, a Cogliate, doveva anche dirigere la domenica. Era una donna che si alzava presto al mattino e andava a lavorare a Milano; tornata certe volte, a casa, solo alle 7,30, alle 9 meno un quarto era impegnata, per 4 sere su sette, in un’attività che, per un Maestro, è pesantissima..., se la fa sul serio. Lo sforzo fatto da ogni corista, che era vero, perché doveva memorizzare e cantare bene la sua parte, era quadruplo per chi dirigeva, che doveva conoscerle, al punto tale, tutte e quattro, da riuscire a distinguere, all’interno delle singole 4 voci, chi era che faticava, per tirarlo a regime. Lo sforzo che faceva a Cassina Ferrara, con la metà delle persone, era doppio di quello che sosteneva a Cogliate, dove erano le persone ad essere il doppio.


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Poco a poco, comunque, la vicinanza del Natale, rinfrancò molti, ci furono meno defezioni e il clima divenne giusto: quello natalizio. Nel giorno della nascita del Redentore, sulla pedana in legno, che era collocata perché gli uomini vi salissero e vedessero la Direttrice del Coro, ci fu la solita ressa, ma stavolta erano tutti nella loro divisa. Nel momento dell’omelia, quando tutti andarono a sedersi nelle seggiole vuote lasciate per loro, restò un posto libero, di fianco a RU. RU pregò il suo Amore (Dio), affinché la Maestra gli si sedesse accanto, a lui bastava questo. Lei, ultima nel prendere posto, trovò libero solo quello e fu costretta a sedersi lì. Non gli rivolse una parola, tenne sempre la testa girata dall’altra parte e seguitò a parlottare, di tutto, con Nadia, seduta nelle fila davanti... Quel 1998 terribile era ormai al termine. Andarono in Paradiso, assieme a RU (che vi andò solo in potenza), anche Anna Ramazzotti, il papà di Fiorella e il buon Tigre... nel paradiso dei cani. In esso un’opera pittorica appassionata, unica nel suo genere, che fosse stata offerta da un cantore ad una Corale della Chiesa, era stata così immeritatamente disprezzata dalla sua Maestra e da qualche sua emula, assieme a tutte le divise, rigettate da tutte le donne del Coro. Ebbene, in esso si giocarono tutte le premesse negative per un evento essenziale, nella vita di RU. Il Coro andò a cantare, il giorno dopo Natale, per gli ammalati di Casa Gianetti. Finita la messa, RU s’avvicinò a Mauro Bronioli, che era in compagnia d’Alessandro Basilico del Coro di Cogliate, presente lì perché assistente volontario dei ricoverati, e Sandro gli propose: “Perché non vieni a cantare anche con noi? Lo sai, vero? Che abbiamo la stessa Maestra?” RU lo sapeva. Sapeva anzi benissimo come l’avessero grazie a loro, i cantori della Cassina. Romano vide pochi minuti dopo, al Gianetti, anche Maurizio, che era lì, come volontario anche lui; gli riferì dell’invito di Sandro ed egli aggiunse: “Sì, vieni, sei ben accetto!” Giunto a questo punto, andò dalla Maestra in persona: “Sono stato invitato da alcuni cantori di Cogliate a entrare anche in quel Coro. Tu che cosa ne dici? Posso?” Lei rispose: “Il Coro d’una Parrocchia è espressione del volontariato, perciò non sta al Maestro, o ad altri, il discriminare chi possa aderirvi o no.” RU non credé alle sue orecchie! L’idea di potere partecipare anche al secondo Coro, diretto da lei, non aveva mai solleticato nemmeno la sua speranza; già era mal accetto, da lei, a Cassina Ferrara, tollerato solo perché c’era bisogno della sua voce. A

Cogliate non c’era alcun bisogno. Tutti sapevano che era una Corale molto più ricca ed attrezzata, con oltre trenta cantori seri e non come quelli della Cassina, che cantavano quasi perché c’erano costretti e tirati dentro con le pinze. C’era inoltre un gruppo di bassi che erano molto bravi ed apprezzati, a giudizio di Nadia. MATESALEMME gli avrebbe potuto rispondere così: “A Cassina capisco..., sei di qui. Ma che ci vieni a fare a Cogliate? Romano, siamo seri: mi vieni dietro? Guarda che non mi va. se vuoi farmi un favore, lasciami perdere.” Sarebbe stata la cosa più coerente, con tutto quanto il resto. La sua stessa famiglia si sarebbe inquietata molto, con lei, per non averlo impedito; insomma gl’inconvenienti per MATESALEMME erano tali e tanti che questa mancata opposizione sua, non era ammissibile, non ci stava! Ma, in questa storia, ancora una volta – lo dovreste ormai sapere – non comandano Romano Amodeo o Maria Teresa Legnani. Per andare alle prove della Schola Cantorum, bisognava, per prima cosa, sapere l’indirizzo. Così RU si rivolse a Maurizio, il suo Presidente e s’informò su come raggiungere quel luogo. “Facciamo così: martedì sera io passo già vicino a casa tua, a prendere la Maestra. Tu trovati davanti alla Chiesa, che porto lì anche te. Poi, a prova ultimata, vi riporto a casa.” “No, è meglio che io non venga con voi. Vi seguo con la mia macchina.” RU scelse questo modo, per non invadere la sua vit. A lui interessava che lei capisse come egli non avesse nessun’intenzione, di forza la sua volontà. Gli venne in mente un dialogo accaduto di recente: aveva riferito a Maria Teresa ed a Nadia come dovesse andare da Rubbia, premio Nobel per la fisica e la Maestra, per un’improvvisa ispirazione, gli aveva esclamato: “Dai, Romano, fai qualcosa di bello per la gloria della Cassina!” MATESALEMME aveva stranamente intuito che cosa sarebbe accaduto un giorno a Cassina Ferrara grazie a RU. RU cercava solo di collocarsi con lei in uno spazio preciso, comandato da regole sagge, che portassero soprattutto alla stima ed al rispetto reciproco. Un giorno arrivò anche a dirglielo: “Guarda che non ti faccio il filo!” e lei: “Faresti un buco nell’acqua...” Possibile che una dalla risposta così pronta e facile, non fosse così intelligente da capire che reagendo così lo sfidava proprio a farglielo? A Cogliate fu accolto bene, da tutti. L’unica che non lo degnò d’attenzioni fu la Maestra del Coro, ma per lei non era una novità ed egli c’era abituato. Quella pazienza, che aveva avuto a Cassina, di fargli ripetere ciò in cui stentava, qui non


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l’ebbe. Le persone dovevano capire come lei non l’avesse spinto ad andare là e come egli si dovesse arrangiare. RU voleva fare un regalino a tutti i suoi amici della Cassina, per la fine dell’anno, ma sapeva che, se l’avesse presentato, essi non l’avrebbero accettato. Così andò nel negozio di Pinuccia Borghi, che aveva molta bigiotteria ed articoli di regalo. Si mise d’accordo con lei e confezionarono un pacchetto dono, per ogni donna; Pinuccia portò il tutto in Cantoria, alla fine dell’anno e lo distribuì a persone che furono felicemente sorprese. Un dono che gli costò quasi come le maglie con cui aveva tentato, inutilmente, di vestire il Coro femminile. Un pensiero gentile assolutamente disinteressato, tanto che l’offerta fu presentata come un’idea, degli uomini, in favore del gentil sesso nel Coro. Così ebbero tutti i loro doni: i maschietti si videro porgere dei ringraziamenti che gradirono, ma di cui all’inizio non capirono il motivo, e le femminucce ricevettero un dolce augurio per il nuovo anno. In quell’occasione RU pensò anche a Giancarla, sua moglie e le comperò due collane a moltissimi fili. Come RU aveva incaricata un’altra persona a dare un dono inatteso, pur di riuscire (ostinato e incorreggibile) a far felice il suo prossimo, così la Provvidenza aveva incaricato un Sacerdote a dare a lui un dono inatteso, pur di riuscire (ostinata e incorreggibile) a far felice lui che voleva rendere felici gli altri. Il primo di gennaio avrebbe ricevuto un dono addirittura dal Vicario di Cristo, per soccorrere al meglio chi, come lui (ostinato e incorreggibile), voleva allietare tutti nel nome dell’idea Cattolica, della delega data a San Pietro e perciò ad ogni Vicario di Gesù. Tutto ciò stava accadendo esattamente nello stesso modo con cui, anni prima, mentre egli si pentiva, Dio toccava il cuore del Cancelliere; o con il quale, mentre egli rendeva 15 milioni a chi glieli aveva chiesti inopportunamente, il Signore ne faceva firmare altrettanti a Pietro Saviello Barbato, in suo favore. In questo caso però, Iddio l’avrebbe ricompensato dandogli, se si può dire, il “centuplo del centuplo”.

1999

Benito faceva ancora consulenze per la BAGE. Il venerdì 1 gennaio 1999 fu la prima volta che RU mise piede nella Chiesa di Cogliate. RU, fu visto dal Parroco, Don Carlo, come faccia nuova, e si sentì chiedere chi fosse e che cosa facesse di bello. Saputo che dirigeva una Scuola di Filosofia: “Conosci l’Enciclica Fides et Ratio del Papa?” gli chiese e, saputo come non la conoscesse andò subito a prenderne copia. Don Carlo tornò con in mano un libretto che fu, per Romano Amodeo, la cosa più importante capitatagli, fino ad allora, nella sua vita, il perno di tutta la svolta e la più importante che ci sarebbe stata per lui: il martirio. Il Santo Padre, in uno dei punti dell’enciclica, stimolava i pensatori, come lui, a cercare altre strade che portassero al Cristo, proprio quello che RU aveva già fatto, ormai quasi da venti anni, tanto da avere già trovato la strada che il Papa invitava a cercare. Su quel punto dell’enciclica del Papa, c’era scritto che la Fede si sarebbe fatta avvocata convinta e convincente della ragione, al fine di superare ogni isolamento.


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Era proprio l’isolamento la condizione negativa, nella situazione di RU. Non riusciva più, da sei anni, a trovare chi fosse disposto ad approfondire il dialogo. L’unico era stato il prof. Fazio, per un po’, ma poi si era letteralmente volatilizzato. Gli aveva scritto, con garbo e rispetto, quando era finalmente tornato dal sud, spiegandogli il perché avesse taciuto per mesi: era stato lontano. Chiedeva d’essere richiamato, gli lasciò il suo indirizzo postale di Saronno, quello del computer, ma senza ricevere alcuna risposta. Forse era andato in pensione; se era stato il professore di suo fratello, doveva essere molto vicino a quella data. Ma quest’idea non venne in mente ad Amodeo; non si accertò mai di conoscere se egli avesse ricevuto quella sua lettera. Eppure avrebbe dovuto farlo: il Fazio gli aveva promesso d’aiutarlo, lo aveva già cominciato a fare, riempiendo, di punti di domanda, gli elaborati che gli aveva inviato in due o tre occasioni, ultima, il testo preparato personalmente da Benito. La Nuova Scuola Italica, fondata da Romano Amodeo l’anno prima, arrivò a spiegare i fondamenti assoluti della relatività e non solo le questioni della metafisica, che indicavano la concreta via, naturale e fisica, che l’uomo avrebbe fatto verso Cristo, centro di tutta la storia dell’uomo. Quella via che nell’enciclica il Santo Padre invitava a scoprire. La N.S.I. impostava tutto il suo pensiero filosofico su una realtà indagata nelle sue dimensioni fondamentali. Solo grazie alla scoperta d’una esistenza reale, costituita da una stringa infinita, di dati messi tutti in linea, ma simultaneamente su sei linee evolutive, si poteva arrivare a comprendere che, osservandoli nel verso contrario, l’anima dell’osservatore avrebbe avuto spianata la via concreta per ritornare come al fusto di quell’immenso albero di vite (Gesù), comune a tutti i singoli tralci (ciascuno degli uomini). Una via concreta, sempre più sintetica, ma anche sempre più diffusa su tutti gli antenati, divenuti tutti gli uomini che vissero ai tempi del Cristo, realmente, concretamente presenti come una sorta d’immensa coscienza collettiva. La Nuova Scuola Italica, esperienza d’un piccolo gruppo di persone partecipanti – per i suoi contenuti assolutamente grandiosi – può essere considerata uno degli eventi più importante mai accaduti nella storia umana, perché riuscì a mettere in perfetto accordo tutte le filosofie, e risolse tutti i paradossi della ragione umana, in modo grandioso. L’uomo lo scoprirà poco a poco, e Romano Amodeo assumerà la dimensione d’un colosso inimmaginabile, una entità addirittura impossibile per un uomo. Ecco, la cosa importantissima, accaduta il primo di gennaio del 1999 nella Chiesa di Cogliate, fu che Romano Amodeo colse la sua occasione. Colse l’occasione offertagli dal Parroco di quel luogo, che gli mostrò l’Enciclica del Papa che, in un suo punto preciso, invitava a fare quanto RU aveva già in programma di fare con la sua

N.S.I., ossia dimostrare la nuova via per arrivare con certezza al Cristo: usando la ragione. Bisognava rileggere il vangelo con gli occhi d’uno scienziato e a partire dai fondamenti della fisica e si sarebbe facilmente capito come fosse inevitabile all’esperienza umana, compiuto tutto il suo personale flusso che la porta al capolinea estremo della sua morte nel verso in avanti, la converte nel senso opposto e la riporta a Dio. Ora sembrava che tutto si stesse finalmente mettendo a fuoco, nella vita di Romano Amodeo, accadde un fatto tremendo. In cantoria Riccardo Bernardinello, che suonava l’organo per la Corale di Cassina Ferrara, fece sapere che smetteva. Monticelli, il suo Maestro, gli aveva detto che stava assumendo difetti, anticipando troppo i tempi. Se gli premeva di divenire un buon organista doveva procedere con più ordine e metodo. Quando l’annunciò, suscitando sorpresa, RU fu l’unico che insistette molto perché non smettesse. Ma non vi riuscì. Il Coro fu costretto a fermarsi, in attesa che si trovasse un altro organista. RU non se ne preoccupò più di tanto: era stato come folgorato dalla estrema novità dell’Enciclica del Papa e pensava ad essa. Il Pontefice spingeva l’intelligenza ad un nuovo coraggio, per risolvere le domande “Chi sono, da dove vengo e dove vado?”, domande cui egli aveva già dato una risposta. Giovanni Paolo II garantiva la novità assoluta che “la Fede si sarebbe fatta avvocata convinta e convincente della Ragione umana”. Gli credé e, colpito come da fuoco sacro, in quindici soli giorni scrisse un ponderoso libro di circa 250 pagine, in risposta, punto per punto, agli oltre 100 dell’Enciclica. Un lavoro assolutamente nuovo per tutti i suoi contenuti. Per la trama, sempre più intrigante, del destino ebbe anche modo di consegnare, alla fine di gennaio, sempre a Cogliate, lo stesso volume proprio direttamente nelle mani dell’arcivescovo e Cardinale Enrico Maria Martini, venuto a celebrare i 100 anni della Chiesa... Quando mai accade una cosa così? Messe le sue cose nelle mani più autorevoli che c’erano, sotto il profilo dell’autorità nella fede, RU si dedicò alla altre incombenze. Aveva preparato il libro Superfisica e provvide a farne copie realizzate in copisteria, rilegate e cucite in altro modo. Una parte rilevante del suo tempo era dedicato alla mamma, che doveva fare almeno 1 km al giorno di percorso, ma non passava più in Via Trento, sceglieva altri percorsi.


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Molte telefonate con i suoi amici della Scuola, lunghe chiacchierate con Salvatore, sempre molto interessato e che anche interessava i suoi amici, che a volte erano venuti apposta a Saronno per incontrarlo e discutere del suo modo di concepire l’esistenza. A metà febbraio ricevette una grossa novità: una lettera dal Vaticano, datata 31 gennaio, su carta intestata alla Segreteria di Stato, prima sezione affari generali.

Cogliendo l’occasione di rapporti in quel momento condotti sul filo della normalità, RU consegnò copia di questa lettera a MATESALEMME dicendo che doveva intendersi benedetta apostolicamente anche lei. Si proclamava fiero che gli fosse stata dichiarata distinta stima, dal firmatario di quella lettera.

La Cantoria della sua Cassina stentava a trovare un sostituto per Riccardo, allora decise di mettersi in azione lui. Trovò, dopo alcune settimane, un organista disposto, era un ragazzo che già serviva un altro gruppo e che era disposto a suonare anche per la Chiesa di San Giovanni Battista. Indeciso se farlo o no, telefonò alla fine alla Maestra e le annunciò che aveva trovato un possibile sostituto di Bernardinello, le spiegò come stavano le cose e le diede il numero di telefono. Poi, essendogli venuto subito un dubbio nella mente, la richiamò immediatamente dopo e le osservò che, per le prove, il problema sarebbe stato superato, ma come si sarebbe messa a Pasqua? Dove sarebbe andato? “Eh già – concordarono entrambi – questa non è una soluzione vera”. Egli aggiunse: “Enzo dice che potrebbe venire a suonare il figlio del Monticelli.” “Ma no, sembra che la domenica giochi a pallone.” “Si potrebbe offrirgli qualcosa, offrire un compenso da lavoro... Potrei incaricarmene io, farlo forte io.” “Sono problemi che riguardano Don Luigi.” Don Luigi, sentito da RU, diceva che Riccardo avrebbe ripreso, ne era sicuro. Ma a RU Bernardinello assicurava che assolutamente non avrebbe accompagnato più il Coro: gl’importava imparare a suonare bene.” Rivolgendosi a MATESALEMME a Cogliate, RU ritornò sulla questione di Roberto Monticelli, avrebbe pensato lui a dargli una ricompensa. “Ma io non voglio!” rispose lei d’impeto: non le sembrava giusto che RU si mettesse in mezzo in quella maniera. Decise di ritornare alla carica con Don Luigi e successe che, quella domenica sera, la Maestra era per caso (per caso?) anche lei in Chiesa. Così, finita la messa si ritrovarono insieme dal Parroco. “Don Luigi – osservò RU – a me risulta che Riccardo assolutamente non riprenderà a far l’organista. Faccia allora una cortesia: questa sera gli telefoni e gli chieda netto se sì o se no. Alle 9, io la chiamo. Se mi autorizza, telefono a Roberto Monticelli e gli chiedo se lui se la sente di accompagnare il Coro. Se occorre pagarlo, mi assumo io questo compito.” Alle 9 RU telefonò al Parroco e seppe che Riccardo aveva risposto no, così telefonò al Monticelli, che non conosceva. Gli domandò se fosse disposto e ricevette un rifiuto. Gli rivelò allora che quello poteva essere anche un lavoro e che era tale la necessità per il Coro che lui, pur essendo solo un corista, era disposto a pagarlo per la sua prestazione. Quanto voleva? Messa la cosa in questi termini, Roberto non se la sentì d’essere meno generoso, ci ripensò e rispose che se erano ridotti proprio così male l’avrebbe fatto, però per la Chiesa, non per i soldi. “OK, ora lo dico alla Maestra, poi vi intenderete tra voi.” Chiamò MATESALEMME: “Il figlio di Monticelli ci sta.”


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“Cosa gli hai offerto?” “Non vuole niente, lo fa per la Chiesa.” “Bene! Abbiamo trovato l’organista!” Il lunedì successivo, dopo oltre due mesi d’interruzione, ricominciarono le prove. RU dovette anche spiegarsi con Enzo Vannucci, quando s’accorse che la sua azione, che aveva risolto il problema, era parsa a Enzo una forma d’indebita ingerenza: Roberto era stato segnalato da lui! Udito come si fossero svolti i fatti, Vannucci li capì. Tra i bassi ci fu una nuova entrata: l’ex organista Riccardo Bernardinello. Venne per l’insistenza di RU: se non suonava, per i motivi che aveva rivelato, niente impediva che cantasse. Romano gli spiegò che così avrebbe dimostrato a tutti la verità delle sue parole, poi aveva una bella voce. Era così difficile portare giovani cantori: si dimostrasse lui come l’eccezione a questo comportamento, così insensato, dei giovani come lui. Si fecero i preparativi, a Cogliate, per le nozze del Presidente della Schola Cantorum, Maurizio, poi ci fu il matrimonio, il primo maggio, nella Chiesa prepositurale di Saronno. Nessuna risposta giungeva dalla Curia milanese, nonostante il 28 gennaio avesse consegnato personalmente al Cardinale, il libro di risposta spedito al Papa e sul quale il Vaticano aveva espresso gentili parole e apprezzamenti. Ma qui s’innesca, probabilmente, la debolezza umana delle persone, anche se Cardinali. Al Martini non piacque che RU, per dimostrare quanto innovativo e benedetto fosse l’appello del Papa, ad usare l’intelligenza libera, raccontò (nel libro di risposta all’Enciclica Fides et Ratio) come alla sua offerta fatta alla Curia di Milano, anni prima, di “Diffondere la spiegazione scientifica del Vangelo di Gesù” fosse stato risposto: “Ci domandiamo perché lei chieda queste cose proprio a noi!”. A chi mai avrebbero dovuto interessare, ai Buddisti? Il Cardinale Martini, validissimo per tante notevoli cose fatte, era egli pure un uomo, e, comportandosi da persona suscettibile, antepose il suo ritegno offeso ai contenuti rivoluzionari del libro d’Amodeo, e non rispose nulla. RU si stupì quando il 10 maggio l’Arcivescovo andò a spiegare a Varese l’enciclica del Papa e a raccontare: “Il papa comanda: Su muovetevi!”, mentre non volle tenere in nessuna considerazione chi l’aveva già fatto, entrando in azione con un volume di 250 pagine. La Nuova Scuola Italica, operante in vicinanza di Varese non fu nemmeno invitata a quell’incontro.

Il 10 era di lunedì, allora andarono, non invitati, all’incontro, Salvatore Mocciaro e l’amico Luigi, portando duecento plichi formato A4, di 4 pagine l’una che spiegavano la posizione, in materia, della Nuova Scuola Italica. RU pubblicò un Articolo sulla Prealpina, il 22 maggio, nel quale chiese alla Chiesa se veramente voleva o no il colloquio tra la Religione e la Ragione. Per quello che risultava a lui no. Spiegò come la sua Scuola fosse intervenuta con un grosso lavoro, lo avesse consegnato al Martini e non avesse ricevuto neppure una risposta, né un invito a presenziare là dove, agendo tutto al contrario con le parole, si sollecitava quell’incontro. Alcune settimane dopo la Prealpina pubblicò un 2° suo articolo dal titolo: “La Fede non sente ragioni”. In esso rivelò la situazione difficile esistente tra il fideismo e il razionalismo. RU si chiese perché cominciava ad avvertire strane ritrosie ad affrontare immediatamente questo tema. Era giacché la Chiesa intendeva la sollecitazione del Papa come un sasso lanciato lontano in uno stagno, il quale, prima che l’onda si allarghi quanto occorra, deve attendere che ne maturi il tempo. Una sollecitazione quale quella di “Trovate nuove vie che portano al Cristo” fatta al pensiero umano poteva trovare risposta valida solo chissà quanto tempo dopo! Così, se salta fuori, immediatamente, un Romano Amodeo, che afferma: “Ho già trovato questa nuova via ed eccovela qua!", sembra eccessivamente prematuro. Come avrebbe potuto essere credibile? Allora sarebbe stato evidente che il suo lavoro sarebbe finito in uno scaffale polveroso del Vaticano, senza nemmeno arrivare all’attenzione del Pontefice o di chi aveva materialmente steso quel punto che invitava la Ragione umana ad intervenire. Pertanto spettava alla sua N.S.I. d’assumere l’iniziativa e di lanciare il primo Convegno al mondo che fosse attuativo e non esplicativo dell’Enciclica Fides et Ratio. Don Luigi ne scelse la data: 24 ottobre, scelta accurata, in un giorno in cui a Saronno non ci fosse niente di speciale, organizzato dalla Chiesa, che avrebbe potuto ostacolare l’afflusso dei cristiani. (E ci sarà addirittura, invece, quanto attraeva tutti i cattolici: il Trasporto della Croce per le vie di Saronno) Fece conoscere in Vaticano che era stato indetto un Convegno che avrebbe tentato d’applicare l’enciclica, cercando quelle nuove vie che Egli aveva auspicato. Comunicò la data e invitò la Chiesa a scegliere e comunicargli i rappresentanti della Chiesa cattolica. Una sera, nel Coro di Cassina Ferrara, RU udì la direttrice riconoscere che non esistevano canti relativi a San Giovanni Battista, di cui si stavano preparando i brani


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per la festa, tenuta nel giorno 27 giugno (compleanno burocratico di Mariannina Baratta, nata realmente il 29). Decise così di scriverne uno lui. Lo portò dal Maestro Monticelli, che glielo orchestrò. Lo fece avere alla Maestra: il canto per San Giovanni, se lei lo voleva, esisteva ed eccolo! Sapeva benissimo che non sarebbe stato eseguito dalla Corale della Cassina. Comunque, in un momento di tristezza, fece voto al Santo, che aveva il nome di suo nonno, che in quella occasione quel canto scritto per lui comunque sarebbe stato cantato alla messa. La messa solenne, cantata dal Coro, ci sarebbe stata alle 10,30, chiese così a Don Luigi il permesso di farlo eseguire appena prima di quella delle 8; si sarebbe preoccupato lui di preparare la cosa; forse sarebbe stato un a solo accompagnato dalla chitarra, o forse un gruppo, si sarebbe visto. Prima d’accettare il Parroco volle leggere la musica e le parole, poi si dichiarò favorevole. Alla chitarra si dichiarò disposto a suonare Marco Furini, uno dei suoi allievi della Nuova Scuola Italica. Chiese a Cogliate se qualcuno fosse disposto a partecipare e a dagli una mano e si offrirono, con generosità, Angelino Beretta, Cornelio Ferrario, Adelio Basilico, Angelo Freri e Anna il contralto. RU consegnò loro le cassette su cui aveva registrato il canto, cantato da lui. Non ci fu nessuna prova e un quarto d’ora prima delle 8, Mariannina, suo padre e San Giovanni ebbero il loro bel regalo. RU lo registrò interamente con la telecamera e fece altrettanto alla messa solenne. Era l’ultima volta che il Coro si ritrovava, era il classico sciogliete le righe. La Maestra invitò tutti a non andar via e, sorprendendo molto lui, propose ai cantori di ritrovarsi ancora una volta l’indomani, all’asilo; si sarebbero salutati là: sarebbe stato interessante assistere alla ripresa televisiva, ed acustica, che RU così gentilmente aveva appena completato. Si ritrovarono, così il lunedì sera e RU si diede molto da fare, mostrando la sua registrazione a tutti i suoi amici, raccolti su tre file davanti al televisore. Ridevano quando, per non ascoltare tutta la messa, la scena era accelerata per ritrovare solo i momenti in cui il Coro aveva cantato. RU aveva anche eseguito la registrazione con una apparecchiatura ad alta fedeltà e domandò chi volesse le cassette. Ad evitare che nascessero le solite storie, chi le voleva le pagava. Così la comperò anche Maria Teresa, che al momento non aveva le 1.500 lire con sé e rimandò a settembre. RU la ringraziò che avesse voluto, a sorpresa, organizzare quella serata. Si rendeva conto che lei, qualche volta, riconosceva la sua dedizione a tutti loro e, quando vedeva che ciò accadeva, riteneva giusto di dir “grazie!” Si salutarono allegramente tutti, augurandosi buone vacanze e di rivedersi a settembre.

La Schola Cantorum di Cogliate invece organizzò una gita, a delle grotte dalle parti d’Imperia. Così RU fece il suo viaggio in macchina, con Maria Teresa e tutto il suo Coro. Non l’avvicinò che una sola volta, quando già era trascorsa metà della giornata. Si ritrovarono seduti uno di fianco all’altro, su un muretto, in attesa di partire con il pullman, per il mare. RU fece in tempo appena a dirle: “Vedi, io sono fortunato: ho un tesoro, volendo bene a te. Tu no, non hai niente...” che furono invitati a salire sulla vettura. Giunti al mare, RU comperò un costume e fece anche il bagno, egli solo. Più tardi una delle donne del Coro gli domandò quanto l’avesse pagato. “Centomila lire”. E lei, divertita: “Ecco, Maria Teresa l’aveva detto!” RU aveva sollecitato dal Vaticano i nomi dei rappresentanti della fede. Invece dei nomi, ebbe, alla fine di giugno, una seconda Benedizione Apostolica.


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RU scrisse all’assessore, chiedendo espressamente che fossero delegati i rappresentanti della fede e non ebbe risposta. Ripeté più volte l’invito, ma non gli fu più risposto. Per organizzare il Convegno avrebbe avuto bisogno di denaro, che non aveva e allora, come accadeva una volta lontana ormai un buon decennio nel passato, la Provvidenza lo fabbricò in un modo impensabile. Mandò una lite terribile tra due famiglie che avevano acquistato due appartamenti dei suoi nel fallimento e chi invece aveva acquistato dalla ex Signora Raho, ora Signora Unito. Una lite veramente mandata dalla Provvidenza. Chi aveva comperato da Unito non voleva che chi aveva rilevato i beni dal fallimento parcheggiassero nelle vie interne, sostenendo che erano proprietari solo degli appartamenti, che avevano acquistato all’asta e non dei terreni, restati ancora miracolosamente intestati al già fallito Romano Amodeo. Il Tribunale, che pure aveva preso in carico tutta la situazione patrimoniale, aveva concesso la procedura d’esproprio agl’istituti di credito locali. Si trattava di beni in provincia di La Spezia che era meglio fossero seguiti dalle banche locali. Queste però, avevano avuto in garanzia solo le case e non i terreni di pertinenza, pertanto il fallimento era stato chiuso, dopo 8 anni e i terreni erano stati lasciati intestati ancora a Giancarla, che aveva rilasciato tutte le garanzie del caso e al fallito suo marito. Se non fossero venuti quasi alle vie di fatto, coloro che avevano acquistato all’asta si sarebbero infischiati delle aree; con questa questione sorta all’improvviso avevano alla fine deciso che era meglio se le acquistavano da Romano e Giancarla, senza mettere in mezzo nuovamente il Tribunale, che avrebbe dovuto riaprire le procedure e ci avrebbe messo chissà quanto tempo. Così preferirono spendere, in due famiglie, 24 milioni, dodici a testa, che poi finirono 6 a Giancarla e 6 a RU per quanto intestato a loro due e 6 a BEN e 6 a RU per quanto intestato ai due fratelli e acquistato dalla mamma, che aveva intestato la casa e ogni cosa a loro due, direttamente ai futuri eredi. RU si trovò, inaspettatamente a ricevere 12 milioni in tutto, divisi in due date: la prima per un atto fatto alla fine di luglio a La Spezia e la seconda fatta, sempre lì ma ai primi d’ottobre. Sabato Lingardo da mesi ora era a Saronno. Aveva chiesto a RU la stanza al primo piano e ci si era accampato. Era un vero porcile, ma egli vi si trovava a suo agio. Litigava talora con i vicini, cui la sua presenza dava fastidio. Glielo facevano capire ed egli assumeva quasi atteggiamenti di sfida. Gli unici che andavano abbastanza d’accordo con lui erano Barbara e Vincenzo, i due cuochi. Altre volte i vicini erano meno severi e un giorno Paolino, quel vicino con il quale ci fu il diverbio iniziale, sul muro rotto, quando il letto si era incastrato, accortosi

che faceva incetta di pane vecchio, gli diede una grande quantità di pagnotte di pane vecchio e duro, togliendole ai suoi conigli o alle galline. Sabato era stato l’ultimo degli allievi che si era aggiunto alla Nuova Scuola Italica. Con lui le discussioni andavano anche oltre il limite delle assemblee e proseguivano in casa. Sabato temeva la morte e RU gli spiegava come fosse una paura mal riposta: era solo un giro di boa e un ritorno reale al passato, tanto che non si sarebbe probabilmente nemmeno accorti d’essere morto e d’avere invertito la sua rotta nel tempo. Come su un treno che, giunto ad un terminale torna indietro e non sembra che nulla sia mutato. Ci credeva e non ci credeva per cui bisognava ripetergli più d’una volta i concetti, perché gli restassero ben fermi nella mente. Ma sbagliava ad aver paura del fatto che la vita, avendo fatto un flusso e giunta al punto suo estremo, iniziasse il riflusso, tornando indietro nel tempo. Avrebbe cominciato a vedere, stranamente, che gli effetti divenivano la causa che li aveva prodotti. Una cosa stupefacente, una vita osservata in senso inverso, perché avrebbe porto in avanti un bicchiere e avrebbe raccolto l’acqua come risucchiata dal pavimento, sarebbe andato a gabinetto e avrebbe come aspirato cacca dallo scarico, per produrre poi tutta quella frutta che prima aveva mangiato, e andare a restituire al fruttivendolo o al mercato dove l’aveva raccolta. Questi l’avrebbero messa nelle ceste e consegnate ai contadini che le avrebbero attaccate sugli alberi, e gli alberi le avrebbero trasformate in gemme. Insomma una dinamica a rovescio in cui si andava a vedere la causa, a partire dagli effetti e non più gli effetti a partire dalla causa. La necessità di tutto ciò? Il classico controllo incrociato che ti fa capire che la brava virtù sta nel bel mezzo. Per cui chi avesse dato nel primo tratto della vita, avrebbe ricevuto adesso la stessa cosa, sia in bene che in male. Un grosso boomerang che faceva ricadere le colpe e i meriti sugli artefici . Con la differenza che i beni divenivano oggetto di scambio, mentre i mali erano semplicemente trasformati in bene. Esempio? Da una parte sembra che io abbia ucciso con un coltello? Dall’altra sembra che io vada a togliere il coltello da quel morto e lo rimetta io in vita: assassino da una parte e salvatore dall’altra. Una cosa incredibile, ma l’esperienza che tutti avremmo fatto rovesciando la sequenza temporale. A quel punto tutti ci saremmo accorti che, operando a quel modo da una parte sembrava che si fosse fatto e dall’altra che si fosse disfatto, ma la verità non era né l’una né l’altra cosa: niente diveniva davvero ma tutto era una bella sequenza di scene fisse che, lette in un verso avevano il senso fattivo, lette nel verso opposto avevano un senso disfattivo. Significati aggiunti arbitrariamente dall’uomo. Perché tutta la vita era come un corpo la cui sezione da un lato avesse un bimbo che nasce e dall’altro un vecchio che muore, ma quel corpo è lungo tutta la vita e le sezioni sono tutte diverse e mai una che diventi l’altra.


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Insomma la vita come la TAC di quel corpo. Bene, Sabato doveva immaginare che terminata la TAC in un senso, la macchina iniziasse a fare la controprova nel verso opposto. Questo era il tempo in più, di Purgatorio, concesso da Dio a tempo apparentemente scaduto. E la giustizia del Padrone che dava sempre un denaro a tutti quelli che erano andati a lavorare la vigna, sia al mattino, sia alla sera, era dovuta al fatto che tutti avrebbero sempre lavorato allo stesso modo. Chi il 100% da una parte, lo 0% dall’altra, chi il 50% avrebbe diviso il lavoro sui due versanti e chi non avesse fatto che un 1% di qua avrebbe fatto il 99% di là. Insomma la Provvidenza di Dio avrebbe equilibrato tutte le cose attraverso il successo del valore medio. Sabato ascoltava, credeva di capire ma poi gli sembrava troppo strano che il mondo, visto sempre andare in avanti, all’improvviso iniziasse ad essere visto andare all’indietro. Avendo solo l’esperienza d’un divenire sempre visto con la causa che diventa l’effetto diventa duro immaginare che lo stesso ad un certo punto è osservato al contrario. “Sabato, ti faccio vedere come vedrai – e allora RU attivava il video registratore e metteva in atto la visione a rovescio – Vedi? La vita ti sembra uguale, ma il divenire non è più nel senso in avanti ma in quello all’indietro. Procedendo così tu diverrai a poco a poco come un bambino ed entrerai alla fine nella vagina di tua madre da cui – come hai visto sempre accadere di qua – uno semplicemente entra e non esce dal mondo. Esce non verso il nulla, ma verso i corpi di tuo padre e di tua madre. Trovandoti lì, ti sembrerà d’essere sia l’uno che l’altro, poi, sempre attraverso il sesso della madre e del padre si finisce di sesso in sesso in tutti gli antenati. Questa è la ragione profonda per cui il sesso è una percezione così essenziale: è la porta d’accesso al mondo e del rientro nel Paradiso. “A te, caro Sabato, piace la passera essenzialmente perché è la porta del paradiso e te lo dice, tanto che ne sei attratto moltissimo!” quando si toccavano esempi così realistici Sabato guardava l’amico stupefatto: ma voleva scherzare o diceva sul serio? No diceva sul serio. Questi gesti in se stessi non esistono. Un coito è come un bel cartone animato, in cui niente diviene, proprio niente, tanto che quel gesto... non c’è. Siamo noi che immaginiamo che ci sia. Allo stesso modo che immaginiamo che un libro di racconti li faccia esistere quando noi interpretiamo tutte quelle lettere simboliche. “Io quando vedo scritto il cinese vedo la verità: è un disegno. Per un cinese no: diventa il significato d’un messaggio. Bene ho più ragione io di lui, perché è un disegno che si può caricare di simboli derivanti tutti dalla fantasia della mente umana. Così pure è la nostra vita: bene e male non esistono di per se stessi ma sono azioni osservate nel loro divenire che non esiste. È bella la musica, ma un disco è solo una serie di solchi. Diventa poi il confronto tra i chiari e gli scuri, le variazioni tra i tempi quei particolari che lo rendono bello, buono o cattivo.

Questa è la ragione fondamentale per cui poi non saremo puniti: non siamo noi i colpevoli perché in verità non abbiamo fatto altro che osservare il puro svolgersi del destino. Il nostro peccato è la cattiveria del voler fare il male, ma il fare sarà avvenuto non per mano nostra. Dunque saremmo stati veramente colpevoli se avessimo fatto. Per questo nel decalogo si puniscono i peccati di desiderio: sono gli unici veri peccati. Nella legge umana se io desidero ucciderti non sono colpevole d’averti ucciso, anzi sono meritevole, perché, pur desiderandolo non lo faccio. La legge di Dio punisce questo desiderio perché è l’unica cosa che dipende veramente dalla tua libertà.” Per andare a fare l’atto, a La Spezia, RU avrebbe dovuto affidare la mamma alle cure di Sabato. Ebbe l’idea d’andar via tutti e tre e di trovare da dormire sulla Cisa, ad alta quota, dove faceva fresco. L’amico e la mamma lo avrebbero atteso lì mentre ci avrebbe messo poco, da lì ad andare e ornare avendo terminato l’atto di vendita del terreno intestato a lui e Giancarla. Fecero così, faceva caldo e l’idea del fresco della montagna dava refrigerio solo a pensarci. Sulla Cisa trovò posto solo in una locanda, dove ebbero in uso una stanza con un letto matrimoniale e un lettino. Nel piccolo si mise Sabato, nel grande gli altri due. RU fece a La Spezia quello che doveva fare, rivide Giancarla. Erano passati alcuni anni che non si vedevano e ne furono lieti. Giancarla restava sempre una bella donna, anche se gli anni cominciavano a pesare anche sul bel volto, rendendolo sempre più simile a quello della madre. Se ne tornò con un assegno di 6 milioni e con il desiderio di restare un po’ lì in montagna al fresco. Non in quella locanda, che costava 150.000 lire al giorno per loro tre. In tre giorni RU spese quasi mezzo milione. Trovò a Berceto un appartamento di tre locali, più una grande cucina e un bagno, per un milione e quanto restava d’agosto. Era arrivato, infatti il 12 del mese. Romano acquistò per Sabato degli abiti più decenti: un paio di pantaloni, una camicia, e due canottiere. Gli diede il tutto ed egli non voleva accettarli. Non insistette. Vide che aveva steso la canottiera unta e bisunta sul filo teso sul balcone e sostituì a quella la canottiera nuova che aveva comprato. Quando Lingardo vide ciò si mise a protestare, che egli non la voleva che voleva il suo indumento. Sabato protestava soprattutto contro le accuse che tutti gli facevano assimilandolo quasi ad un porco, che ami sguazzare nel sudicio. Che adesso ci si mettesse anche Romano era troppo.


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LA MORTE DI SABATO LINGARDO. Alla fine Sabato aveva accettato i pantaloni, ma la canottiera no: l’aveva lavata! Questa levata d’orgoglio sua ad Amodeo proprio non piacque e per dimostrare all’amico che cosa ne faceva ora egli di quel bene che non voleva, lo distrusse: prese un paio di forbici e menò gran colpi, come se volesse uccidere quella canottiera e il pensiero gentile che aveva avuto per lui. Venne sera e Sabato non volle andare a letto nella sua stanza. Si addormentò seduto su una poltrona. Il giorno dopo era frastornato. RU gli consigliò che doveva dormire nel letto. “Vedi? Hai riposato male ed adesso sei lì, mogio mogio.” Venne la sera e, mentre aveva condotto sua madre già nella stanza da letto, provò a convincere l’amico ad andare a letto. Egli rispose che non voleva. Così RU, che aveva pensato che non volesse far la fatica di tirare fuori le lenzuola, gli fece il letto, matrimoniale, che c’era nella stanza destinata a Sabato. Tornato in cucina, lo incitò: “Dai, ti ho fatto il letto!” Sabato non rispose. Allora aggiunse: “Basta capricci! Adesso ti tratto come un bambino e ti ci porto con la forza, vediamo se riesci a resistere!” e afferrò con la mano i suoi capelli, cominciando a tirare verso l’alto. Lingardo per un po’ si alzò, sentendo male, poi di colpo si lasciò ricadere e RU dovette lasciare la presa. L’aveva vinta lui. Se ne andò a dormire con la mamma. Il giorno seguente Sabato se ne restava muto, torvo nel volto. Probabilmente scontento del suo amico e delle violenze che gli stava facendo. Gli aveva consentito di vivere davvero come un porcello e come egli voleva, a Saronno, e perché adesso tutte queste pressioni per com’era meglio che si comportasse? Poiché era evidente che nemmeno quella notte sarebbe andato a letto, messa Mariannina a letto gli spiegò che non si stava comportando bene: quando si vive insieme in quel modo bisogna venirsi in contro. Non vedeva come RU fosse a disagio nel costatare che egli non andava a riposare nel letto? Allora gli fece sapere che sarebbe uscito, che era troppo nervoso e che chissà quando sarebbe rincasato, perché era passata anche a lui la voglia d’andare a letto. Uscì e fece un viaggio fino a Saronno, caricò il computer in macchina e rincasò attorno alla 4 del mattino. Aveva sperato che l’amico, non vedendolo andare a letto, decidesse finalmente d’andarci. Invece Sabato era ancora in cucina. Restò deluso, andò

da lui e gli rivelò che, nervoso com’era, andato alla massima velocità fino a Saronno, a prendere il computer, almeno si sarebbe scaricato finendo il libro da dare al Convegno. Aggiunse: “Se mi scoppiava una gomma a quella velocità mi avresti avuto sulla coscienza!” Sabato sembrò restare impressionato, ma restò lì. Giunse il giorno dopo, ed era ferragosto. La prima cosa di cui RU invitò l’amico, appena si svegliò attorno alle 11, fu di decidersi: se accettava di vivere seguendo le regole civili stava bene, altrimenti se voleva vivere in modo da far star male gli altri, allora era meglio che stesse da solo. Quando si vive in gruppo occorre che ciascuno non pensi solo a se stesso. Lì il letto c’era, egli ne aveva bisogno e allora perché non ci andava? Per puntiglio? Quando erano stati alla locanda aveva dormito nel letto. E allora? “Allora vado via” raccolse le due buste di plastica che fungevano da sue valige e se n’andò. All’una ritornò, spiegò che non aveva trovato pullman e che avrebbe riprovato più tardi. Infatti uscì. Sabato sapeva che RU doveva ancora andare a messa e che ci sarebbe andato al pomeriggio. Così si mise all’angolo della Chiesa, probabilmente ad aspettarlo. RU non andò da lui. Approfittando della sua miopia entrò in Chiesa senza esser visto. All’uscita era ancora lì. Evitò nuovamente d’essere incontrato e tornò a casa ad aver cura di sua madre che, in sua assenza sistemava su una bella sdraio alla quale l’assicurava per la vita, in modo che non tentasse d’alzarsi e cadesse in sua assenza. Accendeva davanti a lei il televisore e lei era distratta da quelle immagini, di cui ormai già da anni non capiva la vera realtà. Fin da 5 anni prima, quando erano ancora in Via Teodosio, aveva cominciato a difendersi da quelle persone che guardavano in casa e la spiavano dal televisore. Ora non aveva più quel problema ed osservava il loro movimento, distraendosi quanto bastava a rendere la sua vita meno monotona. RU si mise a lavorare al computer, di fianco a sua madre. Ed ecco rientrare Sabato. “Cosa c’è, Sabato?” Tirò qualche scusa. E RU: “Ti devi decidere: o vivi bene e allora tutti felici e contenti o te ne stai per conto tuo. Non giochiamo a fare i bambini. Sei più adulto di me!” “Va bene, allora vado via” e uscì nuovamente. Alle 11 RU accompagnò sua madre a letto e andò a chiudere a chiave la porta di quell’appartamento al primo piano, cui si accedeva con due rampe di scala. Intuì che Sabato non era andato via ed aprì la porta. Infatti era seduto con alle sue spalle la finestra del pianerottolo tra le due rampe.


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“Sabato! Cosa fai lì?! Ma perché adesso vuoi farci fare anche brutta figura? Cosa vuoi che pensino gli altri che vivono in questo palazzo vedendoti accampato qui fuori? Su, entra e andiamo a letto.” Sabato lo guardava torvo, ma non rispose. “Sabato, stai bene attento. Ho sempre avuto la massima pazienza con te, ma se mi fai questa cosa, tu scegli di distruggere la nostra amicizia.” Non fece una mossa. RU perse la pazienza: “E va be’ l’hai voluto tu! Fine! Non ti voglio più vedere vivo!” Era stata un’espressione infelice, voleva significare che in tutta la sua vita non lo voleva più vedere e che proprio lui aveva voluto che la loro amicizia finisse così. Entrò in casa e chiuse la porta, lasciandolo lì. Riuscì a addormentarsi, per quanto si sentisse molto agitato e contrariato. Aveva preso sonno da non molto tempo che sentì rumore di passi in casa e si girò per vedere chi fosse: erano la padrona di casa seguiti da un’altra persona. Gli fecero cenno d’andar con loro, per non svegliare l’anziana signora che era addormentata. RU, li seguì, chiedendosi che fosse successo e fu in corridoio che la donna gli spiegò: “Venga giù che c’è il suo amico morto!” Sabato Lingardo giaceva riverso in avanti appena dentro la porta delle scale, al piano terreno. Aveva dovuto urinare ed era sceso in strada, ove c’erano ancora le tracce; poi era rientrato nel portone, l’aveva chiuso e, in quella, era stato fulminato da un colpo apoplettico. Non si accorse forse nemmeno, di morire, egli che l’aveva tanto temuto... Furono chiamati i carabinieri e gli fu raccontato tutto: come se ne fosse andato ma poi fosse restato là. Lo chiusero nelle loro custodia mortuaria e lo trasportarono all’obitorio di Parma per l’autopsia. RU rientrò in casa e si coricò di fianco a sua madre. Non riusciva a dormire. Ad un certo punto Mariannina Baratta, ormai muta da parecchio tempo, rivelò ad alta voce e in modo chiarissimo: “Ha preferito cadere in piedi per stare meglio” RU si sbalordì: sua madre gli stava raccontando le preferenze di sabato in relazione al suo giro di boa. Usando lei come un medium, aveva iniziato a trasmettere messaggi e Mariannina, che era anche lei ormai più di là che di qua, attingendo a quel lato molto più valido dell’esistenza, riusciva a comandare, alla sua parte ancora su questo versante della vita, i messaggi di Sabato. Poco dopo lo chiamò ad alta voce tre volte: “Sabato! Sabato! Sabato!” come se davvero stesse cercando di rivolgersi a lui. Infine, girandosi di scatto verso il figlio, steso in letto e addoloratissimo per la morte del suo amico, gli cacciò una mano tra i capelli, li afferrò, li tirò in alto con forza e gli domandò: “Ma è vivo o morto?!”

Era ora Sabato che stava trattando RU come un bambino. Aveva ripetuto attraverso la madre, il gesto fatto da Romano a lui due sere prima, quando aveva cercato di condurlo nel suo letto con le forza. Questo “Maestro” che gli aveva fatto una testa così per dirgli che la morte non è da temere che stava facendo? Si stava dispiacendo per la sua morte? Ma credeva o no alle cose che gli aveva detto? Gli aveva anche fatto sapere, poco prima, che stava meglio così, che aveva preferito cadere in piedi! Una espressione che Mariannina non aveva mai usato, ma che descriveva proprio la sua morte non come una morte, ma una pure e semplice caduta in piedi: su è giù, giù e su. La sera dopo Mariannina espresse l’ultima spiegazione, che Sabato volle dare ad Amodeo: “Eh, lui si voleva sposare!” Questo era stato il motivo per il quale Sabato non era andato a dormire nel letto: era un letto matrimoniale che sentiva lo avrebbe angosciato a morte, per il suo desideri così forte che aveva avuto in tutta la vita d’avere, assieme a lui, una donna da amare. Non avendola mai avuta quel letto matrimoniale era per lui il simbolo della sua sconfitta, quindi preferiva dormire seduto sulla poltrona. Se fosse stato possibile dirlo, Sabato avrebbe fatto meglio a dirlo e gli si sarebbe trovato un altro letto. Madre e figlio restarono per altri quindici giorni in quella casa. RU la sosteneva per le spalle e, standole dietro, la faceva camminare, dicendole: “passo, passo... passo, passo...!” nel mentre spingeva i suoi passi con i suoi. Dopo un poco lei ritrovava l’autonomia del movimento e camminava senza più necessità che fosse spinta e così guidata. Fecero anche molti giri fuori, perché la mamma doveva camminare, altrimenti si sarebbe definitivamente bloccata. Cominciò ad uscire anche da solo, quando sua madre si era appisolata sulla sua sdraio a cui era saldamente assicurata. Si recava al Santuario della Madonna dei Miracoli, dove aveva fatto amicizia con il Priore. Passava delle mezz’ore a descrivergli come aveva capito fosse il Paradiso e si accordasse con la presenza corporea. Non si doveva immaginare una Terra che contenesse tutti, ma solo quello che abbiamo quotidianamente davanti agli occhi: tutte le storie della vita, ciascuna nello spazio e nel tempo in cui era realmente vissuta, ma con la possibilità dell’anima d’immedesimarsi in ciascun’altra anima, tanto che fosse come aveva detto Gesù: il prossimo come se stessi, in quanto ogni vivente si sarebbe potuto mettere realmente nei panni del prossimo a godere del bene toccato a lui come se fosse toccato a se. Non era una cosa strana: guardando un film è esattamente quello che facciamo: ci mettiamo nei panni di quei personaggi e ne gioiamo, partecipando, anche se sono storie tristi. Quando si sa che una storia non è vera si può gioire anche d’una sofferenza toccata ad un Amodeo, se presenta i suoi lati buoni. Quando uno cade in modo ridicolo si ride anche se egli si fa male ed è la stessa cosa.


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Il priore ebbe modo di confrontare il vangelo con la nuova visione della realtà complessa, vai e vieni, d’Amodeo. Il messaggio di Sabato era stato chiarissimo. Solo che egli non appariva schiavo della situazione, ma promotore... Anche questa però era unicamente una trappola buona tesa dal Signore, e non da Sabato, unicamente per dare delle conferme autorevoli ad Amodeo, impegnato in un’opera molto più grande dei suoi mezzi e che andava aiutato in tutti i modi. Alla fine d’agosto RU e la madre tornarono a Saronno, raccontarono ai vicini l’accaduto e Barbara Edyta Gorzawska, l’unica amica di Sabato lì, riferì, giorni dopo che l’aveva saputo da RU, che l’aveva sognato, mentre saliva per la scala e andava alla sua stanza al primo piano. Allora lei gli aveva osservato: “Sabato, ma non sei morto?” ed egli di rimando: “No, sono immortale!” SABATO RIUSCÌ A SALUTARE RU... DALL’ALDILÀ! Il libro che RU avrebbe dato al Convegno fu pronto e Romano decise di dedicarlo al suo amico, ultimo degli allievi della sua Scuola e primo ad averne verificato i contenuti. Pensò che sarebbe stato bello se avesse avuto una belle foto di Sabato. Ma gli venne in mente che ce l’aveva. Un mese prima che morisse, Lingardo gli aveva consegnato un rollino, che si era fatto restituire da un fotografo che l’aveva fotografato, senza permesso, mentre era seduto tra i sacchi, come un barbone. “Perché mi dai questo rullino?” “Non so, tienilo tu”. RU l’aveva messo sullo scaffale. Quindici giorni dopo Sabato gli domandò che cosa ne avesse fatto e RU gl’indicò dove l’aveva messo. Poi gli aveva chiesto ancora che cosa ne doveva fare ed egli aveva risposto nello stesso modo. Ricordatosi d’avere questa foto, corse dal fotografo a farsi sviluppare l’unica foto scattata su

quella pellicola e restò senza parole quando vide che c’era su un’immagine bellissima di Sabato sorridente e nel gesto d’un saluto con la mano. Dietro di lui c’era un cancello di ferro con due scritte vicino al suo volto: Flavio ti voglio bene; Flavio ti amo, come se questo fosse un fumetto che esprimeva un sentimento legato a qual suo amico cui due mesi prima di morire aveva confidato: “Io non so la mia vita com’è! Ho passato l’infanzia e la giovinezza seguendo tuo padre, ed ora che sono vecchio, sto seguendo te.” Bene, Sabato aveva abitato, negli ultimi tempi, al piano alto della proprietà della E.M.S. s.n.c. Quel localino in alto era il Paradiso Celeste in cui avrebbe realmente abitato Sabato il 24.10.1999 nella data del Convegno, 69 giorni esatti dopo la sua morte e a 69 di distanza esatti dal nuovo millennio Si fece sognare da Barbara nell’atto di salire su per la scala perché quella era la concreta scala che portava al suo Paradiso. Per il Convegno avrebbe fatto ancora di più: ci avrebbe portato lo Spirito Santo di Dio. Il 6 settembre, davanti all’asilo, si ritrovarono i cantori per l’inizio del nuovo anno d’attività e RU accennò, di sfuggita, anche a Maria Teresa, che era morto quel suo grande amico che gli telefonava anche alle 5 del mattino. Al gruppo, RU portò tre cantori in più: Marco Furini e Fiorella Lunardi, suoi allievi della sua scuola di filosofia e Ines Zamberlan, la madre di Fiorella. Frequentarono per alcune settimane, poi smisero: l’atmosfera che avevano trovato nella Cantoria non era stata giudicata delle migliori. Specie Fiorella aveva notato troppa saccenteria e poco senso dell’accoglienza, quasi da parte di tutti. Sabato infine comparve in sogno anche a RU. Costui stava in automobile, in attesa dell’amico, e quegli arrivò con un gran pacco di disegni e sedette al suo fianco. Romano prese dalla sua mano i disegni e si accorse che erano i suoi, in bianco e nero, che erano stati colorati. Gli chiese: “Perché hai colorato i miei disegni?” Guardò più attentamente e si accorse che non era così: tutto era stato ridisegnato di sana pianta, dalla mano, così abile, di lui, che RU fu preso, attratto dalla scena dipinta, immedesimato in quei colori e in quelle luci. Si ritrovò così con Maria Teresa e fece l’amore con lei, interamente, anima e corpo, per tutta la notte. Sabato, divenuto potente dopo la sua morte, era stato capace d’entrare nei sogni di RU e glieli aveva colorati, li aveva realizzati tutti per lui, rendendoli vivi e palpitanti come più e meglio non si sarebbe potuto. Fu l’ultimo regalo che l’amico gli lasciò, prima che cominciasse la tempesta, e cominciò proprio da quel versante. Come ogni tempesta, iniziò tuonando e questo clamore, che incute paura nell’anima e la disorienta e la rende insicura, gli venne dalla sua «Celeste amica».


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Una sera di settembre, mentre salivano per le scale che portavano fuori all’aperto dal piano interrato in cui c’era la sala delle prove, Romano, trovatosi di fianco a lei, le domandò: “T’ho fatto rabbrividire, in luglio con quelle mie due lettere? Cosa ne dici?” “Niente.” “Come niente?! Ti ho rivelato la mia verità; la più profonda. Che ne dici?” “Niente.” “Ti farà anche piacere, credo, che ti si voglia bene!” “Verità per verità: che tu mi voglia bene non mi fa’ né caldo né freddo.” Non era una novità ma questa volta c’era in più nel suo volto, di «Celeste amica», un ghigno demoniaco, per ferire a morte, uccidere, se fosse stato possibile, quel sentimento. RU si rese conto, all’improvviso, di quanto cattiva riuscisse ad essere questa donna verso cui aveva il solo torto – un difetto grave agli occhi di lei – di volerle un bene imbattibile. Lei, di fronte alla sua tenacia, si sentiva così impotente che doveva colpire sempre più a fondo; ora ci stava provando con il veleno. Non le importava più, in questa sfida tra caratteri forti, che divenisse perfida e demoniaca, nel tentativo, assai patetico, di debellare un angelo, per di più proprio lei, la «Celeste amica». La tempesta in arrivo, alla metà di settembre del 1999 è la peggiore che possa capitare a RU. È quella stessa patita da Gesù per mano della Chiesa del suo tempo: una virtuale consegna nelle mani delle autorità religiose e un effettivo e reale lasciarlo morire equivalente ad una condanna a morte non decretata. Questo bambino sopravvissuto, che sua madre aveva messo nei panni di Gesù quando aveva pregato “Madonna salva mio figlio, innocente come il tuo, tu che sai che cosa significa la morte d’un figlio innocente”, sta per ricevere, dalla Madre di Dio, il privilegio di vivere la stessa esperienza di Gesù. E ciò proprio perché la Madonna ben sa che cosa significhi veramente, in assoluto, il sacrificio d’un innocente: è la sua massima gloria. Però egli la vedrà solo dopo! Prima sarebbe stata accontentata Mariannina, per il suo umano bisogno della vita. Così avrebbe avuto questo figlio, alla fine della sua vita, tutto per lei, salvato da una preghiera di lei, come una vera consolazione: per il suo non essere stata ascoltata, quando, pregata da lei piccina, lei sempre aveva chiesto alla Madonna: “Vecchia no!” RU aveva sollecitato al Vaticano che gli fossero segnalate le persone della Chiesa che l’avrebbero rappresentata al convegno indetto per il giorno di domenica, 24 ottobre 1999. L’oggetto del Convegno? È il Cristo! È il tentativo, tutto umano, di verificare le nuove vie scoperte, per assicurarsi che portino davvero al Cristo, a partire dall’uso

corretto della ragione; non alla Scientology! Ad una ricerca che affianchi alla Ragione gli Organi della Chiesa che controllino ed impediscano un’altra Scientology. Se qualcosa qui sarà sacrificato, non è il tentativo d’un uomo: è lo scopo di quel tentativo: è nuovamente il Cristo! Ma, ancora – è inevitabile – scatta l’umanità con tutte le sue remore: “Ma chi è quest’Amodeo? Cos’è la Nuova Scuola Italica? Carneade, chi era Costui?” Se Romano Amodeo si fosse chiamato Carlo Rubbia o Rita Levi di Montalcini, state pur certi che la sua iniziativa sarebbe stata accolta con il clamore di tutte le trombe del mondo. Invece la proposta era arrivata da un Signor Nessuno. Dunque non andava presa in considerazione. L’umanità, quando si presenta a questi livelli, è pura incoscienza. La Chiesa lo ha sempre saputo, lo afferma, che Dio rivela la verità agli umili e non ai potenti. Il Dogma dell’Immacolata Concezione fu proclamato perché la Madonna apparve a delle umilissime fanciulle e non al Pontefice. Tutte le cose veramente importanti sono state quelle segnalate ai poveri, ai derelitti. Dio privilegia costoro. Una Chiesa che, nel suo organismo centrale, il Vaticano, non considera questa realtà d’un Dio che parla agli umili, è una Chiesa ancor piena di contraddizioni e d’incoscienza, che fa piani, programma tutto, si rivolge anche ad operatori tipo Marchinkus, nel tentativo di fare quello che Gesù sconsiglia di fare. Gesù invita a non torturarsi per chiedersi “Cosa mangerò? Che farò?” ma ad affidarsi alla Provvidenza di Dio. Ora compare, davanti alla Chiesa, un pensatore che sostiene proprio questo: d’affidarsi in tutto alla Provvidenza di Dio! Ebbene, anche se egli risponde in quanto interrogato, non è considerato. Accade giacché la logica degli Apostoli moderni del Vicario di Gesù, è ancora quella del mondo anziché quella, apparentemente scriteriata, d’un Dio che dice “abbassati che sarai alzato, mettiti all’ultimo posto che finirai al primo”. RU era al primo posto, ai 33 anni del Cristo, e si abbassò fino ad essere all’ultimo. Se avesse parlato allora, quando seguiva il criterio del mondo, gli Apostoli gli avrebbero fatto largo, fino al Vicario. Parla invece dopo che per 30 anni si è messo all’ultimo posto ed è diventato un nessuno che dovrebbe essere glorioso, considerato, dalla Chiesa che gli ultimi riconosca come i primi. Ma non è così: i bambini devono ancora essere tenuti lontani da Gesù, secondo gli Apostoli, perché danno solo disturbo. Questa Chiesa, fatta in questo modo, Gesù l’ha chiamata piena di sepolcri imbiancati ed è ancora tale. Non c’è manto pieno d’orpelli preziosi che possano fare


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grande nemmeno un Papa se egli non seguisse i valori d’un Gesù che dice che il Grande è chi serve e lava i piedi al piccolo. Così la Grande Chiesa di Roma – non nella veste benedetta ed illuminata da Dio, del suo Papa Giovanni Paolo II, che un giorno sarà fatto santo, ma in quella degli apostoli che da sempre cercarono d’allontanare da Gesù i bambini, perché molestavano – allontanarono dal Papa – in ogni modo – la richiesta d’Amodeo: di delegare i rappresentanti della Chiesa al suo convegno. Il Convegno si sarebbe fatto, sarebbe stato abbandonato a se stesso, con il forte rischio d’una seconda Scientology! Questa è una condanna a morte della verità del Cristo, se la Fede non soccorre la ragione. E RU supplicò questo aiuto. Il suo convegno – secondo il grossolano pensiero dell’autorità – doveva essere di presuntuosi, essendo RU uno sconosciuto, pertanto uno che presumeva troppo da sé. Non valeva la pena darsi da fare per mandarvi un rappresentante della Gerarchia della Chiesa, che evitasse di cadere in eresie. Come se poi, in una questione riferita solo al pensiero, fosse importante a chi appartenesse, per essere un pensiero valido o no. Il fatto è che l’uomo che va verso la morte è essenzialmente incosciente (il lato veramente conscio, ben chiamato coscienza, è l’altro, è quello opposto che, risorto dalla sua polvere del sepolcro, procede verso il Padre e vede Dio e non la morte come il suo capolinea). RU, che definisce decisamente merda se stesso, non si ritiene un’eccezione. Pure il Papa sarebbe merda se non seguisse Dio. Potrebbe mettersi la Mitra, potrebbe fare di tutto ma se non seguisse Dio, non rappresenterebbe nessuna grandezza e sarebbe una merda ancora più grande, perché poi essa sarebbe sparsa su tutto il cristianesimo con un tanfo nauseabondo. Invece Papa Giovanni Paolo II era stato davvero illuminato da Dio, quando aveva proclamato la Fides et Ratio. Era però seguito da un corpo d’Apostoli e discepoli che gl’impedivano d’operare con efficacia, a tutti i livelli, anche cardinalizi: perché non inondati dalla stessa luce di Dio. È comprensibile. La Chiesa per millenni ha invitato a diffidare l’uso della Ragione, perché portava a conseguenza opposte alla verità. San Paolo fu il primo che l’affermò, quando i sapienti filosofi d’Atene risposero: “Di questo parleremo un altro giorno”, messi di fronte alla richiesta di ragionare sulla risurrezione di Gesù. È impossibile cambiare di colpo una mentalità tenace, assunta nel corso dei millenni. Pertanto era umanamente comprensibile che le gerarchie della Chiesa avrebbero frenato disperatamente, e si sarebbero opposte al comandamento impartito loro dal Vicario di Cristo. “Tentare nuove vie? Oh, andiamoci piano, vediamo prima dove portano e poi diciamo se devono essere tentate o no. Altrimenti si rischia d’arrivare a conclusioni

contrarie a quelle rivelate da Gesù. Anzi, non si rischia... è certo: perché la ragione porta a riconoscere importante tutto l’opposto di quello che è importante per Gesù.” Allora si vorrebbe conoscere prima dove si arriva quando ci si accinge a cercare di conoscere... una pretesa impossibile! Infatti se io cerco è perché ancora non ho trovato. L’illuminato Santo Padre invece si affida chiaramente alla Provvidenza. Riconosce che la Ragione è una delle due gambe dell’uomo e può portare alla verità, se l’uso che ne è fatto è corretto. Non si può vietare ad un adulto l’uso d’un coltello, per la paura che possa uccidere. Deve essere usato, ma nel modo giusto: che tagli i cibi e non le persone, che sia usato da adulti... e se uno è un bambino occorre aiutarlo. Se RU è stato riconosciuto uno sprovveduto, perché non è stato aiutato? RU chiese che la Chiesa locale informasse le persone, che il 24 ottobre ci sarebbe stato questo primo tentativo, nel mondo, d’attuare l’enciclica del timone della Chiesa e Vicario di Cristo. Il luogo del convegno sarebbe stato l’ampio salone al piano inferiore del Centro Sociale. Era stato concesso dal Presidente, Fausto Gianetti, con un accordo sulla parola, ed era stato raggiunto l’accordo che sarebbe stata fatta istallare una linea telefonica ISDN, che consentisse la teleconferenza. Accadde che anche il suo Parroco ed amico, Don Luigi, si chiese se fosse corretto che un privato indicesse un Convegno, anche se a capo e in nome d’un gruppetto di persone che si era eretto autonomamente a Scuola filosofica. Non c’era nessun titolo, nessun riconoscimento. che garantiva la serietà questa Scuola. Gli furono fatte vedere le due lettere di lodi e di ringraziamento del Vaticano, ma non ne restò né impressionato, né convinto. Giunse un anno intero che il Papa G.Paolo II aveva promulgato la Enciclica Fides et Ratio nel dì 14-9 della esaltazione della Santa Croce (ma era quella croce patita da Tresina Baratta dal suo RIO cognato che la stuprò per mesi pur di renderla madre, e poi fu sposato e un mese dopo nacque Rosa Baratta, ove Rosa+RIO (il padre violentatore) sono il RosaRIO “vero” da ricordare per sempre, mentre la Conversione della RUSSIA (i due rimedi chiesti dalla Madonna a Fatima) era quella di Tresina RUSSO che come una vera santa doveva convertirsi all’amore per il RIO stupratore e trasformarlo in un AMATO marito, che le desse poi Mariannina Baratta come il Santo frutto di un amore SANTO, da cui poi nascesse RU... Ed è il Romano che ora medita la sua Croce, per difendere la DISCESA DELLO SPIRITO SANTO chiesta dal Papa.. A vera imitazione di Cristo, RU si ritrovò ad avere anche lui, assieme ai suoi discepoli, la sua bella ultima cena. Si ritrovò infatti proprio a cena il 16 settembre, con Salvatore Mocciaro, Luigi e Patrizia Tandin, a casa di costei.


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Lo scrisse al Cardinale Tettamanzi, allora Arcivescovo di Genova, che aveva conosciuto da poco e che sarebbe diventato poi Arcivescovo di Milano:

A questi, che erano i componenti più saldi e fidati, gli apostoli della Nuova Scuola Italica, annunciò che quella era l’ultima volta che l’avrebbe fatto, perché, a partire dal giorno dopo, il venerdì 17 (che bel giorno, giusto, giusto!) di quel settembre 1999, avrebbe iniziato un digiuno quasi assoluto. Si sarebbe, infatti, alimentato di una sostanza la più essenziale: solo del corpo di Gesù, dell’ostia consacrata assunta nella messa quotidiana. Il giorno dopo in cui RU iniziò il suo digiuno, morì la mamma di sua cugina Barbara, la sua padrona di casa a Saronno, il che mostra fino a che punto lui era legato a questo ramo che discendeva da un Gesuè Baratta. Il 17-9 è il giorno distante 3 giorni (tutto lo spazio intero di tempo, per la Chiesa di ravvedersi, trascorso invano!) dalla esaltazione della Santa Croce in cui il Papa aveva chiesto la Discesa dello Spirito santo, con queste sue parole che così concludono la sua enciclica “Fides et Ratio”, e Romano iniziò il suo sacrificio. Infatti quando un tale Pietro scrive: POSSA LA SEDE DELLA SAPIENZA egli PROVOCA la reale discesa dello SPIRITO SANTO

... Così da oggi ho iniziato a non mangiare altro che l’ostia alle sante messe. E non mangerò più altro fino a quando il caso non arrivi a far male a tutta la fede, fino al punto che essa si muova e sia presente là dove è chiamata ad essere presente dal motivo elementare che è stato proprio da essa che è nata la spinta affinché fede e ragioni – le due grandi mani delle possibilità dell’uomo – si radunino a convegno. Cardinale, se qualcosa Lei può fare, per rendere meno pesante il mio sacrificio (che nuoce anche alla preparazione dell’evento che tanto mi sta a cuore), per amor di Dio la faccia! Intanto Le invio anche copia della comunicazione fatta al Santo Padre. Con molta gratitudine. Saronno 17 settembre 1999 Romano Amodeo Lo videro calare di peso. Una donna che recitava le Lodi con lui al mattino, Carolina, vedendolo così, un giorno pianse. Altre cominciarono a sostenere che bisognava pregare, perché RU stava spaccando la comunità della Parrocchia. I componenti della Chiesa locale gli ordinarono di mangiare: Monsignor Centemeri a Saronno r Don Carlo a Cogliate. Egli mangiava già quanto gli bastava: l’ostia di Gesù Cristo e nient’altro. Assunse – per insistenza dei suoi amici – solo capsule di sali minerali senza lecitina e sale da cucina, perché si stava disidratando. Don Luigi fu inflessibile. E quando un giorno RU gl’insinuò che loro lo avrebbero portato a morire, il buon Parroco, tirato davvero alla disperazione esclamò “e muori!” in presenza della sacrista. RU scrisse al cardinale Martini d’intervenire. Segnalò il caso, scoppiato sulla stampa locale. Queste lettere sono certamente registrate nella Curia di Milano e brillarono per l’assoluta mancanza d’una risposta. RU aveva deciso di far conoscere al Papa quello che stava accadendo in Lombardia, in occasione del primo tentativo di fare come Egli aveva suggerito. Altro che avvocatura, aveva trovato davanti a sé solo Pubblici Ministeri e la precisa condanna a morte del parroco: “e muori!” Per arrivare all’attenzione del Papa doveva riuscire a scavalcare tutto l’apparato che gl’impediva d’essere udito. Da piccolo qual era lui, doveva strillare, strillare, affinché gli attuali Apostoli non gl’impedissero d’essere ricevuto dall’attuale Vicario di Gesù.


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Il Papa era andato in carcere, da Alì Agcià che aveva attentato alla sua vita! Come non avrebbe ricevuto, standosene comodamente lui in Vaticano, chi (per difendere lui e non per ucciderlo), aveva messo in pericolo la sua salute e la sua vita, mettendosi assolutamente alla mercé dell’Autorità della Chiesa? R.A., questo bimbo sopravvissuto alla morte, che credeva nel bene, nella umiltà e nell’accoglienza, fu giudicato un ambizioso, un prepotente, un ricattatore, una spina nel fianco della Chiesa e che ne rompeva l’unità. Egli sentiva tutta questa reazione assolutamente ingiusta e ne soffriva. Sentiva ben d’essere una ben povera cosa, una merda, ma solo nel senso d’un concime buono, perché poi nascessero e crescessero i fiori e il pane.

La stampa locale – incluso La Prealpina, di Varese? - non arrivava al Papa?. Sarebbe dovuto comparire sul Corriere della Sera, o in televisione e allora il Sommo Pontefice avrebbe udito la sua piccola voce e avrebbe detto ai suoi Apostoli “Non tenete lontani da me i bambini !”

In quei giorni dovette andare a La Spezia per concludere il secondo atto della vendita del terreno, stavolta quello intestato a se e suo fratello. Vi fu accompagnato dal suo amico Salvatore Mocciaro, il più premuroso con lui, fin dai tempi di Piazzale Cuoco. RU era debilitato, ma teneva fede al suo impegno. Salvatore aveva preteso che si facesse seguire dal medico ed egli lo faceva. Poi il Mocciaro telefonava al dottore per sapere dalla sua viva voce come stesse il suo amico. Il medico lo tranquillizzava: fino a quando le sue caviglie non si fossero gonfiate, non avrebbe corso seri pericoli. La gente gli diceva di smettere, di riprendere a mangiare. Si addolorava di vederlo in quello stato. Alcuni consigliarono d’una petizione al Papa, affinché RU fosse ricevuto. LA PETIZIONE SCRITTA AL PAPA DI 4 PRETI E 460 PERSONE Fu così lanciata, il 18 ottobre, una raccolta di firme, 460 persone (di cui 12 maomettani e un ateo) si unirono per chiedere che il Papa cattolico lo ricevesse. La petizione era presentata da 4 sacerdoti:  il rettore del Seminario di Berceto Don Luigi Adami,  il prevosto di Berceto Don Giuseppe Bertozzi,  Don Celeste Dalle Donne Parroco di Bulciago (CO),  Don Angelo Cassani, Parroco di Jerago (VA).


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Questo fu il testo della Petizione Santità Vostra, questo è il caso umano di chi, avendo la percezione che buona parte della Chiesa fideista si oppone ed ostacola le Vostre coraggiose decisioni in merito ai rapporti tra la Fede e la Ragione, a tutt’oggi, 18 ottobre 1999, digiuna da 32 giorni esatti, cibandosi solo dell’ostia consacrata e bevendo solo acqua. Fa penitenza, per il bene della Chiesa, perché essa si convinca a seguire le meravigliose decisioni della Santità Vostra. Per carità umana, ricevetelo e con urgenza, affinché cessi il suo digiuno, avendo finalmente egli rimesso, nelle Vostre sante mani, i problemi che non gli danno pace, proprio per quella passione, quell’ansia e quell’audacia da Vostra Santità stessa auspicata: per la ricerca del bene e d’un nuovo percorso che possa evangelizzare, portando a Cristo la scienza miscredente, dalla quale purtroppo tanta parte dei destini dell’uomo oggi dipende. Lo chiedono, assieme a me, 460 anime, piccole e grandi, credenti e non credenti, di cui a seguito è l’allegato elenco. Coi sensi d’una profonda riverenza ed obbedienza. Lunedì 18 ottobre 1999. Don Adami volle aggiungere di suo pugno: “Visto il caso umano, conviene dare un segnale di buona volontà nel fissare l’incontro umilmente richiesto, secondo la possibilità della Santa Sede.” Don Giuseppe Bertozzi aggiunse di suo pugno: “Anch’io richiedo un gesto di buona volontà da parte dei responsabili della comunicazione e divulgazione dell’Enciclica, perché gli ingenti sforzi e la buona volontà del Sig. Romano Amodeo non cadano nel nulla, causando una profonda frustrazione.” Don Angelo aggiunse di suo pugno: “Prego perché la richiesta d’Amodeo Romano sia accolta da Vostra Santità per il bene suo e dei molti da cui è circondato.” Don Celeste scrisse di suoi pugno: “Ben volentieri accondiscendo a presentare la petizione dell’Arch. Romano Amodeo, conosciuto da me da oltre 40 anni, perché sia accolta la sua richiesta per una udienza del S. Padre, nella quale possa presentare l’opera che contiene i suoi studi e le scoperte consequenziali che possono favorire il connubio tra fede e ragione.” E questo che segue fu il testo della supplica inviata al Papa, con l’elenco di tutti i firmatari.. Fu un invio fatto con tutti i crismi, e RU, che inviò solo una copia, trattenendo per sé l’originale, autocertificò l’autenticità delle firme. Tenne per sé l’originale per esibirlo, in caso di contestazioni da parte di persone che dubitassero, quando avesse dovuto dimostrare, in futuro, solo fotocopie e non l’originale.


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Non risposero mai nulla, neppure con 4 sacerdoti che chiedono pietà al papa in questi termini. Il sostegno venuto ad Amodeo dal Don Adami, Rettore del Seminario, nonché del Santuario della Madonna delle Grazie fu un Priore che discusse a lungo, con lui, d’un suo libro che aveva scritto a Berceto, quando morì Sabato Lingardo. Anche il Parroco di Berceto era stato conosciuto in quella stessa così triste occasione. Pertanto le tesi d’Amodeo avevano già trovato anche degli autorevoli avalli. Specialmente Il Priore del santuario della Madonna dei Miracoli, dopo d’avere seguito attentamente tutti i passaggi, aveva esclamato: “Io ho visto ideologie terribili affermarsi nella mia vita attraverso la propaganda! Che peccato sarebbe se la meraviglia che ha scritto lei non fosse fatta conoscere! Io la ringrazio, Romano, perché ha aperto al mio orizzonte di cristiano degli spazi davvero nuovi e sconfinatamente belli.” Anche gli atei, che ascoltavano attentamente il modello di realtà a cui l’uomo sarebbe pervenuto, nell’arco di tutta la sua esperienza, per come la spiegava lui, alla fine dicevano: “Speriamo! Sì, sarebbe bello!” Gli altri due sacerdoti furono preti che l’avevano conosciuto e ammirato nei vari momenti della sua vita: Don Celeste, assistente di quando egli andava all’Oratorio di San Michele e Santa Rita; Don Angelo, quel sacerdote di CL, di San Lorenzo a Milano, al cui capezzale RU aveva vegliato pur non conoscendolo, quando era stato in pericolo di morte, col cranio fratturato e gli aveva tenuto la mano dicendogli “Coraggio, Don Angelo, resisti!” Quella frettolosa raccolta di firme servì a fargli incontrare le molte persone che aveva conosciuto, gli avevano voluto bene e tuttora gliene volevano, ricordandolo con affetto. Si accorse che erano molte e veramente addolorate per il suo stato. Lo vollero con loro, altri andarono a trovarlo, come Ivo Cavaglieri, che corse apposta da viale Omero. Una sera fu anche ospite a cena da Daniela Forlin: lei, il marito ed i figli cenarono normalmente ed egli si cibò di grani di sale e d’acqua, che doveva assumere in quantità sempre maggiore perché il suo corpo si stava disidratando, la sua pelle si stava rinsecchendo, senza il cloruro di sodio, che consente di trattenere l’acqua nel sangue. Firmarono in suo favore molti cantori dei Cori della Cassina, di Cogliate e della Chiesa prepositurale di Saronno, al quale ultimo gruppo RU aveva iniziato a partecipare ai primi di febbraio. Non propose alla Maestra del Coro di firmare in suo favore, né s’incuriosì di conoscere, se si fosse accorta o no, di questo trattamento diverso che stava riservando a lei.


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“Smettila, non vedi come diventi vecchio e brutto?” gli aveva detto Enrica Brambilla, nel tentativo di puntare sull’estetica. A un certo punto però fu costretto a smettere ad andare a cantare, in tutti e tre i cori, perché non ce la faceva più. La gente umile si mosse; venne più volte da Milano il suo amico Salvatore Mocciaro. Senza dirgli nulla andava a parlare con la vicina Barbara Edyta, affinché tenesse costantemente un occhio vigile su di lui. Gli studiosi della sua Scuola seguivano attoniti questo suo comportamento ad oltranza e non lo giustificavano: si era troppo messo in rotta di collisione: “Quella gente che sempre predica bene, è quella che ha il cuore più duro.” La Chiesa decretò che morisse pure, giacché non fece nulla per salvarlo. Il Cardinale Enrico Maria Martini non mosse un dito, idem la Curia Romana per salvare la vita a questo strenuo combattente che cercava di difendere l’attuazione dell’enciclica del Papa e che invece accusavano di presunzione e di ricatto. Di fronte ad una situazione così pazzescamente crudele, Romano Amodeo aveva deciso di non fare più nulla per la sua salvezza. Aveva mandato personalmente al Vaticano quella petizione, e nessuno gli aveva risposto neppure quell’ “e muori!” che pur gli aveva gridato Don Luigi, in nome e per conto di tutti. Ma la sostanza del non fare nulla per lui era: “Sei adulto, vaccinato, ti metti a non mangiare più e lo usi come un ricatto? Peggio per te, se vuoi morire. E allora muori! Lo vuoi solo tu!” Questa non è carità, è lasciare una persona in assoluta balìa di se stessa. È il colpevole rifiuto a mettersi nei panni del prossimo, con intenti omicidi di chi – credendosi saggio – condanna a morte lo stupido che si è affidato a lui. Romano si era solo consegnato, volontariamente, nelle mani della Chiesa del suo tempo, affidando la sua vita alla sua cura e non certo suicidandosi: stava alla Chiesa, che lo lasciasse morire o vivere. Non erano occorsi, nel caso suo, né Giuda, né i 30 denari; si era consegnato da solo e – fidandosi della misericordia di Dio – né temeva d’essere abbandonato dal Signore. Non si sarebbe neppure ammalato: si cibava del corpo di Gesù! Il Consiglio direttivo del Centro Sociale, che aveva concesso i locali, per il Convegno, trovandosi in mezzo ad una strana disputa tra RU e Don Luigi, nell’idea che il Sacerdote non avesse piacere che il convegno fosse fatto, cercarono d’impedire il collegamento con la linea ISDN, nel timore che, parlando da lì in tutta Italia e il mondo, RU chissà che cosa denunciasse e che accuse lanciasse. Scrisse allora una lettera in cui, facendo conoscere gli accordi verbali che erano intercorsi tra uomini d’onore, Fausto Gianetti, il vecchio presidente del Centro e lui e che egli, facendo pesare tutti gli accordi che egli aveva preso con fisici, medici, scienziati e altre persone importanti, avrebbe chiesto un miliardo di lire in danni, per le molte spese sostenute per la preparazione del convegno.

Consegnata la lettera, andarono immediatamente a casa da lui il Gianetti e il Giulio Lenzi, nuovo presidente del Centro Sociale, assicurandogli che era stato semplicemente un disdicevole malinteso; anzi, avrebbe goduto della sala senza pagarne il costo e il Lenzi era a disposizione per qualsiasi necessità. RU fu contento della cosa e stracciò quella sua lettera.. Lo stesso Don Luigi non era contro l’iniziativa d’Amodeo. Gli spiegò come la cosa in sé era ben fatta, ma che lui aveva sbagliato a portarla avanti in persona: avrebbe dovuto far sì che fosse rappresentata da una struttura della Chiesa. Don Luigi non aveva torto, ma se lui, un sacerdote che era il suo confessore, che avrebbe dovuto solo raccontare la verità (e che cioè il Papa aveva benedetto quell’iniziativa), si rifiutava di riferire una cosa che non costituiva assolutamente nessun impegno per lui, come sarebbe stato possibile che una struttura della Chiesa si facesse addirittura promotrice di quell’iniziativa? Giorgio Fieramonti, architetto estimatore della Nuova Scuola Italica, ai quali lavori aveva partecipato venendo da Gallarate, volle contribuire ai costi del convegno e si accollò la spesa non indifferente dell’acquisto d’un grosso televisore, che permettesse al pubblico di seguire un collegamento in teleconferenza con Parigi, con un’immagine che fosse la più grande possibile. Si mobilitarono i tecnici amici di RU. Si diedero notevolmente da fare anche quelli che avevano fornito il grosso televisore, per metterlo in grado di funzionare, per i suoi particolari comandi. Fu acquistato un proiettore di lucidi e istallato un grosso telo bianco sul quale proiettare i disegni e le fotografie, realizzate su pellicola trasparente. Furono portate decine e decine di cassette acquistate dal Consorzio Nettuno, in cui i Professori illustravano le teorie esistenti nei vari campi e che sarebbero state oggetto di discussione. Per andarle a reperire RU, stanchissimo, fece una corsa sull’autostrada fino oltre Bologna. IL CONVEGNO DEL “MILLE E NON PIU’ MILLE” Il convegno ci fu al 38° giorno del suo digiuno, nel 24 d’ottobre, un giorno scelto attentamente, con Don Luigi, perché non ci fossero attività della Chiesa che potessero impedire l’accorso dei Cristiani. Ebbene quel giorno ci fu – invece – proprio il Trasporto della Croce, per le vie di Saronno, un evento che raccoglie tutta la cristianità che solitamente si muove. Al momento, quando seppe che la Chiesa aveva anticipato di una settimana il Trasporto (come se lo facesse a bella posta, per ostacolare l’accorso del pubblico da lui) RU ci rimase assai male. Invece fu l’opera sublime della Divina Provvidenza che voleva, che quel Convegno, che rispondeva a una Lettera firmata il dì di Esaltazione della Santa croce


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avesse la sua risposta proprio durante il Trasporto della Croce fatto al Paese in cui uno unico e vivo fosse praticamente crocifisso proprio dalla Chiesa! Tutti i sacerdoti seguirono la croce di Cristo, mentre RU, pur avendo invitato teologi, sacerdoti, i suoi stessi amici preti, non riuscì a portarne al convegno neppure uno. La Chiesa cattolica, invitata, non fu presente! Doveva venire e il Cardinale Tonini, che aveva assentito! Ma la Provvidenza Divina non volle, e si ammalò gravemente suo fratello, in pericolo addirittura di morte, tanto che il buon Cardinale che non si è mai tirato indietro di fronte a incontri e scontri, avvertì che gli dispiaceva, ma doveva correre dal fratello. La fede, tuttavia, fu presente lo stesso: quella vera, operativa. Al tavolo ci fu la Signora Elda Scarzella Mazzocchi, fondatrice del Villaggio della Madre e del fanciullo, che, per quanto tiepida credente, aveva speso tutta la vita nell’accoglienza del bisogno delle giovani madre e dei loro figli, dimostrando veramente di credere più di tanti altri nel valore della Carità. C’era suo figlio, Alberto, presidente per 4 anni dell’Ordine degli architetti e credente del bisogno umano di soccorrere chi è debole ed indifeso. Ci furono una decina d’ospiti della casa di Madre Teresa di Calcutta, venuti da Milano, in segno dell’accoglienza particolare, fatta da Madre Teresa: a tutti, senza distinzione, di fede. C’erano strutture di collegamento via Internet con Parigi, in teleconferenza, e mancò la linea ISDN. L’incontro doveva essere registrato e neppure questo riuscì. Tutto fu scritto su questo libro reperibile il rete sotto questo link https://issuu.com/amoramode/docs/eroe_vittima_della_fides_et_ratio

La Provvidenza aveva voluto in Saronno, da una parte il Gesù storico, celebrato facilmente, dopo 2.000 anni, e dall’altra questo nuovo figlio adottivo della Madonna, crocefisso di nuovo e dal vivo nel disinteresse della massa. Dunque quel Convegno, fatto collocare quasi a tradimento, nel giorno del trasporto della croce, fu il segno più grandioso, voluto dalla Provvidenza di Dio, a mostrare all’uomo quanto fosse inutile occuparsi di poesia e non osservare la prosa. LA PROVVIDENZA SI PALESÒ IN COSIMO AUSILI. (così ora aiuti) Romano era da 38 giorni che viveva mangiando solo l’Ostia consacrata, dunque egli, nato nel 38, era come se fosse rinato in Cristo Gesù. Non si reggeva quasi in piedi, sotto la sua croce, ma tenne fino all’ultimo. Fu avvicinato alla fine da uno dei pochissimi che erano accorsi vedendo sui manifesti di Saronno che c’era quel Convegno. Il suo cognome era tutto un programma: Ausili; Cosimo di nome. Sarebbero stati veramente gli ausili mandati dalla Provvidenza. Cosimo aveva notato che i temi trattati da RU si avvicinavano molto a quelli d’un sacerdote, che aveva sentito parlare in una Conferenza. Disse d’avvertire nettamente che il suo ruolo era quello di metterli in contatto! Sarebbe stato veramente Ausili a mettere RU in relazione con Padre Ulderico Magni, un epistemologo che aveva avuto l’onore di essere compagno degli studi filosofici con Sua Santità, quando ancora non era Papa. Sarebbe stato Ausili quel vero tramite che aveva intuito di dover essere, come un segno grande, della Provvidenza, per lui. Tra gl’intervenuti al Convegno, RU notò anche Carlo Invernizzi, che era quell’architetto che l’aveva invitato ad andare in Via Nirone quando, nel 1973, si era trattato di rinnovare il Consiglio dell’Ordine. Fu il segno del “riordino” che Gesù stava facendo. Finito il convegno molti avevano creduto che RU cessasse il suo digiuno, ma sui giornali fu scritto: “Amodeo continua, ad oltranza. Desidera essere ricevuto dal Padre; deve mettersi a rapporto con chi lo ha spinto ad essere audace, assicurando l’aiuto della Chiesa. ” RU proseguì perché, questo Cristo, doveva sublimare Cristo Gesù, doveva riuscire a riunire quant’egli aveva diviso (padre contro figli, nel segno dell’acquisizione del senso vero di se stessi) e risultava pertanto l’uomo dei dolori fino al dolore suo della croce. Ripresero a temere: se la Chiesa non l’avesse soccorso, si sarebbe lasciato morire. Gli scrisse Giancarla, sua moglie, questa bellissima lettera:


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“Caro Romano, tu lo sai, ti voglio bene. La vita e le sue difficoltà ci hanno divisi, hanno guastato il nostro bel matrimonio ed oggi siamo divorziati. La zia Renata, il mio unico appoggio, oggi sta male e temo molto per la sua vita. Mi restano mio padre prossimo ai 90 anni e tu. Non morire anche tu, ti prego. Manda una volta tanto al diavolo i tuoi ideali, non voler morire per essi: la vita è sacra e non si può metterla a rischio, secondo me, nemmeno per gli ideali. Per essi tu alla fine hai sacrificato la tua vita e il nostro matrimonio... con quale risultato? Stiamo restando soli. Ma quel Dio e quella sua Provvidenza in cui tanto credi, perché non intervengono? Pensaci! Lo so, sei testardo. Ma non fare l’eroe. Ti prego, non farlo! Ti voglio bene 27 ottobre 1999 Giancarla

Per vincere l’inedia RU si mise a ristrutturare la casa. Realizzò un mobile con il materiale in legno comprato al fai da te (libertà del fare). Corse ad aiutarlo Fiorenzo Banfi, l’amico della Cantoria di Cassina Ferrara, che se n’era andato nel 1987, per un’umiliazione patita dalla Maestra del Coro. Quando le sue forze furono al lumicino, aveva dato un nuovo assetto alla casa. Il suo amico Salvatore era venuto da Milano e aveva spostato le pesanti scatole che contenevano le 30.000 fotocopie degli antichi abitanti del Cilento. In quello stesso tempo gli telefonò la Presidentessa della Schola Cantorum di Cogliate, Raffaella Minoretti, che aveva preso il posto di Maurizio, dimessosi dopo le sue nozze, dicendogli che tutto il Coro gli era vicino e desiderava che ritornasse presto e in perfetta salute con loro. Un amico del Coro della Cassina gli confidò che la Maestra, una sera, aveva chiesto che qualcuno gli stesse vicino. Andarono a trovarlo Antonietta Lattuada e Mario Atzori, e non ce la fece a restare in piedi: dovette sedersi per terra, giacché tutto gli girava intorno come quando, quarant’anni prima, andava sul calcinculo con Titina. RU telefonò a BEN e gli riferì che presto avrebbe dovuto ospitare la mamma, perché egli sarebbe entrato sicuramente in ospedale . BEN SALVA RU FACENDO LEVA SULL’AMORE PER LA MADRE. SI RIFIUTA DI ACCOGLIERLA A CASA SUA. LA MANDEREBBERO IN UNA CASA DI CURA Suo fratello riunì la famiglia e chiese se accettavano di prendere Anna con loro. Avendo avuto risposta “che non se la sentivano”, rivelò a RU che avrebbe cercato una clinica o una casa di cura in cui ricoverarla. RU non poté accettarlo. Avrebbe abbandonato sua madre alla sua sorte, egli che aveva assunto tutta la responsabilità della cura della sua vita... Così, per amore di sua madre, Romano Amodeo si trasse fuori – da se stesso, così come ci si era messo - dalle “GRINFIE” di una Chiesa assassina dei suoi tanti poveri Cristi, non voluti mai ascoltare, giacché perenni pietre dello scandalo. Ricominciò a ingoiare alimento, il venerdì 12 novembre, interrompendo il digiuno assoluto iniziato il 17 settembre, quindi dopo 57 giorni esatti. A parte la spossatezza degli ultimi dieci giorni, era stato benissimo. La tensione morale gli aveva consentito un periodo intensamente pulito, della sua anima, e gli era restata dentro la gioia per quest’esperienza, d’autentico martirio, per amore della Chiesa. Assunse, per prima cosa un brodino, fatto con mezzo litro d’acqua e due dadi. Quel liquido entrò nelle sue viscere e ammollò quanto s’era ridotto, nel suo intestino, ad una massa dura e impietrita. Dopo due brodini così, riuscì ad estromettere il ristagno e a svuotare le viscere.


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Fu così che l’esistenza di sua madre, affidata alle sue cure, prevalse sul tentativo d’arrivare per forza all’attenzione del Pontefice. RU rilesse una poesia profetica, in cui aveva inserito due intercalari insoliti (pena senza fine) (e la tua pace), ma tanto eloquenti, nel ritmo solito del sonetto, scritto nel 1988, per sua mamma, quando aveva visto distrutto ogni santo proposito fatto sulla sua vita.

Accadde che la Comunità locale, per farsi perdonare il chiaro abbandono che aveva fatto nei suoi confronti, mandò a casa sua un’assistente sociale, per chiedere se aveva bisogno, per sua madre. Permetteva che li aiutassero? Permetteva che la mamma fosse visitata da un medico? Sì, certo, egli permise. Venne il medico, fece tutti i suoi accertamenti sulla donna, la trovò perfettamente sana. Alcuni giorni dopo Benito gli telefonò: aveva ricevuto una lettera dai servizi sociali che dicevano che la signora era tenuta bene, era in perfetta salute, ma viveva in condizioni non idonee alla sua età. Per cui lo s’invitava ad intervenire. RU ne restò come distrutto: egli viveva per lei e lei era chi lo facesse vivere. Cosa voleva questa gente? Era la stessa domanda che si era fatta a Milano, quando era dovuto intervenire in favore di Paola Vecchi, che rischiava di vedersi tolta una figlia educata benissimo, da quella mamma che, pur essendo spesso troppo allegra a causa del vino, tuttavia le aveva dato sempre esempio di lealtà, di disponibilità, di grande cura.

Come si poteva pensare di strappare quella Chiara a Paola Vecchi? E – in questi momenti – come potevano queste persone pensare che sua mamma, trovata stare benissimo, non dovesse seguitare a stare benissimo? Sua mamma aveva bisogno solo di sentire ormai quasi l’amore fisico, epidermico, legato al contatto. Egli l’abbracciava, la stringeva a sé e la mamma, che ai tempi di Via Teodosio doveva vederlo avvilito, prostrato per essere invasa dall’amore materno e salvata, ora era salvata dall’amore in se stesso, da quello che il figlio le dava, con quell’abbraccio che riusciva a perforare la morte che aveva nel cervello e arrivava fino dall’altra parte, attraverso il gesto concreto. Era in un momento così, aveva cercato una pace da questa guerra nel cuore, e stava lì, davanti ad un quadro della scuola di Cogliate in cui si svolgevano le prove per il Concerto d’apertura d’anno, tenuto assieme alla banda del paese. Udì all’improvviso un sonante “Ciao Romano!”, lanciatogli da Maria Teresa che stava arrivando. Bastò quel bel saluto suo, come per incanto, a riaprirgli il cuore alla fiducia ed alla speranza, oh, non di lei, della sua vita con sua madre. La pena per lui aveva fatto breccia sul cuore di pietra di MATESALEMME, ed emergeva il buono che c’era sempre stato, sepolto per la paura. Bastava vedere come lei trattava il piccolo Tommaso Urbani, nel Coro della Cassina, per accorgersi di quanta gentilezza di cuore lei fosse dotata. Tommaso aveva molti problemi, ma una intelligenza viva, che lottava contro il suo handicap motorio. Era stato aggregato ai soprani, come voce bianca. Il ragazzo certe volte iniziava a spiegare, con lentezza, e lei gli lasciava spazio, gli dava fiducia, attendeva che il piccolo Tommy terminasse la sua spiegazione. Da queste cose si nota un cuore pulito. Non dalle reazioni che nascono dalla paura. In quei momenti RU riconosceva la persona che aveva dentro, la sua anima e che, nel periodo del suo digiuno, si era fatta come piccola, piccola, per non disturbarlo, così preso, egli, in una cosa molto, molto più grande di lui stesso. Ebbe anche un’altra gioia, in quei mesi, in relazione alla sua amica; sempre cose minime e delicate, per altri di nessun peso e per lui significative: si trovarono una sera presi per mano e cercati, tutti e due, da Tommaso; lei a destra e RU a sinistra, nel breve tratto dei 15 metri che, dal cancello sul giardino, portavano all’ingresso vero e proprio dell’asilo. Quel ragazzino tante volte chiedeva spiegazioni a RU e gli si era affezionato, perché sentiva il suo affetto disponibile; altrettanto Tommy ne aveva per la Maestra del Coro, da cui si sentiva protetto. Ebbene quella sera fu come se il piccolo claudicante li avesse di proposito voluti legare tra loro, per sua interposta persona. Ripeto, sono sciocchezze, sensazioni da nulla, cose assolutamente minime, ma RU le sentiva e ne gioiva. Gli bastavano le briciole cadute per i cagnolini.


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Invece si trovava a dovere combattere, e ad assumere, costretto dal destino, posizioni più grandi dei sui due anni che aveva tuttora il suo cuore, arrivato ad averne, purtroppo, 61 per l’anagrafe. Alcuni mesi dopo successe che a Cogliate giungessero, quando tutto ancora era chiuso, prima di tutti gli altri, Maria Teresa e RU. Lui colse l’occasione e le disse: “Ti debbo ringraziare, perché una sera ero terribilmente triste e angosciato e mi bastò un tuo ‘Ciao Romano’ per togliermi da ogni difficoltà.” A MATESALEMME sfuggì questa frase: “Romano, se tutti al mondo fossero come te, sarebbe un bel mondo!” Non avrebbe potuto avere un complimento più bello, e lo ebbe da quella persona, solitamente nemica, nel momento in cui era stato in apparenza, come abbandonato, anche dalla Provvidenza di Dio. Si inseriscono, nel contesto dell’atteso MILLE E NON PIU’ MILLE, accaduto prima che si completasse il nuovo millennio la reale apparizione delle storiche 10 NUOVE PIAGHE D’EGITTO mandate da Dio, su questa terra del cavolo – alias d’Egitto! – come aveva fatto ai tempi di MOSE’, quando si trattò dell’Esodo verso la terra promessa. MODE’, il valore mediano di AMODEO tolti di mezzo i valori estremi A e O, a rimarcarne quanto va dal Principio Alfa fino alla fine di Omega, è il nuovo MOSE’ di questo nuovo esodo dal mondo reale, verso quello immaginario del contesto spirituale. Preparando il Convegno, RU aveva visto la Chiesa locale avversare l’iniziativa del Papa con la Fides et ratio. S’era messo allora a digiunare e a vivere solo di Cristo. 4 preti e 460 persone inviarono una supplica al Papa: ricevesse il poveretto, che si credeva spinto da Lui! Temevano che morisse! PRIMA PIAGA D’EGITTO, l’Acqua mutata in sangue, come in Egitto: dal Vaticano non risposero nemmeno alla supplica per la sua vita. L’acqua del nuovo battesimo si mutò nel suo sangue, poiché la mancata risposta alla supplica era come l’esclamazione fatta a lui dal Parroco: “E muori!”. SECONDA PIAGA D’EGITTO, le rane. La Chiesa, invece che acqua viva, fu acqua stagnante, popolata da questi animali che fanno “Cra cra!” con la parola di Dio: la predicano a gran voce ma ne saltano a piè pari tutto quello che vogliono, come fanno questi animali frequentatori degli stagni.

TERZA PIAGA D’EGITTO, le zanzare. La Chiesa punzecchiò le due torri gemelle dell’incontro uomo-Dio. Giudicò un “vile ricatto” tutto quel vivere di Cristo, con Cristo e per Cristo di Amodeo, che da 38 giorni digiunava e viveva solo dell’Ostia consacrata. La Chiesa si alimenta del Sangue di Cristo, ma comportandosi così lo succhiò punzecchiando proprio come fanno questi insetti che popolano le acque stagnanti. Dopo questa terza piaga il Signore diede a RU tutto il tempo per far comprendere alla Chiesa di Cristo cosa avesse fatto contro un povero cristo qualunque, e dunque contro Gesù stesso, poiché lo disse chiaro il Signore, in questo brano del vangelo di Matteo.

Ma la Chiesa Cattolica non volle accettarlo come possibile, ritenendo che una cosa è quella fatta contro Gesù, una altra quando è eseguita nei confronti di un comune mortale, specialmente nell’e importanti funzioni che Gesù stesso aveva delegato a Pietro. Il Signore aspetterà per 688 giorni esatti dall’abbattimento delle due Torri Gemelle, ossia quanto tutta l’energia data da 666 giorni nel movimento del Piano divino i cui due lati erano di 66/6 e 66/6 giorni, ossia di 11 e 11 che, sommati a 666 portavano ai 688 giorni che avrebbero portato all’11 settembre dell’abbattimento della Twin Towers a NY, come la IV PIAGA dei Mosconi (i due Jet). Benito chiamò il fratello, intorno a dicembre del 1999, all’alba del nuovo millennio, e si accordò con lui, per non correre rischi con i servizi sociali. Doveva provvedere a realizzare il gabinetto e a collegarlo con la fognatura civica. Gli domandò come stesse a quattrini e RU l’informò che qualcosa poteva acquistare, con le sue risorse, ma non molto. Gli disse: “Bene, fai tu, poi ti rimborso io.” RU diede fondo ai suoi risparmi e comperò gli apparecchi idraulici, i tubi, e


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realizzò una parte di quello che avrebbe dovuto fare, poi si dovette fermare. Non poteva spender tutto perché dovevano anche mangiare. Anna da ben cinque anni doveva essere imboccata. Da tempo la sua dieta era divenuta quasi tutta liquida: yogurt ed omogeneizzati d’ogni tipo: manzo, pollo, coniglio. Questa dieta veniva integrata con succhi di frutta e con sali minerali. I DUE – R-U-BEN – RECIPROCI IN QUESTO FINE MILLENNIO Al termine di tutta la loro vita nel 21° secolo, il dualismo, attestato su valori reciproci – di R-U-BEN aveva compiuto tutta la sua serie di continui riadattamenti per trovarsi attestato su queste due opposte posizioni. R. si era alla fine determinato in quell’unico filosofo che avrebbe raccolto la provocazione del santo Padre, Giovanni Paolo II, di suscitare lo Spirito Santo della verità di quanto Gesù Cristo aveva predicato. Lo aveva dichiarato come il bene più grande esistente per l’uomo. La FEDE doveva procedere di pari passo con la RAGIONE che si fonda esclusivamente sulla affermazione della Verità, e non presta alcuna attenzione alla dimensione umana, o divina di chi la rivela. La FEDE opera in modo totalmente contrapposto, e pone la verità solo sulla base del credito totale dato a CHI la rivela. Ebbene, questo porsi antitetico tra la FEDE e la RAGIONE, che nelle speranza del Santo Padre debbono procedere insieme, è divenuto esattamente quello che si è caratterizzato nell’unità di R-U-BEN, di Romano Unito a Benito. Nei due contesti identici nel tentativo di imporre IL VERO, si è verificato che nel dualismo di R-U-BEN, la R. di Romano ha assunto in se stesso la necessità di portare alla luce di tutti la VERITA’ TRASCENDENTE di Gesù Cristo, traducendola nella sua COMPRENSIONE SCIENTIFICA. Il BEN, nella stessa unità di R-U-BEN, passando attraverso tutta una serie di esperienze differenti, fatte (come accadeva in Romano) solo una dopo l’altra, lo ha portato infine ad operare nella LEGA SERVIZI E CONSULENZE, che nel settore dei reali servizi, nella sua espressione di LEGA cossi sponde a quello che è il Pietro di Roma, che collega tra di loro tutti i Cristiani Cattolici. Anche i Cattolici non sono tutti i Cristiani, così come LA LEGA non svolge un servizio pubblico per tutti quanti i Comuni Italiani, ma solo quelli appartenenti ad un determinato colore, che per Benito era quello della maggioranza di Comuni, come quello del Papa dei Cattolici è quello della maggioranza dei Cristiani. Anche BEN ha ravvisato la stessa necessità di una totale informazione che riguarda i Comuni. Interpellati, anche essi hanno dichiarato la necessità del Servizio che Ben è tentato di svolgere per loro e che riguarda la stessa INFORMAZIONE a cui è teso RU, verso il Papa dei Cattolici.

Accanito utilizzatore del computer in tutto il suo lavoro, Benito si stava rendendo conto come determinati servizi erano carenti, soprattutto in riferimento all’informazione. Esistevano ditte in perenne concorrenza che dovevano ritenere interessante avere le notizie di prima mano. Così, alla fine del millennio, RU è divenuto il PALADINO della RAGIONE cercata dal Santo Padre, e BEN quello delle RAGIONI riguardanti i Comuni, di conoscere in tempo reale tutto quanto ERA CREDUTO ed appariva scritto sulla stampa di tutto il mondo. La BASE per R. erano le Sacre Scritture, da tradurre in VERITA’. La BASE per BEN erano quelle Scritture reali che apparivano nella stampa di ogni giorno reale, affinché fossero conosciute in tutte le loro TESI. Sono veramente giunti allo stesso risultato della necessità di far conoscere LE SCRITTURE, l’uno nel mondo RELIGIOSO, l’altro in quello LAICO. Tutti e due animati a svolgere questa loro opera verso le massime strutture esistenti, sia nel campo religioso, sia nel campo della realtà sociale. Dall’Uno il vertice della Chiesa Cattolica, dall’altro quello dei Comuni della Lega Servizi e Consulenze. Sia il Papa, sia La Lega servizi e Consulenze, hanno dichiarato AVVOCATURA. Il Santo Padre nel punto 51 dell’Enciclica Fides et Ratio. I Dirigenti della Lega Servizi, in tutti gli incontri tenuti con BEN, nei quali gli hanno nello stesso modo formale assicurato la non solo la loro totale adesione, ma la loro corrispondente avvocatura, percependo l’utilità di una simile impresa. Quando Paola Amodeo, terminato il suo corso di studi si laureò, RU fu invitato a presenziare alla discussione e alla cerimonia; Benito, in quell’occasione, gli aveva parlato della sua idea: un servizio d’informazione per i Comuni e le aziende, attraverso Internet. A suo parere il servizio sarebbe andato a ruba perché era senza dubbi utile, anzi: necessario. C’erano dei Comuni come Monza che avevano dovuto distrarre due persone a raccogliere tutta la stampa e a redigere dispensine interne. Calcolato il costo della loro retribuzione e considerato che quel Comune spendeva milioni per una ventina d’abbonamenti al Sole 24 Ore, il servizio che egli avrebbe potuto cedere a 6 milioni di lire all’anno, sarebbe stato irrisorio, avrebbero risparmiato il costo di quelle due persone, quasi 30 milioni in due e una grande quantità d’abbonamenti alla stampa. Benito ne aveva parlato a Gennaro e gli aveva proposto una collaborazione e Gennaro aveva nicchiato... Ma di certo perché il cugino non aveva ben capito la portata di quell’affare. Le intenzioni di BEN erano pertanto tutte mirate a questo importante progetto.


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Nella nuova sistemazione che aveva fatto recentemente al piccolo appartamento, RU aveva ridotto il letto ad una piazza e mezza e usava un piumone formato matrimoniale. Di conseguenza i lembi erano tanto grandi che da una parte lei non poteva uscire, dall’altra la coperta era imboccata fino quasi alla metà del letto. Così, quando RU era assente, se lei si portava verso il bordo per uscire, montava con il suo peso su quella parte e non poteva sfilare il piumone dal materasso, non riuscendo a vincerla sul suo peso. La nuova sistemazione si avvaleva d’un soffitto tutto ricoperto di grossi dipinti fatti da RU, tra i quali quelli della Cantoria che non erano stati ritirati. I tre quadri della mostra, raffiguranti MaTesaLemme erano tra quelli appesi al soffitto. Poi aveva realizzato uno spazio in mezzo al locale, abbastanza ampio e aveva messo specchi su tutte le pareti tanto da dare l’impressione d’un grandissimo spazio laddove invece ce n’era ben poco. D’altronde era un architetto, aveva contribuito ad arredare le navi Ammiraglie della Flotta italiana, quindi era all’altezza di creare l’illusione che, specie sulle navi, deve essere creata, perché lì i soffitti superano di poco i due metri. Martedì, 25 gennaio del 2.000 era a Cogliate. Mentre MaTesaLemme era di schiena, le picchiettò sulla spalla sinistra. Lei si girò di scatto da quella parte e RU: “Fammi gli auguri!” “Auguri!” rispose lei, al volo. “Oggi invecchio d’un anno.” “Meglio a te che a me!”

La Madonnina va in cielo Benito passò a far consulenze per la Lega Servizi e Consulenze. Quando scoccò la mezzanotte del 31 dicembre 1999, RU era al letto, si rivolse alla mamma e le mormorò così: “Mamma, ce l’hai fatta, siamo entrati nel millennio nuovo, io e te, ancora uniti! Ricordi quando papà ti rimproverava, perché volevi una due, tre pensioni? Quando ti diceva che buttavi via i tuoi soldi? Ora eccoci qua: stai mantenendo tuo figlio con quelle tue pensioni! Ti ricordi quando rispondevi a nonna ‘Vecchia no!’? Eccoci qua, tra un po’ tutti e due vecchi, non solo tu. Anche io ho 62 anni! Auguri mamma, buon terzo millennio! Complimenti a tutti e due... ce l’abbiamo fatta! Sabato no, tanti altri no, ma, ti assicuro: stanno meglio di noi.”

In febbraio nella tanta posta scritta e non spedita, con la quale RU dava vita, a modo suo, alle relazioni tutte e solo vissute nella sua mente, ci fu una lettera di dimissioni, scritta il giorno 2, nella quale si dichiarava stanco e si chiedeva per qual mai ragione seguitasse ad accettare. Arrivò poco dopo il giorno di San Valentino e RU, ordinò dal fioraio un gran mazzo di rose rosse e glielo fece recapitare a casa, in modo anonimo. Non inserì nessun biglietto suo, giacché egli non aveva, di certo, nessun titolo per porsi personalmente in quella veste; per lo più essendo tormentato da propositi di interrompere anche quelle relazioni che erano in atto e non lo soddisfacevano. Si trattò di galanteria allo stato puro. Il giorno dopo San Valentino, si cantò in Chiesa, a Cogliate. Prima che iniziasse la messa, la Maestra entrò tra i cantori e si mosse verso di lui. Senza guardarlo né salutarlo e – stando girata di fianco – gli si piazzò ostentatamente davanti, quasi addosso. Cominciò a parlare intensamente con una delle donne della fila davanti a RU, chiedendole di tutto: come stesse la madre, la sorella, la cognata....


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Fece questo in modo sottile, ma anche molto ostentato. È l’intenzione era quella di esprimere in modo indiretto (e anonimo anche il suo), a lui (mentre parlava con lei) questo sottinteso messaggio: “Vedi Romano? Come sono premurosa io, quando voglio esserlo? È inutile che tu mi mandi fiori a San Valentino; se la metti in questi termini, io non ti do retta, non ti vedo nemmeno!” Un dialogo tra sordomuti, che non si guardano, è impossibile: il risultato – che ebbero tutti e due – non fu quello voluto: lei, probabilmente, intendeva dare solo una garbata lezione: tutto lì. lui patì di avere ricevuto solo un grave affronto: tutto lì. Nel modo di pensare di RU, i fiori non ferivano, il disprezzo così ostentato, faceva sanguinare il cuore. RU ne restò ferito, turbato e al Gloria..., sbagliò le parole e lei gli lanciò un’occhiataccia. RU stava dando luogo, in questo periodo, alla migliore sistemazione del suo sito su Internet. Il suo amico Salvatore gli aveva aperto, mesi prima, un indirizzo che avevano chiamato www.new-is.com. Era la dizione di New Italic School, ma significava anche New International Sistem. Cominciarono ad esserci accessi, ma non essendo fatta pubblicità, essi potevano derivare solo da contatti attraverso i motori di ricerca, se fosse stato inserito il nominativo con le parole scelte a chiave, cosa che mancava.” Avendo trovato notizia, su Internet, d’un concorso bandito dalla Pirelli, Award 2000, RU aveva deciso di parteciparvi. Aveva così cominciato a passare ore a mettere con più decisione tutta la sua dottrina su quel sito. Lavoro molto impegnativo, perché aveva scritto moltissimo e spaziava da una parte all’altra delle conoscenze scientifiche, coinvolgendo, in maniera solidale tra loro, informatica, matematica, geometria, fisica generale, fisica atomica, anatomia, filosofia e religione. Una impresa senza precedenti, per le relazioni e le interferenze esistenti tra i vari aspetti riguardanti l’uomo e il suo mondo fisico e metafisico. Dopo quasi due anni che aveva disertato i gruppi di discussione, decise che era il caso di ricomparire. Alcuni lo accolsero con un caloroso “O chi si vede, bentornato! Romano, facci sognare!” Forte della sua determinazione, cominciò a postare su tutti i siti scientifici del mondo e successe la stessa cosa che era capitata la volta prima: una impressione così forte d’intraprendenza, che cominciarono tutti a porsi una domanda, meno stupida di quel che sembrava: “Romano Amodeo è un programma?”

Non era infatti possibile che rispondesse, con tanta velocità e profondità, alle domande più disparate. Certamente egli doveva avere un programma di risposte automatiche, del tipo “taglia e incolla”. Solo a queste condizioni una persona poteva tenere quel ritmo. Nel gruppo di discussione di filosofia, trovò estimatori eccezionali. C’era chi paragonava il suo pensiero a Severino, osservando che giungevano a conclusioni abbastanza vicine, ma giudicavano che il suo approccio era formidabile. Una persona lo definì “il nuovo genio d’Elea.” Tanti altri, invece, lo criticavano ferocemente. Questi gruppi erano di partecipazione libera, i nomi erano anche di fantasia e poteva succedere che si credesse di parlare con chissà chi, quando invece l’interlocutore magari era un ragazzetto di 11 anni, che scopiazzava qualcosa sui libri, per camuffare la propria condizione acerba. Poiché tutti possono osservare le risposte di tutti, trovando un giudizio pesante, rivolto contro un intervento, una persona, non sapendo che quella era la sbruffonata d’un troller (ossia d’un puro disturbatore) magari era indotto ad aggiungersi, come se, in qualche caso, ci fosse un vero movimento di protesta di massa, espressa da più persone, che magari erano sempre e solo quell’una sola che usava pseudonimi diversi. Dopo mesi, in cui inviò messaggi e intrecciò conversazioni, cominciò a vedere i suoi pezzi sparire dagli elenchi. Lo stavano boicottando anche qui. Decise di trarsi via, di destinare il suo tempo al suo sito, sempre migliorabile. Cominciò ad aggiungere il vocabolario che tanti chiedevano, perché si accorgevano che la sua terminologia era differente da quella canonica, e quindi era necessario conoscere esattamente quali attributi egli usava per le parole. LE ULTIME PAROLE DI ANNA A SUO FIGLIO ROMANO Erano così trascorsi i primi mesi, del tanto atteso e temuto anno 2.000. Anna da un po’ di tempo era costipata. Le sue condizioni erano peggiorate, negli ultimi mesi, ma mai erano state come quella volta di quattro anni prima, a Vasto, quando ad un certo punto RU aveva temuto che potesse morire. Una notte egli si svegliò alle due, iniziò a pensare alla sua vita, a come le cose sembravano essersi messe nella giusta direzione. Padre Magni era andato ad incontrarlo ed era stato con lui d’una cordialità così grande, gli aveva espresso il segno d’una stima enorme che RU sentiva di ricevere, attraverso questo coetaneo del Papa, compagno di studi di Wojtyla, quella mano che dalla Provvidenza si era mossa finalmente verso di lui e lo stava facendo risorgere. L’anno prima era come se fosse morto ed ora, grazie alla presenza di questa cara mamma che dormiva alle sue spalle....


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Sentì ad un tratto così forte l’amore di Dio su di lui, che si commosse fino alle lacrime. Lacrime dolci, d’un abbandono assoluto nella mani della Divina Provvidenza. Era lì ormai da tempo, in una condizione quasi d’estasi, girato verso l’esterno del letto, offrendo la schiena a sua madre, quando udì, distintamente, lei, muta da mesi ricominciare a parlare per dire: “E’ un bravo ragazzo!” RU si girò di scatto verso di lei e le domandò “Mamma, che dici?” Lei non rispose. E ancora egli: “Mamma, che cosa hai detto?!? Lei non lo guardava nemmeno, restava muta. “Chi è un bravo ragazzo?” e lei: “Tu.” Quindici giorni dopo, senza più dure nulla, Anna morì. Era il 7 aprile del 2.000. ANNA, LA MADONNINA DI R-U-BEN, VA FINALMENTE IN CIELO Era stata male la notte, le era restato sullo stomaco l’omogeneizzato di pollo. Verso le due, RU, accortosi del suo disturbo di stomaco, l’aveva con dolcezza girata di fianco e lei aveva vomitato. Si era ripresa. Alla mattina sembrava avere recuperato, tanto che poté andare al Centro Sociale, a farsi dare le sue solite due porzioni di caffè. Tornato, lei dormiva, il respiro era normale, il cuore era accelerato, ma era stato sempre così. Poté mettersi al computer e terminare il suo sito, ci mise non più di 10 minuti. Telefonò a Salvatore: “Salvatore, ho finalmente finito.” Spense il computer. Si girò verso sua madre: ma ora era troppo ferma.... La mamma aveva iniziato – finalmente anche lei – il suo cammino verso Dio, passando, dal sonno, alla sua risurrezione. Cercò subito di farla rinvenire. Poggiò le sue mani sul suo costato, con le due palme una sull’altra, come aveva visto fare quando era morto suo padre, e premette, con decisione e con attenzione, per non fratturare quelle fragili costole, ma premette, una, due, tre volte! No basta! S’impose quello che aveva imposto all’infermiera per suo padre: bisognava lasciarla dove si era avviata. Solo nove mesi prima, Sabato aveva fatto sapere – tramite lei – “che aveva preferito, che stava meglio così”. E ora “stava meglio così, anche lei”, dopo tanti anni in cui era stata vecchia e debilitata, proprio lei che aveva pregato tante volte la Madonnina – quando appena sapeva parlare – che “Vecchia no!” Crescere “santa” sì, ma “vecchia no!”... e le era toccato quello che fin da allora presagiva.


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Dieci anni di penitenza, con quel suo figlio e per quel suo figlio, che aveva voluto giudicare, l’ultima volta che aveva potuto: semplicemente “Un bravo ragazzo.” RU telefonò di nuovo a Salvatore, dieci minuti dopo la prima volta: “Mamma è morta.” Fu questo sua amico, alcuni mesi dopo, a confidargli d’esserne stato molto impressionato. Appena gli aveva rivelato “Ho finalmente finito” sua mamma aveva ella pure terminato il suo percorso.. Era restato colpito dal fatto che, RU, aveva sempre legato, lo stato del suo lavoro, alla vita di sua madre che glielo permetteva. RU sollevò sua madre morta, la depose su quella sdraio che già tante volte l’aveva accolta viva, e rifece il letto, ripulì ogni cosa. Infine spogliò e rivestì sua madre, dei vestiti che l’avrebbero accompagnata laddove lei più volte s’era raccomandata andasse il suo corpo: l’inceneritoio. La rimise nel letto. Poggiò un guanciale sotto il mento, affinché la bocca le restasse chiusa, dopo che la ripose nel letto. Andò in Chiesa, affinché il Parroco venisse a benedire e a dare l’estrema unzione al corpo, ormai spento, di sua madre. Vennero le persone più vicine alla Chiesa, tra le quali Antonietta Lattuada, entrarono in quel luogo, cui RU aveva dato più aria che si potesse. Poi accorsero i parenti, Giancarla tra i primi. Non si poté avere un certificato di morte, che sarebbe dovuto essere compito del suo medico curante, il Dott. Locatelli, di Milano. Non fu possibile che lo stilasse un medico di Saronno e, tra le proteste di RU, per la salma di Anna vollero l’autopsia, la violenza d’inutili tagli su quel piccolo corpo che, con il tempo, si era accorciato di quasi 10 centimetri e che, con i suoi 90 anni compiuti e una malattia protrattasi per 10 anni, non necessitava, di certo, che fossero indagate le ragioni d’una morte. Ci fu la veglia in Chiesa. Accorsero tutte le persone della Cantoria, anche la Maestra del Coro, e tutte, tranne lei, vollero dire ad RU una parola di conforto. Al funerale accorsero tutti i suoi amici, di tutte le Cantorie in cui RU cantava in quel momento: Cassina Ferrara, Sant’Ambrogio e Santa Cecilia, in Cogliate, S. Cecilia in Saronno. Un foltissimo gruppo di cantori, al funerale di sua madre Anna. Monsignor Centemeri, il preposto di Saronno, volle concelebrare la messa, assieme a Don Luigi, riconoscente, verso Amodeo, per il fervore con il quale partecipava alla Corale della sua Chiesa. RU volle proclamare il saluto, ultimo, a quella donna piccola, nel corpo, ma che gli aveva salvato la vita, ormai tante volte quante le dita d’una mano:

“Questo non sia un momento di tristezza! Ve lo chiede mia madre, di cui io sto solo esprimendo le intenzioni, che non sono imprigionate in quella bara. Questa donna voleva farsi suora, ma fu strappata, al suo proposito, da un uomo che seppe porsi come il suo prossimo; servì così il Signore, nel suo sapiente disegno e fu mamma e vera Maestra dei bambini, in 45 anni d’attività. Vi assicuro che è stata, per i suoi alunni, le loro famiglie e la sua stessa, una sorgente inesauribile di bene, dedizione e insegnamento. Perciò ora è lei, non io, chi vi ringrazia tutti, uno per uno, per essere accorsi qui, come i suoi tanti figli, a partecipare alla festa del suo meraviglioso ingresso nel Regno di Dio.” Alla fine della messa tutti gli amici di RU si accostarono e, uno per uno, l’abbracciarono e lo baciarono. Da quel momento sarebbero stati intesi – da lui – veri fratelli: perché avevano partecipato, come figli, a quell’adozione fatta da sua madre, attraverso di lui, nel momento del suo viaggio verso il Paradiso. Per RU, queste intenzioni non erano momentanei e fuggevoli proponimenti dell’animo, e se ne sarebbe accorto nel momento in cui, due anni dopo, essi – dimentichi di tutto – avrebbero disdetto ogni amicizia con lui, e si sarebbero chiesti “Come mai, perché – trovandosi all’improvviso tra nemici – volesse restare con loro!” Fu grazie alla morte di sua madre, che RU perdonò ogni torto, a tutti coloro che l’avevano avversato: in primo luogo gli esponenti della Chiesa, a cominciare da Don Luigi Carnelli, che aveva gettato, tra tutti loro, la prima pietra per la sua personale mortificazione.


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LA MADONNINA VOLLE ANDARE IN CIELO SENZA CHE CI FOSSE UNA SUA TOMBA Una cosa da tempo era nelle intenzioni di Mariannina Baratta, fin da quando era stata perfettamente in se stessa: essere cremata e non avere una tomba. Non voleva costringere coloro che sarebbero restai a vivere dopo di lei ad aver cura dei suoi resti umani. Si era iscritta a un Ente che avrebbe avuto cura di garantirle la sua cremazione e finché fu in se stessa ogni anno pagò il suo contributo per ricevere quel futuro servizio. Quando si accorse che la sua vita evolveva verso la demenza, si raccomandò a lungo con suo figlio Romano per proseguire a tenere in vita quella sua adesione. RU non lo fece, poiché si era lui fatto carico di sua madre, e dunque ci avrebbe pensato lui. Così nel’aprile del 2.000 si ritrovarono riuniti tutti e due, R-U-BEN, a presenziare alla cerimonia disumana che ci fu al cimitero di Lambrate, in Milano. Il forno spalancò la sua bocca, e la bara, posta su un rullo, fu trainata e introdotta in quella apertura dalla luce abbagliante. Il tutto davanti al freddo schermo d’un televisore, in perfetta solitudine, i due figli: RU, BEN, il primo di 62 anni compiuti il secondo di 59. Nei due di R-U-BEN , davanti a quello strazio che avveniva alle cellule ancora vive del corpo di loro madre, toccò al minore dei due, a BEN di dover consolare il maggiore, R., scoppiato in un pianto dirotto, mentre le migliaia di gradi, di quella fornace, stavano facendo scempio del corpo della loro piccola e straordinaria mammina. Non si rendeva conto – RU – in quel momento, che quello era il modo reale di salire in cielo, coi fumi di quel forno, che la sua Madonnina aveva scelto come la sua reale ascensione. Lo rivela il computer: tra il 7 aprile della salita in cielo di quella mamma e quella della Mamma il 15 agosto c’erano esattamente in mezzo il 26×10 che metteva in comune il DIO=26 col DIO a Dimensione 10.

RU realizzò, nell’aprile del 2000, in cui morì sua mamma, l’elenco di tutti i cantori della Cassina e colse l’occasione per ringraziare ciascuno, a mano, su quell’elenco. I giorni che seguirono furono per lui molto tristi, seguì i lavori delle tre cantorie così come riusciva, distrattamente. Così, nella messa cantata nella vigilia di Pasqua, i suoi amici, privi della sua solita decisione negli attacchi, restarono come abbandonati a se stessi. La Maestra si lamentò molto, sostenendo che la Corale aveva eseguito tutti i brani come peggio non sarebbe stato possibile. RU allora si decise a darsi una mossa e, nella replica del giorno di Pasqua, nella messa delle 10,30, si rivolse alla direttrice, si addossò la colpa della scarsa qualità che c’era stata nella veglia e spiegò che, per quanto gli era successo in famiglia, avendo la testa ad altro cui pensare, si era fidato degli altri. Lei gli rispose: “Tesoro mio, io non mi fido mai di nessuno!”, poi gli mise in ordine il repertorio, tanto che, quando cantarono nuovamente i brani della vigilia, con RU che iniziò al momento giusto, le varie esecuzioni risultarono accettabili. IN R-U-BEN IL SECONDO OFFRE UN LAVORO AL PRIMO Con la morte della mamma, RU restò di colpo senza alcuna entrata. Lo chiamò Benito, lo soccorse economicamente e gli chiese se voleva occuparsi di E-press? “E che cos’è?” “E’ il nome dell’azienda che ho costituito: sviluppa quel progetto informatico del motore di ricerca per la stampa quotidiana. A settembre cominceremo ad operare, ma si può cominciare a pensarci fin da subito, in modo da partire lanciati.” Andò a trovarlo con Oriente Corrieri, che aveva conosciuto attraverso Fiorella.


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A RU BEN propose che RU divenisse il responsabile del ramo dello sviluppo relativo ai professionisti e a tutti quei Comuni che non erano serviti dalla Lega delle Autonomie Locali, l’associazione che raggruppava tutti i Comuni della sinistra italiana, circa 2.800 su un totale di 9.000. RU avrebbe avuto il 40% dell’importo dei contratti, una cifra rilevante, che avrebbe consentito un vero e rapido arricchimento, se il servizio fosse riuscito ad imporsi. La ragione della presenza d’Oriente Carrieri, era che RU non voleva darsi da fare se non organizzando il lavoro altrui. Oriente era uno di questi operatori che avrebbero potuto entrare a far parte dell’organico. RU rispose a BEN che poteva aiutarlo, ma appunto in quella linea. Si sarebbero dovute dare tutte le deleghe. Ne parlo con Salvatore, esperto del mondo d’Internet. Non era molto convinto che un sito a pagamento potesse essere in quel settore un grosso affare. Già i giornali più noti erano accessibili su Internet. RU gli spiegò che la E-press avrebbe potuto consentire le indagini estese a più giorni, a differenza della stampa quotidiana. Comunque ne avrebbero parlato meglio quando egli stesso ne avrebbe saputo di più COSIMO AUSILI L’AIUTÒ, E GLI PARLÒ DI PADRE MAGNI Una sera Cosimo Ausili – che aveva partecipato al Convegno del 24 ottobre – era lì, ad attenderlo sotto casa, nel cortile della via Larga. Sapendo la condizione di bisogno di RU, gli diede duemila euro come puro aiuto e gli annunciò: “Finalmente ho ricevuto risposta. Padre Magni ha affermato che ha letto tutto quanto è stato scritto in relazione alla Fides et Ratio ma è stato veramente affascinato da quello che hai scritto tu. Ti vuole assolutamente conoscere. Eccoti il suo numero di telefono. Mettiti in contatto con lui. Scusami se ci ho impiegato mesi a risponderti, ma il comune amico, che ha fatto da tramite, era in ospedale.” Fu un ritardo opportuno, perché Padre Ulderico Magni aveva intanto letto tutto quanto d’altro era stato scritto a proposito della Fides et Ratio. RU conobbe questo Sacerdote e seppe che aveva studiato filosofia nella stessa classe con il Wojtyla che poi sarebbe divenuto l’attuale Papa. Fu così che la Provvidenza aveva aggirato l’ostacolo frapposto da tutta la Chiesa e il messaggio era arrivato proprio là dove il Papa aveva studiato filosofia. Padre Ulderico Magni era una persona introdotta in molti ambienti della fede viva nell’aldilà, posseduta da chi, avendo avuto morti i figli, cercava ogni modo per riconoscerli ancora in vita. RU fu invitato a tenere conferenze, perché Padre Magni aveva giudicato che il lavoro fatto da lui era degno d’essere conosciuto, doveva assolutamente superare l’isolamento.

Si sarebbe fatto egli stesso promotore. Così, attraverso le mani di questo attento “piccolo”, la Provvidenza cominciò a far filtrare i contenuti che erano stati consegnati a RU, perché fossero diffusi. Benito Amodeo cominciò a dargli le indicazioni, per il lavoro dell’E-press e Padre Magni lo stava mettendo in azione, nel campo delle conferenze. Due opposte tentazioni: Mammona (il potere economico) e Dio (il servizio povero e gratuito)... ove non si può servire due padroni! Il giorno dopo RU andò alla prova di Cogliate e riferì a Raffaella che Padre Magni, ed altri impegni, probabilmente non gli avrebbero più consentito di partecipare, e che ciò gli doleva. Mentre le stava parlando, arrivò la Maestra del Coro e lei, non chiamata in causa, avendo capito come quella di RU era una cosa concreta e riguardava il suo impegno di lavoro, che lo avrebbe portato lontano,intervenne nella discussione tra loro: “Romano, per prima cosa, nella vita, bisogna seguire le questioni importanti! – il che, in parole povere, significava – E’ inutile che perdi il tempo qui con me, fai un buco nell’acqua; dedicati a cose più serie!”. Alla fine della prova, salutate le persone, RU andò al parcheggio grande, in cui aveva lasciato la sua macchina. Non poté muoversi, perché, proprio l’automobile della maestra era quella che gli aveva sbarrato l’uscita. Lei arrivò in quel momento e salì sulla vettura. Allora RU andò verso di lei e l’apostrofò scherzando: “Ah, sei tu, che anche qui mi togli lo spazio! Senti, in cuor mio t’ho eletta a Maestra della mia vita. Sappilo!” E lei: “Lasciami andare!” Chiuse il finestrino, mettendo in moto la vettura. RU terminò così: “Be’ la Maestra sei tu; dammi l’attacco, quando arriva e se un giorno arriva il momento!” Lei avviò la vettura e lui: “Guarda che ci conto: fallo!” Giunto a casa, e ritrovandosi improvvisamente con tutta la sua solitudine, reagì, con determinazione, e riconobbe che era il caso d’andare via da Saronno. Ormai sua madre non c’era più e Benito aveva veramente bisogno di lui. La domenica successiva ci fu la doppia festa: San Giovanni Battista nella sua Chiesa di Saronno e il Corpus Domini a Cogliate. Appena fu in Chiesa, alle 10,15, alla Cassina, andò dalla Maestra e le annunciò: “Questa è l'ultima volta che io canto qui con te.” “Perché?”


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“Perché mi sono accorto che non sono preso sul serio. Mi sento come un drogato, che venga qui a prendere quel tanto, per non sentire l’astinenza. Io desidero essere trattato come una persona seria, e non come accade.”. Lei restò muta. Il Coro si dispose al suo posto e, prima di cominciare, la Maestra avvisò di non andare via appena finita la messa, perché dopo si sarebbe discussa una questione importante. Finita la celebrazione, lei rivelò: “Vi ho voluti tutti qui, specie voi due, Roberto e Riccardo. Io, per motivi miei personali, non posso più seguire il Coro. Dovete allora prendere in mano voi due le cose. Credo che ne siate capaci. Gradirei, che fin da oggi, raggiungeste un accordo, in modo da darvi il solito appuntamento per settembre. Ne ho già parlato, fin da lunedì scorso, con Don Luigi. Io non posso più.” RU, nelle situazioni come questa, era sempre stato chi aveva cercato d’opporsi a tutti i tentativi d’abbandono. Era andato a casa di chi si era dimesso, aveva cercato di far continuare ad esistere il Coro, pronto anche a rimetterci del suo. Stavolta non si sentì di farlo, non ebbe l’animo giusto per partecipare ad una discussione su un futuro cui aveva rinunciato, e che aveva annunciato alla Maestra ancor prima che lei facesse altrettanto. Poi già era iniziata la messa a Cogliate e lui, in tutte le feste importanti, finita quella cantata alla Cassina, correva là, a Cogliate, e poteva partecipare ancora a ¾ di quella, iniziata alle 11,15. Dopo la Santa Messa a Cogliate, aveva un appuntamento, al centro di Saronno, con Oriente Carrieri, l’allievo della N.S.I. che doveva cercare, ancora, di definire la sua disponibilità a lavorare con lui per la E-press. Oriente partecipava, ogni ultima domenica del mese, con un suo chiosco, alle bancarelle che affollavano il centro di Saronno, e vendeva cianfrusaglie varie, essenze, frasi sagge scritti da lui, e libri sulla filosofia e il pensiero orientale in genere. Restarono a parlare per più di un’ora e poi – per quelle forzature vere del destino, nella vita sua – RU dimenticò d’essere andato in macchina, al centro di Saronno, e tornò a piedi verso casa. Se si fosse ricordato, che era andato lì in automobile, ancora una volta il destino sarebbe stato differente. Tornò invece a piedi e, lungo il cammino incontrò Isidoro, il parente della maestra che aveva cantato nel coro. Lo salutò e colse l’occasione per un addio: “Vado via da Saronno. Sai che è morta mia madre e come io debba rifarmi una ossatura economica, ora che non c’è più, a sostenermi, il lavoro che facevo per lei e la pensione che consentiva ad entrambi di vivere. Ma vado via anche per un altro motivo. Quella tua parente, che tu sai quanto io ammiri e quanto io abbia nel cuore, non mi può vedere!

Ne abbiamo tante volte discusso... ti ricordi? E’ una storia disperata e senza alcuna altra via d’uscita.” “Ma chi te l’ha detto?!” rispose lui. “Nessuno, non c’è bisogno che qualcuno me lo dica, bastano le cose che già traspaiono, con il massimo dell’evidenza. Lei non mi può soffrire!” “Ma chi te l’ha detto?! Te l’ha detto lei?!” “Sì, molte volte, in modo indiretto. Una volta le ho raccontato, lo scorso anno, che mio fratello aveva un bel posto per me, a Terni. Io le spiegai che non ci andavo e che, se non mi muovevo da Saronno, era per lei. Be’, mi rispose subito, con la solita prontezza e il solito disprezzo, che ‘per lei potevo andare via benissimo!’ ” “Ascolta me! – gli consigliò Isidoro – Se lei ti sta a cuore, non andar via! Sii tenace! Solo la perseveranza e la fedeltà possono riuscire, con le persone di quella famiglia. Te lo dico, perché lo so per esperienza.” Fu un consiglio datogli a fin di bene. “Ma... sai qualcosa che io non so?” “No! No! Per carità! Questa è solo una mia idea. Se tu sapessi che vita complicata ha avuto quella ragazza, quanti rospi ha dovuto ingoiare e di quanti momenti difficili ha dovuto venire a capo, capiresti di più, perché, tante volte, si comporta come vedi.” La bella decisione di RU d’andar via, fu infranta. Come gli capitava molte volte, passò così da un eccesso all’altro. Considerò che non era riuscito a parlarle, seriamente, nonostante ci avesse provato; che le occasioni c’erano state, ma lei era sempre sgusciata via come un’anguilla. Lei aveva fatto, infine, così, anche con la sua Cantoria della Cassina. Aveva voltato repentinamente le spalle a tutti, senza prepararli, dando loro, così a bruciapelo, quella pessima notizia. Decise così che doveva mettere sottosopra quell’assetto sbagliato, di lei; che doveva sconvolgere tutta l’idea che s’era fatta di lui; che doveva riuscire a dirle la cosa essenziale, che la colpisse, le restasse scolpita, e per sempre, nella mente e nel cuore. Andò quindi, quella sera, a Cogliate, per la messa vespertina e la processione del Corpus Domini, deciso ad esorcizzare la maestra. Quando giunse in Chiesa, lei era già là e c’era solo Gigi, l’organista. In un momento in cui fu sola, l’avvicinò e le domandò: “Che cosa è stato concluso, poi, stamattina?”. “Se ti fosse importato, ti saresti fermato!” aveva già assunto il tono del rimprovero che, nel suo modo di pensare, doveva essere quanto bastasse a farlo stare con la coda tra le gambe. E invece lui, guardandola dritto negli occhi: “Mi sposi?” “Mai e poi mai e non pensarci nemmeno!” fu la risposta. Così fulminea da rivelarsi già pronta, già pensata da lei, a sufficienza.


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RU non fece una piega, andò al suo posto, perché stava arrivando gente. Nel momento in cui tornò da lei, a prendere lo spartito dal mucchio, posto sullo sgabello vicino a lei, le obiettò: “Sei troppo sicura, non ti credo per niente! Io ci penso eccome! E fai bene a pensarci anche tu!” Lei allibita e muta. Messa di fronte ad una tale certezza, non ebbe più pronta quella risposta, sagace, che era la sua prerogativa. Durante il canto, RU fu sereno, ridente. Poi ci fu la processione, per le vie, e il solito spettacolo, della Schola Cantorum, che marciava con lei in pompa magna. Ritornati davanti alla Chiesa, mentre tutte le persone erano lì ammassate, RU si fece largo verso lei e ad alta voce, esclamò, a braccio teso: “Maestra, mi dai la mano?” “Piacere!” esclamò lei, ad alta voce, e serrò quella mano con una forza tale, che era quasi come se volesse stritolargliela. La persona reagiva. Altre volte quella stretta era stata moscia e senza vita. Il fatto è – e adesso dovete credermi poiché è vero – che in RU c’era Gesù! RU nemmeno se ne rendeva conto, ma chi gli aveva salvato la vita facendolo risorgere dalla morte, era stato il Corpo di Gesù,e adesso, alla celebrazione del “Corpus Domini” stava rammentando a quella donna che lei era sua sposa, e lo aveva scelto quando si era fatta suora. Quel “Mai e poi mai e non pensarci nemmeno” a suo tempo si sarebbe ribaltato nel suo valore reciproco di un “sempre e sempre e pensiamoci in ogni momento”. Questo – naturalmente – solo in paradiso. Il suo ruolo ora doveva essere solo quello di chi aveva caricato interamente su di se tutto quel discredito che RU aveva offerto a Dio perché una anoressica avesse salva la vita. E mente lui aveva pensato a Lucy, quel Gesù che era su di lui come su un σώμα-Po aveva sposa. Questo il significato recondito di quel “Mi sposi” che Gesù fece dire al suo asino, mentre si rivolgeva a chi aveva voluto lui come sposo. Il giorno dopo, sempre Chi comandava in RU, ordinò un gran mazzo di fiori, cui allegò una bella lettera, in cui le sconsigliava di abbandonare la Cantoria di Cassina Ferrara. Le volevano tutti bene. Avevano respinto il giovane maestro che lei aveva sostituito, quando era andato al servizio militare e – tornato – si era ripresentato per il suo posto. Che ritornasse sui suoi passi. In quanto a lui, doveva andar via da Saronno e lavorare con suo fratello. RU volle sapere, dall’amico fioraio, cosa fosse successo, come avessero reagito quando egli aveva consegnato quell’enorme composizione floreale. Gli avevano domandato: “Chi li manda? Chi li manda?” ... Che delusione: era solo lui!

RU non ebbe alcun segno di risposta e se l’aspettava. Allora decise d’averlo, anche a costo che fosse negativo. Così le scrisse nuovamente, stimolandola al massimo: Stavolta ci riuscì e alle 7,30 di mattino, lei lo chiamò al telefono prima di recarsi a Milano. Gli disse chiaro-chiaro: “Un bel gioco dura poco ed io mi sono veramente stancata. Dunque smettila!” “Vedi? Ci voleva così poco! Perché hai atteso solo adesso a dirmelo, facendomi proprio tu arrivare a questo punto?” Il rapporto tra loro, con RU che puntava a fare una sorta di esorcismo, per scacciare il male presente in lei, che le impediva di essere giusta, divenne simile a quello che esiste tra il Diavolo e l’Acqua Santa... RU stava tentando un esorcismo perché era stufo della situazione, aveva perso la pazienza e doveva mettere in crisi la sicurezza dell’assoluta negazione che vedeva in lei, ora anche per tutti i cantori della Cassina. Adesso non accettava più che lei spadroneggiasse. Del resto con che arma terribile stava attaccando questo assoluto no? Con l’Assoluto sì, la massima offerta possibile: quella di sé, fatta a lei il giorno in cui lei aveva tradito tutta, tutta, tutta, tutta la sua gente, che l’amava allo stesso modo di lui. Stava seguendo il consiglio di Isidoro. Andato via da Saronno, le mandò un paio di brevissime lettere, scritte a mano, e qualche cartolina, con lo pseudonimo d’Anna, che aveva usato anche molte volte facendo il giornalista. Non era, come sapete, uno pseudonimo, ma il terzo dei suoi cinque nomi... quello di mezzo: l’equilibrio anche qui. Romano – anzi, Anna – le scriveva che lei, troppe volte, quando dirigeva, diceva che la cosa più importante che vi fosse, era di sembrare sicuri del fatto proprio: “Meglio sbagliare essendo sicuri, che essere nel giusto esitando!”. Perciò tanta sicurezza, mostrata adesso con lui, era il segno, più che evidente, solo d’una grande insicurezza... che era meglio non dimostrare. RU ora le scriveva da Milano. Aveva iniziato a ristrutturare l’azienda del fratello e, ritornando ad occuparsi d’edilizia, stava cercando di mettere in condizione, l’E-press, d’avere un ufficio che fosse, per superficie, il doppio di quello che costava il suo affitto. Quando, il 5 settembre del 2000, ci fu il primo raduno della Schola Cantorum a Cogliate, egli fu spiritualmente con loro: vide la scena, minuto per minuto; la gente che arrivava, scendeva le scale. Ecco: ora arrivava lei, cominciava a domandare “Come sono passate le vacanze?” Ecco: ora cominciavano a discutere il programma, ora iniziavano a cantare... e con la fantasia cantava lui pure.


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Le comperò un gioiello, per il suo compleanno del 3 ottobre. Era il puro omaggio d’un anonimo che le voleva bene; anche se, da ogni cosa, si capiva poi chi glielo mandasse. La Provvidenza di Dio – ancora una volta - ci pensò, a fargli accertare come in verità stessero le cose... Infatti, collegatosi a Milano alla segreteria telefonica, risultò impresso su di essa un messaggio di lei, fattogli alle 18,43, del 3 ottobre, quando, tornata a casa e aperto il pacchetto, era finita in una confusione assoluta. Maria Teresa aveva tentato di telefonargli, ma era in uno stato così “confuso”, che non si era accorta che era scattato il messaggio (nel telefono di RU) della segreteria, che avvertiva chi chiamava che “Il cliente non c’era e che poteva essere rilasciato un messaggio dopo il segnale acustico.” Lei, senza aver sentito quelle parole, e credendosi in attesa che lui rispondesse, aveva seguitato a parlare, con chi era in casa con lei, e la sua voce era restata registrata, del tutto simile a chi è in confusione di mente e di cuore. La Provvidenza le creò un contrattempo fantastico, incredibile! Tutt’altro che “né caldo, né freddo”... tutti e due e ad altissimo livello, segno di una fortissima lotta, in atto, nell’animo della maestra, tra la sua parte buona e quell’altra che non accettava di essere tampinata. RU, ancora una volta, fu molto sorpreso da quella reazione di lei. Quella donna sembrava un tipo in grado di dominare una cosetta da nulla, come quel regalo di compleanno, con lo stesso spirito di tante volte, quando dava a vedere di padroneggiare tutto, buttandolo sul ridere! E, invece era una persona che guai a toccarle la corda dei sentimenti! Scherzare, sì. Ma, come gli aveva detto: “Un bel gioco dura poco!” Tornato appena poté a Saronno, trovò il biglietto d’una raccomandata, nella cassetta delle lettere. Andò alla Posta centrale e volle sapere che cosa fosse. “E’ un pacco inviato a lei” e glielo fecero vedere: mittente MT Legnani. Domandò: “Lo devo ritirare per forza?” e l’impiegata: “No, se lei non lo ritira entro un mese, il pacco viene restituito a chi l’ha consegnato alla Posta.”... sarebbe tornato al luogo di origine. Ecco, se RU avesse voluto fare giochi di forza, avrebbe fatto così: non avrebbe ritirato quel pacco. Ma non voleva spazi di forza e di guerra, ma di armonia e di pace, così ritirò il plico e – considerato che MT gli aveva mandato un pacco raccomandato ed egli l’aveva ritirato – a sua volta scrisse a lei una raccomandata a casa sua. Ora accadde che RU stava procedendo, a passo spedito, sul marciapiede di destra, in piena vista. Era a circa 30 metri dal giornalaio e fu superato da una vettura che, giunta all’altezza del negozio, si fermò sulla destra.

RU era soprappensiero. S’accorse, solo dopo, d’aver superato d’una decina di metri una vettura che, forse, era l’automobile della Maestra. Si girò indietro di scatto e vide lei che, uscita dal veicolo, guardava nella sua direzione, per vedere se poteva attraversare la strada oppure no. Si scambiarono un’occhiata restando impassibili, forse ciascuno aspettando che fosse l’altro a salutare per primo. A lui l’attesa parve lunghissima, poi, poiché nessun veicolo era in arrivo, lei attraversò la strada ed entrò dal giornalaio. La donna non l’aveva salutato, ma non aveva evitato d’incontrarlo. Se non avesse voluto, l’avrebbe fatto passare oltre il giornalaio. Invece lei aveva superato il suo allievo, per fermarsi subito davanti a lui. Non era scesa, forse, solo per evitare un saluto dato per forza. Se RU avesse voluto farlo, avrebbe rivolto lui a lei la parola. Dunque, a pensarci bene, lei non era contraria a che scambiassero due parole. Così egli tornò sui suoi passi, attraversò la strada e l’attese fuori dal negozio. Quando lei uscì e lo vide, a pochi passi, restò gelida ed impassibile. Non si vedevano da quell’ultima calorosa stretta di mano e da quell’esclamazione “Piacere!” allorché egli le aveva chiesto davanti a tutti, di dargli la sua mano, “attentando a lei”, già sposa di Cristo.... come se Gesù non fosse in lui. “Ti ho inviato una lettera.” “Sì e te l’ho rispedita, senza neppure leggerla!”... più rigetto di così! “Ma perché fai così? Che t’ho fatto di male?” “Non rompermi più l’anima!” ... ed era vero: «la Santa» non accettava tentazioni, e stava mostrando ora tutto quanto il suo disappunto... Lo piantò lì, attraversando la strada, salendo sulla sua vettura, mentre egli dichiarò: “Non merito niente di tutto questo!”... La provvidenza, con un incontro improbabile, gli mostrò il disappunto di quello stato di lei... ma accipicchia! Non era demoniaco, ma davvero santo e intoccabile e gli fece amare di restare povero e solo a Saronno, e disposto a non pensare assolutamente più a sposarla. Lei non l’aveva insolentito, gli aveva solo mostrato la sua verità. RU, ancora una volta, fu intrigato da questi fatti, al punto che decise di non arricchire più e di non ritornare più a Milano a lavorare con suo fratello. Era un lavoro cominciato bene e già concluso nella prima parte: aveva completato la trasformazione dello scantinato e rimesso a nuovo l’aspetto d’ogni cosa. Rinunciava solo a fare promozione. Aveva rapporti con gli architetti che, per dieci anni, erano stati a contatto con lui, quando aveva coordinato i lavori per la realizzazione del mensile degli Architetti Lombardi. Ma nessuna intenzione di rimettersi in quel contesto. .


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Avere fiducia in RU significava, da parte del fratello, che stanziasse dei fondi per finanziare il suo impegno. Benito, invece, aveva già speso molto, per acquistare in Leasing più d’una ventina di computer, lettori ottici e tutto quanto potesse consentirgli d’incamerare, al volo, tutti gli articoli della differente stampa quotidiana, suddivisi per argomenti, per parole: in modo da consentire agli operatori di trovare subito i fatti di interesse, che erano stati oggetto di notizie sulla stampa. C’erano più di una ventina di ragazzi, ai quali aveva allestito appositamente un corso per prepararli, stages costosi, pur d’avere, a portata di mano, uno strumento tecnico che fosse scattante, efficace, tempestivo. Invece, non aveva speso né investito nulla, per l’acquisizione della clientela, fidandosi della Lega anziché del fratello. Ignorava, Benito, che, per l’efficacia e la determinazione che aveva Romano nelle sue cose, quando ci si metteva, era – da solo – più promettente di... un esercito. Aveva costretto oltre 900 pigri Architetti a muoversi, in una sola sera, per rinnovare un Consiglio dell’Ordine... che solitamente non interessava che a pochi. Che avrebbe fatto la Lega? All’atto pratico, questa struttura, si sarebbe poggiata sui pochi operatori che avrebbe mobilitato, avendo solitamente tutt’altri interessi: la politica, più che l’informazione. La Provvidenza voleva da RU solo una cosa: che restasse a Saronno e continuasse a infischiarsene del denaro. Il vero ricco è il povero, che non è asservito a guardiano delle sue ricchezze, divenendo servo di quanto invece dovrebbe semplicemente servire a lui per vivere... Doveva restare lì, a soffrire di stenti, perché quello era il luogo in cui sarebbe stato interamente mortificato, e se ne accorgeva, e vedeva che ne traeva enormi vantaggi, perché quelle difficoltà lo facevano divenire un leone. Accade così anche nei popoli: quando dichiarano guerra allo straniero, si placano tutte le discordie interne e, destra e sinistra, si coalizzano nello sforzo, dimenticando gli attriti e i veleni nati con la pace. C’era un motivo che gli sfuggiva, che ogni tanto gli balenava nelle idee, ma poi svaniva. Romano Amodeo, il 24.10.1999 a Saronno era stato davvero chi aveva corrisposto alle generali attese di tutti gli uomini per il fine millennio, ma sembrava egli pure non molto consapevole. Non era riuscito ad inquadrare, per esempio, con esattezza che ruolo avesse avuto Sabato Lingardo in tutto ciò. Egli credeva fosse stato quello, di poco conto, di chi gli aveva dato la conferma pratica della reale esistenza del lato inverso della vita, avendo lanciato messaggi inequivocabili attraverso sua madre, quando era morto alla fine del 15.8.1999, e non si era accorto che era morto subito dopo l’Assunzione in Cielo della Madonna... Come aveva fatto a non badarci? Quel Convegno era stato a cavallo tra l’Assunzione al Cielo di Maria e il 2.000. Era il 24 (giorno intero nel numero delle

ore), del 10, mesi interi nel ciclo della numerazione, del 1999, ultimo anno rispetto ai 2.000. Sabato era stato il tartassato per eccellenza, una persona ricolma di Spirito Santo nonostante il suo non andare in Chiesa. Era un maestro che era sconvolto dai bambini che non corrispondevano alla gentilezza, disperato fino all’ossessione per una cosa così contro natura! Era stata una reazione giudicata da persona anormale, mentre il più sensibile alle peggiore delle anomalie era proprio lui! Quante volte era stato aiutato dal suo amico, che pure stava peggio di lui? Ebbene era morto 69 giorni prima del Convegno, fatto 69 giorni prima del 2.000, ma non aveva notato la strana coincidenza. Sabato era pertanto stato proprio chi aveva varato quel Convegno, nel nome dello Spirito santo, battezzandolo con la sua autentica morte. Se quei locali che RU aveva erano da lui giudicati il Paradiso, Sabato aveva occupato quello di sopra che era quello del cielo, mentre quello sotto alla scala era solo il Paradiso Terrestre del momento... C’erano tante cose che RU non aveva ancora valutato a dovere, su come Sabato gli avesse dato la foto poi stampata su quel libro dal titolo “Se Gesù parlasse oggi in Parabole”... Quel Sabato era colui al Quale Dio non lo aveva pagato, il Sabato, ed era divenuto importantissimo. Barbara Gorzawska l’aveva sognato nel mentre saliva per quella scala e le aveva detto di essere immortale. A lui aveva donato in sogno una notte d’amore disegnata interamente da lui, tutta a colori, con lei, prima che lei tentasse di spegnergli i fuochi sacri con il veleno dell’indifferenza. La “leva” potente su cui la Provvidenza poteva però giocare, per trattenere RU in quella sua stanzetta in cui era morta sua Madre e in cui sarebbe morto lui – credeva – il 9.6.2004, fu proprio la dimostrazione, in presa diretta, della rottura che egli aveva provocata nell’animo «Santo» di lei: non era una cosa ben fatta; non era quello cui egli mirava; a lui bastavano le bricioline, cadute dalla tavola di sua grazia. Questa era la verità. Il più contento di tutti, se MaTesaLe... avesse nuovamente incontrato un amore che la coinvolgesse, che le desse una famiglia, dei figli, e non la facesse divenire, nel tempo, una zitella acida e incattivita, sarebbe stato proprio lui. Così questo figlio naturale della Madonna decise di mandare al diavolo il progetto d’arricchire e abbracciò nuovamente tutta la sua povertà, a causa del bene vero che aveva per lei. Decise che sarebbe rientrato a Cogliate. Infatti solo lì egli avrebbe potuto normalizzare un rapporto divenuto all’improvviso tale da rompere l’anima a chi egli non voleva fare quello.


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Tutti nella Schola Cantorum gli fecero festa, tranne lei che, quando lo vide, appena dopo le festività dei santi e dei morti, non lo salutò nemmeno, perfettamente ricambiata da lui che avrebbe rinunciato perfino al suo saluto se lei, per prima, non gradiva che un saluto ci fosse. E fu di fronte a queste autentiche e nuove buone intenzioni di RU che, davvero all’improvviso e inaspettatamente, la Provvidenza prese in mano il pallino e mise a posto le cose a modo tutto suo. La prima canzone che si preparò, quella sera, fu Funicolì, canto della tradizione popolare napoletana, inserito nel calendario dei pezzi da presentare il 7 gennaio, assieme alla Banda del Maestro Lotito. “Certo che qui cantiamo senza sapere quello che diciamo” osservò la maestra; poi aggiunse: “Non c’è chi conosce il napoletano e possa tradurla?” Sapeva benissimo che c’era un terrone, almeno uno, ed era RU, che alzò la mano. L lei gli ordinò: “Traduci!” Romano tradusse tutto: Ier sera, Nanninetta, me ne salii tu sai dove, tu sai dove Dove il tuo cuore ingrato più dispetti farmi non può, farmi non può Laddove il fuoco cuoce, ma se fuggi, ti lascia star! ti lascia star E non ti corre appresso e non ti struggi: solo a guardar! solo a guardar! (Ritornello) Andiamoci! Dalla terra alla montagna un passo c’è, un passo c’è si vede Francia, Procida, la Spagna ... ma io vedo te, ma io vedo te ! Tirate con le funi e, detto è fatto: in ciel si va, in ciel si va ! Si va come va il vento e all’improvviso, ueh sale, sal! ueh sale, sal! (Ritornello) E s’è montata, o bimba, s’è montata, la testa già, la testa già ! è andata, poi e tornata, poi è venuta... sta sempre qua, sta sempre qua... la testa gira gira, attorno attorno ... attorno a te, attorno a te ! e il cuore canta sempre, notte e giorno: <Sposiamci oih né ! sposiamci oih né!> Ora – se questa non era interamente la storia di RU con questa donna –, quale altra mai avrebbe dovuto essere? Le aveva scritto che era una finestra aperta sul cielo, che aveva cercato di vedere tutt’altro ma vedeva sempre lei in ogni luogo, che s’era montata la testa e questa girava sempre attorno, attorno a lei, tanto che era sempre qua. E – infine, dulcis in fundo – che il suo cuore cantava sempre, notte e giorno: “Sposiamoci! Ragazza, sposiamoci!” Il destino era divenuto addirittura beffardo e si faceva gioco delle loro piccole traversie!

Questa era la verità addirittura lampante! Insomma l’incredibile Provvidenza che conduceva la trama dei fatti, portò RU, proprio in seguito ad un ordine ricevuto a chiederle: “Ragazza, sposiamoci!” Il bello poi, era che tutti ne erano felici! Ora tutti gli uomini cantavano un’ottava più sotto di quella che RU, da sempre, aveva cantato, sostenendo, in quel brano che ben conosceva, la parte del tenore. RU osservò che tutti gli uomini dovevano esprimersi a quel suo livello, perché era il canto d’un uomo ad una dona e non delle donne, dei soprano, che invece eseguivano tutta la strofa. Lei gli rispose che ormai avevano imparato così e che non era il caso che provassero a fare diversamente. Però, se lui aveva sempre eseguito il canto nell’ottava sopra, seguitasse pure a fare così. “Non starà male che io solo canti a quella tonalità?” “No, canta così, poi vediamo se sta male o no.” rispose lei, che conosceva molto bene come il suo volume di voce fosse quello d’un vero solista. Così, questo destino che si faceva beffa delle situazioni, portò RU a essere l’unico tenore, praticamente il solista che chiedeva a Nanninetta “Sposiamoci”, come già le aveva detto, in realtà, scatenando però il putiferio. Ma adesso, complice il pezzo scritto da Altri, non c’erano equivoci, né colpe, se RU era l’unico a emergere, e con voce altisonante faceva una proposta nuziale.


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2001

‘Ncoppa jamme ja, funicolì funicolà Benito lavorava alla Lega Servizi e Consulenza. Dopo le tante messe cantate in Chiesa, due a Natale e capodanno, in cui RU si divise, come sempre faceva, tra la Corale di Santa Cecilia, diretta dal Monticelli e la sua di Cogliate, saltando dall’una all’altra, cosa consentita dai differenti orari, arrivò finalmente la data del 7 gennaio, e tutti si recarono al salone del Centro Ferraroli, questa volta per un puro spettacolo teatrale. Fu il trionfo di Funicolì! La gente, alla fine di tutti i pezzi, acclamò e volle che quello fosse il brano ripetuto come il bis. RU ebbe davvero il suo personale Paradiso terrestre della pura fantasia. Non si sarebbe mai potuto aspettare una cosa così artisticamente ed emotivamente soddisfacente: era lì, diretto dalla sua Maestra del Coro, che aveva eletto a Maestra della sua vita; lei gli faceva fare la parte del solista in un pezzo che era proprio la storia del suo affetto per lei, e sentiva di cantare benissimo! Il bis era stata la ciliegina sulla torta. Perfino la madre aveva applaudito e chiesto il bis per il Nostro finalmente amato cantore, che chiedeva a Nanninella di sposarlo, lì, davanti a tutti e davanti a lei!

Direte: “Ti contenti di poco!”, ma in quel 7 gennaio del 2001, si era avverata la profezia che RU aveva fatto alla sua Maestra del Coro, quando, scrivendole la lettera il giorno che l’aveva chiesta in moglie, aveva scritto che quel “Mai e poi mai!” di cui lei si era glorificata, aveva i giorni contati e non sarebbe durato per sempre. L’essere emerso in quel modo, come un solista, ingenerò gelosie in quel coro. Anche per una altra questione: dovevano preparare un canto e i tenori non riuscivano a cantare una nota alta. Allora la maestra spostò RU tra i tenori, ed era l’unico – lui un basso – che riusciva a cantarla. RU cercò di capire perché i tenori non riuscivano, e si accorse dopo molte ore di studio dove era il problema. Non poté però metterlo in atto, poiché la maestra aveva deciso di riportarlo tra i bassi. Era meglio che sbagliavano insieme, invece di udire lui che – non sbagliando – faceva emergere i loro limiti. Ci restò molto male, poiché aveva dedicato molto tempo a quella soluzione e essa non fu nemmeno sollevata. Prima della Pasqua del 2001 RU andò da Don Luigi: “Bisogna che la Cantoria si ricostituisca. Se lei è d’accordo, sono disposto a prendere in mano io la situazione. Possiamo trasformarla come è la Schola Cantorum di Cogliate, con un gruppo dirigente, che sia in grado di seguire la gestione; e la responsabilità, per il Maestro, di curare solo l’aspetto tecnico del canto. In questa Cantoria, per come sono andate avanti le cose, è stato sempre eccessivo il cumulo di responsabilità nelle mani del Maestro. Tra un po’ è Pasqua e siamo ancora in tempo a fare qualcosa.” Don Luigi rispose, con un sorriso malizioso: “Da qui a settembre non ci sono ormai molti mesi.” “Perché a settembre? C’è in mezzo la Pasqua.” “La Pasqua è troppo sotto.” “Perché allora a settembre? Che succede a settembre?” Don Luigi non voleva parlare, ma, messo alle strette, rivelò: “Ho una promessa, che a settembre la Cantoria si potrà riaprire.”


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“La promessa di chi?” “D’un Maestro che, avendo capito che noi non possiamo proprio farne a meno, ha promesso che ci aiuterà.” Quando poi successe questa storia, legata al canto della Madonna, RU andò da Don Luigi a raccontargli come fosse stato trattato, in modo ingiusto, dalla Maria Teresa, a Cogliate; e come a nulla fosse valso il suo lavoro a casa rispetto a quello di lei. Solo il tempo a casa di lei sembrava importante, mentre aveva vanificato 5 ore sue. RU notò il vivo interesse di Don Luigi. Voleva sapere con esattezza in che giorno fosse successo questo episodio. L’atteggiamento del Parroco fu tanto strano che RU all’improvviso capì che il Maestro, che si era impegnato con lui a riaprire la Cantoria, doveva essere la benedetta Maestra del Coro di Cogliate. Ora, di fronte ai problemi evidenziati a proposito di lei, Don Luigi stava cercando di capire se c’entravano o no con i suoi accordi. “Don Luigi! È Maria Teresa che dovrebbe venire a settembre?” Don Luigi era renitente a parlare, ma, alla fine, fu tanta l’insistenza di RU, che lo confermò: era lei. A settembre avrebbe riaperto la Cantoria di Cassina Ferrara. “Non ci credo. Non lo farà mai. Io, che sono stato a Cogliate, posso affermare che lei è restata con il dente avvelenato, per qualche cosa che l’ha disturbata, e che non tornerà più.” “Chi vuole avere qualche cosa, deve essere pronto a concedere qualcos’altro...” “Ma cosa? Lei non ha nulla di così importante, da poter concedere a quella persona, dunque non ci conti!” Don Luigi non ribatté. Uscì il giornaletto della Chiesa e, su quello, RU lesse che la figura di Suor Giuseppina, che stava per lasciare l’asilo, sarebbe stata sostituita da un laico. Fece due conti e risolse che nessun laico, più d’una ex suora, poteva sostituire una suora. Andò così da Don Luigi e gli rivelò che aveva capito che cosa d’importante potesse avere da lui la Maestra. Questo sacerdote già in passato l’aveva aiutata ad avere l’impiego a Milano, presso la scuola delle Orsoline e adesso l’avrebbe aiutata ad avere quello presso la scuola Materna del quartiere. Certo che allora Don Luigi aveva qualcosa di valido da poter offrire! Ore ed ore risparmiate, alla settimana, di viaggi come pendolare, e anche i soldi del biglietto. Essendo arrivato intanto aprile, RU suggerì al Parroco di stringere un accordo fin da subito, con la Maestra, fissando, con mesi d’anticipo, la data di riapertura della Cantoria. Se non lo faceva, correva il rischio che a Settembre, si sarebbe sentito dire che “certi accordi vanno definiti in tempo.” Don Luigi non volle sentirci. Gli rispose che si sarebbe visto, a settembre, se le persone “fossero o meno di parola”.

Accadde allora un fatto che impressionò RU: un giorno spostò il letto e prese un mucchio di tele che erano state lasciate lì sotto, una sull’altra, da quando le aveva riposte, dopo la mostra del 1998. Restò perplesso e impressionato, perché, in un quadro, in cui era raffigurata Maria Teresa, .mentre dirigeva a Cassina Ferrara (una delle tre che non aveva voluto), tutta la testa di lei era coperta da una macchia marrone verdastra, lasciata come se della verdura cotta, finita lì chissà da dove, si fosse spianata ed appiccicata lì, tanto da nasconderle interamente il volto. Rimase colpito, perché il canto, che sul dipinto stavano eseguendo, era quello che recita: “Chi mi ama sarà amato dal padre mio...”. Lo interpretò come un pessimo segno: la maestra si sarebbe macchiata con qualche cosa di veramente brutto... ma preferì non pensarci. Sempre strane cose succedevano a quelle tre tele dipinte a lei. Ricordava quando aveva montato la mostra, assieme ad Enzo Vannucci, che i tre ritratti, aventi lei per soggetto, si staccavano e cadevano sempre al suolo, solo i suoi. In maggio RU fu a Varazze, come relatore, assieme a Padre Magni, in un convegno di tre giorni organizzato dalla Arisad (Associazione Ricerche e Studi sull’Altra Dimensione). Quel convegno fu il primo che tenne per l’Arisad. Conobbe Umberto Moneta, l’organizzatore, assieme a sua moglie; restò a parlare amabilmente con lui, camminando per le vie di Varazze. Diffuse l’intervento che segue, dal titolo “Ragione e Fede per un aldilà di luce”, al Palazzetto dello sport, affollato di circa 300 persone. Parlò, come tutti i relatori, per mezz’ora e fu il penultimo della mattinata di sabato, prima dell’intervallo per il pranzo. Destò un interesse così vivo che quasi un centinaio di persone, nonostante che fosse stato il penultimo oratore, andò da lui e iniziò a subissarlo di domande. Dovettero venire gli uscieri, dopo molto tempo, a farli sgomberare, perché dovevano preparare il salone per gl’interventi del pomeriggio . In un pomeriggio, mentre intervenivano altri relatori, RU fu riconosciuto ed avvicinato da una donna, che aveva un problema, di cui voleva parlare con qualcuno. Aveva un figlio morto da non molto e, prendendo alcune sue fotografie, ne aveva trovata una con il volto che s’era tutto macchiato. La mostrò a RU. Chiese proprio a lui che cosa volesse significare, se era un segno. A RU quella foto richiamò, immediatamente, quel dipinto nel quale aveva trovato, solo tre giorni prima, il volto della maestra interamente coperto dalla sporcizia. Dovette riconoscere a se stesso che, a lui, i segni non si presentavano mai isolati, quasi a puntellarsi l’uno con l’altro, affinché fossero presi sul serio.


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Tornato a Milano si recò subito da Don Luigi e volle così approfondire che cosa stesse succedendo, riguardo alla Cantoria della Cassina Ferrara. Il Parroco gli rivelò che si erano dati da fare e avevano dovuto superare molte difficoltà, per far sì che Maria Teresa potesse avere il posto all’asilo. Il motivo valido per ricorrere a lei esisteva: una recente disposizione del Ministro della Pubblica Istruzione, Berlinguer, inseriva nelle scuole materne le due nuove figure di una docente con preparazione in musica ed un’altra in lingue. A quel punto era iniziato il problema di regolarizzare la pratica. Il Comune non era favorevole a completare l’organico con le assunzioni dirette, neppure in presenza di quella nuova linea programmatica del Ministero. Era iniziato, a quel punto, un vero e proprio braccio di ferro tra il Comune e l’Ente Regina Margherita. Alcune delle battute, volate tra le due parti, erano state come questa: “Ma come? Vi lamentate tanto a proposito della Roma ladrona e qui, che avete voi, di quello schieramento, la responsabilità di non imporre alle zone il potere del centro, che cosa volete fare? I ladroni rispetto alle autonomie locali? Ma lo sapete o no che questo Asilo è nato per mano dei privati? Lo sapete o no che sono stati solo questi, aiutati dalla Chiesa, a difendere nel tempo la vita di quest’istituto? Dunque, per qual mai motivo, non dovremmo procedere secondo le intenzioni nostre, della periferia?” Il Comune rispose che l’Ente Morale Regina Margherita non era libero di fare quello che voleva, in fatto di completamento del suo organico. C’era una Convenzione, stipulata negli anni novanta, in cui tutti i posti dovevano essere messi a concorso. Tutto lì? Avrebbero indetto il Concorso, e lo fecero. Insomma Don Luigi poteva vivere sonni tranquilli, perché Maria Teresa avrebbe assunto il suo incarico e avrebbe rispettato l’impegno preso con lui, se – come aveva confidato giorni prima, ad Amodeo – “Fosse stata di parola.” A questo punto RU vide nuovamente il destino che rimetteva, di prepotenza, questa benedetta Maestra del Coro sul suo cammino. Avrebbe riaperto la Cantoria e se la sarebbe trovata nuovamente davanti. Non avendo capito più un accidenti di come lui le dovesse tutto, ostinato nel suo proposito di stare alla larga da lei, in quanto giudicata nemica anziché vera amica, decise allora che non si sarebbe trovato in questa condizione, perché – addirittura! – se ne sarebbe andato via da Saronno. L’occasione gli fu data da Barbara Edyta Gorzawska e Vincenzo Fiorinelli, i suoi vicini cuochi, che richiesero il suo intervento per sistemare, a Cunardo, quella che sarebbe stata la sede della loro futura attività: la Tavernetta Greca.

LA TAVERNERTTA GRECA

Barbara Edyta Gorzawska era, nel 2001, l’amica più cara e più vicina di RU, ormai da tempo. Era stata la prima ad accoglierlo con simpatia, offrendogli un caffè, nel mentre tutti gli altri vicini si erano allarmati, per l’arrivo suo, di sua madre, di Tigre e di Sabato Lingardo, nel settembre del 1997. Era cuoca, in una trattoria caratteristica, che serviva cibi e bevande della Grecia, nel vicino paese di Rovellasca. La loro amicizia si strinse, quando lei ebbe un incidente con la sua vettura, a causa del suo cattivo stato di conservazione. RU la pregò di non offendersi, ma voleva aiutarla a non correre pericoli; accettasse il suo aiuto economico e si comperasse un’automobile meno pericolosa. Le regalò quello che, in quel momento, egli poteva: mezzo milione di lire. Era poco, ma poteva essere una spinta a che trovassero il coraggio, specialmente Vincenzo, a spendere, per evitarle altri pericoli. E servì, infatti Vincenzo non volle essere da meno, e il problema di Barbara fu momentaneamente risolto. Una sera RU fu ospite, del ristorante greco in cui lei lavorava, e ricevette l’accoglienza che si fa solo ad una persona davvero cara: perché erano stati mobilitati tutti, dal titolare all’altro personale, a dare una calorosa accoglienza per il suo amico. Giunsero dalla Polonia, un giorno, il genitori di Barbara, e RU fu al centro dell’interesse del padre, un cattolico molto interessato alle vedute metafisiche di quel vicino di casa della figlia. Non conosceva una parola d’italiano e la conversazione su problemi, già difficili, come quelli, fu una specie di simpatica conferenza, tradotta in simultanea, da una bella interprete bionda giovane ed avvenente. Era così grande la simpatia, che sprizzava dagli occhi di quel polacco, che significava un grande e stupendo biglietto da visita, trasmesso a lui, sull’identità di quel vicino, dalla figlia.


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Un’altra volta era venuta Giusi, la collega di Barbara – colei che definiva la sua più grande amica – ed anche lei aveva, rivolgendosi a RU, quella stessa espressione, dolce e confidente, che era già apparsa nel padre di Barbara: segno, nuovo, di quello stesso stupendo biglietto da visita. “Che peccato!” pensava RU, in cuor suo, “che io non sappia presentarmi agli altri così come fa Barbara!” Non era però del tutto vero, che RU non sapesse farsi riconoscere: alcuni immediatamente notavano, in modo favorevole, la sua diversità, e, ad altri, quella stessa caratteristica faceva sorgere il più grande dei sospetti, come se celasse una trappola. Paola Vecchi, ad esempio, l’aveva immediatamente apprezzato, allo stesso modo, ma non l’aveva molto capito; nel tempo in cui si erano frequentati, solo ora, che RU era a distanza, riusciva a cogliere, finalmente e meglio, quella dimensione diversa, che apparteneva a lui e a pochi altri. Patrizia, l’aveva apprezzato, e moltissimo, e anche così grandemente rispettato che non gli aveva telefonato mai più, tanto era stato il disagio che egli era riuscito a provocare volutamente in lei... Di questo episodio, relativo a Patrizia, RU poi aveva discusso con i suoi amici Barbara e Vincenzo, perché essi avevano sentito, quella sera, gli urli di Patrizia che gridava “Bastardo!” e si erano chiesti “Ma Romano, chi è? Un mandrillo?” Ne avevano riso, parecchie volte e RU aveva spiegato il grandissimo rischio che aveva corso: poteva essere infettato da chissà quale malattia, e poteva addirittura essere accusato d’omicidio, perché, mentre Patrizia era preda di quell’attacco furioso che non tutti i vicini, per fortuna avevano udito, lei era volata dritta dritta per terra, finendo con la testa a due soli centimetri da uno spunzone in ferro che usciva dal muro ed al quale RU assicurava Tigre, quando voleva che stesse al posto suo, mentre egli usciva e doveva lasciarlo solo con la mamma. Una volta, quando ancora non lo assicurava a quello spunzone con il guinzaglio, rientrando, trovò sua madre con i polsi lacerati dai morsi di quel cane che giocava a mordere; ma anche un piccolo contatto lacerava ormai la pelle di Anna e il cane non lo sapeva. Se Patrizia avesse incocciato contro quello spunzone, sarebbe morta, trafitta nel cranio ed avrebbe avuto un bel difendersi, dopo che testimoni avessero riferito delle sue grida. Una sera Barbara invitò nuovamente RU al ristorante greco nel quale lavorava: gli rivelò ch’era contenta, che gli confidava un segreto: presto si sarebbe sposata e lo voleva come testimone, lui e la sua amica, le persone più care che lei aveva. Poi ebbe un grave incidente, mentre entrava nel cortile del numero 12 di Via Larga. Fu investita e dovette portare il collare per tre mesi.

Riprese a lavorare e spesso si faceva accompagnare da RU a Rovellasca. Divenne la confidente di tutte le pene provocate in lui da Maria Teresa. Lei gli diceva ormai già da tempo di cercare di pensare ad altro. E – in quelle occasioni – RU sempre a difenderla, cercando di farle capire come le scelte dell’uomo non sono libere, non sono comandate dall’intelligenza, ma da un destino che non ti concede nessuna autonoma scelta. Che ne sapeva, Barbara, di che cosa fosse veramente nel cuore di quella donna? Che ne sapeva lei della pena che provava per quella “Rottura dell’anima” di cui lei gli aveva parlato e che era il segno di qual fosse la sua vera volontà? Se lei entrava in crisi quando riceveva segni d’affetto, ciò indicava che il suo sentimento era giusto. Quella che non era libera, era la storia della sua vita e lei entrava in crisi proprio avvertendo il contrasto tra le cose desiderate (perché le capiva come bene) e i gesti compiuti (in forza d’un non dovere cedere al sentimento), ma questo solo a causa del suo destino. “Vedi, Barbara. Se io amo una cosa e poi vedo che ne scelgo un’altra, secondo la mia stessa volontà, io mi accorgo che il mio intimo è lacerato, tra quanto mi piace e quanto poi faccio perché in apparenza lo voglio”. Sistemarono a Cunardo la trattoria e l’inaugurarono. RU aveva deciso di trasferire lì la sua Nuova Scuola Italica. A lui, tutto sommato, bastava d’essere collegato ad Internet. Un bel menù offerto agli ospiti e la Tavernetta Greca cominciò a lavorare. Nella sala principale, dipinti sui muri, c’erano due grandi quadri ad olio, realizzati da RU. Quel luogo era in una radura verde, posta fuori l’abitato, proprietà d’Oreste Cazzamali, un signore della stessa età di RU, che aveva per moglie una simpatica magrolina, Daniela Monti. Anche i due coniugi ebbero bisogno di lui e RU tirò fuori, dal suo repertorio, la sua capacità d’essere anche un muratore e lo fece, risolvendo alcuni problemi d’umidità, che avevano nella loro casa in via Milano. Daniela divenne presto amica di RU. All’inizio lo aveva trattato con un certo senso di quasi riverenza, sapendo che era architetto, poi finalmente iniziò a trattarlo come un amico. Passarono ore insieme, mentre egli dipingeva o intonacava le pareti di quella loro casa, e RU cantava o le parlava...di MT. Presto anche in Daniela questo argomento divenne d’una noia mortale. “Sei andato via da Saronno, ma perché continui a restar sempre lì con il pensiero? Basta con questa Maestra del Coro! Non la tollero più e, per favore non parlarmene più!” Chi era andato a Saronno a prelevare RU, perché si trasferisse a Cunardo era stato il... Diavolo. È in questo momento che questa figura si realizza a Cunardo e si impersona in un chitarrista.


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“Dai! Il Diavolo non esiste!” “Oh, esiste. Dio e il Diavolo sono presenti realmente in mezzo agli uomini e sono tutte le normali persone quando sposano l’una o l’altra idea, del bene o del male. Infatti sono “valori” che, nel nostro ambiente, s’impossessano della persone e le rendono, in apparenza, buone o cattive, angeli o diavoli.” Il nome di questo portatore di malefici era Nico. Presto s’impossessò della mente di Vincenzo attraverso vere lusinghe: “Tu sei un vero uomo e Barbara, non lo vedi? È una che beve troppo. Liberati di lei, fa il vero uomo!” Si era accorto che Barbara diffidava molto di lui e cercava d’irretire Vincenzo, essendo convinto del vero ascendente che aveva su di lui. Mosse da questo diabolico e potente agitatore, le acque di quella famiglia cominciarono ad agitarsi, al punto che successero, alla Tavernetta Greca, cose non greche ma Turche. Contrasti tanto grandi che l’armonia, che aveva spinto quei due a realizzare un’opera in comune, presto svanì del tutto. Contribuì a questo anche, e notevolmente, un’altra anima spesso troppo critica nei confronti di Barbara: non era una brava massaia, dormiva fino a mezzogiorno, se la prendeva comoda, non era la persona giusta per Vincenzo, prima si liberava il figlio di lei meglio era. Barbara era invece una creatura eccezionale, buona, virtuosa; con i suoi difetti anche lei, ma tutti li hanno. Uno di questi era anche legato al proposito concreto che avevano creato quel posto e lei si era caricata personalmente di debiti. Barbara era il pezzo più importante che esisteva in quella struttura. Era l’unica che avesse una immagine senza peccato con le Banche, mentre Vincenzo era stato protestato molte volte ed era un soggetto assolutamente inaffidabile. Barbara era l’unica che sapeva cucinare i piatti greci e, da sola, preparava per decine e decine di persone contemporaneamente. RU la guardava ammirato tener a mente tutte le portate che aveva in lavorazione, ciascuna richiedente il suo specifico tempo di cottura. Lei doveva ricordare quando aveva infornato questo, quando aveva padellato quell’altro e quando arrivava l’ora perché fossero cotti a puntino. Barbara era stata chi aveva deciso l’arredamento. RU, il suo amico architetto, quando si era accorto del gusto che ci metteva lei, le aveva lasciato campo libero e aveva dipinto, scrostato, fatto un lavoro stupendamente efficiente, mentre egli sembrava perdere tempo dietro a quei due quadri nella sala principale. Barbara era l’anima di quel luogo. Ma il Diavolo doveva incrinare quell’immagine e Vincenzo, che faceva anch’egli la sua brava parte, servendo ai tavoli, parlando con le persone, intrattenendole e arruffianandole quel tanto da farne amici, confidenti, dunque

avventori, era ammaliato dalla lusinghe di Nico che voleva insegnargli come si dovesse veramente procedere. Con tutto: pubblicità, intrattenimento, strategia. Probabilmente aveva visto la possibilità di porsi come il socio futuro. Nico era venuto a prelevare RU a Saronno perché, saputo quanto ascendente avesse, soprattutto nella considerazione di Barbara, intendeva farselo suo. Aveva trovato subito, però, che non era pane per i suoi denti: come egli era un Diavolaccio (, sì, si sentiva anche un buon Diavolaccio), così RU era un Angelo (e tale si sentiva anch’egli). Così qui inizierà una vera e propria battaglia tra un Demonio e un Angelo. Per farlo suo, il Diavolo, che angelo era già stato, cominciò a puntare anche su RU con la lusinga. Lo chiamava a cantare assieme a lui e gli faceva gustare un po’ di quel successo che egli godeva, ammaliando la sera la gente con le sue diavolerie: faceva il mago, l’esperto astrologo e chiedeva a tutti i commensali di che segno fossero. Poi cominciava a raccomandare di stare attenti perché... Diceva loro che questo non combinava con quello ma solo con quell’altro, quella signora avrebbe dovuto diffidare del marito perché gliene avrebbe fatte di tutti i colori e la gente, a sentir ridere su queste ipotesi cattive, aveva la certa strana sensazione di essere più forte del veleno che egli spandeva a iosa a destra e a sinistra. Secondo le sue profezie, RU non si era trovato bene con la moglie perché Acquario e Scorpione non vanno bene. Per RU ci voleva una donna del segno del Leone: “Non c’è una donna leone per Romano? Bisogna trovare una donna per Romano!” E poi iniziava a cantare e la canzone “Solo”, scritta e musicata da RU, era divenuto un successo che i clienti richiedevano. Simultaneamente, per infiacchire la resistenza dell’angelo, il diavolo aveva cominciato a malignare che quel RU avesse un poco le fattezze del culo. Insomma un’immagine che le donne giudicavano equivoca. Bastava vedere come teneva in mano la sigaretta... e rendeva evidenti altri particolari che, secondo lui, denotavano chiaramente la presenza e l’essenza d’un invertito. In effetti, rispetto a lui, RU era ben invertito, in ogni cosa. Forse chi aveva problemi con il sesso era proprio lui che ne parlava continuamente, che continuava a mettere in evidenza il vero maschio che era presente in Vincenzo. Quelle volte che questi discorsi erano fatti alla presenza di Barbara, lei diceva che era vero tutto il contrario e che quell’aggeggio lì gli serviva da un po’ di tempo solo per pisciare. Il veleno cominciava a fare effetto e RU rivelò a Barbara che se ne sarebbe tornato a Saronno. Lei l’implorò di non lasciarla sola lì. Era solo lui che le dava forza per opporsi ad un accerchiamento che captava sempre più e RU non andò via. Sì, perché RU le voleva bene. RU si rendeva conto come l’amore fosse la forza che imperava nel mondo e come vi fosse solo chi tentava d’opporvisi e di contrastarlo,


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disperatamente perché alla fine avrebbe vinto. E l’amore vero per una donna non era il desiderio del suo corpo, ma quello d’essere per lei uno strumento che realizzasse il suo bene. Era quello che stava facendo lì, da quando Nico era giunto ad avvelenare le pietanze mangiate in quella casa. Prima di lui, RU, Barbara, Vincenzo e un ragazzo che lavava i piatti, erano stati in armonia, avevano cantato assieme, giocato assieme. Dopo l’arrivo del demonio, i valori erano diventati altri, la lite era entrata, laddove c’era prima pace e ciascuno ora badava solo a difendersi. Barbara temeva d’essere cacciata, dopo che aveva assunto personalmente tutti i debiti per quell’impresa. Vincenzo temeva che Barbara lo lasciasse, ormai di punto in bianco. Nico aveva suggerito che Vincenzo assumesse un’altra cuoca, con la scusa che aiutasse Barbara e che poi, appreso il mestiere, la mandasse via, fregandosi di tutti i debiti sulle sue spalle. E Vincenzo credeva che era giusto e ogni giorno in più, che passava, era convinto che doveva mettere un’altra cuoca nelle cucine. Lo proponeva a Barbara, con la scusa che lei era stanca, e che quindi si lasciasse aiutare. Lei, che stupida non era, capiva che la sua posizione diveniva sempre più debole e si aggrappava anche all’alcool, bevendo troppo, per l’angoscia, e creando poi le ragioni per cui Nico lo facesse rilevare. Iniziarono a litigare ad alta voce. Vincenzo entrava in cucina e rimproverava Barbara che faceva brutta figura con i clienti, che aspettavano troppo, che si desse una mossa e prendesse una cuoca che l’aiutasse. Barbara cominciò a mandarlo a fa’ ‘nculo, davanti a tutti. A dirgli di non scassargli più l’esistenza. Una sera il motivo fu un’osservazione di Barbara, ad una cattiveria ricevuta dalla madre di Vincenzo, e quello cominciò a gridare chiedendosi che cosa avesse fatto di male, per essere finito così; poi, preso da una crisi, cadde come fulminato in terra. Tutti si preoccuparono, corse da lui anche Barbara, ma fu trattenuta lontano da Oreste Cazzamali, che cercava di fare lui quanto occorreva per Vincenzo, slacciandogli la camicia, facendolo respirare. Mentre si era così, Barbara udì, al piano di sotto, il pianto d’Alessandro Braida, nipotino di Vincenzo Fiorinelli, un bel bambino di circa tre anni. Lasciò tutti e corse a consolare quel piccolo innocente, che era atterrito da quell’orgia infernale che, alla fine, Nico era riuscito a produrre. RU andò da lui e gli ordinò che era l’ora di finirla, che lui – Nico – era stata la causa di tutto, e che quindi si levasse di torno. Nico si fece vicino al Fiorinelli, che intanto si era ripreso: “Dai, vieni con me, che ti porto a fare un giro e vedrai che ti passa tutto!” e Vincenzo, che aveva toccato il limite profondo, dell’abisso, provocato da lui, rifiutò finalmente il suo aiuto.

L’intervento di RU fu risolutore. Vincenzo cominciò a informarsi su Nico e seppe che chiedeva in modo indiretto le mance ai tavoli in cui cantava, esibendosi con la sua chitarra a 12 corde. Si convinse che egli era la causa di tutto il guazzabuglio che era accaduto, e lo mandò via. Il veleno però ormai era giunto in profondità. Fiorinelli cominciò nuovamente ad inveire contro la sua compagna, non riconoscendo ormai più come fosse stata, e fosse tuttora lei, il suo sostegno, in ogni cosa e in ogni modo. Una sera le gridò di telefonare in Polonia, affinché i suoi se la venissero a prendere. Lei telefonò e, pochi giorni, dopo vennero il cognato di Barbara ed un suo amico, che il cognato si era portato come consigliere. Quando arrivarono e Vincenzo vide davanti la realtà, che avrebbe perso Barbara, cominciò a gridare, domandando loro che cosa fossero andati a fare lì, che Barbara era la sua compagna e non poteva lasciarlo, mettendolo in mezzo ai guai. E – per dare la prova di come lei fosse inaffidabile – tirò fuori una questione che Barbara voleva assolutamente restasse chiusa tra loro due. Vedendosi così tradita, Barbara cadde a terra mezza morta. Sembrava che non respirasse più, ma si riuscì a rianimarla. A quel punto RU andò dal Fiorinelli e gli urlò in faccia: “Guarda idiota che cosa hai fatto con il tuo comportamento imbecille! La vuoi morta?” Vincenzo si fece piccolo, corse da lei, cercò di fare a lei quello che lei aveva cercato di fare a lui, quando le parti erano invertite. Quei due, solo quando si accorgevano, che si stavano uccidendo a vicenda, trovavano ormai la forza per ribellarsi. Barbara fu accompagnata all’ospedale e Vincenzo fu convinto a restare lì, altrimenti, se avesse ripetuto una scena simile a quella di prima, in cui aveva affermato addirittura che avrebbe ucciso quelli che erano venuti a prendersi Barbara, sarebbe stato arrestato. Essendone personalmente convinto anche lui, non volle cacciarsi nei guai e li lasciò andare da soli. Quando, pentitosi, apparve anch’egli a Luino, Barbara, rimessa in sesto, stava già tornandosene in Polonia. Fu in quel momento, in cui RU era stato davvero determinante, a salvare la vita di quei due suoi amici, apparve nuovamente in scena, venendo dall’altro mondo, in cui era finita uccidendosi, Anna Badari. L’altro mondo era solo l’America: era Eloisa, una brasiliana che era l’immagine sputata della Anna giovane. Quando RU la vide, assunta dal Fiorinelli, perché desse una mano a servire, provò la sensazione netta d’essere di fronte alla sua vecchia fiamma rediviva. Come se, ora che poteva, Anna cercasse d’intervenire nella vita di chi così tanto l’aveva amata, per dargli adesso l’aiuto che non era stato possibile durante la sua vita. E – per come andarono le cose – accadrà realmente così, ma non come nei desideri: nel solito modo, tutto ingarbugliato, attraverso il quale, il destino, svolge, a poco a poco, il suo filo, con ordine estremo.


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Romano immediatamente fu attratto da lei. Sentiva la presenza d’Anna rediviva. Anche Eloisa, venuta dall’Altro mondo, aveva bisogno d’aiuto, conoscendo poco l’italiano ed essendo in Europa solo con un permesso di soggiorno come turista, con in mano già il biglietto del ritorno in Brasile. Abitava lontano dalla Tavernetta Greca e bisognava accompagnarla a casa, finita la giornata. RU si propose di farlo e, sentendo una grandissima familiarità con quel volto, accompagnatala a casa, baciò in esso il viso bellissimo d’Anna Badari. Eloisa ci stava. Pranzarono insieme e lei sentiva il fascino di RU. Il giorno dopo egli tornò a Saronno, staccò dal soffitto il ritratto d’Anna Badari, lo incartò e percorse tranquillamente Via Trento, per andare a piedi alla stazione ferroviaria e tornare a Cunardo. RU era sicuro che Maria Teresa fosse al mare e non l’avrebbe incontrata, passando sotto l’abitazione di lei, che non gli aveva permesso più nemmeno di parlarle e l’aveva fatto stare malissimo. Il destino, con lui, era però sempre in agguato: ora che un’altra donna importante stava facendo il suo deciso e forte ingresso nella sua vita, doveva apparirgli di fronte, affinché egli giudicasse a chi più teneva. Così, mentre passava sotto la sua casa, lei, che avrebbe dovuti non esserci, sbucò della finestra, a sbattergli la polvere d’uno zerbino sulla testa. RU ebbe un sussulto: subiva ancora la sua presenza, ma il gesto stesso era eloquente e l’avvertiva che lei gli avrebbe solo concesso la sua polvere. Tornato a Cunardo da Eloisa, RU vide il diavolo metterci nuovamente la coda. Quello di demoniaco, che era sopravvissuto in Vincenzo Fiorinelli, si manifestò in una sorta di gara, imbastita dal titolare della Tavernetta Greca, su chi fosse il più bello del pollaio: gli si pose come rivale. Anche Daniela gli diede una mano, facendo intendere, a modo suo, alla brasiliana che RU era uno splendido chiacchierone, che andava preso non troppo alla lettera. Così Eloisa decise di prendere sul serio il titolare della Tavernetta Greca, da cui sperava un’assunzione e la permanenza in Italia. La brasiliana, avendo saputo come Vincenzo fosse stato piantato dalla sua compagna che era ritornata in Polonia, probabilmente pensò di poterla rimpiazzare. La storia, tra l’italiano Vincenzo Fiorinelli e la polacca Barbara Edyta Gorzawska, era iniziata proprio in quel modo e, probabilmente, si sarebbe potuta ripetere. RU molto s’immalinconì, per quell’idiota del suo amico che, invece di far di tutto per far tornare la sua compagna cui doveva ogni cosa, si metteva a fargli concorrenza sleale. Vincenzo sapeva quanto bisogno avesse RU di riscattarsi dalla dipendenza del fascino irresistibile della sua Maestra del Coro. Un giorno Fiorinelli l’accompagnò a Milano, per le pratiche necessarie a lei e, probabilmente s’approfittò del bisogno di lei, per andarci a letto. Era ormai evidente che Eloisa aveva preso nettamente le distanze da RU, a favore di quel Vincenzo Fiorinelli, che si comportava proprio come un idiota, non comprendendo quanto bisogno avesse, egli, di Barbara e non di questa donna venuta dall’altro mondo.

Vincenzo che, nello stesso tempo, meno idiota di quanto sembrava, però impostore ed profittatore, aveva cominciato a fare telefonate sempre più accalorate in Polonia, perché Barbara tornasse. La cucina greca era diventata una cosa che non aveva più niente di quella di prima e se le situazioni fossero perdurate oltre l’ammissibile, l’azienda sarebbe finita male, ed anche Barbara non avrebbe avuto più modo d’uscire dai debiti, affrontati per la Tavernetta Greca di Vincenzo Fiorinelli. La stessa Barbara telefonava spesso, con la scusa d’informarsi di Salvino, il suo gatto certosino che aveva lasciato lì. Quell’animale, appena era sparita lei, era scomparso anche lui e, anche se a lungo cercato, non era più stato ritrovato. Questa verità non era fatta sapere alla padrona del bel micio grigio, per non fare inutilmente soffrire lei, che già aveva troppo di cui patire, per motivi ben più importanti. RU, da quando Nico era stato allontanato e aveva portato via anche le sue canzoni, aveva trasferito, in quel luogo, la sua pianola e spesso cantava lui, sollecitato dal suo estimatore, Silvano Braida, cognato di Vincenzo e papà d’Alessandro, quel bambino che aveva pianto, quando il Fiorinelli aveva avuto il suo malore. In quei giorni, RU si esibiva sulle basi musicali, con brani di Sergio Endrigo, Modugno, Renato Carosone ed altri della serie degli even green, dei cantanti intramontabili. Talora lo faceva anche durante le cene e una volta davanti ad una donna che si complimentò con lui, autorevolmente, essendo una Maestra di musica. “Lo dica al titolare, che afferma che io sono stonato!” era stata la risposta di RU . “Davvero?” Sì, era così. Vincenzo, alquanto stonato, accusava l’amico d’esserlo lui. Talora cantava egli stesso, facendo Karaoke, quando non c’erano ancora o non più gli avventori... ed Eloisa l’applaudiva in modo vistoso. Questa ragazza – uscendo da una sorta di ballottaggio di cui avvertiva d’essere al centro – si era fatta alla fine un amico per conto suo, e alla fine aveva cominciato a vivere con lui. Lei cercava in ogni modo di risolvere la sua situazione, prima che le scadesse il termine della fine d’agosto, data del biglietto del ritorno. Un giorno successe che questo ragazzo dovesse partire e che lei non aveva dove poter dormire. Fiorinelli domandò allora ai proprietari di quel luogo, i Cazzamali, se ospitavano la ragazza, così come avevano accolto a casa loro, per qualche giorno, Barbara, dopo che non aveva più voluto dormire con quel Vincenzo che non riconosceva più come compagno. Oreste rispose di no, che Barbara era un’amica, mentre la brasiliana era solo una cameriera: la sua casa non era un albergo per i camerieri o per chi altro fosse proposto come ospite.


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Daniela Monti, la moglie d’Oreste Cazzamali, seguiva tutte queste vicissitudini allarmata, chiedendo ogni giorno che cosa avesse fatto “Il pazzo”. Nel tempo che Romano era stato lì, la proprietaria di quel luogo aveva anche cercato di procurargli una compagna, che lei chiamava la paesana, come se a Cunardo non lo fossero tutti. Quando Barbara Edyta aveva saputo della cosa ne aveva riso. RU, saputolo da Daniela, l’aveva fatta venire un giorno in piscina, di cui egli era divenuto il responsabile, amatissimo da tutti i bambini cui insegnava a nuotare. Le aveva scientemente “smontato” ogni proposito riguardante lui, ponendosi come un tale presuntuoso, da disamorare immediatamente chiunque lo avesse voluto. Era la sua tecnica, vincente, contro le persone di cui non gl’interessavano le attenzioni. Quel giorno che Eloisa restò senza letto, RU, temendo che il giaciglio lo avesse, alla fine, da Vincenzo, andò da lei e cercò di donarle 300.000 lire, con le quali potesse pagarsi un albergo. Lei respinse cortesemente l’aiuto, rispondendoli: “Grazie, ma lui non vuole.” Il Nostro Amodeo ci restò malissimo: a quanto pare adesso Vincenzo le aveva anche imposto di non accettare aiuti da lui, conoscendo questa caratteristica del suo rivale. RU aveva appena intuito che stava per arrivare Barbara, a sorpresa: dal fatto che, all’improvviso, era ricomparso il gatto Salvino. Questa certezza l’aveva in parte tranquillizzato; infatti, la ricomparsa di Barbara poteva consentirle di difendersi, in persona, dalle macchinazioni d’un Vincenzo divenuto “il pazzo”. Andò così, quella sera, a Ponte Tresa, con Oreste, Daniela e la paesana, che era rientrata nei ranghi d’una amicizia che più non l’infastidiva. I quattro stettero anche bene insieme, cantarono, scherzarono. La paesana, tutto sommato, era anche una donna che sapeva essere simpatica, con quella caratteristica buffa di pronunziare una “sc” nello stesso modo del personaggio d’un cartone animato: Bip Bip il coyote. Tornati al ristorante, RU accese il suo strumento e cominciò a cantare Un uomo in frac, di Modugno. Uscì “il pazzo” e l’apostrofò su come si fosse permesso, perché quel posto era il suo. Allora RU gli si parò innanzi e insinuò: “Sei tu che non vuoi ch’Eloisa accetti denaro da me?” “Oh, ma qui sono diventati tutti pazzi! Ma perché non mi chiedi se io ho scopato con lei? Senti Romano: va’ via!” RU obbedì all’istante e raggiunse l’auto per andar via. Silvano Braida cercò di convincerlo a restare: non voleva che finisse in quel modo. Arrivò Vincenzo, con la brasiliana: “Digli se t’ho impedito di prendere danaro!”

“No! Non è stato lui ad impedirmi di prendere quel denaro!” “OK!” RU salì in macchina e se ne tornò a Saronno. Seppe, il giorno dopo, per telefono, da Daniela, che Eloisa era andata via da quella sera e che era arrivata a sorpresa Barbara dalla Polonia, così come aveva preannunciato ad Amodeo il gatto Salvino, attaccatissimo a lei che l’aveva accolto cucciolo in casa sua a Saronno. Alla notizia, RU fu contento per Barbara: quello che era successo aveva sgomberato il campo dalla sua rivale. Non era però contento per la brasiliana Eloisa, che aveva perso il suo posto di lavoro e l’occasione – forse ultima – di fermarsi in Italia. Chiese pertanto a Daniela se si sapesse dove fosse andata, ma ricevette la notizia che s’era come dissolta nel nulla. RU non ne fu affatto contento. Ritornò subito a Cunardo, solo per cercarla; non sarebbe nemmeno passato per La Tavernetta Greca. Non sapeva in alcun modo dove cercarla, ma avrebbe indagato, a cominciare da quel posto in cui, nei primi tempi, l’aveva accompagnata. Appena RU scese a Cunardo, dalla corriera che veniva da Varese, s’imbatté per caso – ma come è strano, vero, questo caso? – in Eloisa che s’accingeva a salire proprio su quella, per andare a Luino. Risalì immediatamente sulla corriera e accompagnò nel suo viaggio la brasiliana. Ne volle sapere di più, sul rifiuto fatto da lei ad accettare il suo denaro. Chi era questo “lui” che non voleva che RU l’aiutasse? Eloisa gli assicurò che non aveva detto quello che egli aveva capito e, ragionandoci su, arrivarono alla conclusione che lei doveva aver detto, nel suo stentato italiano: “Grazie, ma ‘j non vuole’!” ossia ‘io non voglio’... Ormai era fatta. L’uomo le domandò che cosa le avesse offerto il suo rivale, Vincenzo, per assicurarsi che non fosse stata messa da parte solo per finta e tenuta buona, come una provvidenziale ruota di scorta. Lei riferì che le aveva promesso che avrebbe fatto come aveva fatto con Barbara: l’avrebbe aiutata a prendere la cittadinanza italiana e ci sperava. “Stai attenta! Non credergli! – rivelò RU – Non è possibile trasformare un permesso turistico, in uno di lavoro, mi sono informato. Per restare in Italia, puoi trasformarlo solo in un matrimonio: mi sposi?” Lei lo guardò e sorrise. Capì come, per aiutarla nonostante il tradimento che gli aveva fatto, l’avrebbe perfino sposata. “Oh, capiscimi bene! Un matrimonio per finta. Io ho un cuore che non è libero. Ad un certo punto mi ero illuso che me lo potessi liberare tu, venuta magicamente e finalmente a sposarmi, dall’altro mondo reale: il Brasile. Ma in te avrei sposato Anna Badari e, ancora una volta, non era questo il mio destino” Scesero a Luino, entrarono in un bar e lei osservò: “Stai bene con i capelli tinti. Te l’hanno colorati bene. Lo sai che sono un’esperta. Stai bene così: il tuo volto è ancora giovane e adesso sembra davvero che tu abbia soltanto quarant’anni.”


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Fu con questa piccola bugia – gliene davano 50, nonostante n’avesse 63 – e il numero di telefono nella borsetta, che la perfetta sosia del suo grande Amore, uscì dalla sua vita. Infatti, anche se poteva divenire cittadina italiana sposandolo, si sentiva troppo onesta per farlo come ripiego: non lo amava e non voleva nemmeno giocare con lui, forte di quell’aspetto che aveva ed era davvero il volto di un'altra, come aveva visto bene dal ritratto, che aveva scambiato veramente per il suo. Fu così che Anna Badari in modo del tutto straordinario – ebbe il terzo invito, dal suo RU, a divenire sua moglie: l’ultimo avuto perfino dopo d’essere morta. RU se ne tornò a Saronno il 26 agosto e trovò una sorpresa: Giovanni Mammone gli aveva telefonato e chiedeva d’essere richiamato. Romano diffidava di Mammona, ma questo era un buon Diavolo al maschile, di nome Giovanni, il suo protettore, che era suo Nonno e anche il Battista, che introduceva a Gesù. “Amodeo, si ricorda di me?” “E come no? E’ il titolare dell’agenzia di pubblicità della Settimana!”. “Stiamo aprendo un nuovo settimanale e ci ricordiamo di lei, della sua tenacia e della sua fede. Cerchiamo proprio una persona così, che conosca i problemi della Chiesa e sia anche libera di non soggiacere alla sua autorità, quando non è il caso. Ricordo come lei si è battuto, per una causa che intendeva giusta. È disposto a partecipare all’avventura?” “Certamente! Ho passato una vita a occuparmi di giornalismo.” “Bene, verso i primi di settembre passi in via Leopardi, dove era venuto; si ricorda? Ci avverta, prima di farlo e, giunto lì, citofoni alla Promotel”. Giovanni Mammone fu un altro dei modi usati dal Destino per trattenere RU a Saronno. Il suo cognome richiamava Mammona, la dea del denaro e dell’abbondanza. Gli telefonò anche Barbara Edyta, da Cunardo: “Come stai? Perché sei andato via? Che faccio io adesso qui?” “Cara mia, Vincenzo mi ha cacciato! Senti, dammi retta: porta pazienza e non discutere. Se ti dice qualcosa, non ribattere! Vedrai che tutto si sistemerà! Forse se avete meno pubblico, meno spettatori, Vincenzo la smette di dare spettacolo!” “Vienimi a trovare! Ti aspetto, ti voglio bene.” “Romano, torna a Cunardo!” aggiunse Silvano Prada. “I bambini chiedono di te in piscina!” gli faceva intanto sapere Daniela, che lo teneva informato di tutte le gesta del “pazzo”.

MARIA GRAZIA ARPINO. Mancava una settimana all’appuntamento fissatogli da Mammone e RU si chiese come passare l’ultima settimana di agosto. Così si ricordò di quell’invito che aveva ricevuto da una studiosa che abitava in riva al mare a Montesilvano e l’aveva invitato a trascorrere qualche tempo a casa sua, per confrontare con lui i dati di alcune sue ricerche sui tempi di gravidanza. La Arpino accettò che passasse la settimana da lei; che partisse subito. Così il 26 agosto del 2001 RU salì sul treno Eurostar, per scendere a Pescara e poi prendere da lì un mezzo pubblico per Montesilvano. Lei gli aveva telefonato circa sei mesi prima: aveva avuto il suo numero di telefono dalla Signora Moneta, dell’Arisad. All’origine del suo bisogno c’era stato un consiglio dato a lei da Padre Magni: “C’è a Saronno un architetto che ha la sua stessa passione per i numeri. Credo che se lo rintraccia scoprirete d’avere molte cose in comune!” La prima telefonata che lei gli aveva fatto era durata molto. Si dichiarò una ricercatrice sulla genetica umana che, facendo calcoli in base a sue tabelle, arrivava a conoscere e definire molte caratteristiche somatiche, mentali e comportamentali che sarebbero apparse in un nascituro. RU le aveva parlato a sua volta dei suoi interessi e l’aveva entusiasmata. Alla prima chiamata ne erano seguite altre, sempre più lunghe. Una volta telefonò da Napoli, perché suo nipote voleva conoscere quale fosse il suo sito su Internet. Così seppe che il suo www.new-is.com “era in vacanza”, cioè non risultava più presente sulla rete. Informatosi da Salvatore Mocciaro, seppe che il server era divenuto insolvente con l’America e che tutta una serie, anche degli altri siti di Salvatore, erano nelle stesse condizioni di vacanza. “Comunque quando vuoi, possiamo appoggiare il tuo sito su un altro Server” RU si era preso allora qualche tempo, perché stava rivedendo tutta l’impostazione della sua presentazione, dopo che quella precedente e mirata al concorso della Pirelli – Award 2000 – aveva avuto il suo esito: era stato segnalato e premiato tra i primi 100, ma non uno dei tre vincitori. RU aveva fatto quella telefonata all’Arpino poiché prima d’agosto, lei gli aveva telefonato, invitandolo. Romano l’aveva ringraziata, ma non poteva per gli impegni presi a Cunardo: di aver cura della piscina dei Cazzamali, limitrofa alla


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Tavernetta Greca dei suoi amici e affidata a Vincenzo Fiorinelli. Risoltosi tale incarico nel modo raccontato – con una “cacciata” vera e propria – quando RU le telefonò le disse di essersi liberato ... ammesso che l’invito fosse ancora valido. “Maria Grazia, è quasi l’una, se parto da Milano tra un paio d’ore e arrivo stasera da te, sei ancora disposta ad ospitarmi, per una settimana?” “Vieni subito! T’aspetto. Alla stazione di Pescara prendi il 2 tagliato e scendi in Via Aldo Moro. Fatti spiegare dov’è la zona dell’albergo Mille luci. Io ti aspetto a quella fermata.” RU non sapeva come lei fosse d’aspetto, né quanti anni avesse, ma – per come ragionava con la testa – le era piaciuta fin da subito ed ora non si aspettava brutte sorprese. Del resto andava a conoscerla e non certo... a sposarla. Sapeva solo che era nubile, che viveva sola, che passava il tempo nelle sue ricerche e – come aveva anche capito – molte ore al telefono. Scese dall’autobus dove doveva e vide una signora grassoccia, con i capelli bianchi e tagliati alla maschietta, un volto sorridente e gioviale, molto più grazioso del previsto. Provò l’immediata sensazione d’averlo già visto e gli sembrò che somigliasse notevolmente alla zia Nicolina, la sorella di sua madre. La statura era quella media delle donne meridionali, la stessa taglia di sua madre, prima che perdesse, con l’età, i suoi 10 cm e divenisse alta metri 1,45. Si presero sotto braccetto e lei gli fece da guida, fino al settimo piano del palazzo nel lungomare, in cui viveva. Parlarono, visto che finalmente s’incontravano di persona, delle loro esperienze, guardandosi finalmente negli occhi, osservando le espressioni del viso. RU si accorse, immediatamente, che quella donna stava ancora cercando un compagno, la persona che fosse giusta per lei. Seppe da Maria Grazia, che, al contrario di lui, la vita di lei era stata semplice e lineare e che – per quanto lei stessa avesse avuto nella sua esperienza affetti importanti – era in una situazione ben differente dalla sua. MG gli mostrò dove lui avrebbe dormito: nella sua stanza da letto che lei gli cedeva, mentre lei sarebbe andata a coricarsi nel lettino che aveva appositamente istallato in soggiorno. RU cercò d’opporsi allo sfratto di lei dal suo letto: spettava a lui quel lettino. Lei non volle sentire ragioni, così, dopo d’avergli offerto una cena che giustificò improvvisata – perché, così, di Domenica, non aveva avuto altro a disposizione che quanto era nel suo frigorifero – gli mostrò l’asciugamano, l’accappatoio, le pantofole

che gli aveva destinate e lo mise nel suo letto. Di tutto il resto avrebbero avuto tempo per parlarne l’indomani. La mattina dopo lei bussò con garbo ed entrò con un vassoio con su una tazzina di caffè e la zuccheriera: “Se vuoi fare colazione, è tutto pronto di là. Puoi farti, nel frattempo, una bella doccia e raderti: ho le lamette usa e getta e una è per te sul lavandino. Romano, dopo un tempo così lungo che addirittura sfuggiva alla sua memoria, si ritrovò a sperimentare l’accoglienza che era in uso una volta, tra le persone di buona famiglia e piene di premura e di riguardi, nel Sud dell’Italia, in cui era vissuto bambino e ragazzo. Maria Grazia era un’ospite favolosa. Più la guardava, più le sembrava una della razza della sua famiglia materna. “Da dove vieni?” “Dalle parti di Salerno, precisamente Minori, nella Costiera amalfitana”. Dunque non si era sbagliato: per il lato materno erano della stessa razza. Quello che parve intollerabile, fin dal secondo giorno, il 27 agosto, a RU, fu che lei dovesse dormire in soggiorno, scomoda, e lui come un riverito pascià, in quel grosso lettone dal quale la sua presenza d’ospite l’aveva sfrattata. Allora l’invitò a stare con lui, se non altro dopo il pranzo del mezzogiorno: giungeva l’ora della pennichella e nel soggiorno il letto non era approntato. Vide Maria Grazia messa in crisi, da quel semplice invito a fruire della sua camera. Le suggerì che erano ormai adulti, tutti e due, e di non temere: non le sarebbe saltato addosso, non avrebbe forzato in alcun modo la sua libertà. L’espresse con un tono quasi offeso e poi, avendone voglia, avendo sonno, andò a sdraiarsi in quel letto, per conto suo. La stessa scena si ripeté il 28, ma, a differenza del dì prima, una timida e imbarazzata 67enne – quattro anni in più dei suoi – entrò chiedendo permesso, nella sua camera, e si accovacciò nella parte del letto libera, porgendogli le spalle. Iniziarono a parlare, a raccontarsi dei loro sogni. Fu RU che liberò la sua fantasia: le rivelò che cosa credesse fosse la vita, il suo essere più profondo, quanta speranza si dovesse avere tutti, ma non vuota, anzi poggiata sulla certezza di ogni esperienza dell’uomo. “Dio – un nome che per molti significa prepotenza, al punto che è poi inviso – si è posto in verità tutto al servizio delle sue creature! Dio è la Forza buona che fa esistere ogni cosa, e nella quale la stessa fisica crede, lo chiama energia eterna, lo intende come il divenire certo delle cose, l’ avanzamento sicuro del tempo.” Dio non era niente di ciò, ma la sua essenza causante, il puro Creatore. Ebbene questa Forza e questo Principio Essenziale, su cui nessuno ha nulla da obiettare (perché si vede che esiste, la si riscopre, sempre fedele, fino al punto che se ne possono costruire le leggi), ama l’uomo, perché ne ha determinato una essenza in grado di occupare il valore medio di ogni cosa.


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È in questo prevalere dell’equilibrio, come la forza assoluta e finale di ogni iniziale sommossa, che l’uomo deve trovare la sua speranza finale: di superare il limite della sua persona, attraverso l’apporto di tutte le altre. “Maria Grazia, io sento, molte volte, fisicamente, realmente, l’amore di Dio su di me. Lo sento anche in questo momento, in cui sono qui con te.” E RU le prese piano, piano, la mano, restando a lungo così, con lei che quasi tremava. Cominciò allora a farle la corte, quasi per gioco, come per dimostrarle, attraverso la leggerezza dell’essere, come non ci fosse nulla di temibile o di terribile, nell’avere tanta fiducia, l’uno nell’altra, da abbracciare ciascuno la natura e l’altrui realtà. Divenne dolce, tenero come sentiva di voler esser, e lei reagiva come egli s’aspettava; la stava trattando come sarebbe piaciuto a lui d’essere benvoluto, amato, rispettato, avvicinato, preso. RU, per la prima volta in vita sua, vide se stesso, mentre iniziava, con un altro essere delicato, una storia d’amore pulito e bello... come col suo stesso spirito. Quando la guardò, in un momento in cui le stava ora carezzando il volto, vide all’improvviso che l’aveva molto simile, nell’espressione, a quello della MT Mazzola che aveva amato, e quando fu lei che cominciò a parlargli, con altrettanta dolcezza, si accorse che la sua voce aveva assunto, ora, la cadenza esatta e la natura di quella d’Anna Badari. Era lei, era l’eterno amore della sua vita, che riemergeva attraverso questa donna del sud, con la sua spiccata cadenza mantovana... di Anna. Glielo disse, e lei gli rispose che lo sapeva, che lei era una medium. Si esprimeva attraverso la scrittura, ma ora sapeva da lui che, tra le anime della vita c’era una tale fusione. Solo in quel momento, nella distinzione personale, lei sentiva ciò che la gente normale non avvertiva più, avendo perso questo legame, troppo distratta dall’ingombro che l’io occupa, nell’ecosistema dell’esistenza. “Siamo tutti davvero una cosa sola e il nostro peccato attuale, quello più grande, è proprio di non crederci”, convenne Maria Grazia. E RU: “L’uomo, non accorgendosene, mette su barriere tra le persone, e crede che sia lecito che il diritto del singolo debba consentire zone esclusive, la cosiddetta privacy. Sì, essa è necessaria e valida, quando l’uomo davvero aggredisce e invade con la violenza, ma il privato è anche il maggiore ostacolo a che i fratelli s’incontrino, che gli amici sia abbraccino. Vedi, Maria Grazia, io sono qui ora con te, ma il mio cuore non è solo con te. Io vorrei essere così con tutti. Quando vedo ogni persona a me piacerebbe abbattere ogni distanza. Io amo che mi si guardi con affetto, fiducia e speranza. Perché tante persone diffidano? Che cosa c’è di meglio, al mondo, dell’accorgersi di te e del gesto reale, compiuto perché tu sia felice? Io ho tanto cercato, sperato, che una donna in particolare riuscisse a potere riscoprire quest’aspetto sublime della vita. Non ci sono mai riuscito. Proprio io, che non mi arrendo mai, ho dovuto porre una barriera, a ogni tentativo di superare quella distanza, che non è stata voluta rimuovere. Tu sai di quale donna io parlo.”

“Sì, è la tua Maestra del Coro.” “Ebbene io sento – lo sento davvero – che anche lei, nonostante lei, in questo momento è qui assieme a noi, senza nessuna rivalità, nessuno scandalo. Gesù lo disse che in Paradiso non si prende moglie né ci si sposa, ma è perché lì si è già tutti così fusi, in un tutt’uno, che è realizzato già il sogno di tutti gli amanti. Questa è la tensione che esiste nell’amore: vincere talmente la distanza, tanto che i cuori e le anime si fondano assieme. Oggi non è possibile. Nemmeno Gesù, nella sua ostia, può dolcemente violentare la soggettività, al punto che si fonda con Lui, in Lui e per Lui. Ma è una condizione che supereremo. Questa è la mia certezza, perché io la sento già esistere. Quando si configurano condizioni mai provate, occorre uno sforzo per capirle, ma quando si fa un’esperienza reale, come la stai facendo tu, si è aiutati, e molto, da Dio, perché non fai più teorie, ma reali esperienze. Credimi: non riesco a sentire nemici coloro che mi trattano da nemico. Accade non perch’io sia buono, ma poiché prevedo, presagisco già la condizione finale, definitiva in quella precaria di adesso. Noi oggi, non riuscendo a percepire l’insieme, attiviamo una velocissima perlustrazione solo di uno dei due lati dell’esistenza; ma c’è anche quello opposto in cui tutto esiste ed è esattamente il valore reciproco di quello di adesso. Chi qui ti odia, anche per tutta la nostra breve vita, nell’altro suo lato eterno sarà chi ti amerà di più se oggi avrai resistito a ben volerla, nonostante l’odio mostrato a te. Mi accorgo anche che io stesso non esisto come un Romano solo, ma come tanti, uno attaccato e sostituito dall’altro, nella percezione e nell’esperienza. Così giudico d’essere molteplice, un solo io ma che diventa un altro e un altro ancora, e – così facendo – esiste e vive. Questa vita, così movimentata, è bella come una frase musicale, che vale solo nell’insieme delle sue note. Io – cara Maria Grazia – sono come una canzoncina leggera, e tu pure! Gli altri invece intendono se stessi come dei mostri sacri, inavvicinabili; si escludono da se stessi, e spesso si rivestono di orpelli, si abbelliscono nel fisico, e rendono impenetrabile l’animo. Che peccato che sia così!” “Stai pensando ancora alla tua Matusalemme!” “E’ più forte di me. Non so sentirla fuori della mia vita. È qui, nella mia testa, detta i tempi della mia giornata, proprio come una Maestra di musica. Ma poi mi accorgo che è una forza buona, che non mi vuole, in alcun modo, per sé e, così facendo, mi permette benissimo di essere ora... qui con te. E sono realmente, concretamente qui con te, credimi. Lei non è un ostacolo: la sento come un principio vitale per la mia anima.” “Ti capisco. Io sento così in me gli spiriti guida, quando mi danno i messaggi. Sono presenti, ma non m’invadono, se non quando io stessa gli do spazio, e consento ch’essi agiscano, secondo le loro intenzioni.”


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“La vita è veramente un gioco di chiaroscuri. È così anche nella musica. Altrimenti tutto sarebbe monotono. Ebbene Dio ha fatto un progetto meraviglioso e bello; ed ogni vita io la sento davvero come un canto. La vita, con me, è stata estremamente buona. Io, se l’analizzo, scopro che mi ha concesso tutto. Non c’è stata emozione dell’arte che io non abbia provato: pittura, scultura, architettura, letteratura, musica, canto. Che io sia giunto, come buon ultimo, ad un Coro della Chiesa, non credo che sia stato per caso: il canto che si farà in Paradiso sarà il Coro, tra tutte le varie singole canzoncine, come la mia e la tua. Credo che saranno tutte queste partiture personali, a formare il coro più bello e grandioso che possa esistere. Finalizzato sai a chi? All’Armonia in se stessa, quella Suprema, che ne emergerà e che sarà Dio. Ogni linea melodica viaggia per conto suo, ma esiste il Grande Maestro, che fa’ ‘sì, che tutte armonizzino alla perfezione. E lo compie quasi in modo automatico, osservabile attraverso le leggi oggettive della fisica. Questo grande e immenso maestro è l’Equilibrio. Come nel mondo fisico esso è la legge profonda, così ci sarà il perfetto bilanciamento tra le differenti melodie della vita. Non può essere che così, se Dio è uno e si esprime attraverso l’equilibrio e l’ecosistema della natura. Be’, questa natura, con me, è stata di una tale bontà, che mi ha concesso mezzi così abbondanti che nessuno al mondo credo ha ne ha mai avuto tanti. Dell’arte ti ho già parlato. Ma un poeta può essere come il Leopardi, che amo per quell’estremo bisogno che ha la sua anima, e che fu un gobbetto... Io invece – mi vedi – sono il ritratto della salute, ho praticato tutti gli sport e in quasi tutti sono stato tra i primi e per fortuna mia mai in uno di essi il primo! Una immensa fortuna che mi ha impedito di restare imprigionato da quel primato, ed ha favorito il mio equilibrio tra le parti, in un valore medio, ma non mediocre. L’esperienza mi ha portato a scoprire che anche le regole devono valere fino ad un certo punto. Oltre non sei più libero. Insomma ‘Dio è padrone del Sabato’. Sento di avere debiti immensi, assunti in cambio dei talenti dati a me, così in abbondanza; e m’accorgo che Dio mi mette anche nella condizione di non gasarmi mai... e così mi umilia. Matusalemme è la mia ultima umiliazione. Ne ho avute tutta una serie e sempre più profonde: da bambino, da ragazzo, e da adulto. Sono state le esperienze che mi hanno arricchito di più, e che mi han permesso di accorgermi che tutto ci è donato. E poi i miracoli: io li ho davvero visti! li vedo perennemente accadere a me. Tu stessa, Maria Grazia, sei un miracolo. Mi sei stata messa qui, perché tu servi alla mia vita e io alla tua. Ma non solo noi, per noi due. Io, credo ... non posso appartenere a nessuno. Non dovevo neppure esserci! Dovevo esser morto a 2 anni!

Io per primo sono un miracolo di sopravvivenza voluto dalla Madonna, per la maggior gloria di Dio. Questo però vale per tutti. Ciascuno è un miracolo e non lo sa! Non ci crede! Reputa che la sua ricchezza è il suo io e non si accorge, invece, che è il dono continuo che riceve, attimo dopo attimo da Dio, che gli dà nuova vita in ogni istante. Però ognuno è la sua canzoncina. La mia l’ha voluta in un modo speciale, unici. Se ci pensi, un dono così non l’ha avuto mai nessuno. I filosofi si sono dannati l’anima a cercare di scoprire le relazioni che esistono tra le cose, senza mai arrivare a un risultato definitivo... ed ecco che salto fuori io, che so inglobarle tutte in un sistema di riferimento totale, Assoluto! Se non sapessi ch’è vero e udissi uno che me lo dice di sé, io lo direi, se non un pazzo, per lo meno un montato. Ma non sono né l’uno né l’altro. Il mio sistema assoluto regge, regge proprio ed è il punto di arrivo di tutta la ricerca umana. A questo Dio mi ha predestinato ed è una cosa senza precedenti. Ogni – bella o brutta, più o meno gradevole – ha esercitato su di me una spinta enorme, sempre e solo in questa direzione che porta a Dio, all’Assoluto. Prendi Matusalemme. Lei ha agito secondo i suoi fini e, ti assicuro, da come si è comportata con me, tutto è possibile dire, ma non che mi voglia bene. Questa donna non mi vuole bene! È un’entità cattiva, e lo fa di proposito! Ebbene, con tutta la sua cattiveria (presunta o no che sia) è il più grande stimolo al bene che io abbia mai avuto in vita mia. Il più grande, perché poi aggrega anche gli altri contro di me. E riesce a coinvolgere amici, trasformandomeli in nemici. Anche la Chiesa, probabilmente, riuscirà a mettermi contro. Eppure, te lo dico con sicurezza: tutto questo, per me, sarà il maggior bene che io ne avrò, perché non soccomberò a questa strategia, che sembra fatta da un diavolo, ma è invece fatta dal Dio stesso dell’amore. Infatti, credimi: tutto ciò a me fa bene! Ad ogni tentativo di ferirmi, io sento il bisogno del bene, e tutto ciò diventa per me solo una lezione e un insegnamento. Mi sento a scuola e io l’ho eletta – e gliel’ho anche detto – a Maestra della mia vita, per l’ascendente che ha nel rendermi una sorta di eroe del bene.” Lei ascolto tutto, pazientemente, poi rispose: “T’ho atteso tutta la vita e non credevo che, ormai, saresti arrivato più...”, gli rivelò, mentre gli passava le mani nei capelli ed era adesso lei stessa che lo amava, sorpresa – lei – da se stessa. Nel resto di quella settimana Maria Grazia abbatté ogni riserbo. Da troppo tempo non aveva amato più nessuno, da quando una brutta esperienza aveva travolto anche lei. RU osservò come combinassero bene insieme e come lei sembrasse fatta apposta per lui; d’un tratto, colpito da un sospetto, le domandò: “Di che segno sei?”


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“Leone”. Eccola la donna leone che quel diavolaccio di Nico gli aveva preannunciato non più d’un mese prima! Ecco anche il senso di quello che gli era accaduto in quel viaggio, in cui, ancora una volta, il Maligno aveva giocato a rimpiattino, con la storia della sua vita, stavolta nei panni di quell’uomo divenuto, da saggio,all’improvviso un libertino! “Non ti prometto niente Maria Grazia – le assicurò RU, che voleva liberare i suoi gesti da ogni possibile sporcizia – Tu mi vedi come sono e puoi giudicare, ma ho una vita di cui non mi so padrone né libero. Non conosco neppure i margini dell’autonomia del mio cuore. Sono onesto con te. Avendo avvertito che lo stavi aspettando da sempre,eccomi: si, ti amo, ma non so se sono io il tuo amore, anche perché, dai segni che io ho, forse non mi resteranno che tre anni di vita.” Si spaventò, volle sapere di che parlasse e RU le spiegò dei segni ch’egli leggeva con chiarezza nel suo destino. C’era una data nel suo futuro e quando avrebbe raggiunto il doppio degli anni in cui morì Gesù forse sarebbe morto lui pure... ma forse solo per il mondo. “Che segni?” domandò con interesse... Maria Grazia era una veggente. Aveva contattato Padre Magni in un convegno al quale avevano partecipato molti sensitivi: lei era una di loro e scriveva i messaggi, dei morti per i vivi. Lo faceva senza essere pagata e aveva molto tempo occupato, ogni giorno, in questa pratica, molto apprezzata, ma che le portava via molta energia. RU le spiegò gl’indizi e lei non ne rise. Avrebbero visto insieme, se questo era il destino per loro. Per il momento erano lì, ora più ricchi, infinitamente più ricchi di prima in qualsiasi modo sarebbero andate le cose: due anime gemelle si erano incontrate. Era vero ed era stato un evento così pulito, così soave e tenero, che non era esistita lussuria, ma affetto; non desiderio di possesso, ma unicamente quello d’offrire all’altro niente più e di diverso che il puro dono di sé. Maria Grazia volle andare a rileggere gli ultimi messaggi che le erano stati dettati, prima che RU andasse da lei il 26 agosto, facendole la sorpresa. In quelle scritture dettate a lei, ogni volta, alla fine, le persone che l’avevano scelta come uno strumento di comunicazione, lasciavano scritto qualcosa anche per lei, come ringraziamento. Maria Grazia non sapeva che cosa le fosse stato dettato nei giorni prima che RU andasse da lei, ignorava il contenuto dei gesti della sua stessa mano. Così lesse che, nei giorni precedenti il 26 agosto, era stato annunciato un grandissimo cambiamento nella sua vita, che avrebbe risolto le attese invano riposte da molto tempo.

Contenta, fece leggere quelle frasi a RU e anch’egli dovette convenire che il suo arrivo e tutto l’affetto ch’egli le aveva saputo dare, erano stati predetti con chiarezza. Il senso era questo: “Sii felice, Fiordaliso, che ne lo tuo casolare sta per spuntare un sole”. In questo modo, alla dolce stil novo, le anime dei trapassati usavano Maria Grazia Arpino come un terminale. Se RU non avesse chiaramente udito, nella voce di lei dall’accento campano, la pronuncia mantovana e la voce d’Anna Badari, se non avesse visto più volte la sua stessa madre usata come un terminale da Sabato, non le avrebbe creduto. Perché questo strano idioma arcaico usato da lei? La risposta, secondo RU, era evidente: ciascuno di noi, mentre vive, non è il solo a gustare e vedere quella vita nella cui storia è immedesimato. Certamente c’è già l’intera Comunione dei Santi, già tutta presente, seppure solo in potenza, in ciascuno di noi, che ancora semplicemente non la scorge come presente in atto e crede d’esserne l’unico fruitore, anzi è convinto d’essere la stessa storia in persona, in carne ed ossa e non unicamente un interprete e un osservatore. Talora succede che questa potenza è messa in atto da Dio, che concede, nella storia degli eventi disegnata sempre e solo tutta da lui, che una di queste assuma la parte di chi trasmetta i messaggi. Ma anche questi eventi, come tutto quello che giace nell’estensione del tempo, non sono mai un fatto libero e indipendente, ma sempre l’espressione della volontà di Dio, che desidera che, nel mondo, esista anche il magico, il fiabesco e il paranormale. Perciò, che Maria Grazia apparisse una trasmettitrice di messaggi dall’aldilà, era solo l’espressione della volontà d’un Dio infinitamente grandioso, che desiderava stupire in tutti i modi e dare un’esistenza in cui tutto apparisse possibile, specialmente tra quei due mondi estremi che giacevano nello stesso mondo, e che, pertanto, potevano dar luogo a comunicazioni dirette, nell’unità del tutto. Una cosa RU aveva visto e capito: d’aver trovato un’anima gemella. Che poi fosse lei, o chissà chi, a riempire i suoi giorni futuri, non c’era che da aspettare per vedere che cosa sarebbe veramente accaduto. Egli aveva gustato quant’era successo e non gli era parso in alcun modo possibile che ciò fosse un peccato. Un’altra cosa che molto lo sorprese, fu il fatto che Maria Grazia era la soprano più brava e con la voce più bella che avesse mai incontrato di persona. Il suo pezzo forte era – pensate un po’ – l’Ave Maria. Maria come lei: apportatrice di Grazia e non delle fregature date solitamente a Romano dalle Terese, dirette e indirette, dalla prima di cui si era innamorato a 16 anni (sottrattagli da uno scarafaggio), alla seconda (portatagli via da un avvocato rognoso e violento), alla terza (mai nemmeno avuta e nemmeno per amica).


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Cantarono con dei conoscenti di lei, due professori e il loro figlio, che una sera vennero a trovarla e suonarono il suo pianoforte. Si videro poi al mare, fecero assieme una passeggiata, al nuovo centro del commercio e dello spettacolo, a circa un chilometro di distanza. La settimana finì e RU, tra i sospiri e molta tristezza di lei, ritornò a Saronno la domenica successiva, 2 settembre: doveva farlo; aveva promesso che avrebbe collaborato alla formazione del nuovo settimanale di quella zona. Ripensò a cosa gli era successo in due sole settimane: aveva chiesto ad una ragazza, venuta dall’altro mondo, di sposarlo e si era poi subito sposato con un’altra, vivendo e sentendo cose dell’altro mondo. Solo Matusalemme lo aveva come ibernato, in una condizione di eterno stallo che, per un impetuoso come lui, era oltre ogni suo possibile senso della logica... ma che grossolano errore! Era tutta la sua energia. Anche a Maria Grazia Arpino era arrivata grazie a lei. Il suo motore nascosto era Matusalemme. E per forza! Ne aveva avute due, che in Bibbia è scritto erano vissute 969 anni ciascuna. Ebbene, 969+969 portava proprio al 1938 esatto in cui lui era nato. R-U-BEN DIVENNE GIORNALISTA, E POTÉ GUADAGNERSI IL PANE Il 3 settembre del 2001 Romano Amodeo fu nuovamente a Saronno e s’accinse realmente a compiere il lavoro giornalistico che gli era stato proposto da Gianni Mammone. Pensando al fatto che sarebbe rimasto a vivere in Via Larga e che avrebbe iniziato a imporsi anche qui, col giornalismo, meditò anche sulla sua attività canora. Cantava alla Corale di Santa Cecilia, con le prove al mercoledì sera ed esecuzioni nella prima e nella terza domenica d’ogni mese, poi al Coro Bavera, con il quale partecipava a tutte le messe del sabato pomeriggio.

Quando gli era stato proposto d’entrare, tempo prima, in questo gruppo, che cantava differentemente dagli altri, aveva telefonato alla MaTesaLe, l’aveva trovata in un momento buono e le aveva chiesto consiglio: valeva la pena o correva il rischio d’una pericolosa involuzione? Lei gli aveva consigliato di provare. RU era giunto anche a spiegarle il perché di quella sua intenzione: doveva cantare in più cori, affinché non corresse il pericolo d’identificare lei stessa, la sua Maestra del Coro, con la musica; e lei gli aveva risposto: “Distingui bene le due cose!” Ma come faceva a distinguerle, dal momento che lei era davvero il filo conduttore musicale della sua esistenza? Sì, ci stava provando... ma non ci riusciva. Allontanatosi da Cogliate, a causa del fatto che lei non aveva trovato 5 minuti per parlare con lui, dopo d’avergli vanificato 5 ore spese, da lui a casa, per cantare bene da tenore il canto dell’Ave Maria (ed era stato malissimo, era mancato, e doveva ringraziare Barbara e Vincenzo per l’aiuto che gli avevano dato), aveva giurato a Dio che non avrebbe cercato più Maria Teresa. A RU sarebbe piaciuto di cantare ancora con la Schola Cantorum di Cogliate. Considerate le cose, alla nuova luce dei fatti degli ultimi mesi, e cioè che lei sarebbe tornata a reggere la Corale di Cassina Ferrara, che senso aveva – si chiese – il non rientrare a Cogliate? Non ci tornava certo per correrle dietro, tanto più che, adesso, aveva trovata Fiordaliso, la sua anima gemella. Così si faceva chiamare Maria Grazia, e anche questo era strano, poiché aveva avuto il suo primo innamoramento a 10 anni proprio per sua cugina Fiordaliso Amodeo, quando si era così ingelosito perché lei giocava solo con Benito... Era il destino – si accorse – che metteva MaTesaLe sempre davanti alla sua vita! Ora, se egli fosse tornato alla Schola Cantorum cogliatese solo dopo la riapertura, fatta da lei, della Cantoria di Cassina, tutti a Cogliate l’avrebbero preso per un suo burattino, che si muoveva solo in funzione di quello che faceva lei. Perché poi lui – Romano – non doveva andare là? C’era lei, e con questo? A lui interessava quel coro. Ormai aveva Maria Grazia Arpino, il pino di AR! Sicuro, pertanto, di ritrovarsi MaTesaLe sul suo cammino, non attese che ciò avvenisse e anticipò lui le mosse. Tutto poteva immaginare, però, tranne che, avuto lei tutto il quartiere di Cassina Ferrara che si era mobilitato, nei confronti del Comune Leghista, per farla assumere all’Asilo, si sarebbe macchiata nella sua immagine ... così come il destino aveva segnalato mesi prima a RU, su quel suo dipinto. Sarebbe apparsa una vera ingrata anche a tutti gli altri, dopo che tale, tante volte, era apparsa a lui. RU rientrò dunque, il martedì 4 settembre del 2001, nella Schola Cantorum Sant’Ambrogio e Santa Cecilia. Incontrò MaTesaLe in Chiesa. Lei arrivò, e lui era già cin tutti gli altri, dietro all’altare. Vedendola passare mentre andava dall’organista, le domandò di sfuggita:


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“Posso restare?” “Sei già qui!” rispose lei, allo stesso modo. Intanto stava nascendo il nuovo settimanale di Saronno: Informazona e RU, incontrato Gianni Mammone, aveva avuto l’incarico di raccogliere le notizie riguardanti tutti i paesi, con particolare attenzione alle questioni della Chiesa. Un compito importante, scaturito dal suo digiuno di penitenza fatto nel 1999.

Il Papa raccomandò a tutte le strutture della Chiesa di pregare per la pace. Dovevano valorizzare quanto stesse portando il corpo del  di Cristo, ma alla gente RU sembrava solo un somaro, contro il quale era lecito usare ogni tipo di bastone. Così Dio mandò la V piaga, esattamente 56 giorni dopo, quanto tutto il lavoro di 6 giorni aggiunti alla mediazione possibile di un Monsignore Centemeri , che significa 100 giorni e la sua mediazione vale 50...

L’area del saronnese, nella quale RU era entrato per una porta stretta, stretta, di quando era arrivato in Via Larga come un miserabile “che per fortuna aveva sua madre ad assicurargli i mezzi”, con la sua partecipazione al mensile, avrebbe cominciato a riconoscere la validità del suo operato. In questo quadro, RU era molto contento che dovesse intervenire, come una specie d’opinionista, proprio a riguardo di quella Chiesa che gli aveva sbarrato anche quel piccolo uscio, quand’egli aveva cercato di aprirlo. Dal Convegno del MILLE E NON PIU’ MILLE , della FINE DEL TEMPO, tenuto a Saronno il 24-10-1999 e corrisposto alla III PIAGA delle nuove 10 PIAGHE D’EGITTO trascorsero i giorni dati da un piano di 66/6 uguali a 11 giorni in un lato e altri 11 nell’altro, come indici dell’energia 66=Romano che è 66 in tutti i 6 versi che esistono, mentre è solo 11 in ciascuno di essi. Pertanto il piano con 11 giorni in un lato e 11 nell’altro assecondavano l’unità dell’energia proprio riferibile al nome Romano, nel suo valore numerico, poté le lettere dalla A alla Z come i numeri da 1 fino a 21. 11 dì in un lato e 11 nell’altro e il piano si mosse nel 666 di tutta l’energia, e fu l’11 settembre. Ecco la distanza calcolata dal computer. Trascorso dunque tutto il passaggio intero di tutta quanta l’energia unitaria espressa in giorni, in cui Romano invano cercò di correggere la Chiesa di Cristo, Dio attivò il DIO DEGLI ESERCITI e realizzò in tal modo la quarta piaga di quelle nuove DIECI PIAGHE D’EGITTO. QUARTA PIAGA D’EGITTO, i mosconi. UNDICI SETTEMBRE. DUE JET ABBATTONO LE DUE TORRI DI NY. Non bastando le zanzare (troppo leggere) due grossi aerei furono, come “mosconi”, scagliati dalla fede omicida e suicida contro le due Torri Gemelle della vanagloria umana. Palazzi voluminosi si dissolsero in polvere, non lasciando macerie solide ma spargendo la polvere sul territorio. Gli uomini, quando sono toccati proprio loro, solo allora capiscono.

Quando RU ebbe 23.240 giorni di distanza dalla sua nascita, che indicano il centuplo di tutto il 666 dell’energia, nel suo flusso lineare 1/3, relativo a tutto il volume 1.000 che esisteva in tutta la realtà unitaria 40, allora i giorni furono pieni e il Dio degli eserciti fece giustizia a quanto avevano fatto contro RU, in Vaticano. Come la cattiva fede assassina di Bin Laden, si erano opposti alla discesa dello Spirito Santo provocata da Papa Giovanni Paolo II con l’enciclica Fides et Ratio alla quale in tutto il mondo il solo Romano tentava di rispondere; ma era condannato a morte per l’estremo disprezzo verso Dio. E allora consegue che Dio manda il Dio degli Eserciti ad abbattere le due Torri dell’Uomo. Tutto il settembre 2001 fu occupato da RU in incontri della redazione, di preparazione per la prima uscita del nuovo settimanale, prevista per la prima settimana d’ottobre, nel quale il giorno 3 c’era – RU ne aveva un amaro ricordo – il compleanno della sua MaTesaLeM... la Maestra del Coro. Il 30 settembre 2001, ad Osoppo, in una conferenza organizzata da Mirella Comino, in una sala affollata e alla presenza di Padre Magni, Romano Amodeo presentò il Manifesto del suo movimento filosofico-religioso, che alla fine aveva battezzato “Perfezionismo, ossia la Filosofia della Perfezione”. Amodeo era andato ad Osoppo partendo alle 3 del mattino. Giunse assonnato, ma il suo intervento, di un’ora, destò scalpore e ammirazione unanimi.


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Quelle persone, che raggruppavano in associazione i genitori di ragazzi defunti, erano i più attenti interlocutori, coloro cui più interessava se i morti stessero ancora, o no, nella stessa realtà dell’uomo, tanto da potere stabilire contatti. Udendo, da RU, come l’esistenza reale fosse attestata su due contrapposti e reali versanti di crescita, cominciavano a farsi un’idea, molto più concreta e comprensibile, di come i morti potessero andare a ritrovarsi, realmente immedesimati, nella mente di ciascuno di loro. “Vi faccio un grande regalo – rivelò loro Romano Amodeo – I figli, che voi credete morti, hanno ormai la capacità, reale, di poter vivere ancora attraverso i vostri sensi. Potete davvero, allora, ogni giorno, invece di piangerli, dir loro ‘Buondì, figlio, viviamo insieme anche oggi’.” Nell’attività di giornalismo, composta in settembre la redazione di Informazona, tutti si erano mobilitati per il numero inaugurale, e fu deciso che sarebbe stato chiuso il 4 e sarebbe uscito in edicola il venerdì 5 ottobre. A Cassina Ferrara si era accertata, in quel lungo settembre, la vera indisponibilità, di Maria Teresa Legnani Maestra (MaTesaLeM) a riaprire la Cantoria parrocchiale, e quindi lei era accusata, da molti, di non avere rispettato i patti con la Chiesa, una volta che aveva acquisito tutto il vantaggio per sé. RU aveva preparato due articoli, su questo argomento, e poteva cogliere l’occasione, a Cogliate, del compleanno della Maestra – che c’era il 3 ottobre – per uscire con un articolo di auguri per lei, che fosse anche un serio tentativo di farle dare una mano dalla Chiesa di Cogliate (se lei la voleva) una volta che fosse noto lì, in che situazione critica si era venuta a trovare a Saronno. Se quelle persone le avessero voluto veramente bene, come sembrava, informate a dovere, potevano consentirle (ammesso che lei lo volesse) di dirigere in due differenti Parrocchie e di soddisfare le speranze dei saronnesi, abitanti a Cassina Ferrara, eliminando la grave macchia che s’era determinata, nel giudizio della gente, per il suo modo, troppo disinvolto, di comportarsi. Nello stesso tempo, sulla pagina di Saronno avrebbe spiegato che lei aveva assunto un incarico a tempo, sostituendo Massimiliano partito per il militare, che avrebbe riassunto il suo posto al suo ritorno. In quella situazione – essendo di fatto una precaria – aveva potuto garantire ai Cogliatesi che dovevano aspettare essi pure soltanto che tornasse il Maestro dal militare e l’avrebbero avuta a tempo pieno.

Poi era accaduto che Massimiliano era tornato e i cantori di Cassina – che si erano affezionati a lei – l’avevano preferita e lei non se l’era sentita di lasciarli così, sui due piedi. Aveva scrupolosamente preparato due sostituti e aveva messo la cantoria nelle loro mani. Se poi quei due si erano in seguito ritirati non era certo colpa sua. Ora lei non poteva recedere nella posizione di prima. A Saronno l’accusavano di avere ricevuto favori, con l’assunzione all’asilo in cambio del suo ritorno a dirigere il coro di Cassina Ferrara, ma facevano male. Non esistono questi “do ut des” nella Chiesa. Quello è il metodo dei mafiosi che prima fanno i favori e poi ti obbligano a fare quello che vogliono loro. Lei non aveva ricevuto favori, poiché aveva dovuto vincere un concorso pubblico..., e che sarebbe stato un grave peccato per la Chiesa se proprio essa avesse manipolato... per fare favoritismi. Fu un grande aiuto dato alla Maestra, da parte di RU. Ora per via del Patto proposto da RU a Dio (di salvare una anoressica dalla morte di fronte alla sua accettazione di non essere più capito e valorizzato da nessuno) Dio ne aveva salvate due, e aveva dato il ruolo di Bastian contrario alla sola Maestra di vedere sempre a rovescio quello che Romano le faceva di bene. Quando il giornale il 7 fu in edicola Maria Teresa telefonò a RU la sera stessa in cui lesse gli articoli, inferocita: “Smentisci tutto o ti denuncio!” “Non c’è niente da smentire! È tutto vero!” “Sono tutte bugie e travisamenti!” e attaccò. Non poteva fare nessuna denuncia. Era tutto vero. Così la prima cosa che lei fece fu di tentare di farlo licenziare da quel lavoro che era ormai il suo unico sostegno, dopo che sua madre era morta. Non aveva mai concesso più di cinque minuti di leale colloquio a RU, ma – per farlo licenziale – discusse un’ora intera con Marina Ferrero, la direttrice del mensile, che lo difese: non aveva fatto proprio nulla di cui lei lo accusava. Impedita in questo suo atto infame, si mise allora nei panni di un Giuda che consegna un povero Cristo innocente al Sinedrio perché sia fatto fuori. Il Sinedrio in questione era la Cantoria di Cogliate. MaTesaLe fece capire a tutti che lui stava tentando di farla ritornare a Saronno e di lasciarli. Lei non poteva cacciarlo... ma loro sì. Raffaella Minoretti, presidentessa della Schola Cantorum, gli telefonò l’11, senza trovarlo. Lo richiamò il 12 sera e gli ufficializzò come il Consiglio Direttivo, sulla base del suo intervento giornalistico, l’avesse espulso! Inaudito! Che bravi! RU le fece osservare: “Ma come? La legge dell’uomo, inferiore a quella di Dio, non inizia neppure un processo quando non c’è l’accusato e quando non c’è neppure il suo avvocato!” E che inciviltà! colpire nell’ombra chi ha espresso tutto alla luce del sole, nero su bianco! E senza il coraggio di una accusa scritta e circostanziata!


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Le disse che lui non subiva passivamente questi sistemi barbari e che si sarebbe presentato a difendere le sue ragioni. Il martedì 16, però, non stette bene e lasciò, nella segreteria telefonica della presidentessa, l’affermazione “che si sentiva come Gesù nell’Orto degli ulivi.” RU preparò così una sua difesa scritta – poiché verba volant – in cui sviscerò tutto l’argomento e dimostrò, punto per punto, che non aveva fatto nulla di male. Avrebbe però trasmesso il documento al Consiglio della Cantoria, se il santo spirito della Maestra non si fosse nuovamente sentito provocato. Per evitarlo, si recò a casa sua e suonò all’ingresso. Venne sua madre e lui la pregò, si raccomandò di dare alla figlia quel documento; dichiarò che avrebbe atteso di sapere se la figlia avesse qualcosa in contrario a che lui trasmettesse quel documento al Direttivo della Schola Cantorum. Mentre stavano parlando civilmente, uscì sul cortile la sorella della maestra, che rimproverò la madre: che venisse dentro e smettesse di parlare con quello li! Cortese, anche se gelida, la madre restò a parlare con lui e gli rispose solo che, in quelle cose, lei non c’entrava e che la figlia avrebbe deciso che cosa fare. Si lamentò solo che, sul giornale, egli avesse dato notizia di un’assemblea sulla ristrutturazione dell’asilo e RU le rispose che egli aveva riportato pari-pari la notizia come essa era affissa nella bacheca del Centro Giovanile. Maria Teresa seguì l’atteggiamento della sorella e non della madre. Non si degnò di rispondergli, sul documento. A lei, che egli facesse qualsiasi cosa, non andava mai bene. Tutti coloro che non erano coinvolti direttamente ammirarono il lavoro da cronista fatto da Romano Amodeo. Lotito, il Direttore della Banda di Cogliate, letti bene i 2 articoli, li apprezzò al punto che volle ugual trattamento, un’intervista sul numero 2 di quel settimanale; Monticelli, intervistato anche lui, elogiò RU, per le sue azioni. Furono dimostrazioni e prese di posizioni pubbliche e pubblicate su Informazona e non bisbigli tra strizzatine d’occhio come se, in questi modi, si dicesse chissà che grande e segreta cosa! Il Maestro Monticelli era il più apprezzato organista in Saronno, era a conoscenza dei fatti in Cassina, essendo il padre di Roberto, che aveva fatto l’organista alle dipendenze di lei ed essendo il Maestro di Riccardo Bernardinello, che era stato a lungo organista e corista egli stesso nel suo Coro. Era dunque il parere di una persona molto bene informata. Per come la cosa si era messa, RU però a quel punto ne ebbe abbastanza di come la Divina Provvidenza lo trattasse sempre a pesci in faccia, e così decise (cosa rara in lui) di tirare i remi in barca fino al punto da non fare proprio più niente, né mangiare né bere, per vivere. Se non era proprio buono a nulla – disse al Signore –

allora non sarebbe stato più nemmeno capace di mangiare e bere. Se la Provvidenza non provvedeva a rinfrancarlo un po’ sarebbe così morto in pochi giorni. Due anni prima s’era consegnato alla Chiesa e adesso lo faceva alla Provvidenza e in un modo ancora più secco: non avrebbe nemmeno bevuto. Suicida? Nemmeno per idea! Aveva confidato nella bontà della Chiesa ed era ancora più certo che la Provvidenza non l’avrebbe fatto morire. Qualcosa sarebbe successo, di miracoloso, oppure sarebbe andato in Paradiso, maglio ancora. RU consegnò così una lettera di spiegazioni a Marina Ferrero, chiedendole di non dir nulla a nessuno: lei avrebbe però dovuto tirare fuori quella lettera solo se la Provvidenza di Dio avesse deciso di volerlo morto. Il suo gesto, così estremo, non doveva essere giudicato un ricatto dalla gente. Ne avrebbero appreso le ragioni solo a cose avvenute, affinché si pentissero e si salvassero. In quanto a Dio (il solo vero responsabile implicato da RU in questa vicenda) non necessitava di informazioni: Lui sapeva già tutto! Dopo d’avere consegnato quella lettera, di dimissioni dalla vita, al Direttore del suo giornale, RU se ne tornò a casa, molto afflitto, e trovò subito nella cassetta delle lettere quello scritto provvidenziale che attendeva e che lo salvò. Era una lettera, di posta prioritaria, spedita 22 giorni prima, dalla sua Maria Grazia, da Montesilvano. Se essa fosse arrivata il giorno giusto, non sarebbe servita a salvarlo, ma giunse proprio quella mattina. La sua Fiordaliso gli scrisse che era salita sul suo carro ed era contenta, sicura che egli non l’avrebbe mai più lasciata sola... RU avrebbe potuto lasciarla sola? E volle restare ancora al mondo, ora che non c’era più sua madre... perché c’era lei, salita sul suo carro. Avendo avuto in quel modo la conferma che la Provvidenza di Dio, se non degli uomini, non l’aveva abbandonato, RU corse subito al giornale e mostrò quella lettera a Marina Ferrero. Spiegasse a lui, la stessa Direttrice, se quello scritto fosse o no, il provvidenziale intervento invocato! Ed era lì, proprio scritto! La Direttrice di Informazona può essere buona teste di tutto ciò, ma anche Don Maurizio, di Cogliate, che vide e lesse giorni dopo, quella lettera di Maria Grazia Arpino. RU andò poi da Don Carlo il Parroco di Cogliate, per consigliarsi con lui. Fu alla fine d’ottobre del 2001 e – mentre parlava – piangeva. Gli raccontò come, una sera d’alcune settimane prima, gli avesse telefonato Raffaella e gli avesse riferito che il Consiglio Direttivo del Coro, riunitosi, aveva deciso che lui non doveva più andare da loro. Praticamente l’avevano scacciato sulla sola base dei due articoli scritti da lui. “Ma no! Non possono averlo fatto! Da un Coro della Chiesa non si scaccia mai nessuno. Forse ti hanno solo rivelato che sarebbe stato preferibile che tu non ci andassi più...”


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“No, no, Don Carlo, mi avevano proprio espulso. Sono io che non l’ho accettato facendo osservare a Raffaelle l’ingiustizia di un provvedimento a scatola chiusa, senza possibilità di spiegazioni. Io ho preteso di potermi difendere.” RU e Don Carlo ebbero un lungo colloquio e il cantore spiegò tutti i termini della questione, veramente grave, che era successa a Saronno, in relazione ai presunti comportamenti di questa Maestra del Coro. Era finita in chiacchiere che a lui dispiacevano, poiché ingiuste e infondate. Ora, se lei stava loro a cuore, erano tenuti ad aiutarla come aveva fatto lui, anche se lei non lo voleva e non lo chiedeva! Gli spiegò che era stato a lungo indeciso, anche lui, se pubblicare o no i due articoli chiarificatori, perché sapeva bene che rischi avrebbe corso. Per esperienza certa, lei giudicava sempre in negativo tutto quello ch’egli compiva in suo favore. “Ero dunque indeciso sul da farsi, ma, il primo martedì di febbraio, ci fu la catechesi, e proprio lei, Don Carlo, lesse il pensiero del Cardinale Martini: ‘Non si può nuotare sempre dove si tocca’. Quell’articolo spingeva il cristiano ad una maggiore audacia. Così, letto proprio mentre mi chiedevo se dovevo rischiare, mi decisi a nuotare dove non si tocca, a rischio d’annegare. Ed ora sto annegando. Il compito d’un giornalista è quello di far luce sulle questioni oscure, specie quelle che portano a dare colpe a chi non le ha. Se non mi fossi mosso per fare chiarezza ed aiutare la Maestra, anche suo malgrado, non ero un buon cristiano. Compresi a fondo il consiglio del Martini, lo intesi rivolto proprio a me, che avevo nell’animo quella domanda: “Rischio? Non rischio?” e rischiai. Feci male, Don Carlo? Non dovevo farlo? Dovevo considerare le possibili conseguenze, contro di me, e lasciare affogare la Maestra, nelle ingiuste accuse che le facevano? Mi buttai in acqua, sapendo di dovere lottare anche contro la sua determinazione a non farsi aiutare da me.” “Ma perché non ne hai parlato con lei? Prima di pubblicare quegli articoli, non era meglio che tu le chiedessi il suo parere?” “L’ultima volta che cercai di farlo, per aiutare i tenori della Corale, che non riuscivano a sbloccare la loro voce, mentre stentavano con un’Ave Maria, mi mise a tacere, in un modo tale, che io rischiai un grosso guaio per la mia salute. Da quel giorno, io avevo giurato a Dio di non cercare di dirle mai più nulla.” “Ma poi l’hai fatto sul giornale!” “No. Io lì non mi sono rivolto a lei, bensì a chi non conosceva la verità: la gente di Cassina Ferrara e voi, del Coro di Cogliate. Che male ho fatto, Don Carlo? Io, sul giornale, ho pregato lei, il Parroco, addirittura per pietà! La preghiera di fare una telefonata a Don Luigi; di scoprire, tra voi due, se esistesse la possibilità d’un accordo. Io mi sono mosso come operatore di pace! Una richiesta pubblica, chiara, tutta lì da leggere, nero su bianco, di stabilire un accordo, è forse un peccato così grande che, per averla fatta, un cantore sia estromesso da un Coro parrocchiale? Sono stato scacciato per avere svolto, con vera coscienza e senso profondo della giustizia, il mio lavoro in modo eroico.

Svolgendolo, non ho offeso nessuno, non ho attaccato nessuno, anzi ho pubblicamente scritto che bisognava difendere la Maestra. Legga, rilegga, per favore quell’articolo! Mi dica che cosa c’entra, la Cantoria, con il mio lavoro, visto che io l’ho portato avanti onestamente e proprio nel manifesto intento di favorirla? Sull’articolo è scritto: bisogna aiutare la Maestra del Coro! Lo rilegga, per favore!” “Ma no, nessuno ti ha estromesso per questo! Hai certamente sbagliato a capire. Vedrai: ne parlerò io stesso con Raffaella, appena torna da Lourdes!” Era ormai imminente il primo martedì di novembre; RU aveva deciso che si sarebbe presentato, finalmente, per il faccia a faccia che aveva chiesto ci fosse con le persone della Cantoria. Affinché tutti i cantori presenti non fossero impreparati a quell’importante cosa che sarebbe accaduta (un severo giudizio nei suoi confronti), scrisse un promemoria e lo trasmise a tutti, uno per uno. Martedì 6 novembre, primo martedì del mese, ci fu nuovamente la catechesi. In essa, quella sera, era il Papa stesso a esprimere questi voti: “Che nel mondo esista la pace! Nel mondo ed in tutti i luoghi in cui poteva arrivare la parola di Cristo, si elevassero canti di pace!” Udita questa bella premessa, così opportuna, così messa lì ad hoc, da Don Carlo se non dalla Provvidenza di Dio, RU si recò dal Parroco, che aveva tenuto il breve incontro di preghiera e gli domandò: “Dove vado? A casa o giù in Cantoria?” “Ma vai giù, benedetto ragazzo! E se qualcuno ha da ridire contro il fatto che tu stia lì in Cantoria, vienimi subito a chiamare. Tu non hai nulla per cui scusarti, né niente che ti debba essere perdonato!” A RU parve giusto: processato, ora aveva il suo giusto avvocato: il garante del Vangelo di Cristo. Così scese al piano di sotto e si mise al suo posto. Spiegò ad Angioletto Beretta che era lì su autorizzazione di Don Carlo e lui, che si era dimenticato la sua promessa di aiutarlo “facendo il possibile” gli rispose: “La Cantoria è la nostra, mica di Don Carlo!” Erano trascorsi dall’abbattimento delle due torri gemelle i 56 giorni che avrebbero potuto consentire il lavoro di 6 giorni fatti dalla mediazione del Centemeri, che però non ci fu. Così Dio mandò la quinta PIAGA. QUINTA PIAGA D’EGITTO, morte degli animali. Ecco come un Coro Parrocchiale, espressione dello Spirito, si degradò al livello animalesco, e morirono nello spirito.


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C’era, attorno a lui, un gelo profondo, che rivelava, in tutti, lo stesso atteggiamento, di disgusto, del fatto che lui fosse lì. La Maestra glissò il problema ed ordinò di tirar fuori il 1° canto da preparare. Cornelio allora domandò: “Ma non parliamo prima del caso di Romano?” E lei, che voleva dare l’impressione di non aver parte alcuna con quella scelta che era tutta e solo la loro, gli rispose: “Ho poco tempo, vado via presto stasera; ne parlerete voi, dopo la prova.” Arrivò Don Carlo, per vedere che tutto fosse tranquillo: aveva annusato aria di tempesta e voleva sincerarsi che nessun nuotatore, troppo coraggioso, fosse in cattive acque, per poterlo soccorrere ed evitare che vi affogasse. Trovato tutto in apparente pace, tirò un sospiro di sollievo e se ne andò a casa. Così RU perse la possibilità – se occorreva – di andarlo a chiamare “se qualcuno avesse avuto da ridire a che egli restasse in Cantoria.” Passata quasi un’ora, la Maestra, così come aveva anticipato, decretò che la prova era finita e che se n’andava. RU fu più lesto di lei, che già s’appressava ad uscire e le disse: “Ho trovato una Maestra, disposta ad assumere la direzione del Coro di Cassina Ferrara. Devo dirlo a Don Luigi?” “Perché lo dici a me?!” “Perché, se non lo faccio, poi mi accusi nuovamente, d’avere macchinato alle tue spalle, agendo senza averti prima avvertito, o chiesto ragguagli, tanto da non avere poi più tu potuto tornare, a causa mia, che avevo proposto un’altra.” Costretta a dire la sua allora Maria Teresa esclamò: “Oh be’! Avevo deciso d’andar via, ma visto che siamo entrati in ballo, allora balliamo... Ragazzi, vediamo che cosa c’è!” Prese la parola Cornelio, che RU aveva sempre creduto un vero amico e fu, invece, il vero Giuda della situazione: “Romano, io ti ho sempre difeso, ma mi sono accorto che, con te, è entrato un vero serpente nella Cantoria. Quindi te ne devi andare.” “Prima vorrei sapere che male ho commesso – rispose con calma Romano – Ho dato a tutti, attraverso uno scritto, il modo di conoscere le cose e desidero che si parli d’argomenti concreti e non d’accuse a vanvera fatte a capocchia. Questo tuo giudizio sommario, senza che mi spieghi per qual motivo io sarei un serpente, non mi basta e non lo accetto, in una discussione così importante.” “Ma non lasciamolo parlare! – esclamò nuovamente Cornelio – Questo qui ha la lingua, così affilata, che ci porta dove vuole; e ci mena tutti per il naso! Facciamolo tacere!” Il vice Maestro, Adelio Basilico, andò allora incontro a RU col fare minaccioso di chi lo voleva picchiare: “Tu vai via! va bene?”

“Guarda che non mi fai paura”, rispose con fermezza RU, ritto e senza arretrare d’un passo. Allora Adelio tirò fuori la sua imputazione. Sentitela e giudicatela voi: “Quando ho diretto io, ti ho visto arrivare sempre in ritardo! Non mi sta bene, Pertanto vai via!”. Povero Adelio, giudicava una colpa il vero merito di RU, che faceva molto più di quanto non dovuto e non fatto, per esempio, dalla Maestra. Lai – finito di dirigere a Saronno, dove aveva cantato anche RU – se ne restava a casa. Ma che mancasse del tutto lei, al suo vice tornava comodo: in quel caso dirigeva lui; che RU arrivasse di corsa e trafelato, a fare il suo dovere anche lì, nel massimo delle sue possibilità... questo non gli stava bene! “E perché non ti sta bene? Io ho sempre fatto più della Maestra, caro Vice Maestro” gli ribadì RU. Il professor Pietro Marini, persona colta e chiaramente intelligente – almeno lui – gli spiegò, in modi pacati e cortesi: “Ho ricevuto la tua lettera. Ma lette le prime righe e le ultime, l’ho strappata e buttata in un cestino.” Marini proseguì, accorgendosi, da se stesso, di dovere spiegare le ragionevoli ragioni del suo disgusto: “Questo è un gruppo d’amici che canta in serenità. Tu ti metti a scrivere! Capisci che le persone, così, non ti possono più volere tra loro?” Un’altra persona gli spiegò: “Vedi, è come con i matrimoni. Lui e lei sono rispettabili, ma ogni tanto debbono potere dividersi, quando non si capiscono più.” Era l’unica ad avere una qualche ragione, per certi versi borghesi; ma sotto il profilo della fede in Cristo no. Loro erano “Chiesa di Dio”. A questo punto Maria Teresa volle che Romano si spiegasse meglio: “Ti hanno detto d’andartene. Perché non vuoi, se hai tutti contro?” Lui rispose: “Lo vedo bene che non mi soffrite più. Ma io desidero rimanere, perché so di non aver fatto nulla di male, a nessuno. Se l’ho fatto, dovete dirmi che cosa. Anche se poi ne avessi fatto, ed avessi ingenerato sofferenze, io, umilmente, chiedo perdono a chi ho arrecato dolore. Sono qui, io per primo, che riconosco d’essere una merda – e tutti risero! – ma ho bisogno di voi, aiutatemi. Non mi volete più bene? Ve ne voglio ancora io e questo a me basta perché io voglia restare.” Fu a quel punto che Maria Teresa, vedendo come RU facesse un figurone, di fronte a quelle persone mosse da argomenti meschini, decise di fargli provare sulla sua pelle come si era sentita lei, quando egli aveva violato la sua privacy, e gli violentò la sua, alla grande: “Hai 65 anni...” “No, prego: 63”, s’intromise lui.


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“e alla tua età mi venisti a chiedere in Chiesa ‘Mi sposi?’ Mai e poi mai!” Indusse gli altri a deriderlo, ma non voleva ottenere questo... Ottenne in cambio che RU dire a tutti ad alta voce: “Mi dispiace deludervi tutti – rivelò allora Romano – ma tra breve io mi risposerò e per i fatti miei.” “Ah ecco allora perché l’hai attaccata!” esclamò uno avendo scambiato la difesa a lei di RU, sul giornale, per un attacco. Quando mai l’aveva attaccata? “Sì, spòsati e verremo a cantare tutti al tuo matrimonio!” fu un’altra voce, beffarda. Poi lei, per fargli capire come fosse tutt’altro che in lite con la Chiesa della Cassina, ma stimata e riverita anche lì, gli fece sapere che: “Mi hanno chiesto d’entrare nel Consiglio Pastorale della Parrocchia, ma non ho tempo. Sono in armonia con tutte le persone di quel Coro, uomini... e donne!” Intervenne nuovamente Marini: “Noi qui abbiamo avuto difficoltà nel Coro e ci siamo arrangiati! delle cose vostre di Cassina Ferrara a noi può non importare un bel nulla!” RU lo invitò a chiedere al loro ex-presidente (che purtroppo non era più con loro da quando si era sposato), chi gli avesse detto di chiedere a Maria Teresa di dirigere anche da loro, restati senza maestro. Se lei era lì, era stato soltanto grazie al loro interessamento. Bravi! Così – in cambio – gli avevano rubato la maestra! In quella sera, in nome d’una massa restata silenziosa, poche ma ben decise persone, in preda al dominio evidente del Maligno, tentarono di mortificare ancora una volta l’onestà e la buona fede di RU. Non ci riuscirono. RU non accettò, con molto stile, d’essere mandato via su quella base assolutamente inconsistente e annunciò che sarebbe ritornato la settimana dopo. Maria Teresa mentre stavano per uscire, e si ritrovarono per l’ultima volta della loro vita l’uno di fronte all’altro, lei come direttrice e lui come suo diretto, gli domandò nuovamente a tu per tu: “Ti vogliono mandare tutti via e ancora non capisco perché tu, che sei così cristiano, ti opponi. Ti devo confessare che io non sapevo che foste stati voi, del Coro della Cassina, a propormi a Maurizio per questa Cantoria Le rispose: “Potrebbero essere in milioni, a volermi scacciare per quello che io ho fatto per te, e non diverrebbe giusto. Io difendo i miei principi.” Questa fu l’ultima occasione in cui RU e la sua stimata ed ammirata Maestra del Coro, che rispettava ed aveva addirittura eletto a Maestra della sua vita, si parlarono a tu per tu, per le ultime e sintetiche spiegazioni che si sarebbero date nella loro vita terrena.

Mentre stavano andando via, tutti alla spicciolata, verso il parcheggio delle vetture, RU la udì che confidava ad una delle cantanti: “Vedrai che alla fine riuscirà a restare!” Il mattino dopo, 7 novembre 2001, Romano Amodeo andò alla messa di Cogliate e volle confessarsi dal Parroco. “Don Carlo, sono pieno di peccati ma almeno questo non voglio farlo: esacerbare tanto gli animi che delle brave persone poi pecchino a causa mia, non capendo più niente ed assumendo colpe pesanti contro di me. Ho compreso che non mi capiscono. Ma c’è anche un altro motivo. Gesù scacciò i mercanti dal Tempio, quando si trattò della casa di suo Padre, ma non fece nulla per difendersi, quando si trattò della Sua Persona. Io, come Gesù, sono stato attaccato nella persona, da gente che ha scagliato tutte le sue pietre. Lo hanno fatto solo perché, dopo d’avermi conosciuto, d’un tratto più non capiscono. Non voglio allora più difendermi, perché Gesù, che poteva ben farlo, non difese se tesso e bevve l’amaro calice che pure avrebbe desiderato che “passasse via da Lui!”. Gesù concluse che non doveva amare la sua volontà, ma quella destinatagli dal Padre. Ognuno capirà anche me, solo un povero Cristo, ma solo quando Dio vorrà e io non dubito che accadrà!” “Bravo! Anche io faccio fatica a capirti certe volte, sei su un livello troppo diverso da noi, gente di paese... Ma fai bene. Queste persone talvolta non capiscono neppure me. La Cantoria stava per chiudere e fui io che la tenni in piedi... contro le loro stesse intenzioni ed oggi agiscono come se fosse la loro. Faccio io stesso fatica ad essere accettato da loro.” RU partì allora per Montesilvano, andò a passare qualche giorno con la sua Maria Grazia che – anche lei – gli aveva salvato la vita. Fu in treno – quando ritornò – che, ripensando a tutto, cambiò nuovamente idea: no, doveva restare e combattere. Se tutto finiva così, quelle persone di Cogliate avrebbero creduto d’aver avuto ragione. Doveva aiutare Don Carlo! La questione vera, di quella gente del Coro, non era l’oltraggio fatto alla sua persona, ma a quella di Gesù! Era il metodo dell’ingiustizia che essi stavano seguendo, era l’oltraggio a Dio, di cui mercanteggiavano i valori non perdonando chi chiedeva perdono pur essendo innocente! Gesù li avrebbe scacciati dal Tempio. Fu proprio l’improvviso pensiero, che gli venne su Don Carlo, su quello che gli aveva confidato quando s’era confessato da lui, a scatenare questa nuova decisione. Il suo compito era di aiutarlo, era troppo solo con quella gente che, udite le parole di pace pronunciate dal Papa in catechesi, e messo il cuore in pace, poi era dimentica di dover cantare gl’inni di quella concordia, e muoveva guerra contro la persona – oh, non la sua – quella di Cristo. Aveva avuto ragione Cornelio: un Serpente era sceso in Cantoria ed era un Demonio terribile che, in un luogo di Cristo, affermava i valori contrari ai Suoi.


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Non avendo perdonato a lui che, pur essendo innocente, aveva tuttavia chiesto perdono e pace, queste persone stavano rendendo quel luogo un dominio della legge del taglione e non lo capivano. Non li doveva lasciare in balia di Satana. Satana l’aveva già combattuto di recente a Cunardo, apparso nelle vesti d’un suonatore d’una chitarra a 12 corde, ed ora aveva assunto la sembianza delle persone d’un intero Coro. Era entrato nella Chiesa di Gesù, a imporre la sua legge, della vendetta e l’assoluta indisponibilità al perdono. Era veramente il caso che tornasse lì, perché doveva affiancare Don Carlo e difendere la Cantoria dalle seduzioni del Demonio. Si sentiva un vero esorcista! Fino a quel punto pochi giorni con Maria Grazia lo avevano rigenerato! Commise l’errore, quando tornò, di telefonare, la sera prima, a Raffaella, annunciandole che, il martedì 13 novembre, si sarebbe presentato alla prova. Lei corse subito dal Parroco e gli disse: “O va via lui o se ne vanno tutti!” Don Carlo, saputolo da lei, forse si sentì raggirato e cadde lui pure in errore facendo come gli Ebrei che uccisero Gesù per puro opportunismo: “E’ meglio che uno solo perisca per la salvezza di tutti!” Per riuscire a far fuori un povero cristo i coristi andarono (come fece l’impotente Sinedrio) dal Parroco (che aveva la stessa autorità di Ponzio Pilato). E lui pur ritenendo senza colpe questo povero cristo, incaricò la gente a scegliere chi volessero salvare e chi no. Scelsero Barabba e lui – lavandosene le mano – decise che era proprio il caso di toglierlo di mezzo. Senza sapere, queste persone permisero a un piccolo povero cristo di patire le pene date proprio a Lui, a Gesù. Del resto Lui lo aveva detto: «quello che farete a ogni mio piccolino, lo farete a me, povere capre!» (e gli animali morirono) SESTA PIAGA D’EGITTO, gli ascessi. Il martedì 13 novembre del 2001, RU trovò schierati, davanti alla Schola Cantorum: Raffaella Minoretti, Angelo Freri e Don Carlo, i tre suoi più cari amici come tre mastini messi lì da Satana. Gli sbarrarono il passo. Don Carlo gli confidò sconsolato: “Avevi deciso di non tornare. Come cambi presto idea! Bene, qui non puoi entrare. Nessuno ce l’ha con te, tu non devi chiedere scusa ad alcuno, ma non sei di qui, sei di un’altra Parrocchia. Vai a cantare alla tua Parrocchia!” RU trasalì, e allora lui: “Sei malato! Vai a farti curare!” (questo a Gesù non lo dissero). Secondo lui, un comportamento sano sarebbe stato quello di fare spallucce! Dopo tre anni si accorgevano – di punto in bianco – che era di un’altra parrocchia

la cui cantoria era chiusa senza maestro poiché gliela avevano scippata proprio loro, ed era cacciato da chi l’aveva giudicato senza colpe. Costretto a patire tanta ingiustizia, avrebbe dovuto fregarsene, se era uno sano di mente... ma in quale mondo, in quale Regno? Quello di Dio no! Vedeva all’opera Satana – in una Chiesa!!! – e doveva accettarlo... come se niente fosse! In questo infernale 2.001 Dio restò ancora in attesa che il Faraone di questo mondo Cristiano, il Papa, si decidesse ad accogliere la Fides et Ratio come l’arrivo dello Spirito santo Paraclito che il Papa Giovanni Paolo II aveva sperato accorresse. Queste sei piaghe mandate potevano essere sufficienti. In Genesi capitolo 4, Lamech dice alle sue due mogli che per i torti fatti a lui ci saranno 77 giorni di vendetta. Gesù invece dice che occorre perdonare fino a 77 volte 7. Così il Signore aspetterà fino al 29 gennaio dell’anno successivo. In quanto a RU, doveva difendersi dall’accusa che gli veniva fatta di avere violato la privacy di persone, e di avere compiuto abusi intollerabili, La Maestra l’aveva espressamente minacciato di denunciarlo, e poi non ne aveva fatto nulla. Si era solo avvalsa del suo potere come Maestra del Coro per fare a RU il regalo più grande che mai potesse fargli. Nel Cattolicesimo trovate preti che si sentono autorizzati a dir “porco Giuda!” Giuda invece ebbe il merito di mettere in atto la Morte e risurrezione di Gesù Cristo. Quando lo stesso Gesù gli disse “quello che devi fare fallo presto” Giuda si sentì autorizzato a compiere quello che aveva in mente di fare. Non era l’uccisione di Cristo. Era il tentativo di by-passare quella avversione che Gesù aveva di mettersi a tu per tu con le autorità religiose. Come se in ciò – a giudizio di Giuda – Gesù credesse che sarebbe venuto anche meno qualcosa in lui se quale Figlio di Dio avesse valorizzato il Sinedrio... Giuda avrebbe costretto il Cristo a fare quel redde rationem in cui il Sinedrio si sarebbe finalmente accorto che Gesù era esattamente quello che Pietro disse di Lui: “Tu sei il Figlio di Dio”. L’Iscariota si trovò alla fine usato non per quella presa di coscienza che voleva mettere in atto ma per ucciderlo e allora volle castigarsi con una morte che precedesse la sua. Giuda fu più coerente di Pietro, che lo rinnegò tre volte prima del canto del gallo e poi misericordiosamente Simone perdonò a se stesso. Maria Teresa Legnani fu con Romano esattamente come Giuda con Gesù. Grazie al fatto che lui l’aveva seguita, fu proprio lei – e Don Carlo – che lo portarono a conoscere l’esistenza della Fides et Ratio del Papa.


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Quello introduzione che Giuda voleva fare di Gesù nel Sinedrio, lei realmente la fece. Anche senza volerlo. Bastò semplicemente che lei ci fosse. Quella avversione totale che Romano aveva pattuito con Dio, disposto al suo sacrificio purché salvasse una anoressica, fu caricata tutta sulle spalle di Maria Teresa Legnani, e senza che lei lo volesse. Poiché era davvero come diceva lei: lui non le faceva né calco né freddo. In quelle fasi rancorose finali, in cui le saltarono i gangheri e minacciò una denuncia... lei ci finì malvolentieri. Lei aveva l’abitudine di fare le sue cosine zittazitta e senza far rumore. RU – reagendo alle sue stesse reazioni – l’aveva davvero molestata nella sua ricerca del quieto vivere. Preso dagli scrupoli personali, allora RU andò lui dai Carabinieri di Saronno e il 20.11.2001 porse una vera e propria denuncia contro ignoti, nelle mani dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria Maresciallo Catello Di Somma, in relazione al comportamento suo e di tutta la cantoria di Cogliate. Rivelò come fosse stato accusato di avere violato la privacy e chiese che un Giudice esaminasse la situazione (l’aveva violata?). Reclamò contro se stesso delle severe punizioni se le accuse fossero state riconosciute fondate. RU non accusò nessuno, espose solo i fatti e pose delle domande. Poi partì per Montesilvano, andò dalla sua Maria Grazia Arpino, il pino di Natale di AR, Amodeo Romano. Disse così a se stesso: « Lei, Maria Grazia, non è una Maria Teresa ma è una Maria a te resa Grazia ». Quell’anno disertò il Coro del Monticelli, e fece una eccezione. RU si sarebbe fermato più tempo con lei, ma aveva sempre gli impegni presi con il coro di Santa Cecilia, e non poteva essere libero di muoversi che le volte che la corale era in pausa, estiva o le rare volte dopo le celebrazioni di Natale, quando la Pasqua era molto in la nel tempo

2002

Benito era passato a svolgere il ruolo di Direttore Generale per l’Ospedale di cattolica, affiliato al San Raffaele di Milano. Per Romano, anche Maria Grazia Arpino, con la quale ora si trovava a brindare al 2.002 che iniziava, era stata però un dono di MaTesaLe..., secondo il percorso: MT→Don Carlo→Enciclica→Convegno→Ausili→Padre Magni→MG. MG, Maria Grazia, era il regalo ultimo portato a lui dalla ex Sposa di Cristo, ed era il più bel soprano con il quale ridursi nel tempo, forse, a cantare solo duetti. A Montesilvano si ammalò e fu tre giorni a letto, coccolato dalla sua anima gemella, alla quale i suoi spiriti avevano preannunciato che nella sua vita stava per arrivare un sole. RU s’era infine convinto che quello ch’era accaduto a Cogliate era stato in fin dei conti un grande bene per tutti... e lui era finalmente libero! Cambiando disciplina, volle stringere i tempi della sua ricerca oggettiva sulla fusione atomica dell’atomo. Mise così sotto torchio le aziende che eseguivano i sui disegni tecnici. Giunse ad avere pronti quattro prototipi della sua macchina, da porre a sperimentazione, finalmente immettendo deuterio negl’interstizi, microscopici, in cui ci fosse pochissimo idrogeno, tanto da dar luogo ad una reazione potente ma controllata.


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Il suo ruolo di giornalista lo portò a contatto con il Sindaco del Comune di Ceriano Laghetto, la dottoressa Donatella Ferrario, alla quale poté spiegare anche che cosa stava facendo e chiedere dei luoghi in cui fare la sperimentazione. Il Vicesindaco di Gerenzano, la Dottoressa Vanzulli, udito lei pure che Amodeo stava per fare un tentativo per giungere all’energia pulita, gli venne incontro. Lei, ecologista, telefonò (ma solo per essere gentile e non mandarlo a quel paese... come apprese molti mesi dopo) ad uno dei tre titolari della Cava Fusi e gli ottenne un appuntamento. L’esperimento sarebbe dovuto essere realizzato il 25 gennaio, nel giorno del 64° compleanno di RU, che si aspettava un bel regalo dal suo Dio. Alla cava Fusi però lo bloccarono: temevano reazioni troppo potenti. Amodeo allora fece da sé: nei terreni intorno a Cassina Ferrara aveva visto un luogo protetto e isolato, che poteva andare bene. Si ritrovò pronto, ma quando si recò lì, l’improvviso rialzo della temperatura aveva ammollato talmente il fondo argilloso, che era impraticabile ogni via: la sua Fiat Croma scivolava, sbandava. Poi c’erano alcuni inservienti che stavano disboscando per creare i piani e le ondulazioni del futuro Parco Lura. Dovette così, quel particolare giorno, rinunciare e rimandare il tutto a dopo. Chiese per telefono (così per ridere) alla sua Fiordaliso che cosa risultasse, nei messaggi che le davano dall’al di là, a proposito di quant’egli stava per fare. Lei gli rispose che le annunciavano «un grande botto e di molti testimoni». L’ESPERIMENTO ATOMICO. Il 27 gennaio, il fuoristrada del suo amico Salvatore Mocciaro riuscì a passare sul fango scivoloso per l’argilla. Furono distesi i fili tra il luogo che attivava l’energia e quello, protetto da una scarpata, in cui sarebbe dovuta avvenire la piccolissima reazione nucleare: così piccola che sarebbe risultata solo attraverso il minimo spostamento dell’ago del manometro, ripreso da una telecamera lasciata in azione. Mentre RU era a 50 metri di distanza, pronto a erogare energia, Salvatore avrebbe dovuto dare pressione e venire via di lì, raggiungendo di corsa il suo amico che, allora, avrebbe azionato il contatto, per fare partire la scarica magnetica.

Si palesò subito un grave inconveniente: le camere bariche – collaudate e collegate con i raccordi alla bomboletta di deuterio – rivelarono una fuga del gas, e un repentino calo della pressione segnalata dal manometro. Tutti i collegamenti tra i prototipi e gli alimentatori del gas (non ancora collaudati, e messi in opera solo in quel momento) avevano sue dispersioni, attraverso i tanti raccordi che esistevano. Già quell’esperimento, il primo, avveniva solo alla modesta pressione dei 10 Bar contenuti nella bomboletta, cercata dappertutto e trovata per puro caso solo a Saronno: un cliente l’aveva ordinata l’anno prima e poi non l’aveva più voluta. La perdita di pressione creava un alleggerimento (cioè l’opposto di quanto fosse necessario) della compressione utile a che l’esito fosse felice. Non avendo però altro da fare, i due sperimentatori provarono a eseguire lo stesso il tutto, con velocità. Salvatore, immesso il gas a 10 Bar, risaliva correndo, su per la scarpata e, quando arrivava in zona di sicurezza, l’amico azionava il contatto. Il gran “botto”, rivelato dagli spiriti a Maria Grazia Arpino, non ci fu. La pressione, come risultò dalla telecamera, giunse a 2 o 3 Bar, quando RU azionò il contato e, con quella sollecitazione così bassa, le coppie di atomi non furono compresse al punto tale da potersi fondere. Sconsolati, i due amici rimandarono l’esperimento a quando la pressione fosse stata resa almeno stabile. Ci fu un testimone: il proprietario del fondo, che andò lì, a vedere che cosa stesse accadendo, in quell’affossamento vicino al Lura e lontano da tutte le case. I due ricercatori, forse, gli diedero l’idea dei primi alchimisti, che quasi brancolavano nel buio, alla ricerca del metodo di fabbricare l’oro con la pietra filosofale... oppure di Guglielmo Marconi, quando sperimentava la sua trasmissione a distanza, da collina a collina, dandosi da fare con i fili e le batterie. RU invitò l’azienda che aveva prodotto i prototipi (le Officine Meccaniche Fiorese, di Besnate) a venirsi a prendere le apparecchiature, per controllare la tenuta anche dei raccordi. Intanto erano passati i 77 giorni di possibile perdono divino , inutilmente! Tutta questa incombenza, riguardante i giorni era di “Centogiorni” ossia del Decano di Saronno Mons. “Centemeri”, che sembrava anche il padrone di casa di RU, che vedeva in lui un sosia di Gigi, il marito di Barbara Baratta e padrone della sua casa, che l’ospitava gratis. Come se essa fosse della Chiesa!


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SETTIMA PIAGA D’EGITTO, la grandine. S’abbatterono allora su RU e Gesù Cristo tutte le forze del male. Il Maligno tentò proprio di ucciderlo (visto che a Cogliate già era riuscito a farlo fuori da un coro della Chiesa), e Mammona (la Dorata, la Golden) con un grosso pullman investì la sua Fiat Croma il 29 gennaio del 2.002, 77 giorni esatti dopo la sua cacciata dal Coro della Chiesa. Nello stesso tempo, la grandinata colpì anche Cristo, poiché fu portato via, fu fatto fuori dalla chiesa di san Giovanni Battista posta davanti alla sua casa, proprio il corpo ligneo di Gesù, schiodato via dalla grande croce dell’altare. Il Parroco pensò a ladri e denunciò il furto sacrilego ai carabinieri di Saronno. Il terzo colpo di questa grandinata bloccò le lancette del campanile della stessa chiesa, all’orario in cui Satana cercò proprio di uccidere il corpo di carne di lui  e – non avendolo potuto – portò via il corpo di legno di Gesù. Ora fu davvero qualcosa molto simile a una vasta grandinata, che giunse fino a Cogne il dì dopo e Mammona s’impossessò di mamma Franzoni e attaccò il corpo del piccolo Samuele. La cui sola colpa fu d’essere S. Am. uele lo R., en Z: I. ! Simile, uguale allo Am. R. - “entro Z” - I. “in fin dei conti” uguale agli estremi S.I, del Santo Iesus, del Santo Gesù nella lingua di un RU. Mammona, non avendo potuto il 29 infierire sul povero Cristo vivo, ribatte il 30 quel suo colpo andato a male. Fran(ZonI,) e Gran(DinE) – settima piaga – furono Cognite a Cogne e collegate alla Gran “Dinè” a tanto denaro, oro, “Golden” Diavolo, Mammona FZ on I, Spirito infine posto on I. su un povero cristo Romano cui parteciparono a Saronno: i Vigili Urbani, il Comune, le Autorità di Controllo. Il Parroco, di cognome Carnelli (che si era opposto al Papa, nei tempi del primo digiuno di Romano), si ritrovò presto replicato lui pure in giudizio davanti al Giudice di Pace, nel nome Carnelli dell’avvocato dell’accusa, opposto al difensore d’Ufficio che RU si scelse e che aveva il nome di Alessandro Papa. Nello scontro con la Golden (la Mammona dorata) – qui sì – ci fu il gran botto che era stato preannunciato alla medium Maria Grazia Arpino. Ebbene, anche dopo questo fattaccio, il Signore avrebbe dato nuovamente tempo al Faraone di questo mondo, e avrebbe concesso tutti e quattro i Centemeri i 400 giorni della Realtà, più i 15 dì dell’unita in spaziotempo. Sarebbe stata la successiva piaga delle cavallette, le torme di insetti che con i loro sciami fanno terra bruciata. Sarà l’aggressione fatta al paradiso terrestre storico e avverrà l’anno dopo, nel 2.003.

Il 29 gennaio l’automobile fu distrutta nel suo avantreno, fu scaraventata contro la parete di destra dell’androne, sulla quale la ruota anteriore lasciò il timbro, piatto, di tutti i bulloni. Poi, agganciata dalla grande massa del pullman, che continuò a premere sull’avantreno, si mise tutta per traverso, come se fosse stata spinta azionata una potentissima leva, che facesse perno sullo spigolo dell’androne. In una frazione infinitesima di tempo, RU mentre fu colpito immaginò: “Ecco, ci siamo!” Pensò che stesse per morire, con il capo finito contro lo specchietto retrovisore collocato in alto, in mezzo alla vettura. Fortemente urtato, provvidenzialmente esso resistette, così lacerò e tagliò la fronte di RU, a due dita dalla tempia e dall’occhio destro. Se lo specchietto si fosse rotto, una lama di vetro sarebbe potuta entrare nel cranio e dare la morte come al cranio del piccolo Samuele Lorenzi. Accorse un’ambulanza, in un batter d’occhio e i Vigili Urbani di Saronno. Mentre gl’infermieri della Croce Rossa stavano cercando di convincerlo a farsi accompagnare in ospedale, RU trovò la prontezza di spirito di prendere la sua macchina fotografica e ritrarre ogni cosa. Si era sganciato l’obiettivo e Amodeo, in evidente stato confusionale, non sapeva come avvitarlo. Passò di lì il suo omonimo, Romano Isidoro Busnelli e gli domandò se sapeva rimettere insieme i pezzi. Isidoro gli rispose laconicamente: “Se non lo sai tu?!” Il cervello di RU s’era caricato d’adrenalina e stava reagendo, così determinato a non essersi fatto nulla, cercando di dominare il suo stato. Fu accompagnato all’ospedale, dove gli cucirono il taglio con molti punti... ma non volle che gli fosse fatta l’antitetanica, né altro, sostenendo che stava bene.


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Gli diedero un foglio d’istruzioni da leggere. Sopravvennero i Vigili e gli rivelarono d’avergli fatto tre verbali: 1) Perché non aveva l’assicurazione; 2) Perché non c’era in macchina il libretto e 3) gli avevano sequestrato il veicolo: “Su quell’auto ci sono i pezzi della mia ricerca!” protestò il ferito. “Quelli può andare a prenderseli in deposito; l’auto solo dopo che avrà pagato l’assicurazione. Porti il libretto in sede, così almeno risolve quel problema.” RU telefonò a Barbara Baratta, perché l’officina in cui era stata trasferita la sua Fiat Croma, era nel suo paese, a Caronno Pertusella e, sull’automobile della cugina, i pezzi furono portati nuovamente in Via Larga. Gli vennero, durante la notte, giramenti di testa, dolore al collo, perdita dell’equilibrio e – essendo scritto nel foglio, datogli all’ospedale, che, se insorgevano quei disturbi, doveva andare a farsi rivedere – ritornò subito al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Saronno. Gli fu fatta la TAC e non risultò nulla. In accertamenti successivi (poiché seguitava ad avere dolori), una lastra dimostrò qualcosa per cui gli fu imposto il collare. I disturbi dell’equilibrio restavano e notò la comparsa d’un fruscio intenso all’udito. La visita dell’otorino non diede spiegazioni; forse dipendeva dal collare. CONVALESCENZA A CUNARDO RU era in queste condizioni, quando gli telefonò Vincenzo, da Cunardo: “Vieni, perché desidero un tuo consiglio!” Vincenzo Fiorinelli... ve lo ricordate? Il cosiddetto “pazzo”, si era, poco a poco, calmato e, con il tempo, aveva anche ritenuto giusto, spinto da Barbara Edyta Gorzawska, di riappacificarsi con lui. La moglie gli aveva fatto notare: “Ma ti rendi conto, o no, di chi ti è veramente amico?” Ora Vincenzo voleva ampliare il suo locale, sull’esterno, e aveva bisogno che lui, architetto, gli spiegasse come meglio procedere, perché voleva realizzare una tettoia e aveva già tagliato i pali d’appoggio, nel bosco di robinie. Fiorinelli diede retta ai consigli dell’amico e, a poco a poco, quella tettoia, che egli aveva in mente, divenne come un Tempio dell’antica Grecia. Realizzato su pali una costruzione in legno, considerato che quella era la Tavernetta Greca, stava meglio che i pali davanti fossero rivestiti da un colonnato di colonne in stile dorico, montate da un architrave e dalle due falde inclinate che sono al colmo delle architetture di quella tipologia. RU non stava bene, tuttavia, per quei due suoi amici, attinse alle sue risorse di fondo e – ancora una volta distraendosi dalla sue questioni più importanti – fu attento e diede la precedenza a chi gli chiedeva aiuto.

Quando la struttura fu ultimata, fu apprezzata da tutti e l’architetto si accorse, in quel modo, che Dio alla fine, dopo d’aver costruito lui come uomo, adesso puntava a che lui architettasse la Sua casa. Quella creata da lui a Cunardo era allusiva, era solo un chiaro ed eloquente invito a creare un vero Tempio.

RU non doveva dimenticarsi del suo compito: la casa del Signore, un edificio che egli avrebbe dovuto consolidare, apportando i frutti, di quella Ragione, che Dio gli aveva allenata a puntino, nel corso della sua intera vita, a che fosse attenta a tutte le cose, a caricarsele addosso, una per una, mettendosi sempre nei panni di tutti, amici e nemici..., soprattutto di costoro. Pensò che la risposta che sarebbe venuta da lui e che oramai era già del tutto configurata, dovesse passare attraverso il suo successo di scienziato. Ora avrebbe avuto anche i fondi, perché l’investimento che aveva patito aveva di tutto per dargli una montagna di denaro... Infatti era stata messa in crisi una importante e costosissima sperimentazione, in quanto, con il passare del tempo indotto dalla sua malattia, quei quattro prototipi realizzati da terzi e con risorse fino a quel punto sostenute totalmente da loro, valevano molte decine di migliaia di euro e non erano più affidabili. Le camere di scoppio, microscopiche, fatte del ferro dolce necessario a trasmettere in modo ottimale le cariche magnetiche, quasi certamente si erano ostruite e intasate per la ruggine. Il controllo sarebbe stato possibile solo dissaldandole e quindi rovinandole, in modo irreparabile. Anche il suo lavoro al Giornale, stanti le sue condizioni di salute, si era ridotto al lumicino e doveva farsi riconoscere l’entità delle perdite di produttività. Inoltre protestò contro il Comune che, nonostante i suoi tre articoli, che denunciavano il pericolo di incidenti in quel punto della strada, aveva lasciato proprio lui nel pericolo di morire... ed esattamente dove aveva predetto!


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TUTTI I COLPEVOLI NE USCIRONO IMPUNITI! Tutti tentarono – in vario modo, ma sempre – di far fuori il povero Romano! Involontariamente, ma i fatti erano questi! Conscio della cosa, Amodeo si recò dai Carabinieri e richiese con una Denuncia una severa punizione contro il Comune che non aveva adempiuto – deliberatamente! – alla richiesta sicurezza stradale: un milione d’euro, quanto il valore attribuibile a una vita qualunque. Avevano per di più stroncato una preziosa sperimentazione che da se sola li valeva. Il Comune fu accusato di “Falso ideologico”, per la segnaletica orizzontale, insufficiente a proteggere le persone, era una vera e propria trappola mortale. Quindi chiese che il Giudice, in questo caso, condannasse il Comune a risarcire un pericolo fatto deliberatamente correre, come se esso si fosse tradotto nelle sue possibili conseguenze: la morte dell’investito. Incaricò l’avvocato Alessandro Papa – un avvocato di ufficio che lo faceva pro bono – a chiedere inoltre i danni al Pullman investitore, mentre egli stesso domandò il risarcimento al Comune e, in più, come scritto, lo denunciò, chiedendo il pagamento, a suo favore, anche a titolo di pena. RU a questo punto pensò di capire che quell’ “Aspetta!”, che aveva udito, pronunciato da Dio, il giorno 11 di marzo del 1987, fosse stato riferito agli eventi accaduti a Saronno il 29 gennaio 2.002. Come se Dio, allora, gli avesse voluto significare: “Non anticipare, volontariamente ed artatamente, un incidente, nella speranza di un premio dall’Assicurazione! Aspetta e vedrai che quest’incidente ti capiterà quando ne sarai del tutto innocente e sarà avvenuto nel migliore dei modi e delle prospettive di rimborso...” “Vedrai... che cosa?” Infatti le due Assicurazioni risposero “Picche! Non le spetta nessun risarcimento, anzi, paghi lei i danni causati al pullman!” Attonito, RU s’interrogò, per conoscere che cosa mai potesse portare, anche una Assicurazione, ad agire in modo così ingiusto contro di lui. Ma era incredibile: tutto sembrava girargli contro, come se fosse finito davvero sotto le grinfie di una terribile maledizione, quel “malocchio" che, già da bambino, tutti avevano notato e che la zia ‘Ndina’ aveva tentato di togliergli... Infatti, il pullman, passando nettamente sul marciapiede, aveva travolto la sua vettura, che sporgeva appena d’una trentina di centimetri; essa era ben lungi dall’avere superato il tratteggio della linea, che indicava il passo carraio e consentiva alle automobili d’uscire o entrare nell’androne. Andò dai Vigili e si fece dare la Relazione sull’incidente.

Vide chiaramente che ancora una volta il Maligno si stava opponendo al suo successo vero, che sarebbe venuto, forse, allorché avrebbe avuto anche le risorse, idonee per fondere l’atomo, nel modo con il quale egli ne aveva avuto l’idea. Il Maligno aveva portato i Vigili a sostenere involontariamente il falso. Quando erano accorsi chiamati per lo scontro, avevano badato a tutto tranne che a rilevare la segnaletica stradale. Nella loro relazione l’avevano ricostruita a mente e – poiché la linea continua che indicava il marciapiede a raso era tanto sbiadita da non destare l’attenzione – non era stata minimamente rilevata sulla piantina. Non risultava inoltre la linea continua a metà della strada, che impediva al Pullman di varcarla e – cosa assai particolare – erano disegnate tutte le linee divisorie di un parcheggio sul lato della chiesa, che non c’erano e risultavano assenti anche nelle foto. Per non perdere tempo e tornare a vedere come era davvero la segnaletica, i vigili l’avevano ricostruita così come credevano che essa fosse, e non era e le fotografie lo dimostravano. “Ma non aveva l’Assicurazione!” sosteneva qualcuno.. Certo, e per quella avrebbe pagato la multa. La colpa, d’un investimento, non passa, dall’uno all’altro, solo perché l’investito non è coperto da assicurazione! I Vigili della Polizia di Saronno avevano decretato, in assenza della linea che individuava il marciapiede a raso, che il veicolo, sbucando fuori dell’androne, entrava subito nel flusso del traffico automobilistico, e non sul marciapiede a raso sul quale invece era passato il pullman senza averne l’autorizzazione. Infatti da nessuna parte è permesso il transito su un marciapiede, e se – su di esso viaggiando – si investe poi qualcuno, chi è fuori luogo e non ha dato la precedenza all’altro non è certo chi esce dall’androne e sta ancora sul marciapiede a raso, ma è di chi invece vi sta passando sopra andando contro la legge. Senza quella indicazione sulla planimetria che descriveva il luogo dell’incidente, era invece contro le norme chi aveva fatto capolino sul marciapiede per vedere come era il traffico... per non aver dato la precedenza a chi viaggiava sul marciapiede a costo di ghigliottinare il muso del veicolo che si ritrovava contro. Quel punto era leggermente in curva tanto che le vetture la tagliavano lambendo quasi il muro e senza vedere che dietro di esso c’era un passo carraio. Non fu possibile costringere i vigili a rettificare tutti gli errori che avevano fatto, dimostrando un arbitrario uso del loro potere nei confronti di cittadini inermi che non hanno grandi possibilità di essere rispettati. Di fronte all’esposto presentato da Amodeo, alla fine risposero che le cose stavano bene come le avevano messe, nonostante tanto di documentazioni fotografiche riprodotte, che mostravano che non stavano bene così. Sono le case assurde che capitarono tutte insieme ad Amodeo. E successero in questo modo per documentare nel futuro di avere avuto contro ogni forma possibile di ingiustizia.


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Tornato a Saronno, RU cominciò a scrivere la storia della sua vita. Fu solo a questo punto che si accorse di quale fosse il suo ruolo nell’esistenza. Infatti era accaduto che il 24 ottobre del 1999 aveva fatto quel Convegno che poteva definirsi a piena ragione quella comunicazione attesa al Mille e non più mille . Infatti aveva dato la risposta che Gesù aveva predetto, che avrebbe salvato gli uomini... per davvero. Era stato il Convegno della “ Fine del Tempo ”, per quel giorno 24 come la pienezza di tutte le sue ore, come quel mese 10 uguale all’unità del ciclo 10, e come l’ultimo anno prima che fosse completato il secondo 1.000. Facendo il calcolo dei giorni che aveva, essi distavano 22.552 da quello della sua nascita, e indicavano con estrema chiarezza 22.222 +22×10+10 giorni che indicavano tutto il flusso 1/3 dell’energia 66.666, mossa interamente, di 10, con +10, posseduta dal piano 22×10 che ara quello avente i due lati di cui ciascuno era di un 10×10, presente in 10. In quel convegno aveva vinto la Morte ed emesso il Giudizio Universale di una Creazione Perfetta, in cui la Perfezione totale sta proprio nel fatto che sembra essere permesso ogni possibile umano arbitrio e ingiustizia, il quale – mentre appare fatto dalla natura e dai viventi – invece è tolto di mezzo da Dio. Tutto ciò proprio assecondando quanto Gesù aveva spiegato a Nicodemo e a quei discepoli che un giorno gli avevano chiesto come procedere, poiché nottetempo un Nemico era entrato nel campo e aveva seminato la zizzania. Gesù gli disse di non far nulla, di lasciare convivere l’erbaccia e il buon grano. Sarebbero stati divisi solo col raccolto, e la zizzania incenerita. Gesù lasciava intendere che solo non combattendo il male si dava modo ai malvagi di credersi impuniti e con un Dio totalmente assente. In tal modo avrebbero sviluppato tutto quanto il loro male che – alla fine – sarebbe stato TUTTO incenerito. Se avessero tentato di sradicare le erbacce, avrebbero danneggiato anche il buon grano e i malvagi non avrebbero tirato fuori tutta la loro cattiveria, e dunque una sua parte non sarebbe poi stata eliminata. Chi poi finiva tra le fiamme e tra i pianti e stridore di denti e la condanna eterna non erano i figli di Dio. Si è mai visto un chicco di grano che si muta in zizzania? Ora i figli del maligno non erano le anime, ma i personaggi – buoni o cattivi – messi a far la parte della zizzania nei confronti della anime di Dio. Nessuna anima sarebbe stata condannata, ma i personaggi sì, quelli cattivi condannati alla condanna eterna che spetta a tutte i figli della cattiveria. Dio stesso, nella costruzione del mondo, procedeva come uno scrittore di romanzi gialli e si lasciava apparentemente portare dai personaggi cattivi cui dare vita come alla zizzania, e si poneva quale un nemico apparente di se stesso. In effetti tutto il Male non era dominato da un Diavolo che aveva il condominio con Dio.

Se il compito di Gesù Cristo era stato di scacciarli, quello del Padre Suo era di farsi gioco di Satana: lasciargli credere che tutto gli era permesso, e poi – tirata fuori tutta la sua acredine – lo avrebbe convertito nell’angelo Lucifero, dispensatore di luce che era stato un tempo. Il suo punto di arrivo non era quello del Dominatore dell’Inferno, ma del nemico di Dio che era stato convertito da Dio, tanto più forte di lui e che si era approfittato di lui proprio per togliere dall’esistenza reale ogni male, ma solo dopo che esso fosse liberamente cresciuto in tutto il suo apparente dominio in quel campo nel quale solo Dio era il Padrone. Ecco, in quel 24 dicembre, Dio aveva eretto le Due Torri, nella città delle due torri impostate su un unico basamento, che appare nello stemma... e dell’amaretto. Dio aveva voluto che in quel giorno in cui tutti i Cristiani potevano andare a quel Convegno, fossero messi nella stessa condizione dei Giudei, quando Ponzio Pilato chiese chi volessero salvare, Gesù o Barabba? Qui l’alternativa era o un Cristo vivo (che era tornato su un  di nome RU e che, con il suo santo Spirito Paraclito portava la salvezza totale), oppure la memoria storica della Croce di Cristo, portata lungo via Roma... La Chiesa e i cattolici avevano mortificato RU e le due Benedizioni Papali fatte alla sua opera, lasciandolo solo per seguire il legno della croce. Ebbene il 29 gennaio era accaduto esattamente il fenomeno opposto: la Provvidenza Divina aveva lasciato portar via da Mammona il corpo ligneo di Cristo, staccato dalla grande croce della Chiesa di fronte a RU, che nello stesso tempo, sulla sua Fiat Croma, era investito da un grosso pullman della Golden. Dio aveva preferito salvare il povero cristo vivo anziché il figlio suo di legno, poiché il , che aveva inteso dare corpo a Cristo, vi era riuscito, nonostante il calvario dello stesso triplice fallimento che aveva dovuto patire proprio per quello. Come Gesù lo aveva patito nel suo proposito di occuparsi delle cose del Padre suo, lo stesso era toccato al suo somaro, al suo . RU – che al Maurizio Costanzo Show era parso uno che l’aveva sparata grossa ponendosi la domanda se era un altro Leonardo da Vinci – in effetti era molto di più di quello: era chi aveva dato realmente corpo allo Spirito Santo che Gesù aveva predetto sarebbe venuto a liberare tutti per davvero. E infatti le cose tornavano anche sotto l’aspetto logico: Gesù salva gli altri grazie alla sua morte in croce, come vittima divina consacrata al loro bene... ma intanto le loro colpe – anche se perdonate – restano. Secondo la buona nuova portata dallo Spirito Santo sul , dopo la vita osservata fatta dalla natura e dai viventi, viene per tutti quella che inverte in ciascuno il suo verso in moto nel tempo. Ogni vecchio rinato dall’alto (come spiegato a Nicodemo)e – a mano a mano che procede verso il suo reale ritorno all’universale passato, ecco che tutti i mali fatti


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dalla zizzania sono uno ad uno tolti di mezzo da chi prima aveva creduto di averli fatti una volta e per sempre. No, Dio riporta ognuno al momento che precede ogni azione, buona o brutta, tanto che ciascuno, ritrovandosi al termine del secondo tempo nella condizione finale di un bimbo che non ha fatto più nulla, di quello che gli era parso, è davvero innocente, perché al termine della sua vita singola, prima del suo reale ritorno negli antenati, è un innocente che non ha fatto più nulla... grazie a Dio Padre. In verità – lo dice anche la fisica – azione e reazione sono simultanee. Non ce n’è una prima dell’altra, anche se vediamo sempre la causa prima del suo effetto... in questo 1° dei 2 versi dell’esistenza che abbiamo da vivere. Poi vedremo l’altro, il 2°. Dio rende invisibile l’annientamento istantaneo della zizzania che realmente fa, e lascia solo credere che invece accada ma solo in uno dei due simultanei versi. In questo modo, il presente – eterno – può avere una premessa tutta virtuale, in cui Natura e Viventi appaiono fattivi. Con la fine di questa visione dissociata (di quanto invece è un tutt’uno) il vero appare soltanto a mano a mano che ogni fatto è dissolto, e a quel punto resta solo il progetto di Dio, come un modo reale creato tra le infinite anime divine, di potersi amare attraverso un corpo, un  personale, Il 3 ottobre del 2002 il  terminò il 1° libro sulla sua vita… e fu anche il compleanno n. 42 della sua MaTesaLeM. Numero 42 significativo, dato dal 7×6 che combina tutta l’opera divina in 7 giorni col lavoro fatto solamente in sei. Il  fremeva di potere raccontare a qualcuno cosa aveva scoperto. Il 19 ottobre stava andando a Milano da Giancarla, la sua sposa consacrata, per dirle che se si erano lasciati lo aveva voluto solo quel meraviglioso disegno divino, e s’imbatté proprio in Ada, la sposa del Lamech disceso da Caino. Quella notte RU, in un’estasi religiosa in cui sentì forte amore di Dio e per Dio, si chiese se lo doveva dire anche ai Sacerdoti di Cristo. S’addormentò. Al mattino sapeva cosa doveva fare.

DISSE A CENTEMERI: « GESÙ E TORNATO SU ME » Dopo la messa in cui cantò nel Coro diretto dal maestro Monticelli, andò in sacrestia dal Decano Mons. Centemeri, della Chiesa di Saronno e gli disse che l’atteso Spirito Santo Paraclito e la Parusia di Gesù erano venuti su di lui. L’aveva capito poiché cose come la Vittoria sulla Morte e il Giudizio Universale, che erano attese fatte da Gesù al suo ritorno, erano rivelate attraverso la sua bocca, e lui era certamente incapace di tutto questo; lui era solo il corpo che portava quelle belle notizie.

Il Centemeri – che lo sapeva molto originale – non commentò e si tenne per sé quella che fu la COMUNICAZIONE UFFICIALE che il Signore volle porre in atto alla CHIESA CATTOLICA attraverso il Decano Centemeri., nel segno reale di dieci e cento giorni... insomma una rivelazione pro tempore! Dove 100 è l’operato del Signore che dà il centuplo quaggiù e il giorno è l’unità di creazione, “Centemeri” fu il 100% della comunicazione in base 10. Il distava 23.644 dì dal suo giorno natale, numeri che indicavano il corpo intero (il in 23.000 e l’energia 44 dei due terzi indicanti il piano di 66=Romano); flusso d’un Centemeri (100giorni) lanciato in tutti i 6 versi (600). Quel giorno la Chiesa Ambrosiana era davvero in attesa di quell’evento. Celebrava la dedicazione del Tempio e nelle letture il profeta Baruc parlava di chi sa tutto e ha scrutato la Sapienza, con l’intelligenza… e “Eccoci!”, gli rispondono le stelle. Nel Vangelo, pubblicato qui sotto, i Giudei chiedevano proprio a Gesù: “Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se sei il Cristo, dillo apertamente”. “Ve l’ho detto e non credete…” Questo fu infatti anche il comportamento che Monsignor Centemeri tenne, dopo avere udito da un suo fedele di cui aveva stima che il Cristo era su di lui. Ora le cose anomale che erano accadute il 29 gennaio in cui Satana si era dato da fare per portar via costui prima che capisse chi fosse, furono tre. Oltre l’aggressione a lui e la sparizione del gran corpo ligneo di Gesù dalla grossa croce dell’altare di fronte, la terza anomalia fu che l’orologio del campanile si bloccò a quell’ora, come a indicare che si bloccavano i giorni (per Centemeri)...


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Chiesa e Comune si erano allora palleggiato il compito a chi toccasse pagare per riparare quel grande orologio posto sotto le campane del campanile. Erano passati i mesi e avevano tentato inutilmente di farlo ripartire. RU fremeva poiché la notizia che aveva dato a Centemeri era caduta nel nulla. Si recò allora ancora da lui e gli disse che avrebbe digiunato 45 dì affinché Gesù – per fargli credere in quello che il gli aveva detto – ripetesse il miracolo del cieco nato. C’era a Saronno Tommi Urbani, un dodicenne nato senza gli occhi e l’apparato visivo. Con quel sacrificio, comunicato sempre a Monsignor Centemeri, il somaro avrebbe chiesto a Dio di ripetere il miracolo fatto da Gesù al cieco nato Bartimeo (figlio=Bar di “Timeo”, figlio di un “temo” romano. 2 su A.R). La decisione di RU fu pubblicata il 29 novembre su Informazona. Il Decano Centemeri a questa nuova iniziò a dirgli di non fare sciocchezze, e di non mettersi nuovamente a digiunare per una cosa impossibile come questa: “Sarà impossibile a me, ma non certo a Dio!” “Ti impongo di non digiunare!” “Mon signore, Gesù digiunò 40 giorni!” “Ma lui era il Cristo!” “Sono dunque vietate a noi le cose fatte da lui?” Cente meri allora liquidò il suo parrocchian o tacciandolo di “superbia!. RU iniziò il suo sacrificio,

che sarebbe consistito di 45 giorni di digiuno e due o tre Comunioni, al giorno, per stare più che poteva unito al Cristo. EBBENE IL MIRACOLO PER CUI SI SACRIFICO’ CI FU Ma non come lo aveva richiesto. Era giunto al 9° giorno di digiuno e alla 12° comunione (lui che partiva già da 4, essendo in comunione una e trina con Dio. L’orologio, senza che nessuno avesse tentato di metterlo più in moto, si riavviò da solo dopo 9 mesi e 16 giorni, come le sue 9 giornate di digiuno e le 4+12 Comunioni. Era il 14.11.2002. Nessuno lo riparò, ma quando venne fuori RU con tanta fede nella potenza di Dio da essere giudicato “superbo” dal Centemeri quel gran peccato contro la fede, fatto da Chi aveva portato via il Corpo di Cristo da una Chiesa, controbilanciato, rimise in moto... il tempo della Chiesa. Dio fece vedere anche a Tommi. Non la realtà concreta, bensì quella potente ma invisibile dell’amore. Accadde in una messa in cui lui, non vedendo, s’era messo a cantare a sproposito, e tutti l’accompagnarono, sbagliando deliberatamente assieme a lui per non lasciarlo solo… Aveva pregato anche per un’altra persona che – come potete leggere – provava solo inimicizia per lui. Ebbene in quei giorni l’incontro all’improvviso in Chiesa e gli sorrise... Così si concluse quell’anno 2.002, palindromo in cui dio si era finalmente deciso a far conoscere a RU quale compito avesse.


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Il 4 giugno (il 1°) del 40 era morto e la Madonna lo aveva risuscitato subito, rendendolo in tal modo la reincarnazione dello Spirito santo di Gesù. il 4 giugno (il 2°) del 969 (come gli anni di vita di Matusalemme, le due spose che sommate insieme 969+969=1.938 portavano al duo anno natale) si era sposato con G.S. le consonanti di Gesù e si trattava di una figlia di Mario, figlio di Anna e nato il 15 agosto dell’Ascensione di Maria, e di Giuseppina. G.S1, giorno di tutti i santi in cui Wojtyla divenne sacerdote. il 4 giugno (il 3°) del 973 aveva deciso di essere il  di Gesù Cristo. Tutto era accaduto sempre in questo 4-6 della pienezza della realtà e dei 6 versi dello spazio, interni al 4+6=10.

2003

In R-U-BEN ecco la situazione in questo anno tra i due valori reciproci. RU stava ottenendo MIRACOLI volti a ridare la vista a un cieco, e a tanti altri, grazie a un miracolo chiesto a Gesù, al prezzo di 45 giorni di digiuno. Benito era nel 2.002 Direttore Generale dell’Ospedale di Cattolica, parte del Gruppo del San Raffaele di Milano. La salvezza IDEALE che era auspicata in RU era REALE in BEN, e realizzata dai suoi medici.. In RAFFAELE, chi veramente FA e è Dio, l’ELE che cammina in principio su R.A, (Romano Amodeo, il )

Benito era a Cattolica, a dirigere l’Ospedale per conto del San Raffaele. Il 2.003 fu l’anno della svolta per Romano Amodeo, il  di Gesù Cristo. Il 25 gennaio avrebbe compiuto 65 anni. Poiché tutto in lui è determinato dai numeri, 65 è l’insieme di lui e suo padre. Luigi Amodeo aveva il suo riferimento Biblico sia in Set, in cui il nome italiano richiama in lettere il numero 7, sia in Lamech, vissuto 777 anni, per la sua nascita il 77-7 e per essere L.Am. Luigi Amodeo, le tre lettere iniziali di Lamech. Lamech, nelle altre tre oltre L.Am, in “ech”, si riporta a un “è 38”, pel la c=3 e la h=8. Nel suo riferimento Biblico, Lamech, che è il padre di “Noè”, sta al trisillabo Ro-ma-no nello stesso modo con cui Adamo sta al trio Caino-Abele-Set che abilita solo il suo terzo figlio. Così il terzo di 65 è 21,66 è 7+7+7 (il padre) e 0,66 periodico in Romano. Per questa ragione numerologica il  di Gesù è condizionato nella sua vita dal potere del numero 65, che è lo stesso numero che, sommato a tutta la traslazione di 300 giorni, determina i tre anni di 365, e poi uno solo di 266 che porta in 300 giorni in avanti interamente il 66=Romano. C’è R. V’è! Sì! Ed è un Cattolico.


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65 è l’energia – che di per sé è immobile – quando invece il 66 si è mosso in una delle sue unità, tanto che tutto il moto di 1 in 66 risulta poi essere 65. Per la stessa ragione, RU ha dovuto attendere i suoi 64 anni, del flusso intero del piano trasversale di lati 1 e 1, prime di accorgersi di sé stesso. Ora voi tutti che leggete dovete cercare di capire che cosa succede in una mente umana quando è folgorata da questa notizia. RU era arrivato al massimo della sua audacia quando si era proposto al Maurizio Costanzo Show, all’attenzione di tutto il mondo che lo seguiva, come una ripetizione del grande Leonardo da Vinci. Con la notizia che riceve, in quella notte di estasi alle prime ora di quel 20-10-2.002, ripeteva addirittura Gesù Cristo... e ne ebbe abbastanza per una sorta di cortocircuito per la mente umana. Per un medico che non crede nella validità di questi fenomeni trascendenti la ragione umana, questi cortocircuiti sono malattie, sono turbe mentali. Lo sarebbero davvero, se però non ci fosse al di sotto, una verità oggettiva e reale. Da questo momento in poi, quell’incontro che il pontefice aveva auspicato nella Fides et Ratio, diventa impellente, indispensabile, nella mente di questo uomo. Mosso da queste vere ragioni, di DAR TESTIMONIANZA egli avrebbe proseguito imperterrito, fino alla fine dei suoi giorni, senza apparente amor proprio, senza preoccuparsi in alcun modo di che cosa avrebbero potuto pensare di lui i suoi interlocutori se son si fosse presentato come gradito e comprensibile nel presente. Scrisse così i suoi libri, nell’idea di farne un testamento spirituale Questi titoli sono consultabili sul sito ISSUU.COM. MILLE E NON PIU’ MILLE, 21-3.2.003 https://issuu.com/amoramode/docs/mille_e_non_pi__mille GLI ORACOLI DI EMANUEL, 21,-3-2003 https://issuu.com/amoramode/docs/l_intervista_a_emanuel CROLLO DELLE TORRI GEMELLE 30-3-2003 https://issuu.com/amoramode/docs/crollo_delle_torri_gemelle TERZO ED ULTIMO ESODO, 16-4-2.003 https://issuu.com/amoramode/docs/terzo_ed_ultimo_esodo ANTICRISTO E POI L’ULTIMO ELETTO, 1-5-2003 https://issuu.com/amoramode/docs/anticristo_e_poi_l_ultimo_eletto L’OTTAVA PIAGA LE CAVALLETTE, 1-5-2003 https://issuu.com/amoramode/docs/l_ottava_piaga_le_cavallette Con tanta produzione, la vita di RU si appiattì i giornate tutte di studio e di composizione, e prese poi alcune altre forme solo quando fu mosso dagli eventi.

Il primo evento che lo distrasse dai libri fu il naturale seguito delle 10 PIAGHE D’EGITTO. Il Faraone da convincere per il nuovo Esodo verso il mondo sublime è quel Monsignor Angelo Centemeri cui volle dare l’ANNUNCIO dell’avvenuto ritorno dello Spirito Santo di Gesù Cristo sulla sua incapace persona. in greco è proprio il richiamo preciso fatto all’annuncio portato ad Emera la Dea del GIORNO. Centemeri aveva ricevuto l’ANNUNCIO, di cui essere ANNUNCIATORE Aveva visto l’orologio del campanile che si era bloccato il GIORNO in cui RU era stato investito e il corpo di Cristo sparito in Chiesa. Aveva visto come RU aveva pregato e si era messo in movimento sa solo, senza che nessuno l’avesse sollecitato a farlo. Aveva visto in che modo sottile il cieco nato Tommi Urbani avesse visto in una Chiesa non delle povere REALI COSE, ma addirittura l’AMORE e la grande CONDIVISIONE fatta da tutti in relazione alla sua cecità. Forse dunque era arrivato il DIVINO GIORNO di riportare la notizia che era stata data a lui.... Il Signore, dopo la sparizione di Cristo aveva dato, a lui chiamato Angelo dei 100 giorni ben 415 giorni in cui potesse ravvedersi... Ma fu un tempo in cui questo Angelo Centemeri seguitò a fare nulla. Così Dio mandò a tale Faraone la piaga successiva. OTTAVA PIAGA D’EGITTO, le cavallette. Il Signore fece piazza pulita del Paradiso Terrestre storico, lasciandolo come un suolo devastato dopo che sono passati stormi di cavallette. Ora questo evento, se riferito all’abbattimento delle due Torri Gemelle di Nuova York era dato dalla somma di 56+7+77+415=555 giorni Gli stessi giorni tra il 13 novembre in cui Cristo era stato scacciato


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dal Coro di una Chiesa (poiché era fatto da un Parroco a un povero cristo) avrebbero portato al 22 maggio 2.003 se Dio reagiva ugualmente all’offesa fatta a lui. Se tanto dava tanto, il 22 maggio Dio avrebbe fatto lo stesso a Cogliate e avrebbe mandato lottava piaga, delle cavallette. Quali cavallette potevano colpire il Paese? Nel mondo, in quegli “”, in quei “santi giorni” c’era la Sars che pareva essere Sar’s ossia una questione di Saronno (genitivo sassone), ma anche tale che riguardasse il S. AR cacciato dal coro e mandato “a farsi curare”. Da quel gesto di Don Carlo contro un povero cristo, sarebbe potuta scoppiare la Sars nel saronnese, se Dio attivava allo stesso modo il DIO DEGLI ESERCITI, ossia 555 giorni esatti dopo il 13 novembre 2.001 in cui un parroco si era permesso di agire in questo modo contro Gesù. Infatti Gesù stesso l’aveva scritto ben chiaro nel suo vangelo: “Tutte le cose fatte o non fatte a uno dei miei più piccoli, le avete fatte o non fatte a me” Con questi indizi preoccupanti, RU volle preavvertire il Sindaco del Comune di Cogliate e gli scrisse una lettera assolutamente RISERVATA in cui lo avvertì di possibili CASTIGHI DIVINI. Per non creare confusione la mostrò proprio con tutti i crismi di una profezia dell’antico testamento in cui i profeti annunciavano i possibili CASTIGHJI DI DIO, chiari e circostanziati a tutti i colpevoli di quel misfatto intollerabile poiché compiuto contro Gesù Cristo, essendo stato toccato un semplice e insignificante povero cristo. Scrisse di essere un portatore di messaggi, un messia e usò espressamente a scanso di equivoci i toni profetici. Rischiavano di morire tutti. Che il Comune si tenesse allarmato a difendersi dalla Sars. In fondo alla lettera che fu capita come “di minacce” (ma quali? Di avere il potere di attivare il Castigo di Dio?) c’era scritto chiaramente: Io, Romano Amodeo, il 18 maggio chiederò con tutta la mia anima alla Madonna che, se possibile, passi da noi questo calice, ma debbo concludere come già fece Gesù: “Sia fatta, o Padre, la tua volontà e non la mia!” Saronno 13 maggio 2003 Ma era scritto troppo in fondo alla lettera, che il Sindaco non avrebbe mai letto tutta e che spinse un vero IMBECILLE a divenire LUI un terrorista, chiamando tutta la stampa locale e mettendo a loro disposizione la LETTERA RISERVATA che aveva ricevuto non da un anonimo, ma da uno che si dichiarava PROFETA di possibili cattive notizie e che MINACCIAVA CASTIGHI DIVINI,.

DIO RESE LUI NOTO TRAMITE STAMPA DEL  MANDATO COME IL MESSIA. Il Sindaco Cattaneo fu Lui a fare conoscere la cosa a tutti la cosa che doveva restare segreta, par cui il reale TERRORISTA fu lui, tuttavia non denunciò sé come tale, ma Romano Amodeo alle autorità, come terrorista. Cattaneo, Sindaco della Lega era stato costretto a dare in pubblico la notizia che RU aveva dato solo a Angelo Centemeri.

RU aveva concluso la sua lettera dicendo che il 18 maggio avrebbe pregato , e lo fece, durante la processione che ci fu quel giorno, da Cassina Ferrara alla Madonna dei Miracoli: “Padre, sia fatta la tua volontà!”. La stampa aveva ben pubblicato detto che egli lo avrebbe fatto, come vedete. RU, informandone privatamente il Sindaco, si era tolto quel peso dalla coscienza (di aver saputo prima un reale pericolo e non aver avvertito le autorità). Il 18 maggio ci fu il pellegrinaggio annuale alla Madonna dei Miracoli, che già aveva salvato il circondario di Saronno da una peste secoli prima e ogni anno si recavano per voto a ringraziarla. Quando in processione con tutta la Chiesa di san Giovanni Battista andò al Santuario, pregò la Beata Vergine di esentare il Saronnese dalla Sars e – se qualcuno doveva esser curato in seguito alle parole di Don Carlo contro un povero cristo – ebbene, egli disse alla Madonna che era disposto a farsi curare lui solo in nome e per conto di tutti, e li salvasse, tenesse lontana la Sars!


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Fu preso in parola da Dio. La sola cosa che RU non sapeva era a che ora Dio avrebbe attivato il Dio degli Eserciti e le cavallette a stormi avrebbero invaso la zona, come i virus. Infatti il povero cristo era stato scacciato il 13 di novembre, alle ore 21 e vi era l’ora solare, mentre il 22 maggio c’era l’ora legale. Il Signore avrebbe rispettato l’ora solare oppure l’ora legale ? A voi certo tutto ciò fa ridere, ma questo fu proprio ciò che accadde. Alle ore 22 del giorno 22, due Guardie Comunali gli bussarono alla porta: “Lei, venga con noi!” gli intimarono, e poi: “ Dove era alle 21? Siamo passati e nessuno ci ha aperto”. Ecco – messo davanti all’alternativa – realmente il Signore lo fece compiere tutte e due le volte prima alle 21 e poi lo ripeté alle 22. Che ve ne pare? RU fu portato al medico di guardia dell’Ospedale, per un accertamento sanitario sulla sua salute mentale, un ASO. Il medico gli spiegò che le persone avevano paura di lui. Cosa aveva da dire in proposito? Lui rispose chiaramente al medico che c’era in gioco una Enciclica che il Papa aveva fatto, chiedendo la collaborazione dei Filosofi e che lui era uno di questi. Il Papa aveva promesso avvocatura da parte della Chiesa in cambio della loro disponibilità a “rischiare volentieri per tutto quello che vi era di buono, giusto e santo” parole del Pontefice. Per quelle questioni lui – che a quanto pare era il solo a valutarne l’importanza – aveva dovuto iniziare una lotta religiosa e filosofica contro i Fideisti, che non gradivano che la Ragione e la Fede collaborassero. Si era con questo trovato invischiato in questioni tali da essere poi, alla fine di un lungo percorso, cacciato dal Parroco di Cogliate... RU spiegava (in modo puntuale e circostanziato) e il dottore non badava ai concetti espressi, ma solo che era concitato e parlava, parlava... Concluse che era un logorroico, affetto del delirio di “volere vedere il papa”. Non avendo ascoltato... non si era minimamente accorto che nella sua Enciclica Fides e Ratio era il papa che voleva vedere lui. Dunque dove stava, di chi era il delirio ? Il medico stava delirando ... e lo attribuiva a lui. Ecco cosa è il delirio, per il vocabolario:

Chi era alterato nella sua mente perché interpretava erroneamente la realtà, anche se percepita normalmente sul piano sensoriale, era il medico, poiché la sua personalità travalicava i suoi compiti, non ascoltava e assegnava deliri di grandezza e di misticismo a un Filosofo tirato a forza in ballo proprio da un papa che lo aveva spinto a fare di tutto pur di superare l’isolamento. Lo stesso errore lo avrebbero fatto dopo anche tutti gli altri medici, poiché questo di guardia gli disse che se ne poteva tornare anche a casa, non era pericoloso; ma che – se lui, RU, lo riteneva opportuno – poteva anche lasciarsi osservare. “Sì, l’accetto, osservatemi! così alla fine si vedrà che non sono un matto”. Accettò da sé quello che aveva offerto alla Madonna: che fosse curato lui . Solo che non fu osservato né ricevé alcuna cura. Nessuno si prese mai la briga di entrare nelle sue questioni. Sentivano dirgli che Doveva vedere il Papa , che aveva grandi risposte da dargli e non si preoccupavano minimamente di controllare se c’erano oppure no delle serie ragioni per volerlo e per crederlo. Chi si comporta in questo modo soffre del Delirio di grandezza che gli deriva dall’essere l’arbitro della situazione e – avendo un ruolo così delicato proprio nella valutazione di una persona – agiscono in moto totalmente arbitrario . RU pensò allora che Papa Wojtyla era andato a trovare in carcere Alì Agcià che aveva attentato alla sua vita. Lui era uno che aveva rischiato la propria vita per difendere a spada tratta una sua iniziativa. Ebbene, accorresse ora a mostrare a questi psicologi in totale delirio sulla loro grandezza a mettere tutti i puntini sulle “i”. Non era follia – la sua – se sperava veramente che Wojtyla ripetesse con lui meritevole quello che aveva fatto con quell’altro che non lo meritava affatto. Oppure era giudicato normale e saggio attentare al Papa per farlo accorre? Romano Amodeo aveva tutte le ragioni di questo mondo... che però è di gente tanto perversa da giudicare NORMALE le attenzioni DATE A TE, sono se diventi un VIOLERNTO contro GLI ALTRI. Se tu mortifichi e castighi SOLO TE... non conta proprio nulla: è giudicato da fessi! Si così è proprio giudicato da fessi! Informazona presentò la notizia in prima pagina. Informazona, in questo tempo aveva mutato il suo Direttore Responsabile, non era più colei che lo aveva difeso a spada tratta contro le pretese della Maestra, ma una


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nuova Giornalista, Lucia Gabriela Benanti, che non lo aveva conosciuto né visto mai come uno dei primi perni su cui quel settimanale di era inserito a fianco di LA SETTIMANA, e IL NOTIZIARIO. Il titolare era sempre Mammone e sempre Luisa Restelli il braccio destro che montava il mensile. A causa di lui che digiunava, il ricovero ASO fu mutato in TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e gli imposero una terapia che non gli serviva, nell’idea loro che un credente cessasse di aver fede in Cristo se gli davano i giusti farmaci... Quando lo dimisero conclusero che era stato in condizioni di perfetta lucidità e che era straordinaria la sua Sindrome. Date le traversie che aveva avuto in tutta la vita avrebbe dovuto avere un io frantumato... e invece non lo era. A quanto pare era così tanto condizionato dal suo stato... che nemmeno se ne avvedeva e tale straordinaria incoscienza diveniva la sua forza. Poi – che cosa strana! – i farmaci non gli avevano mutato le idee. Gli avevan tolto la messa domenicale poiché quella era la sua sindrome . Tutto ciò vi indica la follia di questo responso e il delirio di grandezza di questi presunti esperti della psiche, che poi – il delirio! – lo attribuivano a lui! . RU ne uscì messo molto male, poiché lo dimisero solo dopo di avergli imposto a forza una iniezione di Aldol a lento rilascio che lo rese ansioso come mai prima era stato in vita sua, e con un principio di tremito nelle mani, dovuto a un effetto collaterale di quel farmaco: il Parkinson. Rientrato nel coro di Santa Cecilia, del Monticelli, i suoi amici cantori videro come era stato conciato per le feste e fecero una petizione in cui praticamente intimarono ai medici del Centro Psicosociale di lasciare in pace Amodeo. Infatti, secondo loro, alla fine di quel mese di supplizio, lui sarebbe dovuto rientrare per essere assistito vita natural durante come lo era stato il suo amico Sabato Lingardo. RU – profondamente turbato e ansioso – andò da Monsignor Centemeri per confessarsi e lui si rifiutò, dicendo che parlava e scriveva troppo e che... lui non era all’altezza! Aveva ragione. Angelo Centemeri aveva ricevuto un incarico che era indubbiamente sproporzionato... ma lo sarebbe stato per tutti, quell’incarico.. RU, recuperata infine la sua salute, passò al contrattacco con tutto l’apparato che lo aveva così danneggiato, presentando denunce a destra e a manca e chiedendo gli rifondessero i danni. Sul Informazona fu pubblicata una sua richiesta di risarcimento al Sindaco, per un milione di Euro, per avere ordinato in quel modo quel suo accertamento. Pretendeva che fosse aperta una inchiesta sul comportamento troppo disinvolto dei medici che avevano imposto la sua Osservazione al Sindaco di Saronno senza

avergli mai – neppure una volta! – fatta una visita. Né avevano interpellato il suo medico di famiglia. Si erano basati solo sulle dicerie della gente che – dopo d’essere stata spaventata a morte dal Sindaco Cattaneo – girandosi le notizie avevano infine capito che RU telefonasse alle persone, anche della Chiesa, per minacciarle a morte. Si rendeva conto che l’imperfezione del mondo – tutto sommato – era il modo tutto divino di toglierla di mezzo, così passò gli ultimi giorni di giugno completando un libretto dal titolo “Epistemologia della Perfezione” https://issuu.com/amoramode/docs/il_perfezionismo Nell’ultimo andò a Milano, dal suo medico, affinché si desse da fare per impedire quella puntura che ara stata prenotata per l’1 luglio dagli psichiatri. A evitare sorprese collegate, il primo luglio s’allontanò da Saronno, per essere irreperibile per altri gesti tipo quello dovuto subire, della visita coatta, e andò a Montesilvano, da Maria Grazia. Finito l’effetto dell’iniezione fatta ai primi di giugno e a contatto con la paziente vigilanza della Arpino, RU smaltì gli ultimi residui dei farmaci fattigli assumere senza che ne avesse bisogno. Stando lì, cominciò a completare quel poema che aveva iniziato e che aveva lasciato sospeso, nella prima parte degli anni novanta. Si sarebbe fermato fino al 19 luglio, ma Maria Grazia, stranamente (considerata la sua solita cordialità) fu insofferente e gli fece pesare, in un momento di malumore, il disturbo che la sua vita ordinata riceveva dalla sua presenza, così il mattino dopo questo disturbo fu tolto, una settimana prima del tempo stabilito. RU sentì che il Signore gli dava, a Montesilvano, un luogo nel quale rigenerare le forze e dal quale però poi velocemente distaccarsi, subito dopo. Tornato a Saronno, proseguì il poema per tutto il mese di luglio e i primi di agosto, completandolo e dandogli il titolo “Il gioco-giogo di Dio”. https://issuu.com/amoramode/docs/il_gioco-giogo_di_dio Dopo di ciò pose mano alla scrittura di altri due libretti, uno scientifico, dal titolo “Il perché dei numeri” https://issuu.com/amoramode/docs/il_perch__dei_numeri ed uno teologico dal titolo “Il pane disceso dal cielo” inglobato poi in una altra pubblicazione. A Saronno riprese la sua vita quotidiana, e cristianamente attiva, partecipando alle Lodi mattutine e, ogni giorno, alla successiva messa delle 9, in cui quasi sempre era chiamato a leggere la “preghiera dei fedeli”. Importantissimo fu quanto accadde il 14 agosto, a 300 giorni esatti dal 9.6.2004, data in cui prevedeva la sua morte.


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Accadde un fatto inatteso ed inspiegabile, che molto sorprese tutto il mondo. Gli Stati Uniti d’America restarono improvvisamente nel buio generale, secondo un “effetto domino” subito dalle Centrali Elettriche, che si spensero una dopo l’altra, lasciando senza energia metà degli Stati Uniti ed anche una parte del Canada. La nona piaga d’Egitto, attesa dopo l’ottava delle cavallette, era proprio quella del buio, e buio c’era stato. Anche in Italia intercorsero tempi in cui si temé di restare al buio, anzi in Italia il fenomeno era iniziato addirittura prima, quando ne mancavano non 300, ma forse 333. Dunque il 14 agosto, il giorno prima dell’ascensione al Cielo della Madonna, il mondo si mise a osservare l’avvento del buio, che sarebbe poi culminato il 25 maggio 2004, quando il Papa – diceva RU – sarebbe morto. RU predicava l’avvento a futuro Papa del Cardinale Dionigi Tettamanzi, che avrebbe valorizzato le cose fatte dire a lui da Dio. Se il  di Gesù si mise a profetare fu perché ormai era venuto allo scoperto come tale sui giornali e l’ultima che aveva fatto l’aveva centrata in pieno, perfino nella incertezza delle ore: se alle 21 o alle 221 di quel giorno in cui ara stato costretto a farsi curare, per averlo chiesto lui stesso. Doveva fare queste previsioni soprattutto per volere di quella Divina Provvidenza che regola tutta la vita dell’uomo e che aveva come un suo scopo abbastanza palese quello di farlo apparire sempre come un falso profeta (anche quando non lo era). RU si consolava anche di questo, ricorrendo proprio alle affermazioni date da Gesù quando la gente gli chiedeva un segno e rispondeva che avrebbero avuto di lui solo il segno di Giona. Ora era vero che nei primi due capitoli il profeta era stato inghiottito dalla balena e poi sputato fuori vivo il terzo giorno. Questo segno sulla morte e risurrezione di Gesù – però – si rifaceva solo a metà del libro. Nella seconda metà Giona sarebbe andato a Ninive a minacciare sciagure, che non sarebbero venute e che l’avrebbero lasciato affranto, per questo ingrato ruolo – dal quale aveva cercato di fuggire in mare – del profeta autentico, ma che poi alla fine sembrava fasullo... poiché il Signore mutava sempre in bene tutto il male che gli aveva fatto annunciare... Alla fine di agosto, come era già accaduto due anni prima, RU decise di andare l’ultima settimana del mese a Montesilvano. Lo spunto gli venne dai soci del Centro Sociale, che avevano stranamente stipulato un accordo proprio in quel luogo con l’Hotel Montesilvano e avrebbero trascorso le due settimane a cavallo della fine di agosto in quella che lui identificava come la sua Monte Sion del presente. Voleva condividere una permanenza con loro, così approfittò di una telefonata fattagli da Maria Grazia per dirle che se lo sopportava ancora una volta sarebbe andato da lei.

Fai come vuoi”, gli rispose, e senza altro indugio RU fu da lei. Non avrebbe immaginato che quello, dopo due giorni molto felici, dovesse trasformarsi nel loro addio. La Provvidenza intervenne e volle così, poiché si incrinò una costola di Maria Grazia. RU fu premuroso con lei e cercò di fare del suo meglio per pulire le stoviglie della cena. Le portò il caffè a letto e da bere quando lei lo chiese, e fece a modo suo tutto quello che lei voleva. Al mattino lei si alzò e, trovata la cucina non come se lo sarebbe aspettata, si mise a protestare ad alta voce: “Io non so che intelligenza è mai questa! Guarda un po’ se è questo il modo di aver messo a posto!”. RU fu sorpreso da questo rimprovero, corse da lei e le disse che aveva fatto del suo meglio e che gli sembrava che quello di lei non fosse l’atteggiamento più giusto verso di lui. Gli rispose che aveva fatto tutto, sì, ma con malanimo! senza applicarsi il dovuto, e che comunque doveva capirla: era innervosita dal suo stato! RU le rispose che allora per castigo lui si metteva a digiuno, come si da ai bimbi negligenti, mandati a letto senza cena. Glielo disse e lei cercò di farlo recedere dal suo proposito, ma inutilmente. Le disse di lasciarlo agire per il meglio, in modo da stemperare tutto quel che gli era entrato nel cuore, per il suo inatteso gesto di critica, patito proprio dopo che lui aveva fatto del suo meglio, e con amore, non con malanimo. Non voleva andare via. La sera – per fare mangiare quel bimbo cattivo che lei aveva perdonato – lei gli portò un caffè, con uno stuzzichino che aveva preparato apposta, ma RU perseverò nel castigo e rifiutò. Passata la fine di quel giorno così, a far penitenza, lui decise che tutto dovesse rientrare nella normalità e la mattina seguente fu lui a portarle il caffè e a prepararle la colazione. Consumatala, le disse che sarebbe andato al mare, all’Hotel Montesilvano, alla ricerca dei suoi amici di Saronno. “Sì, ma lavati prima, perché sei in casa mia e non voglio che i vicini abbiano a fare osservazioni!” RU impietrì. Non disse nulla. Rinunciò al suo proposito di andare alla spiaggia e si recò nella stanza a fare il bagaglio. Lei lo rivide vestito di tutto punto e restò sbalordita, quando capì che aveva cambiato idea e se ne tornava a Saronno. “Vado proprio via. Non voglio che tu riceva critiche a causa mia. Ti ringrazio di tutto ma, a quanto pare, le cose devono proprio finire tra noi in questo modo. Avevo appena cercato di superare l’ostacolo messosi tra di noi per delle tue critiche inopportune, e tu hai ritenuto di dover ricominciare subito dopo. Addio Maria Grazia, e grazie di tutto.”


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Lei restò muta. Senza più parole, nemmeno un saluto nel mentre lui usci per l’ultima volta da quella che era stata la sua Monte Sion. Ebbene, preso l’autobus e giunto a Pescara, senti la necessità di pulirsi, di lavarsi, ma non il corpo, l’anima. Andò a confessarsi in Chiesa. Fu l’ultimo vero lavaggio che subiva, ne era sicuro. Sarebbe riuscito, una volta per tutte e finalmente a non peccare più! Il rimprovero di Maria Grazia Arpino era giunto nella profondità della sua anima e vi aveva risvegliato un tale bisogno di pulizia che sarebbe stato il dono finale che RU avrebbe ricevuto da quella sua casa che era stata sempre per lui il luogo della sua rigenerazione. Dieci giorni dopo giunse a RU una lettera inattesa di lei da Torino. Maria Grazia gli spediva una delle sue predizioni, che avuta – disse – proprio dalla madre di RU. In essa lei incitava il figlio a proseguire sulla sua strada, poiché era la via maestra. Ritenne allora che fosse il caso di risponderle e il 9 settembre le inviò una lettera lunga e prolissa... difficilissima da capire. In sostanza in essa RU le diceva che nel disegno divino, e sulla sua strada maestra, non era prevista la loro unione. Solo il poco tempo che Dio gli dava. Così il Signore aveva mandato costole rotte, nervosismi, accuse di essere uno che poteva farle fare brutte figure, se non si lavava, e cose simili. Quando aveva provato a ripartire daccapo, lei aveva ricominciato a fargli critiche che erano solo il segno che lui non le stava più bene così come era fatto. Non poteva cambiare e aveva un compito da portare avanti. Le voleva bene. Lui era così, quando una persona gli entrava nel cuore non ne sarebbe uscita mai più, ma avrebbero cessato di essere amanti. Il fatto che RU non riusciva a capire di se stesso era che – nonostante tutte le sue tenere amicizie femminili e le sue relazioni anche amorose – egli si sentiva sempre uno che si era sposato davanti a Dio. Era veramente a cavallo quando incontrava resistenza e da sportivo si vedeva esaltato nel suo tentativo di conquista, perché in quel modo, non assumendo reali relazioni, tutto restava puramente confinato in un puro atteggiamento del pensiero e dell’anima e non ci sarebbero stati gesti contro il suo stato di uno che si era sposato davanti a Dio, e che nel referendum si era opposto al divorzio. Ne sarebbe stato vittima proprio lui, poiché nel 99 Giancarla gli aveva chiesto i divorzio civile e lui glielo aveva concesso. «Ma davanti a Dio – diceva – il Divorzio non esiste. In Paradiso – poi – finiremo tutti sposati l’uno all’altro». A Saronno, intanto, mentre era assiduo in chiesa e si sentiva anche bene ora che non aveva più un’amante, era nell’attesa del Buio, che aveva profetizzato e che era stato riportato ancora una volta da IMFORMAZONA.

NONA PIAGA D’EGITTO, il buio . RU aveva previsto e fatto conoscere ai giornali, che ne diedero notizia, come 10-10-2004 ci sarebbe stato il colmo del buio. Lo aveva scritto chiaro, in un comunicato alla stampa di cui ecco uno stralcio:

Ebbene il buio vero non sarebbe stato più ridotto al solo livello del Monsignor Angelo Centemeri, poiché si sarebbe comunque propagato fino a coinvolgere la cosiddetta Intellighenzia del mondo intero che sarebbe giunta a (mal)trattare il Papa dell’Enciclica Fides et Ratio e che tanto si era dato da fare per salvare la pace tra i popoli.


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2004 In questo articolo dell’8 ottobre 2.003 del Corriere della Sera risulta la candidatura del Papa come il vero candidato, ed è scritto che la nomina ci sarebbe stata solo venerdì 10 ottobre alle ore 11. Il previsto evento – il 10-10, alle 10,15 o alle 15,10 – dall’eccezionale impatto emotivo fu che il Papa, proprio per essere stato investito campione della pace da Gesù, principe della Pace, non fu – proprio quella mattina – giudicato di meritare il Nobel per la pace. E la decisione apparve proprio alle ore di quella mattina, che RU aveva predetto, solo nell’incertezza tra le 10 e 15 e le 15 e 10. Accadde alle 10 e 15.. La previsione del Buio, fatta da RU, era quella. Se il Papa non avesse avuto questa delega dal Cristo avrebbe già avuto questo premio da molto tempo (che già fu dato al Da lai Lama, o a Madre Teresa di Calcutta, non certo più meritevoli). Era davanti agli occhi di tutti che molto probabilmente sarebbe stata l’ultima occasione per premiare il Wojtyla durante la sua vita, tutta spesa in modo vincente a togliere dal mondo le occasioni di guerra (si pensi a quella Fredda e al ruolo avuto da lui). Fu veramente il colmo non premiare proprio lui in vita, solo perché era il Papa (investito appositamente dal Principe della Pace). Furono premiati due, tra i quali Nelson Mandela, e non il Papa. Restava l’ultima piaga, la decima, della morte dei primogeniti, e secondo RU ci sarebbero stati ancora 243 giorni di attesa, poiché il ciclo 10 delle 24 ore di un giorno indicava tutto il tempo e il flusso 3 indicava tutto lo spazio. I primogeniti riguardavano lui: il 9 giugno sarebbe stato due mesi esatti dopo il venerdì Santo di Gesù, e lui – che come Romano era uguale a un 66 – se era vero che era lui il suo doppione sarebbe morto a 66 anni, pertanto nel 2.004 e due mesi dopo essendo nato il 25 gennaio che è un mese dopo il natale di Gesù.

Sono io il sole della Croce! RU doveva passare tutto il tempo che gli restava di vita, per lasciare in ordine tutto quello che gli era capitato di compiere in quell’anno così straordinario per lui che era stato il 65° della sua vita. Oramai il 25 gennaio era entrato nel suo ultimo anno. Così preparò il suo commiato facendo stampare in sole 9 copie una raccolta di volumi che in 3.050 pagine riportavano tutta la sua opera. 1. 2. 3. 4. 5. 6.

L’ORTONOVO DEGLI ULIVI IL DIO DEGLI ESERCITI UN SOLE DALL’ALTO DOCUMENTI COLLEGATI TEORIA E ULTIMI 100 GIORNI MEMORIA AUDIOVISIVA.

Il primo marzo del 2.004 RU cominciò la cronaca giornaliera dei suoi ultimi previsti 100 giorni di vita. Lo fece e la terminò evidentemente prima del 24 maggio in cui prevedeva di paralizzarsi, se era vero che lui e il padre erano una cosa sola.


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BENITO DIRETTORE GENERALE DEL GIGLIO A CEFALÙ

L’8 marzo 2.004 Benito assunse a Cefalù, nella Fondazione San Raffaele Giglio, il suo ruolo di Direttore Generale. In perfetta corrispondenza con il previsto completamento del doppio dei 33 anni di Gesù, raggiunti due mesi prima, R-U-BEN conferma tutta la sua unitaria ripartizione in due persone le cui sorti sono diametralmente opposte, essendo perfettamente reciproche. Questa funzione di straordinaria importanza, assunta in Sicilia, in una Fondazione che – essendo patrocinata dal san Raffaele di Milano – ha potuto imporre un manager di altissimo livello corrisponde all’ideale raggiungimento, da parte di Benito, delle sue aspirazioni di potere lavorare per raggiungere il miglioramento della condizioni umane. ROMANO PREDISPONE LA SUA USCITA DI SCENA. È l’atteggiamento esattamente reciproco a quello dell’altra parte di se stesso, data da suo fratello. Naturalmente, dovendo il suo testamento spirituale essere terminato, stampato e rilegata prima, la cronaca poteva arrivare solo fino ad un certo punto e poi sarebbe stata la fantasia dello scrittore a galoppare, nell’immaginazione dei suoi ultimi giorni Previde che nella sera del 24 maggio sarebbe stato ucciso il santo Padre. Ebbene il 24 ci fu la riunione del coro e RU colse l’occasione per salutare tutti quanti, sapendo che si sarebbe paralizzato con l’inizio del giorno 25.

Immaginando la sua fine come quella di suo padre, morto dopo 14 giorni di paralisi, arguì che avrebbe avuto il suo venerdì santo il 9 giugno, due mesi esatti dopo quello di Gesù in quell’anno in cui aveva il doppio degli anni di Gesù, se era vero – come ormai era certo – d’essere un duplicato di Gesù nato un mese esatto prima del suo 25 gennaio. Aveva invitato i suoi amici di Informazona a presenziare all’evento, poiché sarebbe stata una “cosa speciale”. Aveva preparato pasticcini e bottigline di bevande, con le quali voleva celebrare in quel modo, lì, sotto quella croce in cui era stato rubato il corpo di Cristo la sua “Ultima Cena” con loro. La “cosa che diceva” fu che i coristi si rifiutarono. Voi dite che in questo non c’è niente di speciale, ma lo fu la ragione per cui non vollero quella che lui presentò come la sua ultima cena, con loro poiché dopo si sarebbe paralizzato: “In chiesa non si fanno queste cose!”. Sentiva che sarebbe stato male? Ammesso pure, lui non era Gesù Cristo, e uccisero decisamente il Divino Padre che è in ciascuno e che ci anima in ogni attimo della nostra vita, negandone totalmente l’esistenza. RU – come al solito – era andato a immaginare in quel giorno l’uccisione in una Chiesa del Santo Padre, come nel terzo segreto di Fatima... ma a morire, ucciso dai suoi cantori, e in tutti loro era stato il Santo Santo Santo Creatore della vita, che aveva ogni diritto di celebrare l’Ultima Cena che RU temeva in lui, in quella chiesa dove ogni giorno e in ogni messa si celebra l’Ultima Cena del Figlio. Chi ve lo racconta immagina le vostre proteste, fatte come contro a chi si arrampica sugli specchi senza alcuna ragione. Ma ve ne erano anche di oggettive. Il sistema di calcolare il potenziale in linea di una data – secondo RU – come il 2.004,0524 (a descrizione esatta dell’anno 2.004 intero, nel mese 0,05 di maggio e nel giorno 0,0024) derivava dalla radice quadrata, corrispondente alla date elevata a 0,5. Ebbene 2.004,05240,5 rivelava un lato lungo 44,76664383... in cui l’intero 44 era il piano dell’energia dato dai 2/3 del 66 valore in Gematria di Romano, 0,7 indicava la libertà e 0,0666 mostrava proprio la presenza reale della “bestia” dell’Apocalisse, alla dimensione reale decimillesima della realtà diecimila data da 104. Come vivente, in quella Chiesa, c’era proprio il proprietario di Informazona che si chiamava Mammone. Il giornalista intervistò una del coro che gli disse: “Romano è fatto così!” e fece spallucce. Il  fece allora l’ultima cena con Mammone e Luisa Restelli. RU ne provò tanto dispiacere che i suoi amici non avessero voluto riconoscere in ogni uomo la presenza del Creatore, che, tornato nel suo localino, senza servizi, volle paralizzarsi. Restò senza potersi muovere per parecchi giorni. Nella recita assidua che faceva delle Lodi al mattino, prima della messa delle 9, aveva avvertito in Chiesa, che se in quella del 25 non lo vedevano arrivare e il Santo


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Padre fosse morto, dovevano andare a casa sua, poiché lo avrebbero trovato lì paralizzato, come era capitato già a suo padre 14 giorni prima che morisse. Ora, poiché in quella Chiesa non avevano ucciso il santo Padre, ma il Santo Santo Santo Padre Nostro e in una forma invisibile... a nessuno venne in mente di preoccuparsi di RU, quando non lo videro arrivare alla recita delle Lodi, né il 25, né il 26, né il 27... I Credenti pensarono che si vergognasse dell’ennesima brutta figura che aveva fatto e che continuava, imperterrito, a ripetere. Il solo che si preoccupò fu un non credente, Mimmo il pizzaiolo. Non avendolo visto il 25 né il giorno dopo, allora andò fino a casa di RU, per controllare. Bussò, e nessuno rispose. Provò a girare la maniglia della porta, ma quella era chiusa. Così andò dai vicini e chiese loro se lo avevano visto e a supporre che forse il pover’uomo era paralizzato in casa e aveva bisogno di aiuto. “Che facciamo? Sondiamo la porta? “No, non possiamo. Lo diremo al vigile di quartiere” e se ne andarono. Ora alla porta dell’appartamento di RU era accaduta una cosa strana alla maniglia vecchia. Non apriva più la porta se era azionata girandola verso il basso – coma accade in tutte le maniglie di quel tipo – ma verso l’alto. Anche questo sembrava un brutto scherzo del destino poiché RU aveva lasciato per precauzione la porta senza chiuderla a chiave. Sarebbe bastato che Mimmo girasse la maniglia verso l’alto, e avrebbe aperto. Ma i presenti, che avevano provato nel modo giusto, ma sbagliato per quella maniglia diabolica, non vedendo aprirsi l’uscio di casa pensarono che probabilmente fosse andato via e avesse chiuso la porta a chiave. RU invece, da dentro quella stanza, lì sul suo letto immobile, imbrattato dell’urina che si era fatta addosso, era vigile, come suo padre, e udiva tutto, senza potersi muovere né dirgli: “girate la maniglia dall’altra parte”. Sperò allora che arrivassero i vigili, chiamati dai vicini, e arrivarono due giorni dopo. Da cinque ormai giaceva su un letto puzzolente di urina e feci, e d’un tratto si spalancò la porta, senza che nemmeno avessero bussato. Era questo vigile di quartiere, insieme a chi gli abitava vicino (che poi sarebbe divenuto un personaggio noto anche in televisione). Il vigile aveva dato una manata potente sulla maniglia e quella, trattata così con forza, si era aperta. Trovarono RU sul letto,

con gli occhi chiusi e il vicino disse al poliziotto: “E’ morto?” Quello, tastato il polso al paralizzato, gli rispose: “No, dorme”. R se ne andarono zitti-zitti, senza allarmarsi per il fetore e cercando di non svegliarlo, altrimenti poteva chiedergli che facessero in casa sua, entrati così, senza nemmeno bussare. Pensarono che prima era fuori, che era tornato e che ora dormisse. Se il Padreterno a un certo punto non fosse intervenuto di forza a farlo alzare dopo oltre una settimana, sarebbe morto. S’era appena alzato, e stava dirigendosi verso il cucinino, che bussarono alla porta, vicina a lui, tentando di aprirla e visto che non ci riuscivano per il solito motivo l’aprì lui da dentro. Era Mammone, l’ultimo che aveva visto in quella “Ultima cena” fatta in sostanza con lui, che aveva il nome del diavolo. “Ah, sei li? Tutti ti cercavamo!” Gli raccontò l’accaduto e Mammone tirò fuori con lui proprio le ragioni del maligno quando cerca di dissuadere il povero cristo dalla sua missione: “Tu devi tornare ad occuparti delle cose concrete! Lascia perdere queste questioni che – come vedi – non ti portano da nessuna parte, anzi ti portano proprio a finire male, molto male! Amodeo, ritorna in te stesso!”. Poi pubblicò il resoconto di tutta questa vicenda su uno dei successivi numeri di Informazona, per cui ci sono tracce di quanto vi è raccontato. RU era molto irritato di come si fosse comportata la Chiesa. Si era messo nelle loro mani e si era raccomandato che vigilassero su di lui... e non gli era passato nemmeno per la testa che potesse essere in difficoltà. Solo Mimmo il pizzaiolo si era messo in allarme ed aveva allertato i vigili. Decise allora di fare una protesta. Andò a Milano e cercò di indurre qualche giornalista del Corriere della Sera a presenziare ad una sua performance, un gesto eclatante che avrebbe fatto in chiesa. Riuscì solo a parlare con un giornalista, il quale, quando seppe cosa lui avesse in mente (di fare con San Francesco quando si era spogliato in Chiesa e aveva lasciato in quel modo pubblico la sua vita dorata), sconsigliò assolutamente RU. Per tutte le traversie che di recente aveva passato con i Servizi Psichiatrici (e delle quali aveva parlato al giornalista) avrebbe dato loro il destro e sarebbero ripartiti subito alla carica. Gli consigliò di andar via subito e di non tornare nemmeno a Saronno. Già era un motivo sufficiente la sua paralisi! Se vi aggiungeva altre cose si tirava addosso da se stesso e di muovo i vari Medici che aveva anche denunciato per abuso di potere. Quel giornalista che così tanto s’interessò a lui era mandato dalla Provvidenza! RU ne convenne, e non tornò a Saronno.


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Poiché suo padre aveva patito la sua personale via Crucis... e lui pure, si trasferì ai piedi della via Crucis di Sacro Monte di Varese, per continuarla lì. Affittò una camera all’inizio delle 14 stazioni, ma dovette abbandonarla, dopo soli due giorni, poiché erano venuti coloro che l’avevano prenotata già da tempo. Poiché andava su e giù percorrendo quella via della croce, provò a vedere se c’era posto in cima e lo trovò nel Ristorante Sacro Monte che affittava anche camere da letto. Essendo giugno, c’era una stanza libera, e l’affittò. Continuava a credere che il 9 giugno sarebbe morto. Quando venne quel giorno, alle ore 15 era proprio davanti alla cappella 10 di quella Via Crucis che celebrava la morte di Gesù. Restò in attesa della sua morte, ma non avvenne. Senza rimanerci molto male, in verità, poiché non aveva alcuna voglia di morire, se ne tornò nella sua stanza in albergo e si mise a sedere sul letto. In verità solo “ci provò” poiché appena chi si appoggiò sul materasso, l’intero letto, con se sopra cadde e si abbassò fino al pavimento. Era accaduto che quella branda non aveva le gambe e poggiava nei quattro spigoli su appoggi situati agli angoli. Per una misteriosa questione, una delle due testate del letto, quella verso i piedi, si era aperta; gli appoggi si erano allargati e la branda, non più sorretta, con il materasso e RU seduto sopra erano caduti fino al pavimento. Insomma la caduta di RU ci fu, e fu solo questa. Rimase alquanto perplesso che si fosse così sbagliato (però meno male!). Chiamò i gestori del Ristorante albergo

e gli mostrò cosa era accaduto al letto, che si era aperto ed era in terra . Quelle persone non riuscivano a farsi una ragione plausibile per cui tutto questo fosse potuto succedere. A parte la coincidenza, una cosa di questo genere è alquanto rara che accada in un albergo. RU disse loro di annotarsi di questa cosa, poiché quello era per lui un segno importante, e gli interessava molto che potesse avere testimoni. Come si vede, il venerdì santo era il 9 aprile. Due mesi dopo era il 9 giugno. Nel 2.004 RU, nato del 1938, aveva compiuto 66 anni.

DECIMA PIAGA Dì EGITTO,la morte dei primogeniti SEMBRAVA UN ERRORE MA AVEVA COLTO NEL SEGNO: ERA IL DUPLICATO A TUTTE DIMENSIONI CHE PREDISSE Aggiungendo i due lati del piano trasversali di 100 e 100 giorni (due Centemeri!) si arrivava esattamente il 26 dicembre, ossia al primo giorno dopo Natale, assi al giorno n. 2, per chi era nato del 1° mese dopo natale. Poiché il tempo vale nel volume, per descrivere tutto il volume e non solo il flusso fino al 9 giugno occorreva aggiungere anche i 200 giorni collocati per traverso ad indicare l’ampiezza della realtà che con 100×100=10.000 costituiva tutta la realtà unitaria in 104. Fino a qui potreste credere che accadeva “per caso”. Ma qual era la domanda?


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Era: vediamo se è vero che io sono il Doppio di Gesù, ossia un numero 2. Intanto è accaduto nel 2° dì dopo Natale In secondo luogo i giorni che ha RU il 26 dicembre 2.004 sono, come dice il computer: 22222 + 2220 uguale a 222×2×10/2

2005

Tutto si può affermare tranne che non sia un 2 nella dimensione delle 5 dita della mano e in quella delle 3 dell’unità dello spazio, moltiplicante per l’unità del 2, moltiplicata per 10 mezzi. Romano era esattamente il 2 che aveva predetto a tutte le dimensioni 1, 3 e 5 e sarebbero appare quando si sarebbe rappresentato tutto il volume e non solo il flusso del piano della realtà 10.000. Ora se fosse finita qui... Infatti era il giorno dello TSUNAMI. Secondo voi accade solo per caso che

T sun am I

significa Il sole della croce sono io? È solo un caso che questo IO SONO IL SOLE DELLA CROCE è quello che è Nato il giorno Prima? E’ insensato ritenere che chi approfitta di uno nato per andare incontro alla croce sia da celebrare in modo PRESENTE e non ASSENTANDOSI per andare a prendere il SOLE della tintarella nei paesi in cui ci fu il MAREMOTO? E’ per caso che chi si assenta e preferisce RA, il Dio del Sole, al Natale del SOLE DELLA CROCE, praticamente si OPPONE all’esodo, come si opposero gli Egiziani sul mar rosso e finirono annegati cavallo e cavaliere? NASCITA DI MAYA AMODEO Il 29 settembre venne al mondo il primo nipote di RU, una bella bambina nata da Marco e sua moglie Mina Marie Helena DUMONTE (14-9-74). Sposati in Comune a metà giugno 2004, con la bimba già in viaggio. Che un RU così inquadrato nella fede Cristiana e nei valori della Chiesa il Signore avesse assegnato nipoti così anomali non era per lui alcun problema. Anche i suoi genitori, che nel loro compito erano controfigure particolarmente elette avevano un Cattolicesimo praticato, ma in modo apparentemente marginale alle questioni fondamentali della loro vita... il che – stando ai ruoli deputati – non avrebbe dovuto in alcun modo essere. Maya avrà una particolare attinenza con il famoso Calendario, che avrebbe poi coinvolto profondamente la sua famiglia.

In Missione da Padre Pigi in Brasile All’inizio dell’anno RU si mise in contatto con Pierluigi Bernareggi, suo compagno di Ginnasio e Liceo al Berchet e che era divenuto Missionario in Brasile, e chiese se poteva essere di aiuto. Infatti aveva già programmato tutta la sua vita sapendola a termine nel 2.004 e aveva avuto la sorpresa di avere travisato l’esattezza del messaggio, pur cogliendone la parte essenziale. Padre Pigi fu lieto d’ospitarlo e RU il 24 gennaio vola a Belo Horizonte, nello Stato di Mina Gerais, nella parrocchia di santa Maria dos Anjos (degli Angeli) in un quartiere intorno a Rua Primeiro del Majo, in cui tutto il quartiere si ergeva su una collinetta, attraversata sotto dalla metropolitana. Diede all’amico però la notizia che comunque gli restavano pochi giorni di vita, poiché dai conti che aveva il 29 gennaio in cui era stato investito nel 2002 era stato un segno che gli sarebbe toccato aggiunti i due anni del piano trasversale. Inoltre lo dicevano a lui i giorni di vita che avrebbe avuti il 29, cioè 24.476, in cui le 24 migliaia gli indicavano tutte le 24 ore del giorno e 476 erano ancora le 24 ore a esistere in 500, tutto il flusso in avanti nel 1.000. Sarebbe accaduto alle prime luci dell’alba. L’amico lo ascoltava senza dir nulla. Avrebbero visto come andavano a finire le cose. Venne il mattino ma la morte di RU (e del Papa... lui vedeva sempre la morte del papa insieme alla sua) non venne. Quando vide Padre Pigi e gli disse “Non sono morto” intervenne subito lui dicendo “Ma qualcuno qui è morto: due persone; ho appena ricevuto l’annuncio”.


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Ora accadde che l’arrivo di RU fu festeggiato. Padre Pigi disse dal pulpito che era venuto a trovarlo il suo vecchio amico di quando era ragazzo e con lui erano allievi di Don Giussani. Che andassero tutti a salutarlo. Così tutti si recarono ad uno ad uno da lui ad abbracciarlo... come se andassero a prendere la comunione. Il dì dopo RU, mentre si apprestava a rientrare in casa, fu avvicinato da un giovanotto, alto e sorridente, che gli chiese come andasse. Lo seguì mentre egli entrò nell’androne. Sulla destra c’era una finestrella che permetteva di vedere e comunicare con chi entrava e di fronte la cancellata, con tanto di sbarre, per proteggere l’alloggio del missionario. In quella, dalle sbarre, una ragazza porgeva da bere a un altro ragazzo. RU prese la chiave del cancello e entrò. Quel giovane lo spinse e si unì all’altro per fare irruzione. La ragazza cominciò a strillare e RU si puntello tra il muro e una altra fila di sbarre, che creavano un lungo corridoio, per opposi col corpo a quella irruzione. SATANA LO MINACCIÒ CON UN REVOLVER E LO SEQUESTRÒ Fu così che si vide sulla tempia un revolver che sconsigliò ogni resistenza. Furono legate le mani una sull’altra con dei lacci di plastica, sia lui, sia la ragazza, che era un’altra ospite di padre Pigi e portati nel primo locale, che era la cucina. Chiedevano qualcosa che a RU – che non conosceva il portoghese – faceva intendere di un certo “segreto”. No, non era ilo segreto che cercavano ma la chiave della cassaforte e la volevano da loro due. Padre Pigi a tutti e due aveva dato per fortuna solo le chiavi di casa ma non della cassaforte, che non sapevano nemmeno dove fosse. Furono divisi. Il primo che era quello che aveva agganciato RU restò con lui a fargli domande che lui non capiva cosa significassero. L’altro aveva portato la ragazza in una altra stanza e a lei che conosceva il portoghese, diceva che sarebbe stato ucciso il suo amico se lei non gli dava la chiave della cassaforte e non gliela mostrava. Lei gli disse di stare attento perché quell’uomo è ammalato di cuore e rischia di morire. A RU comunque giungeva il messaggio che avrebbero ucciso uno di loro due se non dicevano “u secretu”. RU senza esitazione gli disse: “Mata me” che con quel poco che sapeva intendeva dirgli di uccidere lui e non la ragazza. Quando seppe dal compare che RU soffriva di cuore, andò a prendergli dell’acqua e lo fece bere. Restarono in attesa, per quasi mezz’ora, per fortuna non arrivò padre Pigi e pensarono di andarsene con il magrissimo bottino di qualcosa che in euro sarebbero sei o sette, e il telefonino della ragazza. Arrivato Padre Pigi era trasecolato. In trenta anni che lui era stato in Brasile non gli era capitata mai una cosa del genere, arriva RU e lo sequestrano, minacciandolo di morte! Venne la polizia e capirono che si trattava del bandito “Caisino” (formaggino).

Il lavoro fatto da Padre Pigi e RU (come muratori), e poi da altri italiani che lo terminarono, fu soprattutto quello di porre mano al sopralzo di una favela cui si accedeva da questa porta e che realizzò ai quattro spigoli di un locale a piano terra con pareti in forati i pilastrini per sorreggere il sopralzo di quella stanza, cui poi si salì dalla scala su cui il satellite di Google Earth mostra seduto un bambino.


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Ci furono molti amici, come Paula Queroz che si offrì di fargli da guida; qui è in un fotomontaggio con Padre Pigi. Una altra data intrigava RU, il 9.2.2005. Si doveva trattare – dati 7 giorni in più rispetto ad altri precedenti e significativi, del segno di una grande libertà, poiché avrebbe avuto 24.487, uguali a 25.000 meno 513. 25.000 era ¼ esatto del 100.000 che era il lato dell’area unitaria data da 10 elevato a 10. La presenza 513 che vi si muoveva dentro, era il tempo di ¼ delle 52 settimane dell’anno, dunque la presenza reale, in tutto il suo moto della metà solo positiva di 1.000 era il segno della massima libertà che lui avrebbe avuto in quel dì. Era l’inizio della Quaresima in Brasile e, considerando il suo rinomato Carnevale, fu una liberazione, certo divina. Ma il mattino sedutosi sul gabinetto, tutto il suo intestino si svuotò interamente in un sol colpo, quasi come uno scoppio: il 16° giorno ch’era in Brasile s’era liberato! E riuscì o padre Pigi ad aiutare una handicappata a farsi una casa, con un sopralzo di una delle favelas! Raccontò a Padre Pigi dell’importanza dell’acqua e scoppiò un acquazzone che scoperchiò tre cisterne dell’acqua della Chiesa! PROFEZIA DELLA MORTE DI DON GIUSSANI E DEL PAPA

Per la sua successione RU aveva visto molti segni che lasciavano intendere come il suo successore il Cardinale Tettamanzi. Aveva anche scritto un libro intitolato “Come ti faccio un Papa ideale”. Non riuscì a farlo, poiché . secondo lui – quel cardinale avrebbe dovuto prestargli fede e abbracciare la sua causa. Per quanto gli avesse più di una volta proposto quella cosa, egli l’aveva vista sempre come una emerita sciocchezza. Gli indizi che – a detta di RU lo indicavano come il futuro Pietro – quel cardinale li aveva nel nome e cognome. TETTAMANZI era la TETTA di Maria postagli ANZI e il suo nome DIONIGI era un misto di Dio padre e di suo padre Luigi. Quel seno posto davanti a Maria era il seno che aveva allattato RU mentre sua madre piangeva e invocava Maria. Quel cardinale poteva essere chi avrebbe allattato quel pargolo che il suo predecessore aveva fatto nascere con l’Enciclica Fides et ratio. Dio – come ho già detto – faceva sbagliare RU – affinché emergesse il suo lato umano, ingannevole. C’era bisogno, poiché le verità che sarebbero state rivelate da RU sarebbero state tali da far credere un giorno che egli fosse Dio. Come fece con Muhammad, sposo di una non ancora dodicenne, mettendo in luce atteggiamenti critici del Profeta di Allah, così Dio fece anche con RU, infedele, traditore e con più donne che trattò come mogli. Il 6 maggio, 34 giorni dopo il Papa, morì a Milano anche Elda Scarzella Mazzocchi, la sua grande amica pedagogista, madre di Alberto. I suoi 3 più grandi sostenitori: Don Giussani, il Papa e la Scarzella, se ne tornarono in cielo FU ELETTO PAPA IL PIETRO DELLA VECCHIAIA Vi erano due ragioni che dovevano eleggere Pietro il Card. Joseph Ratzinger. La prima: Era chi Gesù aveva descritto come il “Pietro da vecchio” che avrebbe steso le braccia e dato a un altro il compito di fare le cose che egli non voleva. La seconda: era il n. 112 “Gloria Olivae” della profezia di San Malachia sugli ultimi Pietro


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SECONDO DIGIUNO DEL  PER LA FIDES ET RATIO Con la venuta del nuovo pontefice, RU ritenne di tornare alla carica, e di riprendere da dove aveva dovuto rinunciare, per il rifiuto di suo fratello a prendersi in casa sua la loro mamma e il proposito di farla internare in un Istituto di cura. Non doveva commettere gli stessi errori fatti prima, in cui aveva troppo puntato sulla sua persona. Stavolta avrebbe dovuto agire in modo anonimo, presentandosi come un pecorella smarrita che non mangiava in assenza del Buon Pastore, digiuno garantito dalla serietà di un giornale che fosse letto dal Pontefice, e che avrebbe portato con delle lettere la notizia al santo Padre. Quando era stato a Montesilvano aveva visto come il Giornale IL CENTRO fosse collegato con il MESSAGGERO ROMANO, letto certamente dal Papa. Doveva allora tornare a Montesilvano e cercare di coinvolgere IL CENTRO. Prese questa decisione e, l’11 ottobre del 2.005, iniziò il digiuno, andandovi ed affittando un appartamento al n. 8 di Via Verga … la palazzina indicata dalla freccia. Andò al giornale IL CENTRO, di Pescara, e raccontò come avesse nel 1999 digiunato per 57 giorni e annunciò, a loro che facevano per mestiere quello di portare le notizie, che lui l’11 ottobre aveva ripreso a digiunare. Chiedeva al giornale di consegnare una lettera a Benedetto XVI, informandolo di ciò e attendendo decisioni dalla Santa Sede. Se, dopo un lungo digiuno, il Pontefice non avesse risposto, erano disposti a pubblicare la notizia su IL CENTRO? Infatti, se il Pontefice non avesse risposto, voleva dire che – ancora una volta – non gli avevano fatto conoscere che una pecorella smarrita si era messa nelle mani di lui come del Buon Pastore da cui ricevere amore e sostegno. In tal caso solo la notizia del fatto sul giornale avrebbe potuto scavalcare il muro posto dai Fideisti attorno a lui, per impedire il dialogo che loro non volevano tra le Fede e Ragione e che invece Giovanni Paolo II aveva auspicato sulla sua Enciclica. Il Responsabile del Giornale capì e si dichiarò ben disposto. Avrebbe consegnato la sua lettera e si sarebbe fatto garante della verità del suo digiuno, se lui la documentava al giornale con il suo calare del peso, misurato con le bilance delle farmacie. L’accordo fu preso e RU ogni giorno si pesava e conservava lo scontrino del

peso, sempre misurato alla stessa bilancia. Avrebbe subito dato al Giornale la sua lettera al Papa. RU si fermò poco in quell’appartamento. Infatti andò in visita da Maria Grazia e seppe che era libero l’appartamento di fianco al suo. Dato quello che stava facendo, se la sentiva di dargli un’occhiata se il digiuno lo avesse spinto al lumicino? Maria Grazia gli promise che lo avrebbe tenuto d’occhio. Così il primo dicembre RU si trasferì al Condominio Riviera II, in via Aldo Moro al n. 22, in un appartamento affittatogli dall’Ing. Mangia. Amodeo ne parlò un dì con Don Antonio Rapagnetta, parroco di Sant’Antonio, che lo sconsigliò di digiunare, e gli offrì un panino. «Mangi! La Chiesa è lenta a rispondere anche alle gravi questioni locali poste dai Parroci!» RU consegnò a IL CENTRO la prima lettera da trasmettere personalmente al Pontefice. In essa scrisse che il precedente Papa, Giovanni Paolo II, aveva chiesto perdono a Galileo Galilei per le azioni mossegli contro dalla Chiesa, e aveva agito egregiamente. Aveva però omesso di chiedere scusa e perdono soprattutto al Galileo Gesù, poiché il primo – Galileo Galilei – come il suo stesso nome attestava, non aveva fatto che replicare i contenuti di verità scientifica che Gesù Cristo aveva comunicato al mondo consegnandoli al dotto Nicodemo. Il principio di Azione e Reazione, grazie al quale è visto ruotare il Sole attorno alla Terra quando la verità è che è la Terra a farlo, è secondo la stessa relazione tra le due opposte dinamiche, dell’acqua e dello Spirito Santo, di cui il Cristo aveva reso edotto la Scienza, tramite Nicodemo. Lo stesso Pontefice aveva auspicato, con l’Enciclica Fides et Ratio, che Fede e Ragione dialogassero e un filosofo s’era messo a digiunare già nel 1.999, e lo aveva fatto per 57 giorni, pur di portargli la documentazione della verità del Galileo Gesù. La Chiesa aveva promesso avvocatura a chi avrebbe rischiato per superare l’isolamento e quel filosofo cercava di attirare l’attenzione del Papa ponendosi nelle reali condizioni


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della pecorella smarrita che invoca il cibo che non ha se il Buon Pastore non ne ha cura. La pecorella smarrita vera, però, non era quella del filosofo che digiunava, ma quella stessa del Galileo Gesù, le cui verità erano state perdute e ritrovate solo da Galileo Galilei. Ora doveva ritrovarle anche la Chiesa. Il filosofo a digiuno sarebbe stato davvero come la pecorella smarrita che attende il soccorso del Buon pastore. La lettera era firmata con “La pecorella smarrita”.

Aveva usato quelle due parole, mangia, mangia, quasi sapendo anche il nome del suo proprietario di casa, che si chiamava esattamente Mangia. Poi non gli disse nient’altro. Ma traspariva nel suo volto il bene enorme che gli voleva e che gli aveva sempre voluto, Anche la casa in cui era RU a Saronno era di lui, poiché lei aveva voluto metterci quei 12.000 euro che il nuovo proprietario (che l’aveva rilevata da Gigi Flocco) aveva richiesto per intestargliela. Tornò subito a Montesilvano. TRE RICHIESTE A PIETRO: “MI AMI PIU’ DI COSTORO?”

VISITA A SALERNO, E LA ZIA EMILIA A LUI: “MANGIA!”. Nei giorni del suo digiuno RU pensò di andare a far visita a sua zia Emilia, a Salerno, che era gravemente ammalata. Si era avviata, ma solo in minima parte, sullo stesso percorso terminale di sua sorella, ed era già per certi versi della sua persona, andata nel lato reciproco che esiste, nella vita. RU ne ebbe la prova quando, entrando nella stanza in cui sua zia era a letto (e con il volto girato dalla parte opposta alla sua), si avvicinò a lei dal lato sbagliato, a detta di suo figlio Nicola, ormai medico. Sua madre non ci sentiva più dall’orecchio sinistro e RU, avvicinandola da lì, sarebbe andato dalla parte in cui sua zia non avrebbe udito nulla. Nicola non riuscì a fermarlo, poiché sua madre, Emilia, aveva già avvertito che stava arrivando e sapeva già tutto di quel digiuno che lui stava facendo. Infatti, nel mentre si voltò, di scatto, verso di lui, l’accolse dicendogli: “Mangia! Mangia!” Lo ripeté due volte, per sottolineare il consiglio che lei gli stava dando... dall’altro mondo, in cui già era a conoscenza di tutti gli eventi. Infatti, per coloro che sono in quella parte reciproca a questa nostra nell’Uni-verso, il futuro di qua è il loro passato. Solo che quando si è in condizioni come quella di sua zia, le comunicazioni tra le due parti opposte dell’esistenza non sono molto facili. E’ come quando si viaggia su un treno e arriva dall’altra parta uno che va nel verso opposto: si possono bloccare solo degli attimi. Fu la stessa cosa di quando sua madre (quella volta, poche decine di giorni prima di morire) aveva esclamato “E’ un bravo ragazzo” per quella condizione estatica che stava vivendo suo figlio mentre piangeva in silenzio, sentendo su di sé tutto l’amore di Dio. Aveva subito cercato un dialogo con la madre, ma lei non aveva risposto altro, alla fine, che un “Tu”. Allo stesso modo era sua zia, che lo aveva amato e curato quando era bambino; colei che quella volta gli aveva impedito di finire nella scarpata, visto che penzolava già con le gambe oltre il muro e gli aveva salvato la vita. Lei sapeva già che esito avrebbe avuto RU e la sua lotta. Non aveva in quel settore e in quell’ora la vista lunga per un futuro molto più in là. Lei dava a vedere di conoscere non più di quei mesi che forse mancavano alla sua fine.

Avendo atteso inutilmente per quindici giorni che il Papa rispondesse, alla prima lettera RU diede al giornale una seconda lettera. Attesi inutilmente altri quindici giorni, aggiunse come ultima la terza lettera, che ribadiva quei temi. LA DECISIONE DI METTERSI IN CROCE A PESCARA Quando fu il 4 dicembre ed erano già trascorsi 54 giorni di digiuno, senza che risposta fosse stata data a IL CENTRO da parte del santo Padre, RU annunciò che il solo modo che restava era quello di pubblicare la notizia su quanto avrebbe fatto lui di “SPETTACOLARE” il giorno dopo: si sarebbe incatenato al cancello della Chiesa del sacro Cuore di Gesù a Pescara, coperto solo da un panno attorno alla vita del suo corpo nudo, come lo era stato il Gesù crocefisso. Un cartello avrebbe descritto tutta la ragione di quel gesto, e il giornale IL CENTRO avrebbe dovuto destinare – come negli accordi – una pagina all’evento, con una fotografia di lui in croce, il manifesto e la testimonianza diretta del giornale su quello che avevano fatto e al quale il Santo Padre non aveva risposto nulla. IL CENTRO garantì che avrebbe mandato un giornalista e il fotografo. Così, in una gelida mattina di dicembre, il 5-10-5, RU prima fissò una telecamera ad un palo, con un nastro adesivo, e la mise in azione, controllando per bene che essa funzionasse e che inquadrasse esattamente la scena. Poi entrò in essa e si spogliò. Aveva già, sotto gli abiti e al di sopra delle sue mutandine, quel panno che aveva coperto i fianchi di Gesù e che ora copriva i suoi. Mentre un vento gelido veniva dal mare, posto a non molta distanza, si incatenò alle sbarre del cancello della chiesa, dopo di avere disposto, di fianco a sé, il manifesto in cui spiegava il senso di quello insolito SPETTACOLO. Accorsero i primi curiosi e gli fecero domande, poi altri e presto ci fu tutt’intorno un capannello di persone che assistevano incuriosite e sbigottite, e che, quando chiedevano a RU il perché di tutto quello, si sentivano dire che era «tutto scritto nel manifesto».


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I soli che brillarono per la loro mancanza furono i preti di quella Chiesa, come se un povero cristo che ha scelto proprio la Chiesa del Sacro Cuore di Gesù ne avesse scelta una che non inerisse l’amore del Cristo e la sua sollecitudine verso tutti i poveri cristi. Usarono le dita della loro mano non per dare un soccorso, ma per girare la rotella (quella dei numeri del telefono) e per chiamare la Polizia: che venisse a toglierli da quella situazione, in cui non potevano uscire con le auto dal cortiletto, perché un uomo si era incatenato proprio al cancello. Vennero i poliziotti. Interrogarono quell’uomo incatenato e si sentirono dare la stessa risposta: le ragioni del gesto erano pubblicate in quel manifesto vicino a lui. Venne il fotografo del giornale e fece molti scatti, da tutte le parti. A quel punto la polizia disse all’uomo che poteva anche por fine a quello spettacolo poiché le foto c’erano, IL CENTRO avrebbe dato la notizia e dunque era riuscito. Perché stare ancora lì, con tanto freddo e nudo come un verme? L’incatenato (per modo di dire) si lasciò liberare. Ci si può incatenare le mani? PORTATO DI FORZA ALL’OSPEDALE DI ATRI (TERAMO) RU credeva di potersene tornare a casa, ma la polizia gli consegnò prima la telecamera (che qualcuno aveva staccato dal palo) e poi gli disse che doveva esser condotto all’ospedale, per accertare le sue condizioni di salute. All’ospedale il medico che lo esaminò constatò come fosse perfettamente in sé, calmo, consapevole. Sì, come un operaio che s’è incatenato al cancello del suo opificio dove non gli danno la sua paga... Lo portano all’ospedale, se smette? “Sì, ma lei si è spogliato, e quando è così noi di regola mandiamo tutti all’ospedale psichiatrico per controllare lo stato di salute mentale”. Con la sua borsa e la telecamera lo portarono fuori provincia in quella di Teramo, all’Ospedale San Liberatore, di Atri.


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Ancora una volta RU pativa violenza indebita, poiché un ASO (accertamento sanitario obbligatorio) poteva essere imposto solo a condizione che un Sindaco avesse scavalcato la sua personale responsabilità civile. Senza il dispositivo emanato dal primo cittadino di Saronno, o di Pescara, non potevano costringere Romano ad essere visitato.

dopo aver avuto la garanzia che non gli avrebbero dato farmaci, di nessun tipo, né fatto terapie – solo dopo! – si fece ricoverare di sua volontà. Ecco in sintesi la cartella clinica del suo ricovero, dal 5-12-2.005 al 4-01-2.006. Diagnosi di entrata: “Sindrome delirante” Diagnosi definitiva: “Episodio di eccitamento maniacale in remissione parziale”. ANAMNESI PSICHIATRICA: Broncopolmonite nel ’40. Laureato. Divorziato. Vive da solo per scelta personale. Problemi con la propria famiglia: morte di sua madre nel 2.000. Assunzione di Alcool: negativo. Assunzione di droghe: negativo. Problemi con la legge: negativo. Niente da rilevare in disturbi dell’attività razionale, disturbi dei vissuti soggettivi, dello stato di coscienza, della performance, psico-fisiologici; nessuna turbe del sonno, né disturbi di conversione somatica, o condotta alimentare abnorme, né tentativi di suicidio. Disturbi del giudizio di realtà: mistici. Malattie concomitanti: nel 2.002 trauma cervicale da incidente stradale.

Qui giunto, RU raccontò alla dottoressa che lo ricevé tutto l’accaduto e che aveva dovuto ricorrere a questo spettacolo per poter avere l’onore di una pagina sul giornale, la sua foto di lui in abiti cristici, incatenato come se fosse stato crocefisso alle sbarre del cancello di quella Chiesa che volutamente egli aveva scelto come quella del Sacro Cuore di Gesù. La Dottoressa lo comprese e gli disse che per lei se ne poteva andare a casa. Però che Amodeo seguisse il suo consiglio: sui giornali ci sarebbe andato, il Papa avrebbe letto... e che allora era proprio il caso che cogliesse al volo l’occasione per farsi fare un bel controllo! Aveva digiunato ben 55 giorni e poteva patire ora qualche grave scompenso alla sua salute. Peraltro... era gratis... RU non poté che darle ragione. Tutto quello che doveva fare l’aveva fatto, l’OSSERVATORE ROMANO avrebbe riportato il suo spettacolo cristico, con lui nudo incatenato ben fotografato e diede retta al saggio consiglio e restò. Solo però

ESAME PSICHICO: Atteggiamento verso l’esaminatore: positivo. Attendibilità e completezza delle informazioni: buona. Aspetto: la sua età. Condizioni fisiche apparenti: discrete. Peso: nomale. Altezza: media. Volto: astioso (minimo); ipervigile (lieve). Rallentamento psicomotorio: assente. Eccitamento psicomotorio: assente. Tremori: minimo. Non cooperativo: assente. Isolato: assente. Alterazione della capacità di svolgere attività finalizzata: assente. Sospettoso: lieve. Aggressività: assente. Teatrale: marcato. Povertà emotiva: assente. Discordanza: assente. Ritmo del discorso: veloce. Produttività: aumentata. Prolissità: marcata. Perdita delle associazioni: minima. Idee di grandezza: marcata. Idee di suicidio: assente. Idee di riferimento: assente. Fobie: assente. Idee ossessive: assente. Deliri: certi. Delirio di grandezza: marcato. Delirio mistico: marcato. Appetito: ridotto. Livello di energia: normale. Insonnia: assente. Allucinazioni: assente. Disturbi dell’orientamento nel tempo: assente. Disturbi dell’Orientamento nello spazio: assente. Disturbi di fissazione: assenti. Disturbi di rievocazione: assenti. Stima dell’intelligenza: media. Possibilità comportamenti suicidi o violenti: difficilmente valutabili.

Sono stati evidenziati in neretto i giudizi espressi a partire sempre da queste ingiuste idee preconcette: che un soggetto che è spinto dal Papa a rischiare di tutto volentieri pur di superare l’isolamento (parole Sue sull’Enciclica Fides et Ratio) sia vittima di una sindrome delirante se – tentata inutilmente la via giusta colle TRE lettere al Papa mandate tramite IL CENTRO di Pescara – poi concorda con lo stesso giornale uno SPETTACOLO che faccia colpo su questo mondo.


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Se un attore deve recitare la parte di Cristo e si denuda, è forse poi portato all’ospedale poiché si è denudato? E’ un maniaco ? è uno eccitato ? Questo gesto – checché ne pensasse la stolta sapienza del mondo – fu proprio quello così descritto da Giovanni nel capitolo ultimo del suo vangelo: 14 Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti. 15 Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16 Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti amo». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». 17 Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi ami?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. 18 In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». Le tre lettere a Pietro mandate dal povero cristo Romano Amodeo (che non aveva idee marcate di grandezza, non si credeva il Cristo ma il mite  su cui Egli, Cristo, portava avanti le sue idee) al Pietro Benedetto XVI furono proprio quelle tre domande di amore cui seguirono tre ordini di pascere le pecorelle . Tutto questo andava considerato sulla base del Vangelo di Matteo, cap. 25: 31 Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria ...separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri ... 34 Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio... 35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare... In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. 41 Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti ... ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare....In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. Tutto avrebbero immaginato gli Psicologi del San Liberatore di Atri che stessero assistendo alla condanna del Signore al comportamento dei Pietro, che non erano più in grado di vedere Cristo in ogni povero Cristo anche quando il Vangelo di Matteo chiaramente l’aveva detto: l’avete fatto a me, ogni volta, in verità.. Il versetto 18, quello che nella Costituzione Italiana è l’art.18 del «licenziamento per giusta causa» è la stessa cosa per Dio che LICENZIA PIETRO, quel Pietro della vecchiaia che si dimetterà proprio poiché si crederà vecchio,

dimenticandosi che per tre volte era stato invitato a pascere le pecorelle investito da amore e non da capacità. Presunzione enorme di un Pontefice che crede che tutto quello che egli lega sulla Terra sia poi legato in cielo... e non viceversa (se ancora vede il divino)! Infatti il Simon Pietro che si cingeva da sé i fianchi, da giovane, e che andava dove voleva, vedeva Gesù (che era in modo naturale e reale figlio di Maria e di Giuseppe) e intravedeva in lui il FIGLIO DI DIO. Alla Fine dei Tempi, con Benedetto XVI, Dio usò il  di Romano per fargli giungere le SUE tre domande : «Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?», (1a lettera la Papa) «Simone di Giovanni, mi ami?», (2a lettera al Papa) «Simone di Giovanni, mi ami?» (3a lettera al Papa) Alle domande del povero cristo non si degnò nemmeno di rispondere... poiché quel povero cristo NON ERA IL CRISTO (checché ne avesse detto Gesù!). Per i grandi Psicologi dell’ospedale – seguaci delle regole del mondo per le quali i primi comandano e gli ultimi servono in silenzio – chi era affetto di marcato delirio di Grandezza NON ERA quel Benedetto XVI che – opponendosi al vangelo di Gesù Cristo! – lo aveva lasciata digiuna una pecorella smarrita per 55 giorni in MontesiLVAano. Una città che pareva dovesse perfino il suo nome ai 55 giorni di digiuno di un Romano A. per il quale il numero in latino 55 è LV. No. Il delirio religioso – secondo i sapienti del mondo – era quello di chi semplicemente credeva nel vangelo al punto da sapere che Gesù è affamato in lui povero cristo, da un Papa che – se lo affama – è un Anti-Cristo . Sarebbe però chiedere troppo a dei semplici Medici, di questo mondo reale che non ha più alcuna fede nelle verità scritte nei vangeli, al punto che chi invece vi crede è – secondo loro – vittima di pura esaltazione mistica. Nel suo armadio, all’ospedale, RU aveva conservato la telecamera che – per evitare che fosse manomessa – aveva tutta avvolta in un cartoccio, sigillato con il nastro adesivo da pacchi, come se fosse un pallone con cui giocare al calcio. Non aveva potuto leggere cosa fosse stato pubblicato su IL CENTRO, poiché, stando fuori della provincia di Pescara, le pagine relative erano un inserto che ad Atri erano sostituite da quelle relative a Teramo. La fine del 2.005 fu trascorsa così: tra gli ammalati, che cercò di aiutare in ogni modo, affiancandosi all’opera degli infermieri. Questa seconda volta, a differenza della prima, a Natale poté andare a messa e compiere tutte le azioni cui sono chiamati i Cattolici. Aveva il permesso di uscire dal reparto e di andare in giro per tutto l’ospedale.


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2006

Il primo dell’anno RU era ancora nell’Ospedale di Atri. Fu dimesso il 4 gennaio e tornò a Pescara, nell’appartamento di fianco a quello di Maria Grazia Arpino. La prima cosa che fece fu di andare al giornale IL CENTRO per vedere come avessero trattato quella questione, ed ebbe una notizia inattesa e molto brutta per lui: il servizio non lo avevano fatto, poiché la pagina che era stata riservata a lui nel menabò fu usata per un evento imprevisto, lo scontro tra una macchina della polizia e un importante uomo dello spettacolo locale. RU, che voleva spettacolarizzare la Croce di Gesù a suo vantaggio, vide che la sua pagina era finita, per volontà divina, a un reale uomo di spettacolo . Non mantennero la parola che gli avevano dato, limitandosi a descrivere “il fatto” solo come vedete qui a lato. Nessuna spiegazione delle ragioni per cui quella azione era stata concordata proprio con il Giornale IL CENTRO. Nessuna riproduzione del cartellone con le ragioni. Come se fosse stato uno che di punto in bianco perde la trebisonda perché vuol vedere il Papa ed è accompagnato allo ospedale per vedere se sta bene. Invece di pubblicare le ragioni del gesto pattuito con IL CENTRO, riportarono travisate alcune parole scambiate coi poliziotti. Se non avete letto il manifesto che c’era, ecco il punto, messo bene in rilievo:

A quel punto a RU restava la ripresa del video che aveva fatto con la telecamera. Scartocciò fuori dal grosso involucro la macchina da presa e cercò di vedere il film; ma non partiva. Allora aprì la macchina da presa e scoprì che mancava la cassetta su cui l’aveva registrato. Corse subito dalla Polizia per farsela ridare. Quelli gli garantirono che quel giorno non avevano sequestrato proprio nulla, altrimenti ci sarebbe stato l’atto di sequestro, che non c’era.


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Telefonò allora al fotografo de’ IL CENTRO che aveva ripreso molti scatti, per avere almeno quella documentazione. Egli prese il tempo per rintracciarli nei suoi archivi: era ormai passato più di un mese... Tre giorni dopo il fotografo rivelò sconcertato – poiché era la prima volta che gli succedeva un cosa così! – che tutte le foto di lui incatenato non c’erano più. Non le aveva messe in una cartella! erano mischiate all’altre fatte quel dì, nello scontro con l’Olivieri; ma quelle scattate al reale show man c’erano, quelle fatte a lui esibizionista no. Manco una! Di fronte a fatti del genere la ragione umana rifugge dall’idea che sia intervenuto il divino... Anche Don Luigi Carnelli aveva denunciato i ladri che gli avevano fatto sparire il corpo di Cristo. Qui adesso era sparita una cassetta, e i vigili garantivano di non averla presa, e tante fotografie mescolate in mezzo alle altre e svanite solo esse. Un cartello che era in bella mostra e che spiegava tutto... come non esistito. Gli accordi presi con IL CENTRO evaporati... La pagina che doveva andare ad Amodeo, finita ad Olivieri! RU pensò che Dio non voleva restassero prove reali del suo spettacolo . Non lo aveva voluto già a Montesilvano molti anni prima, vanificando anche un altro spettacolo, di quello stesso tenore lì, fatto sotto una grande croce. Era accaduto nel lontano 1.988, nel giorno giusto in cui RU a Milano il 28 febbraio 88 aveva deciso la croce del suo fallimento , nel suo essere il del Signore. Era il giorno di San Romano Abate. Ebbene quello stesso dì a Montesilvano, sotto la grande croce che era stata fatta erigere sulla Collina della Vecchia, a ridosso della case, 20.000 persone , accorse da tutte le parti, erano lì ad attendere un grande miracolo che ci sarebbe stato in cielo, più grande di Lourdes e di Fatima (a detta di Don Diodati, vice-parroco della Chiesa di S. Antonio a Montesilvano), il quale dichiarava continue visioni della Madonna e di Gesù sue e di una veggente di nome Fioritti. Ebbene le 20.000 persone accorse non videro niente, e il “toto-miracolo” sembrò vinto dai sostenitori dell’insuccesso. Tra tanta gente una donna per l’emozione morì e molti furon costretti a farsi curare gli occhi poiché avevano guardato a lungo il sole senza alcun filtro. Come potevano sapere che – nel dì in cui in cielo si celebrava San Romano Abate – ci fosse un altro Romano ABBA’, il  e il padre di Cristo (ABBA’) su di lui, lontano 500 chilometri, che si metteva in croce come si sarebbe poi messo a Pescara? Accedeva a Milano!

Quanti giorni dopo? Vediamo se sono significativi, ove LV sono 55 giorni per ogni Romano... Quando la parola Romano vale 66 in gematria, il suo prodotto per 10 lo presenta nel ciclo 10 di Dio. Dividendolo per 6 lo si valuta in un solo verso anziché nei 6 di 66. Allora 660/6 = 110 è un Dio=10 che nell’area è 100, e che, nel ciclo 10 di 660 (cioè in 6600) si muove di 6490.. La sottrazione indica il moto di 1/6 di Romano ×10, nel suo centuplo quaggiù . Se poi consideriamo che la prima croce del fallimento, a Milano, fu ricondotta a quella del Monte Sion di Gesù (poiché Romano intendeva dargli corpo), allora vediamo chiaramente che quella in Montesi LVA no trascende Monte Sion proprio nei 55 giorni di digiuno di un Romano che, nella sua lingua latina si scrive LV e nel cognome è la A di Amodeo. Non stupitevi: Anche il parroco di Montesilvano che gli offrì una pagnotta, per Destino si chiamò RApagnetta (ove RA è il Romano Amodeo al quale offrì il pane); al pari del titolare del Bar di Saronno in cui lui evacuava (non avendo il WC a casa sua) e si chiamò RAGusa (Romano Amodeo Gabinetto usa). Allo stesso modo del  ora ci sarebbe stato un SantoRo a mostrare in modo trascendente a Romano – quella verità invisibile che sarebbe apparsa due Centemeri dopo la sua crocifissione del 5 dicembre a Pescara, pertanto il 5 febbraio in Albania. Il Missionario Andrea Santoro vide il dito di un musulmano, acerbo nella sua fede, un giovane, che entrò in chiesa e azionò un revolver e mostrò così il dito del Sacerdote acerbo nella Fede per il Sacro Cuore di Gesù che fece lo stesso gesto per eliminare and Re A. santo RO anche il Re Santo su A. RO. che s’era incatenato al cancello della sua Chiesa stando su quel SomaRo di Romano.


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MORTE DI ZIA EMILIA BARATTA Il 13.03.2006. Era accaduto come aveva sospettato quando, durante il digiuno, era andato a farle visita e sua zia era in quella sua particolare capacità di conoscere il futuro recente, il quale sarebbe arrivato fino a questo giorno, della sua svolta, dalla vita in avanti nel tempo (elettrica) a quella retrocedente (e magnetica). RU fu al suo funerale a Salerno. Sua zia fu sepolta nel Cimitero della città, nella stessa tomba di suo fratello Antonio, che l’aveva preceduta di molti anni ed era esumato proprio in quel giorno. Il curatore del sepolcro era un Polverino, uno dei membri della famiglia che abitava a Villa Cajafa, nella stessa casa di RO quando egli stava a Vietri sul Mare... Si accorse come la famiglia di sua zia fosse di fatto nata nella sua stessa: lei fece il viaggio di nozze a Milano, per un mese, a casa sua e Nicola Morra, il primogenito, era stato concepito a casa sua. Dopo un paio di giorni trascorsi coi cugini, il  tornò a vivere al 7° piano di via Aldo Moro, di fianco a Maria Grazia Arpino. Le relazioni tra loro due andarono progressivamente raffreddandosi. Lei era stata impressionata da tutta la vicenda che aveva riguardato RU, con il suo digiuno, il ricovero coatto all’ospedale e la sua intensa attività su Internet. Lentamente cominciava a voler mettere un distacco, timorosa dei giudizi su di lui che potessero poi ritorcersi su di lei. Pretese che rimettesse mano a “L’Ortonovo degli Ulivi” e che fosse tolta ogni immagine di lei. La Maria Grazia che aveva conosciuto e che aveva creduto che un sole entrasse nella sua vita, e che era salita sul suo carro non era più convinta di ciò.

Assumeva così lo stesso atteggiamento di chi, di fianco a lui, presto o tardi si sentiva a disagio, proprio per gli atteggiamenti anomali assunti dalla sua persona. A Montesilvano RU aveva da tempo stabilito una intensa collaborazione con un negozio di fotocopie collegato a un servizio di spedizioni pacchi, i cui due soci avevano familiarizzato con lui, e gli permettevano l’uso di una macchina sulla quale realizzare le riproduzione dei suoi libri in fotocopie. Potevano essere realizzati in minime tirature e avere un costo ridotto. Così il 31-3-2006, tramite Alessandro Bompensa (uno dei due soci), Romano Amodeo spedì al Papa, alla Sacra Rota e alla Causa di Beatificazione di Papa Wojtyla, tre libri di risposta all’Enciclica “Deus Caritas Est”, la prima scritta da Papa Benedetto XVI, nella quale quel Pontefice (che spietatamente lo aveva fatto digiunare 55 giorni senza muovere un dito) pontificava che «Uno Stato che non è retto dalla Misericordia è una banda di ladri». Sono tutti e tre su Issuu.com. Questo è il link di uno dei tre. https://issuu.com/amoramode/docs/apocalisse_poveri_cristi_in_croce_e_la_deus_carita

Tornò in aprile a Saronno per un breve controllo su come stessero le cose col Comune e le relative tasse per la casa di Via Larga che risultava ormai di sua proprietà (ma che era stata comperata col denaro di sua Zia Emilia). Ne approfittò e andò anche a far visita al suo collaboratore, che gli aveva sempre tenuto il Sito WWW.ORDINE SPIRITOSANTO.COM. L’11 aprile l’Arch. Mocciaro gli mostrò il risultato di un suo lungo lavoro: “NIARB”, che era l’ordine inverso del termine inglese BRAIN indicante il cervello. L’architetto aveva caricato per mesi, su una memoria enorme, tutto quello che aveva potuto trovare – di libri ed altro – di già digitalizzato in rete. Bisognava porre a questo anti-cervello, come inizio di un discorso, cinque parole, che fungevano da input e il computer avrebbe scritto il coerente seguito. Incuriosito, volle vedere se il Computer aveva qualcosa d’interessante su di lui, così provò a impostare queste cinque parole: «AMODEO ROMANO E’ FIGLIO DI...» Il Computer aggiunse il resto e la risposta fu questa: «AMODEO ROMANO E’ FIGLIO DI Dio, egli l'assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo a una morte infame, perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà". La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i segreti di Dio \'85 né credono alla ricompensa delle anime pure. Sì, Dio ha creato l'uomo prima della costituzione proprietà, \par ». Tra i milioni di riferimenti che c’erano in memoria, il Computer del suo amico aveva attinto alla Bibbia! Usando le parole di un Profeta. Propose altre 5 parole.


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« AMODEO ROMANO MORRA’ IL GIORNO precedente, indica nel Pci l'unico responsabile. 12 marzo 1972 Su invito dei dirigenti di Lotta continua giungono in Italia 2 esponenti delle organizzazioni irlandesi 'People' s democracy' e 'Ira provisional' che, però sono espulsi dal paese per disposizione del ministero degli Interni. Violenza politica. Destra e formazioni minori.Destra e M.S.I. 27 dicembre 1950 In una conferenza stampa,dopo essersi detto "sconcertato", afferma: "Mi chiedo a cosa può condurre una giusta esigenza di rinnovamento, ha prodotto una conseguenza di arretramento culturale complessivo, per il prevalere di atteggiamenti astorici o addirittura antistorici assai negativi per una forza politica che nella storia ha le sue radici e nella storia - e non solo nell'ultimo quadriennio. È il caso quindi che ti rivolga all'ufficio scuola della tua diocesi. Quanto ai tecnologici, i giudizi positivi su di lui. Schiarita con Sensi: "A Betlemme si indica la grotta nella quale Egli è nato e, in questa grotta, la mangiatoia dove fu ritrovata una siringa di insulina, confermando però la sua estraneità alle sostanze incriminate. "Sono sicuro che le cose ritrovate nella mia stanza non sono le mie - ha detto il ministro Pettigrew - abbia accettato di incontrare regolarmente i propri interlocutori palestinesi. Mercoledì, all'indomani dell' incursione di una quarantina \par » Anche qui c’era la strana notizia che sarebbe morto nel giorno precedente... il 12 marzo 1972. In realtà l’11 marzo, ma del 1987 (15 anni prima, l’intera unità dello spaziotempo), stava per farsi tranciare 4 dita da una taglierina e Dio glielo impedì rispondendo «ASPETTA!» alla sua domanda «Signore, che faccio?» In quel giorno stava veramente per morire a se stesso... Poi – evidenziato in neretto – NIARB era tornato sul Cristo affermando che a Betlemme si indica la grotta nella quale Egli è nato, per poi dare i numeri con la siringa di insulina trovata nella sua mangiatoia... ma forse anche questo era un segno delle cure pazzesche cui sarebbe stato sottoposto, essendo mal giudicato... RU, sempre più incuriosito, propose altro e il computer completò:. « ROMANO AMODEO PER CRISTO È adesione profonda al progetto del Padre fino alla morte sul palo di tortura e in questo modo dà il segno di ricacciare indietro gli incubi del decennio (lotte che si trascinavano da circa otto anni) e instaura un nuovo clima in due punti nevralgici della Terra. ((( I due poli? Si chiede Romano))) In risposta a facili demagogie correnti, si ricorda che la comunicazione coinvolge altre persone. La comunicazione visiva è spesso un ponte verso tipi di comunicazione più complicati o simbolici, come le parole. 6) L'utilizzo del linguaggio dei segni: i genitori chiedono se il linguaggio dei segni, e lo ha insegnato ad alcuni membri della sua famiglia sono stati feriti da soldati israeliani nel sud della striscia di Gaza e al confine con l'Egitto. »

Tornato subito dopo a Montesilvano, RU portò a compimento il libro intitolato LE 42 CIFRE DEL NOME SEGRETO DI DIO. https://issuu.com/amoramode/docs/le_42_cifre_del_nome_segreto_di_dio Poiché in quel periodo era stato presentato il libro di Dan Brown, questo lavoro d’Amodeo partiva alla caccia della Parusia di Cristo, con un tipo di ricerca simile a quello del “Codice da Vinci”, ma non basato sulla fantasia, bensì sulla Bibbia e sui fatti reali. Come estrema conseguenza su di sé del tentativo fatto dalla Chiesa di lasciar che morisse, pur di non riceverlo in Vaticano, RU aveva concepito, che alla fine riuscissero proprio a ucciderlo, ma non i Cristiani, bensì i Musulmani deviati di Al Qaeda contro i quali si era scagliato, dicendo loro in tono di sfida: “provate a prendervela con me! Lasciate in pace gli altri. Vi aspetto il 4 giugno 2.007!”. In conseguenza a questo, aveva messo su una vera e propria caccia all’uomo fatta contro di lui, che sarebbe sfociata nella sua morte in quella data così essenziale per lui, poiché già vi era morto nel 1.940. Infatti il 7-7-7 si completavano i 100 anni dalla nascita di Suo Padre, e aveva immaginato – come una reiterazione della vita paterna sulla sua – una reale rinascita in quella data. Infatti tra il 4 giugno e il 7-7 c’erano, come si vede, esattamente i 33 giorni di distanza della vita di Gesù Cristo in anni. RIANIMO’ SEI RONDINELLE, UNA ERA ANNEGATA Una cosa di molto speciale accadde il 2-6-2.002, Festa della Repubblica, quando mancavano 35 ai 25.000 giorni esatti di vita. Questo non l’aveva previsto e lo colpì in un modo che l’avrebbe restato sconcertato a lungo. La mancanza di 35 giorni significa che essi esistono in quel totale 25.000 e si spostano solo per il numero dei giorni ce restano. Questo 35 dato da 7×5 espande la creazione in 7 giorni per tutto e solo il tempo positivo che esiste nel ciclo 10 complesso, quando parte dal negativo di -5 e termina con il positivo di +5. Allora da zero cresce solo il 5. Dunque quando il soggetto intero in moto nella sua vita fu proprio quel 35 che è anche alla base del natale quando con 35×35 viene il 1225 che descrive il mese 12 nel giorno 25, RU assistette al fatto sbalorditivo di ridar vita e moto (rianimare) 5 rondini tramortite, e di rimetterne proprio in vita una rondinella annegata nel WC.


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Trovo le povere rondinelle svenute, uno dopo l’altra e come se fossero apparse dal nulla. Le tenne tramortite sulla mano e quando fece il gesto di porgere loro il cielo, fuori della finestra, si rianimarono di scatto e volarono via. Quella annegata nel cesso era proprio morta, ma non si rassegnò, pregò e tanto fece che alla fine quella si riprese, aprì gli occhietti e stava nella sua mano mentre egli le parlava e la carezzava toccandola con un dito. Sveglia del tutto, non si muoveva. Lo fece di scatto come la altre quando anche a lei porse il cielo, con la mano su cui lei era, e volò via come se prima non fosse annegata. Fu costretto a inserire questo racconto alla fine di LE 42 CIFRE DEL NOME SEGRETO DI DIO il cui link è https://issuu.com/amoramode/docs/le_42_cifre_del_nome_segreto_di_dio A RU risultava totalmente inverosimile anche il segno di una sua morte il 4 giugno (in cui già era morto nel 40) e stavolta una resurrezione con suo padre il 7 luglio. Ma i dati numerici lo indicavanoTutta la realtà è di 400 giorni, per cui 398 dì prima del 4 giugno (ossia solo i giorni del flusso dell’area a lati di 1 e 1 giorno) dunque il 2-5-2,006, i dati numerici gli dicevano ci sarebbe stato un gran segno della morte una e trina che lo avrebbe riguardato. Il segno si presentò e furono le tre bare al funerale di tre soldati uccisi a Nassiriya in Iraq. Previde allora che quando sarebbe mancato giusto un anno, al centenario di suo padre, ci sarebbe stata qualcosa di eclatante a livello nazionale, che avrebbe avuto il sapore di una reale risurrezione. 25.000 dì della sua vita disegnavano la presenza di qualcosa di straordinario per la Nazione sua: quell’Italia che già la sorte aveva costruito con la forma dello stivale dalle 7 leghe...

Ebbene quello che stava accadendo a livello mondiale in quella data era il Campionato del mondo di calcio e il 7-7-2.006 finì tra le semifinali e le finali. La gioia dell’Italia calcistica risorta agli occhi del mondo! Essa fu 2 dì dopo il 7-7-06, per i soliti 2 giorni di ampiezza trasversale da sommare al flusso. Anche quando RU aveva immaginato la sua morte a 66 anni non aveva contato il solito duo di Mons. Centemeri (anche i 200 giorni che si dovessero aggiungere a tutta ampiezza). Questo fatto costrinse RU ad aggiungere a “Le 42 cifre del Nome Segreto di Dio” un secondo inserto, che documentava anche questo trionfo italiano, quando lui aveva compiuto il quarto della presenza della radice quadrata di 10 elevato a 10. Il lato dell’area 1010 in giorni è di 100mila giorni e la sua presenza ¼ erano i 25.000 giorni tondi-tondi di RU, ai quali, aggiunti i due giorni del piano in ampiezza trasversale, ed ecco la gloria calcistica e la soddisfazione immensa di tutti gli italiani per... i suoi giorni di vita! Restò fino a quando durò il suo affitto col Dott. Mangia, a fine ottobre. SOGGIORNO ADOTTIVO A OSTIGLIANO DA ZIA ROSA Gli venne a quel punto un desiderio strano, di non tornare a Saronno e che corrispondeva anche a un suo reale bisogno che sentiva, di nascondersi a chi stava attentando alla sua vita, e erano quelli di Al Qaeda che fin dai tempi delle torri gemelle aveva sempre provocato dicendogli che se volevano prendersela coi cristiano dovevano prendersela con lui solo, che li rappresentava tutti. Se tornava a Saronno, lo beccavano lì a casa sua, ma nessuno sarebbe andato prima del 4 giugno del 2.007 a cercarlo a Ostigliano, per fargliela pagare. C’era stata una intera famiglia che – sui sei figli che aveva – ne aveva mandati ben quattro a vivere a casa sua: Anna, Titina, Gennaro e Adriana avevano costruito la loro vita nella casa di RU, coi suoi genitori divenuti i loro. Si sentiva adesso lui quasi in diritto di potere associare se stesso, come figlio, ai due suoi genitori vicari allo stesso modo: Guerino e Rosa Baratta.


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A voi questa cosa forse sembra tutta sentimentale, ma RU invece vi attribuiva un valore reale, come se in qualcosa egli avesse davvero con loro quasi un debito di figliolanza. Telefonò allora a Gennaro, che durante tutto l’anno la teneva sfitta, se si poteva candidare come un figlio aggiunto dei suoi due genitori e trascorrere sei mesi in casa sua ad Ostigliano. Gennaro gli disse dove era nascosta la chiave e che poi la riponesse nello stesso posto. C’era una ragione essenziale che rendeva RU Amodeo anche reale figlio di Guerino e Rosa Baratta: Rosa era stata la figlia dello stupro fatto dal “rio” Giovanni a Tresina Russo, ripetuto tante volte finché l’aveva resa incinta. Rosa nacque il giorno 14-9, della Santa Esaltazione della Santa Croce che è liturgicamente celebrata in quel giorno. Le indicazioni date a Fatima furono di recitare ripetutamente il Santissimo Rosa“rio” e per la conversione della Russia Ebbene in tutte e due queste cose RU vedeva le preghiere che tutti dovevano fare affinché sua nonna amasse il suo stupratore e avesse poi da lui Mariannina, sua madre, e lui. ROSA-RIO univa anche sua zia Rosa a lui R-IO, l’IO di Romano nato il giorno del famoso Raid ROME-RIO mentre lui nasceva in via POME-RIO. Ecco – a completare questa maternità – ci sarebbe stato anche il santo padre Giovanni Paolo II, il quale proprio il 14 settembre in cui nacque Rosa mise alle stampe la sua Lettera Enciclica FIDES ET RATIO, che gli aveva dato una reale ripartenza, verso la Chiesa Cattolica, da mutarlo nel Pietro Romano di S. Malachia. Anche Guerino ebbe parte in tutto questo, in ragione del 4 giugno che celebra San Quirino (Romolo Quirino per i Romani), ed è il giorno tutto particolare di morte e risurrezione per Romano, e in cui si sposò con G.S. (nel segno di Gesù).

RU operò una full immersion in quel suo stato di figlio ideale sia di Rosa e Guerino, sia della sua iniziativa religiosa, partita dall’enciclica del santo Padre firmata proprio il 14.9. Entrò nel coro della Chiesa del Paese e si mise a frequentare tutte le famiglie che avevano avuto una certa relazione con la sua. Faceva sapere a tutti che a Ostigliano c’era stata una Santa così trascendente nel suo esser santa che nessuno se ne era accorto: era sua nonna Tresina, che era alla stessa origine della preghiera per la Conversione della Russia sollecitata in tutto il mondo da Nostra Signora di Fatima. Si, s’ignora, SI IGNORA tutto quello che – essendo veramente trascendente la realtà – non ricade proprio mai sotto i reali occhi. Sistemò in quella casa una stanzetta, quella che corrisponde alla finestra in mezzo al primo piano e lì pose il suo studio, televisore, videoregistratore e cassette. Era andato a caccia a Salerno di tutte le quelle dei film e alla sera, finito il suo lavoro, se li vedeva al videoregistratore. Elaborava anche i suoi, che riprendeva nel modo analogico delle cassette. Anche a Saronno aveva a poco a poco creato una discreta raccolta. A Salerno aveva trovato un negozio in cui ne avevano molte e gliele diedero anche a basso prezzo. Quando era a Ostigliano aveva già assunto il volto barbuto che così tanto non andava a suo zio Costantino, di Salerno, che arrivò perfino a cacciarlo di casa un giorno che lo vide con quella barba.


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Ebbene cominciarono ad accadere ripetuti segni di quello che credeva gli sarebbe successo il 4 giugno, giorni di San Quirino, in cui era già morto una volta a poco più di due anni. Mentre un giorno registrava un video in quella che era stata la casa dei suoi nonni, stava descrivendo un crollo, quello del letto sul quale si era seduto a Sacro Monte di Varese, e la sedia su cui era seduto, nel preciso momento in cui disse “e crollò giù” gli venne meno sotto di lui che vi era seduto sopra. Vedete a lato il piede rotto di fresco e non marcio o tarlato.

2007

Un’altra volta era andato al cimitero, a pregare sulle tombe dei suoi antenati e a registrarvi i suoi video, e si accorse di non avere più il giubbino impermeabile che già aveva addosso quando era andato al Maurizio Costanzo Show. Allora tornò sui suoi passi e lo ritrovò ancora dove lo aveva distrattamente appoggiato, e questo gli fece credere ch’era un segno che avrebbe perso la vita, ma l’avrebbe ritrovata quei 33 giorni di distanza tra il 4 giugno del 2.007 e il 7-7-7 del centenario di suo padre. NASCITA DI ELEONORA POLA da PAOLA AMODEO Il 12 dicembre ci fu a Milano come ciliegina sulla torta di un anno davvero pieno di segni, il fiocco rosa nella famiglia della prima nipote di RU, nata il 26 gennaio del 1975 e sposata con Giovanni POLA. Era la sua seconda nipote, nata dopo Maya, la figlia di Marco e Mina. Eleonora fu la primogenita di Paola, accolta con grande gioia da tutti. RU, al termine del matrimonio di Paola e Giovanni, aveva cantato quella Ave Maria di Schubert che tanto gli piaceva, mentre tutti erano sull’uscio della Chiesa. Giovanni, richiamato dal suo canto, si chiese sorpreso chi fosse quello inatteso tenore, che non avevano scritturato e che aveva voluto in tal modo celebrare le loro nozze. Rientrò in Chiesa e lo vide: era solo lo zio RU! Che anno formidabile il 2.006! In esso Dio aveva confermato a lui solo, tramite il SantoRO, l’eliminazione sua fatta dai Preti del Sacro Cuore di Gesù. Un computer l’aveva messo nei panni di Gesù Cristo. Aveva risuscitato 6 rondini. Aveva ritrovato le sue reali e concrete origini nel Rosa-rio e nelle preghiere per la Conversione della Russo Tresina. Aveva vinto i Mondiali di calcio. Era nata la sua 2a nipotina, quella che onora Dio: Eleonora!

I 33 giorni di vera morte di Romano, dal 4-6-7 al 7-7-7 I segni della reale morte che incombeva su lui, RU, furono molti. Uno di questi avvenne in chiesa a Ostigliano. Il prete era in piedi su un rialzo posto dianzi l’altare e si staccò, nell’attimo dell’elevazione dell’Ostia, quale testata d’angolo, una piastrella che RU poi fotografò. Dopo la messa la rimise al suo posto ed essa... ci restava. Dunque una certa qual forza la aveva staccata dal suo posto e proprio l’aveva spinta a cadere, altrimenti restava lì.


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Quello che accadde quando un giorno andò a Salerno in visita da suo cugino Nicola Morra fu davvero straordinario. Durante la messa, al momento della Comunione, al Sacerdote cadde di mano il Calice con le Ostie che avrebbe dovuto distribuire alla Comunione, e tutte le particole finirono sparse sull’altare. RU era lì con la cinepresa spenta, e non colse quell’attimo. Allora la accese e, durante alla messa, riprese uno dei fedeli intervistato da lui. Gli chiese se aveva visto quanto era accaduto, che tutte le ostie erano state sparse sull’altare. Egli annuì. All’uscita della messa gli corse dietro il sacerdote, allarmato, e voleva sapere il perché avesse fatto quella sua domanda a quel suo parrocchiano. Sentito che stava cercando solo di raccogliere segni e che quello per lui era solo uno – importante! – di un imminente versamento di sangue che avrebbe incontrato il Signore, si calmò: era solo quello! Aveva temuto ben altro... Era la chiesa di Santa Maria ad Martyres che vedete, che sta sul lungomare al Torrione. Fu quella volta in cui Costantino Morra gli intimò di uscire di casa sua! Quando RU aveva 15 anni, lui aveva trascorso dagli Amodeo tutto il suo mese, del suo viaggio di nozze, ma ora era in preda a una brutta vecchiaia che lo rendeva scorbutico e irascibile, dopo la morte di sua moglie l’anno precedente. Costanzo aveva colto lì, che stava registrando un video, quello sgradevole barbone e forse non l’aveva nemmeno riconosciuto in suo nipote. Suo figlio Nicola provò a trattenere il cugino; gli disse di non badare a suo padre: non era più lui. RU invece rispettò l’ordine di suo zio poiché meritava rispetto soprattutto ora che non stava più in se stesso. Nicola gli chiese come sarebbe tornato a Ostigliano, visto che non c’erano più corriere, ma solo il treno, che aveva la stazione a una ventina di chilometri dal paese. Che non si aspettasse certo di trovare un taxi, in quel piccolo scalo dove fermava il treno. Il  gli rispose che ci avrebbe pensato il Signore, altrimenti avrebbe usato il cavallo di san Francesco. Era sul treno e, davanti a lui, c’era solo un uomo di mezza età. In quella, gli telefonò Nicola. Gli propose di andare a prenderlo lui a quello scalo. Per spiegare la cosa al cugino, RU disse che tra quella fermata e Ostigliano poi c’erano solo 20 chilometri... e cosa erano mai? Fu irremovibile. Ebbene quell’uomo di fronte a lui aveva ascoltato tutto e andava a Ostigliano! proprio nella casa vicina a quella in cui ora lui abitava. Il Signore ci aveva pensato.

Quando trascorsero tre mesi, RU volle riunire tutti gli amici del suo coro di Ostigliano al ristorante del paese e così riuscì a fare con loro quell’Ultima Cena che a Saronno i suoi concittadini gli avevano negato. Chiuse la casa, lasciò la chiave dove gli aveva detto Gennaro, e passò poi dai suoi cugini di Salerno, per salutarli e cercando di non farsi vedere dallo zio. Lo videro in forma perfetta. Solo il suo volto diveniva sempre più d’altri tempi... perché non si tagliava quel barbone e i capelli? “E’ per un voto” gli rispose il cugino “Non mi taglierò più nulla finché sono in piena vita... ma ne ho per poco”. Mancava ancora del tempo, però, e si fermò prima a Montesilvano, ove gli impartirono anche l’Estrema Unzione. Poi si predispose a spiccare il volo. Eccolo qui a lato, realmente in aria e in gran forma, dopo un gran balzo, come si vede dall’ombra... Per poter passare i 14 giorni in cui aveva visto paralizzato suo padre, prima di morire, si fece internare 14 giorni prima del 4 giugno. Non fu difficile il ricovero allo ospedale di Atri: bastò dire che temeva che il 4 giugno poteva morire. Non disse il vero, me neppure mentì: la possibilità dipendeva da coloro che lo avevano minacciato di morte e che aveva più e più volte sfidato in Rete e scrivendo a quelli di Al Qaeda che potevano trovarlo ad Atri il 4 giugno del 2.007, all’ospedale, intorno alle 10 di mattina. Una delle fobie che consentono il ricovero è quella della morte e fece pensare che la condanna a morte che si sentiva per il 4-6 fosse una sua fobia e non una sfida che aveva fatto ai soci di Bin Laden. Quando il Dottore lo ricevé gli assicurò: “non abbia alcun timore. Noi vigileremo e, vedrà: il 4 lei non morirà”. L’internarono e stavolta – non come l’altra, in cui aveva concordato che non gli dessero farmaci – gli imposero farmaci e intanto conciarono a intontirlo così ←


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Per 14 dì fu bloccato come suo padre: non paralizzato ma così ottuso all’Ospedale. Pazientemente assunse tutto quello che gli diedero e quando giunse il 4, lo stesso medico lo chiamò e gli disse: “Visto? Lei non è morto. Pertanto domani lei esce ma solo dopo che le abbiamo iniettato la terapia a lento rilascio di cui per le sue fobie lei ha bisogno. Se non accetta questa dose di Aldol, lei non esce!” LA PREDETTA MORTE PROGRESSIVA, PER 33 GIORNI. Dovette accettare e alle ore 10 del 4-6 cominciò a morire per mano loro, poiché l’Aldol uccise ogni dì materia grigia e sinapsi cerebrali . Uno stato di morte per 33 giorni era difficile da immaginare, ma così ci fu realmente. Quelle ostie che erano state sparse sull’altare della Chiesa di santa Maria dei Martiri forse erano 33... e corrisposero ai suoi 33 giorni. Uscì dall’ospedale e la prima cosa che fece fu di farsi tagliare capelli e barba. Passò un attimo a Salerno, dai suoi cugini, per mostrarsi vivo e così; poi tornò a casa sua a Saronno, stando male, sempre di più, ogni giorno. Telefonò disperato alla dottoressa Giosuè, dell’ospedale di Atri che lo aveva seguito, e lei gli prescrisse il Rivotril, per contrastare l’Aldol. Lo assunse e fu peggio. La richiamò e le disse: Cara dottoressa Giosuè, ho avuto l’impressione che prima l’Aldol mi avesse invaso mezzo cervello e che il mio lottasse per sopravvivere. L’arrivo del Rivotril ha piazzato al posto del mio mezzo cervello il nuovo farmaco, a contrastare l’invasore, col risultato ORRIBILE che io non ci sono più da nessuna parte. Ci vedo doppio, ho allucinazioni, e ho anche perso ogni volontà di esserci. Ho sospeso il Rivotril dopo 5 giorni di assunzione a 30 gocce al giorno. Mi sembra di morire. Non riusciva più a resistere in quei 17 metri interni che aveva in casa e chiese a suo fratello, che intanto era in Sicilia con la famiglia a dirigere un Ospedale, se lo ospitava nella sua casa vuota. Benito gli disse di no, ma in cambio gli offrì di meglio: un soggiorno nel suo residence di Rio Falzé, a Madonna di Campiglio; una multiproprietà a tempo che in quel mese era sua ancora per una settimana. Poi gli aveva prenotato a sue spese l’Hotel Villa Fosine in cui sarebbe stato in pensione a Pinzolo per due settimane. Lui pensasse solo a rilassarsi e a star bene. Il problema era quello di andare fino lì, con un pullman nel quale doveva stare seduto per alcune ore, lui che non riusciva proprio più a stare fermo. Chiese soccorso al suo amico Mocciaro, che l’accompagnò al pullman con la sua vettura. Viaggiando al suo fianco, aveva l’impressione che l’auto passasse sopra e attraverso tutte quelle in sosta sulla destra, ma che lui vedeva poste davanti.

Sul pullman patì le sue pene d’inferno per riuscire a star fermo. Ricorse al sistema estremo che usava in quei casi: non scappava e si metteva a osservare scrupolosamente tutti i suoi malanni. Solo che adesso non ci riusciva più. Entrato nella multiproprietà a Madonna di Campiglio non riusciva a star fermo. Non poteva concentrarsi su niente, nemmeno su film o spettacoli televisivi che gli erano interessati sempre. Erano divenuti inaccessibili. Poiché l’alloggio al Residence era ampio, girava tra le camere; si buttava sul letto matrimoniale e si rialzava dopo essersi rotolato dall’altra parte e riprendeva a girare. Guardava ad ogni tornata l’orologio ed era sempre lo stesso minuto. Mancavano settimane al 7-7-7 in cui sperava la sua risurrezione, ma come passavano se ora ogni attimo gli era eterno? Per distrarsi iniziò a scrivere il DIARIO DELL’AGONIA, poi linkato https://issuu.com/amoramode/docs/diariodella-agonia Trascorsa la settimana in quella multiproprietà a tempo, poi si trasferì nella Villa Fosine, di Pinzolo. Si trascinava di lì faticosamente a Messa, cercando di camminare il più possibile, ma era un tormento. Avendo visto una bicicletta, che era dei gestori dell’Hotel, la chiese in uso. Furono cortesi a dargliela. Con quella cominciò a pedalare il più che gli era possibile, per sciogliere i suoi movimenti sempre più legnosi, ma si scopriva sempre più debole. Persino il più piccolo dei


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cavalcavia, come questo che vedete e che attraversa il fiume Sarca di Madonna di Campiglio, lo costringeva a scendere e a farlo a piedi. Erano luoghi bellissimi, ma solo per chi stava bene! IL «MIRACOLO» MIRACOLO DELLA RISURREZIONE IL 7-7-7 Ecco cosa accadde il 7-7-7 in cui il diario di RU era finito nella speranza. Non successe nulla per tutto il giorno, poi fu sera e si sentì come se fosse stato tradito dal suo Dio: “Elì Elì Lemà sabactani!”. Non riuscendo a calmare l’ansia chiesa aiuto ai gestori dell’Hotel, ed essi chiamarono la Guardia Medica. Gli iniettarono un calmante e diedero altre cose da bere, assicurandogli che avrebbe dormito. Fu così, ma solo per mezz’ora. Sveglio di nuovo con uno spasimo intollerabile chiamò di nuovo aiuto ai gestori, che erano andati a casa loro. Quella brava gente si attivò ed arrivò una ambulanza del 118. Gli iniettarono una sonnifero così potente che alla mezzanotte del suo 7-77, in cui attendeva la sua risurrezione, dormiva, mentre era portato verso la sua salvezza. RU si svegliò il giorno dopo nell’Ospedale di Rovereto. Lì gli fecero un trattamento efficace, non con psicofarmaci ma con medicine che trattavano il corpo. Avevano capito che la sua crisi non stava nella psiche ma nelle cellule del suo cervello distrutte dai trattamenti arbitrari, che gli avevano distrutto materia grigia e sinapsi. RU non se ne accorgeva, ma alla mezzanotte del 7-7-7 era iniziata in questo modo impalpabile proprio la risurrezione corporea in cui lui aveva sperato. Aveva atteso il classico deus ex machina che entra in scena e sistema tutto l’intrico altrimenti irrisolvibile. Invece – come fu graduale la sua morte cerebrale – così anche la ripresa da tutte quelle morti fisiche doveva avere il tempo necessario per ricreare tutti i percorsi alternativi a quelli che erano stati tolti di mezzo. Fu dimesso in meno di una settimana. Benito era partito dalla Sicilia ed era pronto ad accoglierlo, alla stazione di Milano quando vi sarebbe arrivato. C’erano circa venti minuti di treno, da percorrere fino a Verona e da lì sarebbe occorso cambiare e prendere il treno per Milano. Ma in quel primo tratto RU si addormentò. Si svegliò oltrepassata Verona e la fermata dopo era a Bologna. Così telefonò al fratello, affinché non lo aspettasse più. Gli disse che – visto che il destino lo spingeva fino a Bologna – se andava fino a Salerno, Nicola e Fernando i suoi due

cugini medici, l’avrebbero curato nel modo migliore. Poteva tornare al suo lavoro in Sicilia e tante grazie per tutto quello che aveva fatto per lui. A Salerno, però, c’era il problema del loro padre divenuto intrattabile, così telefonò a Nicola se era il caso e il cugino gli disse che era l’unica cosa da farsi. A che ora arrivava? CONVALESCENZA A SALERNO. L’avevano visto un mese e mezzo prima vivissimo e ora era un cadavere. Non per modo di dire, era vero. RU era morto in buona parte di se tesso. Il Dott. Morra voleva denunciare i colleghi di Atri; RU lo convinse a soprassedere. Erano stati ingannati. Gli aveva fatto credere di soffrire di fobie che non aveva ed erano senza colpa se gli avevano imposto quei farmaci. All’ospedale di Rovereto avevano dato una cura che lui avrebbe dovuto seguire, ma presto la smise e si affidò interamente alla sua fede. Tutte le mattine compiva più di un chilometro di strada, seguendo il lungomare e andando alla Chiesa della Madonna di Lourdes alla messa, e si muoveva ancora lentamente. Non riusciva a procedere spedito e ci voleva molto tempo per compiere in andata e ritorno quel tragitto. Era agosto e la gente faceva i bagni, sia in piccoli stabilimenti sia sulla spiaggia libera. Così, quando era stanco, si metteva a cavalcioni del muretto e sostava lì, a osservare i bagnanti. Non aveva alcun desiderio di emularli.


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Dopo un mese già divenne più agile e camminava a passo più lesto. Andò anche dal dentista a curarsi un dente e – in tutto quel tempo – fu tenuto nascosto al padre. da Nicola e Fernando. Non l’avrebbe più cacciato di casa col volto ora rasato come quello a lui noto, ma a mano a mano che passava il tempo era sempre più scorbutico. Aveva comunque tempi così ordinati che RU poté vivere lì... di nascosto. Quando venne il 21 settembre, festa di San Matteo, Patrono di Salerno, RU aveva quasi totalmente recuperato la sua salute. Dopo 76 giorni dall’inizio della sua risurrezione del 7-7-7, era ancora un po’ debole e non riusciva a scattare. Tornò a Saronno verso i primi di ottobre e si rimise a ordinare i suoi libri. Non ce la faceva però a rimettersi a posto bene, così scrisse a padre Pigi in Brasile. Gli chiese se poteva trascorrere tre mesi aiutandolo come Missionario laico. Gli disse che a Milano aveva in quei giorni anche tentato di farsi riconoscere come tale, ma che c’erano troppe difficoltà burocratiche. Aveva cercato di telefonargli, ma non trovando più il suo numero, aveva prenotato lo stesso il volo per il Brasile, confidando che lui stesse bene e che l’offerta di due anni prima fosse sempre valida. Poi – trovato il numero – gli parlò al telefono e seppe ch’era tutto a posto.

La Chiesa è in cima a una collinetta e per andare nei vari luoghi bisognava andare su e giù e lui arrancava dietro al suo amico che procedeva invece con passo spedito. Con quell’esercizio, presto recuperò interamente la sua condizione fisica. Quei 33 giorni di morte progressiva, dal 4 giugno al 7 luglio necessitarono di ben sei mesi per essere messi tra le esperienze finalmente definitivamente passate.

LA SECONDA MISSIONE IN BRASILE L’amico lo aspettava, nei due ultimi anni non era cambiato nulla e aveva anche trovato un bravo dentista per gli impianti dei suoi quattro molari mancanti. Giunse in Brasile in condizioni fisiche ancora precarie. Questo è l’ingresso dell’alloggio di Padre Pigi, in cui fu ospitato. Cosa accadeva in questo 2007 al duo fatto da R-U-BEN? Mentre abbiamo visto questo straordinario morire e risorgere in concomitanza con i cento anni della nascita da loro padre, per BEN si realizzarono le cose non viste realizzate in RU. Un Ospedale aveva ucciso per 33 giorni le cellule cerebrali e le epistassi di RU, e in un Ospedale di Cefalù – l’Istituto GIGLIO – BEN introduceva importanti innovazioni tecniche che aiutavano gli ammalati a guarire e non a morire. Messo in legame a suo Padre, BEN era nato quando i giorni di suo padre erano uguali esattamente a tutti i 2.99792458 metri percorsi dalla luce ogni secondo, moltiplicati per 2 elevato a 12, e i due erano il 1° FIGLIO ed il 2° FIGLIO, entrambi nel segno di Gesù F-IGLIO, in quel GIGLIO istituito a salvezza umana, mentre i 12 erano i 12 nomi che aveva dato a tutti e due uniti in Romano Unito a Benito, a R-UBEN..


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2008

Attraversarono la strada e, come tutte le mattine, fecero colazione con le suore che stavano nel lato opposto della strada. Padre Pigi cercò di avere anche il loro aiuto per convincere l’amico, che però fu inflessibile e sostenne che veramente si affidava a Dio e sarebbe stato lui a far accadere le cose che erano più opportune. Mezz’ora dopo, come il suo volto si era gonfiato tutto d’un colpo durante la notte, così si ara già sgonfiato, e lui andò allora a mostrasi a padre Pigi: “Vedi? Non ho più nulla”. Il missionario restò sbalordito. Non era possibile. UNA TROVÒ UNA CASA CHE NON SI TROVAVA MAI.

In Brasile RU si diede da fare per aiutare il suo amico, così impegnato nelle favelas, e andò anche dal dentista. Dopo una lastra decise di farsi impiantare solo i due molari della mascella, dove c’era ancora osso sufficiente; non volle farsi fare nulla per i due superiori perché sarebbe stato necessario prima un trapianto osseo, fatto con parti sue oppure prelevate da una delle banche brasiliane. RU si oppose agli antibiotici, e volle essere operato senza che quelle sue poche risorse che aveva ripristinato, fossero ora smantellate nella paura di infezioni. I “MIRACOLI”.IN BRASILE, del DIO SU RA. L’ASCESSO. Così una mattina si trovò all’improvviso con una faccia tanto gonfia che minacciava qualcosa di brutto. Quando padre Pigi lo vide, gli disse che occorreva provvedere con la massima urgenza, ma RU ribadì con fermezza che lui si metteva nelle mani del Signore: “Non fare il pirla, lì ci vuole un dottore!” “Vogliamo scommettere?”

Ringalluzzito da questa sorta di “prova” che gli sembrava di aver dato al suo amico, RU prese l’iniziativa. Poiché il sacerdote in ogni messa mattutina raccomandava da tempo, ormai e inutilmente, di trovare una casa a un pover’uomo che dormiva per la strada, allora il di Gesù disse all’amico: «costruiamogli noi la casa, come facemmo l’altra volta che ero qui!». Ebbene la mattina dopo una possidente offrì un posto per quell’uomo! Cominciarono allora le opere per arredare quel buco che era la metà di quello in cui viveva RU. Come mobili, padre Pigi tirò fuori un comodino e una brandina da un suo magazzino in cui raccoglieva – come Sabato Lingardo – tutte le cose ancora usabili che lasciavano per le strade. Rovistava tra gli accumuli delle robe vecchie, nei cassonetti e se trovava bottiglie di plastica, se le prendeva. Poi le donava a un uomo che le portava dove gliele pagavano, e così lui ci campava. UN TRONCHESE CHE APPARVE DAL NULLA Nella stanzetta, oltre il comodino e il letto, era progettato un attaccapanni che consisteva in una asta di legno appesa con un fil di ferro, alla quale l’uomo avrebbe potuto accavallare i suoi abiti. Non c’era tenaglia o un tronchesino per tagliare il fil di ferro. Lo cercarono invano ovunque, entrando e uscendo da quel piccolo vano. A quel punto qualcosa spinse RU a uscire. Ebbene lì, dove erano passati più volte, davanti alla porta c’era il tronchesino. Quando lo diede a padre Pigi e lui gli chiese dove l’avesse preso, saputo ch’era per terra e davanti alla porta gli fece questa domanda: “E adesso? Fai apparire anche le cose dal nulla?”.


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Di fronte a questi segni incredibili che accadevano tutte le volte che RU proponeva qualche cosa di buono al suo amico, allora volle esagerare. Padre Pigi al mattino, sbrigate tutte le faccende che erano relative al suo sacerdozio, si recava da una anziana paralizzata e seduta su una carrozzella; massaggiava ad una ad una le sue gambe, nella speranza di aiutarla in quel modo. UNA PREGHIERA E LA PARALIZZATA FECE I 4 PASSI RU si rivolse al suo amico e gli disse: “Pigi, io pregherò il Signore di farle fare dei passi; poniamoci come tempo una settimana, e stiamo a vedere se il Signore mi ascolterà”. L’amico non disse nulla. Per quanto fosse credente, egli – da missionario – era uno che confidava soprattutto del detto “aiutati che Dio ti aiuta.” RU pregò perché il Signore desse a padre Pigi anche quel segno. Aveva soprattutto questa speranza: che il suo amico, che era uno dei più rispettati tra i Missionari Cattolici, riuscisse a farsi tramite tra le sue risposte che sempre sapeva di dovergli portare, e il Papa Benedetto XVI. Forse il Signore lo stava rendendo così significativo ai suoi occhi, da muoverlo in quella direzione. Infatti la missione che RU sentiva di avere era di portare quella buona notizia che aveva anche scritto in quel libro che aveva poi tradotto in portoghese. Arrivati al limite del tempo prefissato, quella mattina come le altra volte padre Pigi stava per andare dalla paralizzata e RU – per “vincere” in tutti i modi quella sorta di prova su cui si era cimentato – aveva pensato di barare. Avrebbe accompagnato il suo amico e l’avrebbe convinto a tirarla su di peso, lui e il sacerdote, per provare a farle fare due passi. “Probabilmente, se è in posizione eretta ed è sbilanciata in avanti, è spinta a portare innanzi una gamba”. In quella giunse all’improvviso, dall’Italia, un altro amico di padre Pigi e si unì a loro due. Così – pensò RU – la cosa riusciva meglio. Giunti in tre da lei, invitò loro due a sorreggere la donna, e lui, da dietro, le mosse i piedi, uno dopo l’altro, e in tale modo guidato la paralizzata camminò. Poteva così dire che alla data prestabilita – lei aveva fatto qualche passo! Troppo facile, vincere così! Direte tutti. Ma quello che successe dopo fu che padre Pigi quel mattino portò la donna da un fisioterapista. Ebbene egli da solo, issò la donna dalla carrozzella e, ondeggiando da una parte e dall’altra, col suo solo aiuto la paralizzata fece quei quattro passi che avevano ottenuto prima in tre, padre Pigi, l’amico e RU che azionava le due gambe. Anche se il di Gesù non avesse tentato di barare in quel modo, era già predestinato che quella donna entro quella data fissata da RU, facesse qualche passo, come lui aveva chiesto al Signore.

Tutti questi segni però non bastarono a padre Pigi per fare qualcosa a favore dell’introduzione sua in Vaticano, sebbene tante lunghe verifiche con lui – professore anche di Filosofia a Belo Horizonte – non avessero mai mostrato lacune. RU si unì anche al Coro di quella parrocchia, e un giorno vollero che cantasse come un tenore solista l’Ave Maria di Schubert, in un concerto. Partecipava alle catechesi e alle altre attività della Chiesa e dipinse anche una crocifissione a olio che fu collocata in una delle chiese che ricadevano sotto la Parrocchia di Tutti i Santi, a Provvidenza. DISSE CHE LA MADONNA LO VOLLE DIGIUNO E SENZA BERE. La sognò e non si chiese se fosse vero. Così – fattosi cucire in sartoria una tonaca bianca – disse a padre Pigi che Nostra Signora di Fatima gli aveva detto in sogno che l’avrebbe sacrificato a non mangiare e bere ad oltranza. Poteva? Padre Pigi non si oppose. Si fidava di lui. Il aveva scrupoli e – conosciuto il Cardinale Dom Serafim Fernandes D’Araugio – decise di andarlo a trovare per chiedere a lui se era opportuno, per il suo amico, quello che stava per fare in casa sua. Dom Serafim gli disse che di certo avrebbe messo il suo amico in un bell’impiccio se gli fosse morto affamato in casa sua, ma – di fronte a cose così – stava solo a padre Pigi accettarlo o no. TUTTI PREGARONO PER LUI, ANCHE I NON CATTOLICI: Mentre a Saronno RU si era trovato contro Monsignor Centemeri e tutto l’apparato della Chiesa, per farlo recedere – e RU non era in casa della Chiesa – qui Padre Pigi, che lo aveva a casa sua, non solo non si oppose, ma cominciò a dire in ogni occasione, che il suo amico stava offrendo a Dio il suo sacrificio per il bene di tutti loro e che dovevano pregare per lui. RU ebbe in Brasile quello che gli era mancato in Italia: la condivisione. La notizia si sparse anche nelle altre chiese di quella zona del quartiere Primeiro de Majo e perfino nelle assemblee dei protestanti si cominciò a pregare per lui. Così un bel mattino, RU disse al suo amico: “Rallegrati Pigi! Stanotte ho sognato che le vostre preghiere han mutato la mia risalita nell’altro mondo in quella reale che farò tra pochi giorni, tornando in Italia, volo già fissato fin dal principio per la fine di Maggio”. Padre Pigi trasse un gran sospiro di sollievo, poiché vide l’amico che trascorse gli ultimi giorni avendo ripreso a mangiare e bere.


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Tornò a Saronno dopo quasi 2 anni di assenza, e si preparò a quello che gli era stato rivelato in quel sogno: che la sua fine era solo stata spostata al 13 ottobre del 2.008, nella 91a ricorrenza del Miracolo del Sole a Fatima. Un sole sfarfallante danzò in cielo e prosciugò tutti i presenti, inzuppati fradici com’erano per la pioggia caduta. C’era anche una ragione concreta per tanto rilievo da dare a quella data. L’apparizione di Nostra Signora si era presentata ogni 13 del mese a partire da maggio e per cinque di seguito. In ottobre c’era stato un appuntamento fatto prendere a suor Lucia dal Parroco con la Madonna, e l’annuncio era stato che il 13 ottobre avrebbero tutti assistito ad un gran miracolo. Poiché l’opera divina è sempre fatta in 7 volte, quello che fino a quel tempo aveva riguardato le apparizioni di Fatima si erano ripetute solo 6 volte poiché la settima non avrebbe riguardato la dimensione dei mesi, ma degli anni dati da 7 volte quel 13, e uguali a 91 anni. Il centuplo quaggiù in giorni, avrebbe riguardato 333 giorni complessivi, più tutta l’Unità e Trinità di Dio a completare 33304 unità. In questo numero di giorni ci sarebbe stata l’energia 66 di RU e avrebbe percorso tutto lo spazio dato da 33304 meno 66 Ebbene la settima volta sarebbe stata dopo il prodotto di 13 per 7 anni, pertanto dopo 91 anni esatti e sarebbe ricaduto il 13 di ottobre del 2.008, come vedete nel computo fatto dal calcolatore Quel 13 ottobre 1917 il cielo era piovigginoso e la giornata scura. Una moltitudine si era recata a Cova di Iria per assistere a quanto era stato predetto dalla maggiore dei tre ragazzi, Lucia. Erano tutti fradici per l’acqua quando, all’improvviso, il cielo si era aperto e avevano visto il sole cominciare a ingrossarsi come se si avvicinasse alla terra, e poi a danzare nel cielo. Al termine, erano tutti asciutti con gli abiti. Non si era trattato di una allucinazione collettiva poiché i giornali scrissero che c’erano stati in città come spettatori anche persone che non sapevano nulla di che cosa stesse accadendo in paese e videro essi pure quel fenomeno apparso solo a Fatima e in nessun altro luogo.

RU NON DOVEVA NE’ MANGIARE NE’ BERE FINO AL 13-10 Questo disse che gli aveva chiesto il Cielo! Alla fine di settembre, cominciò di nuovo il digiuno e l’astinenza dal bere che il di Gesù aveva interrotto a Belo Horizonte. Non appena lo seppe andò da lui Benito, per indurlo per lo meno a bere. Ottenne, dopo molte preghiere, solo che si umettasse un po’ le labbra con un poco di quella bevanda gasata che era stata la passione di suo zio Costantino: il ginger. Ne teneva lì di scorta anche RU, nel suo cucinotto di Saronno. RU spiegò al fratello quale fosse il compito della sua vita, raccontò quello che era accaduto mesi prima in America e la logica che esisteva in quei computi. Alla fine Benito si dové arrendere e se ne ritornò a Milano sperando nella solita buona stella di suo fratello che – di riffa o di raffa – poi usciva sempre rafforzato da queste prove di forza che avrebbero stroncato un bue! Ebbene accadde che mentre lui faceva astinenza di liquidi, cominciò a mancare paurosamente la liquidità in tutto il mondo. La crisi del 2.008 prosciugò i capitali e il denaro corrente non fluiva più. Come a Fatima, con il Miracolo del Sole si ritrovarono tutti all’asciutto, così accadde a RU e al mondo intero. Non sapeva perché, ma la natura lo aveva costruito come il valore medio del mondo e le cose ch’erano relative al valore medio avevano poi il riscontro nel valore totale. Giunse infine il giorno 13 in cui RU, assetato, aveva aspettato il suo colpo di grazia; erano le prime ore del pomeriggio ed esso non veniva. LA TENTAZIONE DIABOLICA. Satana, che in queste situazioni ci sguazza e che agisce nelle umane cose mandando ispirazioni diaboliche, cominciò a sussurrare a RU che se proprio voleva il successo, doveva fare come aveva già consigliato a Gesù: buttarsi giù dal pinnacolo del tempio, poiché schiere d’angeli sarebbero accorse a salvarlo. Gesù se la cavò – per come racconta San Matteo – ordinando al Diavolo di non indurre in tentazione il suo stesso Dio. RU, che era solo il del Signore, non se la sentì di intimare un bel nulla al Maligno, che gli diceva di tagliarsi le vene. Il del Signore si mise


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solo nelle mani di Dio e – in un certo senso – anche accondiscese a qualcosa di molto simile al buttarsi giù dal pinnacolo... Andò in cucina, prese tre bottiglie di bibite gasate da un litro e mezzo ciascuna, due piene di ginger e una di aranciata, e le trangugiò una dopo l’altra, senza quasi nemmeno respirare, mentre mandava giù quei quattro litri e mezzo di liquidi. Non erano bevande ghiacciate, poiché – non avendo alcuna intenzione, in quei giorni, di bere – non le teneva nel minuscolo suo frigorifero. A questo punto stava alla Provvidenza scegliere che cosa sarebbe stato di lui. La cosa più probabile era che gli venisse una bella congestione, poiché era da ben 13 giorni che non beveva più nulla, né toccava alcun cibo e nemmeno più l’ostia consacrata alla messa!

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Il risultato che ebbe fu che cadde in un sonno improvviso e dormì per dodici ore di fila. Si svegliò circa alle tre del mattino del 14 e aveva scavalcato anche questo punto limite, del 13 ottobre, che credeva fosse posto a dimensionare la sua vita. Ebbene, la sete che aveva provato l’asino del Signore – o meglio il suo – riverberò in tutto il mondo e alla sua carenza di liquidi entrò in crisi l’intera liquidità di istituti finanziari e Nazioni. E nello stesso modo, non appena egli ricominciò a bere, oltre il 13 ottobre apparvero anche i rimedi contro la crisi finanziaria, messi su dalle varie Nazioni. RISPARMIATO, DECISE DI TORNARE IN MISSIONE IN BRASILE. La prima cosa che gli venne fatto a cui pensare fu di tornare subito in Brasile. Questa vicenda era cominciata con un sogno che aveva fatto là e adesso era anche giusto che ritornasse da tutti quegli amici che avevano pregato per lui. Telefonò a Padre Pigi e seppe che non era più lui il Parroco, ma era restato a vivere nello stesso posto e così esso c’era anche per lui. Ebbe luogo a quel punto il suo terzo viaggio a Belo Horizonte, per dare una mano e provvedere a tutto il bisogno che essi avevano di lui, mentre a Saronno no. Avrebbe cercato anche di mettersi a posto qualche altro dente...

UN TIFONE SCOPERCHIÒ LA CHIESA In Brasile padre Pigi era andato in pensione e ora la sua funzione era quella di assistente del nuovo parroco. Aveva conservato però il suo appartamento e poteva ancora ospitare chi voleva, nelle solite condizioni: che le persone si sostenessero con i loro mezzi. La sua Chiesa non aveva mai speso denaro per ospitare le persone; al contrario erano esse a portarne. Anche RU non era stato un ospite ingrato che alla fine non avesse corrisposto una offerta in cambio dell’ospitalità che aveva ricevuto. Anche il cibo non era preparato da persone di servizio o perpetue, come è in uso in occidente. In Italia, alle messe, spesso c’erano più di un solo sacerdote e invece in Brasile tante volte non ve n’era nemmeno uno che la dicesse, e allora toccava a uno degli adulti, che regolava le funzioni, senza però potere consacrare l’Ostia e ripetere con questo l’Ultima Cena del Signore. La povertà era una cosa palpabile. In cambio si mangiava spendendo per un pranzo quello che corrispondeva in reais ad un euro.


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Gli ospiti fruivano della cucina di padre Pigi e mangiavano come volevano. Lui cucinava le erbe, che raccoglieva spesso lungo la strada, dovunque le vedesse. Si era fatta una discreta cultura dei loro principi nutritivi e faceva i suoi bolliti con quelle essenze che a suo dire erano così ricce di sali minerali e di omega tre, che non avevano pari, e che nelle altre parti del mondo non esistevano. Questa ultima volta in cui RU fu in Brasile venne in contatto con padre Casio e anche con molti aderenti di Comunione e Liberazione che esistevano nel Clero di Belo Horizonte. Partecipò ai loro incontri e pellegrinaggi, raccontando loro quale fosse il suo compito nel mondo. Per quanto disse e fece con tutti costoro, non riuscì però a smuovere granché la Chiesa – nemmeno lì – sotto il profilo teologico, filosofico e scientifico, ossia secondo la linea che egli seguiva per dimostrare vere le cose rivelate da Gesù e che avevano ancora bisogno che fossero provate tali. Pur essendo ospite di un missionario valente, come padre Pigi, che faceva le sue brave catechesi ed era apprezzato in tutta quanta la Chiesa Cattolica, la vera missione che RU sentiva – e che il papa Giovanni Paolo II aveva avvertito urgente per tutta la chiesa – anche in Brasile lasciava totalmente a desiderare. I Cattolici nel mondo, dopo il momento esagerato iniziale in cui avevano cercato di imporre Cristo con le armi e con l’educazione, violentando le culture e le religioni primitive e locali, erano passati al punto estremo di vere eresie perpetrate nel nome di Gesù Cristo quando avevano cominciato a uccidere coloro che non lo accettavano. Che fossero streghe o personaggi celebri come il Galileo, rischiavano di essere arsi come eretici, e il Cristianesimo si era così devitalizzato da non sentir più nemmeno l’urgenza di imporre a chi non la conosceva la VERITA’ di Gesù Cristo. Non si parlava di Fede. RU non voleva imporre a chi ne aveva un’altra la FEDE in Gesù Cristo, ma costoro dovevano sapere che se tanti erano stati i profeti che avevano parlato, SOLO GESU’ AVEVA TOTALMENTE RAGIONE. Ebbene, a tutta quella brava gente importava solo coltivarsi il loro orticello e fare del bene nel modo migliore secondo loro. Non gli importava un fico secco che un islamico, un buddista, uno scintoista – uno qualunque fede avesse – sapesse come tutti i principi della scienza moderna avevano sviluppato solo le verità rivelate da Gesù Cristo. RU completò il suo tempo in Brasile e la natura sembrò alla fine punire quella Chiesa presso cui era stato per tre volte, senza ottenere il suo scopo. Una settimana prima che ci fosse il suo aereo, venne un TORNADO davvero particolare, poiché agì solo lì, in cima a quel colle, e ci fu una tromba d’aria che si pose sul corpo della Chiesa e ne scoperchiò totalmente il tetto. Solo la Chiesa ebbe quel danno. Intatte le fragili case ad essa intorno. RU capì bene ciò a che cosa alludesse.

Ne discusse con padre Cassio, che aveva preso il posto di padre Pigi e che gli disse che aveva come la sensazione che il Cielo ce l’avesse con lui. RU lo sorprese quando gli disse che quella Chiesa senza più il tetto lasciava intendere solo che Essa sarebbe dovuta giungere ad altre conclusioni su lui . Le era stata porta l’occasione di fare qualcosa di grande, conoscendo da vicino il del Signore. Aveva affrontato con lui le questioni teologiche e filosofiche e non avevano messo un tetto valido su quella loro opera . C’era una copertura su tutti loro che gravava come un coperchio che andava scoperchiato. Avrebbero dovuto farsi uno con lui e appoggiare presso il Vaticano quell’incontro tra la Fede e la Ragione che era il suo motivo trainante da quando il Papa Giovanni Paolo II lo aveva chiesto. Perché non l’avevano aiutato? Padre Pigi sarebbe stato ricevuto anni dopo da Papa Francesco! Contento lui e l’altro compiaciuto di se stesso. Eppure.... Scivolò e cadde anche RU, il dì prima di partire e lasciare il Brasile dopo i tre inutili viaggi. Tornò in Italia quasi zoppicando e, arrivato a Roma con il volo, volle passare qualche giorno a Montesilvano, per salutare tutti gli amici del coro in cui aveva cantato anche lì, e quella terra tremò, lì presso lui, a Aquila. A qui, là , A modeo andava qui, là , da un mondo all’altro mondo, inutilmente, tremava la Terra e si scoperchiavano le chiese anche lì. RU fu uno di quelli che corsero in strada quando la scossa fu avvertita con forza anche a Montesilvano. Gli sembrava il mondo l’ inseguisse con fenomeni come quello appena vissuto a Belo Horizonte, e questo in Italia. Due morti ci furono anche ad Atri... Sapendo d’essere il  di Padre e Spirito Santo, vide in quei due morti di Atri l’immagine reale di chi per 33 giorni di seguito avevano colpito.


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RITORNO A SARONNO RU si arrese e fece ritorno a Saronno, dopo che ne era stato lontano appena quel tempo che aveva pensato di poter trascorrere in Brasile, anche per completare l’opera che quel bravo dentista brasiliano aveva potuto fare, impiantando però solo la metà di quelli che gli erano necessari Quando però si trovò con la Chiesa scoperchiata da quel tornado che si era posizionato proprio lì, sulla Chiesa e aveva risparmiato tutte le casette intorno, ed era poi scivolato proprio là dove il tetto non c’era più, allora ebbe la convinzione che il suo tempo lì, e la sua opera erano al termine. Contava di fermarsi anche a Montesilvano, ma appena era arrivato là, anche in quel luogo era tremata la terra... Così non riuscì a resistere più lontano da quel piccolo presepio di Saronno, in cui egli era entrato in una stanza che era stata il luogo in cui si cucinava e si mangiava – sì, una mangiatoia – con di fianco una stalla vera e propria – ma separata – e ancora discosto, al primo piano, un locale su, quello in cui si era accampato Sabato.. Di fianco a lui i Restelli (il Re e la Stella); come Restelli era l’azienda degli autobus che con la linea 2 collegavano Cassina Ferrara al centro. E – quando aveva lavorato a informa zona – la segretaria di redazione che lo preparava allo stesso modo con cui lui aveva preparato Architettura e Pianificazioni, si chiamava lei pure Restelli. Di fronte all’entrata nella parete di fianco una piccola edicola della Madonna. Dovunque aveva abitato, a cominciare da dove era nato, c’erano richiami religiosi. A Felitto, dove nacque, nell’androne d’ingresso di Via Pomerio 76, in alto un affresco con il volto di Cristo. Quando si era spostato tra Salerno e Vietri sul Mare la sua casa era sotto Monte Liberatore. Al San Liberatore di Atri lo avevano conciato per le feste. In quelle mura di via Larga 12, lo stesso indirizzo di quando abitava al 13 della stessa via Larga, il n. 12 era la residenza del Comune di Milano. Quando si era trasferito da Milano a Saronno, e sembrava degradato da un Capoluogo di Regione ad una piccola città di Provincia, ecco che invece andava ad abitare all’indirizzo proprio del Comune di Milano. In quelle quattro mura era salita in cielo sua madre, e lì si appressò a concludere anche la sua vita, della quale ora non vedeva più il termine.

Seppe da Giancarla che ogni giorno lei faceva la spola tra Corsico e Corso Garibaldi, a Milano, per accudire suo padre Mario, nella sua casa popolare che gli avevano dato da circa quattro anni. RU allora le disse che l’avrebbe rivisto volentieri. Lei chiese a suo padre se lo gradiva; così lui, a giugno si recò in visita e si rattristò nel vedere suo suocero così invecchiato, dall’ultima volta che l’aveva visto 20 anni prima. Nella sua nuova piccola casa faceva bella mostra di sé il gran quadro a olio che RO aveva dipinto, con Giancarla e sua nonna abbracciate, e che stava prima dalla cara, rimpianta Clara Raggi, andata in cielo ormai da tempo e sepolta a Carrara, con suo marito Guglielmo morto ancor molto prima, investito un giorno mentre andava ad aiutare sua figlia, a fare i mestieri, nel Bar di via Vetere. Mario Scaglioni lo accolse bene. Anche se con molta amarezza, lo trattò ancora come quel nuovo figlio che aveva avuto tramite la figlia e che aveva amato. Sapeva ormai che Giancarla aveva un altro uomo, eppure vedeva ancora in lui quello di un tempo. E negli occhi e nel cuore ancora quella domanda così intrisa di malinconia, che non faceva con la bocca: “Perché, Romano?!” Tornato a casa, cominciò a lasciarsi crescere nuovamente la barba e a non tagliarsi più i capelli, come se questo camuffamento aggiustasse le cose. BEN PRO STAT LA SUA USCITA IN LIQUIDITÀ DAL LAVORO E RU CONTRASTAT LA SUA CORPOREA ED HA LA PROSTATA Il era così il reciproco del fratello (unito con lui in R-U-BEN ) che ora che Benito da pochi mesi STAT in pensione – ex D. G. del San Raffaele Giglio di Cefalù – lui Romano male STAT nel suo corpo= con la prostata di chi fatica a estromettere tutti i suoi liquidi... invece incassati dai pensionati! Scavalcando quell’anno di preavviso necessario senza la raccomandazione di un fratello, RU riuscì a essere internato in tempi brevi, per motivi di urgenza, nel san Raffaele di Milano, e lì decisero di operarlo. Mentre attendeva l’intervento, ad ottobre avanzato, un giorno Giancarla andò in visita da lui. Entrata nella stanza, se ne stava già andando, non avendolo riconosciuto per la barba. Saputo di lui (che per lei era l’ex marito) all’Ospedale, per una


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operazione, adesso, sua moglie (tale restava sempre lei per lui davanti a Dio) ricambiava la sua visita, ma non era solo di cortesia: gli voleva ancora bene. L’intervento fu fatto dopo una iniezione lombare che aveva reso insensibile il dolore e paralizzata tutta la parte bassa del suo corpo. Entrando dal pene, con un grosso catetere che aveva sulla punta una telecamera e l’emittente di un raggio laser che appariva come un anello di fuoco, avevano praticamente trivellato con quell’anello un nuovo tunnel che collegava il membro alla vescica. Così operando, aprivano una nuova la strada. RU poté assistere, senza dolore, all’intera operazione, vedendola sullo stesso monitor sul quale la seguivano gli operatori, che spingevano avanti tutto il catetere e – a mano a mano, in modo cruento – aprivano il nuovo condotto col raggio laser. Lo riportarono a letto e l’avvertirono che a poco a poco avrebbe riacquistato il comando delle sue gambe. Dopodiché doveva andare in bagno e... aprire quel suo personale rubinetto, per scaricare una vescica colma d’urina. Quando RU lo fece, il suo pene spruzzò un getto velocissimo di sangue e pipì, con una potenza che non aveva mai visto in vita sia. Quella operazione – doveva saperlo – eliminava ogni eiaculazione di sperma, da quel momento in poi, poiché l’intervento così cruento, aveva distrutto tutte le precedenti linee di comunicazione, interferendo anche con le vie spermatiche. Se avesse avuto ancora intenzione di mettere al mondo dei figli, copulando, non ci sarebbe più riuscito. Il problema sorto a quel punto fu il contenimento dell’urina. Secondo i medici, l’operato si sarebbe dovuto rassegnare al pannolone. Intanto ne indossava uno, quando lo dimisero. Tornò a Saronno col treno, ed era domenica, giorno in cui nella città degli amaretti gli autobus non circolavano. Fu prelevato da sua cugina Barbara, che lo condusse a casa, in via Larga 12, nel suo “presepio”. Ebbene RU non ebbe bisogno del pannolone. La sua natura si riadattò in un modo tutto suo e riusciva a trattenersi, e a far pipì solo quando voleva. Per pochi giorni, solo quando si sedeva o si alzava, in quei momenti di mezzo, ebbe qualche lieve perdita. Poi fu come se non avesse mai sofferto di prostata. Riprese a cantare nel coro della parrocchia. Era diretto in quegli anni da un volenteroso e tecnico insegnante che non faceva più stare in piedi i cantori, ma tutti seduti su tre file, con posizioni fisse per ogni voce, e una attenzione estrema per le singole partiture; lui in piedi davanti, con la sua maestria. RU fu messo da lui tra i tenori e fu costretto ad aggiornare la sua conoscenza degli stessi canti, di cui prima aveva imparato la partitura dei bassi. Per non fare preferenze ed essendo le prove in un giorno diverso, RU ricominciò a frequentare anche il Coro Santa Cecilia il cui Maestro era il suo amico Angelo Monticelli, e anche lì ritenne opportuno inserirsi tra i tenori.

Partecipare al lavoro delle Corali era impegnativo, poiché significava decidere di non assentarsi più da casa, in ragione proprio della serietà che l’impegno richiedeva da parte di tutti. A suo tempo, proprio per questa occupazione tassativa, RU non era andato da Maria Grazia Arpino a Montesilvano, se non nei momenti nei quali l’attività dei cori aveva periodi di pausa. Volle risolvere il grave problema del riscaldamento invernale. Infatti abitava al piano terra di una vecchia casa che era stata costruita senza nemmeno creare un vespaio sottostante il pavimento. Esso era stato poggiato direttamente sul terreno e da lì sotto veniva un umido che poi entrava nelle ossa. Così creò lui un diaframma. Rinunciò a 6 centimetri in altezza e mise una barriera al freddo, con polistirolo, pannelli di truciolato e, sopra a ciò, una perlinatura. Collocò sui vetri della finestra un diaframma fatto con elementi trasparenti di plastica, che erano anche utili per impedire a chi si trovava nel cortile su cui si apriva l’unica finestra, di guardare dentro. Il riscaldamento era quello elettrico e glielo aveva donato suo fratello. Ma con l’aria calda restava il freddo su tutti gli oggetti, e dovette al suo fisico resistente se non gli vennero reumatismi, o raffreddori, o tutte quelle malattie stagionali causate dal freddo. Pur dormendo d’inverno con in casa appena tredici gradi, non si ammalava mai né gli venivano mai nemmeno dei raffreddori. In quel tempo ebbe a che discutere sul Web con Luogocomune, un sito che – a giudicare dal nome, si presentava come un contesto comunitario in cui fare discussioni; invece presto si rivelò proprio come l’altro significato della stessa espressione: il luogo di tutte le idee più o meno scontate e delle altre teorie di quelle che andavano per la maggiore sul complottismo. Era il luogo comune di tutte queste idee balorde. Lo disse e venne in attrito con gli altri iscritti al sito; fu cacciato. Il suo rapporto, coi gruppi di discussione (i News Group) su argomenti di Fisica, erano iniziati con il trasferimento a Saronno. Quando cominciava a esporre le sue idee, destava sempre scalpore e presto si parlava solo di lui. Ciò suscitava la gelosia di chi era il leader delle discussioni prima di lui, e allora essi si lamentavano e minacciavano di dimettersi, scrivendo che “da quando è apparso un pifferaio magico che soffia nel suo piffero, egli vi sta portando tutti in un burrone”. Poiché in tutti questi News Group c’era sempre un proprietario e moderatore, finiva – presto o tardi – che tutto il clamore che il del Signore aveva suscitato gli si ritorceva contro ed era puntualmente cacciato. Le giustificazioni scientifiche (!!!) che gli davano, talvolta erano paradossali: “Sì, questi ragionamenti scientificamente filano... ma quante volte, minacciando le pene eterne dell’Inferno, un prete poi ha portato dalla sua uno che temeva di andarci... e si è fatto lasciare tutta l’eredità?”


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2010

Il viaggio dal mondo all’altro mondo, che passa per Natal R-U-BEN nel 2.010 invertirono totalmente le loro disposizioni, e BEN fu spedito come co-co-co (collaboratore coordinato e continuativo) dal San Raffaele, continuativo anche dopo il suo pensionamento al Giglio di Cefalù, in Brasile, al VDS, a Petrolina. In Brasile Benito partecipò a costituire, nell'agosto 2010, la Vds Holding di diritto italiano, di cui l'Associazione del Monte Tabor e la Finraf (controllata della Fondazione San Raffaele) detenevano un terzo a testa del capitale, mentre la rimanente quota fu sottoscritta da Roberto Cusin, l'imprenditore della ristorazione collettiva amico di don Verzè, il sacerdote fondatore del san Raffaele. La situazione in Brasile, che riguardava i problemi della vite che produceva uva senza semi, era disastrosa, per una perdita di prodotto spaventosa nel 2.008, per grandi piogge che avevano fatto marcire immense quantità di uva. Questo impiego di Benito, nei problemi relativi alla vite, lo riportarono ai momenti fondamentali della vita di R-U-BEN. Il Brasile fu importante, proprio nel momento natale di RU, ed espresse il viaggio dal vecchio al Nuovo mondo di quanto scese prima a Natal e poi giunse a RIO, come integrazione (il ROSA-RIO) a quanto successo a zia ROSA, nata nel segno della Santa Esaltazione della Santa Croce che la celebra il 14 settembre.

Fu lo stesso giorno di inizio che riguardò la lettera Enciclica Fides et Ratio di Papa Giovanni Paolo II, che ci tenne a precisarlo, nel momento di firmarla. In essa aveva chiesto a Maria SS di “potere”... e come la sposa dello Spirito Santo avrebbe non potuto? Lei mandò il  . Per questo  , per RU – mentre BEN tentava di risolvere al meglio all’altro mondo gli ingarbugliati problemi della vita, sollevati da un Prete – il 1910 segnò l’assoluto e ordinato lavoro metodico e quotidiano di un tempo totalmente ben messo in ordine in questo mondo e in tutta la sua vita. Al mattino presto, RU si alzava e cercava il Bar aperto a quell’ora. Doveva lavarsi e liberarsi l’intestino, e lo faceva dopo un caffè doppio macchiato, in tazza grande. A casa aveva sistemato nel muro una sorta di orinatoio che scaricava nel sottoscala di fianco alla porta, in una tanica nella quale finivano anche le acque della cucina. Doveva prestare la massima attenzione perché se quella tanica di 25 litri si colmava e traboccava, lo spazio davanti alla casa si allagava e protestavano i vicini. L’appartamento di fianco al suo – in cui erano stati Barbara e Vincenzo – era ormai sfitto. Di fianco c’era solo un vecchio della famiglia dei Reina, e Reina era la donna anziana che abitava al piano di sopra. Per cui RU si sentiva veramente in una mangiatoia, circondato da due Reìne vive e una di legno nella nicchia votiva. Tornato dalle sue operazioni igieniche, scriveva e studiava, ma solo ciò che poi metteva per iscritto, fino all’ora in cui doveva prepararsi da mangiare, nel piccolo cucinino e con i fornelli alimentati da una bombola a gas liquido. Il 25 gennaio RU compì 72 anni, assieme a sua cugina Barbara, suo marito i suoi figli, a Caronno Pertusella, a casa di lei. Iniziò un periodo in cui – restando lui a Saronno – furono possibili tutti questo momenti un cui celebrare insieme la propria nascita, come accadeva quando – essendo barbara ospite dei genitori di RU – c’erano a far festa intorno anche il padre, la madre e Giancarla. Nel 2.010 suo padre Gino era morto ormai da 26 anni, sua madre Anna da 10 e Giancarla viveva con suo padre a Rivarolo Mantovano. Ricominciò il suo lavoro.


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ATTACCO DEL MALIGNO DI ESPLODERE RU E LA SUA CASA Ma è a questo punto che il Maligno attentò nuovamente alla sua vita. L’approfondimento delle questioni stava portando il a conoscere le regole fondamentali che poi avrebbe riferito, in relazione alla vita sulla terra e al momento nel quale la sua massa – per una legge inevitabile – sarebbe stata costretta, in un giorno solo, a capovolgere il suo asse di rotazione. Infatti le osservazioni sull’uguaglianza delle tre componenti dello spazio, lo portavano a riconoscere che anche la rotazione di una massa in esso sarebbe dovuta essere triplice. Terminati tutti i giorni della rotazione del piano, nell’ultimo si capovolgeva anche l’asse della rotazione. La Bibbia descriveva questo fatto, e RU cominciava a scoprirlo. Così il Maligno – come al solito – prendeva le sue contromisure attraverso pericoli mortali. Si opponeva poi anche al Canale che presto RU avrebbe aperto su YouTube. A voi lettori sembra che il richiamo al Maligno sia gratuito; ma quando tutto è in equilibrio, e accade che un del Signore inizia una fase di grande approfondimenti della verità – per la stessa ragione del terzo principio fisico di Azione e Reazione – a tanto approfondimento nella via del bene per la vita, si accompagna l’attentato ad essa come il suo aspetto reciproco. Il pericolo mortale contro RU si manifestò nella possibile esplosione di una bombola di gas, che prese fuoco quel dì in cui maldestramente – per quelle ispirazioni malefiche di cui si è detto – avendo serrato i bulloni durante la sostituzione di una bombola di metano, il volle controllare se aveva fatto bene le operazioni e prima annusò (senza sentire puzza) poi, anziché ricorrere a uno strumento di misura, certo della bontà di quello che aveva fatto... (ecco il Maligno!) azionò un accendino sui collegamenti fatti male, e ci fu una fiammata che avvolse tutta la parte superiore della bombola, come nel disegno qui a lato. Fu un momento critico in cui doveva decidere immediatamente il da farsi. Se fuggiva e si metteva in salvo lui, poi saltava in alto la casa. Se cercava di provvedere, rischiava di morire nell’esplosione. Con un sangue freddo che gli veniva sempre in situazioni come questa, cercò la chiave inglese che per fortuna (?) era lì. Proteggendosi con uno straccio serrò più forte un dado, bloccò la fuoriuscita del gas e spense le fiamme. Grazie a Dio (!) il fuoco non entrò nella bombola ed essa non esplose. Prese una tale strizza che da quel giorno abbandonò quel sistema di cottura e comperò un grill elettrico, che tante volte poi usò anche per scaldare l’ambiente, che era specie d’inverno troppo freddo e umido.

Dovendo stare lì, una volta che aveva deciso di non andar più via e di impegnarsi con i cori della chiesa, volle risolvere con grande anticipo il grave problema del riscaldamento invernale. Infatti abitava al piano terra di una vecchia casa che era stata costruita senza nemmeno creare un vespaio sottostante il pavimento. Esso era stato poggiato direttamente sul terreno e da lì sotto veniva un umido che poi entrava nelle ossa. Così creò lui un diaframma. Rinunciò a 6 centimetri in altezza e mise una barriera al freddo, con polistirolo, pannelli di truciolato e, sopra a ciò, una perlinatura. Collocò sui vetri della finestra un diaframma fatto con elementi trasparenti di plastica, che erano anche utili per impedire a chi si trovava nel cortile su cui si apriva l’unica finestra, di guardare dentro. Il riscaldamento era quello elettrico e glielo aveva donato suo fratello. Ma con l’aria calda restava il freddo su tutti gli oggetti, e dovette al suo fisico resistente se non gli vennero reumatismi, o raffreddori, o tutte quelle malattie stagionali causate dal freddo. Pur dormendo d’inverno con in casa appena tredici gradi, non si ammalava mai né gli venivano mai nemmeno dei raffreddori. Con questo andazzo quotidiano, dopo di aver pranzato – o mangiato una pizza – faceva un pisolino e poi si rimetteva all’opera sul computer. In quel tempo ebbe a che discutere con Luogocomune, un sito che – a giudicare dal nome, si presentava come un contesto comunitario in cui fare discussioni; invece presto si rivelò proprio come l’altro significato della stessa espressione: il luogo di tutte le idee più o meno scontate e delle altre teorie di quelle che andavano per la maggiore sul complottismo. Era il luogo comune di tutte queste idee balorde. Lo disse e venne in attrito con gli altri iscritti al sito; fu cacciato. Il suo rapporto, coi gruppi di discussione (i News Group) su argomenti di Fisica, erano iniziati con il trasferimento a Saronno. Quando cominciava a esporre le sue idee, destava sempre scalpore e presto si parlava solo di lui. Ciò suscitava la gelosia di chi era il leader delle discussioni prima di lui, e allora essi si lamentavano e minacciavano di dimettersi, scrivendo che “da quando è apparso un pifferaio magico che soffia nel suo piffero, egli vi sta portando tutti in un burrone”. Poiché in tutti questi News Group c’era sempre un proprietario e moderatore, finiva – presto o tardi – che tutto il clamore che il del Signore aveva suscitato gli si ritorceva contro ed era puntualmente cacciato. Le giustificazioni scientifiche (!!!) che gli davano, talvolta erano paradossali: “Sì, questi ragionamenti scientificamente filano... ma quante volte, minacciando le pene eterne dell’Inferno, un prete poi ha portato dalla sua uno che temeva di andarci... e si è fatto lasciare tutta l’eredità?” Doveva allora abbandonare tutti i tentativi di discutere con la gente, e mettersi solamente a dire la sua.


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Aveva già messo in rete il suo Sito WWW.ORDINESPIRITOSANTO.COM, dieci anni prima e non ne aveva ricavato granché, poiché era stato rimosso per l’insolvenza di chi lo aveva pubblicizzato nel suo dominio. Per di più si era allontanato da lui anche il suo sostenitore Salvatore Mocciaro, costretto per ragioni economiche ad abbandonare il costoso affitto a Milano, per traslocare dalle parti di Abbiategrasso, nello stabilimento di sua fratello. RU gli aveva lasciato tutti i suoi quadri quando, nella certezza di morire, l’aveva in un certo senso nominato esecutore testamentario incaricato di venderli e dare il danaro agli amici che a suo tempo erano stati scottati dal suo fallimento del 1988. Egli gli curava la pubblicazione in Rete del suo sito, ma per quanto gli avesse chiesto di trovare il modo di rimetterlo sul Web, non era riuscito mai a farlo per i troppi problemi suoi personali. Il sentiva di avere il sostanziale problema di lasciare ai posteri la sua opera. Secondo lui, quella scritta, in epoca moderna rischiava di essere troppo facilmente falsificabile in futuro. Una volta si era stupito del fatto che il Signore avesse fatto nascere Gesù quando non vi erano grandi mezzi per memorizzarne direttamente il pensiero, ma adesso si rendeva conto che chiunque avrebbe potuto prendere uno dei suoi tanti libri, mutarne le parole, e poi attribuire al proprio quello che lui non aveva per nulla scritto. Doveva pertanto trovare il modo di dire a voce le sue cose, e certamente era YouTube lo strumento ideale per lui. Poteva gestire direttamente tutto quotidianamente, senza aspettare i tempi del Mocciaro che gli mettesse tutto in rete, e non c’era un moderatore. Così poteva affermare tutto quello che voleva e avrebbero tutti visto che era la sua faccia quella che faceva quelle affermazioni e non altre. Così il 13 giugno 2.010 ebbe luce il Canale YouTube Romano Amodeo.

Da quella data in poi, quello che è il resoconto annuale che state leggendo, su YouTube si mutò in giornaliero, spesso con più video in un dì solo.. Una attività che divenne presto così impegnativa da occupare tutto il giorno.

Pertanto la storia di RU qui, su questo libro, diventa essenziale e va a descrivere tutti i fatti collaterali alla realizzazione dei suoi video e dei suoi libri. Infatti sul Canale RU intervenne ogni giorno con video che trattarono tutti gli aspetti dell’esistenza e anche della sua reale. Tutto questo ordine fu impresso alla sua vita proprio mentre il suo alter ego cercava di risolvere i problemi gravissimi della vite che aveva creato il prete Don Verzè, fondatore della fondazione San Raffaele. Lo aveva distratto dall’Ospedale di Cefalù, dalla Fondazione Giglio di cui Benito era quel Direttore Generale che in 5 anni l’aveva rimessa in sesto, affinché ora risolvesse i gravissimi problemi della sua vite, all’altro mondo. R-U-BEN si dimostrarono ancora una volta totalmente simmetrici e reciproci nei loro valori, poiché – divisi in un virtuale gemellaggio iniziato nel dì stesso della Concezione del 2° e della nuova vita ridata al 1°genito – il compito importantissimo assegnato dalla Provvidenza Divina al 2°genito era stato quello di rappresentare in modo reale quello che il 1° stava facendo in modo ideale. E poiché il 1° dei due, RU, stava mettendo in ordine totale tra di loro la vita e la vita eterna, nel solco di un mandato originato da un Pietro, di suscitare lo Spirito Santo della verità, nel solco della Ragione Filosofica, ecco che il 2° lo assecondava in tutto nel mondo reale, e presentava un Prete messo in enorme difficoltà per la vite coltivata all’altro mondo reale (il Brasile) e vi mandava BEN, nella speranza che lui realmente riuscisse a compiere il suo impossibile miracolo. Ecco come andrà il canale Romano Amodeo in 10 anni, con oltre 5.000 video.


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2011

RU non ebbe modo così per piangerne, poiché solo otto giorni dopo, invece, il 25 gennaio, fu di nuovo a festeggiare il suo compleanno unito a quello di Barbara, a Caronno Pertusella, con Gigi Flocco, il marito, Liliana e Alessia le due figlie e la sua famiglia allargata. Barbara aveva creato un numeroso gruppo di parenti, sempre riuniti nelle varie feste. Erano i rari giorni in cui RU si metteva in contatto personale coi suoi parenti. Benito era ormai in pensione, essendosi dimesso per raggiunti limiti di età il 6 maggio 2.009 come direttore generale a Cefalù del San Raffaele Giglio. Aveva lasciato di se stesso un ottimo ricordo, come di un Manager di primissimo piano, che a Cefalù aveva dato un forte impulso alla crescita e allo sviluppo dell’ospedale, contribuendo a creare un centro di eccellenza di straordinario valore per il comprensorio madonita e per la Sicilia. LA MORTE DI COSTANTINO MORRA

LA MORTE DI MARIO SCAGIONI Il 2.011 cominciò molto male. Gli giunse la notizia (ma solo molti giorni dopo) che il 17 gennaio il padre putativo, aggiunto al suo grazie al suo matrimonio, Mario Scaglioni, era passato a miglior vita. In questa foto degli anni felici, c’erano Luigi Amodeo con Giancarla, morto nell’83; Giuseppina Benedetti, la prima a destra, seconda madre, la putativa di Romano, morta nell’89; Anna Baratta, al centro, la madre, morta nel 2.000; e Mario Scaglioni, morto in questo 2.011. L’ultimo dei quattro genitori, naturali e acquisiti, era andato in cielo il giorno dopo il 16 gennaio in cui era nata Maria Teresa Mazzola, la Zilla demolitrice di tutta questa gioia...

Tre mesi dopo, a maggio, fu la volta di andare in cielo di Costantino Morra, che morì dopo una brutta vecchiaia, acida e collerica, e RU credé opportuno di passare qualche tempo a Salerno dai suoi due figli, per rincuorarli e star loro vicino. Nicola, soprattutto, era restato sfiancato dall’aver avuto cura – lui più di suo fratello – prima di sua madre e poi di suo padre, e non capì molto delle intenzioni di suo cugino, che aveva iniziato a soggiornare con loro. Ebbe paura che RU, che col suo barbone pareva più vecchio del dovuto, sperasse di trasferirsi a casa sua per essere il terzo caso disperato di cui farsi carico. Nei mesi estivi trascorsi a Salerno RU prima ebbe solo l’impressione, che Nicola avesse questo timore, poi ne ebbe certezza quando si decise a parlarne con lui e il cugino gli disse: “Romano, non spererai che tu ora stai qui con noi per trascorrervi il resto della tua vita, vero? Io non ne posso più di avere a carico dei lungo-degenti.”


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RU gli rispose categoricamente: “Cugino carissimo, io sono venuto qui da te per starti vicino, immaginando tu avessi bisogno di compagnia e conforto dopo la perdita di tuo padre. Ma vedo che non è così: tu hai bisogno di startene in solitudine, a riacquistare le tue forze. Ebbene ti giuro che questa è l’ultima volta che mi vedi dormire qui a casa tua a Salerno. A garanzia di questo ti dico una cosa gravissima: che morirà mio fratello Benito se trascorrerò altre notti qui con te, dopo che me ne sarò andato, questa volta. Perciò stai tranquillo: al termine del mio soggiorno da te, questa cosa che io ti offrivo per starti vicino più che potessi, non ci sarà più. Io sto terminando dei video importanti qui da te e quando avrò terminato, vi lascerò soli, come tu desideri”. PREVISIONE DELL’ASCENSIONE DI CRISTO. A Salerno RU lesse e registrò su YouTube i quattro vangeli riconosciuti dalla Chiesa Cattolica e soprattutto mise in onda la profezia del “Morirò al termine del 2112-2012 e non è una balla”, che ebbe molte visualizzazioni per quella data che era quella del Termine del Calendario Maia, che per alcuni era indicativo della fine del mondo, e così pensavano che questo annuncio riguardasse la fine di tutti. Non significava quello, ma il compimento dei 2.000 anni meno 4 giorni di tutti i due millenni dell’opera fatta dal Figlio per il Padre Suo, da quando iniziò nel 12 dopo Cristo quando a 12 anni si fermò nel Tempio, invece di stare coi suoi genitori, nella carovana di coloro che tornavano a Nazareth, terminate le celebrazioni della Pasque e secondo il vangelo di Luca. NASCITA DI EDOARDO POLA DA PAOLA AMODEO. Mentre era a Salerno, la prima nipote di RU ebbe il suo 2°genito; un bimbo, cui fu dato il nome di Edoardo, così allusivo nei confronti di A.R. (Amodeo RU) per il suo sibillino Ed ho A.R:, do. Nella consuetudine biblica di dare ruoli di spicco ai soli maschi, questo bimbo era il 1° nipote maschio di RU. Non poté unirsi alla gioia di tutti che da lontano e quando lo seppe, tempo dopo. Non lo tenevano aggiornato, i suoi nipoti, degli eventi che li riguardavano in modo così stretto, ma lo ritenevano cosa normale, essendo stati per tutta la loro adolescenza nelle lotta Padre - figlio tra due opposti modi di considerare i rapporti. Per Luigi Amodeo che tra l’altro era stato il primo padre ad abbassare se stesso al ruolo di compagno di giochi dei figli, spettava ai figli di muoversi nel dovuto rispetto e attenzione verso i padri. Per Benito, toccava agli adulti, ben più sapienti, di fare esattamente come aveva fatto suo padre con lui: “abbassarsi” al duo livello. Poiché chi è in alto si può abbassare ma chi è in basso come può fare a superare la sua stessa altezza?

VA A SVERNARE A MONTESILVANO Il primo di ottobre si trasferì da Salerno a Montesilvano, in quella cittadina che aveva, sul colle della Vecchia, una grande croce, come a protezione di quella città. Non ne conosceva ancora la storia. Si trasferì in questa villetta in via Morrone al numero 10, affittandone la metà posta a destra, quella con le tre ampie finestre al primo piano. Aggiunse altri libri ancora a quelli poi raccolti su ISSUU.COM. Si fermò a Montesilvano per mesi. Quando i suoi amici del coro lo videro con quel barbone restarono sorpresi: era un’atra persona. continuò a postare video su YouTube e a scrivere anche dei libri, che lasciò in sospeso, senza finirli. Colse l’occasione per fare ancora video ambientati al mare. Aveva sistemato nella sua abitazione una lavagna e su di essa dava le sue spiegazioni, riguardanti la fisica. Aveva fondato una scienza che era a suo modo di dire andata più in avanti di quella conosciuta, per cui doveva darle un suo nome in modo che coloro che ascoltavano le sue lezioni capissero che non era quella scritta sui testi ed insegnata a scuola. Quando arrivò la fine dell’anno fu invitato a partecipare a Natale a una cena in cui vi erano molti bambini. Allora pensò di indossare gli abiti e si presentò con l’abito di Babbo Natale. I bimbi videro in lui quello che gli adulti non vedevano... e lo considerarono davvero chi dava l’apparenza di essere. Così decise che era arrivato il tempo di dire addio a quell’immagine, visto che almeno dei bambini innocenti l’avevano riconosciuto, e si tagliò barba e capelli. Sembrava di nuovo un’altra persona.


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C’era anche una altra ragione per cui concluse quella sua apparente forma: aveva il 28 dicembre 27.000 giorni tondi-tondi. Quando ne aveva avuti 25.000 era morto Don Giussani. Quando ne compì 26.000 c’era stata la grande gioia degli Italiani. Ora che ne aveva compiuti 27.000, diede egli pure l’addio a Babbo Natale. Aveva iniziato a non radersi più ne a tagliarsi i capelli quando il suo papà putativo, suo suocero, senza chiederglielo, tuttavia ce l’aveva ancora scritto negli occhi e chiedeva: “Perché, Romano?” BABBO NATALE ALLA FINE SE NE ANDÒ Il “perché” stava nel fatto che lui era il del Signore, quel corpo che lo rappresentava, e non era stato riconosciuto nemmeno da un Pa-Rio, figlio di Anna e nati il 15 agosto dell’ASCENSIONE di Maria Santissima figlia di Anna. Smise quando dei bimbi che non lo conoscevano per niente, videro il sui il CORPO, il Soma, di Babbo Natale. Poteva dunque svestirsi: l’innocenza dei bimbi li aveva portati a riconoscerlo per quello che indicavano proprio quel giorno i suoi 27.000 giorni di vita. E il 21-12-12 se ne sarebbe andato via con quel corpo, così come aveva profetizzato il profeta Daniele

R-U-BEN vissero a quel punto due dismissioni, come al solito, reciproche. Poiché RU smise di fare Babbo Natale e si tagliò la barba e i capelli che lo avevano reso simile ad uno dei personaggi del mondo antico e riassunse l’aspetto di un uomo dei tempi moderni, e seguitò a occuparsi dei problemi tra la vita e la vita eterna che aveva suscitato il Pietro Giovanni Paolo II... il suo alter Ego (che si mutava nel suo valore opposto), smise egli pure di essere chi avrebbe risolto i problemi della vite reale messi in piedi da un prete – Don Verzè – che oltre al San Raffaele, che si interessava di ospedali, si era lanciato nella vita reale con imprese di tipo economico e che in relazione all’esperienza della vite senza semi, coltivata dalla VDS in Petrolina, in Brasile, non si era preoccupava molto delle indicazioni del Petrus Romanus... a Petrolina... Benito venne via dal Nuovo mondo (dell’America) e rientrò nel vecchio (dell’Europa) per occuparsi finalmente e solo della sua famiglia, proprio nell’anno in cui il fratello fece esattamente l’opposto, e con la sua faccia rientrò nel Nuovo mondo, abbandonato il vecchio dei Profeti e dei Babbo Natale... per seguitare a postare video dell’altro mondo. Infatti – stando a MontesiLVAno – che era la Monte Sion dei suoi 55=LV A i giorni scritti in romano – LV- A. Amodeo, si era accorto che il Profeta Daniele, al quale si era riferito Gesù stesso, in relazione alla pienezza dei tempi, era stato con certezza indirizzato a tutto quello che aveva fatto Hitler contro il Popolo di Dio. Michele, l’angelo, sarebbe sorto in quel tempo e dopo la massima opera contro il popolo (il tentativo di Stermino) Israele sarebbe stata ricostruita. E infatti lo fu, dopo la II Guerra Mondiale. La comunicazione a Daniele fatta dai tre angeli riguardava la seconda risalita in cielo di Gesù, dopo di essere ritornato in incognito con la sua invisibile Parusia sul  di Dio. Il sacrificio quotidiano che avrebbe avuto termine dopo che sarebbe stato alzato l’idolo della desolazione, sarebbe stato proprio quello patito da Gesù sul , poiché sarebbe stato presenti di nuovo, ma nessuno l’avrebbe riconosciuto. Da quel giorno sarebbero partiti i 1290 e i 1335 di cui l’angelo chiaramente aveva parlato. Così, mentre Benito se ne tornò nella sua bella famiglia terrena, il suo fratello si stava occupando dei valori esattamente opposti, del cielo, e che portavano Cristo ad abbandonare nuovamente tutti, su questa terra.


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2012

si sarebbero compiute fra un tempo, tempi e la metà di un tempo, quando sarebbe finito colui che dissipa le forze del popolo santo Cominciò l’anno in cui alcuni nel mondo attendevano con curiosità per vedere che senso avesse il così tanto chiacchiera Termine dl Calendario Maia. RU aveva la sua teoria. I Maya con il loro termine non erano che un altro segno del compimento dei duemila anni della catechesi fatta dal Figlio si Dio.

Quando la temperatura cominciò a permetterlo, RU seguitò a caricare video che aveva registrati al mare. Avendo stretto forti legami anche con la Chiesa Di sant’Antonio, che era la principale di Montesilvano, in cui s’era sviluppato un Movimento Cattolico piuttosto chiassoso e pieno di entusiasmo, RU vi partecipò cercando di far capire che il Cristianesimo, se si ferma tutto a quel livello è incompleto: la gioia serve per poterla portare a quelli che non ‘hanno, non solo per crogiuolarcisi dentro, come una cosa fine a se stesso. Propose allora a Don Rapagnetta di fare egli pure un ciclo di lezioni. “Per carità! – gli rispose il Parroco – se tu sapessi cosa ci combinò il viceparroco!” RU non capiva. “Quella croce, che sta alle spalle di Montesilvano, sul primo colle, ne fu il segno”. E non volle dir altro. Poiché andò allora al giornale IL CENTRO e fece una ricerca, chiedendo quali annate dovesse consultare per conoscere i fatti relativi a quella croce. Così lesse tutta la storia e fu colpito dalla data: era il 28 febbraio del 1988, giorno di San Romano Abate, in cui egli aveva deciso che doveva affrontare il suo calvario. C’era il vice Parroco, di cognome Diodati, che, insieme a una parrocchiana veggente di cognome Fioritti, per un intero anno avevano affermato di avere visioni della Madonna e di Gesù, che in primo luogo chiedevano loro di erigere quella croce, poiché il 18 febbraio ci sarebbe stato un grandioso miracolo in cielo, superiore alle apparizioni di Lourdes e di Fatima. Erano così riusciti a far erigere quella croce e il giorno del presunto miracolo, preceduto da una grande discussione tenuta sulla stampa, da tutta Italia vennero andarono pullman portando ben 20.000 persone a presenziare a quel miracolo. La Chiesa non sapeva cosa dire. L’ebbe nei giorni dopo quando – essendo stato troppo trascendente il miracolo – nessuno aveva potuto vederlo. Ecco, tra gli uomini c’è la convinzione che una opera totalmente trascendente sia visibile. Lo è quando per buona parte essa è reale, ma quando è totalmente divina, allora non appare per nulla.


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RU a questo punto aveva le idee molto chiare: la vita umana è la presenza reale e divina di Dio, come l’anima di ogni uomo. Ma è una presenza talmente divina che l’uomo la vede solo come la propria reale anima. Invece CHI anima l’uomo è chi dà forza all’essere. E’ l’ESSENZA STESSA, dell’essere, posta alla base di ogni essere relativo. Questo miracolo consente l’apparente divenire, ottenuto creando spazio di tempo in una verità che non implica la necessità del tempo per esistere. Ebbene si convinse che era stato portato in modo miracoloso egli pure proprio a Montesilvano, dopo essere stato portato a mettersi in croce nella vicina Pescara, proprio per il legame che esisteva tra il suo decidere di accedere al suo Calvario e quel Miracolo che era atteso, Di fatti era stato già un miracolo che lui – talmente convinto della sua capacità – fosse stato persuaso di essere lui l’utopia della capacità personale. Poi questo miracolo l’aveva persuaso a che desiderasse d’essere il  di Cristo, e infine proprio quell’asino che l’aveva accompagnato a Gerusalemme per essere portato poi al suo Calvario e alla sua croce. Con la presa di coscienza del valore che aveva per lui Montesilvano, si fortificava nell’idea che tutto ciò ormai era imminente, riguardava quello che aveva messo in rete in un video dell’anno prima, circa il 21 dicembre del 2.012, che per lui stranamente era riportato poi al 22, cioè al giorno dopo il 21 del termine dei Maia. Quando giunse giugno, c’era una messa il giorno 28, giusto in mezzo alla due date di nascita di sua madre Anna: il 27, data burocratica, e il 29 quella vera. Egli aveva segnalato che avrebbe cantato in Chiesa e all’uscita si trovò un giovanotto che era andato da Cattolica fino a Montesilvano per incontrarlo e conoscerlo. Da quel giorno Daniele Berti prese il posto dell’ormai da anni eclissato Rocca Mo, Mocciaro. I problemi economici e reali gli avevano impedito tutta quella attenzione che prima dava agli aspetti ideali...

FECE PUR NON VOLENDOLA L’ULTIMA CENA. Intendeva dire che Romano non facesse come il solito, le poche volte che li vedeva: aveva tanta voglia di comunicare le sue cose che i suoi interlocutori dopo un po’ ne avevano le scatole piene, ma non lo dicevano, per buona educazione. E lui, scambiandola per attenzione e interesse, continuava. Benito avrebbe convocato tutti, come lui aveva chiesto, ma lui doveva impegnarsi a dire che andava a Gerusalemme, punto e basta. RU glielo promise. Si ritrovarono apparentemente in 12, ma erano 13 vivi intorno a quel tavolo e proprio come nell’Ultima cena di Gesù Cristo e i suoi dodici. Infatti nel grembo di Paola, la primogenita di Benito, c’era quella che poi si sarebbe chiamata Margherita. C’erano quattro coppie di sposi (Benito e i suoi tre figli), i due figli di Palo, la figlia di Marco e la sorella di Mirella... più la nascitura Margherita. GESÙ RISALÌ IN CIELO PER LA SECONDA VOLTA

RITORNÒ A SARONNO E SI PREPARÒ ALL’ESODO. Sapendo che alla fine dell’anno sarebbe andato di nuovo proprio a Gerusalemme, come il  che già aveva portato Cristo a Gerusalemme, si mise a fare i preparativi, Disse sui suoi video che ormai ne aveva per poco. Propose di dipingere dei quadri a chi li avesse chiesti, in cambio di una cinquantina di euro. Poi si offrì per lasciare ricordi, da Gerusalemme, quando vi sarebbe andato. Aderirono in molti. Il suo amico Daniele si diede molto da fare e quando partì per Israele aveva potuto coprire le spese per un soggiorno di 15 giorni presso le suore Maronite, che avevano anche stanze per i pellegrini, cui fornivano vitto e alloggio a un costo che non era poi così abbordabile dai poveri pellegrini. Prima di andare, RU disse a BEN che voleva fare una cena con tutti i suoi familiari, per salutarli, visto che a suo dire non sarebbe poi tornato. “A condizione solo che non sia L’ULTIMA CENZA” rispose il fratello.

RU partì per Gerusalemme, come il  di Gesù Cristo, andato la a portarvi il Re e fece tutte le vie crucis a Gerusalemme, attendendo il giorno fatale. Il 21 venne e non successe nulla.


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RU però l’aveva detto: sarebbe stato subito dopo il giorno 21. Quella sera si vestì con veste sacerdotale. La aveva comperato apposta e con essa indosso il 19 dicembre fece anche un video di cui eccovi il link https://www.youtube.com/watch?v=_HeYjKQOTCY La indossò e – non sapendo che cosa sarebbe potuto succedergli durante la notte, la indossò e si pose così addobbato sulle coperte, aspettando di vedere che cosa gli riservavano gli eventi. Vegliò a lungo fino a quando si addormentò. Non stava sognando nulla quando all’improvviso vide un quadrato azzurro inteso rimpiccolire accentrandosi verso il punto posto in mezzo, come se si allontanasse fino a sparire in un nero pesto che durò appena un secondo poi lo prese un fremito intenso come se fosse attraversato da una scossa elettrica. La avvertì nello stesso modo con cui prima aveva visto quel quadrato, ridursi come al centro del suo stesso corpo e cessare. Fu un fremito così intenso che no poteva essere un sogno, poiché lo avvertì intensamente nel suo  . A quel punto si aprì una visione che prese il posto del buio: c’era la porta di quella stanza che si apriva ed entrava sua madre, sorridente e senza dir nulla; e intanto oltre il suo letto ne era apparso un altro, inesistente posto alla sua sinistra. Su uno c’era lui, vestito con il suo abito sacerdotale e immobile, morto. Sull’altro c’era Gennaro. Cosa c’entrasse suo cugino in tutto questo l’avrebbe capito solo dopo: per il suo nome, era la Geenna di RO, era la sua discesa agli inferi. E intanto RU si vedeva dall’alto in basso, steso immobile su quel letto e cercava di animare il suo corpo, di muoverlo, ma invano. Passarono lunghi istanti pieni solo dei suoi sforzi per muoversi ed uscire dalla Geenna di Ro, finché cominciò a muoversi in quello che aveva visto muoversi in quel gesto involontario fatto da suo padre paralizzato mentre attendeva la sua morte: le due unghie del pollice e dell’indice si toccavano, come se l’una graffiasse l’altra, poi si mosse la mano, infine tutto il corpo e così si riprese totalmente e rinvenne in se stesso come uno che si fosse destato da un sogno. Ma non era stato un sogno. Quella scossa aveva segnato l’uscita da lui dell’energia del Cristo che era entrata in lui il 4 giugno del 1.940 e che sempre lo aveva animato, assieme a quella del Padre e dello Spirito santo, che invece erano restati nel suo corpo, così come c’erano di già quando ai due si era aggiunta l’energia effettiva del Figlio. Ecco, c’era queste differenza tra le due energie, una di Padre e Spirito santo e l’altra del Figlio. Quella dei due Spiriti creatori costituenti ilo piano divino erano del

tutto simili all’energia posta in pura ampiezza trasversale e totalmente invisibile nella linea perpendicolare al piano, del flusso reale collocato nel tempo e nello spazio. L’altra energia, quella che aveva sentito uscire da lui era energia effettiva, nella linea del flusso reale. Era questa che aveva realmente avvertito allontanarsi dalla sua reale persona di Romano Amodeo. Sì, poiché Romano Amodeo era anche una persona in se stessa uguale a tutte le altre singole persone e tutte singole anime delle infinite che Dio Padre e Spirito santo hanno. L’asino, il  era esistente. Esso non era il Cristo ma il σώμα-Po che lo aveva riportato a Gerusalemme affinché risalisse di nuovo in cielo, dopo la sua attesa parusia sulla terra, sul dorso del suo reale somaro. RU al momento non comprese nulla. Vide solo, avendo osservato subito la sveglia, che erano esattamente le ore 2 del giorno 22 dicembre. Non sapeva che nella Terra dei Maia erano ancora le ore del giorno 21. Pertanto quello che lui stava vendendo il 22 riguardava veramente il Termine che Dio aveva concesso ai Maia, di rappresentare, a segno dei tempi nuovi di un mondo in cui Gesù Cristo aveva avuto la sua vita, era ritornato e aveva concluso i suoi 2.000 anni meno 4, giorni, quelli dipendenti dalla reale presenza dell’Unità e Trinità di Dio, 1+3=4, che avevano occupato quei 4 giorni, nella creazione poi di 7, poiché 4+7=11 portava al ciclo spaziale 10 sommato al valore 1 della presenza unitaria nel decimo del ciclo 10. Essendoci veramente presenza di 4 persone di Dio in 2 anni, il moto totale relativo era solo di 2.000 anni meno 4 giorni. Essendo i duemila anni cominciati ai 12 anni di Gesù, il termine del lavori del Figlio Gesù per suo Padre terminava 4 giorni prima del natale posto nel giorno 25, e che era quello in cui Gesù aveva compiuto i 12 anni posti in principio. RU – non avendo capito – pensava forse che il “dopo” il 21 potesse essere in quel 22 in cui aveva il ritorno in Aereo. Fece tutto il volo quasi chiedendo scusa agli altri viaggiatori se morivano lì con lui. Ma atterrò e non accadde. Temé allora che fosse capitato qualcosa al suo alter ego che era sua moglie, e le telefonò. Lei, appena seppe che era lui gli disse: “Romano, devo darti una brutta notizia: è morto il mio compagno!” Il Signore si era preso chi era subentrato come compagno a sua moglie!. Ma non sapeva che si sarebbe preso anche l’altro suo alter ego, poiché Romano ne aveva due... Ora in tutta questa vicenda c’era proprio di mezzo la profezia di Daniele! Ve la mostro così capite in che cosa. Essa non riguarda la sua prima parte, che solitamente osservano tutti, ma quella che parte dal capitolo 12, essendo così legata al 12 del mese e dell’anno. Daniele 12


377 1 Or in quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Vi sarà un tempo di angoscia, come non c'era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. 2 Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna. 3 I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre. 4 Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro, fino al tempo della fine: allora molti lo scorreranno e la loro conoscenza sarà accresciuta». 5 Io, Daniele, stavo guardando ed ecco altri due che stavano in piedi, uno di qua sulla sponda del fiume, l'altro di là sull'altra sponda. 6 Uno disse all'uomo vestito di lino, che era sulle acque del fiume: «Quando si compiranno queste cose meravigliose?». 7 Udii l'uomo vestito di lino, che era sulle acque del fiume, il quale, alzate la destra e la sinistra al cielo, giurò per colui che vive in eterno che tutte queste cose si sarebbero compiute fra un tempo, tempi e la metà di un tempo, quando sarebbe finito colui che dissipa le forze del popolo santo. 8 Io udii bene, ma non compresi, e dissi: «Mio Signore, quale sarà la fine di queste cose?». 9 Egli mi rispose: «Va', Daniele, queste parole sono nascoste e sigillate fino al tempo della fine. 10 Molti saranno purificati, resi candidi, integri, ma gli empi agiranno empiamente: nessuno degli empi intenderà queste cose, ma i saggi le intenderanno. 11 Ora, dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà eretto l'abominio della desolazione, ci saranno milleduecentonovanta giorni. 12 Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni. 13 Tu, va' pure alla tua fine e riposa: ti alzerai per la tua sorte alla fine dei giorni».

L’angelo Michele è un nome che si riferisce a Gesù, nella sua Parusia. Egli sorgerà dopo il tentativo di Hitler di genocidio del popolo ebraico, che è stato il massimo contro Israele. In seguito ad esso lo Stato di Israele e ricostituito e le memorie dei morti risalgono dal dimenticatoio cadute quando gli Ebrei credenti non abitavano più in Palestina. Nel flusso del tempo, l’angelo bianco annuncia UN TEMPO, TEMPI e LA META’ DI UN TEMPO, a partire da una data precisa, che è quella evidenziate nel testo. Quando sarebbe finito colui che dissipa le forze del popolo santo è quando Gesù ha finito la sua opera, Gesù il dissipatore, avendo aggiunto all’Ebraismo il Cristianesimo, nello stesso insieme delle forse degli stessi credenti. Il sacrificio quotidiano abolito è quello del Gesù su RU che è sacrificato, non essendo mai visto. Cessa quando se ne torna in cielo. L’abominio della desolazione è eretto quando all’abominio del Dio, Dio, perché mi hai abbandonato, detto da Gesù Cristo, si aggiunge quello ancora più desolato, per non essere stato riconosciuto nemmeno la seconda volta e, in questa seconda, proprio da nessuno! Era comprensibile che Ebrei non riconoscessero il GRANDE DIO nel Piccolo di Gesù Cristo, ma dopo che Gesù l’aveva detto chiaro che il VERO GRADE

si mostra realmente NEL PICCOLO, i suoi stessi credenti se lo aspettavano tornato NEL GRANDE e APPARISCENTE. Ecco, il termine del 21 in America, avrebbe visto nel giorno dopo, il 22 a Gerusalemme finito questo tempo e eretto quell’Abominio di Desolazione di un Gesù Cristo che abbandona il corpo di RU senza che mai nessuno dei suoi lo abbia riconosciuti. Il resto della profezia avrebbe riguardato tempi successivi a questi 21 nel nuovo mondo, ossia un: 1.290 = TEMPO come il solo numeratore dato da 1290 giorni. 1.336 = I TEMPI al plurale,sono i 2 dati dal numeratore 1.335 e dal denominatore 1. 2.626 è il totale , la sequenza di due 26=Dio. 1.313 è La META’ DI UN TEMPO dato da 2.626/2 = 1.313. Aggiunti al 21-12-12 portano giusto al 26 luglio 2.016. In esso sarebbe stato IL PADRE ad abbandonare il corpo di RU, mentre 1335 giorni dopo il 21.12, che porta al 17 agosto del 2.016 sarebbe stata la volta dello SPIRITO SANTO ad abbandonare il . Dopo il 17 agosto (che è il terzo giorno dopo l’Ascensione della Madonna) resterà in vita solo il  e Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo avrà il modo di avere anche una vita tutta sua, che sarà di 3.335 giorni esatti e nel segno della trinità reale, nelle quattro cifre di 3333, sommata ai due giorni dati dal Piano avente a lati 1 e 1, il Padre e lo Spirito Santo. Romano infatti aveva saputo dal Padre (che lo aveva fatto sapere al ) che avrebbe tirato le cuoia il 4 ottobre del 2.0025 a 87 anni. Quando il Signore, il giorno 11-3-87 gli rispose “ASPETTA! intese dirgli che 11+3=14 = 10+4, di quando avrebbe avuto 87 anni. Perché voleva miseramente morire a se stesso in quell’infelice modo?


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Non era RU ossia il σώμα-Po chi stava dicendo quelle cose, ma LO SPIRITO di Gesù che come affermato in quella data avrebbe abbandonato il Corpo di Romano. Ora c’era da compiere una ultima cosa, da parte del : doveva essere condannato a morte per la terza volta dal terzo Papa a partire da quando il primo dei tre aveva provocato la DISCESA DELLO SPIRITO SANTO, in un . Infatti, nel licenziamento che Il Signore aveva decretato per giusta causa come nell’articolo 18 della Costituzione italiana, dettandolo a Giovanni nel versetto 18 del capitolo 21 del suo vangelo, era testualmente scritto: 18 In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi».

Un atro che non era nemmeno un Pietro eletto. Semplicemente un altro . Avrebbero in sostituzione di Benedetto XVI nominato un altro e dunque sarebbe stato anche questo altro a condannare a morire di fame un povero cristo, ben sapendo che ogni volta che un povero cristo qualunque è condannato a morte è condannato proprio Gesù Cristo ! L’ULTIMA CONDANNA A MORTE PER LO SPIRITO SANTO. R-U-BEN visse quest’anno nel solito modo di due vite perfettamente contrapposte: Ben viveva serenamente con la sua bella famiglia in questo mondo reale e RU tornò dall’altro, dunque, a Saronno avendo vissuto in lui la fuoriuscita del flusso di energia di Gesù Cristo che sempre era stato in lui e che lo spingeva verso la suorina Maria Teresa Legnani alla quale sentiva di volere molto bene. Nell’Abominio della Desolazione che provò, buona parte di esso stava nel non essere riuscito mai ad avere un colloquio con lei, che era una persona degna, piena di giusto orgoglio, ma che non aveva potuto sentire Cristo in RU nemmeno per incapacità, ma solo poiché il Padre l’aveva voluta come la sua amata Giuda. Il Padre aveva amato Giuda nello stesso modo. L’anima di Giuda era anima pura e incontaminabile di Dio essa pure. Il brutto stava solo nel personaggio che la Storia Sacra della Salvezza totale aveva imposto a quella sua Anima Santa. RU avrebbe parlato a tutti spiegando loro che non si era sbagliato in nulla quando aveva postato il video in cui aveva affermato con grande certezza : “MORIRO’ AL TERMINE DEL 21-12-12 E NON E’ UNA BALLA”

Il 26 marzo del 2.013 RU decise che anche questo “altro” che aveva preso il posto del Benedetto XVI che corrispondeva al GLORIA OLIVAE della Profezia dei Papi di San Malachia, e che era identificato come il PIETRO ROMANO che veniva dopo di lui, ma arbitrariamente, doveva essere coinvolto. La Gloria di Benedetto XVI era stata lo stesso tradimento fatto da Giuda all’Orto degli Ulivi. Per questo nella Profezia era descritto con questa gloria, del Tradimento. Sì, certo, tradimento, poiché investito da Cristo nel segno di un amore accertato per tre volte, secondo il Vangelo di Giovanni al capitolo 21, ora si sentiva fatto papa per la sua capacità a essere chi avrebbe legato in terra cose di cui non si sentiva capace. La sua Chiesa era quella “banda di ladri” che aveva definito nella sua prima enciclica DEUS EST CARITAS, e lui non riconosceva se stesso in grado di prendere la stessa frusta con cui Gesù aveva cacciato i mercanti dal tempio, e si era dimesso. È un vero traditore del mandato ricevuto “per amore” che – proprio sulla base di esso – non agisce secondo il mandato di Gesù Cristo ma della sua umana logica. Anche la logica fu quella che indusse Giuda a prendere Gesù per un confronto che finalmente ci fosse, tra i responsabili della Fede ebraica e il Messia atteso. Gesù non poteva mettersi lì – essendo il Figlio di Dio – a mendicare una udienza a Caifa, e allora Giuda avrebbe approfittato del fatto che erano Caifa e il Sinedrio a volere


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imporre a Gesù quel confronto, per realizzarlo. Lo stesso Gesù gli aveva detto, quando si allontanò dall’Ultima cena: “Quello che devi fare, fallo presto”. La posizione di benedetto XVI era tutta al contrario di quella vissuta da Giuda. Infatti c’era un povero cristo che gli chiedeva insistentemente di essere ricevuto. Non aveva bisogno di pagare a nessuno 30 denari perché Romano Amodeo fosse costretto ad andare davanti a lui e alla Chiesa. Ebbene il tradimento Benedetto XVI non lo stava facendo solo a questo povero cristo che – al contrario di Gesù – non sapeva che farsene di un incontro coi suoi rappresentanti, ma era fatto proprio nei confronti di chi per tre volte gli aveva chiesto puro amore. Lo stesso puro amore che con tre lettere fattegli recapitare da IL CENTRO di Pescara il povero cristo gli chiedeva... ma costui agli occhi del grande Papa non significava nulla. Significava invece moltissimo per lui proprio Gesù Cristo e – pur sapendo su che base amorevole Gesù glielo avesse dato – ora si arrendeva per la pura incapacità che si riconosceva. Era scusabile papa Benedetto XVI. perché infatti il suo tradimento dipendeva proprio dalla sua incapacità a distinguere quale delega avesse ricevuto. Non di governare la Chiesa ma di pascere le sue pecorelle, E se ce ne era una che non riceveva il cibo dal Buon Pastore, e lui non era capace di vedere che era affamato Cristo in quella pecorella, e proprio sulla base del Vangelo..., beh, allora che colpa si poteva assegnare a uno che si sapeva incapace? Dunque Gloria del Tradimento dell’Orto degli Ulivi, quella che spetta a un incapace e che tradisce per incapacità di riconoscere il vero. Sotto di lui RU aveva aggiunto 55 giorni ai 57 patiti nel 1.999. Sommati tra loro, si arrivava al 112 che era proprio corrispondente al duplice tradimento del punto 56 dell’Enciclica Fides et Ratio, poiché 56+56 è uguale a 112. Essendosi aggiunto “un altro” a guidare il Vaticano, costui non era Pietro, poiché Gesù aveva nominato Benedetto XVI e lui era ancora vivo. Questo altro era un “facente parte” che nella profezia di san Malachia era elencato nella riga successiva a quella riguardante il GLORIA OLIVAE, in cui era scritta una riga troppo lunga che era stata evidenziata da un rientro nel testo che – nel caso della profezia di san Malachia – era un foglio stampato e non solo il contenuto riportato in esso. Quella Riga intera scriveva queste parole: IN PSECUTIONE . EXTREMA S.R.E. SEDEBIT . Erano due proposizioni divise tra loro da un bel punto, il quale nella prima delle due praticamente, rispetto a tutto l’elenco precedente, rivelava: DI SEGUITO , ossia ANDANDO AVANTI nell’elenco, ci ritroviamo davanti questo fatto nuovo: S.R.E. EXTREMA SEDEBIT il che profetizza che La Santa Romana Chiesa siederà all’opposizione, si insedierà con un AVVERSARIO di chi legittimamente è il successore, che è elencato nella riga successiva:

PETRUS ROMANUS e questa seconda è una riga unica e lunghissima, dato che il rientro del testo dura fino alla fine della profezia, decretato con un”punto FINIS” punto. Tutta la riga contiene questo testo così come lo vedete direttamente scritto sulla profezia. «In seguito. La Santa Chiesa Romana siederà all’opposizione. Pietro Romano, il quale pascerà il gregge in mezzo a molte tribolazioni: al termine delle quali la Civitas (l’assetto Vaticano) del settimo colle sarà dirupata, &, and – alla fine – il giudice Tre (il Re della croce) e Po (Romano), medus (mediatore di Mediolanum, meridionale) giudicherà “suo”: Paolo . Iudicabit «Paulum» che fu reso minuscolo (paulum) da Pietro e senza il primato dalla “a” (dunque pulum) così come «Esaù» fu ridotto a «esù» (minuscolo e senza a) in G«esù» da Giacobbe che gli rubò il primato. FINIS. Questa è la Fine dei Pietro in elenco: seguiranno i PP, Pietro e Paolo » Ai 120 giorni di digiuno che aveva patito dalla Chiesa posta all’opposizione rispetto a lui Pietro anche in ragione di PTR uguali a Paolo Torquato Romano, dovevano aggiungersi ora i giorni dati dal sostituto del Pietro della Vecchiaia, licenziato da Gesù stesso nel versetto 18 del Vangelo di Giovanni, al capitolo 25. Dovevano proprio in ragione delle tre domande fatte a Pietro. Alle 55 del legittimo se ne dovevano aggiungere tutte quelle di quell’Altro” che agiva in nome e per conto suo, tanto da arrivare al 135 indicante 66+66+1+1, il doppio sacrificio imposto a Romano=66, da 1+1, un papa e il suo vice. Sommati ai precedenti 57 patiti nel 99, 99+135 avrebbe portato a 192 giorni di condanna a morte di una pecorella, in nome e per conto di Gesù. Quando Dio esiste sulla base del centuplo quaggiù e si fa indicare venuto in terra a mons. Centemeri... allora tutta la presenza e tutto l’intero suo spostamento dura 200 giorni. Quando poi Dio esiste nelle due persone di PADRE e SPIRITO SANTO, che sono TRINE, allora il numero trino assunto dalle DUE è dato da DUE elevato a TRE, ed è uguale a OTTO. OTTO, presente in DUECENTO, si muove totalmente di 192.


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FU L’ULTIMO DIGIUNO A OLTRANZA del povero Cristo RU cominciò il suo ultimo digiuno il 26-3-13, nel segno del 13+13=26 riferito come un DUO all’unità dell’anno 2.0013 che è l’anno 13 riferito al millennio numero 2. Il 28 aprile, mentre era a Montesilvano a digiunare, nacque a Paola e a Giovanni Pola il terzo figlio: una bambina cui fu dato il nome di Margherita. RU nemmeno lo seppe. Rimase alla sua Monte Sion dei 55 giorni del suo precedente digiuno fino al giorno 11 di maggio, in cui aveva aggiunto ai 55 altri 47 che portarono il conto a totali 52 trascorsi in Italia, ossia a quante tutte le settimane contenute in un anno. Poi compì il gesto che San Matteo descrisse come la fuga in Egitto. FU LA FUGA IN EGITTO del povero Cristo. Per evitare che quelli che non gradivano ciò che stava facendo e che sembrava fatto contro il Papa, gli mettessero le mani addosso e gli imponessero un altro TSO, fuggì dome mai avrebbero potuto imporglielo. Vi digiunò fino al 13 giugno, in cui seppe che in Egitto la Chiesa cattolica celebrava nel rito dei Copti l’ASCENSIONE di Cristo, dopo i suoi 33 anni vissuti in questa “terra d’Egitto”. Capì che essendo solo un povero Cristo, per lui bastavano questi 33 giorni, contro i suoi 33 anni, e alla loro fine riprese a mangiare. RU questa volta era sicuro che PIETRO si sarebbe mosso. E SI MOSSE. Ma non sarebbe stato PAPA FRANCESCO, nel 2.013, bensì Papa GREGORIO XIII, quando aveva molti secoli prima mutato il Calendario, togliendo 10 giorni. In virtù di questo, il giorno 13 giugno in cui RU cessò il suo digiuno, la chiesa cattolica poi celebrò L’ASCENSIONE di Gesù Cristo poiché – pur essendo Cattolica – era stata abilitata a seguire il calendario Ortodosso in relazione alla Pasqua... e gli Ortodossi non avevano seguito il Papa in relazione alla sua data. RESTÒ POI DA MISSIONARIO IN EGITTO. Si fermo allora ancora in Egitto. Infatti era stato Missionario in America e ora doveva farlo anche in Terra d’Egitto e doveva raddrizzare le idee a quanti leggevano il Sacro Corano. Infatti quella Religione era simile all’ampiezza di un fiume, mentre le altre due erano la lunghezza che veniva dalla Sorgente comune e, dopo il flusso Ebraico proseguiva con quello Cristiano. Pertanto il Corano doveva essere riletto, e da lui.

E RU ci si mise e giunse a questo libro. Ecco come appare si ISSUU.COM a link https://issuu.com/amoramode/docs/conromano Si mossero per aiutarlo con papa Francesco molti del WEB, ma inutilmente: papa Francesco doveva condannarlo a morte e non mosse dunque un dito. Ora voi tutti credete che in certe cose Dio lasci a desiderare... Come può infliggere a papa Francesco una simile punizione? E come mai l’inflisse a suo tempo a Caifa e al Sinedrio? La sola spiegazione che no fa figli e figliastri è questa, dice Amodeo: “Forse un attore è mono amato dal Regista se in una opera teatrale gli è assegnata la parte di un cattivo?” Se volete permettervi di giudicare Dio dovete uscire fuori dal libro. Il Manzoni non è giudicabile cattivo per aver dati a Renzo e Lucia alcune parti, a Don Abbondio un’altra, a Don Rodrigo e all’Innominato altre ancora. Sono PERSONAGGI. Allo stesso modo PAPA FRACESCO è un PERSONAGGIO chiamato a fare la parte del CATTIVO (con Romano) e da BUONO con tanti altri, ma resta allo stesso modo dell’ANIMA di Hitler un’anima di Dio cui fu data solo una parte ingrata e difficile. Non permettetevi di giudicare le ANIME dai personaggi cui furono costrette da Dio, In cielo LADRI E PROSTITUTE verranno prima di tanti... BUONI. Quando RU terminò la sua opera, andò da un sacerdote della chiesa cristiana a confessarsi e confessò che avrebbe messo sul WEB quel libro. Il sacerdote gli disse di non farlo. Ma ancora una volta RU fu superbo e gli disse che quello era il suo compito di missionario Cristiano. Allora il sacerdote gli chiese di fargli però un favore, da quel momento in poi: di non andare più in quella chiesa poiché per ammazzare lui avrebbero coinvolto qualcuno che non aveva nessuna intenzione di prendere parte alla sua missione. RU cambiò chiesa e – per scrupolo – riferì alche al sacerdote della nuova se anche lui aveva paura a ce5rcare di far vincere Gesù Cristo. Nella Chiesa di San Francesco, al Cairo, non avevano questa paura e RU restò lì, contento di poter ricevere i sacramenti anche in Terra d’Egitto. Non ebbe timore di parlare cogli Islamici, e Dio lo favorì, poiché era da poco che i FRATELLI MUSULMANI avevano perso il Governo dell’Egitto e pensavano a come riconquistarlo andando contro ad AL SISI. Così lasciarono da parte le questioni di fede e RU fece tutto quello che poté fino alla fine dell’anno.


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Un segno che impressionò RU e lo convinse a tornare in Italia fu l’ammanco improvviso della luce durante la sua messa domenicale, che allora divenne l’ultima. Si affrettò a tornare in Italia. Andò a trovare suo fratello ed ebbe con lui una discussione di fisica. Suo fratello lo seguì, pazientemente; non lo seguì più quando RU cominciò a parlargli della validità della cabala. Il nostro cervello veramente ragionava per numeri come un computer e per passare dai numeri ai concetti si avvaleva delle parole che altro non erano che numeri che consentivano l’estrapolazione di dati essenziali. Gli disse che poteva facilmente verificarlo osservando i nomi stessi dati ai numeri. Non ne volle sapere, e poiché RU insisteva lo vide per la prima volta proprio spazientirsi. Andato solo di passaggio a Saronno, a prendere un computer RU, senza nemmeno riaprire la casa che era stata restata così a lungo abbandonata, decise di andare a Salerno, poiché con i calcolatori che aveva preso in Egitto proprio non si raccapezzava. Conosceva in quella città un negozio in cui ne avevano a prezzi molto bassi, e si sarebbe servito lì, facendoli ripartire da zero. Per anni Nicola Morra, dopo la crisi per la morte del padre, cercò di correre ai ripari, invitando più e più volte RU ad andare un po’ da lui. La risposta che riceveva sempre era che gli aveva garantito di non trascorre più neanche una notte da lui a Salerno, e – se ne ricordava? – aveva detto che sarebbe morto suo fratello quando l’avesse fatto... Perciò vi andò solo di giorno ma come al solito si sbagliò.


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Per non trascorrere la notte dal cugino RU prenotò un alloggio in un ostello in cui si davano letti, in camere grandi e condivise. In quel modo il costo era ridotto a 10 euro al giorno e lui non metteva a rischio Benito, per ciò che aveva detto a Nicola per rassicurarlo che non aveva alcuna intenzione a morire da lui. Andò nel negozio di computer e acquistò il modello giusto secondo le sue esigenze, poi si recò in semplice visita giornaliera dai cugini e si fermò a pranzo. Gironzolò un poco e si fece scatti fotografici che poi avrebbe usato nei suoi video su YouTube. Prese anche il vaporetto e se ne andò da turista ad Amalfi. Stavolta voleva proprio essere un non residente a Salerno. Tornò a sera al suo ostello. – non aveva portato con sé il telefonino, non lo faceva mai, essendogli divenuto sommamente antipatico l’essere reperibile a tutte le ore e ovunque – e seppe di essere stato chiamato dal suo nipote Marco. Lo richiamò e fu gelato: “E’ morto papà, all’improvviso” BENITO AMODEO VA IN CIELO. Quello che ignorava RU era che andando a Gerusalemme, come il SomàRo che vi portava il Cristo a risalire in cielo, metteva in atto nuovamente c’ù ch’era accaduto quando, il 4 giugno 1940, era morto e risorto e quella sera era stato concepito Benito.

Non si sarebbe visto subito, il suo sostanziale gemello, se non dopo la doverosa gestazione nel grembo di sua madre. Allo stesso modo, quando Gesù abbandonò il corpo di RU, alle ore 2 del 22 dicembre del 2.012, iniziò la seconda gestazione corporea di Benito, e questa volta per andare in cielo. Come la prima volta, l’effetto sia della reale nascita in terra, sia di quella in cielo, sarebbe stata rispettosa dei giusti tempi della gestazione. Benito – nel grembo materno – era insieme a Gesù, per cui la prima gestazione reale fu duplice. Durò dal 4 giugno del 40 fino al 17 febbraio del 1941, implicando 258 che in sostanza – tra quella sua e quella di Gesù – erano il doppio. Erano 516 giorni, che apparvero dimezzati per la ragione che Benito rappresentava realmente Gesù, e dunque era realmente un Duo, Dopo l’ascensione di Cristo, prevista dal profeta Daniele quando sarebbe tornato Michele, sarebbe iniziata la gestazione celeste. Questa volta l’avrebbe mostrata Benito tutta quanta in sé, come la sua seguita dall’altra di Gesù. Solo che Gesù non era tutto e solo su di lui, su Benito, poiché era per 1/3 anche su RU. Poiché RU valeva 66, la quota parte dei 2/3 di 66 era di 44 giorni. Pertanto Gesù nella sua ascensione in cielo, non sarebbe rimasto 258 sulla terra, ma quanto 258 meno 44 giorni ossia 214. E la gestazione in terra, per la nascita in cielo di Benito avrebbe replicato i suoi 258, sommati ai solo 214 di Gesù. Facendo i conti, 258+214=472 sarebbero stati i giorni di gestazione celeste fatti da Benito in terra, dopo quel 21-12-12 del Calendario Maya. Valutando per conto suo il tempo di 214 giorni di gestazione celeste aggiunta a quella reale che ebbe Benito nascendo (258 giorni), essi realizzavano il reale rispetto di tutta la realtà divina Una e Trina, (4) del ciclo 10 di Dio Padre, riferito proprio al loro padre, Luigi Amodeo, nato 7+7+7, e dunque valido quanto 21 decine. Avrebbe tenuto conto anche della presenza totale 100 di PTR Romano che valeva 114 in contenuto in Gematria, dato da PTR=48 sommato a 66=Romano. L’intera vita di Benito fu di 26.712 giorni che, se sono riferiti alle quattro dimensioni del Dio Uno e Trino, ciascuna è di 6678, in cui 66 è il primo nome di Romano e 78 il secondo, dato da Antonio.


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Benito rispettò in pieno sia gli estremi natali del Padre, nato 7-7-7, essendo nato in cielo il giorno 7, sia il valore della nascita in cielo di sua madre Anna Baratta, nata in cielo il suo stesso 7 aprile di 7+7 anni prima di lui, nel 2.000. Nei suoi 26.712 dì esistiti, ove la trinità di Dio si riconosce dal 10×10×10 e dal numero 26 del termine sia DIO sia IHVH (Jahvè), vale quanto il 26.000. Il 712 aggiunto è tutto il percorso del 288 nella trinità del 1.000, e questo 288 è il duo dato da 144+144 che in valore gematrico è il valore dei primi due nomi del fratello, Romano Antonio, 66+78. Come esattamente vedete nel riquadro, l’intero periodo dei 26.712 giorni è uguale proprio all’Unità e Trinità del 66=Romano, quando da 1° vale 100 nell’area 10×10, e del 78=Antonio, il 2° nome a dimensione unitaria. Ora le cose sorprendenti arrivano appena si va a consultare la Bibbia e si apprende che il Diluvio Universale accadde «ai 600 anni di Noè, il secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quel giorni si aprirono le sorgenti dell’abisso e le cateratte del cielo». Romano era il 1° e Benito il 2°, essendo un tutt’uno in RUBEN. Se s’osserva il ciclo 10 del 1° in 10 minuti primi, essi sono 600 secondi. La vita di Benito, il 2°, con il tempo terrestre della Natura ha assecondato il ciclo 10 del 1°. Le sorprese ancora più grandi arrivano quando ci si mette a valutare i nomi dei due fratelli nei loro contenuti numerici: 381 è Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo, il 1° e 426 = Benito Vittorio Anna Giovanni Vincenzo Amodeo il 2° 807 è ò loro somma. In Bibbia 807 anni sono tutti quelli in cui il 2° Fattore (dopo il 1° posto in Adamo), denominato SET, ebbe Figli e Figlie, ossia produsse tutti i suoi effetti. Se si divide il valore numerico del primo per il secondo si ottiene 0,8943661971830, il suo valore reciproco è 1,118110236220, laddove, essendo 1,25 l’area unitaria dello spazio-tempo dato dalla somma del quadrato di 1 al quadrato di ½, il suo lato è 1,1180330887... e la differenza sta solo in un millesimo. 600+2+17=619 è il valore che, sommato 381 porta esattamente a 1.000. Pertanto la fine del mondo ai 600 giorni di Noè al mese secondo e nel giorno 17 sono i valori esattamente complementari a 10 al cubo, partendo dal valore 381 di tutto il nome di Romano. L’ASCESA DI BENITO FU SECONDO LA PROFEZIA DI DANIELE Gia essa metteva quel giorno in cui terminò la sofferenza del Gesù sul SomàRo di non vedersi riconosciuto né dal Centemeri né da altri, alla base di eventi che sarebbero accaduti nel futuro. La profezia aveva descritto infatti di un TEMPO, poi di TEMPI. Questi 472 giorni relativi al tempo relativo all’ASCESA IN CIELO di Benito non furono

espressamente dichiarati, ma erano compresi nel TEMPO. Che cosa significa infatti 472 in ordine al TEMPO TERRESTRE? 472 -365 = 107 indica che esiste in principio il numero primo 7, che è Uno e Trino un 7+21=28, il quale, nel 28° numero primo è 107. Pertanto quando un Anno esiste secondo questo principio, arriva ai 472 giorni come un TEMPO di assoluta priorità, che si riscontra anche dai 1.000/2 meno 28. Anche in questo altro modo, esiste 7+(7+7+7) e sono il Figlio Benito asceso il 7, sia il Padre suo nato 7-7-7. Quanto le 28 lettere del 1° versetto di Bibbia, la mediazione del 1.000 più la Trinità del Dio che si lascia dare dal 10 e dal 26 a sua immagine e somiglianza. Trascorso questo TEMPO in cui ascese in cielo Benito, ora si doveva attendere solo che passassero i TEMPI descritti dalla Profezia di Daniele per vedere che cosa sarebbe successo il 26 luglio del 2.016 e il 17 agosto. In relazione a questi TEMPI, nella profezia l’Angelo bianco in mezzo al fiume, in Daniele 12 disse: Ora, dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà eretto l'abominio della desolazione, ci saranno milleduecentonovanta giorni. Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni. La somma, di 1290+1335=2.625/1 sono in tutto (numeratore e denominatore) 2626, l’ordine duplice del DIO=26 in gematria. Riguardano proprio il PADRE di Benito e Romano, LUIGI AMODEO =101, nella somma di 54=LUIGI e 47=AMODEO. DIO=26 ×101 (IL DIO- PADRE) dà 2.626. Scatta qui LA META’ DI UN TEMPO, detta prima ancora da Daniele, e la metà di 2.626 è il 1.313 che, come giorni posto dopo il 21.12-12 portano al 26 luglio 2.016. Come vi mostra il Computer. Il 26 luglio del 2.016, a META’ DI UN TEMPO (dei TEMPI di 2.626 giorni) RU attendeva l’uscita di scena del PADRE, che se ne sarebbe andato su in Cielo abbandonando lui come quel SomàRo suo che era sempre stato. Al funerale RU disse nel suo elogio funebre: “Benito, sei nato secondo a me, ma poi hai finito per essere tu il  primogenito!” Per il 26 luglio il SomàRo si aspettava una decapitazione personale del PADRE, ossia che il avrebbe perso tutto quello che aveva in testa o per la testa di portata soprannaturale.


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Ma c’era ancora tempo. RU fu attivo con YouTube e nella scrittura di opera inserite su Issuu.com. Il 23 settembre del 2.014 compì’ esattamente 28.000 giorni. Questo era il video che quel giorno RU mise in onda sul suo canale YouTube, in cui spiegò come la vera vita non fosse quella che abbiamo davanti agli occhi ora, ma quest’altra. Eccovi il link di questo video. https://www.youtube.com/watch?v= U0j24nqttnY Giorno di eventi importanti il 23 settembre, così stralciati da Wikipedia, l’Enciclopedia in linea Eventi]  480 a.C. (solo secondo fonti limitate) Battaglia navale di Salamina, vinta dai greci, durante le Guerre persiane  63 a.C - Nasce a Roma Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (in latino: Gaius Iulius Caesar Octavianus Augustus; nelle epigrafi: C•IVLIVS•C•F•CAESAR•IIIVIR•RPC), passerà alla storia come Ottaviano o Augusto, primo imperatore romano dal 27 a.C. al 14 d.C.  1968 - Muore Padre Pio da Pietralcina, frate cappuccino e presbitero italiano. Feste e ricorrenze] ] Cristianesimo:  San Pio da Pietrelcina, presbitero e frate cappuccino  Santi Andrea, Giovanni, Pietro e Antonio, martiri  Sant'Elisabetta, madre di Giovanni Battista  Santa Rebecca, moglie di Isacco  San Zaccaria, padre di Giovanni Battista  Religione romana antica e moderna:  Apollo al Teatro di Marcello  Marte  Nettuno in Campo Marzio  Natale del divo Augusto

2015

Fu un anno nel quale RU si calò a corpo morto nello scrivere libri e nel preparare i suoi quotidiano interventi su YouTube. Una vita che solo movimentò cercando di sistemare meglio la sua piccola casa. Venne da lui Daniele da Cattolica e insieme comperarono una stufa a pallet che fu montata e grazie al vicino si scoprì che la canna nel muro, per il tiraggio della stufa era ancora integra. Così si calanono al suo interno i tubi a ventilazione forzata per l’esalazione della stufa. RU studiò un sistema di tubi di ferro che mise tutti attorno al tubo verticale, tanto da creare un diffusore del calore. L’immagine che vedete col pizzetto su solo l’episodio di un mese, in cui si lasciò crescere la barba più per la pigrizia di tagliarsela che altro. Le giornate furono cadenzate da un ritmo sempre uguale, dall’igiene personale presso il bar di Ragusa, con la lettura del giornale che ricevevano lì, poi la mattina destinata interamente a preparare i video. Poi il pranzo, se non una pizza. Il pizzaiolo fece un accordo, con il suo cliente così assido: pizza con birra sempre a 5 euro vita natural durante. Poi c’era per due settimane a sera la partecipazione alle prove nelle due cantorie, del quartiere e della Chiesa Prepositurale. Una novità era intervenuta nella Chiesa di Saronno. Avevano deciso di creare, e – guarda caso, proprio nel giorno 29 giugno della nascita di Anna baratta, la madre di RU – una unica comunità cittadina intitolata al Cristo Risorto. Tutto ciò in perfetta coerenza con il credo di RU, che aveva sempre più certezze sul fatto che la Parusia di Gesù c’era stata in lui, ma che poi aveva dovuto spinto dal


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destino spostarsi proprio a Saronno, in cui c’era il Santuario che sembrava fatto da lui, essendo il suo progettista l’Architetto Amadeo ed essendo perfino il suo marchio tale da sembrare proprio il suo, di Romano Amodeo.

Un Giorno, dopo tanto tempo che non la sentiva, volle telefonare a Maria Grazia Arpino, per sapere come stava. Glielo chiese brevemente come se la sua domanda avesse una risposta scontata, poi partì lancia in resta a raccontarle le sue cose. Fu una telefonata che lo lascò disorientato. Alla sua amica, alla sua cara Fiordaliso era rimasta addosso tanta tristezza che quasi era a disagio messa di fronte alla solita verve di lui. Quando qualche mese dopo la richiamò, al suo telefono gli risposero che Maria Grazia Arpino era ormai morta. Ne ebbe un grandissimo dolore. Ogni tanto – andando a rimescolare tra le sue cose, faceva capolino il viso di lei davanti a tante cose buone da mangiare. Quanti se ne erano andati! Luigi Luccini, l’amico che tanta parte prese nella vita di RU, dopo il suo fallimento sparì. Anche tra i suoi parenti, ad uno ad uno se ne erano andati tutti quelli della generazione che lo avevano preceduto... Sta di fatto che oramai aveva 77 anni Il 21 dicembre il suo amico lo invitò a unirsi per celebrare il Natale con il gruppo del Rinnovamento Cattolico della Regina Pacis di Saronno. Dopo 18 anni che stava a Saronno, fu la sola volta che da parte di qualche gruppo cattolico fosse invitato a condividere momenti particolari, escludendo solo le occasioni dategli dai tanti Cori parrocchiali in cui aveva cantato e ancora frequentava. Se non fosse stato per i parenti di Barbara che lo invitavano sempre a unirsi a loro nelle festività di Natale e di Pasqua, Romano Amodeo sarebbe passato per Saronno come un invisibile. Il solo amico che era assiduo nel tenere i contatti con lui era Daniele Berti, di Cattolica.

2016

RU viveva nell’attesa che trascorressero i giorni che erano stati predetti dalla profezia di Daniele, come quelli della META’ DI UN TEMPO, che riportavano al 26 luglio e quello dei TEMPI che riportava al 17 di agosto. Dall’inizio dell0anno aveva cominciato a farsi aiutare a tenere a posto la sua piccola abitazione Giovanna Testa, che faceva quel lavoro a ore, dovunque le capitava, ed era sempre in cerca. L’aveva conosciuta tempo prima alla fermata dell’autobus, e veniva una volta alla settimana, al prezzo da lei richiesto, di 8 euro l’ora. Era madre di un ragazzo con qualche problema e aveva bisogno di aiuti. RU era ricorso un paio di volte, dandole del denaro in conto lavoro che avrebbe poi fatto in futuro. Le aveva anche parlato a lungo delle sue posizioni e delle sue convinzioni di quale ruolo la Provvidenza gli avesse assegnato Era raro che simili confidenze portassero a qualche cosa di buono. Di fronte alla sincerità su se stesso esercitata da lui, gli altri non lo dicevano ma si facevano sempre idee che erano l’opposti di quanto RU dicesse. Venne il 26 luglio e la Testa aveva bisogno di aiuto finanziario. Non lo chiese, ma disse semplicemente di essere in difficoltà, prevedendo come avrebbe reagito lui. Infatti aveva pensato bene e RU le disse che non poteva aiutarla avendo il telefonino che non gli dava il saldo di quanto lui avesse di disponibile. Per dimostrarle che era vero, fece davanti a lei di nuovo la chiamata per conoscere il suo saldo e non ricevé risposta.


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COME IL PADRE IN ROMANO, IL 26-7 PERSE LA TESTA. Allora però ebbe una idea: poteva andare con il bancomat alla vicina banca e provare a prelevare del denaro. Così fece lasciando il telefonino sul tavolo. Riuscì a prelevare una certa somma, 150 euro, e con quella tornò a casa, dalla Testa. Non si era accorto, ma intanto che era uscito, il telefonino in ritardo aveva dato il saldo, e la signora aveva letto l’importo, ed era superiore alle quantità che lui le prestava. Le accettò, e improvvisamente ebbe fretta di tornare a casa sua per le questioni urgenti che aveva. RU poco dopo, ebbe bisogno di contante e cercò di prendere dalla tasca di una sua giacca 40 euro che sapeva c’erano e che gli servivano e non li trovò. La Testa aveva preso anche quelli. Le telefonò, rimproverandola e dandole il ben servito... ricevuto da lui. Ecco la Testa che RU aveva perso in quel giorno fatidico, in cui proprio si aspettava la perdita di una testa, la sua, in quella data e per la profezia di Daniele. Sta di fatto che si seppe poi di un grave fatto di sangue accaduto in Francia a un Padre cristiano. Sull’altare padre Hamel era stato sgozzato e decapitato da un giovane sequestratore, che era entrato in chiesa e aveva catturato il sacerdote con alcune suore. Così mise in rete questo video, di cui vi mostro la copertina. Il Padre rappresentava il PADRE NOSTRO che era sul  e se ne andava, andandosene anche con la TESTA che aveva perso, volontariamente, avendola proprio mandata via lui stesso. Il nome del Padre rimandava chiaramente a quello che era su di lui, poiché HAMEL si poteva liberare del suo zip paggio e divenire un HA AM ME EL , uno che ha Il Dio I AM (io Sono, per il mondo) che è su AM (Amodeo) sul suo ME, sul suo io, che poi era EL, Dio, Elohim. Restava ora solo da vedere l’altro termine, che veniva 22 giorni dopo questo, come quei 22 di gestazione materna che aveva visto raddoppiati in suo fratello Benito. In lui la sua gestazione divina era stata meno del doppio di quella che c’era stata in Anna, quando aveva avuto nel grembo da gestire Benito e Gesù. Questa doppia gestazione reale superava di 44 giorni quella del tempo reale che era intercorso tra l’uscita di Gesù da RU il 21-12-12 e il 7 aprile del 2.014 in cui Benito era realmente morto. Se anche la gestazione in cielo di BEN fosse stata doppia, sarebbe morto 44 giorni più tardi. Non era accaduto poiché questo limite estremo era stato anticipato di 44 giorni, valendo Benito il duo dato da lui e Gesù.

COME LO SPIRITO SANTO LASCIÒ ROMANO IL 17-8 Ecco il 26 della ASCENSIONE del Padre celeste, era stato essa pure 22 giorni prima del termine ultimo del 17 agosto. Quali conferme ebbe RU, il 17 che era l’ASCENSIONE in quel giorno dello SPIRITO SANTO? Stavolta c’era l’ASCENSIONE di Maria santissima, la sua sposa, 3 giorni prima, e, visto che si trattava sempre del Padre relativo a RU, il 15 agosto era anche la nascita di Mario Scaglioni, il secondo padre acquisito sposando Giancarla Scaglioni, sua figlia. Ci furono poi manifestazioni improvvise di terremoti. RU da quel 17 agosto fu il  che aveva portato Dio fino a quel giorno e poi più. Glie restavano altri 3333+1+1 giorni di vita come tutti, senza più quell’impegnativo carico da portare. BARBARA (SPIRITO SANTO PER ROMANO) EBBE UN TUMORE Barbara Baratta, nata il suo stesso 25 gennaio, cominciò a sentirsi male. Sarebbe stata necessaria per lei la chemioterapia; si preparasse. Qui è di fianco alla sua figlia più piccola, quasi laureata in Medicina. Ecco l’altro segno reale dello Spirito Santo che mi aveva abbandonato e che nella cugina di RU, suo braccio destro, che l’aveva portato a Saronno in casa sua iniziò la sua gestazione per il Paradiso. ROMANO SI TRASFERÌ A LAMPEDUSA RU cercò allora di intervenire nel sociale. Poteva andare a Lampedusa a dare una mano per l’accoglienza dei profughi. Si accordò al buio, ma era un appartamento angusto e senza vista, che non manteneva le promesse verbali con il prorietario conosciuto su Internet. Non ne fu molto soddisfatto.


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2017

A parte il gestore e la sua famiglia familiarizzo a Lampedusa solo con il gatti. Affamati postulanti, in quel residence che era frequentato d’estate, mentre nei mesi invernali non c’era nessuno che gli desse da mangiare e facevano la fame. Sperava di essere apprezzato da coloro che gestivano l’accoglienza ai migranti, ma quello si dimostro un contesto impossibile da raggiungere. Occorrevano tanti permessi che RU pensò di scavalcare la cosa attraverso la Chiesa, che offriva indumenti e coloro che andavano a cercarli.

Va detto che il luogo in cui essi erano raccolti era lontano dalla città circa 4 chilometri e dunque non era molto comodo per chi vi era custodito, spostarsi e percorrere tutta quella distanza per venire in città,


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RU tornò a Saronno, in cui oramai abitava male. Non riusciva più a vivere senza un servizio igienico in casa e con la necessità di andare al mattino presto al Bar Ragusa per le sue necessità igieniche. Si mise a cercare alternative. RIAPPARE MARIA TERESA MAZZOLA, ZILLA Quando RU cercava alternative, spesso Dio gli apriva sempre nuovi orizzonti. Così un giorno ricevette una lettera tramite FaceBook Rispose subito questo, il 26 settembre 2.017.

RU si dedicò allora ai suoi soliti lavori che riguardavano i servizi quotidiani da pubblicare di YouTube, e scrisse anche un libro che concluse interamente sull’isola. C’E’RO UNA VOLTA. https://issuu.com/amoramode/docs/c__ro_una_volta Fece moltissime passeggiate, in quell’isola piena di sole e di vento. Mangiò molto pesce, che comperava dai pescatori che uscivano, quando il mare lo permetteva. Gli sarebbe piaciuto vivere lì e cercò un affitto annuale a prezzi tali da poterseli permettere. Ma non ne trovava. La gente preferiva affittare per la stagione. Erano persone che avevano spesso anche una seconda casa, nei campi e – quando arrivava il momento di affittare le loro case a peso d’oro, andavano a vivere in campagna, e vi restavano fino a settembre. Uno dei luoghi in cui RU si recò poi spesso fu il santuario della Madonna. Il 27-3 morì a Milano il suo grande amico Alberto Scarzella. A fine maggio terminò la residenza a Lampedusa. In questa isola in cui soggiornò 5 mesi, e in cui era andato per i motivi sociali di aiutare l’accoglienza di coloro che arrivavano sui barchini, non riuscì a fare proprio nulla di tutto questo. Pubblicò 157 video e preparò e concluse il libro

Come potete vedere benissimo, posti 29999 giorni come tutto il percorso di UNO come RU in 30.000 giorni, si ritrovò davanti la presenza di 900 giorni posti in principio come tutto il movimento possibile in se stesso, all’interno di tutto quel movimento. E in effetti accadde che per l’ennesima volta si aprì per RU la possibilità di tradurre in un vero e proprio atto nuziale quella storia complicata, irregolare. Storia nata male, che il capitolo 4 del primo libro della Bibbia attribuì a Lamech tramite una delle Marie Terese, una carnale, e l’altra celeste, che erano state chiamate Ada (la celeste giustamente tratta da Adamo) e la carnale, chiamata Zilla poiché si riconduceva alla Mazzola. Quando le due Ma.Te.sa Le M (Legnani Mazzola) come Maria Teresa, si erano presentate a lui, una era destinata al legame carnale in questo mondo reale, ma irregolare, fuori dal matrimonio Cattolico, ed era la Matzilla, la Mazzola. L’altra era totalmente destinata alle nozze celesti, che su questa terra già l’avevano vista sposa di Gesù Cristo. Ebbene proprio nel momento del massimo possibile movimento, poiché il 29 periodico nel 9, riguarda il decimo numero primo, quindi il ciclo assoluto, proprio allora la Matzilla si mette ad avere nostalgia e cerca Romano!


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RU l’andò a trovare e – in una situazione come quella in cui era, tornato da Lampedusa e in cerca di casa – si lasciò tentare per l’ennesima volta da Zilla. Aveva i suoi soliti problemi, ma ora più nessuno a ronzarle in giro. La storia con l’avvocato era finita da tempo. dapprima lui si era anche trasferito vicino a lei, ma poi si erano stancati, tutti e due e lui se ne era tornato nella sua vecchia casa nella zona di Porta Romana. Maria Teresa avena un problema con uno degli appartamenti di proprietà sua e del fratello, che aveva in quello stesso palazzo di Via Tunisia, a Milano. Era stato liberato da una ditta che l’aveva affittato ed era finita in difficoltà, e per diverso tempo non aveva più pagato l’affitto, per cui volevano vedere ora cosa farne, se affittarla di nuovo dopo averla ristrutturata, oppure venderlo. Il valore commerciale era non tanto lontano da un milione di euro. RU ne parlò anche con il fratello e promise di contattare i suoi amici, per far fare dei preventivi della ristrutturazione. Iniziò anche una ricerca di mercato per stabilire con esattezza gli importi, Chiese all’impresario suo amico Macchiarulo di fare un sopralluogo e un preventivo. Intanto lui e lei ricominciavano a fare amicizia. No, niente sesso, solo qualche tenerezza qua e la, un bacio all’arrivo e alla partenza e tanti, tanti ricordi che emergevano. Andarono in giro, parteciparono a un evento di piccolo teatro, di una compagnia in cui lei ogni tanto si faceva viva, faceva ginnastica e si era messa anche a cantare poiché non era più la ragazza totalmente sana e vispa di un tempo. Aveva avuto un grave infortunio; l’avevano investita con un’automobile e se l’era cavata per il cosiddetto rotto della cuffia. Camminava a fatica, lentamente, e dimostrava molti più dei 10 anni in meno che lei aveva di lui. RU stava cercando anche un lavoro, e quello – reale – per i due fratelli, era anche una occasione. Inoltre lei aveva molto dipinto e poteva essere interessata a fargli preparare tutta una serie di libri promozionali. Insomma frequentarla, poteva essere anche un affare, sotto il profilo terra-terra di un lavoro fatto tra amici, ad una età ormai in cui non ci si può mettere certo a fare fatture o altre cose burocratiche. Quando però si arrivò al cosiddetto dunque, ecco che arriva nuovamente il destino a intromettersi pesantemente, per impedire a RU l’allontanamento definitivo da Saronno. La sua storia autentica non è a Milano con la Zilla, ma riguarda quella legata all’aspetto divinamente sospeso con l’altra Matusalemme, la celeste, storia che si realizzerà solo nell’altra vita ma che comunque in questa avrebbe dovuto avere tutta. Tutta quanta la sua fase negativa. Cos’, in un giorno in cui i due fratelli litigano e a RU tocca di farli ragionare, dimostrando loro che non si erano capiti e in un certo senso gli fa risparmiare centinaia di migliaia di euro, ecco che chiede a Zilla di metterci lei i soldi per i viaggi quotidiani

da Saronno a Milano con il treno e gli autobus, anticipandogli 300 euro per il mese di ottobre. Maria Teresa accetta. Sennonché quando deve firmare l’assegno si mette a dire che la sua assistente che nel frattempo le fa anche da domestica e vigila sul rispetto delle indicazioni del consulente finanziario, le ha detto che lei non può dargli l’assegno di 300 euro dopo che lui le aveva fatto risparmiare duemila volte di più in quello stesso giorno. Così RU si alzò e disse: “Vado via”. La lasciò lì senza dir altro. Poi si negò alle chiamate che lei gli fece i giorni dopo e tagliò corto. Con Maria Teresa Mazzola finiva sempre allo stesso modo: lei non era capace di decidere niente con la sua testa e – rispetto agli impegni presi con lui – aveva ancora una volta anteposti gli impegni presi con la domestica, che faceva da guardia all’amministratrice dei beni di Maria Teresa. Invano RU aveva cercato di farle ragionare la testa: “Hai gli anni che hai e qualcosa come circa 4 o 5 milioni di euro. Non hai figli o altri ai quali lasciarli. E allora non fare da serva ai tuoi capitali. Siine tu la padrona, E se hai un consulente che cerca di conservare il patrimonio, chiediti per chi o per che cosa tu debba conservare un patrimonio per altri anziché per vivere come la donna ricca che sei, se non vuoi anche fare beneficenza. Se metti il tuo danaro in modo tale da consumartelo tutto nei 30 anni di vita ancora che io ti auguro, tu sei in condizione di spendere mille euro al giorno, per care quello che vuoi; realizzare mostre, fare viaggi...” Questi ragionamenti non facevano una grinza, solo che Maria Teresa ormai non c’era più con la testa e non si fidava di se stessa. Si metteva nelle mani altrui e sceglieva sempre quelle sbagliate. La sola che l’accudiva bene era la sua domestica. Era stata anche lei che l’aveva spinta a cercare RU. RU RINUNCIÒ A METTER SU QUELLA CASA CON MTSLMè, MA ORA NON RIUSCIVA PIÙ A CONTENTARSI DELLA SUA. L’occasione che il Signore aveva dato al suo  abbandonato definitivamente il 17 agosto 2.016 di una vita comoda, in una bella casa, sposato con Zilla, aveva mostrato tutta l’indulgenza divina in chi aveva tirato la carretta per Dio per tutta la vita. Non era una cosa buona in assoluto, e infatti in Bibbia era stata accreditata alla discendenza dall’assassino Caino e non dal Set conforma al piano di Dio. Male e bene – comunque sia – compartecipano sempre e senza l’uno non vi sarebbe l’altro. In questo caso però RU aveva trovato facile la sua decisione di lasciare Zilla nel suo brodo. Lei non era più quella donna AR-Zilla che aveva conosciuto più di


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30 anni prima, e che mostrava allora i dieci anni di maggior gioventù che aveva rispetto a lui di 48 anni. Infatti intorno al 2.010 era stata investita da un automobile e solo dopo una lunga cura aveva potuto cominciare a camminare a fatica. Quando aveva incontrato di nuovo RU sembrava lei ora ad avere dieci anni più di lui, e il matrimonio con lei che avesse fatto RU, avrebbe messo sulle sue spalle anche il supporto di lei. Dunque Romano aveva colto anche al balzo quell’occasione che lei gli aveva dato, per ritornare tempestivamente sulle sue decisioni. Questa cosa non andava molto bene al Signore, e proprio per la cattiva volontà che aveva manifestato di farsi carico ora di quel bel peso. Così il Signore permise al Maligno, che già aveva guidato RU nella sua scelta di troncare, di infierire tranquillamente su RU, e non lo avrebbe ostacolato. Quel Romano lì era un degno rappresentante di quelli usciti da Caino. E si comportava infatti esattamente come aveva ben avvertito Zilla: “Ho ucciso un giovane per una scalfittura e un bimbo per un livido. Settantesette volta tanto a chi fa un torto a Lamech!”. E Zilla gli aveva negato 300 euro il giorno stesso in cui lui l’aveva validamente aiutata per 600 mila euro, ben 200mila volte di più! RU NON VOLEVA PIÙ VIVERE LUI NEI SUOI ULTIMI ANNI DOVE AVEVA FATTO VIVERE I TRE ULTIMI A SUA MADRE! Ora che il  del Signore non aveva più Dio su di sé, era finito nelle mani del Maligno che non gli faceva più andare bene per se stesso quella condizione che aveva fatto vivere a sé e a sua madre, fino a che era morta. E – in mano a simile Nuovo Consigliere – ora si era deciso a chiedere l’assegnazione di una Casa Popolare. Tornato il 1° ottobre, di nuovo nell’incertezza di dove attendere la sua ora, RU si recò in Comune per vedere la domanda per le case popolari a che punto fosse in graduatoria: era al 150° posto, il che significava nessuna possibilità di ricevere una alloggio a 100 euro al mese di affitto. Infatti si doveva gestire con la pensione sociale e l’aiuto che riceveva anche da chi era sopravvissuto a suo fratello e rispettava gli impegni di sussistenza presi da lui, in contraccambio di quanto aveva fatto per 10 anni lui per sua madre, senza mai nulla dell’aiuto che BEN gli aveva promesso e che non aveva potuto, per i gravi problemi sorti tra le due banche che gli avevano dato l’incarico di direttore generale di una loro consociata, poi non pagando proprio lui. Parlò al telefono un giorno con Nicola Morra, che l’aveva soccorso tante volte e quel suo cugino, concepito in casa sua, fu stupendo, quando seppe in che condizioni vivesse RU. Gli disse che gli avrebbe comperato lui una casa e l’avrebbe ospitato gratis in essa. Che si desse da fare e gli facesse sapere. RU cercò e trovò varie possibilità e ne scelse infine una ed ebbe anche l’incarico di fare tutte le pratiche e infine anche l’atto di acquisto.

Aveva scelto i mobili, comperandoli tutti di seconda mano al “mercatino dell’usato” di Saronno ed era riuscito a concordare che per il 1° dicembre potevano fare il trasloco. Si accordò e non avrebbe avuto alcun modo di spostare quella data che aveva costretto il venditore a salti mortali, per fissargliela in tempi così brevi. Il 29 novembre era stato fissato l’atto di acquisto; il 30 avrebbe preparato tutte le cose da spostare da Via Larga 12, in cui era morta sua madre. Così il mattino di quel giorno si recò come al solito e per l’ultima volta dal Ragusa, il titolare del Bar “Tiramisù” in cui faceva colazione e smaltiva i suoi rifiuti solidi. Quindi prese la via per tornare a casa. ULTIMO ATTENTATO DI SATANA: FU INVESTITO DA UN’AUTO Come accadde a Maria Teresa Mazzola, ora accadde a lui. Il Maligno colse l’ennesima occasione che il Signore gli dava per prenderselo. Un’automobile l’investì, colpendolo come una palla lanciata contro i birilli e scaraventandolo sulla strada. RU si protesse la testa, mentre strisciava sull’asfalto, senza una scarpa che gli era volata via tanta era stata la violenza dell’impatto. Si mosse con precauzione, mentre era in terra e credeva di essere mal ridotto, invece sembrava di no, sembrava che miracolosamente non si fosse fatto nulla. Comunque venne una vettura del 118, fu caricato con tutte le precauzioni e portato all’ospedale di Saronno. Gli fecero le lastre e non sembrava aver niente di rotto. Ma cominciò a non potersi più muovere né stare in piedi. Lo misero a letto. Dopo un poco cercò di alzarsi ed ebbe un malore. A quel punto lo trattennero. Accorse Gigli Flocco, il marito di Barbara ed ebbe l’incarico di stare il giorno dopo nella nuova casa, poiché arrivavano i mobili. Gli spiegò come dovevano


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montarli. La nuova casa non era ancora agibile, senza la luce e dunque quando uscì fu portato dal cugino ancora nella vecchia casa. Vi passò alcuni giorni in cui non riusciva a stare in piedi. Pur in quella condizione, spostandosi restando seduto su una sedia, riuscì anche a darne notizia, sul suo Canale YouTube. Gigli Flocco, il marito di sua cugina Barbara, che era stato il proprietario di quella cucina in via Larga 12 in cui RO aveva adattato il suo spazio vitale, si prestò ad andare in Ospedale per tutte le visite di controllo da fare. Fu proprio in una di queste che il dottore notò che non muoveva una gamba, e ordinò una TAC. Da essa risultò una frattura multipla al bacino, per fortuna composta. Gli telefonò cortesemente a casa la sera, riproverandolo per essersi mosso fino ad andare all’Ospedale ordinando gli assolutamente di non muoversi. Se il bacino, che con le sue fratture composte aveva il tempo e il modo di rinsaldarsi, tutto procedeva bene; ma se si muoveva e le fratture si scomponevano, dopo sarebbe dovuto essere operato. Così RU restò ancora giorni nella casa che avrebbe voluto abbandonare il primo giorno di dicembre. Fu solo quando nel nuovo alloggio fu allacciata la luce che, pochi giorni prima di Natale, RU poté finalmente entrare. Accorse da Milano il suo amico Renato Mariano e portò con se un elettricista che comperò e montò a sue spese le lampade. Il  di Dio passò così le feste di Natale e capodanno standosene immobile a letto. Accorse suo nipote Marco e gli sistemò l’antenna del televisore. Aveva immaginato un altro inizio in quella casa nuova. Ma quello fu il segno che quella sarebbe stata la sua ultima residenza. Gesù – ritornato per tutti il 25 dicembre – pose termine a quel dominio del maligno su di lui, che il Padre aveva autorizzato, per fargli assaporare come sarebbe potuto essere se non avesse inviato nuovamente Il Figlio Suo a salvarlo.

2018

Eccola la nuova casa in cui era entrato RU. Sull’ingresso una opera votiva indirizzata a MARIA CAPUT MUNDI. L’indirizzo di via TRIESTE 1 era tutto un programma per lui: TRI EST È UNO . Insomma lui Romano e Italiano non solo È ma anche EST Trino e Uno. La povera casa in cui era nato aveva un affresco sulla volta dell’ingresso che era questo che qui vedete: un cristo Re con al posto del naso un segno di croce. Sullo stesso angolo della via c’era una edicola votiva rappresentante la madonna con in braccio Gesù.


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In questa casa era però bloccato a letto, e non si poteva muovere, perché il dottore aveva denunciato il pericolo che la sua frattura al bacino, multipla ma composta, in seguito ad un movimento inconsulto si scomponesse, e a quel punto sarebbe stato necessario un intervento chirurgico. Gigi gli fu molto vicino e compì per lui tutte le operazioni necessarie, con i dottori, le prenotazioni per le visite, un vero fratello. Nicola Morra, da Salerno, medico, dava consigli. Giancarla accorse molte volte, cercando di fare tutto ciò che poteva. Marco ara corso subito a sistemargli l’antenna televisiva. Tutto questo a cavallo della fine del 2.018 e l’inizio del 19. Molto presente era Barbara e la sua giovane dottoressa, la figlia di lei e Gigi. Emerse subito il bisogno di un valido servizio per fare scattare l’assicurazione come si doveva, ossia per il meglio. C’era a Caronno Pertusella una agenzia e Barbara e Gigi

consigliarono quella e iniziarono tutti i rapporti. Un giorno RU andò da lei, che l’accolse, debilitata. Lei gli consigliò di annotare bene ogni cosa, senza tralasciare nulla, all’agenzia che avrebbe curato la sua assicurazione. Sembrava in ripresa, Barbara, Le cure della chemioterapia avevano indotto una grande spossatezza. Poi le avevano trovato un tumore osseo, contro il quale lottava, in ogni modo, per non lasciarsi vincere. RU diede retta a sua cugina. Fu costretto a cure, dopo che si era alzato dal letto alla fine di gennaio, poiché gli era venuto anche un dolore così acuto che aveva bisogno di appoggiarsi ai bastoni. Le cure fatte per la lesione di un muscolo sulla spalla destra, all’altezza dell’omero, erano fatte in una clinica convenzionata con l’agenzia che curava la pratica del risarcimento, e non implicavano costi, al momento sostenuti tutti dall’agenzia. Ma c’erano i viaggi per andarci e divennero presto un vero calvario. Anche e solo per andare alla Promotel di Saronno a farsi le sue lastre, erano faticose e dolorose. Prima di rimettersi in piedi passarono quasi quattro mesi. In quel frattempo fu fatta la visita fiscale da parte del medico dell’assicurazione. Il danno avuto da RU era permanente. La spalla e i dolori ad essa non permettevano di alzare il braccio oltre il petto. Non poteva camminare se non appoggiandosi ad entrambe le stampelle. In tutti questi spostamenti di indispensabile Gigi, che si divideva tra l’ospedale in cui era stata di nuovo ricoverata Barbara per trovare un rimedio al suo cancro osseo. Alla metà dell’anno – quando erano stati adempiuti tutti gli accertamenti e gi era stato riconosciuto un grosso danno permanente – RU cominciò a riacquistare lentamente la sua saluta. Alla metà dell’anno non si poggiava più che solo sua una stampella, poi non ebbe bisogno più nemmeno di quella. In quanto al movimento del braccio destro, esso pure si sbloccò e riprese a poter alzare il braccio senza avvertire più dolore. Oca non è giusto invocare miracoli ad ogni piè sospinto, ma dopo sette mesi dall’incidente era rimasto solo un “tac” lieve e uno scatto, nelle sue ossa, quando sollevava il braccio destro oltre l’altezza della spalla. Aveva temuto di non potere più camminare senza l’uso di una stampella ed ora era tutto finito. Il 14 agosto crollò il ponte Morandi. Per le simbologie dei nomi RU ci vide dentro un More & I che rimandava in napoletano al “muore e io... E rutto nella lingua del mondo a “Maggiormente e io”. Di fatti quel crollo avrebbe portato il Canale YouTube Romano Amodeo” al punto più alto – infinitamente più alto delle sue visualizzazioni. Ci furono due giorni nei quali ci furono 60mila a collegarsi, per vedere le simulazioni elaborate da RU sul crollo del ponte.


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Il fenomeno del crollo del ponte di Genova fu un evento così speciale da essere altamente simbolico, e proprio per quanto riguardava la vita di Romani. Accadeva esattamente a 26.008 giorni da quando sarebbe corollato “And I” anche il suo io, il 4 ottobre 2.025. 26.000 era nel segno di tutto il tempo 10×10×10 del 26=Dio, mentre gli 8 giorni in più indicavano la presenza 1 di tutta l’opera compiuta. BARBARA SALÌ IN CIELO

Accadde il 12 dicembre, 847 giorni dopo il 17 agosto in cui RU perse il suo Spirito Santo e Barbara si ammalò terminò la sua gestazione celeste e salì in cielo. Questo tempo è tutto il percorso di 53 in 900 che è tutto il movimento di 100 in mille, numero 53 che è quello 16 della carica 4×4 del piano avente per lato l’unità nella Trinità di Dio. Il 25 gennaio del 38 in cui nacque RU aveva in previsione solo 862 giorni di vita, essendoci la premessa di 138, nel gennaio del 38 e della somma 54+64 dei nomi

Luigi e Mariannina dei suoi genitori. Il 847 di Barbara, sommati ai 22 intercorsi rispetto al 26 luglio in cui era partito via il Padre, sono 869, giusto i 7 in più dell’intera opera divina. Al funerale che ci fu nella chiesa di Caronno Pertusella, RU volle essere il cantore, e cantò per lei il Padre Nostro che aveva composto e l’Ave Maria di Schubert. Volle commiatare la cugina e disse: “L’ho avuta come aiuto indispensabile quando iniziai il mio tentativo di dar corpo a Cristo; lei apparentemente mi abbandonò; ma lo fece solo per preparare a Caronno Pertusella l’aiuto che poi lei mi avrebbe dato, accogliendomi nella sua casa di Saronno. Ebbene, ora noi siamo tutti tristi perché sembra che ci ha abbandonati, sappiatelo: è andati invece in Paradiso per prepararci – stavolta a tutti – la nostra futura casa”

La casa di Barbara era sempre stata piena di parenti e di ospiti per cui tutti i presenti potevano capire che cosa RU volesse dire con quelle parole. Chi più se ne sarebbe dovuto ricordare era proprio Gigi, che aveva posto Barbara al centro della sua vita ed ora avrebbe fatto fatica a trovarne uno nuovo. Non Romano! Sapeva che sua cugina, nata quando lui aveva 16 anni, nel suo stesso 25 gennaio, sarebbe stata sempre con lui, anche ora che se ne era andata all’altro mondo. Sarebbe andata anche lì a preparargli una strada: quella che lei avrebbe deciso unicamente con il suo giudizio e le sue forze.


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2019

Ormai RU aveva iniziato il suo conto a rovescio. Sapeva che la sua vita aveva avuto un compito, ma che non l’aveva svolto fino alla fine, e cercava di fare nella sua nuova casa in cui abitava grazie a quel suo cugino Nicola che era stato concepito nella sua casa di Milano, e che sotto il profilo proprio della casa avrebbe avuto sempre il ruolo di un chiaro segno, escatologica. Concepito Nicola nella casa di RU, quest’ultimo sarebbe morto nella casa di Nicola. E a Nicola di Ortonovo, in un terreno tra gli ulivi, l’orto comperato non dal Getsemani ma dal Saccomani, RU aveva costruito la sua casa reale, per se stesso e per suo padre. Il suo primo vero amore fu a Capizzo, nella casa dei Morra, e il cognome di Morra, unito a Nicola, fa sì che con Nicola Morra è scritto proprio papale-papale uno stupefacente ma chiarissimo NI COLA’ MORRA in cui NI rimanda al Nazarenonapoletano Iesus, in colui che volle essere il suo .

Quando ebbe bisogno di acquistare quella stanza, quella mangiatoia del novello presepio di Via Larga a Saronno, vennero dalla casa di Nicola i fondi, e di Nicola l’ultima casa in cui il  di NI colà morrà. Nell’attesa che i giorni mancanti fino al 4 ottobre del 2.025 si compissero, RU iniziò una vita regolare di studio e di illustrazione quotidiana tramite il suo canale YouTube. Finito il grande interesse suscitato dalle sue deduzioni tecniche, da architetto, di quale era stata la dinamica, il Canale era tornato al tranquillo tran-tran di coloro che erano interessati ai suoi temi. Poi, nel pomeriggio, si dedicava a scrivere i suoi libri. I titoli inseriti ad uno ad uno sul canale issuu.com superavano il centinaio, e ve ne erano di tutti i tipi e su tutti gli argomenti. Si rendeva conto che era una opera realizzata in movimento, il cosiddetto work in progress, fatto secondo la prassi cibernetica di un aggiustamento progressivo sulla verità. Molte volte era tentato di tornare a prendere sotto mano le sue prime opere e di dire di esse che cosa era restato immutato e cosa si era a poco a poco talmente precisato da apparire totalmente diverso. Evitò sempre di farlo, per la ragione che voleva soprattutto RENDERE TESTIMONIANZA del fenomeno che si era attuato con tutta la sua vita. Anche gli ERRORI, iniziali, o le IMPERFEZIONI, dovevano restare a futura testimonianza che lui era stato un soggetto anche ingannevole. Per tutto quello che il destino gi aveva assegnato da dire, poteva correre il serio pericolo – un giorno – di essere DEIFICATO. Allora venivano a proposito tutte le sue manchevolezze. Anche Maometto ne ebbe. Ma oggi mal incoglie a chi ne rileva le lacune, a tutti i seguaci dell’Islam. ISLAM ! è l’Am, è l’Amodeo, è il Dio I AM. CORANO è Con RomANO che ha la sua pienezza, ma guai a dirlo a un Islamico. Per RU era giunta l’ora di svestire di PERFEZIONE ogni cosa REALE. Il mondo reale è il DOMINIO DELL’IMPERFEZIONE, ma proprio poiché è uno sviluppo nel senso negativo di una automobile che avanza anche quando da in retromarcia. Proprio per la PERFETTA CAUSA data solo da Dio, tutta la sua creazione, uguale e contraria, complementare all’atto Trinitario dei 7 giorni che con 3+7 danno il ciclo Assoluto (Divino) di Dio, si mostra in questo ATTO CONTRARIO, FILIALE e non PATERNO, il dominio dell’imperfezione. Lo stesso Gesù Cristo che lottò contro satana, ebbe la sua validità solo nel contesto unilaterale del solo tempo in avanzamento. Ma LUI, CHI era sul suo , era nel segno imperfetto del Bene e del male, non solo in quello unico del bene praticato dal Figlio. Quindi restava una opera ancora immensa da testimoniare.


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Venne anche il tempo di ricevere finalmente il pagamento del danno che aveva patito dall’investimento. Fu conforme a quella promessa di Dio: ASPETTA! Che ricevé quando stava per procurarsi un incidente volontario, e chiese prima a Dio cosa dovesse fare. Infatti ebbe modo con quanto gli fu dato di riscattare la sua casa in via Larga 12, da suo cugino Morra, ridandogli il denaro a suo tempo prestatogli. Poté ringraziare in solido anche Gigi, ma mai avrebbe potuto riscattare con lui tutto il suo debito. Gli doveva di essere stato portato a Saronno, dove si sarebbe giocata tutta la sua promozione. Aveva ripreso a cantare nel Coro di Monticelli. Il maestro lo aveva cercato: aveva bisogno di lui, da quando il pezzo forte dei bassi era stato operato ed ora era necessaria la sua potente voce Questo lo costrinse a non potere assentarsi mai da Saronno. Fece solo un rapido viaggio di alcuni giorni, quando si recò a Salerno a comperare finalmente quella casa, che già era stata intestata a lui, ma con i soldi dei Morra. Quasi ogni giorno parlava con Giancarla. Quando fu il 4 giugno 2.019 celebrò con lei, nella Chiesa in cui si erano sposati 50 anni prima – sant’Eustorgio – una sorta di rievocazione tutta privata delle loro Nozze D’oro. RU era stato dal Sacerdote per celebrarla come si doveva, ma civilmente erano divorziati, e non si poteva. Fu trovata la soluzione di dire, nel momento in cui nella messa c’è la preghiera dei fedeli, che quella messa era secondo le intenzioni di Romano Amodeo e Giancarla Scaglioni. Che scherzi da prete ti combina la Divina Provvidenza! Vero? Si volevano ancora bene. Avevano superato l’invadere fatto nelle loro vite di altri amori, e perseveravano in quello loro che si erano giurati davanti a Dio il 4 giugno del 1969 in cui l’uomo era andato sulla Luna! E c’erano anche gli altri affetti. Maria Teresa Mazzola si era fatta nuovamente viva, telefonandogli ogni tanto, per sapere come stava. Le aveva raccontato di come, dopo che se ne era andato, era toccato anche a lui di essere investito. In una occasione andò anche a trovarla, per una breve visita. Anche lei, tutto sommato gli voleva Bene. Invece l’altra Maria Teresa, la Legnani, quella che nella Bibbia è denominata Ada, seguitava imperterrita a dimostrargli tutta la sua ostile indifferenza. Lo fece quando – incontrandola – le raccontò di essere stato investito, di aver cambiato casa. E – quando per caso venendo di fronte sullo stesso marciapiedi – era impossibile non incontrarsi, lei faceva finta di essere distratta, a parlare nel suo telefonino...

Si era fatto un altro amico: un vecchio impiegato nella polizia, di circa 15 anni meno di lui, Giuseppe Pedata. Si erano incontrati al Parco Lura, in cui ogni tanto RU camminava, per tenersi in forma, e riposava su una delle sue panchine. Avevano chiacchierato un po’ e RU aveva cercato di fargli conoscere il suo impegno reale nell’aiuto del prossimo. Contava sempre che un giorno o l’altro Dio gli avrebbe fatto fare 6 al Superenalotto. Infatti lui – Romano – aveva fatto in vita sua tutto il possibile. Ma non gli credevano. Le cose che affermavano a primo acchito – ma anche a secondo e a terzo... – sembravano strampalate. Solo l’arrivo di grandi risorse avrebbe potuto ritorcere lo sterco di Satana contro il demonio stesso:m organizzando incontri, pubblicando libri, insomma con un lancio vero e proprio organizzato sapientemente e bene solo avendo i giusti mezzi. Ci confidava sempre poiché si sentiva coinvolto dal Super nipote di Abramo, chiamato Lot, dunque dal Super Lot che aveva difeso i due messi del cielo che erano andati a Sodoma e si era portati in casa per difenderli dalla sodomizzazione. Anche RU era preso per i fondelli e da questa reale sodomizzazione solo un Super Loto l’avrebbe certamente difeso. RU fu così tanto convincente che Giuseppe, appena ne ebbe il caso, gli chiese un aiuto finanziario. Lo ebbe. Poi cominciò ad aspettarlo davanti all’uscita della Chiesa, poiché aveva ancora bisogno. Sdi rendeva conto di non avere restituito il vecchio prestito, ma era in brutte acque e solo lui lo poteva aiutare. RU l’aiutò, ma riuscì infine a fargli capire che quel denaro lui se lo toglieva dalla bocca. Non era un riccone e viveva di un assegno sociale. Di fianco al suo appartamento al secondo piano di via Trieste 1 c’era una che conosceva ed era stata la moglie di un suo amico anni prima che divorziassero. Come al solito, la Provvidenza gli metteva davanti le occasioni per non essere del tutto solo. Anche con lei RU fece opera divulgativa, spiegando la funzione che credeva di avere, e quando lei si trovò in difficoltà, l’aiutò. Glielo disse chiaro: non ti presto nulla. Queste somme io te le dono. Cerca di vivere serena. Per stare in quel monolocale identico al suo lei pagava un affitto che con le spese di condominio superavano i 500 euro al mese, e spesso non riusciva a tenere il passo. Con quella casa lei aveva fatto il passo più lungo della sua gamba, ma non aveva un altro luogo in cui andare. Aveva un figlio, ma lui pure era con un lavoro che gli dava appena di che pensare a se stesso. Nadia in cambio doveva solo dargli un’occhiata, di tanto in tanto. Lui aveva 81 anni e lei oltre 20 di meno: poteva vigilare su un... vecchio.


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2020

Il 21 febbraio del 2.020 vi fu in Italia il primo caso di Coronavirus. RU aveva combattuto nel 2.003 contro la diffusione della Sars in Italia. Prima avvertendo il Sindaco di Cogliate in una lettera riservata di prepararsi, essendoci una grande pericolo, poi chiedendo alla Madonna, in una processione della Chiesa di San Giovanni Battista, di far pagare solo lui, e di evitare questa terribile piaga. Le vicissitudini sono state descritte in quel tempo, e causarono il primo attacco del Morbo di Parkinson, come effetto collaterale dell’Aldol a lento rilascio cui fu costretto. Laddove la creazione di Dio usa il ciclo 7 in linea, e ne abbiamo tre nel numero di 7 anni ciascuno, da quando RU indisse il Convegno DELLA PIENEZZA DEL TEMPO, il 24 ottobre del 1999, lo spostamento di 21 anni indicano il passaggio di tutto il tempo ammissibile nella pazienza di Dio. La conseguenza fu la Pandemia dell’ultima Sars, che si diffuse in Italia a cominciare proprio dal giorno 7+7+7 del mese 2. Il giorno in cui RU ebbe esattamente 30.000 giorni di distanza dal suo giorno natale distava 21+1 giorni da quel 21, a indicare la presenza 1 di una nuova quantità di 7+7+7 giorni legati espressamente alla vita della persona del .

Egli ormai era senza la presenza su di se stesso del Signore. Dal 17 agosto dal 2.016 era restato solo, come l’asino che egli era. In lui c’era comunque in modo evidente la mediazione del DIO da sempre ancorato al valore 26 del termine sia italiano di DIO, sia Ebraico di IHVH, come dimostra quanti giorni di distanza aveva da quando il 17 agosto anche lo Spirito Santo ascese in cielo da lui. Lo dimostrano i 1306 giorni di vita autonoma indicante il centuplo quaggiù della mediazione di Dio in tutti i 6 giorni di lavoro. Era la III domenica di Quaresima e il Vangelo della Liturgia Ambrosiana del giorno in cui RU ebbe esattamente 30.000 giorni di distanza dalla sua nascita si concentra sulla sintesi della sua vita, quale  di Cristo. VANGELO Gv 8, 31-59 ✠ Lettura del vangelo secondo Giovanni In quel tempo. Il Signore Gesù disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». ...Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro». Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro»....

RU portava sempre a riferimento delle letture quelle del Rito Ambrosiano. Quel giorno il vangelo riguardante il Rito Romano era il lungo incontro con la Samaritana, cui Gesù promise l’acqua che non avrebbe mai più fatto sentire la sete. Quello che è qui importante da rilevare è che, alla pienezza dei 30.000 anni di vita di RU iniziò il castigo divino al mondo intero, che avrebbe accompagnato RU fino al giorno della sua reale morte, quando avrebbe raggiunto i 3.333+1+1 giorni dopo d’essere restato solo un  senza più Chi portava.


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Tutte le azioni nel mondo, da quel giorno in poi per quanto riguardava la Patria di RU, si sarebbero poste in relazione con la Pandemia del Covid-19. Romano, da parte sua, seguitò la sua solita vita lavorativa, nel tentativo di far conoscere agli uomini a cosa fosse stato incaricato lui, quale il buon  che si sentiva e che aveva voluto essere a partire dal 4 giugno del 1973, di quando aveva compiuto esattamente 33 anni da quel 4 giugno 1940 in cui era morto e Gesù era ritornato il lui dandogli nuova vita. Iniziò anche a scrivere due libri molto importanti, che avrebbe concluso quando Dio glielo avrebbe consentito. In uno affrontava l’osservazione della Bibbia, in relazione a come essa avesse profetizzato il  che si era realizzato in lui. Nel secondo mostrava proprio come su di lui c’era il Re che entrava nella sua Gerusalemme, compiendo quella liberazione totale che Gesù aveva preannunciato nel vangelo del 15 marzo 2.020 in cui egli ebbe giusti-giusti 30.000 giorni di distanza dal suo dì Natale e 29.138 dal d’ della parusia di Gesù che – come vedete dal 138 era coerente alla sua stessa nascita nel mese 1 dell’anno 39, e nel segno di quel 29mila intero che nel 29 era esattamente il 10° numero primo. Il Signore stava attivando anche il suo distacco dal suo canale. Cominciò facendo apparire un contestatore che obbligava RU a interminabile spiegazioni, poiché – proprio quando credeva di aver concluso qualcosa – il suo contestatore ripartiva di nuovo, come un disco rotto che ricomincia sempre dallo stesso punto. Era una persona apparentemente a modo che meritava tutte le sue attenzioni, ma che poi all’atto pratico non recepiva proprio nulla e lo obbligava a essere lui pure un disco rotto che ribatteva sempre sugli stessi argomenti. Comprese che quello era un segnale trascendente che era l’ora per lui, dopo 10 anni esatti che aveva cominciato il 13 giugno del 2.010 a parlare, ora di terminare quell’opera che, in quanto ad ascolti, era arrivata al suo picco. Non con le questioni di fede, ma con quelle in cui egli spiegò le problematiche che avevano portato al crollo del Ponte Morandi, in quel 14 agosto collocato giusto a 21 giorni dalla decapitazione di padre Hamel. 1.092 giorni prima e nel segno dei 192 giorni totali di digiuno che RU aveva fatto per la volontà di Tre Papati costretti a rinnegare il povero Cristo proprio in lui dal Signore RU si mutò in un eremita, che non usciva più nemmeno di casa e si faceva portare il cibo a casa, da Amazon. Quando fu permesso di uscire, fece una grossa croce proprio con i cartoni della scatole di Amazon e la portò in processione solitaria per le vie di Saronno.

I canali di informazione locali presero il suo video e lo diffusero. Ritenevano strano che questo pensionato, che non si era mai mosso di casa, avesse portato per oltre sei chilometri in giro per tutta Saronno la sua grossa croce delle sue personali traversie, tutte incentrate su quelle scatole di alimenti con cui era stata costruita la sua croce, ch’era stata sopportata con 192 giorni di digiuno, dei quali 57 a Saronno, 55 a Montesilvano, 47 a Roma e Montesilvano e poi 33 al Cairo, in Terra d’Egitto, dove aveva smessa l’ultima sua crocifissione all’ASCENSIONE di Cristo che era nello stesso 13 giugno in cui aveva aperto il Canale YouTube, chiudendolo nello stesso 13 giugno che celebrava il santo del suo secondo nome Antonio. Quella camminata per Saronno la compirono in due. Lui e Giuseppe Pedata che lo riprese prima con una macchina da presa e poi col suo telefonino quando il Maligno bloccò la telecamera prima che si arrivasse al santuario della Beata Vergine dei Miracoli e il Pedata intervenne con il suo provvidenziale telefonino. RU pregò affinché il Signore facesse come al solito: se la prendesse solo con lui. Sì il Signore voleva accompagnare i suoi ultimi anni verso la morte come aveva accompagnato i Primi con la II GUERRA MONDIALE – stavolta la seconda contro questa pandemia da Coronavirus – ma che gli facesse la grazia infine di accompagnare solo lui, verso la sua fine, risparmiando più che possibile le pene del mondo. A differenza di quanto pregò nel 2.003, ora Padre, Figlio e Spirito santo non erano più realmente su di lui, come il loro  portatore, c’era solo il σώμα-Po, l’asino. Concluse l’anno terminando i due libri che aveva cominciato l’anno prima e li mise in onda sul sito ISSUU.COM che aveva raccolto tutte le sue pubblicazioni scritte . Li trovate al link https://issuu.com/amoramode


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2021

Propose ai suoi amici di farne un regalo, li avrebbe mandati prima di Natale e avrebbero potuto anche donarli agli altri in cambio di cose meno importanti e appropriate. Aderirono i soliti che erano sempre pronti a partecipare alle sue iniziative. Daniele Berti ne volle otto, che avrebbe in parte regalato, ed ebbe quasi tutta la serie delle varie pubblicazioni fatta nel corso degli anni, e che è possibile trovare sul sito di Issuu.com. Il Natale, questa volta passò in solitudine. Erano stati da lui ad invitarlo, Gigi Flocco, e – con al moglie – il suo cugino Antonio, che aveva miracolato bambino impedendo che operassero le sue corde vocali che non riuscivano a dire la “c” di Casa. Insistettero che andasse come al soluto da loro, ma fecero solo un bel giro per il Parco Lura e poi si augurarono in questo modo Buon Natale e Buon Anno, di persona. Passò da lui Giancarla a fargli gli auguri, prima di Natale. Si volevano sempre bene, ma il Signore li aveva divisi per non impedire o ostacolare le cose che avrebbero dovuto fare – ed erano ben opposte – sia lui, sia lei, lui nel campo trascendente, lei in quello immanente delle piccole cose della vita reale e quotidiana.

Tre giorni prima che RU compisse gli anni, il 224 gennaio del 2.021 in Brasile se ne andò all’altro mondo Padre Pigi. Questo l’annuncio datone dalla Chiesa brasiliana: L'arcivescovo Dom Walmor, i vescovi ausiliari - Dom Joaquim Mol, Dom Geovane Luís e Dom Vicente Ferreira -, i sacerdoti, i diaconi, gli uomini e le donne consacrati e gli evangelisti laici si uniscono ai familiari, agli amici e, in particolare, alle persone che cercano di far rispettare il diritto universale al decente alloggio per pregare per padre Pier Luigi Bernareggi, padre Pigi. Il sacerdote è morto venerdì, all'età di 81 anni, all'Emmaus Convivium, dove viveva. Nel 2017, don Walmor ha celebrato la messa per i 50 anni di sacerdozio di padre Pigi. Credito immagine: Kika Antunes Don Walmor, con grande riverenza, ricorda il percorso di padre Pigi con i più poveri.


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“Il nostro amato padre Pigi è stato un convinto difensore degli esclusi, soprattutto di coloro che non rispettano il diritto fondamentale alla casa. La sua vita semplice, il suo coraggio evangelico, la sua fedeltà agli insegnamenti di Gesù sono segni indelebili, lezioni per ogni persona. Un prete dei poveri, rispettato e ammirato da tutti. Un uomo di Dio, di fede esemplare, che lascia in eredità lezioni di incrollabile fiducia in Dio, vita dedita alla missione, fuori dal suo Paese, rendendoci suo popolo, suo famiglia, il tuo pavimento. Riposa in pace, caro padre Pigi. La Chiesa e coloro che cercano il diritto a un alloggio dignitoso ottengono un intercessore in cielo. L'amata Madre Maria, Nossa Senhora da Piedade, patrona di Minas Gerais, riceve padre Pigi. Il buon Dio vi accoglie nella sua infinita misericordia ". Padre Pigi, dopo essersi dedicato a tante parrocchie e ai più poveri, ha vissuto gli ultimi anni del suo ministero sacerdotale all'Emmaus Convivium, che ospita anche i sacerdoti della maturità. Lì ha ricevuto cure, ha vissuto in una comunità accogliente. I funerali e la sepoltura di padre Pigi, a causa della pandemia e della necessità di rispettare la distanza sociale, saranno limitati a poche persone. L'invito è perché i suoi amici e ammiratori possano unirsi in preghiera dalle loro case, onorarlo con preghiere, perseverare nel cammino che lo stesso padre Pigi, con il suo esempio, ha insegnato: prendersi cura dei più deboli di questo tempo. Padre Pigi è stata la grande illusione e delusione di RU. Aveva conosciuto Amodeo da ragazzo; lo aveva visto aver dato via tutto per essere veramente il  di Dio: aveva saputo delle due volte che aveva rischiato la salute pur di portare al Santo Padre quella verità che avrebbe portato a Cristo tutti gli uomini che credevano nella scienza; ne aveva controllato la bontà degli assunti; aveva visto persino dei miracoli accadere, ma non vece nulla con il Papa per favorire l’incontro. Dio si è voluto far tradire in RU anche da lui, per poter essere amato ancor di più in Cielo. Quando RU e Padre Pigi si troveranno dopo il 4 ottobre 2.025 presso il Padre Celeste, risolveranno da buoni amici anche questa questione. Padre Pigi è caduto, ha picchiato in terra la testa e ha dovuto essere operato al cervello, operazione

finita male. RU ricordava sempre il suo stupore di quando – dopo aver cercato in lungo e in largo un tronchesino per tagliare un fil di ferro, uscì e lo vide appena fuori della porta, per terra, la dove certamente non c’era stato. “E’ una magia? Dove l’hai trovato?” rispose padre Pigi convinto che stesse assistendo a qualcosa di irreale. Vide una faccia gonfia - gonfia, con un evidente principio di infezione, divenuta normale mezz’ora dopo una sfida che avevano fatto e si era sentito dare del pirla perché confidava solo in Dio per guarirla... e quella volta che l’anziana paralizzata aveva fatto quei quattro passi... Vide infine la Chiesa scoperchiata quando RU terminò la sua terza visita, inutilmente. RU non gli aveva chiesto nulla. Forse se lo avesse fatto l’amico si sarebbe interessato. Ma voleva lasciare totalmente a lui l’iniziativa, e non l’aveva assunta, lui che era ricevuto dal Pontefice e avrebbe potuto spendere una parolina, garantendo sulla sua perfetta buona fede e sulla verità che aveva personalmente controllate, lui, docente di Filosofia, lui missionario. Questo libro non doveva finire in questo modo, ma la Provvidenza usa sistemi imperscrutabili. Al suo termine ha messo lo stesso evento triste della testa persa dalla chiesa quando un tornado, localizzato su di essa, la denudò, e ha messo adesso la morte del suo grande amico, tre giorni prima che egli compisse i suoi anni. Già nell’ultima visita padre Pigi era caduto in bici e il caschetto protettivo si era spaccato in due, riducendogli la botta. Operato prontamente, si era salvato. Dopo un poco quel tornado... quanti segni ci dà tante volte il Signore, specie quando si tratta di RU. Per indicargli che il suo matrimonio sarebbe andato in crisi, un movimento strano del pallone gli aveva spezzato un tendine del dito anulare, proprio quello su cui sarebbe stato il suo anello... E – appena sposato – quella valigia lasciata fuori di un ascensore partito verso l’alto di testa sua, prima che la tirasse dentro, e che non volle scendere se non quando andò fino in alto, la dove non c’era nessuno che l’avesse chiamato. Poi però scese e la valigia era ancora là, Così la vita, tutte le cose che lasciamo saranno ritrovate. Non vi è proprio nessun bene che andrà perduto. Termina all’83° compleanno – per ora – il racconto della storia di Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo e del suo fratello e alter ego Benito Vittorio Anna Giovanni Vincenzo Amodeo..., insomma di Ruben. Trascorsi 316 giorni oltre i 30.000, ne rimangono ancora 1.713, la cui somma, di 316+1713 porta al 2.029 che quantifica esattamente il piano a lati 1.000 e 1000 in tutto il flusso 29 del 10° numero primo. 1713, che numeri il 17 e il 13 !!!


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L’eredità Genesi 18, 17-19 17 Il Signore diceva: «Devo io tener nascosto ad Abramo quello che sto per fare, 18 mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? 19 Infatti io l'ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore realizzi per Abramo quanto gli ha promesso». Paola Amodeo e Giovanni Pola Eleonora Edoardo Margherita Andrea Amodeo e Marianna Apuzzo

Marco Amodeo e Mina Marie Helena Dumonte Maya

Chiuso il 25 gennaio 2.021 Agli 83 anni compiuti da Romano Antonio Anna Paolo Torquato Amodeo


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