Ultime Voci Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti a cura di Luca Squillante
Volume settimo Prato 2014
Redazione a cura di Luca Squillante. Impaginazione e grafica a cura di Luca Squillante. Luana Cecchi ha curato le testimonianze di Rolando Bulletti, Famiglia Cecconi, Cugini Fattori, Bruno Fattori, Arturo Massai, Fernanda Nocchi Zipoli ed ha trascritto la lista dei morti de La Briglia. Per quanto riguarda Arturo Massai, si ringraziano Vittorugo Risaliti per le notizie biografiche e Rodolfo Betti per le fotografie e per il diario. Per le notizie relative ai cugini Fattori si ringraziano i familiari, nonché Annalisa Marchi e gli altri collaboratori di Usella L’immagine ritrovata Quaderno n.4 della Terza Serie 1998. Silvana Santi Montini ha curato le testimonianze di Angiolo Lenzi, Loris Migliani, Venturino Panicagli, Marina Ciampi, Aldo Quercioli, Tosco Sarti, Giuseppe e Bendetto Santi. Francesco Venuti ha curato le testimonianze di Pasquale Albano, Fernando Benvenuti, Umberto Mascii, ed ha steso il quadro storico sulla I Guerra Mondiale. Fotografia di copertina: Pasubio, monumento in memoria dei soldati caduti.
Associazione Nazionale Combattenti e Reduci – Federazione di Prato
Piazza San Marco 29 – 59100 Prato Telefono e fax 0574/21352 Email ancr.po@gmail.com
Presentazione
Cause ed effetti della Prima Guerra Mondiale
La Prima Guerra mondiale iniziò nel 1914, sono passati 100 anni e l’Europa ricorda alle nuove generazioni quella immane tragedia dove trovarono la morte circa 9.000.000 giovani. Un’intera generazione perduta in tremende battaglie campali e assurde condotte da generali incapaci e insensibili al grido di dolore, che ricorrevano spesso a fucilazioni, giustificate dall’accusa di codardia verso i propri soldati, per coprire i loro errori: un esempio per tutti è la disfatta di Caporetto nel 1917 in Italia, sotto la guida del Gen. Luigi Cadorna. L’Italia era partecipe insieme a Germania e Austria di un patto denominato Triplice Alleanza che prevedeva assistenza reciproca. I Tedeschi e gli Austriaci con la dichiarazione di guerra a Francia, Inghilterra, Russia, Serbia violarono i contenuti della Triplice. L’Italia resta neutrale, chiede all’Austria la riconsegna dei territori Italiani, Trento e Trieste, in cambio della neutralità, ma l’Austria non accetta. Iniziano i colloqui con l’Intesa, Francia e Inghilterra: l’Intesa garantisce in caso di vittoria la restituzione dei territori italiani, della penisola istriana e di altri territori nei Balcani. L’Italia entra in guerra il 24 Maggio del 1915 circa 55 anni dopo della sua unità nazionale, nelle peggiori condizioni possibili: l’analfabetismo è a percentuali altissime in tutta la nazione particolarmente nel Sud, di conseguenza moltissimi non conoscono i motivi della entrata in guerra. «Imperativo: concludere il risorgimento, dalla Sicilia alle Alpi». Nella nazione si apre un grande dibattito fra interventisti e non interventisti. Arriva la coscrizione. Dopo esercitazioni con un fucile di legno, i soldati sono inviati al fronte con un fucile che non sanno adoperare, con armi vecchie e insufficienti, comandati da incapaci privi di una cultura militare moderna: questi giovani soldati devono formarsi nell’inferno delle trincee.
Si impone subito la censura totale, la stampa non ha accesso, il paese non deve sapere cosa succede al fronte e praticamente il popolo italiano fu tenuto senza notizie per tutta la guerra. Si ricorda che non esisteva la radio e che i telefoni erano rarissimi. Nel 1918 si sigla l’armistizio, ma la guerra non ha risolto i problemi. L’Italia esce debole, l’Intesa violò gli accordi e non rispettò le promesse: la cosiddetta “vittoria mutilata”. I reduci sono abbandonati, tornano a casa con una promessa finanziaria da liquidare nel 1950. Il fascismo nascente reclutò molti di loro con false promesse. Nel 1939 inizia la seconda guerra mondiale, sono passati solo 21 anni di pace. L’Italia è alleata con la Germania nazista avendo stipulato un “Patto d‘Acciaio”, l’asse Roma – Berlino. La Germania attacca di sorpresa la Polonia che fa parte di un patto di assistenza con la Francia e l’Inghilterra, che di conseguenza dichiarano guerra alla Germania. L’Italia resta neutrale in quanto non era a conoscenza delle intenzioni operate contro la Polonia. I Tedeschi hanno un esercito preparatissimo, ben armato, con comandanti preparati che applicano tecniche di combattimento nuove riportando grandi successi particolarmente in Francia. Il Duce perde la testa, malgrado che i capi delle tre Armi lo sconsigliassero lui ha bisogno di un migliaio di morti per sedere con qualche successo al tavolo della pace. Il 10 Giugno 1940 entriamo in guerra in condizioni peggiori rispetto a quelle della Prima Guerra Mondiale: la storia ci ricorderà invasori. ! Sergio Paolieri Presidente della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci Prato, settembre 2014
Discorso degli studenti del Liceo Classico Cicognini di Prato Salve a tutti, sono uno dei rappresentanti del Liceo Classico Cicognini e porta voce della piccola delegazione che oggi a questo tavolo rappresenta gli studenti dell’istituto. Innanzitutto terrei a ringraziare calorosamente Sergio Paolieri, presidente dell’Associazione Combattenti e Reduci di Prato, per l’invito e tutta l’equipe che ha contribuito all’organizzazione di tale evento, ma soprattutto vi ringraziamo per aver permesso a noi, figli di un’era totalmente diversa da quella che voi un tempo conosceste, di venire a contatto con coloro che realmente scrissero la storia: e non parlo di chi realizza i libri scolastici prefabbricati su cui noi studenti passiamo le ore, bensì mi rivolgo alle persone che resero l’Italia una nazione, che esiliarono o deposero monarchi, despoti, tiranni o qualsivoglia altro soggetto che volle lo Stato sotto di sé , ma soprattutto che volle controllare un popolo, già da tempo pronto a governarsi. È grazie al vostro efficiente operato che viene annientata l’ignoranza e si accresce l’amore verso la propria nazione; a partire dalle scuole primarie, in cui ogni bambino apprende le fondamenta della propria conoscenza, voi lo rendete, per quanto si possa, un cittadino che in un futuro lontano o meno dovrà maturare la consapevolezza di avere dei doveri nei confronti del proprio stato, la stessa consapevolezza di cui furono promotori i 12 milioni di italiani che il 2 Giugno del 1946 votarono a favore della Repubblica, di un’Italia volta alla democrazia. Cito adesso Sandro Pertini, settimo presidente della Repubblica Italiana. Costui nel 1979 lanciò quello che adesso può essere letto come un monito, o comunque che noi giovani dobbiamo leggere come un avvertimento. Egli disse: «Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi».(Sandro Pertini, messaggio di fine anno agli Italiani, 1979) Ecco ogni parola è satura di significato, ma quelle che più devono farci riflettere sono «centinaia di giovani morti», persone che si sacrificarono con in mente un ideale, che sono il cuore di uno stato che meritatamente conquistò la democrazia e ne fece garante un documento di fondamentale importanza per ogni nazione, la Carta Costituzionale. Mi spiace per Pertini ma, a mio parere, non abbiamo mantenuto immacolato il nostro documento, anzi vi sono state fatte delle macchie che si ripercuotono sulla nostra na-
zione, spaventano coloro a cui voi ora passate il testimone ed intimoriscono le giovani speranze di un’Italia che merita di più, che ha una delle migliori costituzioni al mondo ma non riesce a supplire alle richieste che essa avanza. Sì se ormai non potete più difenderla come avreste fatto a 20 anni, potete invece dare a noi gli strumenti per mantenere la conquista tanto ambita. E questo fate impiegando il tempo a informare chi, per sua colpa o meno, lo passa invece nell’ignoranza, tra lamenti e prediche. Così istruite chi sarà vostro successore nell’impegno preso 68 anni fa. E per questo vi ringraziamo. Edoardo Bettazzi studente del 3° anno del Liceo Classico Cicognini Prato, 2 giugno 2014
Ringraziamenti Anche questo anno 2014 vede la pubblicazione di un nuovo volume di Ultime Voci, il settimo della nostra collana. Un volume importante sia per la mole (supera infatti le 140 pagine di testimonianze) sia per i contenuti presenti nel libro. Abbiamo infatti voluto riportare alcune testimonianze relative alla I Guerra Mondiale per celebrare il centesimo anniversario dell’inizio del conflitto. La
scelta di ampliare i limiti temporali della raccolta ha ovviamente richiesto un
lavoro maggiore a tutti quanti collaborano per la buona riuscita di questa pubblicazione, ed è a loro che va il merito se avete tra le mani questo settimo volume.
Vogliamo
perciò ringraziare per il loro contributo i volontari che ricercano e tra-
scrivono con pazienza ed amore le memorie dei soldati, e non solo, di cui tra poche pagine potrete ascoltare la voce.
Il nostro grazie per il loro lavoro va a Luana Cecchi per la sua attenzione ai fatti e alle vicende della Val di Bisenzio. a Silvana Santi Montini, che arricchisce la nostra raccolta con le sue commosse parole dedicate al padre. A Francesco Venuti per l’attenzione con cui legge e adatta le testimonianze e per il sintetico ed al tempo stesso esaustivo inquadramento storico. Al Presidente della Federazione di Prato Sergio Paolieri, per i continui stimoli affinché la pubblicazione proceda. Grazie infine ai tanti testimoni, che hanno scelto queste pagine perché raccogliessero e trasmettessero ai lettori le loro esperienze.
Indice delle testimonianze Pasquale Albano.........................................................................13 Rolando Bulletti..........................................................................39 Fernando Benvenuti....................................................................42 Bruno Fattori..............................................................................61 Umberto Mascii...........................................................................66 Loris Migliani..............................................................................69 Venturino Panicagli.....................................................................71 Aldo Quercioli.............................................................................77 Tosco Sarti.................................................................................90 1914 - 2014 Centenario della I Guerra Mondiale...........................99 Inquadramento storico..............................................................101 Storia della famiglia Cecconi......................................................104 I Cugini Fattori: Cesarino, Duilio e Mario.....................................111 Angiolo Lenzi............................................................................118 Arturo Massai...........................................................................120 Giuseppe e Benedetto Santi.......................................................132 Il contributo del La Briglia alla I Guerra Mondiale........................134 Fernanda Nocchi Zipoli..............................................................138 Marina Ciampi..........................................................................139
Volume settimo Pasquale Albano
Arruolato nel 2° reggimento di artiglieria contraerea Pasquale Albano fu inviato sull’isola di Rodi nel luglio del 1941, dove operò fino all’8 settembre, quando passò nelle file della resistenza italiana sull’isola. Catturato e deportato dai tedeschi, continuò la sua opposizione al nazifascismo anche in Germania fino alla fine della guerra. Quella che segue è parte di una ricca testimonianza lasciata al fine della pubblicazione nella nostra collana.
RICORDI Il dado è tratto Il giorno 10 giugno 1940, sul tardo pomeriggio, gli altoparlanti dall’alto delle piazze di tutta Italia e la radio trasmisero in diretta da Palazzo Venezia in Roma la storica e roboante dichiarazione di guerra, che il duce Benito Mussolini pro¬nunziò contro l’Inghilterra e la Francia: «Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria …» Il discorso era stato preceduto da invito e da squillanti inni fascisti; fra la gente accalcata ed in attesa nella piazza della Vittoria in Taranto, sui bianchi gradini del monumento ai Caduti, in piedi ero anch’io: su tutti pesava un’atmosfera premonitrice di storici eventi. Alla fine dell’annuncio, che interrompeva la precedente dichiarazione di non belligeranza, molti esplosero inneggiando al dittatore e ingiuriando i nemici, altri come me prudenti e pensierosi sgattaiolarono via dalla folla, preoccupati dell’avvenire. Si formò un corteo di scalmanati che, diretto da caporioni fascisti in camicia nera, continuarono per le vie della città ad imprecare contro l’Inghilterra, la “perfida Albione” 13
Ultime Voci e contro la Francia, la “Marianna infedele”; gli insulti si alternavano ad inni patriottici ed inni del regime: «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza ...»; il frastuono si spense soltanto col venire della sera, non più schiarita dalla illuminazione pubblica e dalle finestre aperte: l’oscuramento doveva essere totale affinché il nemico non vedesse dall’alto del cielo. Da oggi inizia il tempo delle tenebre: la vivace vita cittadina si spegne e le automobili incominciano a colorarsi di bianco per indicare nell’oscurità la loro presenza. In ognuno subentra l’istintiva ansia dell’incognito e la paura subentra quando la sirena squarcia l’aria per invitare la gente a rifugiarsi nei pochi ricoveri di cemento armato a semisfera o a rintanarsi negli scantinati degli edifici; nella notte il suono lugubre ed il buio si fondono e peggiorano la penosa congiuntura: bambini e vecchi, sani ed ammalati svegliati nel pieno sonno, sorretti dai più giovani che, dopo aver arraffato qualcosa per coprirsi, si so¬spingono frettolosamente verso il rifugio. Tutti si accalcano e vogliono entrare attraverso l’esigua porta; per un ancestrale istinto saltano fuori spintoni, grida e richiami; soltanto nell’interno subentrano il silenzio dell’attesa, rotto talvolta dall’irrefrenabile pianto di bambini, e la speranza di un breve allarme. La guerra tutti coinvolge e tutto sconvolge: chi ha la possibilità si dà all’accaparramento di beni, perché il contingentamento di essi con le tessere a bollini limita il consumo al minimo del bisogno; sorge il mercato nero. Tutte le energie devono essere rivolte ad alimentare lo sforzo bellico. Sui muri e nei luoghi di lavoro appaiono manifesti che raccomandano prudenza nel parlare:«Taci, il nemico ti ascolta!». Contro di questo è valido solo il detto:”Mors tua, vita mea” (La tua morte è la mia vita). Gli assertori della violenza non hanno mai notato che la Vittoria alata che si libra dall’alto del monumento ai Caduti, protende il serto di alloro non su persone vive, ma su persone morte anzitempo, violentate e straziate, le quali per il tragico destino non possono mostrare le loro ferite mortali ed opporsi ai nuovi clamori di guerra: il serto di alloro (la gloria) è valido per i vivi, esso non restituisce la vita ai morti. Il funereo silenzio di questi è di monito eloquente soltanto a chi è predisposto. Giacciono i Caduti perché altri uomini, accecati dall’orgoglio, dall’egoismo e dall’odio, non hanno imparato dalla storia umana questa assiomatica verità: Come prevedevo, un giorno di agosto mi pervenne per posta una cartolina precetto di colore rosa spedita dal locale Distretto Militare, nella quale si ordinava di presentar14
Volume settimo mi il 1° settembre 1940 alla Scuola allievi ufficiali di arti¬glieria contraerea di Nettuno. Cominciarono le prime rinunzie: dovetti lasciare l’impiego nell’Arsenale militare e abbandonare gli studi universitari. Partii per compiere il mio dovere di italiano: il dado era tratto, l’onore imponeva il rispetto del giuramento per il Re e la Patria. Alla fine dei prescritti sei mesi di corso fui nominato Pasquale Albano con la famiglia poco prima della sottotenente: avevo appreso così il maneg- partenza gio delle armi, nozioni di balistica, di comportamento e di regolamenti militari; fui dalla disciplina temprato alla obbedienza e ai sacrifici. Il 21 marzo 1941 fui avviato al 2° reggimento di artiglieria contraerea di stanza nel vecchio edificio dei “Granili” di Napoli, adattato a caserma, per trascorrere il periodo di prima nomina ed acquisire altre esperienze. La città partenopea estesa sul panorama luminoso del golfo, di giorno rumorosa e vivace, si immergeva di sera nel buio dello oscuramento, silenziosa e timorosa per il continuo pericolo di bombardamenti aerei. La permanenza in questa città durò soltanto fino al 21 giugno, perché dovevo porre in essere l’assenso, che avevo dato ad una richiesta di ufficiali volontari da impiegare in zona di operazioni oltremare, nelle isole Egee del Dodecaneso, nostro possedimento già dal 1911 a seguito della conclusione vittoriosa del conflitto contro l’Impero ottomano (turco). Intanto i bollettini di guerra informavano che in Libia le forze corazzate tedesche al comando del maresciallo Rommel e quelle italiane comandate dal maresciallo Badoglio respingevano l’invasore inglese fino ad El Alemein, oltre il deserto. Prima di raggiungere la caserma di smistamento di Barletta e da qui il porto di Brindisi, sostai a Taranto per due giorni di licenza: dovevo salutare e lasciare i miei vecchi genitori per un incerto ritorno. Ricordo mia madre trepidante: colle braccia mi teneva stretto al seno quasi fossi ancora bambino e, presaga, come volesse proteggermi col suo corpo da qualcosa. Sentivo di essere carne della sua carne, avvertivo il calore della sua guancia umida di lacrime sulla mia, mentre mi faceva all’orecchio mille raccomandazioni e lasciava scivolare nella mia tasca una medaglietta miracolosa della Vergine. Ricordo mio 15
Ultime Voci padre ammalato protendersi dal letto e tirarmi a sé per baciarmi: avvertii tutto il calore del suo amore e l’inespressa sua profonda sofferenza; seguiva i miei passi attento con gli occhi lucidi e, speranzoso del mio ritorno, mi benedisse. Caricai la cassa di ordinanza e la valigia sul taxi, che mi portò alla stazione. Il treno impassibile mi allontanò sempre più dai miei cari e dalla città e, avanzando verso Barletta, accompagnava col suo cadenzante andare i miei pensieri. Chi saprà leggere ora nei miei occhi le ansie e le gioie segrete? Chi saprà trovare una parola capace di scuotere il mio animo? Il 30 giugno mi imbarcai a Brindisi su di una nave passeggeri alla volta di Rodi: lasciavo la mia terra emozionato, con le immagini rattristanti dei parenti e con una incognita prospettiva. Nel buio e nel silenzio della notte, sveglio e nervoso mi distraevo, poggiato e chinato sulla spalletta di coperta, guardando giù lo sciabordio dell’acqua scivolare per la fiancata della carena, che procedeva sulla distesa marina al tremolo riflesso di una fetta di luna. Si navigava a velocità ridotta per limitare il rumore vibrante dei motori e soltanto di notte, facendo molti scali per limitare il pericolo di essere intercettati da sommergibili inglesi; in coperta giacevano sparsi legni e salvagente, utili in caso di sciagura. La paura, sentimento di umana natura, che non è codardia, era ben celata nel profondo animo di tutti noi viaggiatori, impossibilitati a difenderci dalle insidie sottomarine; precedenti notizie di siluramenti tenevano i nostri nervi a fior di pelle; frattanto si lasciava il mare Ionio per l’Egeo. La nave gettò le ancore al largo di Patrasso per farci visitare la città: sia sul mare che nell’abitato erano evidenti i segni recenti della guerra d’invasione italo-tedesca; dopo questa sosta ancor prima del tramonto la nave attraversò lentamente lo stretto di Corinto, tirata da un rimorchiatore pilota, fra le alte pareti senza il ponte sovrastante distrutto dagli aerei tedeschi Stukas. Dopo un’altra sosta al Pireo si navigò diritto verso la meta, zigzagando sempre di notte fra le numerose isole.
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Ultime Voci Destinazione: isola di Rodi Finalmente al tenue chiarore dell’alba del 5 luglio 1941, dopo cinque giorni dalla partenza, apparve il panorama della “città delle rose”: a sinistra le alte mura merlate colore mattone sorgenti dal mare, a destra per tutta la sua lunghezza il molo, che limita la rada del porto insieme alla riva a grande elle (L), su questa la bassa e lunga costruzione del mercato di Mandracchio e della Capitaneria, in fondo più in alto fra il verde la sagoma possente del castello, sede del Governatorato. A quella vista la mia fantasia ricostruì l’immagine del distrutto “Colosso di Rodi”, in piedi con le gambe divaricate, una sul molo ed una sulla riva e con il braccio destro teso sorreggere una fiaccola, quale faro per i naviganti: era una delle sette meraviglie del mondo antico; su questa isola si insediarono i Templari, detti poi Cavalieri di Malta, che combatterono in seguito contro i saraceni per liberare i luoghi santi. D’un tratto una voce dal megafono mi distrasse da queste reminiscenze scolastiche: il nostromo invitava allo sbarco. Dopo avere espletate alcune formalità nell’ufficio portuale militare, con la mia cassa di ordinanza e la valigia presi l’autocorriera per l’interno montuoso: si aprirono ai miei occhi panorami ameni di verdi piani tappezzati da macchie di rose rosse e bianche e da variopinti oleandri, di conche e valloni fra rocciosi e spogli declivi; il pullman arrancando e superando strettoie e curve in ripidi pendii arrivò nei pressi del piccolo e solitario paese di Sant’Isidoro. Qui scesi per recarmi alla sezione comando della 192* batteria autonoma contraerea in forza al 35° reggimento di artiglieria da posizione della Divisione Regina. Ad aspettarmi era il comandante della batteria e dei commilitoni, che dandomi il benvenuto, si accalcarono attorno chiedendomi di parlare dell’Italia: su tutti pesava il lungo distacco dalla madrepatria, tutti erano assetati di notizie. Mentre io parlavo, intorno ai miei scarponi annusavano e scodinzolavano due cani bastardi volpini e con essi quattro cuccioli che con i loro dentini tiravano a gara le stringhe dei miei calzari. Riuscii a scacciarli, corsero più in là ad addentare la coda di un maialetto, che infastidito li respinse con minacciosi grugniti. I cagnolini allora andarono a giocare attorno alle zampe di un 18
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pacifico asinello, addetto al trasporto di some sui sentieri montani; l’animale, scalpitando innervosito, alzò il muso ed emise un sonoro raglio, che allontanò gli importuni. Questa sezione era a guardia di alcuni depositi dell’aviazione militare e per il collegamento con l’osservatorio marittimo ed aereo istallato sulla cima del monte Attairo, il più alto (1200m). Più volte dovetti scalare questa altura con i miei uomini, superare strettoie di massi calcarei e lastre tettoniche scoscese; la faticosa meta era però premiata dagli ampi e profondi respiri di aria sottile e fresca e dal meraviglioso spettacolo di verdi colline degradanti fino alle circostanti lunghe coste, bianche di spuma. All’inizio della salita sostavo presso la riva di un piccolo torrente, che sgorgava più in alto da una apertura della rupe; le limpide e fresche acque, turbinando e mormorando, scorrevano fra il rigoglioso verde fin sotto un rudere di vecchio mulino. Qui venivo spesso, seduto ad un masso in compagnia dei miei pensieri, e godevo della serenità idilliaca, che la natura mi offriva. Ho dovuto molte volte turbare questa preziosa quiete col crepitio delle mitragliere per ostacolare il passaggio di aerei nemici sul nostro pezzo di cielo. 19
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Ultime Voci La nostra resistenza Il giorno 8 settembre 1943 fu firmato l’armistizio fra la sconfitta Italia fascista e gli Angloamericani. La stessa sera ebbi un fonogramma dal comandante la batteria Ten. Caldera Vittorio con l’ordine di massima vigilanza e di agire con estrema energia ad eventuali atti ostili di forze estranee (leggi: tedesche); nell’isola vi erano consistenti forze germaniche, che insieme a quelle italiane avevano concorso al presidio dell’isola. Da quel momento fu evidente che i nemici non erano più esterni, ma erano fra noi, in casa; per questo ci colse l’ansia e fummo costretti a continua ed estenuante vigilanza, trascorremmo la veniente notte insonne. Il giorno successivo verso le 16 e 30 rombi di artiglieria provenienti dalla località di San Marco, ove era il comando zonale, attrassero la nostra attenzione. Telefonai in batteria. Il centralinista mi rispose che non aveva alcuna notizia ed aggiunse concitato e sotto voce che erano presenti militari tedeschi, i quali avevano catturato gli ufficiali del sotto settore, tra cui il comandante del settore Tullio de Calò ed il comandante di batteria; avevano disarmato e rinchiuso tutti i commilitoni in camerata, guardati a vista da sentinelle, ed avevano lasciato solo lui presso il telefono. La cattura dei nostri ufficiali era avvenuta con inganno: gli ufficiali tedeschi da vecchi camerati, simulando un saluto di commiato, puntavano invece le pistole ed intimavano il disarmo e la resa. Il loro agire perfido e machiavellico ci portò perdite e lutto. Ecco un episodio dimostrativo: subito dopo l’armistizio alcune ambulanze col distintivo della Croce Rossa salirono sul monte Paradiso e sul monte Filéremo, vicino quest’ultimo alla mia precedente destinazione, con la scusa di evacuare alcuni ammalati tedeschi e del materiale; all’improvviso si aprirono le porte e, come feroci banditi, sbucarono militari tedeschi dei reparti assaltatori, distruggendo tutto quello che era attorno con lanci di bombe a mano e lanciafiamme, nella eroica reazione dei nostri persero la vita numerosi artiglieri e con questi il mio amico, capitano De Pasquale. Nell’ assalto fu danneggiato il santuario mariano di cui ho scritto avanti. Anche l’altra sezione, che era al lato sud del campo, fu resa innocua allo stesso modo. L’unica forza italiana indenne ed agibile a difesa del campo era rimasta la mia. Le notizie di quanto accaduto mi erano pervenute grazie alla mia linea telefonica, la sola funzionante, perché l’avevo fatta istallare dai soldati fin dall‘inizio dell’insediamento del mio reparto, non volante ma interrata e ben protetta da non potersi notare. L’allerta era al massimo. Erano circa le ore 17, allorquando dall’altura di Cumene, alla 22
Volume settimo mia destra, scoppi di bombe di cannoni si avvicinavano sempre più, sollevando colonne di fumo e detriti; notai che il tiro era diretto contro una formazione militare tedesca, che scendeva con una batteria di quattro grossi cannoni da 88mm trainati da trattori. La batteria, di fabbricazione germanica, era stata sottratta agli italiani con il solito inganno e con la forza. Il convoglio, giunto nella pianura evitava la strada camionabile e si defilava tra la vegetazione periferica del campo, scomparendo alla vista, mentre i tiri della nostra artiglieria montana, continuavano ad inseguirla senza colpirla. Il fuoco cessò soltanto quando gli scoppi furono nei pressi del mio caposaldo. I colpi erano infatti partiti dal nostro 40° Gruppo del Mag. Bisesti, perciò capii che quel reparto armato germanico doveva essere catturato o distrutto: faccio notare che ogni tipo di comunicazione fra comandi e reparti italiani era impossibile. I tedeschi avevano tagliato tutte le linee telefoniche per attuare i loro piani, previsti e redatti dopo la caduta di Mussolini; avevano aumentato anche le loro forze poco prima dell’armistizio con una nuova divisione corazzata, la “Rhodos”, e con reparti d’assalto, composti da uomini della peggiore risma, prelevati dalle carceri. Di questi nuovi contingenti non fu dato alcun preavviso ai nostri comandi, che accettarono il fatto compiuto dopo verbale e debole reazione. Tutto l’agire nella zona era rimesso solo al mio personale intuito e alla mia capacità di reazione. L’attesa per scoprire la direzione di marcia della formazione tedesca sembrò lunga, fino a quando a circa 500 metri spuntò fuori dalla vegetazione una moto con sidecar e mitragliatrice seguita da un fuori strada con uomini armati, che si immettevano sull’unica pista percorribile conducente al mio caposaldo, limitata a destra da una alta barriera vegetale e a sinistra alle mie spalle dal declivio della collina. I militari tedeschi evidentemente non conoscevano, né ebbero contezza della esistenza del mio caposaldo, perché il reticolato impalato che limitava tutto il caposaldo, le mitragliere circondate da terrapieno e da sacchi di sabbia, la piccola cappella di San Nicola al centro di tutto l’apparato ad uso di camerata ed a cui era addossata la mia tenda, il deposito delle munizioni interrato in una piccola cripta vetero-cristiana con loculi e resti di affreschi, erano tutti mimetizzati con rami, rovi e fogliame in modo tale che anche a qualche decina di metri di distanza era difficile notarli. Il nemico ignaro così della nostra presenza, continuava il suo cauto e lento procedere, mentre io quale responsabile del caposaldo, della vita dei miei soldati e della mia stessa, riflettevo sul modo migliore ed onorevole di affrontare l’evento: aspettavo che fossero 23
Ultime Voci sotto tiro almeno tre dei quattro cannoni, affinché l’esiguo resto della formazione nascosta dalla vegetazione non fosse abbastanza potente da reagire efficacemente alla mia azione. Il sidecar e la camionetta, come staffette, intanto avanzavano ed aprivano il cammino ai trattori trainanti i potenti cannoni: tre di questi, come avevo previsto, erano usciti allo scoperto, l’ultimo si attardava dietro la folta vegetazione. Il primo mezzo tedesco era ormai dal nostro reticolato distante meno di 100 metri. I miei soldati, dalla trincea e dietro i terrapieni, puntavano e se-guivano i bersagli con fucili, mitragliatrici e mitragliere ad alzo zero; i servitori erano pronti a catena umana, dal deposito alle postazioni, in corridoio interrato, per fornire le munizioni. Tutti aspettavano un ordine; stava per scoccare il momento di una fatale ed indifferibile azione: le facoltà fisiche e spirituali degli uomini erano unite e pronte a questi soli intendimenti: onorare la Patria, difendere la nostra libertà e vendere a caro prezzo la vita. Colsi l’attimo favorevole, girai velocemente lo sguardo attento a tutti i miei soldati, strinsi idealmente in un unico amplesso i miei cari e affidandomi al mio Dio, gridai: «FUOCO!». Fu l’istante più tremendo della mia giovane vita, perché bersaglio dei miei colpi erano uomini, anch’essi componenti preziosi di ansiose famiglie! Vi sono momenti in cui il compiere un’azione, che contrasta con il proprio sentimento etico, è necessario e doveroso; ciò procura però ad un’anima sensibile molto dolore ed incide per sempre nel profondo della sua psiche. Raffiche di proiettili traccianti da 20 mm, perforanti e dirompenti, partirono con crepitio assordante contro gli inconsapevoli ex amici, por-tando fuoco e morte: come avevo ordinato, la mia prima mitragliera diresse il tiro contro la camionetta su cui era il comandante, incendiandola; l’altra colpì il primo ed il secondo trattore, subito dopo ambedue tirarono sul terzo; l’ultimo trattore, ancora dietro la vegetazione, al fragore degli scoppi si fermò e fu abbandonato insieme al cannone. Dal primo mezzo tedesco fra fuoco e fumo un panno bianco agitato freneticamente spuntò in segno di resa. I militari erano stati sorpresi e resi incapaci di ogni reazione: si confermò così, ancora una volta, il principio secondo cui la sorpresa è la prima condizione di successo. Formai subito tre squadre: la prima comandata dal sergente maggiore Marcucci, che con armi alla mano andò incontro agli arresi per farli prigionieri; la seconda e la terza di24
Volume settimo retta dal caporale maggiore Losapio per aggirare, circondare e catturare coloro che erano fuggiti e nascosti nella vegetazione allo scopo di evitare che questi, protetti dalla oscurità della veniente notte, tentassero azioni di contrattacco. La prima squadra tornò portando con sé sette prigionieri, di cui quattro feriti lievi e mi informò che erano rimasti uccisi due tedeschi di nazionalità austriaca: il caporale maggiore Hans, che affiancava il conducente del primo trattore, e l’artigliere Darnich; la seconda e terza squadra catturarono altri cinque militari. Feci prestare le prime cure ai feriti e li inviai subito scortati all’infermeria di reparto; permisi ai prigionieri di seppellire i propri caduti concedendo l’onore delle nostre armi; li feci rifocillare con la nostra scorta di viveri e, rinchiusi nella ex cappella, li lasciai riposare sulle brande; interrogai e parlai loro della insensata crudeltà della guerra che ci aveva portato ad essere nemici senza motivo di odio personale: in quel momento vidi il mio volto nei volti sofferenti dei catturati: scoprimmo di essere umane creature travolte dalla stessa tragedia. La lingua tedesca che avevo imparato al liceo mi fu di grande aiuto in queste vicende. In tutta l’isola furono catturati diverse centinaia di prigionieri germanici, ai quali la generosità italiana non torse un capello. Non potendo portare i cannoni nel caposaldo, due miei artiglieri li resero inutilizzabili asportando i congegni di percussione, altri rastrellarono le armi leggere abbandonate e s’impossessarono della moto col sidecar. Il mattino dopo fu rinvenuto nascosto nella vegetazione un altro militare tedesco, ferito da schegge ad una gamba, che inviai subito in infermeria per le cure del caso. La mia sezione non subì alcun danno in uomini e materiali. La veniente notte fra il giorno 9 ed il 10 fu trascorsa ancora nella massima vigilanza. I tedeschi, che avevano agito contro i nostri comandi e reparti di zona, ormai senza possibile riuscita di altro tentativo di sorpresa a seguito della mia azione, abbandonarono la piana di Cattavia e rilasciarono i prigionieri italiani, che avevano catturati con l’inganno, portando via però tutte le armi: furono liberi il mio superiore ten. Vittorio Caldera e tutti i componenti della due sezione di batteria Potei così alleggerirmi del carico dei prigionieri tedeschi che ingombravano i giacigli dei miei soldati inviandoli alla sezione comando, ove era maggiore possibilità di accoglienza. La mattina di buon’ora venne a piedi nel caposaldo il comandante liberato, per congra25
Ultime Voci tularsi ed elogiare tutti per la riuscita azione e rientrò alla base pilotando la moto sidecar che avevo sottratto ai tedeschi; lo stesso giorno mi inviò per rinforzo dieci fanti e quello successivo altri ancora. Era l’11 settembre 1943, da tre giorni mangiavamo viveri di emergenza, cioè gallette e carne in scatola: il rancio non poteva essere né fatto né ritirato dalla cucina zonale. Era questa l’ora meridiana, allorquando vedemmo venire dal viottolo, che conduceva all’abitato di Cattavia, in processione pastori e contadini con donne e bambini, preceduti da due robusti uomini reggenti faticosamente un’asta a cui era appeso dondolante un nero pentolone e, giunti presso il nostro recinto, ad alta voce uno di loro ci invitò a ritirare il contenuto di pasta asciutta per festeggiare la nostra riuscita azione e lo scampato pericolo dalla signoria tedesca; vollero dare così anche un segno di concreta gratitudine per il rispetto che noi italiani avevamo delle loro proprietà agresti. Al tramonto dello stesso giorno altri due uomini consegnarono a noi affamati una cesta colma di pane e due grossi cocomeri. Si privavano delle loro preziose razioni alimentari! Gli abitanti erano rimasti in paese, nonostante il consiglio del maresciallo dei carabinieri di abbandonare le abitazioni e di rifugiarsi sui monti: si temeva un contrattacco dei tedeschi, ma si sperava anche nell’aiuto degli inglesi. Questi invece si limitarono a lanciare sull’isola volantini con l’invito alla resistenza. La deportazione Fu dato ordine ai militari italiani di concentrarsi presso i propri comandi di unità in attesa di altre disposizioni. Nacque uno sbandamento generale, perché i soldati delusi si trovarono inaspettatamente privi della guida e dell’autorità dei propri ufficiali, con la prospettiva della privazione della libertà; per sottrarsi a ciò molti si videro costretti ad indossare abiti civili e a confondersi fra la popolazione rodiota o a trovare scampo nella fuga per mare, nella vicina Turchia neutrale; a me fu data la possibilità di sottrarmi alla cattura, ciò che respinsi per ovvie ragioni: migliaia di disperati militari e civili trovarono la morte sui natanti, mitragliati da aerei della Luftwaffe o affondati dalle guardie costiere; un accurato rastrellamento per tutta l’isola snidò in seguito i travestiti e i latitanti. Da questo momento sui residenti delle isole del Dodecanneso si rovesciò, come se non bastasse, una progressiva carestia, perché le forze marittime anglo-americane impediro26
Volume settimo no sempre più con l’assedio ogni rifornimento di merci. Io ed altri colleghi dovemmo rientrare presso il comando di batteria. Era il giorno 14. Alla notizia che avremmo abbandonato alle ore dieci il luogo, spinto dal breve tempo, inforcai una bicicletta, corsi a tutta ruota verso il paese per salutare gli amici, tra cui una soave fanciulla di nome Fotinì, che mal celava i suoi sentimenti di simpatia verso di me: veniva a curare l’orto al di là del reticolato e col canto voluto mi rivelava la sua presenza. Dopo gli abbracci, i saluti nella commozione e i pianti specialmente delle donne, ripresi subito la via del ritorno con il cuore in gola ed un sacchetto pieno di uova e formaggio. La partenza dalla zona di Cattavia avvenne invece il pomeriggio alle ore 15 e 30, dopo circa 26 mesi di servizio; rimasero in me tanti rimpianti e ricordi: le fatiche e i sacrifici, le notti insonne, i visi delusi e depressi dei miei cari soldati, il bravo attendente Calzecchi Orlando di Perugia, i luoghi verdeggianti eppure assolati, la mia tenda per quanto piccola ma riposante, i libri che avevano riempito le attese, il volto bruno di ragazze cipriote ed anche le armi, che tanto avevano servito alla nostra difesa, ed infine il fido cane Bianchino, che durante la permanenza a Rodi mi aveva seguito con i suoi occhi ora vivaci ora tristi, quasi rispecchiasse il mio stato d’animo. Arrivò l’ora del distacco: dovevo partire per l’aeroporto di Gadurra a sud dell’isola in attesa di imbarco per la deportazione; il cane, come presago del tristo evento, mi stava attorno; l’autobus arrivò; mentre salivo, la bestia sgattaiolò fra le mie gambe e si nascose sotto un sedile, dovetti smuoverla con sofferenza con l’aiuto del conducente e una volta in marcia la seguii con lo sguardo, mentre la corriera vinceva il suo disperato correre dietro: scomparve così Bianchino nell’aria polverosa della strada, ma non nel mio affettuoso ricordo! Per quattro giorni rimasi con altri ufficiali in aeroporto, alloggiato in stanze di soggiorno; la certezza che mi aspettava un lungo periodo di penuria mi fece riempire all’inverosimile uno zaino, che avevo trovato sul posto, e una valigia di legno compensato con cose preziose; mi appropriai di una coperta di lana da utilizzare per il freddo del nord. Durante questa sosta, ripetute scosse di forte terremoto furono triste segno premonitore, che mi obbligarono per due notti a dormire all’aperto. Alle ore 23 e 30 del giorno 17 fummo destati per la partenza con il solito imperativo «raus» (fuori); guardie armate ci condussero in fila per due con le nostre cose presso gli aerei Junkers; prima di salire dovemmo consegnare la pistola: in molti riuscimmo nella 27
Ultime Voci oscurità a togliere il percussore e a rendere l’arma inservibile. Ci disposero seduti affiancati sui due lati della fusoliera, guardati a vista da due militari armati. Il velivolo rullò sulla pista per pochi secondi, cabrò e s’immerse nel cielo buio in un assordante e continuo rombo, a cui facevano eco con patema i battiti dei nostri cuori; fioche lampade illuminavano i volti, che tesi tentavano di portare lo sguardo oltre l’oblò per scoprire la rotta, ma l’impenetrabile oscurità della notte tenne il segreto. Il volo durò 2 ore e 40 minuti, ricordo che all’arrivo il velivolo virò a sinistra in modo che io, guardando dall’oblò, vidi nell’oscurità dei puntini luminosi corrermi incontro, mentre sentii il mio corpo sollevarsi: era l’atterraggio sulla pista dell’aeroporto di Tatoi di Atene. Restai in questa capitale fino al 28 dello stesso mese. Durante i dieci giorni di permanenza, a noi ufficiali fu dato il permesso dal comando tedesco di andare in libera uscita per la città sotto condizione del rispetto della parola d’onore. Il primo pensiero fu di far pervenire un messaggio rassicurante ai miei genitori certamente angustiati dalle notizie date dai bollettini di guerra sui combattimenti a Rodi. A tale scopo mi recai alla Nunziatura Apostolica, la quale dopo alcuni giorni fece trasmettere dalla radio vaticana quanto avevo chiesto; in più arrivò ai miei anche un telegramma. Colsi l’occasione per visitare i luoghi storici della città ed ammirare le bellezze classiche che la scuola mi aveva fatto conoscere sui libri: l’Acropoli col maestoso Partenone e con l’Eretteo aggraziato dalle femminee cariatidi. Io ed il compagno Scorrano di Gallipoli, insegnante elementare, approfittammo di fare anche una visita al porto del Pireo; sostammo a pranzare in una delle bettole prospicienti al mare e frequentate dai marinai del porto. Il mio pranzo, composto di minestra di pesce, carne, verdure e vino canforato, costò 35 mila dracme inflazionate, pari allora a 235 lire. La nostra precaria condizione ci consigliava di spendere tutta la valuta cartacea in possesso, per ciò utilizzai la rimanenza per acquistare al mercato nero due chili di fichi secchi ed un chilo e mezzo di pane di farina di mais, che mi furono utili nei lunghi giorni della deportazione verso la Polonia. Era l’alba del 28 ottobre 1943, forse sognavo che avrei festeggiato fra due giorni ad Atene il mio ventiseiesimo compleanno, allorquando un grido imperioso mi svegliò col solito “raus-raus!” (fuori-fuori!); ancora assonnato mi vestii in fretta, raccattai la mia roba, arrotolai la coperta e con il fardello di circa trenta chili del voluminoso zaino sul groppone e la pesante valigia mi incolonnai curvo con altri per raggiungere i camions in attesa. Attraversammo tutta la città, passammo davanti al lungo e maestoso palazzo reale, 28
Volume settimo fra discreti cenni di saluto della gente, e giungemmo infine alla stazione. Qui incolonnati, le guardie ci spinsero ad entrare con i soliti “schnell!”. Su un binario morto un lungo treno con carri dal colore rosso terreo era disteso, mentre la locomotiva a carbone sbuffava impaziente. La colonna dei deportati si fermò davanti ad esso e, divisi in gruppi, salimmo tutti per le ampie porte dei vagoni “bestiame”, assordati dall’incomprensibile sbraitare delle guardie, che con gran da fare ci so-spingevano agitando i fucili, e dall’abbaiare dei cani, che aizzati dal guinzaglio, ci mostravano minacciosi i denti; in fine con un secco botto le porte scivolando si chiusero, assicurate da catenacci. Fuori avevamo lasciato il libero spazio ed il cielo luminoso di Grecia, mentre dentro eravamo ristretti con i bagagli: il distendersi di oltre quaranta persone sul nudo tavolato era impossibile. Tutto era immerso in una penombra per la luce, che a mala pena entrava dalle due rettangolari alte aperture, arabescate da filo spinato con impenetrabili volute; ad un angolo una cassetta di legno a forma di cubo con foro superiore (abort) attendeva ai servizi biologici, vicino a questa una stufa cilindrica con tubo di scarico immesso nel varco di luce; al centro del vagone dondolava una lampada a petrolio tipo carrettiera. La stufa e la lampada non furono mai messe in uso: erano forse lì per ironia o per nostra umiliazione! In questi vagoni il giorno e la notte erano uguali e interminabili, per due settimane, senza tempo come all’inferno: man mano che il convoglio avanzava verso il nord il freddo anticipato e terribile del 1943 ci penetrava fin nelle ossa; la risposta ad ogni stimolo era fuori del normale: la suscettibilità ed il nervosismo, l’egoismo e l’istinto della sopravvivenza procuravano in molti di noi forti reazioni anche ad inesistenti offese; ognuno di noi cercava un posto o una posizione la meno scomoda per riposare almeno seduto sul nudo tavolato. La testa poggiata su duro cartoccio sobbalzava con sofferenza ad ogni scuotimento del vagone, mentre i bagagli molestavano i corpi semi distesi ed irritabili. Si desiderava dormire e non si poteva, si tentava di variare la postura e se ne trovava un’altra più fastidiosa. Per quindici giorni! I nostri indumenti intimi ed i vestiti erano sempre quelli come i viveri, formati da fette di pane di segale raffermo, accompagnato da tavolette di margarina o da qualche porzione di scatoletta di carne; l’acqua era fornita solo per riempire le boracce. I nostri ex amici e cobelligeranti nazisti erano particolarmente astiosi verso noi prigionieri italiani, perché con l’armistizio dell’8 settembre non eravamo rimasti fedeli al co29
Ultime Voci siddetto patto di acciaio, l’ “asse Roma–Berlino“, e avevamo anzi reagito contro di loro e non aderito alla R.S.I. fascista (Repubblica Sociale Italiana): in un dispaccio segreto del Comando germanico del Sud-Est, intercettato dai servizi anglo-americani, si raccomandava ai subordinati di trattare gli italiani retrivi come “feccia e traditori“. I tedeschi però dimenticavano volutamente che tutti i militari italiani avevano difeso strenuamente sui campi di battaglia l’onore della Patria con armi impari ed il popolo aveva sopportato i devastanti bombardamenti delle città e le privazioni con silenzioso eroismo. La resa agli anglo-americani fu inevitabile, non soltanto per la sconfitta dell’esercito italiano, ma anche per i crescenti rovesci dello stesso esercito germanico: insieme, italiani e tedeschi, avevano contrastato invano le superiori forze nemiche sia in Libia che nel Meridione, decisamente raffor-zate queste dall’ingresso nella lotta dell’America con tutto il suo grande potenziale di uomini e mezzi. Le difese delle coste siciliane non erano riuscite a stendere il nemico sul “bagnasciuga” come aveva presuntuosamente minacciato il Duce, anzi le forze anglo-americane rotte le difese avanzarono nel Meridione e con lo sbarco ad Anzio costrinsero le forze dell’ ”asse” ad indietreggiare oltre Roma fino alla cosiddetta “linea Hitler”. Bisognava tentare di evitare un irreparabile ed estremo disastro, ecco perché il controverso armistizio: salvare il salvabile! I nostri comandanti in Italia e fuori non furono all’altezza della nuova critica situazione e portarono tutti nel caos con le loro disposizioni: i reparti e i singoli militari furono abbandonati a se stessi; non vi fu alcun coordinamento unitario fra comandi e forze ancora valide per contrastare l’evidente occupazione tedesca. In particolare a Rodi vi fu incertezza e impreparazione da parte del Comando della Divisione Regina e mancanza della necessaria fermezza ed energia da parte del Governatore ammiraglio Igino Campioni, il quale, dopo avere ordinato la resa, fu dagli stessi tedeschi tradotto insieme ad altri in Italia e, a maggio 1944 con un processo sommario del tribunale militare fascista di Parma, fu condannato a morte per avere tentennato a schierarsi a favore dei fascisti. Reparti e forze marittime, terrestri ed aeree agirono spontaneamente e separatamente sia in Italia che fuori contro la occupazione germanica. In tutto lo scacchiere del Dodecanneso la disunita opposizione alla protervia nazista sfociò nel sacrificio della vita di 1500 militari italiani, con 13500 fra annegati e dispersi nelle acque del mare Egeo e con 25000 deportati nei lager. 30
Volume settimo La resistenza non è stata combattuta soltanto sul suolo italiano dagli osannati partigiani, ma anche da chi fuori dalla madrepatria ha contrastato spontaneamente e con sfortuna l’occupazione tedesca e, deportato nei campi di prigionia, non ha collaborato e non ha aderito agli inviti allettanti nazi-fascisti, esponendosi al sacrificio estremo della salute o della vita. Il nostro viaggio continuò fra snervanti fermate; restavamo chiusi nei carri in sconosciute stazioni, sentivamo che altri lunghi treni con vagoni “bestiame” passavano o si fermavano accanto al nostro: le voci di richiamo, le percussioni sulle pareti dei carri e le teste di persone dietro le finestrelle spinate ci mostravano che altri carichi umani andavano verso un incognito destino; talvolta la nostra attenzione era richiamata da voci lamentose e supplichevoli di donne e di bambini di ogni età. Si guardava dai varchi di luce e si rispondeva con cenni di pietoso saluto, intanto fuori le guardie tedesche controllavano la chiusura delle porte, intimavano il silenzio e minacciavano il peggio: “kaputt!” (morte!). Anche su donne inermi e bambini innocenti si stava consumando una grande infamia! Il 13 novembre alle prime ore del mattino, dopo 15 giorni dalla partenza da Atene, arrivammo finalmente a destinazione. Dove? … L’ansia ci fece trepidare; era in gioco la nostra sorte; eravamo giunti in una piccola stazione ad ottanta chilometri ad est di Varsavia, in Polonia, poco distante dal confine russo: scoprimmo di essere a Siedlce, una cittadina dal nome a noi del tutto sconosciuto. Lo scuotimento ed i sussulti dei vagoni in marcia, la durezza e l’insufficienza del giaciglio avevano reso doloranti tutte le nostre ossa, mentre gli orecchi erano rimasti assordati dal cadenzante frastuono delle ruote che tanto avevano corso sulle ferree rotaie: la testa sembrava scoppiasse. Lo stato bestiale aveva frustrato perfino lo spirito più gagliardo. La piccola stazione, come se si fosse accomunata alle nostre pene, ci accolse in un desertico silenzio tombale, immersa in una distesa bianca trapuntata da radi ed alti tigli, i cui contorni svanivano nell’aria nebbiosa. Soltanto la nera locomotiva spiccava sul bianco manto e, ansimante a ritmo di stantuffo, lanciava fiotti di bianco e caldo vapore; sulla neve rimanevano soltanto i lunghi e profondi solchi delle ruote. Alla nostra vista centinaia di neri corvi sorti quasi dal nulla svolazzarono all’improvviso e, gracchiando sopra di noi come lugubre saluto, svanirono nel cielo plumbeo. Ogni cosa sembrava prendesse chiarore non dalla volta celeste ma dall’immensa distesa nivea della terra e tutto si confondeva senza limite e contorno. Il buio del vagone aveva assuefatto i miei occhi all’oscurità e, quando 31
Ultime Voci le grandi porte scivolarono per l’apertura, il candido bagliore del manto nevoso quasi mi accecò; impacciato dal bagaglio, ansioso e smarrito scesi: lentamente mi si aprirono i contorni di un surreale scenario, che tanto mi colpì da rimanere ancora oggi tenacemente impresso nella memoria. Le guardie tedesche fra ordini di “raus!” e “schnell!” ci spinsero ad incolonnarci e a marciare fino al raggiungimento del lager: di nuovo come un funereo serpente di eterogenei e fiaccati automi, la formazione si snodò, arrancando e lasciando dietro di sé le orme profonde dei calzari. Il peso dei sacchi, che talvolta cadevano e rimanevano abbandonati, piegavano i nostri corpi; il vapore del fiatone affannoso gelava sulle labbra insieme alle goccioline che scendevano dal naso e coloravano di bianco le sciarpe, gli stracci che tentavano di riparare il viso dal sibilante e gelido vento polare. L’aria attraversava ad ogni inspirazione il naso o la bocca senza riscaldarsi e, penetrando fredda nei bronchi, dava sofferenza. Con ostinazione stringevamo i denti per vincere le fitte dolorose e per superare lo sforzo di avanzare sulla neve, che scivolosa cedeva talvolta con scricchiolio sotto i nostri piedi appesantiti. Il sottile nevischio spinto orizzontalmente dalla bora penetrava in tutti i varchi, le fessure dei nostri indumenti e bagnava e gelava nell’interno. Era rimasto in noi soltanto un ultimo disperato anelito di sopravvivenza; curvati dal peso delle nostre preziose cose, alzavamo spesso lo sguardo in avanti per vedere se apparisse finalmente la meta; apparvero invece confuse sagome di caseggiati e fra di esse due snelle e parallele strisce, che sfumate si innalzavano dalla terra verso il cielo: erano i pinnacoli della cattedrale gotica del paese. Dovevamo ancora marciare! Passo dopo passo, barcollando barcollando attraversammo l’abitato; delle mani pietose polacche si stesero per offrirci qualcosa, ma la brusca minaccia delle guardie tedesche respinse ogni generosità. Al termine della faticosa marcia, su un’ampia ed ancor bianca neb-biosa spianata, apparve l’ingresso del campo: una grande porta a cancello a due ante, retta da alti e scuri pilastri. Questa subito fu spalancata e, come una enorme bocca infernale, ci ingoiò e si chiuse alle nostre spalle: eravamo nello Stalag 366! Campo di deportazione dal quale nessuno di noi poteva uscire se non col rischio di morte. Il lager era tutto recintato da una doppia barriera di filo spinato tirato e ripiegato in alto verso l’interno del campo, mentre sotto correva altro filo aggrovigliato ed un largo e profondo fossato. Alla sommità di questo era teso su paletti di legno e isolato elettricamente un altro filo sul quale circolava energia elettrica; delle targhe scritte avvisavano di 32
Volume settimo non toccare e di non oltrepassare. Completavano l’apparato per scoraggiare l’evasione le alte torrette di guardia lungo il perimetro del lager. Tutta questa triste struttura appariva appena nell’immensa distesa della coltre nevosa, che si perdeva in un invisibile e grigio orizzonte; dal filo spinato, dagli spioventi delle baracche e dalle cornici delle finestre pendevano stabili e lunghi cristalli di ghiaccio; per tutto il tempo della mia permanenza in questo luogo il cielo basso e fumoso impedì al sole di effondere luce e calore. Varcata la soglia, dovemmo sostare all’aperto per la cosiddetta “conta”, cioè per il controllo del numero degli arrivati e di quelli da conse-gnare: ricordo che per potere reggere il gelo, fra stridori di denti battevamo le braccia sul petto e saltellando giravamo su noi stessi; i competenti dicevano che la temperatura era al disotto dello zero di oltre 20 gradi Celsius; la maggiore parte di noi proveniva da zona di guerra con clima mite, per cui indossava indumenti leggeri; le calorie che ci fornivano gli alimenti erano al limite di sopravvivenza. Le parti che più soffrivano erano le mani e i piedi: dapprima erano colpite da diffuse trafitture dolorose e poi, anchilosate dal gelo, restavano insensibili ad ogni stimolo per sopravvenuta paresi: era il congelamento! Alcuni colpiti da questo male, si accasciavano a terra e, soccorsi dai compagni, venivano portati a braccia in infermeria. Le scarpe e i guanti erano i beni più preziosi, se bagnati però divenivano per il gelo il peggiore nemico. Il mio giovane corpo aveva superato finora, anche se con molta sofferenza, una terribile prova. La resistenza continua I giorni trascorrevano sempre nella speranza del meglio, invece il disagio cresceva per l’inedia e portava all’abulia e alla depressione: spesso nostri connazionali scomparivano nel silenzio per malattie o per morte! La propaganda fascista nell’intento di ottenere adesioni alla R.S.I. (Repubblica Sociale Italiana) continuava frattanto la sua opera fra gli internati affamati e talvolta coglieva qualche frutto; raccolse la seduzione un carissimo amico di adolescenza. Gli aderenti venivano mostrati al di là del reticolato mentre consumavano abbondanti pasti. Arrivò maggio 1944. La primavera esplose anche qui: verdeggiava e coloriva a scacchiera con fiori prataioli la pianura oltre il recinto del filo spinato; le nuvole non coprivano più come una cappa la terra, ma a cirri alti e radi permettevano al sole di penetrare e di 33
Ultime Voci riscaldare il torpore invernale. Io seduto sul gradino d’ingresso della baracca, guardando dintorno il prato, riportavo alla mente le adolescenziali scampagnate: stendevo la mano per cogliere fra i fiori una margherita, ne strappavo i bianchi petali ad uno ad uno, chiedendo: “Mi ama? – Non mi ama?“ Qualunque fosse l’esito, restavo nella mia beata indifferenza e riprendevo spensierato il mio andare. Ora i fiori sono al di là dalla mia portata, della mia libertà: il tentare avrebbe suscitato la reazione mortale della guardia, lassù dalla torretta! La nuova stagione si riflesse beneficamente sul nostro essere: finalmente potevamo togliere i molti stracci che ci coprivano, lavarli e curare di più il nostro corpo; le adunate per la “conta” non ci sembravano più snervanti e penose; potevamo appendere al sole quanto lavato e godere seduti per terra il tepore che la natura ci donava. Molto fastidio ci arrecarono le zanzare, che ronzando nelle camere dopo il tramonto, cercavano di succhiare l’impoverito sangue delle vittime: il loro mol-tiplicarsi era agevolato dall’acqua stagnante di un ampio e basso fossato esistente fra le baracche; il terreno argilloso di questo però mi fu utile, perché da esso trassi della creta, che conservai. Scriverò più in là quando e come la utilizzai. Intanto il languore primaverile punzecchiava sempre più il mio stomaco e forzava la mente ad escogitare: accumulavo e utilizzavo le bucce delle patate lesse della periodica razione o datemi di soppiatto da un amico addetto alla cucina, le comprimevo con mollica di pane, le arrostivo sul piano della stufa e così mi illudevo. I kriegsgefangenen (prigionieri), i cui parenti erano in Italia a nord della cosiddetta linea Hitler, cioè nella parte occupata dai tedeschi, potevano ricevere pacchi viveri, invece io che avevo la famiglia a sud di questa linea, stavo a guardare. Un giorno, un lampo illuminò la mia mente: cercai fra i vari indirizzi scritti sul mio quaderno qualcuno del nord. «Eureka!» (Ho trovato!) esclamai: il recapito di mio cugino Nicolino in Verona era lì chiaro; gli scrissi con la speranza nel cuore. Dopo settimane di inutile attesa, il giorno 24 maggio durante la distribuzione della posta fu pronunziato finalmente il mio nome. Sussultai. Un pacco viveri venne nelle mie mani: cinque chili di ben di Dio! Riso, pasta, pane bianco, fagioli, due barattoli di sugo ed uno di olive! Non so descrivere quanto piansi e quanto durò centellinato il contenuto; risentii i dolci sapori della mia terra! In tutti i giorni non si parlava altro che di prelibati pranzi, di dolci ed altre leccornie, che le mamme e le mogli avevano nel passato preparato; si descrivevano così bene che si 34
Volume settimo ingoiava saliva. Nella grande Amburgo La mattina del 17 gennaio 1945 io con altri lasciai il lager e su vettura fer-roviaria a scompartimenti di terza classe arrivai alla stazione di Harburg e poi ad Altona per fare breve sosta; da qui su autocarro fui portato nella metropoli marinara di Hamburg alle foci de fiume Elba e sistemato in una stanza del piano alto di un grosso immobile disabitato. Questo era sito fra il Rathaus (municipio) ed un ponte della ferrovia metropolitana sopraelevata che portava al vicino e grande porto anseatico. Dalla finestra si presentò alla vista di noi arrivati una distesa di macerie e di ruderi, per cui il rione sembrava come un’isola in un mare senza fine: cinque giorni di continui bombardamenti a tappeto di centinaia di fortezze volanti alleate avevano nello scorso ottobre rovinato la città con super bombe che scoppiavano a mezza altezza squarciando e abbattendo ogni cosa. Molte strade erano state sgomberate da massi e detriti per potere utilizzare la linea tramviaria. Nell’aria permaneva un odore acre di polvere e calcinacci e pesava tutt’intorno un sinistro desertico silenzio. Il panorama testimoniava che la morte era passata falciando ogni vita ed ogni cosa: effetto della follia umana! Soltanto qualche frettoloso passante, scansando mattoni e legni, incappottato e con la testa china, era il segno che qualcuno era rimasto. Quando sopravvenne la neve e coprì tutto, il candore non cancellò l’obbrobrio, ma lo trasformò in uno, due, dieci, mille mostruose e fantastiche tombe: ecco la più grande città portuale del mare del Nord, l’emblema della potenza marinara e commerciale tedesca. Il giorno 20 gennaio 1945 fui avviato al lavoro: a piedi, segaligno, mal fermo, disabituato all’andare e spaesato rasentavo di buon mattino il muro e, passando davanti alla Reichsbank (Banca dello Stato), percorrevo la lunga strada quasi sempre innevata fino alla grande piazza del Rathaus, dove attendevo con pochi altri il tram per portarmi nei pressi del posto di lavoro. Contrariamente a quanto ci aspettavamo, io e i miei compagni fummo adibiti prima allo sgombero di macerie e poi come manovali aiutanti di muratori per la ricostruzione di edifici abbattuti. In verità l’alimentazione sufficiente e appetibile, la vita non più monotona e triste del campo e l’attività fisica cominciarono ad essere utili alla salute e a reintegrare gradatamente le forze; alcune volte io e l’indivisibile compagno napoletano l’ingegnere Igino 35
Ultime Voci Bonetti utilizzavamo i reichsmark della paga per acquistare buoni pasti da persone, che cedevano parte delle loro razioni alimentari. Una domenica al termine di una frugale cena si avvicinò al nostro tavolo una donna, che sorridente disse: “Ich bin die mutter eines kleinen soldates, nehmen Sie!” (Io sono la madre di un piccolo soldato, ecco!) e con la mano tesa ci porse due buoni, che utilizzammo subito per due razioni di piselli. La donna tedesca si allontanò senza avere mangiato e noi, sorpresi e commossi, la seguimmo con lo sguardo fin quando scomparve come un angelo nel buio dell’oscuramento: anche nella casa del nemico l’Amore è il solo sentimento che vince l’odio! La condizione di lavoratore, che durò circa quattro mesi, mi immerse però in altri pericoli, quelli di possibili infortuni e di bombardamenti; la preoccupazione mi accompagnava sempre. Un giorno mentre sul luogo di lavoro trasportavo con altri una lunga e pesante putrella di ferro, rimasi infortunato da una distorsione; col piede gonfio e dolorante dovetti recarmi lontano in infermeria e poi tornare a casa per il necessario riposo; lo stesso giorno i miei compagni rientrarono dal lavoro in anticipo, fortemente scioccati ed addolorati per aver subìto un bombardamento aereo, mortale per un compagno e con dei feriti. Senza dubbio, l’infortunio che m’era accorso poche ore prima e le continue preghiere di mia madre mi avevano protetto da un sicuro pericolo.
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Volume settimo La liberazione La tarda sera del 3 maggio 1945 un frastuono assordante ed avanzante di mezzi motorizzati ci svegliò. Erano gli angloamericani, che con intermina-bile co¬lonna, preceduta da staffette con i loro contrassegni, si facevano largo fra le macerie sulla strada sotto di noi. Un compagno sporse la testa dalla finestra, emise un solo grido: “Siamo liberi!“. Tutti balzammo come un solo uomo dai nostri giacigli verso l’apertura. Qui accalcati, semi vestiti, agitando le braccia e gridando in segno di saluto e ringraziamento, esternammo la gioia per la riconquistata libertà. Per tutta la lunghezza della strada fari appaiati di luce avanzavano e rompevano l’oscurità della notte, che per circa sei anni era stata sempre nell’oscuramento: la luce in quel momento fu, ed è sempre, segno di vita e di libertà! Non ho parole per esprimere la reazione di tutti noi dopo il passaggio della colonna: chi inebetito se ne stava appartato e silenzioso; chi seduto piangeva stringendo fra le mani le fotografie dei genitori, della moglie e dei figli, chi abbracciava l’amico; chi ginocchioni toccava ripetutamente con la testa e le mani il pavimento in segno di ringraziamento al Signore; chi piroettava saltellando e chi, quasi fuori di sé, nudo compiva indescrivibili gesti. Io seduto sul lettino con in gola un nodo di represso pianto guardavo lo spettacolo: ecco uno dei momenti in cui la felicità rasenta la follia e ciascuno rivela inconsciamente e senza finzione il suo proprio intimo essere! Alcuni giorni dopo lasciammo l’alloggio con un camion militare per essere ospitati in un campo di raccolta per reduci italiani. I liberatori angloa¬mericani aprirono i cancelli dei lager e offrirono pasti a volontà agli affamati ex prigionieri; molti di questi, spinti dalla forzata astinenza e allettati dal ben di Dio, si abbuffarono tanto da dovere ricorrere alle cure dei sanitari. La reazione fisiologica alla rapida e maggiore alimentazione fu per molti un eccessivo aumento volumetrico del corpo, tanto da apparire questo edematoso. Io evitai in parte questo effetto, perché riuscivo, anche se con fatica, a limitare l’ingordigia. Il giorno 7 maggio 1945 fu firmata a Berlino la resa della Germania: qui il baldanzoso nazismo (nazionalsocialismo), umiliato e sconfitto giacque col suo fuhrer Hitler sotto le macerie di un bunker; i labari con la svastica (croce uncinata) e con la scritta “Got mit uns“ sono ormai abbattuti per sempre nella polvere e con essi tutte le velleità di dominio della pretesa razza superiore. Non più le oceaniche adunate di camicie brune e le interminabili sfilate militari al passo dell’oca e al canto di “Deutchland, Deutchland uber alles” 37
Ultime Voci (La Germania soprattutto); questo popolo, che aveva portato violenza e morte ora resta sommerso dalle proprie rovine materiali ed umane ed esposto al severo giudizio della storia: �Qui gladio ferit, gladio perit“! (Chi di spada ferisce di spada perisce). Il resto dell’Europa, sconvolta e disastrata in tutti i suoi beni, piange i caduti.
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Volume settimo Rolando Bulletti
La segeunte testimonianza è dell’aprile 2014. Rolando Bulletti nato a Prato entrò in Marina a 19 anni. Imbarcato sulla torpediniera Cigno, morì nel naufragio della nave. Poiché al momento del naufragio indossava il salvagente di Athos D’Orazi, inizialmente la salma fu attribuita a quest’ultimo, fin quando D’Orazi non chiarì il fraintendimento.
Mi chiamo Giacomo Paolo Boretti, sono il figlio della sorella di Rolando Bulletti, morto a 22 anni, nell'affondamento della Torpediniera “Cigno”, ad opera di due cacciatorpedinieri della Marina britannica, il “Paladine” e il “Pakenham”, il 16 aprile del 1943 al largo di Pantelleria. La mia nonna Elvira Saccenti e il mio nonno Augusto Bulletti sono morti senza veder mai riconosciuto il sacrificio del figlio in nessuna cerimonia. Quest'anno, a 71 anni dalla sua morte, sono riuscito a coinvolgere le Associazioni dei Combattenti e Reduci, con il suo presidente Sergio Paolieri, e l'Associazione Marinai d'Italia, e due rappresentanti del Comune e dei bersaglieri: i rappresentanti erano presenti alla S. Messa che è stata officiata, domenica 27 aprile, nella Chiesa della Querce. Una commovente cerimonia in cui è stato sottolineato il sacrificio di Rolando e dei tanti marinai che persero la vita nell'affondamento della Torpediniera “Cigno”: non si salvò nessuno. La storia di Rolando, fratello minore della mia mamma, potrebbe essere la trama per un romanzo giallo, dato che fu sepolto nel cimitero di Pantelleria, con il nome di un marinaio fiorentino che era in licenza. Per riportare la salma del figlio a casa, la mia nonna Elvira, dato che in casa c'erano pochi soldi, vendette la sua fede d'oro. Assenti lo Stato e il Comune, l'unico aiuto arrivò da Athos D'Orazi, il marinaio fiorentino unico sopravvis39
Ultime Voci suto. Il coraggio di quei marinai che trovarono la morte, sparando l'ultima salva di cannone, fu illustrato con drammatica precisione sulla Tribuna Illustrata del 02/05/1943. Rolando era nato alla Querce, un bel ragazzo, allegro, pieno di vita, era l'anima della sua compagnia, pronto allo scherzo e all'umorismo. Era un bravo musicista, suonava la batteria al circolo della Querce, alle feste da ballo. La sua fama aveva varcato i confini del paese; quando si spargeva la voce che avrebbe suonato il "Bullettino", così veniva chiamato scherzosamente, le ragazze arrivavano non solo dalla Querce, ma anche da Prato e dai paesi vicini. Entrò in Marina dopo aver terminato il corso della Scuola Equipaggi; aveva solo 19 anni. Era imbarcato sulla Torpediniera “Cigno”. Ebbe una breve licenza, che passò con la sua Rolando Bulletti famiglia, furono gli ultimi giorni felici della sua breve vita, sarebbe morto cinque giorni dopo, il 16 aprile. Finita la licenza, la sera prima di partire disse alla madre: «Vengo a dormire con te nel lettone, voglio starti vicino, non credo che tornerò, laggiù è un inferno». La guerra era in pieno corso, sotto il tiro incessante degli inglesi, le navi italiane percorrevano il Canale di Sicilia, fino a raggiungere il Nord Africa: la chiamavano la "rotta della morte". Il “Cigno” venne circondato mentre attraversava il Canale. Fu sparato fino all'ultimo colpo contro le navi nemiche prima di venire colpito da un siluro che spezzò la nave in due parti. Nessuno dei marinai si salvò. Il corpo di Rolando venne trovato undici giorni dopo, il 27 aprile. Furono dei marinai di Pantelleria, dalla spiaggia, a veder galleggiare sulle onde qualcosa che somigliava a una boa. Con alcune barche cercarono di avvicinarsi, videro che era un giubbotto di salvataggio, rosso, attrezzato per la sopravvivenza, ancora indossato da un marinaio, la testa reclinata, i capelli neri e ricci, la piastrina era arrugginita, il nome non si leggeva, non fu trovato nessun altro documento. Solo sul salvagente, si leggeva ancora il nome:
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Volume settimo Athos D'Orazi. Questo nome fu attribuito al cadavere e inviato alla Marina, fu comunicato alla famiglia D'Orazi, a Firenze. Mentre alla famiglia Bulletti arrivò un telegramma dal Ministero della Marina, che comunicava che il figlio era disperso nell'affondamento della Torpediniera “Cigno”. Il dolore di Elvira e della famiglia fu immenso. Il Ministero ebbe notizia dalla Capitaneria di Porto di Pantelleria che era stata data degna sepoltura al sergente Athos D'Orazi e inviò alla famiglia, che abitava a Firenze, la triste notizia del decesso. Athos era vivo: «Mi hanno allungato la vita» fu il suo commento. Si ricordò che prima di partire per la licenza, al giovane marinaio Bulletti aveva conseAthos D’Orazi gnato il suo salvagente, più attrezzato per la sopravvivenza in mare, e con il suo nome scritto a grandi lettere. Tramite il Ministero la famiglia Bulletti e D'Orazi si misero in contatto, il mistero fu risolto, Rolando era l'unico a cui D'Orazi avesse consegnato la chiave della segreteria, dove lavorava ed era custodito il suo salvagente. Ci vollero 8 anni, fra varie procedure, per far cambiare il nome sulla tomba e finalmente la salma fu riportata alla Querce. Fu proprio D'Orazi a partire per Pantelleria, riconobbe dai pochi resti il suo amico sergente, furono i pochi capelli neri e ricci rimasti, a renderlo sicuro del riconoscimento. D'Orazi si prodigò e aiutò la famiglia, anche finanziariamente, a riportare la salma in Patria e nelle varie procedure dei documenti. Il 9 luglio del 1950 la salma di Rolando Bulletti fu tumulata nel cimitero della Querce. Il dramma della mamma e della sua famiglia ebbe solo la consolazione di avere almeno una tomba su cui posare dei fiori. La mia nonna si spense il 28 maggio 1985, il dolore per la perdita del figlio era sempre vivo in lei, non mancarono mai i fiori sulla tomba di Rolando e la S. Messa, nella ricorrenza della sua morte. Athos D'Orazi, tutti gli anni, fino alla sua morte, si è recato a far visita alla famiglia di Rolando e a portare un fiore sulla sua tomba.
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Ultime Voci Fernando Benvenuti
Fernando Benvenuti fu arruolato nel 6° Reggimento bersaglieri di Bologna con il quale partecipò alla Campagna di Russia ed alla successiva ritirata italiana. Dopo molte sofferenze, rientrò in Italia il 3 Febbraio 1943.
Queste righe non vogliono essere un diario e neppure una biografia della mia vita, ma qualche appunto della vita militare che i miei nipotini leggeranno quando saranno grandi e capiranno. L’infanzia La mia famiglia era una famiglia di coloni che lavoravano un podere a mezzadria. La loro vita l’avevano dedicata ai campi e alle mucche. La mamma il più delle volte stava nel campo che alle faccende domestiche. La mattina quando mi alzavo da letto raccoglievo i vestiti che erano sparpagliati qua e là per la camera e correvo a piedi nudi in cucina dove nel focolare di quelli antichi, cioè alti dal pavimento una trentina di centimetri, scoppiettava un bel fuoco alimentato da sarmenti (?) e vinciglia (?) dei nostri olivi. Ricordo montavo su un arale (?) fatto di pietra delle nostre cave, sentivo il calore che tramandava la pietra, mentre la mamma mi infilava i calzoni le domandavo quanto tempo mi ci voleva per crescere tanto per arrivare con la testa a toccare l’architrave della cappa del camino. Il nostro podere era attraversato dalla ferrovia, un tronco che da Firenze porta a Faenza, passavano molti treni, avevo quasi imparato con precisione l’ora che sarebbe passato 42
Volume settimo il treno e mi preparavo per fare ciao con le mani ai macchinisti oppure ai passeggeri i quali mi rispondevano anche loro con le mani. Il nostro terreno era anche attraversato da un piccolo torrente, il quale portava al Mugnone le acque della parte nord di Fiesole. Ricordo che quando nella primavera venivano degli acquazzoni ingrossava talmente che invadeva anche i cambi; quando cessava di piovere e l’acqua decresceva si trovavano tante cose come palle di gomma, pupazzi, ed ero tanto contento perché io dei giocattoli ne possedevo quasi nulla. Confinavamo anche con un grande edificio, era una polveriera dell’esercito dove erano ammassate casse e casse di munizioni di ogni tipo di allora. Era un edificio quadrato con mura alte di cinta sormontate da filo spinato e agli angoli c’erano dei casotti (garitte) dove i soldati montavano la sentinella con fucili di quelli lunghi modello ‘91. Facevano la guardia affinché non si avvicinasse nessuno, anche per noi: dico di mio padre che dovevamo lavorare il terreno attorno e dovevamo chiedere il permesso, altrimenti non potevamo sostare. Quante paure ho avuto per questa vicinanza della polveriera: mi ricordo che era frequente che nella notte si udisse delle sparatorie fatte dalle sentinelle e specialmente la numero 2, che era, a differenza delle altre, di cemento armato con postazione di mitragliatrice e che era più vicina alla ferrovia e di fronte ad un piccolo sottopassaggio di una viottola del nostro terreno. Le sparatorie erano attribuite a delle ombre che non rispondevano all’intimazione di «Altolà!». Mi ricordo una volta vennero da Firenze tanti soldati con delle grandi strisce al berretto. Si dirigevano aldilà di questo sottopassaggio dove c’era una cunetta per le acque che costeggiava la scarpata della ferrovia. La notte c’era stata una grande sparatoria: la sentinella aveva dato l’altolà senza risposta a delle persone e allora avevano sparato. C’erano evidenti tracce di sangue di due o tre gocce, dopo circa un fosso altre due o tre e così per un lungo tratto fino a disperdersi nel prossimo bosco di castagni. Quante considerazioni facevano i grandi per questo episodio! Dicevano che poteva essere un attentato di elementi sovversivi al regime fascista oppure un ufficiale di ispezione per vedere se effettivamente la sentinella non era addormentata e che si fosse avvicinato con non troppa cautela, ma la tesi più valutabile era che il soldato che avrebbe dovuto montare di guardia a quell’ora della notte avrebbe architettato il piano di giorno, sgozzando un pollo, così avrebbe avuto dai superiori l’encomio ed una licenza premio. Ma la vicinanza dei soldati non tutte erano paure: ricordo quando il babbo lavorava nei dintorni di queste garitte ed io lo accompagnavo e mi mettevo a parlare con i soldati e gli domandavo tante cose, se quel fucilone pesava molto, quando 43
Ultime Voci finiva di stare lì di guardia e tante altre domande; a loro volta mi domandavano quanti anni avevo, se andavo a scuola, che classe facevo e mi dicevano che anch’io dopo 14 anni in un’altra parte d’Italia avrei fatto quello che facevano loro. E nelle sere d’estate, dopo il lavoro dei campi, i miei si riposavano sdraiati in un piccolo praticello, davanti a casa, ascoltavamo i soldati cantare: erano cori piemontesi, oppure le canzoni nostalgiche napoletane e le nenie sardegnole e io domandavo a mio padre perché non cantassero come noi. Il rancio dei soldati era un avvenimento per noi ragazzi perché c’erano anche quelli del vicino villaggio: come era buono il mangiare dei soldati! Si sentiva l’odore a distanza. Noi si stava fuori del cancello perché qualcheduno portasse anche a noi una mezza gavetta di pasta: com’era buona! Si doveva, dopo averla mangiata, andare al vicino torrente quando c’era l’acqua oppure alla fontana pubblica, che era una sola, a rigovernare e a riportarla ben pulita. Siccome in polveriera non c’era l’acqua, i soldati ne serbavano un po’ (di pasta, n.d.r.), anche i più affamati, perché i ragazzi potessero lavarla la gavetta. Che fatica!, specialmente nelle giornate fredde, il grasso rimaneva appiccicato e non c’era verso di pulirla: il più delle volte con erba e una mollica di pane si riusciva. E venne anche per me il tempo di andare a scuola; la mamma tutte le mattine mi affidava ai ragazzi più grandi. Dovevamo andare a Fiesole, distava una buona mezz’ora di cammino, prendevamo la scorciatoia, che era un viottolo in salita cosparso di ciottoli rotolati dall’acqua della pioggia. Si entrava alle nove e si tornava alle due del pomeriggio, qualche volta tornavamo anche più tardi, specie nei mesi caldi: ciò spesso era dovuto al fatto che ci si trovava davanti una serpe arrotolata nel mezzo del viottolo a prendere il sole; così dovevamo deviare per paura ed allungare il percorso. Entravo in casa, il più delle volte la mamma era nel campo, ma sulla tavola c’era un piatto coperto da un altro piatto: c’era la razione messami da parte, io la divoravo in un momento e andavo a raggiungere i miei genitori, le lezioni le avrei fatte la sera. Aiutavo i miei come potevo, facendo i piccoli lavori che a me si addicevano. Rientravamo alla sera quando la luce del giorno cominciava a sbiadire le cose, mentre il babbo si dedicava alla stalla la mamma preparava la cena, io facevo le lezioni di scuola e così per cinque o sei anni.
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Volume settimo La mia vita militare Come ho scritto nelle pagine precedenti con i soldati avevo dimestichezza, conoscevo la guardia, il rancio e anche la disciplina. Venne il giorno anche per me di essere chiamato a prestare servizio di Leva: era il 3 marzo del 1932. Fui assegnato al 5° Reggimento bersaglieri a Siena. Fui contento perché credo che a quel tempo i ragazzi aspirassero tutti a essere messi in quel corpo, perché era bella la divisa dei bersaglieri col bel piumetto al cappello, e poi sono così baldanzosi, pieni di vigore e anche alle ragazze piacevano. Partimmo dal Distretto di Firenze in una ventina, arrivammo alla stazione di Siena dove c'erano ad attenderci altri bersaglieri con la fanfara. Ci incolonnarono e attraversammo tutta la città a passo di bersagliere: tutti i cittadini si riversavano sulle porte per vedere questi nuovi arrivati e ci facevano gli applausi. Un brivido di commozione mi pervase tutta la persona, arrivammo in caserma a passo di corsa, ci assegnarono le compagnie, mi assegnarono alla 3°, il graduato mi assegnò la branda e il giorno dopo mi avrebbero
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Ultime Voci
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Volume settimo dato il vestito. Venne l'ora del silenzio e mi buttai vestito sulla branda dalla stanchezza. Ma un suono di tromba mi svegliò, per qualche minuto non mi raccapezzavo dove fossi, ma venne presto la realtà. Avevo dormito così profondamente come non mai, vestito da bersagliere. Dapprima mi sembrò di essere goffo: le scarpe grandi e il vestito anche. Il puzzo di naftalina mi nauseava. Cominciammo l'adunata. Per il rancio mi assegnarono anche la bicicletta col numero 216 e il fucile: il mio era un moschetto particolare, perché applicato alla canna c'era un piccolo lanciabombe; il nome si chiamava tromboncino, fu la mia ossessione per tutto il tempo, perché quando si correva a bilanciarmi era così pesante e dava impaccio. L'ammirazione che avevo sempre avuto per quel corpo si andava sempre più estinguendo: per me era una fatica che non potevo sopportare. Tutte le mattine in piazza d'armi per fare istruzioni, ci facevano fare tante di quelle corse, con la fanfara che suonava, oppure una marcia di 70-80 Km. in bicicletta; le biciclette avevano il rapporto fisso e le gomme erano piene: pesavano molto, quindi anche per la discesa, quando le gambe si sarebbero dovute riposare, con quel rapporto si doveva frenare, cioè anziché forzare in avanti fare all'indietro. Quante volte è successo a qualche bersagliere di levare i piedi dai pedali e siccome (la bicicletta) era munita di un solo freno, non potendo rallentare, andare a battere in quelli davanti, così nascevano dei monti di bersaglieri e biciclette. Ci rialzavamo con qualche ammaccatura in più, quando il sole era alto e l'asfalto si riscaldava, col maglione di lana che avevamo addosso, le ruote della bicicletta affondavano nell'asfalto: era una cosa tremenda e una fatica da morire. Queste marce si facevano quasi tutti i giorni per allenarci. Alla sera invece c'era la palestra. Il motto del bersagliere è di fare ginnastica fino alla follia, ma eravamo felici lo stesso: dopo un po' di riposo eravamo freschi come prima. La sera alla libera uscita si andava in giro a vedere le bellezze della città. Finalmente venne anche il giorno del congedo. Fui fortunato: una circolare del Ministero diceva di inviare in congedo anticipato, cioè dopo sei mesi, tutti coloro che erano figli primogeniti nati nel primo trimestre; io entravo in questa categoria: sono figlio primogenito nato il 12/3/1912. Fui molto contento. Non durò a lungo il mio congedo: era il tre aprile 1939 (?) quando all'improvviso mi viene la cartolina di chiamata alle armi. Nell'aria non c'erano nubi di sorta con altre nazioni, mi domandavo dove mi avrebbero mandato, avevo moglie e una figlia di un anno e il mio pensiero era grande. Mi dovevo presentare immediatamente (così diceva la cartolina) al 6° Reggimento bersaglieri di Bologna il giorno dopo avere ricevuto l'avviso. 47
Ultime Voci Misi qualcosa nella valigia e partii (non descrivo il distacco da mia moglie, sarebbe doloroso). Scesi alla stazione di Bologna che era mattina, mi ero ripromesso di presentarmi in caserma alla sera, poiché volevo visitare un poco la città, poiché non la conoscevo, pertanto volevo anche vedere dove era la caserma, così domandai e me la indicarono. Sulla porta c'era la sentinella e un ufficiale di picchetto appena vide questo giovanotto con la valigia che guardava con fare circospetto, si ammoscarono subito e l'ufficiale mi prese per un braccio e mi disse che mi aspettavano e che gli altri erano pronti, mi sembrava di sognare. Entrai in caserma, c'erano bersaglieri richiamati, già vestiti, sembravano in procinto di partire; fui accompagnato al comando, mi assegnarono la compagnia, mi vestirono in fretta e furia, feci appena in tempo a fare il pacco dei panni borghesi, mi fu assegnata anche la bicicletta e il moschetto. L'indomani mattina incolonnati e alla stazione, con tutto l'equipaggiamento. La radio gavetta funzionava a meraviglia, c'era chi diceva che andavamo in Libia, chi in Abissinia. Arrivammo a Pescara, scendemmo dal treno, ci portarono nel campo sportivo, ci rimanemmo tre o quattro giorni, quindi in treno fino a Brindisi. Al porto c'erano tante navi e tanti bersaglieri (dicevo dentro di me «qui va a finire male», il mio pensiero era rivolto alla mia famiglia), fummo caricati su una nave di nome "Calabria", circa tremila uomini con biciclette e materiali, poi altre navi, lo stesso (ho saputo dopo che eravamo un battaglione per ogni Reggimento: siccome i reggimenti dei bersaglieri erano 12 in Italia, sicché quella sera partirono da Brindisi 12 battaglioni di bersaglieri). Mi sdraiai nella cuccetta che mi avevano assegnato nella stiva, fui svegliato dai colpi di un cannone. Salii in coperta, non era ancora giorno, i bagliori dell'alba si notavano appena, tutti i bersaglieri avevano fatto come me: ci guardammo attorno, c'era intorno montagne che un cacciatorpediniere vi inviava le sue granate, si vedevano proprio bene infuocate quando partivano dal cannone. Era terra dell'Albania (avevamo viaggiato tutta la notte e non mi ero accorto di nulla) e precisamente S. Giovanni di Medua, sbarcammo su dei motopescherecci perché la nave non poteva attraccare. Una volta a terra, sempre con la propria bicicletta, non aspettavamo gli altri, si doveva incamminarsi per una strada che non era asfaltata ma piena di ghiaia. Sembravo di camminare su un letto di un fiume, man mano gli altri si facevano più sotto e si riformò tutta la colonna, col nome del comandante chiamata colonna Scattieri. Il nostro compito era di occupare una città vicino alla Jugoslavia, si chiamava Scutari. La colonna era formata da tre battaglioni di bersaglieri, quello di cui facevo parte io era il 6° battaglione del 6° Reggimento, 48
Volume settimo c'era il battaglione del 9° e uno dell'8°. Al passaggio del fronte sul fiume Drin fummo fatti segno a colpi di cannone, rimasero dei feriti e un tenente morto al quale furono fatte solenni onoranze. Fu fatto anche sul fronte un piccolo monumento a ricordo del quale posseggo alcune foto. Per quattro mesi si presidiava le zone e i paesi vicini. Man mano che i Reggimenti venivano dall'Italia, per noi veniva la speranza di tornare in Italia. Nel frattempo il capitano comandante la compagnia comando mi mise aiuto furiere e i gradi di caporale. Devo descrivere un episodio che non dimenticherò mai: mentre sedevo sull'erba fuori della mia tenda e mangiavo il rancio, fui chiamato dal sergente maggiore del comando. Mi disse che dovevo andare in Italia perché la mia bambina stava male, rimasi inchiodato, mi ripresi, dovevo raggiungere Durazzo. Partimmo all'alba con un camion, alla sera verso le quattro eravamo nel porto, dovevo prendere tutti i mezzi di fortuna, ancora i comandi tappa non erano istituiti, c'era una carboniera in porto italiana, si chiamava "Liana", io e il caporal maggiore che mi aveva accompagnato salimmo a bordo e ci presentammo al capitano, gli esponemmo il mio fatto, ci disse che lui mi avrebbe preso, ma che doveva far pulizia alla nave in alto mare e avrei perso 12 ore, comunque per quella notte potevo andare nella stiva che c'era della paglia e riposare. All'indomani ci si sarebbe pensato. Salutai il caporal maggiore e mi calai nella stiva della nave, dove poter vedere la grandiosità di quella nave; non chiusi occhio, il mio pensiero era rivolto alla mia piccola Anna, pensavo: «a quest'ora sarà già morta», il mio cuore si spaccava dal dolore. Risalii la scala e mi portai in coperta, una pioggerella faceva gelare , il capitano mi consigliò di prendere un piccolo piroscafo, si chiamava "Annibale Foscari", faceva servizio postale, ci volevano 30 franchi oro per la traversata fino a Bari, li avevo precisi, decisi di acquistare il biglietto, mi imbarcai e partimmo. Arrivammo a Bari alla sera verso le 17, al porto mi feci indicare un comando tappa, camminavo alla bersagliera per acquistare tempo, vidi due o tre ufficiali che venivano verso di me, volevo domandare loro dove si trovava il comando tappa, ma uno di questi mi prevenne e mi domandò dove andavo. Gli dissi tutto e fu di una gentilezza grande, perché tornò indietro e fece un bel pezzo: era proprio lui l'ufficiale addetto, mi fece tutti i fogli e mi fece accompagnare al treno. Arrivai a casa. La mia bambina per fortuna stava un po' meglio, era ricoverata all'ospedale Meyer, andai di corsa, mi fecero passare dato che ero in divisa ed ero reduce dell'Albania. Non mi riconobbe, le stavo inginocchiato di fianco, le dicevo le cose che un padre dice al suo bambino, non so quanto tempo passò che il mio viso era nascosto dal 49
Ultime Voci suo corpicino, una mano cercava di sollevarmi e farmi coraggio che la piccola sarebbe guarita, quattro o cinque infermiere mi guardavano con gli occhi rossi dal pianto, avranno pensato che un bersagliere si doveva fare coraggio. Per grazia di Dio migliorava tutti i giorni, la riportammo a casa non del tutto guarita. I 10 giorni finirono e dovetti ripartire per l'Albania. A Bari mi imbarcai per Durazzo, raggiunsi il comando tappa che proprio in quei giorni avevano formato, ci portavano alla mattina sulla strada fuori della città e quanti autocarri passavano e quanti ne fermavano, o militari oppure civili. Dopo sei giorni passò un piccolo camion tutto scassato dove sul telone c'era scritto Scoder, che in albanese vuol dire Scutari, dissi al carabiniere che sarei montato su quello. L'autista balbettava fra i denti le più brutte parole al nostro indirizzo: partii da Durazzo verso le tre del pomeriggio, si fece buio per strada, incontrammo un posto di blocco a Milot dove c'era la 92° legione camicie nere. Il comandante mi fece scendere e mi disse che la mattina una colonna loro doveva andare a Scutari e loro mi avrebbero portato là. Passai la notte nel ripostiglio di una compagnia, rientrai al Reggimento ed era in procinto di partire, dovevamo spostarci a Tirana. Siccome io ero aiuto furiere feci questo trasferimento in autocarro della fureria, anziché in bicicletta come gli altri. Intanto la radio gavetta diceva che si rimpatriava. Ci accampammo fuori della città, dove c'erano altri soldati italiani tra i quali trovai molti miei amici fiesolani. Era molto caldo, le mosche ci portavano via. Finalmente venne l'ordine di partire, dovevamo trovarci a Durazzo perché c'era una nave che ci attendeva. Partirono tutto il battaglione e tutti i motocarri, più gli 11 autocarri Spa, dove avevamo caricato tutto il materiale dei ripostigli e della fureria. Salirono tutti a bordo, gli autocarri per ultimi, ma al momento di caricarli il comandante si rifiutò perché disse che la nave era già troppo carica. Bella fregatura! Ci fecero stare nel porto per una ventina di giorni, mentre tutti i nostri compagni erano già stati inviati in licenza; all'infuori che il pensiero della famiglia, facevo una bella vita, non sono stato mai al mare, mi sdraiavo al sole in cima al molo di Durazzo e stavo lì a ore (tornai a casa nero come il carbone). Finalmente venne anche per noi il turno. Arrivammo a Bologna dopo tre giorni, fui inviato subito in licenza illimitata. Finì così la campagna d'Albania. Ma il peggio doveva arrivare ancora. Era il 25 gennaio del 1941 quando mi arrivò di nuovo la cartolina da presentarsi di nuovo al 6° Reggimento, di nuovo formarono le com50
Volume settimo pagnie, per assestarsi dislocarono in diverse cittadine. Mi mandarono in un paese vicino a Bologna, si chiamava Minerbio; ci vestirono: dovevamo partire per la Russia. Facevamo delle marce per abituarsi al freddo, ed era un bel freddo anche a Bologna. Dopo un mese dal richiamo partimmo con tutto il materiale. tutto il 6° Reggimento, cioè i battaglioni 6, 19, 13, più la compagnia comando del Reggimento (io facevo parte della compagnia comando del 13° battaglione), passammo dal Tarvisio e in seguito attraversammo le foreste della Polonia. Cominciammo a vedere i primi relitti di cannoni e autocarri; man mano che ci avvicinavamo al fronte cominciammo a vedere delle croci con sopra l'elmetto piumato. Rimanemmo male. La nostra allegria si attenuava sempre di più (si trovava là da qualche mese il 3° bersaglieri e già aveva avuto dei combattimenti, come la battaglia del Natale 1941). In un paese o città che si chiamava Uman' ci fecero scendere dal treno: dovevamo proseguire in autocarro (sì perché le biciclette non le avevamo in Russia, ma avevamo truppe autotrasportate: ogni 20 bersaglieri, un camion). Si proseguiva piano piano, la neve era gelata, noi avevamo delle scarpe con dei grossi chiodi, ma non erano utili, perché ogni poco si era in terra per scivoloni. Entrammo in linea il 21 marzo 1942 (che notte, non mi va via mai dalla mente!). In un paese presidiato dai paracadutisti tedeschi, si chiamava Ivanosha, c'erano delle isbe abbandonate. Ma la linea vera e propria era più a monte: là c'erano le postazioni. Passavano vicino a un tronco di ferrovia. Per fare i fortini avevano fatto una grande buca e con le traverse della ferrovia avevano fatto il tetto e sopra avevano buttato la terra levata per formare la buca. Era abbastanza calda, era fornita anche di una stufa, ma quando l'accendevamo bisognava andare fuori, altrimenti rimanevamo asfissiati. Operava in quel settore anche la 92° legione camicie nere e l'artiglieria volante, la quale era anch'essa facente parte del Corpo di Spedizione Italiano in Russia, C.S.I.R. La linea era ferma al di qua del fiume Donec, era un settore non tanto tranquillo, noi tenevamo il fronte. Le mortaiate arrivavano quasi sempre a bersaglio e il cimitero si ingrandiva sempre. Il mio morale, dico la verità, non era buono, mi raccomandavo sempre alla madonna del Rosario che mi tenesse sotto la Sua protezione: se no altrimenti a chi mi dovevo rivolgere? Dicevo alla sera la novena e quasi sempre mi addormentavo col rosario in mano. Per alcuni dei miei compagni ero spesso oggetto di parole di scherno, ma io pregavo sempre che la mia fede non venisse mai meno. Il mio pensiero era sempre rivolto alla mia famiglia e alla mia Anna e le parlavo come se fossero lì con me, ma il rumore delle granate mi faceva tornare alla realtà. Il mio compito era di 51
Ultime Voci andare con un altro a riparare i fili telefonici rotti da qualche granata; avevamo installato fra una postazione e l'altra dei telefoni che facevano capo ad un fortino dove c'era il comando del battaglione. Che freddo! Passavano i giorni, arrivammo a maggio, la neve cominciava a sciogliersi, era anche quello un nemico. Dal cimitero vicino a noi poche decine di metri, dove erano sepolti i paracadutisti tedeschi che ci avevano preceduto cominciarono ad affiorare tutte le salme: sì perché non avevano fatto le buche in terra, ma le avevano ricoperte con la neve. Che spettacolo macabro! In dei libri in mio possesso ci sono delle foto di questo che sto scrivendo. Affiorò anche una salma di un soldato con la testa tagliata, ma la testa non fu trovata. Non racconterò gli episodi giornalieri, perché sennò mi ci vorrebbe un anno. Il 14 luglio 1942 il fronte tedesco, italiano e romeno si mise in movimento. In precedenza erano stati fatti dei prigionieri e dalle loro informazioni avevamo appreso che tutt'intorno era cosparso di mine sicché l'avanzata era non tanto (...?), ogni tanto qualche scoppio faceva volare autocarri e motocarri, alcuni centri di resistenza erano sopraffatti dalle nostre truppe. Gli ufficiali non erano tanto contenti perché non trovavano quasi nulla. I soldati in borghesi (?), e effettivamente quei due o tre giorni dell'avanzata il nemico non reagiva in maniera eccessiva e pensavamo che si fosse fortificato sulle rive del fiume Don. Ed era vero, perché il fiume non lo passammo mai (all'infuori che i tedeschi che avevano fatto una testa di ponte a Stalingrado, dove l'esercito tedesco ha perso più soldati che in tutta la campagna di Russia). L'inverno si avvicinava. I comandi, per non ritrovarsi come nell'inverno prima, con la difficoltà degli approvvigionamenti, avevano portato sotto le linee le sussistenze e molti viveri di conforto anche nell'imminenza del Natale. Il 6° Reggimento bersaglieri era stato mandato in riposo nella zona di Millerovo, avevano requisito delle isbe, i borghesi li avevano riuniti e così ci accingevamo a sistemarci per cambiarci e pulirci quando [arrivò] un ordine. Ripartimmo dopo due giorni per tamponare una falla nel settore Divisione "Sforzesca" e fu una cruenta battaglia e in essa persero la vita molti bersaglieri. Capitammo in un paese che non ricordo il nome, so che vicino c'era un paese che si chiamava Dokuciar , al nostro reggimento erano affluiti intanto i complementi venuti dall'Italia col 3° Reggimento di marcia. Furono mandati un po' a tutte le compagnie, anche alla mia compagnia comando 13° battaglione ne vennero. Mi ricordo un fatto curioso: in questo paese c'era un'infinità, ma tanti tanti piccoli topi. Mi ero fatto un giaciglio sopra al forno di un'isba, mi svegliavo di soprassalto, mi 52
Volume settimo attraversavano il viso e mi entravano dentro i pantaloni (non dico bugie); mi ricordo che i bersaglieri avevano fatto una trappola molto curiosa ma efficace: ad una stagna tagliato il coperchio e con dei fili di ferro che avevano messo come in bilico mettevano qualche cosa da mangiare e si giravano e cascavano nella stagna. C'erano topi ovunque, in un angolo di questa isba dove appunto avevamo impiantato la fureria della compagnia comando, c'erano dei sacchi di grano e centinaia di topi attaccati divoravano senza paura neppure del gatto che era lì vicino. Era, mi ricordo, esattamente il 1° novembre 1942 e sapete perché me lo ricordo? Perché nella notte venne la prima neve, quella neve che in Russia, perlomeno dove eravamo noi, durerà fino a maggio del 1943. [Arrivò] un ordine di spostarci immediatamente verso la linea, senza portare via le furerie. Rimanemmo una decina di bersaglieri e io caporalmaggiore per abbandonare gli alloggiamenti; il battaglione, compreso il reggimento, raggiunsero la linea di Bukucciar (?). Il cannone si sentiva in continuazione, rimanemmo isolati e quasi quasi avevamo un po' paura, c'erano dei soldati russi o disertori o partigiani riconoscibili dai loro vestiti in un colcos vicino che quando ci vedevano si mettevano a lavorare con le asce e con delle accette fingendo di tagliare la legna. Nella decina di giorni che rimanemmo lì dovevo andare a prendere i viveri per tutti in un villaggio vicino dove c'erano le sussistenze. Mi facevo dare al vicino colcos una slitta con due piccoli cavalli, montavo su io e un altro bersagliere e a trotto si raggiungeva la sussistenza: sembravamo tanti eschimesi come si vede nei film. Una mattina improvvisamente un ufficiale e degli autocarri vennero a prenderci per raggiungere il reggimento in linea. Era una freddissima giornata. Arrivammo in linea di fronte alle rive del Don. La temperatura si aggirava in quei giorni 12-13 dicembre 1942 sui 35 gradi sottozero: il fiume si poteva attraversare anche a piedi. Nelle linee nemiche, almeno diceva la radio gavetta, c'erano dei fortissimi movimenti. Il cannone non cessava mai di tuonare e le mitragliatrici sempre (dimenticavo di dire che in Russia, benché avessimo un olio anticongelante per la lubrificazione, non era sufficiente: dovevamo ogni poco sparare delle raffiche perché se no si sarebbe inceppato il carrello). Il mio capitano mi disse che dovevo andare alla base che era distante una decina di Km. e dalle valigette del corredo dei bersaglieri che erano morti dovevo togliere tutta quella roba borghese (maglie, foto, portafogli, insomma tutto quello che non era militare, dovevo fare un pacco e uno specchio in triplice copia: una sarebbe rimasta a noi, una al comando, una alle poste per l'inoltro alle famiglie). Era un lavoro svelto, se volevo, ma lo facevo durare 53
Ultime Voci perché ero più al sicuro che in linea. Questa base, come ho detto, era una decina di Km. (?) dove c'erano anche tutti gli autocarri del reggimento e quelli degli autoparchi. Campagna di Russia: la ritirata. Ad un tratto viene dato l'allarme che c'erano i carri armati russi: una macchia scura avanzava verso di noi dal di dietro. Credevamo che fossero tedeschi, ma a un certo punto cominciarono a sparare. Non posso descrivere quello che successe. Tutti gli autisti montarono sui loro autocarri, chi andava avanti, chi indietro, le cannonate piovevano da tutte le parti. Il mio autista, cioè quello che aveva sul camion la roba della fureria anche lui, mi disse che andava via. Montai anch'io con lui, mettemmo in moto e prendemmo una direzione fuori di strada (il terreno era una pianura senza vegetazione). Un colpo ci raggiunse ma non ci fece niente, un secondo invece ci ruppe il radiatore: scendemmo, prendemmo il nostro moschetto e il nostro tascapane, lasciando il camion carico di scarpe e di cappotti con la pelliccia dentro e ci incamminammo in direzione credevamo di Millerovo, un paese molto indietro. Altri soldati fecero come noi. Questo autista del mio reggimento si chiamava Barbieri ed era un emiliano. Cammina, cammina, mi stancavo attraverso a quella steppa. Ad un certo punto questo Barbieri mi disse che io camminavo poco e che mi avrebbe lasciato in cammino da solo, mentre io rimanevo indietro, finché non lo persi di vista. Si faceva buio e molto freddo, il fiato si congelava fuori della bocca e si attaccava al passamontagna formando dei veri ghiaccioli. Camminando alla deriva, poiché non sapevo dove andavo, in continuazione pregavo la madonna del Rosario che non mi abbandonasse. Mi sarebbe bastata la grazia di tornare a casa per rivedere la mia famiglia e poi facesse di me quello che voleva, sarei anche andato a Pompei per ringraziarla. Incontrai altri soldati italiani e poi ancora formammo un bel plotone, trovammo un comando tedesco (avevano centralini telefonici) con tanti altri sbandati. Trovai anche altri bersaglieri del mio reggimento. Il fronte era stato sfondato dal lato dei romeni e una colonna di carri armati ci aveva aggirato. Ritrovai dei reparti del mio reggimento col colonnello, che allora era Carloni: di un battaglione non sapevamo nulla. E incominciò per noi l'inferno. Era il 17 dicembre 1942, si camminava notte e giorno, quando incontravamo delle isbe ci si fermava all'aperto: era pericoloso per il freddo. Di mangiare non se ne parlava. Di tanto in tanto mettevo qualche manciata di neve in bocca. Una mattina un apparecchio 54
Volume settimo nostro, dopo averci individuati, ci buttò col paracadute dei pacchi di gallette e scatolette. Intanto la nostra colonna si ingrandiva sempre più: c'erano di tutti i reggimenti italiani, alpini, fanti, artiglieri, polacchi, tedeschi, romeni. Andavamo alla deriva a me sembrava, ma invece, siccome c'erano delle radio trasmittenti, probabilmente eravamo collegati, ma almeno mi dicevano che eravamo rimasti in una grossa sacca. Mi ricordo un particolare: un giorno un apparecchio, una cicogna, dopo averci visto, lanciò dei viveri; io che mi trovavo un po' alto rispetto agli altri, poiché il terreno che battevamo era ondulato, vidi questa grande massa nera nella neve spostarsi compatta in direzione del paracadute. Mi sembrò uno stormo di storni quando stanno per posarsi. Gli ufficiali sparavano revolverate a tutto spiano per intimidirci, poiché quei viveri dovevano essere razionati. La radio gavetta funzionava a meraviglia, diceva: «Fra 30 Km. si esce fuori». Poi l'indomani: «Ragazzi ci sono 60 Km., perché di là non si può andare». Le mie forze si facevano sempre meno: le scatolette e le gallette non le avevo neppure viste. La fame nella neve! Gli autocarri che ci seguivano anche degli altri corpi si assottigliavano sempre di più, sì perché via via che l'autocarro con i feriti e con i congelati finiva la benzina, la prendeva ad un autocarro che ne aveva e poi lo incendiavano e lo abbandonavano. Un mio amico che era infermiere della mia compagnia ed era addetto a questo camion vedendo che non ce la facevo più mi fece montare per un po' nel camion dell'infermeria, così mi sarei riposato. Ad un tratto fummo attaccati da un caccia russo. Ci furono parecchi morti: un caporalmaggiore che era seduto di fronte a me nell'autocarro rimase ferito ad un polmone. Poveraccio quanto avrà sofferto! Per giorni e notti sempre lo si sentiva chiamare il dottore con tutte le forze che aveva in gola: era una cosa straziante! Ma cosa potevamo fare? Ogni poco sostavamo perché per ripararci la neve era alta e non camminavamo in delle piste battute. La nostra marcia era lenta. Una decina di soldati era a cavallo ad una bocca di cannone, l'unico che ancora poteva essere trainato e mentre mi incrociava si fermò. Uno di questi soldati scese da cavalcioni per fare un po' d'acqua, ed io approfittai per prendere il suo posto; camminai pochi metri e quello ritorna. Disse che scendessi perché quello era il suo posto, ma dietro alle mie rimostranze costui mi diede una spinta, persi l'equilibrio e rotolai nella neve. Feci svelto per non essere travolto dalle ruote, ma una mano mi ci rimase sotto, non sentii assolutamente nulla perché c'era tanta neve e il peso 55
Ultime Voci fu da essa ammortizzato. Ma guardando la mano la si vedeva gonfiare a vista d'occhio e non sentivo male (fu la mia fortuna): era buio e non potei insultare nemmeno quello che mi aveva dato una spinta. Ad un tratto dei raggi luminosi lasciati da un apparecchio illuminarono tutt'intorno e cominciò il finimondo: cannonate, mortai, aeroplani. Io seguitavo a raccomandarmi alla Madonna e la salvazione dell'anima. Attraversammo un fiume e al di là trovammo degli autocarri tedeschi che ci attendevano. Andavo via dietro agli altri come un automa: mi ricordo mi passò davanti un carro a quattro ruote: era romeno o polacco, non so. Il soldato a cassetta fumava la pipa e c’erano tanti soldati ritti dentro. Li guardai di nuovo, erano tutti morti con la tradizionale revolverata alla testa. Vidi degli autocarri tedeschi con degli ufficiali che caricavano dei feriti, mi avvicinai ad uno di questi, gli feci vedere quella mano gonfia, che però non mi faceva male. Lui mi disse «Colorno!», che vuol dire freddo, cioè congelato. Gli dissi di sì e mi fece salire. L'autocarro si mise in moto, non credevo ai miei occhi, stavo allontanandomi da quell'inferno. Calcolai una quarantina di Km. e si fermò: c'era un ospedale russo, non sapevo il paese, i feriti erano anche fuori, ci fecero scendere, via via si passava da altri ufficiali, ci domandavano che cosa si aveva: io non capivo perché erano tedeschi e gli feci vedere la mano, mi mise il termometro: 37,3 di febbre, mi fece un biglietto, era scritto lazzaret, un piantone tedesco ci prese in cinque o sei e ci portò in un capannone, c'era tanta paglia, mi sdraiai, un altro ci portò una grossa pagnotta di quelle rettangolari e una bella scatola di carne, ci raccomandò con gesti di mangiare piano piano. Non lo so quanto dormii in quel morbido giaciglio, mi svegliai al rumore di tanti colpi di fucile, tutto assonnato stavo trovando le scarpe che non trovavo al buio, per andarmene perché pensavo che fossero già arrivati i russi, quando entra un tedesco con una lanterna in mano e ci fa cenno di star buoni senza rischi. Ci fa capire che sono camerati tedeschi, che è la mezzanotte del 1° dell'anno del 1943: mi sentii riavere. Avevo passato il Natale nella sacca e non me n'ero accorto e che mi ero nutrito dal 17 dicembre al 1° gennaio del '43 di pochi pezzetti di galletta e di carne in scatola e tante boccate di neve (non descrivo il male di quando andai dopo tanti giorni al gabinetto). La mattina il piantone addetto porta un tè con delle foglie dentro, ma lo bevo lo stesso, perlomeno per riscaldarmi lo stomaco. Era con me un solo italiano, un bersagliere toscano, ma non mi ricordo il nome e poi c'era qualche polacco e il resto tutti tedeschi. Mi ricordo avevo un orologio al braccio di quelli rettangolari: lo vendei 56
Volume settimo ad un tedesco per 40 marchi, credetti di avere fatto un buon affare perché non era mai andato bene. Alla sera di quello stesso giorno il solito piantone ci disse: «Zantra, ciuf ciuf». Zantra in russo vuol dire domani, ci avrebbe messi in treno. Non ci credevo poiché la mia mano, benché la sbattessi ripetutamente nel muro, seguitava a sgonfiarsi, ma un po' di febbre me la sentivo ancora. E fu vero venne un'autoambulanza, ci caricarono e ci portarono ad una stazione di questo grande paese che non so il nome, avevo una grande paura che mi richiamassero indietro. Seguitavo a ringraziare la Vergine del Rosario. Finalmente il treno si mosse. Era una tradotta. Eravamo una trentina per vagone, era molto lunga, nel mio vagone ero solo io di italiani. Mi ricordo via via che ci si avvicinava alla stazione mi dicevo dentro di me:«Ora mi faranno scendere» e invece si passava con mio grande piacere. Vidi un cartello con su scritto Ricovo. Ora mi dissi che era la volta che mi scaricavano, perché sapevo che a Ricovo c'era un centro ospedaliero italiano, ma anche quella stazione passò. Mi sentivo qualcosa dentro di me come di contento via via che ci allontanavamo. Finalmente dopo giorni, in Polonia e precisamente a Leopoli, ci fermammo in stazione: mi affacciai e vidi due carabinieri passare ad ogni carro e domandare se c'erano italiani. Il piantone del mio carro rispose:«Ein!» e alzò un dito. Mi domandarono se potevo camminare, dissi di sì, se no altrimenti avrebbero chiamato l'autoambulanza. In tutta quella tradotta eravamo una decina . Camminammo un bel pezzetto e ci dissero che era arrivato da pochi giorni un ospedale militare venuto da Firenze. Si era installato in un ospedale civile requisito ma ancora non erano del tutto organizzati e che eravamo i primi malati. Ci accolse un ufficiale: volle sapere come era andata. Per fortuna la mia mano era sempre un po' gonfia, frutto anche delle botte che avevo dato alle casse di quel vagone, ma anche la temperatura c'era (devo dire un particolare che in queste righe non ho mai accennato: io devo avere una carne così buona da piacere tanto ai pidocchi, perché ne avevo tanti addosso da non contarli nemmeno e siccome quegli animaletti mordono, io cercavo con le mie unghie di scacciarli e nascevano sulla mia pelle delle belle cicatrici a forza di grattare). Prima di metterci a letto ci fecero fare un bagno. presenziava anche un ufficiale giovane, mi vide in quello stato e si commosse. Il solito ufficiale venne anche a visitarmi, gli raccontai tutto della mano e della temperatura, la febbre reumatica. Dal fronte non sapevamo nulla, ma dopo due giorni che ero lì arrivarono tanti soldati italiani e l'ospedale si riempì. Pensavo sempre e dicevo dentro di me:«Ora, quando non avrò più temperatura mi rimanderanno indietro», ma dopo sei giorni fecero una tradotta e rimpatriammo, mi 57
Ultime Voci inviarono a Varese in un ospedale militare, "Macchi" si chiamava. Ci passarono la visita, a me non dissero niente, guardavano la cartella. Ci disinfettarono noi e i nostri panni e finalmente ci dettero a tutti quelli rimpatriati un mese di convalescenza. Partii per Firenze, mi ricordo sempre era il 3 febbraio del 1943, a casa mi aspettavano perché avevo fatto un telegramma. Dopo tre o quattro giorni andai a Pompei a ringraziare la Vergine del Rosario, alla quale avevo fatto un voto che se fossi ritornato a casa... Dopo i trenta giorni di convalescenza passai una visita all'ospedale di S. Gallo a Firenze e mi diedero ancora altri tre mesi. Dopo, finiti anche questi, dovetti ripresentarmi al 6° Reggimento a Bologna. La guerra continuava. Gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e venne l'8 settembre. Tutti i soldati scappavano dalle caserme. I tedeschi, se trovavano un soldato italiano, lo deportavano in Germania. Delle donne mi vestirono da tramviere e a piedi in due tappe, attraverso i boschi, venni a casa. E così dopo 3 anni, 5 mesi e 20 giorni finì la mia vita militare. Ma ahimè non era finita ancora: dovevo pur mantenere la mia famiglia. Trovai un lavoro, presi a fare una casetta di un contadino a Baccano nella (?), dove i cacciatori tirano agli uccelli, di proprietà (?). Stavo nascosto, mia moglie mi portava il pranzo. La sera tornavo a casa di buio perché a Fiesole c'erano i tedeschi che rastrellavano i giovani. Una mattina comincia a spargersi la voce che un manifesto del Comune diceva che gli uomini dai 15 ai 50 anni dovevano presentarsi al Municipio. Che momento! Avevamo già Silvano di pochi mesi, decidemmo di non presentarmi. Presi una coperta, passai attraverso al (?) e andai in Pian del Mugnone. Laggiù era un altro mondo. Non c'era neppure un tedesco, ma in compenso arrivarono tante cannonate. Mi rifugiavo in un tombino della ferrovia che era stata fatta già saltare. Mio padre mi portava le notizie da Fiesole. Gli uomini che si erano presentati li avevano mandati al giogo a fare le fortificazioni. Un giorno decisi di tornare a Fiesole, andai a rifugiarmi nell'archivio del vescovo allora mons. Giorgis (valente buon pastore). Le suore mi davano anche un piatto di minestra, perché io e la mia famiglia non avevamo niente. Una mattina la suora mi disse che il vescovo era stato avvertito che nel palazzo episcopale si sarebbe installato un comando tedesco e che io decidessi cosa dovevo fare. Le notizie come si sa in questi casi si accavallano sempre: si diceva che c'era da fare un servizio per la Misericordia di Fiesole. Si trattava di portare a Firenze una signora che aveva partorito due gemelli all'ospedale. Mi riversai di corsa alla sede e anche là trovai gente disposta a fare questo servizio. Decisi di portare 58
Volume settimo via i miei figli e mia moglie, mia mamma e la mia sorella. Ci avrebbe raggiunto anche il babbo, venne via anche mia zia e il mio cugino, architetto Parigi. Ci vestimmo con la cappa della Misericordia, prendemmo il volantino, andammo all'ospedale. Mia moglie mi seguiva con la carrozzina, dentro c'era Silvano e un po' da mangiare. Arrivammo alla Villa Medici, trovammo il posto di blocco tedesco. Pensai:«Ora ci rimandano indietro». Ma come Dio volle ci fecero passare (e fummo gli ultimi perché a Firenze non venne più nessuno). Dopo avere portato a casa i due gemelli e la mamma, ci dileguammo, noi con tutta la famiglia, anche quella della zia Parigi. Si andò ad abitare in casa di mio fratello in via Alessandro Marchetti, ma il secondo giorno che eravamo lì arrivò una cannonata in camera: rimase ferito non gravemente mio padre. Non rimanemmo lì, si prese tutti i nostri carabattoli con la zia Cesira in testa con una bandiera bianca, attraversammo la ferrovia (ma non ci credereste, sembrava un altro mondo, tutta la gente fuori a passeggiare), arrivammo in piazza del Camposanto degli Inglesi, i partigiani ci misero in un quartiere all'ultimo piano di un fascista che era scappato, ma anche lì ci trattenemmo poco, perché delle pattuglie tedesche venivano ancora in quelle zone. Una mattina dalle nostre finestre assistemmo ad uno scontro fra tedeschi e partigiani, rimasero sul terreno due tedeschi. decidemmo di andare in centro. Mio cugino Anselmo, che a quei tempi era assistente all'Università, ci portò nei sotterranei della Facoltà di Architettura. Il giorno si stava nel'aula e la notte si andava nel sottosuolo. La zia faceva la minestra in giardino. Ed è a questo punto che devo raccontare un aneddoto: come ho detto prima il giorno stavamo nell'aula; ora una sera mia moglie si accorse che aveva lasciato dei panni per il bambino e mi pregò se andavo a prenderli, li aveva lasciati su di un banco dell'aula. Avevo una macchinetta accendisigari, che faceva quando se ne ricordava, mentre ero intento per vedere se mi riusciva di farla prendere, affinché potessi vedere dove erano i panni, mi sentii arrivare un sibilo vicino alla faccia, intuii che era una pallottola di fucile, e come potei constatare la mattina era conficcata nel muro vicino alla porta (pensai: «Guarda dove potevo morire!»). Gli Alleati erano già arrivati a Firenze, davano del pane, si facevano delle lunghe code, ma alla fine qualcosa a casa portavamo. Finalmente venne la liberazione anche di Fiesole, così una mattina si ripartì per Fiesole. Trovammo tutto in ordine in casa, riprendemmo piano piano il solito... Io tornai a lavorare, allora ero con l'architetto Parigi e sotto la direzione dell'architetto Pagnini restaurammo la chiesa di S. Maria Primerana, la colonna romana e i vari affreschi sono stati da me scoperti, come ho detto in altra parte 59
Ultime Voci di queste memorie. In questi anni nulla di particolare, il solito lavoro di muratore. Siamo il 16 febbraio 1972, ho dovuto ricoverarmi all'ospedale per un polipoma anale. Sono questi i giorni più brutti della mia vita. Io che non avevo si può dire avuto mai niente, a 60 anni precisi ho dovuto operarmi e che intervento difficile! Quando mi sono svegliato dalla narcosi che mi avevano praticato, mi sono guardato intorno, sembravo un palombaro, tubi di qui, tubetti di là, non mi potevo muovere, sono stati giorni difficili per la mia sopravvivenza, anche il morale era compromesso, ed ero anche un po' scosso di nervi, tanto è vero mi davano fastidio tutti i miei amici e parenti che venivano a farmi visita. Poveretti, mi consolavano dicendomi:«Fernando, mi raccomando, stai tranquillo fatti coraggio», per decine di volte. Ma uno in quelle condizioni tanto tranquillo non può essere. Io prendo da questa mia esperienza una lezione, che quando vado da un malato non gli dirò mai «Stai tranquillo», è meglio dirgli: «Io ti auguro di cuore una pronta guarigione».
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Volume settimo Bruno Fattori
Bruno Fattori nato a Vaiano il 16 novembre 1925 partecipò alla Resistenza partigiana nel Val di Bisenzio. La sue vicende sono raccontate dal padre Adelindo.
Bruno Fattori nacque a Vaiano il 16 novembre 1925 da Adelindo e Antonietta. I primi anni della sua infanzia li trascorse nel palazzo Fattori a Vaiano, dove abitava la sua famiglia: «Era un bambino molto sveglio ed intelligente » ricorda Adelindo «la sua prima lettura è stata Il Corrierino dei piccoli; aveva circa tre o quattro anni e già amava leggere. Nel 1932 iniziò la scuola dell'obbligo a Vaiano, si distinse subito per la sua attenzione e bravura. Nel 1933, per il mio lavoro ci trasferimmo all'Isola, vicino alla fattoria dei Piani, dove io lavoravo». Bruno frequentò le scuole della Briglia. «La sua maestra si chiamava Calandri, lo seguii dalla scuola elementare, fino alla quinta » prosegue il padre nei ricordi. «Questa maestra era entusiasta per l'intelligenza di Bruno, insisteva perché lo facessimo studiare. Ma io non avevo i mezzi per far proseguire gli studi al ragazzo. L'insegnante sperava in una borsa di studio. La maestra Calandri non si diede per vinta, ospitò Bruno a Firenze a casa sua, lo preparò per gli esami d'ammissione alle superiori. Lei in quella borsa di studio ci sperava, ma Bruno non fu ammesso, perché io, suo padre, non avevo la tessera del partito fascista». Bruno tornò a casa e fu assunto alla fabbrica “Forti e Galletti” come sottofilatore.
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Ultime Voci «Sul lavoro fece le prime conoscenze politiche sindacali clandestine.» prosegue il racconto del padre «Senza parlarne in casa, iniziò a pagare il 'soccorso rosso' e a leggere libri che parlavano della condizione sociale dei lavoratori, delle lotte sindacali, ecc. ... Nel 1943 fu richiamato per entrare nella Repubblica di Salò, ma decise insieme ad altri giovani brigliesi, tutti della stessa età, di entrare nella Resistenza». «Il 3 marzo del 1944, in una mattina fredda e cadevano anche fiocchi di neve» racconta Adelindo «lo accompagnai ai Faggi di Javello, dove esisteva già una formazione di partigiani. Dopo qualche tempo la formazione dei partigiani scese alla Briglia per fare rifornimento di coperte e altri generi di prima necessità. Qualcuno fece la spia e dovettero ricorrere alle armi. Ci fu una sparatoria, fortunatamente senza feriti. In questa azione Bruno si distinse per il coraggio e la sua serietà, tanto che fu nominato “capo squadra”. Erano tante le 'azioni' che mettevano in atto, anche per procurarsi i viveri, non sempre andavano bene. Purtroppo le spiate erano una cosa ricorrente. Una volta scesero a Fognano (nella valle della Limentra): una spiata li fece ritrovare in mezzo al fuoco nemico, formato da repubblichini e tedeschi. Bruno e altri suoi compagni partigiani, fra i quali due russi, riuscirono a fuggire senza subire danni. In seguito si unirono alla formazione partigiana sui Faggi, qui arrivò l'ordine di unirsi con altre formazioni presenti sul monte Falterona. Per raggiungerli dovevano spostarsi a piedi e attraversare valli e monti, percorrere anche tratti di strade col pericolo di essere visti». «In uno di questi spostamenti, la squadra di cui faceva parte Bruno si scontrò con una pattuglia di tedeschi. La fortuna e molta presenza di spirito li aiutarono a salvarsi. Ma la fortuna non li aiutò quando arrivarono nella zona dove si dovevano ricongiungere con le altre formazioni. Si resero conto di essere accerchiati dai tedeschi. Bruno fece una ricognizione, si accorse che alcune sentinelle avevano abbandonato il loro posto di guardia» Spiega Adelindo: «La situazione era molto seria e pericolosa. Per cercare di fuggire all'accerchiamento, i comandanti decisero di sciogliere le formazioni e cercare di salvarsi 62
Volume settimo alla spicciolata. Bruno, insieme ad uno studente di Firenze chiamato Mario e uno slavo di nome Tony, per sfuggire ai tedeschi, passarono da luoghi impervi, dovettero stare per un giorno intero nascosti sotto un masso, vicino ad un fosso dove scorreva a pochi metri un rivolo d'acqua. La sete li divorava, perché per l'ultimo e unico pasto avevano mangiato una scatoletta di acciughe. Dovevano resistere, muovendosi dal nascondiglio rischiavano di essere visti da una postazione tedesca, gli avrebbero certamente sparato, rischiavano di essere uccisi. Era il giorno di Pasqua, durante la notte si fecero coraggio e partirono. Scesero verso Bagno a Ripoli, Bruno si ricordava che in quella zona vi abitava una zia». Il padre ricorda: «Da bambino, aveva circa sei anni, lo avevo portato con me a farle visita». «Anche se c'era stato una sola volta, riconobbe il posto, si avvicinarono alla casa e chiesero di essere aiutati. Raccontarono che erano scappati dai tedeschi che li volevano portare in Germania prigionieri. All'inizio la zia rifiutò l'aiuto, non era in buoni rapporti con la famiglia di Bruno, però li fece andare da un contadino vicino. Questi diede loro da mangiare e anche dei vestiti puliti. Dopo essersi riposati ripartirono. Mario si diresse verso Firenze. Bruno e Tony attraversarono la Calvana e scesero il versante per arrivare alla Briglia e alla casa dell'Isola. Dovettero nascondersi, in paese sapevano che Bruno era partito per il militare. Prima di partire per i Faggi di Javello per unirsi ai partigiani, aveva scritto due cartoline postali dirette alla famiglia, per rendere più credibile la storia se ci fossero stati dei controlli, le aveva fatte impostare da un mio parente, che lavorava nelle ferrovie, ed erano state impostate in due città diverse del Nord d'Italia. Bruno nelle cartoline spiegava che si trovava nel reggimento e presto sarebbe partito per la Germania». «Quando i fascisti vennero a cercarlo a casa» ricorda Adelindo «noi mostrammo le cartoline e loro credettero che Bruno si fosse arruolato e ci lasciarono in pace. Bruno e Tony nella loro fuga non vennero a casa, ma si nascosero in un bosco vicino alla Briglia. Un giorno, vicino al nascondiglio dove erano nascosti passarono due donne che Bruno conosceva per persone fidate. Mandò un messaggio a casa dicendo dove era nascosto. Noi non potevamo farlo venire a casa, avevamo ospitato degli sfollati ed erano fascisti, non era prudente che si facesse vedere. Così Bruno e un suo amico brigliese rimasero nascosti nel bosco. Tony invece riprese i contatti con i capi clandestini partigiani, questi provvidero a nasconderlo fino a quando non si ricostituì la formazione partigiana ai faggi di Javello. In seguito anche Bruno con i suoi amici, il Cati Mario e altri giovani della 63
Ultime Voci Briglia si riunirono ai partigiani. Avevano bisogno di viveri, la popolazione come poteva li aiutava. Anche i contadini della fattoria dei Piani all'Isola, dove io lavoravo come muratore, li aiutavano con il mio intervento» Adelindo conclude il suo racconto con la rocambolesca fuga di Bruno che si salvò dall'impiccagione: «Al momento della liberazione, quando la formazione dei partigiani si dirigeva verso Prato, era arrivata la notizia che la città era libera, gli fu tesa un'imboscata, molti giovani, 29 per l'esattezza, furono catturati e impiccati a Figline. Bruno riuscì a fuggire ed a salvarsi, saltando una rete della villa del Finelli, oggi Villa Fiorita, aiutando a fuggire anche un ragazzo calabrese ferito. Faticosamente riuscirono a risalire il monte delle coste e scendere verso un rifugio antiaereo vicino alla Briglia. Ebbero un gran fortuna, arrivarono al 'rifugio' un momento dopo che i tedeschi lo avevano perquisito e se ne erano andati via. Si diressero in seguito a Prato, ormai liberata, dove Pannuto, così si chiamava il ragazzo calabrese, fu ricoverato all'ospedale. Bruno tornò finalmente a casa». «Dopo la liberazione Bruno aderì al Movimento giovanile comunista di Prato. Si era costituito il Fronte della Gioventù a Firenze, Bruno vi partecipò come dirigente, trasferendosi a Firenze. In seguito ritornò a Prato, occupandosi del lavoro sindacale e fu eletto segretario della Camera del Lavoro, era il 1947. Durante questo periodo fu colpito dalla prima emorragia cerebrale. Era il febbraio del 1947, quando una sera verso le otto tornava a casa, pioveva forte, all'improvviso cadde a terra e rimase paralizzato, sentiva e capiva ma non si poteva muovere. Fortunatamente passò Ardelio Cecchi, un vicino di casa, lo spostò sul lato della strada, perché non fosse investito, anche se il traffico a quei tempi era scarso e corse a chiedere aiuto alla casa vicina, il Pierattino. Delle persone accorsero e lo portarono in casa, mentre altre si precipitarono a chiamare il dottore, altri ad avvisare la famiglia. Tutti parlavano della gravità in cui versava Bruno, pensavano che lui non capisse, mentre capiva benissimo ciò che dicevano. Quando arrivò il dottore, dopo averlo visitato, proibì di muoverlo, lo avevano spogliato degli abiti bagnati e avvolto in una coperta di lana. Durante la notte iniziò a riprendersi e a sentire la coperta che bucava (lui non sopportava gli indumenti di lana). Capì che era salvo, lo disse alla sua mamma che era rimasta a vegliarlo. Il giorno dopo lo portammo a casa, era tornato normale, ma aveva delle dolorosissime emicranie. Fu visitato da diversi medici e specialisti, furono fatti dei consulti, ma a quei tempi la medicina non aveva a disposizione mezzi tecnici per fare una diagnosi precisa di quello che era successo a Bruno. Fu ipotizzato che un virus 64
Volume settimo avesse attaccato una vena cerebrale provocando una emorragia, col tempo tutto sarebbe tornato normale». Dopo questo episodio tornò alla sua attività di sindacalista. Furono tante le lotte sostenute da Bruno in favore degli operai, a partire dalla lotta della fabbrica Calamai a Vaiano a quella del Fabbricone a Prato. Erano anni molto duri. In questi anni conobbe Anna Fondi, pratese e impegnata anche lei in politica e nel sindacato. Si fidanzarono, nel 1951 si sposarono e andarono ad abitare in famiglia, all'Isola. Nel 1952 nacque Daniela ed era la nonna Tonina a prendersi cura della piccola, dato che i genitori lavoravano entrambi. Furono anni duri, lotte sindacali sostenute da Bruno e Anna insieme, entrambi erano sindacalisti e il lavoro li univa. Quando tutto precipitò: il male tornò a colpire Bruno. Era il 16 novembre del 1957, il giorno del compleanno di Bruno, venne ricoverato all'ospedale di Prato. Su richiesta dei medici fu fatto un consulto con un grande specialista. Questo consigliò il ricovero nella clinica neurologica di Padova. La ricerca medica era progredita da quando Bruno aveva accusato i primi sintomi della sua malattia ed appurarono che era un aneurisma della vena mediale, difficilmente operabile. Non gli fu nascosta la gravità dell'intervento, gli spiegarono che le probabilità di riuscita dell'operazione erano poche. Bruno decise di operarsi, per lui vivere con una 'bomba' nel cervello non era vita. Iniziarono così le preparazioni all'intervento. Ma pochi giorni prima, quando era quasi tutto pronto, una emorragia più forte della prima lo uccise. Era il febbraio del 1958. Nel viaggio di ritorno da Padova, in tutti i centri della Val di Bisenzio, ai lati della strada, tanta folla ad aspettare il feretro per rendergli omaggio. «Ai funerali» ricorda commosso Adelindo «credo che tutti gli operai di Prato fossero presenti tanta era la folla in piazza del Duomo».
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Ultime Voci Umberto Mascii
Umberto Mascii partecipò allo sciopero contro la guerra del 7 e 8 marzo 1944. Recatosi in fabbrica per avere notizie sulla prosecuzione della protesta, fu catturato con l’inganno e portato nel campo di Mauthausen, in Austria. La testimonianza è stata rilasciata da Ubaldo Mascii, fratello di Umberto, a Sergio Paolieri.
Marzo 1944 Sono ricordi gelosamente tenuti nel cuore ed oggi espressi perché importanti alla ricostruzione storica di un episodio sul quale nel corso degli anni le manomissioni, volontarie o no, hanno fatto sì che non si riconosca il grano dalla zizzania, il vero dal falso. Aderisco quindi all'invito degli amici autieri e lodo senza riserve questo prezioso servizio che hanno inteso offrire alla città riscoprendo le dimensioni reali del sacrificio che Prato soffrì in tutte le sue componenti sociali in quel tremendo 1944. Ed è proprio al marzo 1944 che ritornano i miei ricordi. Mio padre e mia madre erano ambedue operai nel reparto di tessitura della ditta fratelli Lucchesi in via Carradori. Il mese era iniziato con le avvisaglie di un temporale politico foriero di incalcolabili conseguenze;il malcontento popolare per il protrarsi di una guerra senza speranze e condita ogni giorno di nuovi lutti e sacrifici trovò il modo di esprimersi nello sciopero che le organizzazioni sindacali clandestine avevano indetto con un invito generico a disertare il lavoro. Fu una parola d'ordine che gli operai si trasmisero vicendevolmente e che portò al blocco dell' attività delle fabbriche del Nord e del Centro Italia. 66
Volume settimo Un blocco che andò avanti per alcuni giorni nell'incertezza del momento in cui sarebbe terminato, visto che non ci furono mai parole d'ordine, sia pure clandestine, a deciderlo. La reazione della propaganda fascista, tramite i giornali e la radio, si scatenò, furibonda per la sfida subita: le minacce di ritorsioni e di punizioni per quello che la propaganda definiva reato di "alto tradimento" non si fecero attendere. Il 7 marzo al mattino, le sirene fecero scendere la popolazione nei rifugi: fu un falso allarme. Ricordo che all'uscita delle cantine del Collegio Cicognini trovammo una brutta sorpresa: sulla piazza del collegio era schierato l'intero battaglione Muti, il famigerato corpo fiorentino di camice nere celebre per i suoi metodi sbrigativi. Da alcuni militi sentii rivolgere a me e alle persone che avevo accanto una triste profezia: «Prima di questa sera qualcuno piangerà ...». Nel pomeriggio nuovo allarme e questa volta purtroppo non a vuoto: la città subì uno dei più gravi bombardamenti aerei dalle formazioni americane: fu ridotta in briciole una delle testimonianze della tradizione storica e artistica pratese, la Madonna di Filippino Lippi all'angolo di via Santa Margherita col Mercatale. Al cessato allarme subito fu alacre il lavoro dei disastrati per salvare dalle macerie il salvabile e vennero dalla campagna gli uomini sfollati per constatare la sorte delle loro case: fu a questo punto che si scatenarono le milizie fasciste con un rastrellamento di tutti gli uomini che riuscirono a intercettare in quel momento di grave emergenza cittadina. Si seppe da casa quello che stava avvenendo e trepidammo per mio padre che tardava a tornare poi, come Dio volle, quasi all'imbrunire sentimmo il suo passo nella via deserta e potemmo tirare il sospiro di sollievo. Nel segreto della casa assistei alla discussione fra mio padre e mia madre, questa intenzionata a proseguire lo sciopero, mio padre invece piegato responsabilmente dall'incertezza e dal clima intimidatorio che la giornata aveva purtroppo concretizzato, sosteneva la necessità del ritorno al lavoro e questa fu infine la decisione comune. Il giorno successivo, come è noto, si presentarono ai cancelli della fabbrica i militi in camicia nera e caricarono su un pullman tutti gli uomini che dai registri delle presenze risultavano aver partecipato allo sciopero. Fui testimone, sul portone della fabbrica, della disperazione di mia madre e della apparente tranquillità del babbo; mi disse: «Porta a casa la mamma, ci portano al commissariato per interrogarci e quindi tornerò fra poche ore perché io non ho fatto nulla di male ... » furono le sue ultime parole che udii e che mi sono rimaste impresse nel cuore con la sua immagine serena dietro il vetro del finestrino del pullman. Quando nel primo pomeriggio mi recai in Fortezza, dove si seppe che erano stati por67
Ultime Voci tati, ebbi dal comandante schietta e cruda la verità: la sera stessa sarebbero partiti per la Germania. Nessuno allora poteva immaginare che cosa li attendeva oltre confine: della tragica realtà dei campi di concentramento nessuno sapeva, nessuno parlava. Forse essi si accorsero della piega che stava (sic!) prendendo le cose quando si ritrovarono nei vagoni piombati, quando si appigliarono all'ultima speranza che i partigiani calassero dai monti e bloccassero la ferrovia, una speranza che si dimostrò vana. Di loro non si ebbe più alcuna notizia fino al maggio dell'anno successivo, quando incominciarono a tornare a Prato i pochi superstiti. Da loro appresi che non dovevo attendere il ritorno di mio padre: era stato ucciso con una raffica di mitra appena un mese dopo essere arrivato a Ebensee. Solo nel '48 ebbi l'occasione con un gruppo di reduci e di familiari dei caduti di recarmi sul luogo dove erano ancora in piedi le strutture del famigerato campo di sterminio e con indicibile commozione raccolsi quel pugno di terra intrisa di lacrime, sudore e sangue che fu deposto in un'urna del Sacrario che la Misericordia dedicò ai caduti di Ebensee e di Mauthausen: un sacrario che per decenni è stato dimenticato e che solo da pochi anni è stato riscoperto nel suo significato di ricordo e di ammonimento alle generazioni di oggi e di domani.
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Volume settimo Loris Migliani
Loris Migliani nato a Carmignanello nel 1921, cugino di Marisa Migliani, partecipò alla campagna in Russia nell’Armata Julia, nella seconda guerra mondiale 1940 – 1945.
Nel periodo fascista, nella guerra voluta da Mussolini, Loris era militare di leva, classe 1921 e stava facendo il suo dovere di cittadino. Era nell’Armata Julia, a combattere in Russia, su un fronte lontano e sciagurato. I nostri soldati, male equipaggiati di tutto, e Loris Migliani era tra quelli, costretti nella ritirata in condizioni spesso estreme: privi di mezzi di qualsiasi genere, sottoposti a marce massacranti, a temperature insopportabili, in un ambiente, per troppi versi, ostile. Ad un certo momento mio cugino con le membra doloranti e mezzo congelato, si fermò distendendosi sulla neve deciso a lasciarsi morire. Lo vide il suo Capitano che resosi conto della gravità riuscì, sia pure con enorme difficoltà, a caricarlo sopra un camion, riuscendo così, dopo tante peripezie e giorni di disperazione, ad arrivare all’ospedale di Udine, dove gli fu diagnosticata una broncopolmonite e la pleurite , oltre a un fisico devastato dagli stenti. Ci volle del tempo per riprendersi, ma quando riuscì a stare meglio gli fu concessa la convalescenza. A casa con le cure amorevoli dei genitori e l’affetto dei parenti, migliorò parecchio e potè anche uscire per qualche svago con gli amici. Un giorno in paese proiettavano un film, Villafranca era intitolato. Convinto dagli amici andò a vederlo. La trama 69
Ultime Voci consisteva nel racconto della vita di un importante uomo politico che alla fine preso dalla disperazione si suicida. A mio cugino Loris venne spontaneo esclamare: «Così, dovrebbe fare anche il nostro Duce!». Fra gli amici scese un silenzio imbarazzante. Poi, uno di loro, appena tornato a casa, andò a denunciare l’accaduto ai carabinieri. I carabinieri non persero tempo, si recarono nell’abitazione di Loris, lo ammanettarono come se fosse un delinquente e lo portarono all’ospedale di Alessandria in quanto ancora convalescente, ma poi il suo destino era la prigione Nel periodo della degenza ad Alessandria gli fece visita il suo Capitano. Lui si meravigliò molto di quella visita, e lo fu ancora di più quando gli disse assai bruscamente di prendere il ritratto del Duce e scaraventarlo fuori dalla finestra. Mio cugino, oltre a essere sbalordito, cercava di difendersi da tale proposta pensando: «Qui mi vogliono incastrare peggio di quello che già sono!» Il capitano insisteva ma la risposta di Loris era sempre la solita. Allora il capitano stesso prese il quadro col ritratto di Mussolini e lo scaraventò dalla finestra. Mio cugino Loris Migliani seppe così della caduta di Mussolini e in conseguenza del fatto gli fu concessa una licenza premio. Per lui, soprattutto, ma anche per noi fu una bellissima cosa. Una felicità grande. Oggi, quel mio carissimo cugino, ha 92 anni ed è un bel vecchio saggio.
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Volume settimo Venturino Panicagli
Testimonianza di Venturino Panicagli, inserita nel libro “ GLI ANZIANI... RACCONTANO!! Quartiere N. 5, Comune di Prato. Il testo è stato consegnato a Silvana Santi Montini dalla signora Marina Ciampi, d’accordo con la famiglia del Panicagli, perchè un rifacimento di tale testimonianza, sia inserita in Ultime Voci.
La naja, 1938-1945 «Per raccontare la mia vita ci vorrebbe un romanzo, ma voglio provare io», dice Venturino. Il 16 maggio del 1938 fui richiamato alle armi. Mi presentai al Distretto di Firenze e fui destinato al corpo Cavalleria a Cagliari, dove rimasi fino al mese di aprile del 1940. Durante questo periodo, sei mesi di servizio nello squadrone e poi attendente, non posso lamentarmi di nulla. Trascorso il servizio permanente, si pensava con gioia e già si contavano i giorni, di poter tornare a casa in congedo. Ma giunti al momento tanto desiderato, venne l’ordine di trattenimento. Fu un dispiacere enorme. Anche perché davanti a noi si profilava un torbido avvenire e via via che i mesi passavano, in vista non c’era niente di buono. Nell’aprile del 1940, arrivò l’ordine che un certo numero di cavalleggeri doveva essere appiedato, io rientrai tra quelli. Partimmo il tre aprile, arrivando il cinque a Tirano, al confine con la Svizzera. Dopo poco, il dieci giugno eravamo in guerra contro la Francia. Fui chiamato e mobilitato 71
Ultime Voci con immediata partenza per la Lombardia, raggiungendo il paesino di Iselle. La Francia si era arresa, così non siamo partiti e non abbiamo sentito un solo colpo di maschetto. Siamo rimasti a Iselle quattro mesi, poi abbiamo raggiunto Dervio, un paese sul lago di Como. Qui sono stato smobilitato, e ho iniziato la buona vita come cameriere alla mensa Ufficiali, dove sono rimasto fino al mese di maggio del 1941. Di nuovo una partenza con ritorno a Tirano dove sono entrato spaccista. Ho trascorso così dieci mesi di buona vita, assai più tranquillo dei compagni che prestavano servizio nella Compagnia. Ma dovevamo sempre tenerci pronti per l’imprevisto. Infatti nel febbraio del 1942, una nuova chiamata ordinava che tutti i vecchi cavalleggeri non mobilitati per nessun fronte, dovevano rientrare in Cavalleria, nella vecchia Arma. Siamo partiti per Voghera, destinati al 13° Regg. Cavalleggeri. Circa un mese di addestramento e poi la partenza per l’Albania, dove è cominciata la triste vita di guerra: sacrifici, pericoli, fame e lavoro giorno e notte. Abbiamo trascorso l’estate in un caldo tremendo e l’inverno al freddo e sotto la pioggia. Giorni tristi e indimenticabili, quelli. Nel marzo del 1943 un telegramma mi annunciava le gravi condizioni della mamma. Mi dettero una licenza di quindici giorni. A casa ho trovato mia madre ancora viva e dopo qualche giorno le sue condizioni sono migliorate. Finita la licenza sono ripartito per Bari, punto d’imbarco per ricongiungermi col mio Reggimento. Durante l’attesa, durata ben ventisette giorni, ho preso la malaria, così sono stato ricoverato all’ospedale di Gioia del Colle e poi a Riccione. Dopo 93 giorni di ospedale, sono stato rimandato a casa con un mese di convalescenza. A casa il tempo è volato, e dovetti ripresentarmi al Deposito di Voghera: era il 31 agosto 1943. L’otto settembre l’annuncio dell’armistizio, io il giorno dopo ero nelle mani dei tedeschi. Durante i sessantasei mesi di militare c’erano stati periodi buoni e altri cattivi, ma i peggiori dovevano ancora venire. Fin dai primi giorni abbiamo visto cosa voleva dire “tedesco”. Si mangiava una sola volta al giorno e questo era considerato normale perché è continuato anche dopo. Siamo rimasti fermi cinque giorni e poi di nuovo in viaggio. Ci attendevano i campi di concentramento chiusi da grossi reticolati. Ci abbracciava un nuovo destino, una condanna non meritevole. Dentro quei recinti il cielo sembrava diverso, imbronciato e cattivo anche lui, la fame, il pensiero dei nostri cari, il triste dormire, i maltrattamenti... tutto serviva a demolire le nostre forze, a stroncare la volontà e la speranza. In poco tem72
Volume settimo po eravamo ridotti come cadaveri, migliaia di giovani incapaci di una parola di scherzo, di un sorriso, di uno sguardo sereno. Solo e sempre il pensiero di ciò che si presentava davanti ai nostri occhi, la bruta realtà da vivere. Ci spostavano da un posto a un altro di frequente, così da quel primo campo siamo stati smistati e mandati in centri di lavoro. Io con tanti altri, siamo stati mandati ad Amburgo, al lavoro di rimozione delle macerie. Qui ci davano qualcosa in più da mangiare e avevamo qualche opportunità di arrangiarsi, per cui la nostra condizione è un po’ migliorata. Il peso più angosciante era quello di non poter dare e avere notizie da casa. Ma il tempo passa comunque, anche lontano e nelle atrocità più amare, così siamo giunti a Dicembre e finalmente il giorno 18 abbiamo potuto scrivere ai nostri cari. Lo scritto doveva essere limitato, le parole venivano contate e controllate, ma anche quel poco per noi era tantissimo e bastava a far sapere dove eravamo e soprattutto che c’eravamo e nello stesso tempo avere anche noi loro notizie. Di sofferenza in sofferenza è arrivato maggio del 1944. Dopo tanta attesa, una sera, tornato dal lavoro ho trovato posta. Quella era una delle cose più belle, il desiderio più grande in quella solitudine priva di ogni conforto. Il 14 del mese di giugno, di nuovo un trasferimento. Eravamo mille italiani, un battaglione pronto per un’altra zona e un altro lavoro. Il nuovo lavoro consisteva nel dover riattivare una grande fabbrica di benzina, danneggiata dai bombardamenti. Capimmo da subito che la musica, qui, era ben peggiore. Non ho parole per rappresentare le nostre condizioni fisiche e morali. Pochissimo il mangiare, dodici ore di lavoro continuato. Non c’era giorno che qualcuno non partisse per l’ospedale. Giorni lunghissimi, e lunghe settimane in condizioni disumane, ma alla fine, il malvagio “tedesco” credo abbia dovuto prendere una decisione: o ci faceva morire tutti o ci aumentava la razione di cibo. Ci aumentarono, pur nei limiti di una misera sopravvivenza, il cibo per poter sfruttare sul lavoro le nostre restanti misere energie. In queste condizioni, il sette di luglio arrivarono gli americani, che certo non risparmiavano i bombardamenti. Per cui colpirono la fabbrica in pieno, lasciandola in un ammasso di fiamme e fumo e con tanti prigionieri morti. Da quel giorno, ad ogni allarme si scappava in mezzo ai campi e si faceva come dice il proverbio: «O di paglia o di fieno, basta che il corpo sia pieno». Così noi, come le bestie, quello che si trovava per terra, tutto veniva messo in bocca. Il pericolo dei bombardamenti, si fa per dire, diventava salute per il corpo. Però i bombardamenti erano frequenti, 73
Ultime Voci mesi e mesi sotto quel flagello e ognuno voleva e prendeva le sue vittime. Nel mese di ottobre, noi italiani, siamo passati “civili”, il miglioramento era poco, ma almeno era finita la seccatura di avere sempre dietro la guardia armata. Noi del battaglione siamo passati alla Vermacht, non più prigionieri ma comunque sotto controllo militare. A novembre ho trovato un compagno, Cecchi Bruno, un vicino di casa, in certe circostanze non c’è cosa più importante e che faccia più piacere ma forse, bisogna provarle certe emozioni per crederci. Nel 1945, aumentano le incursioni aeree, il fronte si avvicina e gli apparecchi sono sugli obbiettivi appena preso il volo. Nel mese di aprile, i bombardamenti e i mitragliamenti non danno tregua né di giorno né di notte. Dovevamo restare per giorni interi nei rifugi. I cucinieri non potevano preparare il mangiare, il fornaio non faceva più il pane. Stavamo attraversando il periodo peggiore, sia per il vitto che per il pericolo. Spesso non restava che pensare alla morte migliore da fare. Eravamo nelle stesse condizioni di un malato grave, al culmine della malattia, quando non può succedere che morire o migliorare. Purtroppo per qualcuno, anche loro figli di mamma, la morte non ha avuto pietà. Il 12 aprile le sirene suonarono quel desiderato allarme indicante l’avanzata del fronte. Questo voleva dire l’inizio della liberazione, che la liberazione era vicina e che dopo 19 mesi lunghissimi e terribili sotto il dominio tedesco, finalmente potevamo sperare nel ritorno in patria e a casa. Infatti, il 13 aprile abbiamo potuto vedere qualche americano e il 14 la nostra situazione si era rovesciata: non più garzoni ma padroni. Con l’ordine degli americani potevamo entrare nelle botteghe e prenderci da mangiare e soprattutto avere una delle più grandi soddisfazioni del gioco al contrario. Abbiamo visto quei militari tanto amanti delle armi, disarmati e prigionieri. Per noi era finito il lavoro coatto, si cambiava vita! Poi è venuto il giorno più bello, i primi del mese di giugno ci hanno detto che il 10 potevamo partire per l’Italia. Non stavamo nella pelle per la gioia, ma giunti alla domenica 10 giugno, quando tutto era pronto per partire, è arrivato un contrordine: la nostra partenza veniva revocata fino a nuova disposizione. Una settimana di gioia cancellata in un solo momento da una profonda delusione e illusione. Passano giorni e settimane senza che nessuno si ricordi di noi o si parli di rimpatrio. Poi nel mese di luglio si organizzano piccoli gruppi per la partenza, si fanno biglietti per il treno e comincia l’avventura, sperando di arrivare a casa o almeno di avvicinarsi, 74
Volume settimo anch’io con altri decidiamo di partire. Siamo saliti sul treno il 7 di luglio affidandoci al destino. Siamo partiti da MUCHELN per MERSELBURG/ HALLE/ LEIPZIG con la speranza di avere via libera. Mi sembrava di sognare, la mia gioia era incredibile. Il giorno 8, da Leipzig a Zeitz, qualche ora di attesa per un altro treno, abbiamo visitato il paese ma al ritorno il treno era partito, comunque è stato bene perderlo perché quel treno fu fatto saltare. Abbiamo viaggiato per giorni, in treno e a piedi tappa dopo tappa con imprevisti vari di ritardo o mancata coincidenza. Si supera la linea di demarcazione russa, entriamo nel territorio neutro fra russi e americani il giorno 9. il giorno 10 luglio, dopo otto chilometri a piedi si raggiunge la città di HOF e l’11 si ottiene il permesso speciale dal Comando Americano per poter viaggiare fino al Brennero. L’attesa per la partenza è lunghissima, ore, giorni estenuanti col pensiero che spingeva verso casa e non era possibile partire. Quando è arrivato un treno, era carico di carbone, ma ci hanno dato il permesso di salire. Nonostante la posizione scomoda, eravamo contenti come pasque perché ci avvicinavamo alla nostra terra. Ma abbiamo avuto ancora tante peripezie: soste di attesa più o meno lunghe, cammino a piedi, inconvenienti vari. Solo a piedi, infatti, abbiamo potuto raggiungere il nostro confine. Stanchi e affamati ma determinati ad andare avanti. Il pensiero di poter cavalcare il confine, la gioia di arrivare in Italia e raggiungere le nostre case, costituivano un insieme di emozioni sufficienti a darci la forza necessaria per continuare il viaggio. Siamo giunti a tre chilometri dal confine che era quasi buio. Abbiamo deciso di fermarci, aiutati e incoraggiati anche dalla brava gente del luogo. La mattina dopo è bastato poco per raggiungere il confine, dove hanno controllato il permesso rilasciato dagli americani che valeva solo per arrivare fin lì, al confine, ma non ci dava la possibilità di attraversarlo. Il vedere la nostra gente, la nostra terra, l’aria che si respirava sembrava più respirabile, più fine più bella. Sembrava di sentire il profumo delle nostre case, vedere la mamma correrci incontro a braccia tese per un abbraccio grande e felice. Insomma tutto ci attraeva come una calamita dall’altra parte. Qui abbiamo trascorso ore drammatiche, con il timore di dover tornare indietro e dover restare qualche giorno ancora in un campo di concentramento. Poi, come già altre volte, Dio è venuto in nostro aiuto. Nel pomeriggio, di nascosto, siamo riusciti a salire su un treno e entrare in Italia a tarda sera, a Bolzano dove siamo stati accolti con buone parole di incoraggiamento e rifocillati. Poco dopo siamo ripartiti, proseguendo a rilento, causa le devastazioni della linea ferroviaria. Nel 75
Ultime Voci viaggio dal Brennero a casa abbiamo visto il disastro della guerra. Rovine di città di paesi, di ponti, di tutta una rovina dell’Italia. Trento, Pescantina Bologna e finalmente a Prato. A Prato ho trovato dei conoscenti dai quali ho avuto le prime notizie della mia famiglia. Sentivo dei tremiti dovuti all’emozione mi sembrava tante braccia che mi abbracciavano e mi baciavano. Il mattino dopo con l’amico Bruno sono giunto a casa ritrovando tutti i miei salvi, come per tanto tempo avevo desiderato. Giorno indescrivibile, giorno, quello, forse o senza forse il più bello della mia vita.
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Volume settimo Aldo Quercioli
Aldo Quercioli è nato nel Comune di Fiesole il 6 settembre 1921. Arruolato nel 128° Fanteria nel 1941, nel gennaio dell’anno successivo fu promosso Sergente e nel novembre fu inviato a combattere in Corsica. Nel giugno del 1943 ebbe l’ordine di combattere contro i tedeschi (fino a pochi giorni prima alleati) al fine e di rallentarne la partenza dall’isola. Successivamente partecipò alla Resistenza, combattendo a fianco dell’esercito Alleato che risaliva la penisola. Tornato a casa, proseguì una vita lunga e piena di soddisfazioni professionali e familiari. Aldo Quercioli introduce il discorso presentandoci i suoi genitori. Alfredo Quercioli nato a Pontassieve nel marzo del 1893 e Giulia Fantechi nata a Pontassieve nel mese di febbraio del 1900. Aldo il loro primogenito nato nel comune di Fiesole, in località Terenzano in via Palagetto, il 6 settembre 1921, in una casa colonica posta sul retro di una villa che si componeva in un unico corpo immobiliare. La colonica era ben messa, godeva di un’ampia terrazza dalla quale si poteva ammirare un panorama eccellente: oliveti, tutta la valle del popolo di Teranzano, fino a San Iacopo, il piano del Girone con il verde dei suoi frutteti, la piana di Bagno a Ripoli, la villa La Tana e i suoi dintorni, fino a Candeli, il poggio dell’Incontro col suo caratteristico convento. Il complesso immobiliare compreso il podere che i miei antenati avevano a mezzadria, era del signor Farulli( Direttore Generale della Banca Toscana di via del Corso a Firenze) appassionato di piante da frutto. Nel podere vi erano piante di tutte le qualità, e caso eccezionale, fiori di tutte le varietà. Nel giardino della villa due grandi e belle verande completavano lo scenario incantevole del luogo. 77
Ultime Voci Il proprietario Farulli morì nei primi mesi del 1921, e pochi anni dopo gli eredi vendettero al signor Francesco Maccianti, proprietario di un pastificio a Certaldo, il quale trasformò un po’ l’ambiente. Dalla nascita a 90 anni della mia vita. Mia madre Giulia, mi raccontava che il 6 settembre 1921, appena nato, il nonno Vincenzo vedendomi robusto, pesavo quattro chili e mezzo, mi prese con le mani e alzandomi in aria disse: «Tu farai il biforco!» Con questa espressione compiaciuta inizia la mia vita. Il nonno Vincenzo, figura caratteristica e imponente per l’epoca, era alto metri 1,90, classe 1867, insieme alla nonna Anna, classe 1872, è rappresentato nelle foto d’epoca formato poster, nella Cooperativa di Legnaia, anno 2003-2004. Naturalmente era lui il capo di casa della famiglia. Dopo di me nacquero Emilio 1924, Orlando 1939, Mauro 1942, deceduto per una grave malattia dopo venti giorni dalla nascita. Io ero il maggiore e già all’età di sette-otto anni, quando il nonno Vincenzo tornava dal lavoro dei campi con i “giovenchi”, arrivato sotto il loggiato, se c’ero, mi affidava gli animali per portare nella stalla. Sapevo come legarli, li accarezzavo e se erano sudati li asciugavo con la paglia, dovevo rifare la lettiera e mettere a posto le “nasiere”, poi portavo loro da mangiare. Essi mi lasciavano fare, anzi mi sembrava che fossero contenti. Nella stalla c’era anche un asino, si chiamava Nanni, era docile e anche con esso mi comportavo come con i giovenchi e siccome lo vedevo più spesso ci facevo anche lunghe chiacchierate. Periodo di scuola Ho frequentato la scuola elementare alla Desiderio di Settignano. In terza, ai primi del mese di dicembre, mi venne un’otite acuta con dolori fortissimi e frequenti ricadute, causa di lunghe assenze. Nel mese di marzo, come se non bastasse, fui operato delle tonsille, in via della Pergola dal prof. Manci. A quei tempi era un intervento doloroso, senza anestesia, così dovetti ripetere l’anno. Gli anni successivi proseguirono normalmente. In quinta elementare, alla fine di ottobre cominciava la raccolta delle olive, che quell’anno fu eccezionale, necessitava anche del mio aiuto. Così andai nei campi a raccogliere le olive di giorno e la sera proseguivo gli studi con uno studente che abitava vicino e si era impegnato di aiutarmi, su precisi accordi col Direttore e gli insegnanti. Finita la raccolta 78
Volume settimo mi fu concesso di continuare così fino alla fine dell’anno scolastico. I compiti venivano controllati ogni quindici giorni e gli insegnanti erano molto soddisfatti dei risultati,tanto che, ammesso agli esami, fui promosso con buoni voti. I primi lavori All’età di sette-otto anni ho iniziato a lavorare guadagnando circa venti centesimi il giorno. Il primissimo mio lavoro fu raccogliere le olive a terra. Andavo, nei pomeriggi dopo la scuola, nei campi con un panierino fatto da mio padre Alfredo, con sbrocchi d’olivo, tra l’altro molto carino. Lui era bravo per questi lavoretti. Se riuscivo a riempirlo avevo guadagnato venti centesimi, non sempre ci riuscivo ma in genere alla fine della settimana avevo racimolato una lira. Questo tipo di lavoro lo facevo per tutta la stagione del raccolto. Ma in ogni stagione c’era un lavoretto adatto per me. A fine inverno iniziavo la pulitura delle canne, che poi componevo in fastelli di cinquanta, guadagnando ancora venti centesimi. A primavera andavo alla ricerca di radicchio di campo di vario tipo, che il babbo portava al mercato di piazza Ghiberti con altra verdura e la mia raccolta veniva consegnata a Ugenio Torrini, ortolano cugino del babbo, il cui ricavato era mio. Sul finire dell’estate raccoglievo finocchio selvatico che lavorato come si doveva, veniva venduto durante l’inverno con vari ricavati. Spesso, mio padre, quando andava al mercato mi portava con sé. Io andavo volentieri perché mi piaceva apprendere l’arte della vendita. Anche ai miei guadagni tenevo molto. Li conservavo gelosamente, fino a nasconderli, perché non avevo un posto per tenerli sottochiave. Mio padre, in quel periodo era segretario della cassa mutua della parrocchia di San Martino a Terenzano, aveva sul tavolo una cassetta da militare, tramite mia madre gliela chiesi e lui me la dette. Fui molto contento di questo dono, così potevo amministrare i miei risparmi con carta e lapis oltre ad avere un posto sicuro dove tenerli. La prima comunione e l’Azione Cattolica Nel 1929 o 1930, dopo la preparazione catechistica del nostro bravo sacerdote, arrivò il giorno desiderato della prima Comunione. Ero contento di ricevere il sacramento dell’Eucarestia, ma anche gratificato dai piccoli doni dei parenti: un orologio tascabile, una penna stilografica, il libretto della messa e altre cose che ricordo con nostalgia. Anche dopo ho continuato a frequentare la parrocchia, ricordo che la domenica finita 79
Ultime Voci la Santa Messa, il sacerdote Don Focardi, intratteneva i giovani per quindici minuti, per spiegare, con parole semplici e convincenti, il catechismo e soprattutto insegnandoci il comportamento da tenere verso gli altri: superiori, genitori, amici e le persone in genere, in particolare il rispetto dovuto, l’educazione, la dovuta e giusta considerazione e la stima. In seguito, con quel gruppo di ragazzi il parroco creò un’unione finalizzata all’Azione Cattolica. Di quella “Unione” fui nominato responsabile e Presidente, incarico che mantenni fino al 1939. Ricordo che nel 1934, venne a Teranzano a far visita ai nonni il nipote Cesare Fantappiè. Aveva una macchina fotografica e fece alcune foto ai nonni, poi pubblicate e esposte nella Cooperativa di Legnaia. Rimasi stupito di quella macchina e incuriosito feci a proposito tante domande. Per il mio interessamento, Cesare promise di portarmene una al suo ritorno. Dopo poco tornò a portare le foto e a me una piccola macchina fotografica, come aveva promesso. Ero contentissimo. Portavo a sviluppare le foto nel negozio in piazza Beccaria, vicino al cinema Alambra. Qualche anno dopo acquistai in quello stesso negozio una macchina fotografica a soffietto, che purtroppo rimase in Corsica nel periodo della guerra nel 1943. Una domenica mattina, avevo sedici anni, il proprietario Signor Francesco Moccianti, ascoltava alla radio la trasmissione “L’ora dell’agricoltura”, erano cose nuove che mi interessavano e mi piaceva sapere. Per sentire, mi mettevo seminascosto e abbastanza lontano, pensando di non essere visto. Lui, però, mi vide e chiamò mio padre, invitandolo a mandarmi ai corsi di specializzazione presso l’università di agricoltura alle Cascine. Si fece tesoro del consiglio e la mia partecipazione fu entusiastica. Andavo in bicicletta, frequentavo nel gruppo assegnato al prof. Turchi, giovane e dinamico, sapeva spiegare con precisione e si faceva voler bene. Alla fine del corso mi fu assegnato il primo premio, come si può vedere dal diploma. Partecipai anche al corso di potatura, specializzato in olivicoltura, a Settignano in via dei Colli e presi il diploma. La mia classe, 1921, nel 1939 esercitò, come d’obbligo, il premilitare a Compiobbi, e nel 1940, io chiesi di prender parte al corso di motociclista che si teneva alle Cascine di Firenze, con gli istruttori della Guzzi. Nel 1940, la nostra famiglia numerosa e di forza, cercava una nuova sistemazione. Per l’interessamento sia nostro che dello zio Giuseppe Trentanove, trovammo un podere libero e confacente alle nostre necessità, a Rovezzano in via Aretina 276, di proprietà del signor Filippo Formichini, al quale si chiese di averlo a mezzadria e ci fu concesso. 80
Volume settimo Espletati gli atti burocratici fu fatta la variazione richiesta. Era il 1941, io non ero presente perché richiamato alle armi di leva il 17 gennaio dello stesso anno, quando ebbero inizio i problemi bellici. Feci i primi mesi di militare nel 1941, a Firenze in via Tripoli, nel 128° Fanteria. Durante quel periodo ebbi l’occasione di fare una breve gita in bicicletta, nella zona di Santa Brigida a Lubaco dove per caso incontrai Margherita. Parlammo a lungo e dopo qualche settimana ci fidanzammo conoscendo i genitori di lei e la famiglia. In seguito ci fu il fidanzamento ufficiale. Conobbi in quella famiglia la nonna di Margherita, Anna Macherelli, anziana, ma sempre sorridente, alla quale portavo le caramelle e lei era contenta e aveva simpatia per me. Richiamo alle armi Il 20 gennaio 1941, munito di cartolina precetto, mi presento di buon mattino al Distretto Militare, dove eravamo in tanti, e aspettammo parecchio per la destinazione, infine fui destinato in via Tripoli, a Firenze e assegnato al 128° Fanteria. Nel pomeriggio ci vestirono di tutto il corredo e la mattina dopo ci inviarono, col treno, a San Piero a Sieve dove era il Comando di Reggimento, da lì, la mia Compagnia fu destinata a Scarperia, località che raggiungemmo a piedi. Il mio Plotone fu sistemato in un locale del Dopolavoro, dietro l’edificio comunale. Giaciglio a terra con paglia. Il nostro istruttore era un sotto tenente giovane, dinamico bravo nell’insegnamento. Ci stava vicino, informandoci sulla vita militare, ci insegnava il rispetto tra noi e massima educazione coi superiori, ubbidienza e vicinanza agli ufficiali. L’ufficiale di riferimento si chiamava Alfredo Maranini, era della provincia di Siena. Dopo alcuni giorni il signor Tenente sceglie tra i soldati alcuni elementi da inviare a Firenze per un corso di Caporale, io ero tra quelli. Partecipai e ottenuti i gradi tornai al Reparto incominciando l’attività di addestramento. Durante le esercitazioni la presenza del S. Tenente era preziosa per i suggerimenti e le indicazioni da seguire. Riconosco di aver avuto ottimi consigli che mi sono tornati utili sia per il servizio militare che nella vita. Sempre a Scarperia fui promosso Caporal Maggiore, il primo di ottobre 1941, e dopo alcuni mesi di addestramento fui richiamato in caserma per un corso di Sottufficiale. L’anno successivo, di gennaio venivo promosso Sergente, con vari incarichi, tra i quali 81
Ultime Voci responsabile della polveriera del Reggimento e del deposito di Rifredi. Intanto, nei primi mesi di quell’anno fu richiamata alle armi la classe 1922. Questi arrivarono alla caserma del Mugello, ed essendo io il più giovane Sott’Ufficiale del Reggimento, fui sollevato dall’incarico di “responsabile della polveriera”, per assumere quello di istruttore delle nuove leve, per un breve periodo, perché poi fui destinato a formare un nuovo inquadramento al 128° Fanteria. Infatti in quell’occasione, buona parte dei soldati classe 1921, fu trasferita al deposito di Mestre, nel 58° Reggimento Fanteria Cremona, nel quale fu formato un Battaglione da sbarco con destinazione Calambrone. In quell’occasione, in un deposito vicino al ponte alla Vittoria, incontrai mio cugino Renato Quercioli, parte dello stesso contingente. Fu per entrambi una bella sorpresa. Il trasferimento a Calambrone fu attuato con i camion militari fino all’accampamento. Comandante della Compagnia era il Tenente Mario Buffon e il Sotto Tenente Mario Gozzini comandava il 1° plotone. Io fui assegnato come Capo squadra della prima squadra e vice del primo plotone. Mi trovavo bene perché eravamo una Compagnia molto unita e affiatata. Iniziò l’addestramento diurno e notturno sulle navi e a terra e durò un lungo periodo. Una domenica ebbi una gradita sorpresa, vennero a trovarmi Margherita e mia madre Giulia, rimanendo con me l’intera giornata. Poi nel mese di novembre giunse l’ordine dello sbarco in Corsica. Lo sbarco Ci imbarcammo all’imbrunire. Eravamo in tanti, armati di mortai 81, poi c’erano reparti di mitraglieri e le truppe d’assalto formate dalle camicie nere. L’assalto all’isola avvenne alle prime luci dell’alba. I Corsi furono presi di sorpresa dai nostri appositi reparti con alle spalle la compagnia che formava la testa di ponte per introdursi nell’entroterra e conquistare l’isola. Per fortuna di tutti non fu sparata una fucilata. Ma i comandi di presidio a cortè ci ordinarono di piantonare tre punti strategici. Il primo plotone, di cui avevo assunto il comando causa infortunio del Tenente Gozzini, fu destinato a Col di Sorba, sistemato in una casa cantoniera, collocazione precaria ma accettabile. In quel periodo ci sorprese un’abbondante nevicata, ma grazie ai nostri tagliaboschi ce la cavammo a meraviglia. Poi la primavera fu bellissima. Passava il tempo e le cose non si mettevano per niente bene. Nel mese di giugno fummo richiamati, con la compagnia mortai, a Bastia per difendere la città. I Comandanti dei vari reparti, dopo un rapporto con gli Ufficiali, ci 82
Volume settimo informarono che la situazione si metteva male sia in Corsica che sul continente. La mattina dopo, per le strade si vedeva un gran movimento di militari tedeschi e carri armati, quando improvvisamente ci fu dato l’ordine di aprire il fuoco contro di loro. Il combattimento durò due giorni, ma le forze superiori dei tedeschi, per mezzi, uomini e l’appoggio dei carri armati, rese impossibile fermarli. Dovemmo ripiegare per non avere la peggio. Nell’arretrare con grande difficoltà, mi accorsi che alla distanza di trenta-quaranta metri c’era una mitragliatrice abbandonata. Non persi tempo, la usai contro i nemici per ritardarne l’avanzata e permettere ai miei uomini di ritirarsi con maggiore sicurezza. Quel mio gesto fu riconosciuto dalle autorità militari come un’azione temeraria con successiva decorazione della medaglia di bronzo al valor militare, concessa dal ministro della guerra in data sei agosto 1945. Poi anch’io dovetti ritirami lasciando l’arma. Mi incanalai in un fosso, per fortuna asciutto, e con molta fatica e tanta paura riuscii a portarmi abbastanza in alto e fuori pericolo. Passai la notte all’aperto a ridosso di un muro di una casa abbandonata e appena giorno cercai di rendermi conto della situazione. Da dove ero vedevo in parte Bastia, sentivo spari di mitraglia e qualche colpo di cannone sparati contro i tedeschi in ritirata via mare, forse verso Livorno e con gravi perdite di uomini.
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Ultime Voci Considerando la difficile situazione, decisi che dovevo andarmene e in fretta. Dovevo superare un passo della collina alta per dirigermi verso Floren e riunirmi ai miei uomini. Fatte poche centinaia di metri, incontrai una persona, che vedendomi si avvicinò e dopo alcune domande mi spiegò come fare per oltrepassare le linee tedesche e arrivare a quelle francesi. Non sarebbe stato facile, perché i francesi sapevano che gli italiani si erano sbandati. Mi avviai per un sentiero, l’unico praticabile, raggiungendo la cima senza incontrare anima viva. Poi d’un tratto ecco i soldati francesi. Ebbi paura, fui fermato con l’ordine di alzare le mani, mi presero quello che avevo e mi portarono davanti agli ufficiali. Questi, dopo la richiesta di varie informazioni, mi indicarono dove andare. Infatti, non troppo lontano dalla direzione indicata trovai un camion con gli italiani. Da lì fummo trasportati a Ponte Novo dove potemmo ricongiungerci alla nostra Compagnia. Restammo in quel posto, in attesa di nuove disposizioni, per un po’ di tempo. Intanto Bastia era stata liberata, gli ufficiali mandarono alcuni dei nostri soldati che si erano offerti volontari, al caposaldo che avevamo abbandonato, per verificare se vi fossero oggetti personali. Per me che avevo preso la malaria, andò mio cugino Renato, che non trovò nulla di suo, mentre di me trovò le lettere di Margherita ma ridotte tanto male da non poterle recuperare. Infine arrivò l’ordine di spostamento per la zona di Aiaccio, da dove ci imbarcammo per la Sardegna con destinazione Santa Teresa di Gallura. Il viaggio fu duro e a sbarco avvenuto vi fu la sistemazione dei Reparti. La nostra compagnia fu destinata nel paese di Nugheddu San Niccolò. La mia squadra si sistemò alla meglio in una vecchia cappella, per essere trasportati di lì a poco a Monti, in attesa del rimpatrio. Giunto l’ordine di partenza, ci fecero salire sui camion diretti a Cagliari, dove ci aspettavano due piroscafi: Massaciuccoli e Scipione L’Africano. Il nostro reparto si imbarcò sul Massaciuccoli. La partenza fu immediata e la mattina del giorno successivo arrivammo a Napoli e subito trasferiti in provincia di Benevento, in una zona lontano dalla città, in un accampamento di tende. Qui sono iniziate le esercitazioni continue, mattino e sera, con i cannoni anticarro da sei libbre, per la conoscenza, appunto, di questa nuova arma. Una conoscenza indispensabile per poter operare sul fronte con gli alleati. Fummo così inquadrati nei nuovi sistemi con la divisa dell’ottava Armata inglese a fianco dei Reggimenti Canadesi. Il comandante dell’8° Armata era il Generale Maccreery, mentre il comandante della 86
Volume settimo 5° Armata era il Generale Clark. In data 25 settembre 1944, la nostra Divisione assume la denominazione di “Gruppo da Combattimento – Cremona – in base all’organico S.M.R.E. ( Stato Maggiore Reparto Esercito). Io ero nel 22° Reggimento Cremona, Compagnia cannoni da sei libbre, facevo parte del 2° Plotone anticarro. Iniziammo l’avanzata risalendo l’Italia da Pescara, Ascoli Piceno. Arrivati ad Ancona, seppi che Firenze era stata liberata, e mi fu data una licenza di cinque giorni, quando rientrai raggiunsi il mio reparto nella zona di Pescara da dove proseguimmo per Rimini e Ravenna, qui eravamo a contatto con la 1° linea. Nei giorni successivi non ci furono scontri duri, arrivavano di tanto in tanto, proiettili di artiglieria tedesca, mentre i nostri facevano puntate coi cingolati e raffiche di mitraglia per tenere fermi i nemici. Il nostro settore fu fortunato, eravamo alle spalle dei tedeschi e loro avevano paura di restare impantanati con i carri armati pesanti, inoltre, parte dei carri armati erano privi di armi e senza benzina. Sapevamo che sul fianco sinistro dell’Appennino ci fu un’intensa ostilità e cruente battaglie con gravi perdite di vite umane, anche italiane. Nella nostra Compagnia abbiamo avuto solo un morto, il Caporale Ragazoni. I nostri Ufficiali Superiori, considerato il rallentamento dei tedeschi, ordinarono alla Divisione Canadese di fanteria motorizzata con i reparti di accompagnamento di incalzare il nemico su tutti i fronti. Potemmo così giungere a Venezia e oltre, spingendo i nemici fino a Trieste. Nelle azioni furono fatti molti prigionieri e molti soldati si arresero. I reparti italiani, da parte dei Comandanti della QUINTA E OTTAVA Armata, furono elogiati per il comportamento e le capacità dimostrate, quindi le truppe italiane furono messe a riposo per un mese circa. La nostra Compagnia fu mandata sul lago di Orte, a Omegna dove fummo alloggiati nella scuola. In quel periodo furono riordinati i quadri dell’esercito e finito il tempo del riposo, il Reggimento Cremona al completo fu radunato in una caserma a Vercelli. In quella caserma furono organizzate le mense per gli Ufficiali e per i Sottufficiali, il locale grande e bene attrezzato entrò in funzione i primi di gennaio del 1946. Il Colonnello incaricò me di gestire la mensa dei Sottufficiali, dove mi trovavo molto bene ma vi rimasi per poco, perché il 18 di marzo fui congedato. In quell’occasione il Colonnello mi propose di restare in servizio, dicendomi che entro poco tempo potevo essere promosso ai massimi livelli. Rifiutai perché il parere della mia famiglia fu negativo. 87
Ultime Voci Così ho terminato il racconto della mia vita militare, costato 63 mesi della mia gioventù. Ma riconosco di avere avuto fortuna, sia pure attraverso tante vicende brutte, incresciose e di sacrificio, in quanto sono potuto tornare a casa sano e salvo e per aver trovato colleghi, graduati e militari semplici, eccellenti. Insieme abbiamo diviso gioie e dolori, sacrifici e rischi. Nella vita ho messo in atto gli insegnamenti e le esperienze avute, cominciando da quelli di Don Focardi (da ragazzo), del tenente Alfredo Maranini, gli ufficiali di qualsiasi grado, dai quali ho sempre avuto buoni consigli e incoraggiamenti. Ripensandoci ancora, all’età di 90 anni, sento di doverli ringraziare e di dovere a ciascuno qualcosa di buono. Da parte mia ho cercato di fare sempre il mio dovere, senza obiezioni, e con un pizzico di giusto orgoglio, per il mio comportamento sono stato premiato, per tanto esprimo ancora la mia riconoscenza. Sono tornato a casa nel primo pomeriggio del 18 marzo 1946. Lascio immaginare la gioia della famiglia. Fui letteralmente sommerso di domande: «Perché, come, quando... ». La mattina dopo andai da Margherita e anche qui le domande non finivano più, ma eravamo tutti molto contenti, ripensando ai momenti terribili passati. Ora bisognava e potevamo farlo, pensare al futuro. Qualche settimana dopo, la mia famiglia, mi suggerì di sposarmi. Com’era usanza, le famiglie, la mia e quella di Margherita trattarono il da farsi, considerando anche il lato economico, sia pure sottintendendo di fare alla meglio. La data delle nozze viene fissata per il 10 di giugno, nella chiesa di Lubiaco a Pontassieve. In viaggio di nozze andammo a Verona e sul lago di Garda. Il 16 aprile dell’anno dopo nacque il nostro primo figlio, Alessandro e nel 1953 Pierluigi, il secondo, con tanta gioia per noi. Nel 1947 nacque Alessandro e poi Pierluigi, con tanta gioia per noi genitori. Comincia così la mia vita di impegno per la famiglia, il lavoro e nel sociale, impegno che continuerà nel tempo. Cominciai negli anni 1950-1951, accettando l’incarico di Direttore della Confraternita della parrocchia, che lasciai nel 1967 per trasferimento di abitazione. Un’altra conquista fu la patente e la macchina, una FIAT 1100 coda lunga. (al tempo era un traguardo ambito e non per tutti). 88
Volume settimo Frequentatore assiduo e socio del mercato ortofrutticolo di Novoli, conoscevo anche soci e vari dirigenti della Coldiretti di Firenze che mi chiesero di far parte del Consiglio e poi fui eletto Direttore, rimanendovi fino al 1970. A gran richiesta fui eletto Presidente della Cooperativa Agricola di Legnaia, rimanendo in quell’incarico per ben 27 anni. Periodo di grandi innovazioni per la Cooperativa e di crescita importante con la creazione di nuovi punti vendita e specialisti di settore. La mia è stata una vita fortunata e di soddisfazioni. Certo anche di momenti difficili, malattie e lutti dolorosi, come la perdita in un incidente stradale del figlio Pierluigi di 46 anni. Un colpo terribile per me e Margherita mia moglie, e non voglio dire altro Invece dirò di un ricordo storico bellissimo. E’ stato il 29 ottobre 1987, quando è venuto a Firenze Sua Santità il Papa Giovanni Paolo secondo. Durante la santa messa, celebrata allo stadio Franchi, fui invitato con Margherita dalla Coldiretti a portare i doni della nostra terra fiorentina. Io portai in offerta la classica damigiana di vino e Margherita consegnò l’olio. Fu per noi quello un momento della vita emozionante. Sono arrivato ad un buon traguardo, ormai più di 90 anni e sono contento. Ringrazio Dio di avermi concesso la fortuna di arrivarci. Mi ricordo, come se fosse ora, quando bambino vedevo i miei antenati camminare nel tempo, allora pensavo che 90 anni e più, fossero interminabili e irraggiungibilmente lontano. Ma il passare del tempo è inesorabile per tutti, purtroppo anche per i giovani, è una ruota che non frena. Il percorso può essere anche lungo, ma solo chi è fortunato lo raggiunge.
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Ultime Voci Tosco Sarti
Tosco Sarti, nato il 25 marzo 1918 nel comune di Cantagallo, arruolato il 4 aprile 1939 per servizio militare, destinato a Bressanone al 9° Reggimento Artiglieria-Brennero. Combattente e invalido di guerra
Anno 1939 Il Reggimento a cui fui affidato per il servizio militare di leva era un reggimento storico, era stato fondato nel 1863 e aveva partecipato alla battaglia di Custoza (1866), alla presa di Porta Pia (1870), alla campagna d’Africa nel 1895, alla guerra Italo-turca nel 1911 e nel 1915-18, durante la prima guerra mondiale, aveva operato nel Friuli, sul San Michele del Carso, partecipando nel 1916 alla presa di Gorizia. La mia divisa del reggimento era di panno grigio-verde, con fasce del colore della divisa, i calzini di lana “portati da casa” e le pezze per coprire calzini e piedi da mettere dentro le scarpe. Avevamo due divise, una di panno verde per l’inverno, ed una più chiara di cotone, una panciera di lana per i dolori; avevamo anche il cappotto per l’inverno. Eravamo armati di moschetto e fucile, questo di differenziava per la canna più lunga. Dunque … avevo raggiunto da pochi giorni il glorioso 9° Reggimento ArtiglieriaBrennero, quando nel mese di Maggio ci spostammo da S. Francesco al Campo a Mattiè in Val di Susa, per un breve periodo di addestramento, anche se ben presto il nostro destino sarebbe stato segnato perché il 10 giugno l’Italia entrò in guerra. Da qui il 16 giugno, alle ore 11,30 il reggimento si spostò nella zona del Moncenisio 90
Volume settimo per operare, verso la Francia con il 1° corpo di Armata composto dalle divisioni Superga, Brennero e Cagliari. Io fui destinato a rimanere in Italia a guardia del posto in cui eravamo. Il nostro Reggimento non aveva mezzi di portata per tutto il materiale ed io dovetti presidiare quanto rimaneva a terra: munizioni varie, bombe a mano nelle cassette, niente viveri, e la radio non funzionava. Mi fu assicurato che i militari sarebbero venuti a ritirarlo il prima possibile, ma passarono notti, giorni, ben 4 giorni, in cui non vidi nessuno: senza cibo, sotto una tenda, mi trovai anella notte al freddo, mentre sentivo in lontananza i militari che combattevano. Ero solo a guardia di Forte Casso, mentre la Francia chiedeva l’armistizio il 25 giugno e i gruppi del 9° erano in marcia nella Valle dell’Are. Incominciai allora a chiedermi cosa potessi fare in questo stato di cose e alla fine decisi a mio rischio di raggiungere un vicino Comando Militare. Mi presentai all’Ufficiale di guardia e spiegai la mia condizione oggettiva. Questo ufficiale si meravigliò di quanto mi era successo, mi diede da mangiare e mi disse queste parole che non dimenticherò mai: «Tu sei un eroe … l’eroe di forte Casso». Il materiale bellico non venne mai abbandonato, subito recuperato e collocato in un luogo sicuro fino al ritorno del 9° reggimento, il 30 giugno di quello stesso anno. Grande fu la sorpresa del mio Comandante nel vedermi ancora vivo, perché aveva incaricato un militare di raggiungermi e questo, non trovandomi, aveva riferito che non ero presente sul luogo, quindi avevano comunicato alla mia famiglia che ero disperso. Rendere conto al comando militare del perché avevo agito in quel modo fu difficile: dovetti ricostruire esattamente come avevo svolto il mio compito, fare capire che non avevo abbandonato mai il mio posto di guardia e che, in conclusione, avevo agito non tanto per salvare me stesso, ma per proteggere tutto il materiale depositandolo in un luogo sicuro; il comandante mi diede fiducia e io fui creduto. A quel punto restava da comunicare alla mia famiglia che non ero disperso, ma vivo. Scrissi una lettera ai miei e sperai che arrivasse il prima possibile mentre dal Comando militare fu inviato un documento che certificava che ero vivo. Dopo molti mesi, venni a sapere che i miei, a casa, non si erano mai preoccupati di me perché avevano ricevuto alla comunicazione in cui ero dichiarato disperso contemporaneamente alla lettera in cui 91
Ultime Voci davo mie notizie e per questo avevano capito che si trattava di un errore! Dopo molti mesi il reggimento rientrò nella sede di Bressanone, ma la divisione Brennero fu chiamata, ben presto ad altri compiti, arrivarono i “richiamati” del 1914 per completare il Reggimento e il 27 dicembre ebbe inizio l’imbarco a Bari, il 28 dicembre si entrò nel porto Durazzo. Il 2 gennaio 1940 cominciò lo spostamento verso il fronte: i gruppi procedono a grandi marce, i movimenti erano faticosi per le pessime condizioni delle strade e per il tempo. Da qui, per un sentiero, si salì nella Val Saliari verso il fronte, da Lekdushaj al Cundrevizza, dove operavano la nostra fanteria e i reparti di artiglieria. Frequenti erano le richieste di fuoco. Quando siamo arrivati sul fronte, la fanteria era davanti a noi, abbiamo avuto l’ordine di sparare, non ci furono né feriti né morti nel 9° Reggimento, invece nella fanteria ci furono feriti e morti. Anno 1940 Con l’anno 1940, la guerra divenne più dura e il 27 gennaio, durante un’azione, si ebbero i primi caduti nella nostra fanteria, ma non nel mio reggimento; noi dovemmo attendere la primavera per scatenare l’offensiva. Dal 9 Aprile al giorno di Pasqua con un tempo orribile, perché nevicava e faceva molto freddo, Val Saliari si animò con un movimento insolito di uomini e di automezzi: veniva richiesto il trasporto dell’artiglieria in linea delle bombarde. Il 14 Aprile, alle ore 7 del mattino, giungeva l’ordine di iniziare la preparazione dell’artiglieria: furono disposti 90 cannoni, 90 bocche da fuoco pronte a sparare contro la postazione avversaria. Si preparavano di giorno e si sparava la notte. Il mio lavoro era l’artificiere, mi avevano mandato per due mesi a Piacenza a imparare e addestrarmi a preparare le munizioni. Dovevo preparare la polvere da inserire dentro il bozzolo. Un giorno mi è scoppiata una capsula in mano, ancora tengo la cicatrice. Il 17 Aprile mattina, l’esercito nemico colpito si diede alla fuga, ma per noi l’inseguimento fu lungo, faticoso e difficile, tanto che ai combattenti che si distinsero in azioni di coraggio furono concesse le prime decorazioni. Si mangiava pane fresco, mezza gavetta di brodo con un pezzo di carne, oppure can92
Volume settimo nelloni. Ci sembrava tutto buono perché avevamo tanta fame. Ci davano anche mezzo gavettino di vino. Il 20 Aprile i nostri gruppi entrano a Delvino. Il 12 Maggio il 9° reggimento artiglieria del Brennero fu passato in rivista dal Re Imperatore Vittorio Emanuele III. Nel giugno, la nostra divisione ricevette l’ordine di presidiare Atene. In marcia attraverso un paese dal clima afoso, si giunge, dopo 16 tappe, a Lepanto. Si abbandonò il mare, si procedette per Amfissa e Tebe, infine si giunse ad Atene il 22 giugno. Eravamo accampati su un’altura con i cannoni puntati verso Atene. Il nostro compito era difendere il territorio e nel mio caso io ero a guardia dei cannoni, così come testimonia una foto scattata nel giugno del 1940, da un fotografo “reporter” di guerra. Su questo territorio trascorremmo diversi mesi e un giorno da un camion pieno di soldati che si spostavano verso Atene, mi sentii chiamare; era un compagno con cui ero partito da Prato per il servizio militare; scese di corsa, mi abbracciò, ci scambiammo poche parole e poi ripartii; ebbi modo di incontrarlo ancora una volta ritornato a casa. Lui in guerra si era ammalato di tubercolosi e morì ancora giovane. Di lì a poco anch’io mi ammalai di una brutta forma di otite bilaterale, con la perdita dell’udito. Ricoverato in ospedale, ci rimasi a lungo e quindi fui inviato a casa in convalescenza per 3 mesi, successivamente furono estesi fino a cinque. Anni 1941-1942 Quando ritornai sotto le armi, a causa della malattia fui destinato al servizio sedentario e inviato a Nettunia, in una fabbrica di armi, in cui svolgevo il lavoro di artificiere. In questo anno, gli aventi di guerra precipitarono: si ebbe l’intervento tedesco nei Balcani e la rapida conclusione della guerra contro la Grecia. Il conflitto mondiale, si diffuse rapidamente nel mondo dalla Russia, al Giappone, all’Africa settentrionale. Anno 1943 In questo anno giungevano notizie dal fronte che la IV armata tedesca si era arresa nel febbraio a Stalingrado. Poi la guerra si modificò, ci fu lo sbarco anglo-americano in Sicilia, la caduta del Fascismo il 25 Luglio e infine l’otto Settembre, con l’armistizio tra gli alleati e il governo 93
Ultime Voci Badoglio: la guerra per noi era finita! Eravamo contenti, tutti felici che la guerra fosse finita. Badoglio aveva detto: «La guerra è finita, gli Italiani possono tornare a casa». Noi ci abbiamo creduto. Ma non fu così, i tedeschi invasero l’Italia e facendo prigionieri i nostri militari. Io, mi spogliai della divisa militare. La famiglia che mi aiutò a vestirmi in abiti civili, era di origine toscana, contadini trasferiti a Roma in cerca di lavoro, in quelle terre del Lazio bonificate durante il governo di Mussolini. Mi accolsero con affetto, contenti di aiutarmi in nome di una umana solidarietà che in quei giorni terribili nasceva spontanea. Fu poi una grande sorpresa venire a sapere che erano originari della valle del Bisenzio e che avevano conosciuto anche i miei genitori. Pensai che tutto questo fosse un segno buono e con coraggio, insieme ad altri compagni, iniziai il ritorno a casa. Il ritorno a casa Andai a piedi da Roma a Rocca di Papa e arrivato alla stazione mi trovai in una condizione di totale confusione e paura. I tedeschi perquisivano tutti, ma cercavano le armi ed io che non avevo niente, fui sottoposto a perquisizione, ma non fermato. Allora mi detti da fare per raggiungere Firenze. Pensai di prendere un treno, ma non riuscii a salire, perché c’erano uomini e ragazzi giovani che scappavano, erano tanto pigiati da rimanere quasi soffocati. Disperato, ma deciso con ogni mezzo a partire con quel treno, mi accorsi che un compagno si era sdraiato sul tetto, allora mi feci coraggio e anch’io ci salii. Coraggio e incoscienza che furono premiati perché arrivai sano e salvo alla stazione di Arezzo. Qui c’erano ancora i tedeschi che rastrellavano uomini e mezzi e deportavano i soldati italiani in Germania. Dovetti scendere comunque dal tetto del treno, perché non potevo proseguire il viaggio in quello stato; nella tratta verso Firenze, il viaggio diventava pericoloso per le continue gallerie e i tralicci della corrente elettrica. Allora cercai disperatamente di entrare sul treno e quando riuscii a salire rimasi incastrato nel vano della porta che chiudendosi mi ferì una mano. Finalmente il treno partì e giunsi a Firenze. Qui c’erano ancora i tedeschi in movimento e allora pensai che non mi restava altro che non farmi 94
Volume settimo notare: sedetti in uno scompartimento vuoto e, come un passeggero qualunque, mi misi al finestrino a vedere quello che succedeva; nessuno mi notò o mi chiese chi ero, nessuno si preoccupò di cosa facevo. E infine ci si mosse verso la stazione di Prato. Mio padre, dopo la morte della mamma, si era risposato ed abitava a Prato, lo raggiunsi e ci fu grande gioia: passai la notte in città e al mattino ripresi il viaggio per Carmignanello, nella vallata dove si trovavano i miei fratelli e la sorella più piccola. Mio fratello Sanzio non era stato richiamato, mentre Rodolfo, classe del 1915, era in Albania. Fra leva e guerra fece nove anni di soldato. L’altro fratello Dino, classe del 1920, fu richiamato prima dell’8 settembre, fu preso prigioniero e portato in Germania, sopravvisse lavorando. Tornò alla fine della guerra. La mia sorella più piccola Giuliana era del ’22, le volevano tutti molto bene perché dopo la morte della nostra mamma ci fece da mamma a tutti e quattro i fratelli. Anni 1943-1945 Il ritorno a casa fu bello e commovente, ma sopravvivere fu drammatico per la guerra e per molti che conoscevo che si ammalarono e morirono. Avevo un amico, di nome Foresto, entrava ed usciva dall’ospedale per quella brutta malattia ai polmoni diffusa in molte case, per la miseria in cui si viveva. Un giorno eravamo in bicicletta, perché Foresto aveva deciso di andare a San Quirico di Vernio per trovare un suo zio; io lo avevo accompagnato ma ero rimasto fuori ad aspettarlo. All’improvviso arrivarono dalla strada due tedeschi accompagnati da due italiano; sospettosi iniziarono a farmi domande, volevano sapere chi ero, cosa facessi, chi aspettavo e quando arrivò Foresto decisero di portarci al loro comando. Foresto aveva paura e io cercavo di tenerlo calmo, gli dicevo che non avevamo fatto niente e che ci avrebbero rilasciato. Ma ai tedeschi dava fastidio la mia calma mi comandarono di stare zitto; erano agitati, stavano aspettando l’arrivo di un ufficiale tedesco e poi avrebbero stabilito cosa fare di noi. L’ufficiale tardava ad arrivare e quando fu molto tardi, all’improvviso, ci lasciarono andare con l’obbligo di presentarsi la mattina successiva. Non ho mai capito cosa sia successo, ma questa fu la nostra salvezza. Se le cose stavano così, non potevo più restare, sapevano il mio nome, chi ero, dove abitavo, passai la notte in un casolare isolato e poi, all’alba, scesi verso Prato, nella zona del nord-est, località La Sacca, nella Villa Bellavista. Là una famiglia di contadini che abitava nella casa colonica della villa mi dette ospitalità. Erano brava gente, semplice che avevano aperto la porta della loro casa anche ad altri italiani. Nei 95
Ultime Voci primi tempi, dato che i tedeschi mi cercavano, rimanevo in casa, ma con il passare delle settimane incominciai ad uscire, imparai a fare il contadino, lavoravo nel campo e mi rendevo utile alla famiglia. Quando suonava l’allarme mi rifugiavo sotto la casa, in un buco che avevo ricavato dalla pietra usando anche la dinamite, il contadino invece non aveva paura, rimaneva nei campi e guardava verso l’alto, gli altri si avviavano sempre verso un rifugio vicino scavato nella montagna dagli abitanti del borgo delle Lastre. Dopo il bombardamento di Prato, l’11 novembre 1943, nella zona arrivarono altri sfollati presso altre case o nei locali di Villa La Sacca. La villa fu affollata di famiglie pratesi. Tutte le persone avevano la tessera annonaria e andavano a comprare il pane e il cibo alla bottega di Pacciana, a Coiano e a Figline. Io non avevo la tessera annonaria, mangiavo quello che trovavo o che qualcuno mi offriva. C’era anche un contrabbando (o borsa nera come si diceva allora) della carne, perché venivano uccise nei boschi di nascosto bestie e maiali. Nella valle, agivano le formazioni partigiane e di frequente scendevano fino alla casa, dove c’era sempre qualcuno pronto ad aiutarli, come la contadina che faceva il pane fresco per tutti. Ma nel dicembre 1943 dopo che il Cicognini e la Sacca furono occupati dai tedeschi, la zona divenne pericolosa per il continuo passaggio di soldati e per il timore di rappresaglie. Tanti pratesi sfollati ritornarono in città, ma io, non volli lasciare né la zona né quella gente che mi aveva ospitato, a cui mi sentivo legato da affetto e riconoscenza. Oggi quando ripenso a quei giorni mi rendo conto che fu questa decisione di restare lassù, qualunque cosa accadesse, che mi salvò dalle rappresaglie fasciste in città, dai rastrellamenti indiscriminati dei tedeschi, dalla deportazione nei campi di lavoro germanici. Lassù in collina i tedeschi venivano e andavano continuamente e presto requisirono la cucina della casa ad uso proprio. Io non mi nascosi, come sfollato lavoravo molto nel campo e parlavo solo se richiesto; sentivo poco, a causa della perdita parziale dell’udito da entrambi gli orecchi e così diventai una presenza poco significativa per loro. Mi comandavano qualche servizio, come l’acquisto delle patate, a cui non potevo sottrarmi, perché obbligato. I partigiani continuavano ad agire e spesso scendevano, arrivavano di notte e si nascondevano o nel capanno o vicino al pozzo; lì incontravano soprattutto le donne al mattino, quando uscivano presto; chiedevano d mangiare o le scarpe, che non avevano, noi si aiutavano con quello che c’era. Ma soprattutto volevano informazioni sui movimenti dei tedeschi e noi, che eravamo in una posizione di passaggio, si collaborava ad indicare le diverse direzioni dei tedeschi; allora ci ringraziavano e procedevano. Mi 96
Volume settimo ricordo di un caso in cui non si riuscì a salvare un giovane partigiano che si fermò davanti al casolare e per quanto gli si stesse dicendo di allontanarsi subito perché i tedeschi giravano intorno, volle restare e andare incontro al suo destino di morte. All’inizio del mese di settembre 1944 in val di Bisenzio i soldati rastrellarono gli abitanti dei paesi dove passava la Linea Gotica, Cantagallo fu distrutto ed io che ero nato in quel territorio e che ero stato costretto a lasciare mi domandavo quale fine avessero fatto tanti che conoscevo. Dopo un paio di giorni si diffuse la notizia che la formazione partigiana Bogardo Buricchi, che stanziava sul monte Javello, sarebbe scesa a valle per collaborare alla imminente liberazione di Prato. Tutti sapevano che i partigiani sarebbero scesi alle Lastre e a Coiano, e gli sfollati scapparono via in previsione di quello che sarebbe successo. La notizia non era rimasta segreta e i tedeschi conoscevano tutta l’operazione. Non si sa quanti fossero i tedeschi che aspettavano i partigiani, ma certamente erano pronti per colpire la brigata. Quando i partigiani scesero, i tedeschi iniziarono a lanciare i bengala e a far fuoco con le mitragliatrici. Nella notte tra il 5 e il 6 settembre combatterono fino all’alba e ci furono molti morti. Al mattino si trovavano ovunque sparsi nel bosco e lungo la strada che portava a Pacciana. Presto si seppe che 29 partigiani erano stati catturati e subito impiccati a Figline alle travi della via che oggi è a loro intitolata. L’8 settembre 1944, Prato fu liberata e tornò di nuovo un po’ di speranza. Lassù alle Sacca arrivarono gli Alleati , ragazzino biondi a cui piaceva bere il vino toscano, occuparono la casa e restarono nel territorio senza avanzare oltre la linea gotica fino all’aprile del 1945. Io restai ancora nella casa di Bellavista con i contadini, lavoravo nei campi e li aiutavo. Restai alle Sacca fino agli anni ’50, tornai a Prato e sono stato artigiano tessile dato che impiantai una filatura in via San Jacopo.
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Volume settimo 1914 - 2014 Centenario della I Guerra Mondiale
Fanti della Brigata “Sassari” fulminati dal tiro nemico e rimasti impigliati nei reticolati durante l’attacco alla celebre Trincea delle “Frasche” nel novembre del 1915. (Museo Storico della Brigata “Sassari” – Sassari)
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Ultime Voci Nel 1914 inizia la I Guerra Mondiale. Il conflitto scoppiato nel cuore dell’Europa in poco tempo esce dai confini del continente allargandosi all’intero mondo, con delle caratteristiche peculiari che non si erano mai viste in precedenza. Senza esagerazioni, si può dire che il mondo che esce dalla I Guerra Mondiale è diverso da quello precedente, per quanto riguarda le condizioni di vita tanto dei militari che dei civili, anch’essi per la prima volta partecipi della guerra. La stessa Associazione Nazionale Combattenti e Reduci trova in questo conflitto la propria origine: la nostra associazione infatti nasce il 4 Novembre del 1918 proprio con lo scopo di riunire e tutelare i Combattenti della I Guerra Mondiale. Oggi 2014, ad un secolo di distanza da quegli eventi, la stessa Associazione celebra e ricorda quegli eventi con la ferma intenzione di trarre da quella e dalle altre guerre svoltesi successivamente la lezione della pace, da perseguire con i mezzi dell’educazione e dell’istruzione. Per questa ragione, abbiamo pensato di proporre un’intera sezione di questo volume di Ultime Voci alle voci dei soldati che hanno partecipato alle vicende della I Guerra Mondiale. Con questa iniziativa, la Federazione di Prato vuole unirsi alle celebrazioni istituzionali del Centenario, ricordando episodi del conflitto con il consueto punto di vista che anima le nostre attività: presentare gli eventi adottando il punto di vista dei partecipanti al conflitto, ridando voce a quanti si sono trovati coinvolti in eventi forse più grandi di loro, con l’obiettivo di raccontare senza retorica e in modo genuino le azioni e le sofferenze dei soldati, affinché resti nella mente e nel cuore dei lettori la consapevolezza che la guerra non è mai il modo giusto per risolvere le controversie tra i popoli.
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Volume settimo Inquadramento storico Nell’immediata vigilia della guerra, all’inizio dell’estate del 1914, gli stessi protagonisti della politica europea, Inghilterra e Germania, erano ancora convinti e determinati ad evitare il ricorso alla guerra come risposta ai problemi continentali. Molti Paesi d’Europa anche se da un punto di vista militare erano pronti ad intraprendere l’avventura di un conflitto (esclusa l’Italia), politicamente sembravano non averne l’intenzione: però tutti avevano alcuni limiti fermi e precisi che consideravano insuperabili ed intangibili per i loro interessi nazionali. La guerra fu animata da forti motivazioni nazionalistiche, che sono sempre state antipodiche al concetto di patriottismo espresso per esempio dalla tradizione risorgimentale. Fu appunto a questo livello che esplose la crisi. L’Italia, sebbene fosse legata a trattati internazionali, in un primo momento optò per la neutralità, ma già nella primavera del 1915 esplosero le tensioni fra neutralisti e interventisti: in particolare le posizioni neutraliste, ben presto travolte dalle manifestazioni interventiste del maggio di quell’anno (le “radiose giornate”) si alimentavano della considerazione che l’Italia non era direttamente interessata al conflitto, né aveva ragioni per dover combattere la Germania e dalla convinzione che il Paese avrebbe potuto ricavare fruttuosi vantaggi economici e forse anche territoriali da una neutralità ben impiegata. Ma queste posizioni non tenevano sufficientemente conto di un ceto industriale particolarmente aggressivo, che sperava di ricavare dalla guerra (come in effetti fu) immensi profitti, da una Corte militarista e da un governo che di fatto, con una soluzione calata dall’alto, se non un vero e proprio atto di forza, appena rivestito di legalità, il 26 aprile 1915 aveva stipulato a Londra un patto segreto che impegnava l’Italia ad entrare entro breve in guerra a fianco di Francia ed Inghilterra. La guerra iniziò così il 24 maggio 1915. Come tutti gli eserciti dei Paesi belligeranti, l’esercito italiano condusse una logorante guerra di trincea, ove la conquista di poche centinaia di metri costava spesso centinaia o migliaia di morti, di fronte a difese austriache ben munite perché costruite già da tempo, in condizioni di svantaggio territoriale e con un armamento insufficiente. La guerra mise a nudo l’impreparazione tecnica e professionale di molti ufficiali di carriera, specialmente di grado superiore, a mala pena corretta dalla buona volontà di molti ufficiali di complemento. Il comandante in capo, generale Luigi Cadorna (sostituito da Armando Diaz 101
Ultime Voci dopo Caporetto) e molti alti ufficiali, infatti, si comportarono con i nostri soldati come se fossero al comando di un esercito nemico e, vilmente, gettarono le colpe della rotta di Caporetto sui combattenti, anziché riconoscere i grossolani errori tattici e strategici da loro stessi compiuti. Nei primi mesi di guerra lo sforzo bellico delle nostre armate si concentrò sull’altopiano del Carso. Gli austriaci approfittarono dell’impegno italiano nell’area friulana per scatenare un controffensiva alle spalle delle armate italiane in Trentino (la cosiddetta Strafexpedition, spedizione punitiva), che obbligò il comando generale a rettificare il fronte alpino. Dopo alcune sanguinose battaglie in Carnia all’inizio del 1917, il 24 ottobre il fronte italiano venne sfondato a Caporetto. La linea difensiva venne ricomposta lungo l’asse Lago di Garda - Pasubio e Monte Grappa - fiume Piave, da cui partì l’offensiva vittoriosa dell’ottobre 1918. In particolare nell’anno 1917 su tutti i fronti di guerra in Europa si mise in luce la crisi psicologica ed umana dei combattenti, che pagavano duramente e di persona azioni militari di cui era sempre difficile comprendere il senso, mentre risaltavano sempre di più lo spreco e la dissipazione di vite umane e di mezzi. La popolazione civile era prostrata dalle difficoltà di reperire perfino i generi alimentari di prima necessità, da un incontrollato rialzo dei prezzi dei prodotti di più largo consumo e dalla riduzione sistematica dei salari. Per i civili dunque la guerra fu subita come un’ineluttabile necessità: i soldati la combattevano per solidarietà con i loro compagni, ma anche perché vi erano costretti dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel punire ogni più piccola forma di insubordinazione. Alle sofferenze dei combattenti al fronte, nell’inverno 1916-1917 particolarmente dure per il freddo intensissimo, s’aggiungevano le notizie dei facili arricchimenti di quanti con forniture e spesso con frodi all’esercito si procuravano vantaggi d’ogni genere (i pescicani), mentre quelli che erano riusciti ad evitare il fronte (gli imboscati) salvavano la loro vita e portavano via il lavoro e l’impiego a quanti rischiavano la vita in guerra: e così naufragava vergognosamente il decantato patriottismo che la borghesia, specialmente quella intellettuale, sbandierava senza pudore collocando questa guerra nella tradizione del Risorgimento. Su tutti i combattenti aleggiava il senso di fragilità e della incertezza della vita umana espresso mirabilmente in una lirica di Giuseppe Ungaretti: Si sta come d’autunno/ sugli alberi le foglie. Perfino la voce di papa Benedetto XV esortava alla pace tutti i Paesi in guerra parlando di un’ “inutile strage”. Ma la logorante guerra di trincea durerà ancora a lungo, finché l’offen102
Volume settimo siva austro-ungarica, iniziata il 15 giugno del 1918 contro il Monte Grappa e sugli Altipiani da una parte e il Montello e la linea del Piave dall’altra, fu respinta e, a partire del 24 ottobre, la controffensiva italiana permise di spezzare il fronte nemico a Sernaglia (in seguito ribattezzata Vittorio Veneto) determinando la resa e l’armistizio firmato a Villa Giusti, presso Abano Terme, il 4 novembre 1918. L’Italia aveva mobilitato complessivamente 5.615.000 uomini. I caduti erano stati 650.000, con quasi un milione di mutilati, con 600.000 prigionieri o dispersi per un totale di vittime di oltre due milioni di esseri umani: questa fu in sintesi la Grande Guerra per il nostro Paese.
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Ultime Voci Storia della famiglia Cecconi
Le vicende militari di Giorgio ed Evaristo Cecconi sono state raccontate dalle sorelle Anna e Maria Felicita Cecconi, figlie di Evaristo. La storia della famiglia Cecconi è al tempo stesso la storia della Chiesa di Sant’Anna in Giolica, dove la famiglia ha abitato fin dai tempi del trisavolo delle signorine Cecconi, Giovan Batista Mazzoni.
Anna e Maria Felicita Cecconi sono trepide e appassionate custodi della villa e della Chiesa di Sant'Anna in Giolica, luogo storico legato al Sacco di Prato avvenuto nel 1512, e allo sviluppo industriale di Prato. La famiglia Cecconi è proprietaria ed è sempre vissuta in questa splendida villa, con il suo bel giardino, fin dal 1815. In questo luogo si respira aria d'altri tempi, in antico era un Convento degli Eremitani, come testimonia il bellissimo Chiostro con il pozzo. Le mura della casa e che racchiudono il giardino, sono intrisi delle storie di coloro che hanno vissuto in questo luogo magico, ricco di storia. Il trisavolo delle signorine Cecconi, Giovan Battista Mazzoni, fu il pioniere del telaio meccanico a Prato. Era nato il 4 febbraio, in Via Dei Banchi, (oggi Via Cesare Guasti) laureato in Lettere e in Scienze Politiche alla Sorbona (Parigi) e all'Università di Pisa. Si spense il 7 novembre del 1867. È sepolto nella Chiesa di Sant'Anna in Giolica. Fu insignito della medaglia d'Oro per Merito Industriale. Una nipote del Mazzoni, figlia di suo figlio Evaristo, Felicina, sposò l'avvocato Ciro Cecconi, così la Villa di Sant'Anna passò ai Cecconi. Le guerre che hanno segnato il Novecento hanno visto protagonisti Giorgio, Evaristo e 104
Volume settimo Ridolfo, che partecipò alla Battaglia di Curtatone e Montanara.
Giovan Battista Mazzoni
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Ultime Voci Ricordi di famiglia di Anna Ho vicino a me tanti ricordi e testimonianze della I guerra Mondiale, durante la quale, tanti e tanti nostri soldati combatterono con eroismo, soffrirono, gioirono nell'intento di congiungere all'Italia la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia con le migliaia di abitanti che guardavano con desiderio alla loro eletta Patria. Sono vicina ai ricordi di mio padre Giorgio e di mio zio Evaristo, suo fratello, che combatterono con onore meritandosi ricompense al Valor Militare. In casa abbiamo ancora alcune loro armi (denunziate alla polizia), le divise, le sciarpe azzurre e il bellissimo tricolore con lo stemma reale che tante volte ha sventolato, in città, durante le feste nazionali. La città di Prato pagò un grande contributo di vite umane, tanti i dispersi e i mutilati. Soldati semplici e ufficiali furono insigniti di medaglie d'Or,o d'Argento e di Bronzo e furono tanti i riconoscimenti assegnati ai giovani soldati pratesi. Sulla Chiesa di Sant'Anna, in Viale Piave, si possono leggere i nomi di tutti coloro che immolarono la propria vita nei due conflitti che segnarono la storia del Novecento. Anna Cecconi ricorda i suoi cari che combatterono nella guerra del ‘15-‘18. Giorgio Cecconi, Colonnello di Fanteria Medaglia d'argento al Valor Militare. Giorgio nacque a Prato nell'antica casa di Sant'Anna in Giolica il 15 settembre 1891, figlio terzogenito dell'avvocato Ciro Cecconi e di Felicita Mazzoni, nipote del Dottore in Scienze e Lettere Giovan Battista Mazzoni, che introducendo il primo telaio meccanico fu artefice di quella rivoluzione industriale che fece di Prato una città di grande rilievo in Italia e nel mondo. Egli ebbe salde tradizioni risorgimentali e fu sempre consapevole dell'educazione ricevuta e dell'importanza di quei valori spirituali e familiari che egli mantenne e onorò anche con tante sue iniziative. Emulo del nonno Evaristo Mazzoni, che aveva partecipato con i volontari pratesi alla Battaglia di Curtatone e Montanara (Mantova), dopo aver frequentato il Collegio Cicognini partì volontario a 18 anni per la Libia con l'83° Reggimento Fanteria e partecipò alla Campagna Italo-Turca, distinguendosi per lo spirito di sacrificio, l'attaccamento al dovere e la noncuranza del pericolo. È di questo periodo un episodio che entusiasmò e commosse tanti suoi concittadini: un 106
Volume settimo ciclamino inviato alla madre Felicita in una lettera da Derna, ispirò al professore Amerigo Bresci, insegnante di lettere al Collegio Cicognini, la poesia Il ciclamino di Derna che fu pubblicata in diverse edizioni di libri e giornali dell'epoca. Tornato in Italia, frequentò la R. Scuola Militare di Modena e, col grado di Sottotenente di Fanteria, partecipò alla I Guerra Mondiale, durante la quale fu decorato di Medaglia d'Argento al Valor Militare per una coraggiosa azione sul Monte Cengio al Forte Corbin, compiuta il 16 giugno 1916. Al termine del conflitto fu assegnato col grado di Tenente all’I Reggimento Alpini di stanza a Mondovì e, promosso Capitano, fu assegnato nel 1930 all'82° Reggimento di Fanteria a Pistoia. In tale ufficio si distinse per competenza, tattica e anche per impegno sociale e umano nei confronti dei militari a lui sottoposti. Il 22 ottobre del [la data manca] nella Chiesa di Sant'Anna in Giolica sposò la signorina Giulia Margherita Cecchi; nacquero tre figli: Anna, Giovanni e Maria Felicita. Nei primi anni '30 ebbe il Comando della Caserma “Settesoldi” in via Marco Roncioni a Prato. In seguito fu trasferito ed assegnato al Distretto Militare di Lucca, nel maggio del 1935. Nel 1936 fu inviato a Firenze e quale Comandante Militare di Stazione, svolse il nuovo importante incarico con grande responsabilità e capacità operativa: riceveva Prelati e Cardinali e membri della Famiglia Reale. Promosso Tenente Colonnello, nel 1941 fu di nuovo assegnato al Distretto Militare di Firenze. Dopo il secondo Conflitto Mondiale, quando era ormai in congedo, ebbe la promozione a Colonnello. Tornato nella sua città, dedicò tutte le sue energie alla cura della casa che lo aveva visto nascere, alla sua famiglia che tanto amava e all'antica chiesa di Sant'Anna, la cui fondazione risale all’anno 1269, parte della storia di Prato, centro delle sue più vive aspirazioni: promosse lavori di manutenzione, affrontando sacrifici finanziari non indifferenti. Si rivolse più volte alle Autorità competenti preposte ai Beni Culturali e Ambientali per un necessario e radicale intervento di restauro, consapevole del valore artistico, storico e culturale della chiesa e della casa, complesso unitario che fu antico Convento degli Eremitani. Fece parte di molti Comitati cittadini, fra i quali l'Istituto del Nastro Azzurro, quello dei Decorati al V.M. di cui fondò la sede di Prato, ed il comitato riunito nel 1967 per celebrare il I Centenario del suo bisnonno Giovan Battista Mazzoni. Il Colonnello Giorgio Cecconi è scomparso il 19 maggio 1978, lasciando un grande 107
Ultime Voci ricordo di affabilitĂ e di onestĂ . Egli riposa nella sua amata chiesa di Sant'Anna, accanto alla consorte Giulia, da lui tanto amata, e vicino alle tombe dei suoi familiari. Durante il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, si espresse a favore del mantenimento della Monarchia Sabauda.
Giorgio Cecconi
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Volume settimo Evaristo Cecconi Generale d’Artiglieria pluridecorato al Valor Militare. Evaristo Cecconi nacque a Prato nell'antica casa di Sant'Anna in Giolica il 16 febbraio 1887, figlio primogenito dell'avvocato Ciro Cecconi e della consorte Felicita Mazzoni, fratello di Giorgio. Frequentò il R. Collegio Cicognini di Prato e quindi la Regia Università di Pisa dove si laureò in Legge il 5 luglio 1912. Durante la guerra Italo – Turca degli anni1911-1912 partì volontario per la Libia con il grado di me Sottotenente di complemento di Artiglieria. Fu così promosso al servizio effettivo (S.P.E.). Partecipò col grado di Tenente alla I Guerra Mondiale, sul fronte del Carso, con l'invitta III Armata, comandata dal Duca Emanuele Filiberto di Savoia Aosta. Nella zona di Monfalcone Flondar ricevé la I Medaglia al V.M. e la promozione a Capitano per meriti di guerra. Al fronte ebbe un incontro con S.M. Il Re Vittorio Emanuele III. Si incontrò anche con il fratello Giorgio, che faceva parte della I Armata, comandata dal Generale Guglielmo Pecori Giraldi (Fanteria). In seguito fu inviato a Pola e a Brescia dove fece parte della Divisione “Leonessa d'Italia”. Durante gli anni 1935-1936 partecipò col grado di Tenente Colonnello alla guerra in Etiopia insieme alla Divisione 28 Ottobre, e al gruppo Cannoni 65/17 R.E. al comando del Generale Umberto Somma. Si distinse nella battaglia del Tembien e al Passo Nariew, dove vide morire, colpito a morte, il Cappellano militare Padre Reginaldo, Medaglia d'Oro al Valor Militare, mentre confortava un soldato gravemente ferito. Tornato in Patria, fu inviato in Valle di Susa ad Avigliana e, poco tempo dopo, durante la II Guerra Mondiale come guardia alla Frontiera a Bar Cenisio e sul fronte francese nella zona alpina dei combattimenti. Nel frattempo nel dicembre del 1939 aveva sposato a Torino, nella Parrocchia di Santa Barbara, la signorina Paola Vergnano, nipote da parte di madre del Maresciallo d'Italia Ettore Gaetano Giardino; alle nozze partecipò anche il fratello Giorgio. Successivamente partì col grado di Colonnello per la Libia dove ebbe il comando della difesa antiaerea di Bengasi, guadagnandosi la III al V.M. Abitava in un autocarro. Qui lo raggiunse la notizia della promozione a Generale di Brigata. 109
Ultime Voci Caduto prigioniero a Tunisi, passò vari anni nel campo di prigionia di Como – Mississippi, in America, di cui fu comandante; ebbe alle sue dirette dipendenze il Capitano Carlo Blasetti, verso il quale nutrì molta stima. Nel 1945 rientrò in Italia e fu congedato. Durante le votazioni del Referendum istituzionale del 2 giugno 1946, espresse il suo voto per il mantenimento della Monarchia di Casa Savoia. Morì a Torino l'8 marzo 1952; fu sepolto nel Cimitero di Baldissero Torinese, dove riposa accanto alla consorte Paola.
Evaristo Cecconi
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Volume settimo I Cugini Fattori: Cesarino, Duilio e Mario
Come la precedente, anche questa testimonianza riguarda un’intera famiglia, la famiglia Fattori, i cui tre giovani Cesarino, Duilio e Mario, cugini tra loro, furono travolti dagli eventi bellici e morirono in govane età. La loro storia è un esempio della tragicità e della inutilità della Grande Guerra e delle guerre in generale.
Onore e rispetto per tre giovani vite spezzate dalle guerre che hanno segnato il Novecento. Tre cugini: Cesarino Fattori, primo dei tre figli di Luigi, Duilio Fattori, secondogenito di Pietro, e Mario Fattori, il primo dei tre figli di Giovanni. La loro era una famiglia patriarcale. Cesarino e Duilio vivevano a Usella, nel grande podere di proprietà della Contessa Maria Cristina Guicciardini, vicino alla storica Villa Guicciardini. Mario invece abitava a Vaiano, in via di Schignano, con la madre vedova e i due fratelli. Il podere dei “Fattori” era il più bello e forse anche il più grande della val di Bisenzio, avevano le pecore, le mucche e producevano un formaggio buonissimo, la “nonna” tesseva a mano tessuti per i lenzuoli, mezzalana e rigatino. Una grande vigna, grano e foraggi in gran quantità, data anche la posizione del podere. Giovannina Fattori, zia dei tre cugini, fu fattoressa alla Villa per più di cinquanta anni: la Contessa Maria Cristina le consegnò la medaglia d'oro per la sua devozione, durante una cerimonia in Palazzo Vecchio a Firenze. Giovannina e “Cri-Cri” riposano insieme nella Cappella della famiglia Guicciardini. Durante la Grande Guerra del 15-18, la villa di Usella fu offerta dai Guicciardini come 111
Ultime Voci
Villa Guicciardini di Usella, panoramica sud del fabbricato, 1895 (collezione Fantechi). Fotografia tratta da Annalisa Marchi Usella L’immagine ritrovata Quaderno n.4 della Terza Serie 1998, p.41.
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Volume settimo
Particolare della targa affissa a memoria di Fattori Duilio.
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Ultime Voci convalescenziario. Nei primi mesi del 1916 fu aperto ufficialmente l'Ospedale Militare di Riserva che restò in funzione fino al dicembre del 1918, con 13 soldati in servizio. Ed è proprio durante questa guerra che perse la vita il giovane Fattori Cesare, soldato del 6° Reggimento Bersaglieri. Cesare era nato il 2 luglio del 1898 a Usella comune di Cantagallo. Si spense il 12 dicembre del 1917, nell'Ospedale da Campo N°0100, per ferite riportate in combattimento e per congelamento sul Carso. La contessa Guicciardini per ricordo fece murare sul muro della casa colonica, dove era nato, una pietra con incise le seguenti parole: «Perché sia perenne il ricordo di Cesarino Fattori di Luigi, soldato nel Reggimento Bersaglieri morto in difesa della Patria, il 12 dicembre 1917 decorato al valore, nato e vissuto in questa casa».
Cesare Fattori (sulla destra). 114
Volume settimo
Duilio Fattori.
Non passarono molti anni ed un'altra targa fu murata vicino alla prima: il giovane Duilio, a soli 23 anni, morÏ di malaria in Africa. Brunella Fattori, figlia di Corrado, all'epoca era piccolina ma ricorda che erano nei campi a vendemmiare, quando arrivò il postino con la tragica notizia, il dolore dei genitori e della famiglia fu immenso e rinnovò anche il dolore per la morte di Cesare. 115
Ultime Voci
Fattori Mario.
La terza vittima, Fattori Mario fu Giovanni, abitava a Vaiano, con la madre Forestina e due fratelli, in via di Schignano 272. Mario era nato nel 1910, arruolato marinaio era caduto sulla Torpediniera Nullo. La sua salma era trasportata sulla nave Paganini, che naufragò. Per la madre e i fratelli il dolore fu grande. Mario era un bel ragazzo allegro e stimato da tutti, e non avere neppure una tomba dove dire una preghiera era straziante per la sua mamma, che non voleva farsene una ragione. L'aveva inghiottito il mare insieme ai tanti marinai della Paganini.
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Volume settimo
Podere di Usella, 1895 (collezione Fantechi). Fotografia tratta da Annalisa Marchi Usella L’immagine ritrovata Quaderno n.4 della Terza Serie 1998, p.67.
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Ultime Voci Angiolo Lenzi
Angiolo Lenzi è nato a Signa (FI) il 24 maggio 1896. Arruolato nel 1915, combatté la I Guerra Mondiale nel 89° Reggimento Fanteria. Di stanza sul fronte del Carso, l’11 agosto del 1916 fu ferito alla gamba destra e rimase per tre giorni privo di soccorsi. Portato in ospedale, rimase ricoverato per nove mesi a causa della gravità della ferita. Angiolo partecipò alle attività dell’Associazione Combattenti e Reduci di Prato, città dove è vissuto fino alla morte il 31 ottobre 1974.
Angiolo Lenzi, arruolato di leva 1° Categoria il 25 settembre 1915, 89° Reggimento Fanteria e mandato al fronte, sul Carso, nella Prima Guerra Mondiale. Una guerra difficile e terribile per i nostri soldati. Nella campagna del 1916, il giorno 11 agosto, nei pressi di Monfalcone, Angiolo fu ferito alla gamba destra. Rimase per tre giorni senza la possibilità di alcun soccorso, tanto che i compagni lo credevano morto. Portato finalmente all’ospedale vi rimase nove mesi. Era stato ferito, con arma da fuoco in modo gravissimo. Uno squarcio profondo e devastante gli aveva portato via mezza coscia. In seguito venne trasferito all’ospedale di Arezzo, anche per un riavvicinamento alla famiglia, qui ricordava la paura di quando ci fu il terremoto e tutti scapparono fuori e lui restò dentro solo, perché non poteva camminare. In quel momento risentiva addosso tutta l’angoscia e la disperazione dell’impotenza provata nelle trincee del Carso. «Mi ricordo bene» dice Maria Grazia Settesoldi1 «di quando raccontava di essere stato chiamato dai fascisti in piazza del Comune e invitato a indossare la divisa fascista. Per tutta risposta, mostrò loro la sua gamba e disse: “Guardate come mi ha ridotto indossare 1 Angiolo, sposato con una zia del babbo della signora Settesoldi Maria Grazia, quando rimase solo fu preso in casa con loro dove rimase fino alla fine dei suoi giorni.
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Volume settimo
una divisa, l’ho fatto una volta e non lo farò mai più, qualsiasi cosa succeda!”». Lo lasciarono andare, lasciandolo in pace per il tempo a venire. Angiolo Lenzi ha frequentato con assiduità l’Associazione Combattenti e Reduci Sezione di Prato, ricevendo dalla stessa l’onore di un attestato di Benemerenza per attività e fedeltà associativa in data 4 novembre 1962 a firma del Presidente Signor Mordini.
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Ultime Voci Arturo Massai
Il brano che segue è la trascrizione del diario del Dr. Arturo Massai (di proprietà della collezione Rodolfo Betti, che ringraziomo per la disponibilità alla pubblicazione), dove sono raccontati fatti generali della I Guerra Mondiale. Arturo Massai nato a Prato nel 1876 si laurea in medicina nel 1898. Arruolatosi volontario allo scoppio della I Guerra Mondiale trascorre due anni al fronte quale Capitano Medico. Rientrato a Prato con decorazione al valore, nel 1920 è tra i fondatori del Fascio Pratese, e successivamente fa parte della prima amministrazione fascista di Prato. Muore a Prato il 5 gennaio 1934. Dovendo pel primo aprire la serie di conversazioni tra soldati e soldati sui fatti politici e militari del giorno, in questa ora in cui la guerra come una malattia ha raggiunto il suo colmo, credo opportuno riassumervi a larghi tratti la storia della guerra per ricondurvi sino ad oggi: Ero bambino e mi ricordo come possono ricordarsi molti di voi a me coetanei, voglio dire più di trenta anni fa e sentivamo parlare di guerra Europea, come di uno spauracchio, di un’ombra paurosa che fino d’allora si delineava sull’orizzonte della più vecchia parte del mondo, e quando si voleva alludere ad una gran cosa di scompiglio era ormai diventato popolare il detto: «pare una guerra europea!». Vuol dire che il seme era gettato, che germogliava nelle vecchie viscere, vangate e rivangate del nostro continente e che si paventava come tutti i germi malefici. Sarà stato il grido doloroso della Francia mutilata nel 1870 e quello della sua rivincita, l’ingordigia della Germania, cresciuta dopo il boccone dei cinque miliardi francesi e con l’ingordigia la sua crescita superba. Il grido di dolore dell’Alsazia e Lorena avrà ridestato la eco dell’’altro grido nostro di Trento e Trieste, schiave e fatte risalire alla gola lo strazio dell’«Obbedisco» di Garibaldi a Bezzecca, sarà stato il vecchio cavallo inglese 120
Volume settimo
Prima pagina del Diario.
dai ghiretti sottili usi a correre il mondo e dall’udito fine avrà rizzato inquiete le orechie al primo rumore lontano del concorrente alla corsa ...(?) Comunque la mala pianta germinava a paralizzarne lo sviluppo ormai inevitabile e fatale si ricorse al rimedio delle alleanze e controalleanze che si andarono arrotondando e smussando con le Intese ma non erano che medicine sintomatiche le quali non bastavano a curare la radice del male. Fu per tanti anni un sistema di equilibrio e come tutti gli equilibri di una bilancia, equilibrio instabile: più volte minacciò di precipitare a l’uno e l’altro piattello: la Germania fatta di praticità lavorò all’ombra delle sue a foggiare ed affilare le armi a disciplinare le menti e le braccia del popolo alla guerra e la Francia tutta sentimento lasciò gridare al suo popolo:«Rivincita, rivincita» e lasciò anche spengere le officine e arrugginire i cannoni. L’Inghilterra flemmaticamente aumentava le navi mentre l’Italia dibattutasi negli isterismi infecondi della sua prima guerra coloniale si pasceva ancora di illusioni di Cenerentola portata al ballo delle grandi Nazioni e dalle grandi Nazioni spesso accusata di 121
Ultime Voci compiacente giri di waltzer. Venne per la Francia l’umiliazione del Marocco ad Algerisas per l’Italia quella della Bosnia ed Erzegovina, si ingollava amaro ma non si armava perchè la nobile anima latina rifuggiva ancora dal pensiero vero della guerra... In Germania invece si aumentavano gli armamenti e l’arroganza di fronte alla remissività degli altri... La mania di grandezza dell’Imperatore aveva trovato il suo momento per espandersi, «Germania soprattutto e anche sopra tutti» questo fu l’orgoglioso sogno e divenne il tormentato assillo tedesco. E i tedeschi distesero parallelamente a quella dei loro commerci la rete dei loro intrighi sul mondo: accarezzavano la Turchia chiudendo l’occhio e l’anima agli orrori dell’Armenia, si inginocchiarono gesuiticamente dinanzi al Santo Sepolcro: in tutti i modi cercarono spianarsi le vie dell’Oriente: finchè fu messo all’Italia rinvigorita il dilemma per Tripoli: «O Te o Io» e non si cercò di meglio dell’Incidente del Mahomba e del Cartagine per aizzare l’Italia e tirare in ballo la Francia onde farsi la Germania ipocrita paladina nostra allo scopo di gettarsi sulla Francia e schiacciarla: il vero lupo camuffato da nonna per ingollare Cappuccetto Rosso! Il gioco non riuscì: intanto la sua degna alleata apostolica punta dal nostro ardimento a Revesa, minacciò la colata delle sue orde dal nostro confine a dovemmo noi ingollare ancora una volta l’amarezza e la umiliazione. Dopo le due guerre balcaniche con Salonicco parve che sfuggiva loro per sempre il sogno della marcia verso l’Oriente e vennero nella determinazione di riaprirsi il corridoio schiacciando la Serbia. Fu nel 1913: l’Italia fatta partecipe del piano indignata rifiutò rendersi complice dell’assassinio di un popolo libero. Gli Imperi centrali avevano il rancore contro l’Italia e crebbero di orgasmo. Non si contennero più e non si tenne più conto dell’Italia come non contasse niente e si cercò Saraievo: si sapeva che era una sfida la vista dell’Erede imperiale ad un popolo in ebollizione: l’Erede la volle e con lui la consorte per coprirlo con lo scudo della sua femminilità. L’attentato fatalmente e doppiamente avvenne e doppiamente clamoroso si levò il grido della vendetta. Così fu che il sangue della coppia imperiale fece i primi orfani e sprizzando ad insanguinare il mondo fece i milioni di orfani della Guerra Mondiale: fu inutile la recriminazione serba, la sua umiliazione a qualunque clausola dell’ultimatum deliberatamente feroce; il bottone elettrico che doveva far scattare la gran macchina di guerra era stato toccato. Ben unta, ben forbita, in tutti i suoi ingranaggi era pronta ada entrare in azione! Invano gli imperiali cugini di Russia e di Inghilterra scrissero e prega122
Volume settimo rono il grande Kaiser, invano la così detta Superba Albione, sull’orlo del gran precipizio inorridita si piegò e si apprestò a proporre l’arbitrato: non si volle far giungere a Berlino e si dette il «Via» al mostro d’acciaio. Così i tedeschi dopo che il genio latino aveva dato agli uomini la voce attraverso gli oceani col telegrafo senza fili, le ali per spaziare nei cieli, la possanza delle dinamo per il lavoro e per la luce e mentre essi stessi dicevano di aver quasi costruito l’uomo meccanico avevano invece preparato nell’ombra la macchina diabolica per distruggere gli uomini. E i battaglioni tedeschi inquadrati imbarcati da piattaforme numerate su numerate in stazioni prestabilite (sic!) con un piano sottile di mobilitazione maturato da anni, lanciati contro la frontiera belga con una furia di movimento che svelava il calcolo fatto delle ore, con una foga di conquista che tradiva la bramosia troppo contenuta del possesso, passarono sul corpo del Belgio straziandolo per azzannare la Francia! Il piccolo Belgio, l’eroico Belgio, il purissimo Belgio per non macchiarsi si era offerto come un agnello sull’ara della civiltà, mentre la grande Germania stracciava il trattato come pezzo inutile di carta e si condannava all’Infamia come colui che rinnegando la propria firma rinnega il suo Onore. Il piccolo corpo del Belgio dibattendosi tra le morse della crudele nemica dette tempo colla sua agonia, tempo alla Francia sbigottita dall’impeto dell’assalto, di raccogliersi e alzando la testa rossa del berretto frigio, impugnava la spada contro l’invasore! Il sacrificio del Belgio salvò la Francia e fu la prima smussatura al sogno tedesco. La neutralità italiana subito sorta con profondo intuito dalle fonti pure del nostro sentimento alimentò fraternamente la resistenza della sorella latina. Venne colla Marna la prima gloria alla Francia e la prima sconfitta della Germania. La titanica. lotta dilagò dall’uno dall’altro fronte, dai Laghi Masuriani alla Galizia, alle gole serbe. Altri barbari entrarono in lizza. Si lottò ai Dardanelli. Si trescò in Grecia. L’Inghilterra aumentava il suo esercito e lo schierava oltremanica. Da noi l’insulto alla Civiltà e alla umanità collo strazio del Belgio aveva commosso, il pericolo corso dalla Francia aveva fatto trepidare, le carezze Austro-tedesche sollecitate dai lenoni d’Italia e ...(?) nei salotti di Villa delle Rose anziché farci dimenticare le amarezze e le umiliazioni subite le rinfocolavano e ci facevano fremere. Più dolce e più sincera sentivamo la carezza della Francia infelice, e più sincero lo sguardo sereno ed amico dell’Inghilterra. D’altronde da Trento stormiva un vento di 123
Ultime Voci lamento e da Trieste una sirena malinconicamente ci allettava! I moncherini gocciolanti del bambino belga avevano toccato il cuore della Cenerentola! Buttata via la ciabatta di serva l’Italia calzò il coturno di Roma signora del mondo, madre del Diritto e marciò a fianco degli alleati difensori della Civiltà contro la barbarie. Voi tutti ricordate le giornate luminose del maggio nostro terza primavera in fiore della Vita d’Italia! Passano e passano i nostri cannoni sui ponti e sugli spalti delle nostre ferrovie e coi loro gruppi di artiglieri, maestosi parevano monumenti nei tramonti. Passavano i barconi pei traghetti del fiume sacro che lassù recingeva la dea delle nostre speranze, passavano bersaglieri e bersaglieri piumati bruni ed ardenti, alpini atletici colla penna irta come un parafulmine e i fanti snelli e vivaci in un tumulto di grida, di canti, di bandiere e di evviva! L’anima italica del ‘48 si era aperta ancora all’ebbrezza della nostra più bella speranza! Di là dalle Alpi rimasero sorpresi dell’audacia e noi varcammo ovunque gli iniqui confini. O selvagge balze del Trentino o rive dell’Isonzo glauche, o lagune smorte di Grado quante baldanze dei figli, dei fratelli nostri vedeste? Il Carso coi suoi tufi divenne il corvo dei rettili nemici, bevve come una spugna il nostro miglior sangue, ma nostro fu; fu ed è il nostro altare ove ha bruciato il primo incenso della nostra vittoria ed ora quell’incenso sui gradini insozzati, brucia ancora per l’Idolo di Trieste e della libertà e brucerà come fuoco finchè l’Italia in piedi difenderà o al Piave o al Po non importa, difenderà Trieste sua e la libertà di tutti. Dal nemico intanto si dava il colpo, il Maramaldo alla Serbia e coi siluri e le bombe contro gli inermi e coi gas asfissianti si perpetrava a sangue freddo l’opera mostruosa contro l’Umanità. Si tentò il colpo d’ariete contro Verdun e nel Trentino. La volontà ferrea di resistere dette alla Francia un’altra palma e l’Italia in uno scatto di molla dopo la sorpresa, tese tutta la forza inflessibile dei suoi nervi dal Pasubio alla Valsugana e contese al nemico l’opulenta preda della pianura. Poi mentre i russi premevano ai Carpazi, noi stampando orme indelebili di ardimento nella storia, salimmo il Sabotino ed il S. Michele liberando Gorizia! Alle Porte di Ferro, termine della latinità in Oriente, si doveva finalmente saldare l’anello strangolatore degli Imperi Centrali. 124
Volume settimo Invece alla Romania entrata in lizza nell’impari lotta, in quello che pareva il suo attimo fuggente, mancò il sostegno alle spalle, ed è con la prima defezione russa s’aprì la prima falla all’Intesa. Da quel momento la semina di oro e di intrighi che aveva dato dei buoni risultati nel fertile terreno russo, e aperte le pingui madri rumene alle gole affamate austro-tedesche, fu continuata ed intensificata insieme a quella dei siluri, delle bombe, dei gas asfissianti, dei confetti avvelenati e ...(?) e noi eravamo arrivati con montagne di acciaio e con ali possenti a superarlo a viso aperto con le armi leali del duello guerriero e non colla maschera ed il pugnale dell’assassino! E mentre ci veniva a mancare la grande Russia, ubriacata dalla Rivoluzione acquistavamo la grande democrazia dell’America a baluardo della nostra lotta e contro la forza a difesa del Diritto. Latini sapemmo adattarsi da tedeschi al ragionamento dei consumi, Italiani soprattutto agricoltori e poeti, sapemmo creare città di officine e foggiarne proiettili a miliardi, tedescamentee cocciuti i nostri contadini ed i nostri studenti giovinetti si attanagliarono alle falde del Cucco e del Vodice, alle gobbe del ....(?) più ardenti della fornace che vi infuriava salirono, salirono.... Saliste o fratelli giovinetti eroi, faticosamente inesorabilmente sotto gli occhi attoniti del nemico tremante nelle caverne! Sulla vetta del Santo sventola il tricolore come sulla vetta d’Italia, dalla vetta del Santo eccheggiò l’inno fatidico «Va fuori d’Italia» e si ripercosse di quota in quota per la Bainisizza desolata alle spalle del nemico che di quota in quota era travolto dal nostro impeto e dalla sua vigliaccheria! Ditelo voi, quanti di voi foste con me in quei giorni memorabili, che in quei giorni tra le grandiose macerie del Santo conquistate a sasso a sasso o sotto l’aleggiare tricolore possente nel cielo salutato anche nostro, o nel tumulto immane degli uomini e dei cariaggi sulla ....(?) Plava intentia alla pronta opera nostra vivificatrice della valle morta, ditemi se tutti sentimmo in quell’ora che la Patria era veramente divenuta grande?! La sua anima era là e ci parlava. Parlava a tutte il suo linguaggio misterioso di grazie, di grazie allora nella Vittoria e l’assaporammo inebriandosi tutti nel sole e nelle acque glauche dell’Isonzo nostro. E mentre ci allontanavamo lassù, laggiù nelle nostre città che suonavano a festa e si imbandieravano, delle serpi, i senza patria, delle serpi più immonde dei rettili nemici andavano istillando (sic!) pagato, il veleno sottile per rammollire le vene e i polsi di nuova 125
Ultime Voci
Ritratto del Dr. Massai.
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Volume settimo gente generosa! Il nemico mentre chiamava al soccorso guatava che nel bel corpo d’Italia si spandeva il torpore venefico, come l’hascisch (sic!) che aveva propinato e fatto infatuare la Russia. Attendeva e preparava silenziosamente il meglio per colpirla a morte nello stordimento come era uso a colpire con la mazza ferrata i nostri moribondi. Sopravvenne Caporetto!! Perchè o compagni e quanti con me foste fratelli in quei giorni infausti sulla via dolorosa, e lo domando anche gli altri che non c’erano, perchè ditemi bastò un pugno d’uomini di ferro sul Pasubio perchè non si scardinasse, e un solo mitragliere, un eroico sardo, bastò a mantenere il baluardo del monte Lemerle che fu il pilone ove s’infranse la minacciosa ... (?) nemica volta ormai alla pianura? e perchè centinaia di cannoni e migliaia di uomini non bastarono al Monte Nero? Perchè alla stretta del Natisone non fu fatta siepe colle migliaia di braccia e di petti che pure avevano attinto i vertici dell’Adamello o si erano fatti roccia nelle rocce del Santo? Non erano gli stessi uomuni che dileggiati una volta, cento volte, avevano fatto finalmente impallidire il nemico all’Hermada ed in Banisizza (sic!)? Dalla stretta del Natisone sbucò come da uno staggio in cui fosse piombato un lupo un armento scompigliato! Era stato forse lo stesso veleno dei serpi, dei senza patria, che aveva fatto dai cuori di leoni animi di agnelli, o aveva corrotto qualche grossa nervatura! Non lo so e non lo sappiamo: Lo sapremo lo vogliamo sapere per i nostri eroi che vivono e combattono e per quelli che seppero morire! Questo solo sapemmo quanti avevamo raggiunto prima i confini agognati e goduto lassù tutta la gioia del sogno fatto realtà, che lo strappare da essi fu un indicibile strazio! Tra gli incendi e le esplosioni nella notte cupa e minacciosa di nubi pareva che le ombre dei nostri morti dai cimiteri immemori e dalle pietraie fossero tutte risorte e rincatenate sugli orli dei sentieri ci urlassero dietro il loro abbandono disperatamente. Chino sotto il pioviggino, con quelle implorazioni che risuonavano fino al cervello più d’uno di noi pianse lacrime amare! Pochi erano gli incoscienti. I più camminavamo incalzati dal nemico, sotto il peso della pioggia e col peso dello sconforto e della vergogna nell’anima! Nella dura marcia che diveniva sempre più tumultuosa e sempre più straziante perchè 127
Ultime Voci i profughi andavano ingigantendo la fiumana, quale di noi che fosse padre potè fissare senza tremare sino al midollo l’orrore che donne e bambini e infermi pativano travolti nei gorghi della Ritirata come tenere piante strappate da un uragano alle loro zolle! Certo quanti soldati eran gente di quelle terre ed ebbero i loro focolari distrutti, le loro famiglie disperse nella rovina e videro, dovettero anche fare con sè stessi di quelle ore di agonia un patto di sangue: «O redimere le loro zolle e le loro creature o morire!» Intanto il nemico gozzovigliava da noi, scampanava a Berlino e a Vienna e stringeva il laccio a Pietrogrado ove i partiti dei partiti della Rivoluzione stavano compiendo il dissolvimento Russo. E a questo siamo arrivati e con questo al gran fatto del giorno alla grande tragedia la più grande di un popolo e nella storia dei popoli: La Russia fu: il favoloso impero esteso per milioni e milioni di chilometri tra due continenti L’Europa e l’Asia e quattro mari. Il Glaciale, il Baltico, il Nero ed il Pacifico la terra dei granai e dei milioni di uomini fu. Fu perchè nel collasso dell’anima mistica e primitiva che aveva attinto nel grande ideale democratico dell’Intesa, la scintilla per la sua Rivoluzione, l’Ideale rivoluzionario divenne follia e ne ebbe subito sconvolto le tenere file del cervello immaturo! Il vento di follia soffiò in tutte le sue plaghe, alimentò gli incendi, scompagnò le file alle frontiere e all’interno. Fraternizzando da trincea a trincea col nemico perfidamente simulatore credettero i giovani rivoluzionari russi in buona fede trascinare nel vortice rivoluzionario la democrazia tedesca e forse sognavano di scuotere il militarismo prussiano che non erano riusciti a sbandare con le cariche dei loro Cosacchi. Tragica allucinazione! Il nemico sogguatava la preda e appena col disfacimento dell’esercito russo cominciavano le lotte intestine fratricide, vi si gettò chiedendo senza scrupoli e senza finzione finalmente tutto ciò che voleva. Sentite! Una cintura di territorio russo fatto di Curlandia e di Terra polacca grande quanto la stessa Germania attorno alla Russia a sua maggior protezione futura. Le Repubbliche di Estonia e Lituania sotto il controllo, mani nei capelli in Finlandia e Ucraina e la vecchia la madre Russia di Pietrogrado e di Mosca esclusa quasi dal respiro del mare, strozzata fra le sue sorgenti repubbliche pupille della Germania! Mutilata a pro del ... (?) nel Caucaso delle sue più salde fortezze e delle sue più ricche miniere. La pace ignominiosa ha dovuto essere firmata dai Russi di Lenin e non paghi i tedeschi di aver posto l’onta e le catene ad un popolo lo va ora bersagliando ferocemente 128
Volume settimo con le bombe mentre esule inebetito dal dolore e dal disonore. Lo bersaglia a scherno a guisa di un aguzzino risorto dalla Inquisizione. Questa è la Pace ad ogni costo voluta prima, mendicata poi e subita: i rivoluzionari russi che hanno ucciso la loro Patria e la loro Rivoluzione quasi che fosse divenuta matura alla vita! Essi stessi immaturi o sognatori o incoscienti predicando il disarmo, l’abolizione della disciplina, la diserzione, la viltà l’egoismo anzichè esaltare l’ardire, la generosità, il sacrificio, hanno disfatto le file dell’esercito e dei cittadini, hanno disfatto ripeto la loro Patria ed ora devono chiedere anche per respirare il permesso all’oltracotante Padrone! Anche il sacrificio della Rumenia è consumato. Il piccolo popolo vittima la seconda volta del socialismo russo ha accettato semplicemente e dignitosamente il suo destino ed aspetta: sa che le pietre secolari della civiltà di Roma alle sue Porte di Ferro hanno resistito per diciotto secoli alla corrosione del tempo, e resisteranno alla corrosione dei barbari! Questa è la realtà che non ammette diminuzioni: la Germania a Brest- Litovsk ha buttato la maschera. Dopo il ‘70 premeditò la guerra, la cercò in tutti i modi, nel ‘14 la impose ed ora imponendo la pace russa getta spudoratamente in faccia al mondo il suo programma di aggressione e di conquista. Rotta la diga orientale dilaga la sopraffazione Tedesca verso le sponde del Pacifico. Ma il Giappone si erge in tutta la sua giovane vigoria e compattezza di forze e dice alto «Ci sono». Gli eserciti americani arrivano coi carichi delle navi sempre più sicuramente e più numerosi alle terre di Francia. La guerra europea ha allargato in un cerchio immenso le sue frontiere è la guerra mondiale estesa a tutti i suoi termini. Manipoli di combattenti di tutte le razze oppresse sono schierati sulle frontiere dell’Austria e della libertà .... (?) Dall’Asia al Pacifico le stelle dell’America e il sole del Giappone brillano. Brilla la pace della Repubblica Francese simbolo del Diritto di tutti. Ciò dovrebbe significare pei suberbi nemici che anche vincitori non potrebbero vivere a lungo nel consorzio del mondo che oggi si erge a condannarli e dovrebbero anche sapere che il retaggio di sangue e di odio da loro seminato nel mondo dovranno anche raccoglierlo inesorabilmente! Purtroppo i nemici accecati dal sangue e dalla Vittoria ancora non vedono, non sono 129
Ultime Voci stanchi di lottare e d’offendere e non vogliono rinunciare al loro programma di conquista. Con asprezza e crudeltà rinnovellate affilano tutte le loro armi per le nuove imminenti lotte. E questo è quello che dobbiamo sapere anche noi, nell’ora più tragica della nostra vita di Nazione. Cosa facciamo, cosa faremo? La luce su Caporetto sarà fatta, giustizia a Regina Coeli sarà fatta, non perdiamoci a pensare ai nostri giuda e non ci deprimiamo. Non tutti son Giuda e i giuda ci sono stati in ogni tempo e ci sono in ogni luogo e lasciamoli affidati all’alto senso di dovere e di giustizia di chi deve giudicare: la condanna pari alla loro viltà. Noi la Patria chiama ed invoca a gran voce di pianto dalle terre calpeste e dalle rovine che i “Contrabbandieri della ... (?)” hanno seminato e seminano nelle nostre città. Anche se un’altra gran parte dell’Italia non ha sentito tutto il pericolo e tutto il dolore della guerra, non ha sentito grandi i piccoli sacrifici, non può ora essere sorda a quel pianto: non è più l’Italia che prima di Caporetto lottava fuori dei propri confini e a fronte alta poteva imporsi al nemico. Ha rialzato la fronte ma è sempre in ginocchio! Ha bisogno di tutte le sue energie per rialzarsi e marciare. Le passioni, odii, le trepidazioni del nostro spirito di allora che diminuirono la nostra Vittoria e la nostra resistenza, sarebbero delitti ora che il nemico colle ventose dei suoi tentacoli di piovra allungate sulle nostre più fertili terre le succhia e aspetta soltanto un altro abbandono del nostro spirito per gettarceli al collo e strangolarci. Le nostre madri devono ringoiare il pianto, i padri devono raccogliersi intorno ai focolari e alle siepi dei loro campi, le braccia di noi tutti si devono unire in una catena operosa di lavoro per rifornire incessantemente le necessità della lotta, le mani devono toccarsi fraternamente insieme, senza rancori nell’ora del cimento mentre insieme si piega l’onda delle baionette nell’assalto e in alto i cuori! È in gioco l’avvenire delle nostre generazioni. Gli italiani migratori come le rondini pel mondo devono sapere che dovunque si fermino niente più nuoce che l’essere considerati di un popolo vile e la più gran forza è l’appartenere ad una nazione libera e rispettata! Dunque dobbiamo resistere! Resistere al Fronte interno perchè la Resistenza dei fratelli combattenti sia più salda e serena sentendosi protetta. Al Piave i nostri ragazzi del ‘99 si abbarbicheranno come canneti sulla riva ed il vento di bufera nemica potè scuoterli e spezzarle come tenere canne ma non ha potuto sradicarli perchè le canne non si sradicano 130
Volume settimo al vento piuttosto si rompono. E neppure si dissalderanno dal Grappa i nostri soldati, fatti roccia nella roccia! Il Grappa è diventato la nostra vetta d’Italia come lo fu il Santo, l’altare come lo fu ed è il Carso. Sono i nostri soldati lupacchiotti di Roma, leoncini di Venezia, aquilotti delle Alpi che vissuti alle libere brezze delle nostre montagne e delle nostre marine dicono alle aquile bicipite grifagne: «Non si passa». Sanno che con la catena alle gambe per loro sarebbe morire e non permettono che il giardino d’Italia divenga il più bel giardino zoologico dei Tedeschi! L’Italia non può, non deve finire come il grande Orso Russo trascinato colla museruola per le piazze di Berlino e di Vienna imbelle e zimbello delle tenere generazioni tedesche! L’Italia gettò la ciabatta e non avverrà che avvilita e pesta torni a ricalzarla nel suo cantuccio da Cenerentola e che debba colla legna dei suoi boschi accendere il focolare del padrone e preparargli il pranzo colle primizie meravigliose delle sue terre e infiorarne la tavola colle rose dei suoi giardini! Mai. Le sue frutta sono pel suo latte e pel suo sangue le sue rose per la sua fronte altera del sangue di Roma ... e i nostri tori per la nostra razza e non per le bramosie orgiastiche austro tedesche! Dunque dobbiamo resistere perchè il nemico calpestò la nostra patria, resistere perchè minaccia la nostra esistenza, resistere perchè la libertà del mondo è in pericolo, resistere per conquistare la Pace, quella che ha per simbolo il motto della Rivoluzione francese divenuto nell’agosto del 1919 il simbolo delle genti! Liberté, egalité, fraternité Libertà, uguaglianza, fraternità! Conquistarla ... la Pace almeno che il Papa invece di leggere in tutti i giornali e in tutte le lingue fatti politico militari del giorno non invochi in tutte e con tutte le sue preghiere la Divina Bontà e Provvidenza che illumini le dure menti e i durissimi cuori dei Tedeschi sui diritti dell’Umanità. Datato 9-III- 18 Massai d. Arturo 131
Ultime Voci Giuseppe e Benedetto Santi
Giuseppe Santi, nato a Firenzuola nel 1893, combatté come fante sul fronte del Carso, dove rimase gravemente ferito e quindi invalido. A conflitto partecipò come bersagliere anche Benedetto Santi, fratello di Giuseppe nato nel 1895 e disperso nella battaglia sul San Michele del 29 ottobre 1915. Quella che segue è una poesia scritta per lui dalla figlia Silvana Santi Montini. Ti rimase per sempre un volto di bambino, e gli occhi azzurri incontro di cielo e mare. Spiavo i tuoi progetti per rubare la forza della tua immaginazione. Volevo sapere come facevi a pensare lontano e a leggere così bene le nostre risposte. Nelle veglie davanti al fuoco, il calore scioglieva l'indolenzimento delle membra e acciocchiva la fatica del giorno. Tu restavi sveglio. Improvvisamente muovevi le labbra e chiudevi nel pugno le dita di una mano, nel voto delle preghiere pattuite col Dio della misericordia in cambio della vita. Ore di sangue, di paura, nell'odore di morte della trincea. Di immobilità assoluta in un letto di paglia del primo ospedale. Resistere per tre giorni e poi le cure vere. Millenovecentoquindici. La grande guerra. Un bosco di carpini vicino a Palmanova. Raccontavi l'improvvisa gragnola di bombe. Tonfi strepiti, una pazzia scoppiettante da finimondo penetrava la natura e la rompeva. Era lo schianto angosciante dei rami spez132
Volume settimo
zati e l'eco delle voci blasfeme della guerra. Raccolte nell'ultimo rantolo e congelate nel tetro silenzio delle tombe. Terra e fango disfatto e perduto. Anche tuo fratello disperso: un nulla di sangue giovinezza destino. Aveva e avevi vent'anni. Si chiuse nella tua carne il ferro delle ferite. Ti avrebbe avvertito per il resto della vita del cambiamento del tempo. Ma non bastarono quelle storie. Insieme ci aspettava di vivere un'altra esperienza di barbara violenza e sopraffazione. Costruire i giorni dopo il dolore e la morte, rende migliori e l'età sorprende somiglianze. Consumasti sulle dita bruciate dalla polvere, il rosario del tuo pegno, fino all'ultimo giorno. Anelli di una catena che mantiene il contatto col cielo, dove gli angeli accolgono i giusti. La cultura è fatta di due cose, appartenere alla massa e possedere la parola. Don Milani 133
Ultime Voci Il contributo del La Briglia alla I Guerra Mondiale
Quello che segue è l’elenco dei soldati della Briglia morti nella I Guerra Mondiale, elenco che è stato tratto dal materiale archivistico della Chiesa di S. Miniato a Popigliano, punto di riferimento per gli abitanti del territorio della Briglia. I nomi provengono dal registro dei morti dall’anno 1903-1925 – luglio dicembre, stilato dal sacerdote Primo Gori,parroco della Chiesa fino al 20 dicembre del 1922, e poi dal sacerdote Corrado Nesti, che subentrò a partire dal 16 maggio 1923. Pupigliano 1915 Fantugini Aurelio di Domenico e Ersilia Doni, morto all’età di 28 anni. Fu ucciso in guerra, lungo l’Isonzo, il 29 ottobre 1915. Pupigliano 10 novembre 1915. Prina Duilio del fu Francesco e d Aurelia Barni di anni 25, morì in guerra lungo l’Isonzo nel mese di Novembre 1915. Spirito Ganasci coniugato a Maria Mugnaiani, morì in guerra il 18 dicembre 1915. In fede sacerdote Primo Gori. Antonio Doni di Evangelista e di Caterina Vangi, di anni 25, morì in guerra nel Trentino combattendo contro il nemico compianto da questo popolo e da quanti lo conoscevano. 134
Volume settimo Fioravanti Tullio del fu Luigi di anni 40 morì in guerra colpito da una granata sull’Isonzo nel mese di agosto 1917. Piacentino Piacenti di Pietro e di Irduina Pinzaferri di anni 19, morì in guerra per una ferita. Umberto Bianchi di Giuseppe di anni 19 morì prigioniero. Palmido Pezzuoli del fu Giovanni e di Emilia (garzone del Doni) passò a miglio vita il dì 13 settembre 1918 morto di etissia acquistata in guerra. Antonio Milocco di Michele e della Maddalena Rosso, profugo, morì a Verona sotto le armi di polomonite nel mese di novembre 1918, fu seppellito a Verona. Gino Grossi di Antonio e di Luisa Dellungo di anni 20, morì sotto le armi durante la guerra contro l’Austria per una malattia come risulta dalla notizia pervenuta ai suoi familiari.
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Parco della Rimembranza del La Briglia. La fotografia reca la didascalia: Via dei “Ponticini” Parco della “Rimembranza” 15-18.
Volume settimo
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Ultime Voci Fernanda Nocchi Zipoli
Da sinistra a destra: Fernanda, Anna Fondi (assessore alle politiche sociali), Alessandro Lucarini (sindaco), Brunero pelagatti (capo di gabinetto).
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Volume settimo Marina Ciampi
Marina Ciampi è nata a Serravalle Pistoiese il 26 maggio 1929. La testimonianza è un’intervista in dieci domande che le ha fatto il nipote Andrea quando frequentava la prima media.
Caro Andrea, cercherò di rispondere alle tue domande con precisione, ma prima devo premettere che la guerra è una brutta bestia: divora tutto. Ti auguro di non doverla mai affrontare. Ma veniamo alle domande. Quando è cominciata la guerra ve l'aspettavate? Purtroppo sì, perché già dalla conquista dell' Impero, ossia dalla guerra dell'Abissinia avvenuta nel 1935, i nostri “capoccioni” furono presi dalla mania di grandezza. Volevano soggiogare le nazioni per far sì che Roma tornasse ad essere capitale del mondo, come lo era stata in un tempo remoto. Io cominciai ad andare a scuola nel 1935. La maestra per prima cosa ci insegnò questo giuramento: “Giuro davanti a Dio e all'Italia di essere fedele al Re e di eseguire gli ordini del Duce. E se necessario, con tutte le mie forze e con il mio sangue difendere la causa della rivoluzione fascista”. La maestra facendo il suo dovere con convinzione e diligenza, ci indottrinava sul fascismo come voleva il regime. Ci diceva che il Duce era un grande condottiero e, con la Germania nostra alleata, avremmo conquistato il mondo, perché eravamo di razza ariana, 139
Ultime Voci la razza più pura e più forte! Nei cinque anni che seguirono, sentii sempre di più parlare di fascismo e di guerra. Dicevano che sarebbe stata una guerra lampo, “questione di giorni!” A scuola cominciarono a farci fare le esercitazioni. Ci insegnavano come dovevamo comportarci in caso di allarme, come ci potevamo salvare, nel caso avessero usato i gas e noi ci trovassimo senza maschera. Ma soprattutto il nostro comportamento doveva essere ordinato e fiero, perché così dovevano comportarsi “le piccole italiane” e “i balilla” Ogni fascia d'età aveva la sua denominazione: erano “Figli della lupa” fino a otto anni, “Balilla e Piccole Italiane, da otto ai dodici; “Avanguardisti e Giovani Italiane” dai dodici ai diciotto. Gli Avanguardisti erano obbligati a fare il premilitare, tutti i sabati, per essere pronti a difendere la patria. Già prima della dichiarazione di guerra, venivano affissi i bandi di preavviso per le varie classi di giovani, perché si tenessero pronti per la partenza. E, benché parlassero di una “ guerra lampo”, faceva paura. In molte famiglie, compresa la mia, era ancora vivo il ricordo della Prima Guerra Mondiale e delle tante perdite di uomini e il dramma degli invalidi. Così, nonostante ci aspettassimo l'annuncio da un momento all'altro, la dichiarazione dell'entrata in guerra, 10 giugno 1940, ci gettò nell'angoscia. Raccontami, di quel periodo, una giornata “tipo” di te e della tua famiglia. Per me il periodo di guerra si divide in due parti. La prima parte va dall'annuncio della guerra alla caduta del fascismo e del duce. In questo primo tempo la “giornata tipo” consisteva nel lavorare di più e mangiare di meno, e aspettare con ansia la posta dei miei fratelli in guerra. A casa eravamo rimasti: mia madre, mia cognata, due bambini piccoli, io e un fratello, che come sai, era handicappato e che poi morì , a causa di un bombardamento. Io ero la sola in grado di leggere e scrivere, avevo il compito di scrivere ai miei fratelli e di andare per gli uffici. Pur avendo soltanto la licenza elementare, insegnavo a leggere e a scrivere alla mia cognata, poi andavo, tutti i giorni a fare la spesa ai padroni. Questa, tutto sommato, fu la parte meno disagiata. Ma nella seconda parte, cioè quando ci fu la capitolazione. (8 settembre 1943), la “giornata tipo” era un inferno. I tedeschi da alleati divennero nemici. Invasero l'Italia , deportarono i nostri soldati in 140
Volume settimo Germania, rei di tradimento. Intanto gli americani, divenuti alleati, per cacciare i tedeschi bombardavano le nostre città. I soldati italiani che riuscivano a fuggire nella confusione del “si salvi chi può”, rischiavano di essere riacciuffati e di pagarne le conseguenze, così vivevano da sbandati, dandosi “alla macchia”. In seguito costituirono dei gruppi nei quali venivano chiamati “ribelli o bandidos”. In questi gruppi cominciò a germogliare l'idea dell'organizzazione per respingere i tedeschi invasori ed è così che nacque la Resistenza Clandestina. Noi, come altre famiglie, cercavamo di aiutare e difendere questi uomini che vivevano nei boschi. A proposito avevamo stabilito una segnaletica per avvertire della presenza dei tedeschi, segnali che venivano tolti quando se ne andavano. Avevamo anche parole d'ordine. Per esempio l'espressione: “Maria l'hai fatta l'erba?”, voleva dire che c'era pericolo. Un altro nome indicava invece il cessato pericolo. Comunque, le nostre giornate erano in prevalenza dominate dalla paura. Paura dei tedeschi che facevano ogni genere di razzia. Per fortuna si era insediato in paese il comando tedesco e non subimmo stermini, come invece accadde in molti paesi vicini. La paura era ormai una tragica abitudine: ogni giorno era segnato da allarmi e bombardamenti, le formazioni aeree facevano tremare la terra, tanto erano sotto sforzo per il carico di bombe. Ci sentivamo sollevati e potevamo dire di averla scampata, soltanto quando gli aerei avevano sorpassato la nostra zona, pur sapendo che sarebbero andati a scaricare poco più in là. Serravalle è situata sulla sommità di una collina, nelle viscere della quale passano due gallerie: quella ferroviaria e quella dell'autostrada. Così, spesso i caccia mitraglieri si gettavano in picchiata per colpire i treni. Nella zona ci furono due grossi bombardamenti, in uno dei quali morì mio fratello. Ci dominava anche l'angoscia per gli altri miei fratelli prigionieri in Germania che ormai da lungo tempo non davano più notizie. Fu allora che mia cognata rinunciò ad imparare a scrivere, non aveva più senso. Lei e mia madre non facevano che piangere e pregare. Io ero giovane e forse un po' incosciente, ma la situazione mi imponeva un comportamento da adulta, anzi da vecchia. Tutte le volte che bombardavano a Pistoia, mia cognata, dovendo badare ai suoi figli piccoli, mi mandava là dove abitava la sua famiglia per vedere e sapere cosa era successo. Ogni volta mi si mostrava uno spettacolo terribile, vedevo cose tremende: morti, distruzioni e rovine, gente disperata. 141
Ultime Voci Sapessi, quante volte andai a piedi a Pistoia! Anche per recarmi alla Croce Rossa o al Distretto militare in cerca di notizie dei miei fratelli, ma purtroppo tornavo sempre più sconsolata. Raccontami l'episodio che ti è rimasto più impresso. Fra i tanti episodi, dopo quello di mio fratello, questo che sto per raccontarti credo sia il più tremendo. Mi ero recata come tante altre volte a Pistoia. Giunta in prossimità delle mura della città trovai tutte le vie d'accesso sbarrate dai tedeschi e dai repubblichini. I repubblichini erano italiani che ancora aderivano agli ideali nazi-fascisti, e avevano costituito una repubblica chiamata “Repubblica di Salò”. I repubblichini consideravano traditori quelli che la pensavano diversamente da loro e di conseguenza erano in combutta con i tedeschi, anzi erano i più pericolosi. Conoscendo le zone e le idee delle persone facevano la spia e guidavano i tedeschi nei rastrellamenti e nelle rappresaglie. Fecero deportare in Germania tanti civili che purtroppo ci lasciarono quasi tutti la vita. Infatti i prigionieri politici venivano trattati assai più duramente dei prigionieri militari. Tornando a parlare di quella mattina in cui trovai le vie sbarrate, seppi che ciò avveniva perché di lì a poco ci sarebbe stata la fucilazione di cinque ragazzi di vent'anni. Li fucilavano perché, come tanti altri, erano renitenti alla chiamata militare, quasi sempre preferivano e sceglievano di nascondersi e di unirsi ai partigiani, quindi erano considerati traditori ai quali spettava la morte per fucilazione, se catturati. Quel giorno tornai a casa senza aver combinato nulla di ciò che dovevo, inoltre mi fecero fare un'altra strada, dovetti passare da Pontelungo. Fu qui, poco prima del ponte che sentii delle grida terribili. Non le potrò mai dimenticare. Erano della madre di uno di quei giovani. In quelle grida c'era tutta l'impotenza disperata e il dolore di una madre il cui figlio giovane e sano veniva ucciso in quella indimenticabile mattina. Come mangiavate e che cosa? Tutto era a tessera: alimenti, abiti, scarpe, sapone ecc. La carne era pochissima. La mangiavamo una volta alla settimana, il pane un etto e mezzo per i bambini due e mezzo per gli adulti.( attualmente può sembrare tanto perché abbiamo di tutto, ma a quei giorni oltre il pane non c'era niente). 142
Volume settimo Noi eravamo contadini a mezzadria, stavamo un po' meglio perché almeno durante l'estate avevamo la frutta dei nostri campi. Per il resto il terreno rendeva pochissimo, gli uomini che avrebbero dovuto coltivarlo erano alla guerra. Il grano non ci bastava nemmeno prima della guerra, dovevamo ricomprare la parte dal padrone, poi essendo il podere situato in collina, il terreno era comunque poco adatto per coltivare il grano. Secondo le leggi vigenti, quel poco raccolto che si faceva dovevamo denunciarlo e se superava una certa quantità avevamo l'obbligo della consegna all'ammasso, ricevendone un pagamento. Quello che lasciavano doveva durare un determinato tempo, per il resto ci davano la tessera. A questo proposito c'erano anche i controlli, venivano nelle abitazioni per vedere se avevamo roba nascosta, se la trovavano la requisivano e facevano la multa. Dunque un po' di fame l'abbiamo patita anche noi. Pensa, quando mangiavamo si facevano piccole porzioni, poi, si faceva un'incisione attraverso la coppia dove era smarimessa perché nessuno mangiasse di nascosto. La mamma quando faceva il pane, insieme alla farina di grano ci metteva quella di granturco oppure le patate perché fosse un po' di più. Ma anche il pane della tessera era un misto di tanti ingredienti ed era nero e amarissimo. C'era una canzoncina, che voleva essere una preghiera ironica, le parole erano queste: Padre nostro quotidiano dacci il nostro pan di grano e non quello di Mussolini ch'è di fave e di lupini. Ora voglio raccontarti cosa avevamo escogitato per nascondere il grano. Lo mettevamo in una damigiana, che seppellivamo in una grossa buca nel terreno. Però poi c'era d'andare al mulino per farlo macinare e qui spesso c'era il controllo del libretto, che serviva come bolla d'accompagnamento, e se il conto non tornava erano guai, perché ogni volta il mugnaio aveva l'obbligo di segnare il peso del grano che macinava. C'era anche il mercato nero, dove si poteva trovare un po' di tutto, ma purtroppo non tutti se lo potevano permettere perché la merce era carissima. Oltre le persone della tua famiglia, non vedevi o avevi contatto con altri? 143
Ultime Voci Non avevamo mai visto tante persone come in quel periodo. Abitando in campagna, la nostra casa era piena di sfollati. Avevamo sistemato una famiglia in ogni stanza e anche nel granaio, nel fienile e in cantina. Come già detto, il paese era in pericolo a causa delle gallerie, così molte famiglie si spostavano nelle campagne vicine. Durante il passaggio del fronte avevamo dato asilo anche a una famiglia di Cireglio. Poi c'erano i giovani che avevano lasciato l'esercito, gli sbandati, che quando si presentavano in cerca di aiuto facevamo del nostro meglio anche con loro. Pur avendo poco cibo, la mamma diceva «è come se aiutassi i miei figli» e qualcosa trovava sempre. Poi davamo loro qualche indicazione perché potessero unirsi ai partigiani. Una sera sul tardi, bussarono alla porta. Fummo spaventati perché di notte c'era il coprifuoco. Mi feci coraggio e andai proprio io ad aprire, non ti dico la sorpresa e lo spavento quando vidi due neri. Era la prima volta che vedevo gente di colore. Ci fecero capire di doversi spostare di notte perché per il colore della pelle di giorno sarebbero stati troppo riconoscibili. Noi dopo averli rifocillati si accompagnarono nel fienile dove passarono una parte della notte. La mattina all'alba erano già partiti e purtroppo qualche giorno dopo si sentì dire che avevano fucilato due negri. Pensammo che forse erano proprio quelli che avevamo accolto e ospitato quella notte e, che anche per noi, se fossimo stati scoperti, ci sarebbe stata la fucilazione. Anche i tedeschi ci facevano spesso visita: una volta ci presero i vitelli e un'altra il vino, altre volte venivano per i rastrellamenti. Vivevamo sempre nel pericolo e con la paura che scoprissero gli uomini che erano rifugiati nei boschi vicino e se la rifacessero con la popolazione. In casa tua come si parlava di Hitler e di Mussolini? A questa domanda mi è difficile rispondere esaurientemente. In casa erano pochi i discorsi sull'argomento, ma il lavaggio del cervello me lo fecero a scuola. Purtroppo all'epoca fra la gente c'era poca istruzione e l'ignoranza ti fa seguire la corrente senza farti tante domande. In casa mia, eravamo nati tutti o quasi, quando Mussolini e il fascismo c'erano già, poi vivevamo in campagna, eravamo tanti fratelli e orfani di padre. I più grandi cercavano di aiutare a sbarcare il lunario senza curarsi di politica. Non avevamo la luce e di conseguenza niente radio. I giornali?! E chi li leggeva! Il fascismo lo si subiva passivamente. Le burattinate di Mussolini si tolleravano, come si sopportava la miseria. Il burattinaio tirava i fili e noi ballavamo come lui voleva. In 144
Volume settimo casa, da parte dei familiari, sentivo mandare accidenti a Mussolini, così, come un'abitudine, un modo di dire, come ora si dice: «Piove, governo ladro». Solo più tardi prendemmo coscienza di cosa è capace la “dittatura”. Ora quando vedo un filmato che mostra il duce al balcone, mi domando con stupore come sia stata possibile l'acclamazione di tanta moltitudine. Forse, fu per ignoranza come quella della mia famiglia, oppure fu pazzia collettiva? Per me non è facile rispondere, e mi dispiace non poter spiegarmi bene con te. Ti prego, tu che puoi, studia, io ho studiato pochissimo e non trovo le parole. Le risposte restano sospese e incerte nella mente, non so raggiungerle. Di Hitler, sapevamo che era nostro alleato e che dopo divenne nostro nemico, che per i tedeschi era una figura carismatica, che trascinava le masse come avveniva in Italia con Mussolini. Conoscemmo le nefandezze dei tedeschi che erano in casa nostra, ma quello che accadeva in Germania era tabù. Le notizie non trapelavano, l'informazione era quella che faceva comodo al regime e pochissime famiglie possedevano una radio. Alcuni di nascosto la sintonizzavano su Radio Londra che trasmetteva in italiano, però era severamente proibito e a rischio della vita. Le notizie di ciò che combinava Hitler e i suoi stretti complici erano segreti, forse non erano risapute neppure da tutti i “capacci” tedeschi. Noi delle atrocità che accadevano in Germania lo apprendemmo dopo, quando cominciarono a tornare i superstiti dai lager. Non avremmo mai potuto immaginare gli stermini di massa, le torture, la disumanità di uomini contro altri uomini, i forni crematori... pur essendo successe cose atroci anche in Italia, lo stesso non potevamo immaginare. Per chiarirti un po' quel muro di silenzio, ti racconto come si svolgeva la corrispondenza fra le famiglie e i soldati. I nostri militari appena richiamati venivano assegnati a varie destinazioni che per i famigliari erano segrete. Per scrivere ai nostri cari si doveva mettere il nome, il cognome e il numero del codice militare. A noi doveva bastare sapere che erano vivi. Le lettere venivano aperte dalla censura e se trovavano scritto qualcosa di sospetto o che a loro non andava bene lo cancellavano, ricoprendo frasi e sigle con inchiostro di china. Poi richiudevano la lettera con una striscia di scotch con sopra scritto “verificato per censura”, questo fino a che non vennero fatti prigionieri, dopo, la corrispondenza, quella pochissima che intercorse, avveniva tramite biglietti postali doppi, ossia con la parte dell'andata e quella per il ritorno con la risposta compreso l'indirizzo. Tutto era prestampato in codice. Staccavamo la nostra parte dove avevamo cinque o sei righi per la risposta. Erano pochi, ma almeno sapevamo che sia loro che noi eravamo 145
Ultime Voci vivi. Ben presto però anche i biglietti cessarono e per lungo tempo ci fu solo silenzio. Oltre tuo fratello chi è morto in guerra delle persone a te care? Se si pensa alle pesanti perdite che ci furono in Italia e anche in Toscana, Serravalle fu un paese fortunato, nonostante i tedeschi e il passaggio del fronte. I morti civili furono tre: mio fratello Luigi e un anziano che morirono lo stesso giorno sebbene in due escursioni aeree diverse, poi una donna uccisa da una cannonata dei tedeschi in ritirata. I tedeschi si erano già ritirati dal paese ma dalla montagna pistoiese rispondevano ai cannoni americani. Pensa Andrea, quel cannoneggiamento tra le parti opposte durò un mese e forse più. Poi ci furono i morti militari. Fortunatamente i miei fratelli prigionieri in Germania tornarono, se pure assai tardi. Dopo tutto quel tempo avevamo perso la speranza di poterli rivedere. Mio fratello Mario tornò quando già in tanti erano rientrati, e Modesto, l'altro fratello, ancora alcuni mesi dopo. Tornavano alla spicciolata, con mille difficoltà e mezzi di fortuna, distrutti dalle sofferenze. Le strade, le ferrovie erano distrutte dai bombardamenti e a quelle rimaste ci avevano pensato i tedeschi in ritirata, facendo saltare ponti e gallerie e ricoprendo di mine spazi strategici. A Serravalle fummo fortunati, grazie ai partigiani che di notte riuscirono a tagliare gran parte dei fili collegati alle mine, così quando i nemici dettero fuoco alle micce, le gallerie furono solo in parte danneggiate e il paese rimase in piedi. Senza l'operazione dei partigiani ci sarebbero stati molti morti, infatti i tedeschi la mattina diedero l'ordine di sgombrare il paese, ma fecero esplodere le mine la sera quando tutti erano rientrati. Quand'è che hai avuto paura di morire? Molto spesso mi ero trovata in pericolo di vita, ma mai come in quel giorno ne fui cosciente. Ero andata con un vicino a macinare il grano. Il mulino si trovava a circa duecento metri dall'imbocco della galleria ferroviaria, proprio dove mio fratello era morto una settimana prima. Mentre il mugnaio macinava suonò l'allarme, diventato ormai una tragica abitudine, e poco dopo, ecco il rombo degli aerei che si avvicinavano. Quando i sacchetti della farina furono pronti ci rimettemmo in cammino verso casa. La terra tremava sempre di più per lo sforzo dei motori della formazione aerea. Arrivati nel punto dove mio fratello aveva trovato la morte, sentimmo sopra le nostre teste il putiferio della contraerea che sparava ininterrottamente. Ci fermammo nei crateri del bombardamento della 146
Volume settimo settimana prima, dove qua e là erano rimasti anche ordigni inesplosi. Sarebbe bastata una piccola percussione per l'esplosione, sentivamo il pericolo sopra e intorno, ma non c'era via di scampo. Se gli aerei avessero sganciato saremmo morti. Mi appoggiai a un ciglio del terreno facendomi riparo col sacco della farina. Rimasi lì impietrita un'eternità, era lo stesso punto dove, forse, aleggiava ancora l'anima di mio fratello. Poi mentre in cielo continuava ad esplodere il fuoco della contraerea, i bombardieri andarono a portare la morte più in là. Cos'è successo in casa tua quando è giunta la notizia della liberazione? Quando giunse la notizia, da noi il fronte era passato da alcuni mesi. Ma ricordo bene quanta festa facemmo agli americani giunti a liberarci, poi però per quasi altri due lunghi mesi, continuammo a sentire le cannonate dei belligeranti e ad essere in mezzo a due fuochi. Per noi il pericolo finì con l'avanzata degli alleati, ma l'Italia rimase divisa in due e non sapevamo cosa succedeva dall'altra parte. Finché un giorno sentimmo il suono festoso delle campane e la gente era fuori a cantare la gioia della fine della guerra. Fu così che apprendemmo che la guerra era finita. In casa eravamo disorientati e quasi non ci credevamo, perché anche nel luglio del 1943 avevamo fatto festa perché dicevano che la guerra era finita e invece il peggio doveva ancora arrivare. Era anche il momento di fare i bilanci della situazione. Intanto ci si chiedeva cosa avremmo fatto se i nostri uomini non fossero tornati. La mamma, da tempo ripeteva: «Mi è morto il figlio che avevo a casa e mi pareva di averlo in grembo alla Madonna! Come posso sperare nel ritorno degli altri due al fronte,che da quasi due anni non scrivono?». Dal giorno della fine della guerra, vivemmo per lungo tempo, come in un limbo, sospesi fra la paura e la speranza. Come avete ricominciato la vita, dopo la guerra? Dopo la cosiddetta “guerra lampo” della durata di cinque anni, la ripresa fu lenta, ci volle molto tempo per tornare a una vita normalmente decente. Rimase la tessera e di conseguenza chi non aveva i soldi per la “borsa nera”, pativa ancora la fame. Le case erano distrutte o danneggiate, molte famiglie furono avvertite che i loro cari non sarebbero più tornati. Vivevamo in ansia e angosciati. Quando qualcuno cominciò a tornare, fra i superstiti c'erano anche i mutilati, e poi, tutti erano feriti sia nel 147
Ultime Voci fisico che nell'animo. Fummo presidiati ancora a lungo dagli americani, a Serravalle, oltre a loro, giunsero molti soldati di leva, provenienti da tutta Italia. Questi lavoravano per il ripristino delle gallerie e dei ponti, sotto le direttive degli alleati. Le famiglie aiutavano quei giovani militari, lavando loro la biancheria e qualche volta invitandoli a pranzo. Per riconoscenza loro ci ricambiavano con cibo di scatoletta. Ricordo che insieme ai panni da lavare ci portavano anche il sapone, io per risparmiarne un po' per noi, bollivo la cenere nel paiolo e quando quella si depositava sul fondo, usavo quell'acqua fortemente detergente per lavare la loro roba, salvando così una parte del sapone per la famiglia, perché quello che ci davano con la tessera non bastava. Devi sapere, però, che la gente, i civili continuavano a morire anche a guerra finita, sia sul lavoro senza nessuna protezione e a causa degli ordigni bellici inesplosi. Ce n'erano tanti e dappertutto. Le vittime furono principalmente bambini che non conoscendoli e per la curiosità e ingenuità ci giocavano e succedevano le tragedie. Morì così anche una mia cuginetta che abitava a Firenze. Il ritorno dei primi reduci della zona, ravvivò in casa, la speranza di poter riabbracciare anche i miei fratelli. Il ritorno dei prigionieri si protrasse per più d'un anno, tornavano piano piano, e come si dice, alla spicciolata. I miei fratelli tornarono tra gli ultimi. Prima tornò Mario che finalmente poté vedere per la prima volta suo figlio: aveva due anni e mezzo. Alcuni mesi dopo tornò anche Modesto, e solo allora seppe della morte del fratello nel bombardamento. A Mario invece avevamo dato la brutta notizia in uno di quei biglietti prestampati. Col ritorno a casa degli uomini, cominciò la ripresa che negli anni sessanta si trasformò in progresso. A te che puoi Andrea, dico di studiare, perché io avendo studiato pochissimo non riesco a dare le risposte alle tante domande che mi faccio. Quelle domande formano nella mia mente un mulinello che non so districare.
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