Ultime Voci volume 1

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Ultime voci Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti

Volume primo Prato 2008


Redazione ed impaginazione a cura di Alessandro Cintelli. Luana Cecchi con la collaborazione di Sergio Mari e di Lucia Pasquetti ha realizzato le interviste a Mario Ballerini, Rino Capaccioli, Torello Lippini, Sestilio Montini, Italo Nardi, Parisio Pini, Soriano Pancani, Renato Polidori, Siro Vignolini. Silvana Santi Montini ha realizzato le interviste a Natalino Dieci, Mauro Montini e Nello Sguanci. Sergio Paolieri ha collaborato a realizzare le interviste a Ivo Cardini, Marcello Faggi, Lorenzo Ferrini, Elio Rinaldo, Leo Santini. L’intervista a Jacopo Gavazzi è stata realizzata da Michele di Sabato. La foto di copertina dal titolo In attesa del trasferimento nei campi di prigionia tedeschi fa parte della raccolta della Federazione di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti.


Presentazione La presente raccolta di testimonianze dei combattenti della Provincia di Prato costituisce il primo volume di una serie destinata a rappresentare in forma diretta e veritiera le diverse, drammatiche esperienze di tutti coloro che soffrirono la guerra non solo per la sua intrinseca tragicità, ma anche per situazioni imputabili all’incapicità dei comandi, all’impreparazione generale dell’Esercito Italiano, di cui i governanti fascisti di allora dovevano pur essere consapevoli. Le testimonianze qui riportate sono tanto più preziose ai fini della conservazione della memoria, sia perché in un epoca di revisionismi essa rischia di essere sminuita, distorta, se non addirittura cancellata, sia perché queste sono ormai le “ultime voci” di coloro che hanno vissuto quell’orrore e che sono destinati purtroppo a scomparire, se non altro per motivi anagrafici. Questa presentazione vuol essere un invito ad ascoltare con attenzione queste voci, per non interrompere il filo che ci lega al passato e che è indispensabile per costruire qualsiasi futuro si abbia in mente, nella consapevolezza che chi non conosce il passato è condannato inevitabilmente a riscriverlo, ciò che non deve avvenire se vogliamo costruire speranze di pace per le prossime generazioni. Sergio Paolieri Presidente della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti



Nota del curatore Questo libretto è il primo di una serie dedicata alla raccolta delle memorie di ex-combattenti del secondo conflitto mondiale. L’unica cosa che accomuna questi racconti è il fatto che i protagonisti, narratori in prima persona delle proprie storie individuali, sono od erano al momento che ci hanno lasciato la loro testimonianza residenti nella Provincia di Prato. Le piccole, grandi storie di persone raccolte in questo libro (come quelle che saranno presentate nei volumi successivi) nascono da interviste raccolte a cura della sezione pratese dell’Associazione Nazionale Combattenti o da testimonianze scritte e talvolta sono anche arricchite da fotografie o documenti che gli stessi reduci avevano gelosamente conservato. Queste storie, che non a caso vengono presentate in rigoroso ordine alfabetico, non hanno tra loro un denominature comune tranne la partecipazione di coloro le raccontano alla seconda guerra mondiale.

Non

abbiamo voluto intervenire in maniera pesante sulle storie che vengono raccontate in prima

persona dai protagonisti, se non per una necessaria uniformità di impostazione, che però non va mai ad ostacolare la spontaneità del racconto.

Per

lo stesso motivo anche l’uso delle note è stato

estremamente limitato a quelle situazioni in cui c’era l’evidente necessità di spiegare correttamente il procedere della storia personale dei testimoni.

La

scelta della disorganicità di questa raccolta di racconti-testimonianze non è casuale, ma è

stata voluta quasi come rappresentazione pratica della singolarità di ogni personale esperienza nei tragici momenti della guerra fascista prima e della dissoluzione delle forze armate italiane, dopo l’armistizio dell’8 settembre

1943.

Quello che emerge da questa, ripetiamo, volutamente disomogenea raccolta, è il tragico destino di una generazione che fu mandata ad una guerra voluta solo da un regime dittatoriale e presuntoso, che non aveva previsto quelle che furono effettivamente le dimensioni spaventose e del conflitto

e con una assoluta impreparazione ed una disorganizzazione generalizzata e successivamente, dopo l’armistizio del settembe

1943, abbandonata sè stessa dagli alti comandi militari.

Oltre a queste considerazioni generali emerge da ogni singola storia la voglia di vivere, nonostante tutto, la propria gioventù, che è normale a venti anni allora come oggi e che nè la guerra, nè la prigionia, nè le sofferenze avevano minimamente attenuato. Un altro, non meno importante, filo conduttore dei racconti è infine la condanna dell’esperienza bellica in assoluto, quasi ad illustrazione pratica dell’ 11° articolo della Costiituzione della Repubblica che recita “L’italia ripudia la guerra...”, articolo non a caso voluto dai Costituenti, nel documento fondamentale dell’Italia repubblicana, come un taglio netto con il passato e come segno distintivo del nuovo stato italiano, nato dalle macerie della guerra, in cui il regime fascista aveva trascinato il paese, e dal riscatto morale della Nazione avvenuto con la Resistenza.



Ringraziamenti

Il primo fondamentale ringraziamento deve senza dubbio andare alle “Ultime voci” cioè ai protagonisti - testimoni che ci hanno, in vari modi ed in varie occasioni, raccontato le loro memorie di guerra ed in tal modo reso possibile questo libro. Un altro doveroso grazie va a tutti coloro che hanno raccolto le storie degli ex combattenti, collaborando attivamente alla stesura di questo testo e degli altri della stessa serie che che verranno successivamente editi. In modo particolare per questa pubblicazione è indispensabile citare i contributi in tal senso offerti da Luana Cecchi, da Silvana Santi Montini e da Sergio Mari, che con attenzione e cura hanno raccolto numerose testimonianze e documenti che formano una parte consistente di questo libro. Un altro importante contributo per questo volume è dato dall’intervista realizzata ad Jacopo Gavazzi da Michele Di Sabato, che quest’ultimo ha gentilmente messa a disposizione della sezione di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti, assieme ad altre da lui realizzate e che verranno utilizzate per i successivi volumi. A tale proposito è doveroso sottolineare come questo testo indichi la data esatta di realizzazione dell’intervista, il 19 ottobre 1982, a dimostrazione dell’ormai ultraventennale interesse di Michele di Sabato per le problematiche legate agli eventi bellici e alla salvaguardia della loro memoria.



Indice delle testimonianze

Mario Ballerini Fortunato Barone Francesco Boccardi Rino Capaccioli Ivo Cardini Salvatore Daniele Natalino Dieci Marcello Faggi Renzo Fattori Lorenzo Ferrini Jacopo Gavazzi Idamo Goti Torello Lippini Mauro Montini Sestilio Montini Severino Morganti Italo Nardi Soriano Pancani Parisio Pini Renato Polidori Elio Rinaldo Leo Santini Nello Sguanci Siro Vignolini

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MARIO BALLERINI, nato a Firenzuola (FI), il 27 dicembre 1919 Sono nato e cresciuto in una famiglia contadina. La cartolina di richiamo alle armi mi è arrivata il 17 maggio 1941. Dopo esermi presentato al Distretto a Firenze, sono stato assegnato all’arma della Regia Aviazione, con destinazione Castiglione del Lago, sul Trasimeno, vicino a Perugia. Successivamente fui trasferito all’Aeroporto Campo della Promessa di Lonato Pozzolo in provincia di Varese vicino a Malpensa. Nella Regia Aeronautica, io facevo parte degli addetti alla cucina e alla guardia. Dopo il giuramento fui trasferito all’Aeroporto di San Damiano a Piacenza. Quando in questo areoporto arrivarono i Tedeschi, dei quali eravamo ancora alleati, fummo trasferiti all’aeroporto di Cascina Vaga in provincia di Pavia. In seguito ci trasferirono all’aeroporto di Novi Ligure, dove eravamo solo dodici militari e tre graduati. Era un aeroporto di fortuna, non c’erano aerei, facevamo solo servizio di ronda e piantone (la ronda consisteva nel controllare l’aeroporto). Dopo un anno a Novi Ligure, era il gennaio del 1943, fui trasferito in Francia, all’aeroporto di Saint Mondiez a Tolone per controllarlo. Infatti da poco tempo (il 27 novembre 1942) la flotta navale francese si era autoaffondata a Tolone. L’8 settembre 1943 i tedeschi occuparono l’aeroporto e ci fecero prigionieri. I guardiacosta erano fascisti del battaglione M, ed essi come tutti coloro che accettarono di collaborare con i Tedeschi non furono presi prigionieri. Noi che non accettammo la collaborazione fummo fatti salire su un treno merci, nei vagoni del bestiame. Eravamo circa trecento per vagone, nel posto di otto cavalli. Senza mangiare, senza bere, così pigiati che il trasporto fu un calvario che durò otto giorni. Il 17 settembre arrivammo a Lione, da dove proseguimmo verso nord, il treno si fermò alla stazione di Saint Andrè, nella Bassa Lorena. Dalla stazione per raggiungere il campo di concentramento di Saint Andrè si camminò per venti chilometri. Il campo era formato da diverse baracche, eravamo circa ottomila prigionieri, fra cui seimila Italiani oltre a Francesi, Polacchi, Slavi ecc… Il primo giorno per pranzo, (dopo venti giorni di digiuno) il rancio, che ci fu messo nella borraccia era a base di miglio. Un comandante della Repubblica di Salò cercò di convincerci a collaborare con i tedeschi, ci spiegò che Mussolini aveva riformato l’Esercito Fascista al fianco dei Tedeschi per continuare la guerra. Io, che avevo il numero 31501, rifiutai. Solo una ventina di prigionieri accettarono di collaborare. In seguito mentre noi si pativa la fame, loro venivano a farci vedere il ricco pasto che veniva servito a tutti coloro che avevano accettato di collaborare. Noi, nonostante la fame, eravamo fermi nel proposito di non collaborare. Per forza noi prigionieri dovevamo lavorare secondo le necessità, chi rifiutava veniva ucciso. Il nostro lavoro consisteva anche rilevare i morti sotto le macerie dopo i bombardamenti che erano frequenti. Il cibo che ci davano era scarso, avevamo sempre fame, per fortuna quando si scavava fra le macerie qualcosa da mangiare si trovava sempre. Con il cibo che ci servivano al campo non saremmo sopravvissuti. Da quel campo un giorno io fuggii. Avevo fatto amicizia con una famiglia russa, la figlia mi avvertì che tutti i prigionieri sarebbero stati trasferiti in un altro campo di concentramento all’interno della Germania. Mi ritrovai in un bosco, attraversai un lago, insieme ad un altro prigioniero, lui era di Pontassieve (Firenze). Dopo tre giorni passati sotto i bombardamenti e e con il pericolo delle raffiche di mitragliatrici, (si trattava di un combattimento fra Tedeschi e Americani), mi ritrovai con il mio compagno di fuga che era anche 11


malato e pur avendo attacchi di malaria con la febbre alta riusciva a trovare la forza per andare avanti pur di essere libero. Il 22 marzo 1945, verso le 16, incontrammo gli americani, a Mosbart che si trovava sulla linea Maginot, eravamo stremati dalla fame e dalla stanchezza. Gli americani ci curarono e ci diedero da mangiare e questo fu la nostra salvezza. Gli Americani avevano requisito un istituto, ed eravamo in tanti: Italiani, Russi, Polacchi ecc… tutti soldati liberati dalla prigionia. Ma il nostro calvario non era finito. Gli Americani scoprirono che fra i prigionieri c’erano infiltrati anche repubblichini fascisti e nazisti e SS fra i quali io personalmente riconobbi un comandante delle SS cattivo e crudele che avevo conosciuto nel campo di concentramento. Allora, per fare una selezione, ci portarono in un campo di concentramento americano dove restammo per cinque giorni di nuovo senza mangiare, distesi in terra e separati l’uno dall’altro. Eseguita la selezione noi, riconosciuti non collaboratori ma solo prigionieri dei Tedeschi, in seguito fummo trasferiti al campo di Bores vicino a Parigi. e lì facevo la guardia a i prigionieri tedeschi. Ogni Italiano aveva il compito di fare la guardia a sei Tedeschi che lavoravano, la sera i prigionieri tedeschi dovevano essere riportati al campo di concentramento. Poi dagli Americani con i quali ero andato volontario a collaborare, fui portato in Normandia. Dopo la bomba atomica su Hiroshima in Giappone, mi riportarono al Comando dei Volontari a Forte Melon in Francia. In seguito fui congedato e tornai a Firenzuola il 5 settembre del 1945, dove potetti finalmente riabbracciare i miei familiari. Nel 1964 mi trasferii a Prato dove ho lavorato nell’edilizia fino alla pensione.

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FORTUNATO BARONE, nato a Gezzano (PZ), il 26 gennaio 1913. Sono della classe 1913, ho fatto il servizio di leva in una caserma che era in piazza San Materassi a Milano. Successivamente feci un corso come sottufficiale, ma avevo deciso di non rimanere in carriera perché già lavoravo nelle ferrovie come montatore. Però appena mi ero congedato iniziò la Guerra d’Africa e contemporaneamente fui richiamato alle armi e assegnato al 10° Fanteria a Bari. Poi fui trasferito a Sabaudia vicino a Roma dove tutto il battaglione si parcheggiò pronto per la partenza per l’Africa Orientale. Non ricordo il reggimento, la divisione era la “Littoria” al comando del Generale Bergonzoli detto “Barba elettrica”. Ci imbarcarono a Gaeta alla fine di febbraio del 1937, sennonchè invece che in Africa ci sbarcano a Cadice, in Spagna. In Spagna la divisione “Littoria” fu impiegata sul fronte a Guadalajara, che successivamente fu chiamata la Caporetto del fascismo. Al comando sempre del Generale Bergonzoli. Sul fronte a Guadalajara dall’altra parte c’erano anche molti italiani antifascisti La notte dalla parte di là parlavano in Italiano e dicevano “Italiani passate dalla nostra parte, perché il vostro governo vi ha ingannato e invece di mandarvi in Africa vi ha mandato qui a morire”. Dopo ho saputo che c’erano Pacciardi, Nenni, Longo e Saragat, mi pare, questi erano i fuorusciti. Io ho avuto piacere di fare parte del corpo di spedizione in aiuto di Franco, perché sono un cattolico, sono un credente. Io presi una decorazione a Guadalajara in Spagna. Siccome non sfondammo, ripiegammo la sera del 18 marzo 1937. La divisione si spostò sul fronte di Bilbao, sempre al comando del Generale Bergonzoli. Colà mi ammalai, presi la febbre a 40° e fui ricoverato in ospedale a Burgos, poi fui dimesso. Arrivò dall’Italia un certo Generale Carlo Rivolta a organizzare scuole militari per Franco ed io andai a finire come istruttore all’Accademia Ufficiali Spagnola e Portoghese a Medina del Campo. Lì sono rimasto fino a che non tornai in Italia nel 1939. Non ho mai visto stragi dalla parte di Franco. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sono stato richiamato e venni assegnato al 14° Fanteria “Pinerolo” a piedi. All’inizio ho fatto servizio ad Ortona a Mare. Poi dopo di lì la Divisione è partita per il fronte della Guerra dei Balcani e ho preso parte alla guerra del fango. Come gli altri del 14° Fanteria, ho visto morire il mio comandante di battaglione, ed ho visto morire il Tenente Ferri, che era il figlio del Maresciallo maniscalco del Reggimento. Su quel fronte si rimase inchiodati setantuno giorni, maledetti. I pidocchi li trovavamo in mezzo alle gambe, sopra le braccia a pugni, è stata una cosa tremenda. La campagna di Grecia fu una guerra tremenda che è stata uno sbaglio, perché l’avevano presa troppo alla leggera quella guerra lì. Il comandante di battaglione mi mandò come addetto ai rifornimenti munizioni e viveri che dovevo portare al fronte dopo averli fatti caricare sui muli. In una di queste occasioni davanti a me si presentò un ufficiale delle Camicie Nere il quale diceva rivolto a me ed ai conducenti dei muli: - Ragazzi, abbandonate la roba, perché i Tedeschi sono alle calcagna. Allora io presi la pistola e l’ho puntata sulla fronte di quest’ufficiale dicendo: - Lei la smetta, perché lei è di un altro reparto. Sicchè il soldato, che io non conoscevo, un conducente, s’è messo ha scappare, io presi la pistola mi misi a 13


sparare e fermai tutti questi ragazzi. Feci caricare munizioni e viveri sui muli e nessuno si muoveva. Nello sparare un proiettile colpì l’elmetto di un conducente e mi ricordo la sera, pioveva nel mezzo al fango: - Quel garruso del Sergente Maggiore Barone a momenti mi ammazzava. - diceva. La mattina dopo fui chiamato al comando di battaglione e mi fu letto un rapporto che si concludeva: - Visto come si sono svolti i fatti propongo il Sergente Maggiore Barone Fortunato per la denuncia al Tribunale Militare di Guerra e la fucilazione sul campo - sicchè io dovetti raccontarli la mia versione dei fatti dicendo che si erano svolti così: - Un ufficiale delle Camicie Nere voleva farci abbandonare la roba e io gli ho puntato la pistola e fatto caricare munizione e viveri ai più di cento conducenti, che io non conoscevo. Per cui al comando che era sotto una galleria l’ufficiale mi disse: - Mi fido di te. - e mi salutò e a me mi venne subito una crisi di pianto, e mi commuvo ancora adesso, per l’emozione e poi non ho saputo più dire nulla. Probabilmente quest’ufficiale delle Camicie Nere era uno che voleva prendere le cose che noi stavamo trasportando. Poi la guerra con la Grecia è andata a finire e io fui assegnato al Comando Tappa di Roma e rimasi lì fino all’agosto 1943. Il 29 agosto 1943 lasciai il Comando Tappa di Roma, presi il treno per essere trasferito nei Balcani ma arrivato a Belgrado la tradotta fu bloccata il 3 settembre e mi portarono dentro i vagoni bestiame per andare nei lager tedeschi, dove ho sofferto le pene di Cristo. Nel carro bestiame il viaggio è durato 17 giorni, eravamo pigiati come le bestie. Io capitai in un campo OSFOR verso Essen. In questo campo noi non abbiamo collaborato, siamo rimasti a fare i prigionieri, naturalmente eravamo trattati come le bestie... Siamo stati liberati nel maggio del 1945 dopo tante sofferenze.

Fortunato Barone con i suoi commilitoni durante la Guerra di Spagna. 14


Fortunato Barone con altri militari italiani istruttori all’Accademia Ufficiali Spagnola e Portoghese. 15


FRANCESCO BOCCARDI, nato nel 1921. Sono partito di leva nel 1941, mi hanno inviato all’aeroporto di Ca’ di Mare. Però precedentemente avevamo fatto l’addestramento a Vicenza. Sono stato al Distretto di Siena e sono stato mandato ad Orvieto per la vestizione, e da lì all’aeroporto di Vicenza per fare il reclutamento. Dopo ci hanno smistato a secondo della categoria d’incarico che ognuno di noi aveva scelto. A me proposero motorista, autista o aviere. Io preferii fare il motorista, siccome anche prima d’andare sotto le armi avevo fatto il meccanico ed era il mio mestiere. Da Vicenza giungemmo all’aeroporto di Ca’ di Mare, a La Spezia. Al comando ci chiesero a quale categoria eravamo destinati ed io specificai che ero destinato alla categoria motoristi. -Va bene - mi dissero - A noi ci va bene, ti si tiene qui a La Spezia in forza alla 187a Squadriglia Ricognizione Marittima.L’otto settembre 1943, al momento dell’Armistizio, ero sempre all’areporto di a Ca’ di Mare, La Spezia. Subito dopo l’Armistizio, per sfuggire ai Tedeschi, tutta la squadriglia con gli aerei si spostò in Sardegna all’areoporto di Elmas, vicino a Cagliari. Lì rimanemmo qualche mese in attesa di ordini superiori, nel frattempo noi accudivamo agli aerei e li tenevamo in condizione. Dopo un po’ di tempo il Comando Alleato ci dichiarò Reparto Combattente e per questo motivo ci fu riconosciuta la codsiddetta tabella A, ovvero l’identica tabella dei militari alleati ed anche il nostro trattamento fu equiparato al loro. Noi proseguimmo la guerra contro i Tedeschi con aerei nostri, piloti nostri e servizi nostri e e venivamo utilizzati dagli Alleati trasportando loro ufficiali e materiali. Il servizio era da Elmas all’isola de La Maddalena. A La Maddalena c’era una batteria contraerea americana ed i viveri che noi portavamo erano diretti a loro, perché mandare i rifornimenti con l’aereo era più veloce che mandarli per mare. Poi portavamo da Elmas a Bastia ufficiali alleati, Inglesi, Americani, anche Francesi, ma la maggioranza erano americani. Era italiano era anche un bellissimo aereo della Croce Rossa con cui abbiamo fatto delle esercitazioni congiunte con gli Americani.

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RINO CAPACCIOLI, nato a San Giovanni d’Asso (SI), il 6 febbraio 1922. Sono cresciuto in una famiglia di coloni che tenevano a mezzadria in un podere in Maremma. Ho combattuto in Francia, facevo parte della C.A.F. (Artiglieria da montagna) eravamo di guardia alla frontiera, fui fatto prigioniero nel 1943. I fatti si svolsero cosÏ: l’8 settembre noi disarmammo i tedeschi, purtroppo dopo due giorni inspiegabilmente avemmo l’ordine di restituire le armi ai tedeschi. La conseguenza di un simile ordine, fu che i tedeschi disarmarono noi e ci internarono in un campo di concentramento. Dopo tanti patimenti e lutti, (vidi morire tanti miei compagni di sventura) finalmente arrivarono gli alleati, ci liberarono e feci ritorno in Italia, mi sembrava un sogno, ero vivo e i miei familiari mi fecero una grande festa per il mio ritorno, mi pensavano morto, non avevano avuto notizie mie notizie da tanto tempo. Nel dopoguerra mi trasferii a Montemurlo dove ho lavorato come autotrasportatore.

Rino Capaccioli, durante la guerra, sul confine francese. 17


La carta di lavoro di Rino Capaccioli durante la prigionia. 18


CARDINI IVO, nato a Prato, il 13/5/1920. Il 1° novembre del 1939 sono andato a fare il militare e sono tornato nell’agosto del 1945. L’Albania fu occupata il 19 aprile del 1939 e noi del 320° Autoreparto Motorizzato, dopo qualche mese andammo laggiù. Il reparto divenne in Albania il 26° Autocentro. Io era addetto all’officina perché ero meccanico; avevo fatto un corso di specializzazione sotto le armi a Torino come meccanico automobilistico. Poi sono andato a Bologna ad un corso di perfezionamento e da lì mi trasferirono direttamente a Bari a formare questa officina del 320° Autoreparto che divenne poi 26° Autocentro. Il 10 giugno del 1940, quando è scoppiata la guerra io ero in Albania. Ero in Albania, con l’Autoreparto, noi ci aggregavano alle divisioni per riparare i mezzi che avevano in dotazione. Una volta riparati ci mandavano ad un’altra divisione. Tanto è vero che ho girato tutta l’Albania e tutti i posti immaginabili a Portoeddari, a Podgoriza, a Scutari, a Valona, tutti posti lì. Io ho fatto durante la guerra tutta l’Albania per lungo e per largo. Noi non eravamo preparati per l’aggressione alla Grecia. C’erano quei poveri alpini e quei fanti che avevano le pezze da piedi, li si congelavano tutti, sul Monte Tomori, che era un disastro. Ci s’aveva pochi camion noi solo diciotto B.L., non s’avevano tanti mezzi. Tanto è vero che noi ci avevamo un carro-officina che era roba vecchia, insomma, non s’aveva mezzi per fare la guerra. Tanto è vero che se non arrivavano i Tedeschi, i Greci ci mandavano via anche dall’Albania. Poi arrivarono i Tedeschi. Dopo quando venne il patatrac ritornavano i Greci tanto è vero che io scappai con il carro-officina, a piedi non ce l’avrei fatta a scappare, e venni a nord verso Valona. Noi si sapeva che la guerra andava male per noi Italiani e una mattina si videro delle imbarcazioni a largo di Portoeddari, dove ero io, ed erano tutti Greci. Si prese e si scappo, perché noi non avevamo né artiglieria per poter sparare, non c’era nulla, non s’era preparati a nulla, perché se no qualche cosa gli Italiani dovevano fare. Non c’era nulla, nulla, nulla, l’era una guerra per modo di dire. L’era una guerra persa in partenza. Quando si scappò da Portoeddari , come ripeto, io presi il carro-officina, perché tra l’altro avevo anche la malaria, andammo a Valona. Per la strada si trovava queste truppe che indietreggiavano da dove non ce la facevano a reggere. Quando fui a Valona mi misi in abiti borghesi e andai insieme ad un amico a trovare i partigiani albanesi. Dopo aver camminato un paio d’ore buone, anche tre, li raggiungemmo e si vide che mangiare non ce ne era, erano vestiti in una maniera da far rizzare i capelli, si disse: - Ma che si fa qui? Che si sta qui? Si ritorna via. - E si venne via. Li lasciammo le armi perché se ce le trovavano ci facevan fuori, e andammo a Tirana al mio comando. Ma parte del comando era già partito, dicevano per rientrare in Italia, allora io dissi: - Via! - andammo in magazzino, ci levammo gli abiti borghesi e ci rimettemmo la divisa militare e s’andò con il camion, siccome per fortuna avevo preso un camion, s’andò a Elbasan dove c’era il comando dell’Autocentro. Mi presentai al capitano, che conoscevo da tanti anni, e gli raccontai tutta la storia, mi disse: - A noi ci hai fatto un piacere, ci hai portato un camion, si porta via la roba. - Ma dove si va - Ora si va in Italia! Quando si fu lì si partì e s’andò in Romania, mi pare, che è quella più vicina, poi in Ungheria e di lì in treno, in carro bestiame, naturalmente, tutti contenti perché si veniva in Italia. 19


Però quando dopo sette giorni e sette notti di queste tradotte ci rinchiusero dentro e si disse: - Addio, siamo a posto! Ci portarono in un campo di smistamento e lì ci chiesero chi voleva andare in Italia a combattere con i fascisti e chi no. Dopo due o tre giorni però non lo fecero più, perché tutti quelli che andavano in Italia appena arrivati scappavano. Allora ci domandarono chi sapeva fare l’officina, chi sapeva zappare, insomma tutti i mestieri. Io dissi che ero meccanico d’automobili e mi mandarono a Dessau, vicino Berlino, in una fabbrica d’armi e mi misero ad un tornio, non si doveva essere tanto pratici perché ci davano la roba fissa. Lì ci feci venti mesi, con i bombardamenti. Poi vennero i Russi, ci liberarono, ma siccome i Russi erano cattivi, si passò con gli Americani. Con gli Americani si rifiatò e poi dopo ci mandarono a casa. E così ho finito la mia storia di sette anni di bella vita con il nostro Duce.

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SALVATORE DANIELE, nato nel 1922. Sono partito per il militare come aviere il 20/9/42. Fui assegnato prima a Torino, dove feci l’addestramento di quaranta giorni, poi fui trasferito a Sesto Calende, in Provincia di Varese. Dove c’era un aeroporto e idroscalo, perché quella cittadina è posta sul Lago Maggiore. In quel posto rimasi circa quaranta giorni, successivamente ci hanno trasferiti anche da lì e ci hanno mandati a Roma per fare la scuola di aiutomarconista. Io ho fatto l’intero il corso, finito il quale sono stato assegnato all’aereoporto di Crotone. Dopo soli dieci giorni da quando ero arrivato a Crotone cominciai a avere i primi sintomi delle febbri di malaria. Per curare questa malattia sono stato trasferito prima all’ospedale di Bari e poi in convalescenza all’ospedale militare di Salsomaggiore. Quando fui trasferito all’aeroporto di Crotone era prossimo lo sbarco degli Alleati e c’erano bombardamenti, e mitragliamenti praticamente ogni 10 minuti. Era un allarme continuo. Non si stava un minuto in pace, tanto è vero che fu colpita la cucina da campo, tutta buttata all’aria. Nei bombardamenti e nei mitragliamenti ho visto morire alcuni dei miei commilitoni. Un mio caro amico che era marconista, come me, è stato abbattuto, sempre in quel periodo mentre era in un azione di guerra sull’Egeo. Al momento dell’Armistizio dell’8 settembre 1943, come ho già detto, ero all’ospedale militare di Salsomaggiore in provincia di Parma per curare la malaria. Anche lì arrivarono i Tedeschi e per non farci prendere siamo scappati e siamo andati in treno verso la Romagna e da lì sempre in treno lungo l’Adriatico fino a Pescara. Arrivati a Pescara non c’erano più treni, era tutto buttato all’aria. A quel punto sono stato preso da persone del posto con altri militari, e ci hanno messo su un camioncino con il quale abbiamo cercato di andare via, verso l’Italia Meridionale. Poco dopo che eravamo partiti ci sono stati ancora dei bombardamenti e mi hanno lasciato lì, perché stavo troppo male, a causa della malaria. Sono stato portato all’Ospedale civile di Ortona a Mare, dove sono stato ricoverato sempre per curarmi della malaria. Ma anche qui sono arrivati i Tedeschi che prendevano tutti. Io per non farmi pigliare, anche se ero ancora malato, sono scappato e sono andato verso l’interno, sempre nella zona di Ortona a Mare, qui sono stato accolto da una famiglia tra Villa San Nicola e Figliomanno. Queste persone mi hanno tenuto con loro dal settembre 1943 al gennaio 1944, mi hanno curato, rifocillato, mi hanno salvato la vita praticamente, anche se non c’erano più medicinali, non c’era nulla, però grazie alla loro generosità sono riuscito ad arrivare ai primi del 1944. Sono tornato a Ortona a Mare, sono stato montato sui mezzi degli Inglesi, che nel frattempo avevano già liberato la zona, ed essi mi hanno portato fino a Bari. Poi, sempre dagli Inglesi sono stato portato ancora più a sud, ed insieme ad altri ex militari siamo andati in un campo vicino ad un paesino della Basilicata. Da lì riuscii a ritornare nella mia città, Santa Maria Capo a Vetere in provincia di Caserta. Mi sarei dovuto ripresentare a Maddaloni, ma non mi sono ripresentato, perché ero ammalato e preferito farmi curare nel Casertano, che era zona malarica ed i medici erano specializzati nella cura della malaria, per cui sono restato a Santa Maria Capo a Vetere. Mi sono ripresentato al servizio militare nel 1945, finita la guerra, quando richiamarono tutti i militari, al Presidio di Caserta e poi sono stato assegnato al Distaccamento Aereonuatico di Napoli e successivamente a quello di Portici. Qui sono stato aggregato alla R.A.F., Royal Air Force inglese e ho prestato servizio altri sei mesi. Il congedo è arrivato il 4/4/46. 21


NATALINO DIECI, nato a Romanoro, frazione di Frassinoro (Modena), il 25 dicembre 1927. Frassinoro, è un Comune di montagna, nella Seconda Guerra Mondiale venne a trovarsi su quella striscia di terra definita Linea Gotica. Fin da subito, qui si organizzarono e operavano squadre di giovani Partigiani per contrastare le azioni dei nazi-fascisti. Io avevo diciassette anni nel 1944, ero poco più di un ragazzo, ma anche i giovani come me venivano presi dai Tedeschi e deportati. Così scelsi di andare con loro, con i Partigiani, perché sentivo che quella era la parte giusta dove stare. La zona dove operavamo e di riferimento era lungo la strada che da Pian della Gotti, attraverso le montagne congiunge vari Comuni, tra cui Frassinoro e arriva a Modena. Eravamo abbastanza vicino anche a Montefiorino, centro famoso per l’eroica resistenza dei Partigiani e di tutta la popolazione, contro le forze nemiche. La nostra zona operativa era però lungo quella strada, sulle colline e sulle montagne sovrastanti, di cui non rammento il nome. Il capo del gruppo di cui facevo parte, era un giovane del nostro paese che aveva studiato e sapeva indicarci come e cosa fare. Durante la giornata, le raccomandazioni erano di prestare la massima attenzione, osservare e segnalare subito ogni movimento sospetto, senza però intervenire per non compromettere le operazioni congiunte. Avevamo il compito di scavare lungo la dorsale dei fortini dai quali poter controllare, senza essere visti, la strada di grande comunicazione, che attraverso vari comuni dell’Appennino arriva a Modena, con tutti i movimenti che potevano esserci. Il mio gruppo era formato da quindici giovani di età compresa tra i 17 e i 26 anni. Nelle vicinanze, ma più in basso di dove noi operavamo, c’erano le case dei contadini, sui quali potevamo fare affidamento. Alcune famiglie ci misero a disposizione un locale dove preparare il mangiare e spazi dove, qualche volta poter passare la notte. Posso proprio dire che da quelle parti la popolazione è sempre stata, e in modo convinto, con noi partigiani. Anche il nostro gruppo visse in condizioni di paura, di disagio e incertezza, propri a certi momenti cruciali di lotta tra forze impari, di privazioni, di fatica, anche di solitudine e inadeguatezza. Mi ricordo un po’ confusamente, anche perché è passato ormai tanto tempo, di uno scontro dove un partigiano del mio gruppo perse la vita ed anch’io la vidi brutta. Invece ricordo bene la fine della guerra, la nostra allegra esultanza, la gioia della popolazione, e l’orgoglio di noi Partigiani. Perché tutti i gruppi operativi della zona di quelle montagne, compreso il mio, furono convocati a Modena, dove i comandi partigiani e le autorità preposte ci accolsero con onore e festeggiamenti. Dopo la guerra, sono venuto via da quei posti, in cerca di lavoro e di condizioni di vita migliori. Così non ho avuto più modo, necessità o interesse di parlare di quei fatti, ho perso ogni contatto con i compagni, con le persone, con l’ambiente. Ora mi dispiace di aver dimenticato tante cose, ma allora, forse, consideravo quella una parentesi dolorosa della mia vita, che volevo conclusa per sempre. Qualche volta, quando torno da quelle parti, voglio rintracciare qualcuno e domandare per poter ricostruire, ricordare e raccontare con più ricchezza di particolari e precisione quel periodo.

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MARCELLO FAGGI, nato a Prato, il 12 maggio 1924. Sono partito militare nel luglio del 1943, perché ero nel secondo trimestre del 1924, andai subito a Modena al IV Artiglieria. Volevo andare all’Accademia per fare l’Allievo Ufficiale, ma la guerra stava ormai finendo, perché gli Alleati erano già sbarcati in Sicilia. Allora mi misero in artiglieria. Siccome noi dell’artiglieria avevamo le ghette e non le fasce come la fanteria, ma non bastavano per tutti uscivamo alternati, questo per dire era il grande esercito degli otto milioni di baionette. L’8 settembre non toccava a me uscire e la sera verso l’otto e mezzo, dato che il Modena IV Artiglieria era sulla Via Emilia e c’erano tutti i campi, si vide la popolazione esulatare: - La guerra è finita!! -, le donne…Allora tutti ci affacciammo. A noi non ce lo dissero di questo comunicato di Badoglio. - Via si va a casa - - No, anzi bisogna richiamare anche quelli che sono fuori, perché bisogna resistere perché il nemico ora sono i Tedeschi - Va bene, saranno i Tedeschi. - E allora tutti attrezzati e pronti. Se io ero fuori non tornavo, ma qualcuno tornò. La notte non si dormì, perché c’era confusione. La mattina alle nove (del 9 settembre) si vide un Tigre tedesco, avevano il Tigre con un cannone da 120 mm., e alla portineria un sidecar con la mitragliatrice che entra dentro e noi si spara e si bloccano, ma esce il Colonnello e gli dà la pistola in segno di resa. Quei disgraziati che erano in distaccamento fuori Modena stettero ligi alla consegna e resistettero. Ne ammazzarono due e gli altri li presero e li portarono via. Così il nove mattina eravamo già prigionieri, ci misero in fila tutti nel piazzale ci presero il fucile, e si restò lì tre o quattro giorni, s’assaltò lo spaccio perché non avevamo da mangiare e fortunatamente c’era della roba in scatola. Dopo tre o quattro giorni ci inquadrano tutti e ci portano al 36° Fanteria, sempre a Modena in una grande caserma e ci concentrano lì. Venne la mia mamma con i miei zii per organizzarci per scappare. Come? C’era una fognatura dentro la caserma del 36°, allora ci portarono una piantina. Perché vicino alla caserma del 36° ci sono i macelli pubblici. Se tu entri nelle fogne ci vuol la piantina perché dopo un primo tratto a carponi si entrava nel collettore e si doveva appunto evitare i macelli. Così un po’ per volta si inzia a fuggire, allora ci si metteva un vestitaccio e s’andava. Un giorno tocca a noi s’era tre o quattro, io avevo la cartina e andai in testa. E s’aspettò che il faro, che c’era di continuo, fosse puntato da un’altra parte e via dentro. Tutto ad un tratto si sente urlare, forse qualcuno si sentì male, e allora ci si fermò. Io avevo abboccato appena ma era molto basso che bisognava strisciare. Si rimandò per farlo un altro giorno, ma dopo due o tre giorni si sentì un botto. I tedeschi s’erano accorti che si passava di lì e lo fecero saltare, aprendo un tombino e buttando delle bombe. Allora lo zio trovò un altro sistema. Un camion tedesco andava in città, a Modena, a prendere il pane, io mi dovevo buttare sotto i sacchi vuoti quando partiva, e poi i miei erano d’accordo con quelli del forno. Perchè i Modenesi per salvarci ce la mettevano tutta, anche rischiando. Quel giorno che dovevo partire io in quel modo venne l’ordine di non andare a prendere il pane perché si partiva. E così mi toccò andare. Quella mattina, verso la fine di settembre, ci portano alla stazione di Modena, tutta la gente a guardare, tanti piangevano. Ci caricano sui carri ferroviari, quarantacinque per carro. Appena chiusi i carri suona l’allarme, tutti scappano e noi dentro bloccati. Meno male non successe nulla. Iniziò il viaggio, noi s’aveva una sete da morire, otto giorni senza bere, il mangiare c’era perché s’era preso le gallette, che però mettevano sete. E poi s’era quarantacinque, non potevamo neppure distenderci e poi si dovevano fare i bisogni lì: si facevano in un fazzoletto e si mettevano in un cantuccio. Senza sapere la destinazione. Ogni 23


vagone ci aveva una garitta con una guardia, ma non veniva mai aperto. S’arrivò a Trento, si domandava dell’acqua ma nessuno non ci rispondeva. Si stette sette giorni senza essere aperti, finalmente ad una stazione ci aprirono, c’era un ristoro tedesco con una fontana, ma non ci facevano avvicinare, e ci dettero del miglio cotto, si bevve. La sete, io quando dormivo sognavo fiumi, cascate … Dopo tre o quattro giorni, il 9 ottobre, s’arriva a Kustering, Stalag 3° C come c’è sulle lettere che mandai alla famiglia e sulle risposte. Ci dicevano di dire che si stava bene. A Kusteng ci scaricano e ci portano allo Stalag, lì c’era anche delle donne tedesche che ci dettero anche il caffè. Ci contarono poi ci misero a sedere in fila in terra e ci diedero il piastrino, perché noi eravamo prigionieri di guerra. Il piastrino era fatto in modo che quando uno moriva, mezzo lo lasciavano al collo e mezzo andava alla Croce Rossa. Io ero il n° 46364. Il 20 ottobre ci inviarono alla BMW, a Bardof, un sobborgo di Berlino, dove facevano motori per gli aereoplani. Io ero studente, avevo fatto il Buzzi e invece mi mandarono in fabbrica ai turni. Ci davano poco da mangiare e poi, per spregio, c’era da camminare molto per andare dai campi alla fabbrica, per cui via via si deperiva, arrivai al peso di trentotto chili e mezzo. Io, come altri, non ce la facevo più nemmeno a camminare e allora non ci portavano più in fabbrica e dopo tre o quattro giorni ci montarono su un camion e da lì ci rimandarono a Kustiring, in ospedale, dove non si lavorava e ci davano un po’ di latte. Allora piano, piano crescevi, io arrivai a cinquantun chili, ma dietro a forza di star fermo avevo una piaga. Siccome ci diedero la possibilità di ricevere pacchi da casa, io potevo mangiare e fare un po’ di commercio. E scambiavo roba con le zuppe dei Russi, che erano tutti tubercolosi, ma la fame fa fare certe cose… Dopo due mesi ero cinquantun chili e arrivava la primavera, e si fu richiesti per lavorare nei campi. Infatti ci mandarono in una fattoria, in treno, e lì si mangiava, patate, ma si mangiava. Ma siccome io non sapevo fare il contadino, con le due file di patate da levare che ci assegnavano, io ero sempre tra gli ultimi e avevo paura di essere mandato via. Quando arrivò il freddo, nell’ottobre del 1944, invece ebbi fortuna che ci mandarono in una famiglia privata, da una donna tedesca, con una bambina, il marito era morto, c’erano due polacche, mamma e figliola, ed un francese, che era un po’ lo chef e stetti lì, vicino all’Oder, che era un fiume navigabilissimo, infatti, quando con il francese si andava a tagliare qualcosa nei boschi, con il carro non si passava dal ponte, ma sul fiume ghiacciato, in inverno la temperatura era a – 22°. Da quando fui in questa famiglia si cessò di essere sorvegliati, perché anche quando eravamo in fattoria la sera ci chiudevano. Ma intanto si sentiva i rumori del fronte avvicinarsi, perché i Russi avanzavano. Siccome i tedeschi erano impauriti scappavano tutti, anche la signora tedesca scappò con un carro su cui caricarono la roba, ed insieme scapparono le polacche ed il francese. Rimasi io, perché c’erano dieci vacche. Io allora dormivo in casa. Un giorno arrivarono i Tedeschi e il Borgomastro disse che bisognava prendere tutte le vacche del paese, che erano quasi duecentocinquanta, e si dovevano portare ai macelli. S’era rimasti cinque Italiani soli e con il Borgomastro, si incominciò, ma le vacche non volevano uscire. Poi finalmente ci si incammina, si camminò cinque giorni, si dormiva nei boschi ed era febbraio, il 10. Intanto i Tedeschi si stavano ritirando, le strade erano intasate e questo faceva si che le vacche non abituate a camminare spesso si sciancassero sulla mota. Si passa da un paese che si chiama Sorau, dove si trova degli Italiani a sedere su un muricciolo che ci dissero che lì c’erano i macelli e di tornare poi con loro che tanto ci lasciavano sbandati. Infatti si arrivò ai macelli e si portò le vacche che ormai erano rimaste una cinquantina. E poi si era incerti su che fare: scappare con i Tedeschi o unirsi agli atri Italiani e aspettare i Russi. Ci unimmo agli altri e diventemmo tredici. Loro avevano anche roba da mangiare. La notte venne24


ro anche due Tedeschi, che rimasero un po’ con noi, gli si fece anche il caffè. Quando un esercito avanza lo fa sulle strade principali la notte e poi esegue i rastrellamenti la mattina dopo. Ma io ero un ragazzo e mi ricordo che ci salvò un tale Furlini di Milano, un sottufficiale che ci disse: - Ora verranno i Russi a rastrellare, noi mettiamoci tutti in fila e urliamo subito Italiani!!, perché se no ci ammazzano subito -. La mattina, era il 13 febbraio, arrivano uno a cavallo e tre a piedi, con il parabellum, e noi subito: - Italiani!! - Documenti! - Noi si aveva il piastrino e li si mostrò. Ci accompagnarono al comando e qui ci assegnarono un soldato a guardarci e fu un bene perché venne un aereo a mitragliare e uccise un Russo e allora il suo compagno ci voleva ammazzare, perché pensava che si fosse Tedeschi, e invece il nostro accompagnatore ci difese. Poi venne un altro mitragliamento, ci si butta nei campi per istinto e andò bene. Arrivò un Tedesco anziano in divisa carta zucchero dell’aviazione e si mise in fila con noi, ma noi non si voleva e si disse al Russo. Lui ci disse di lasciar fare, poi quando si arrivò ad uno spiazzo, noi ci fece mettere a sedere e lui lo portò da una parte e con il mitra l’ammazzò, colpendolo prima in bocca per non farlo soffrire. Noi ci si impaurì, perché si pensava che volesse sparare anche a noi, ma lui ci rassicurò e proseguimmo a camminare, poi si faceva buio perché era il 13 febbraio e il Russo ci disse che doveva tornare al comando. Ci raccomandò di camminare nel mezzo della strada e di dire sempre di essere Italiani. Infatti al primo blocco andò bene ma al secondo ci misero tutti da una parte vicino ad uno scavo anticarro e noi si pensò che ci volessero fucilare, perché non credevano che fossimo Italiani. Allora Furlini si avvicinò ai russi facendo vedere ad un loro ufficiale, alla luce di un accendino una licenza italiana e li convinse. Allora ci mandarono lì vicino in una casa di un contadino a passare la notte ed a mangiare. La mattina ci si alzò e andammo al comando che era lì vicino e là c’era lo smistamento, venivano da tutte le parti, Italiani, Jugoslavi, Francesi e in millecinquecento ed un soldato, uno solo, in testa in fila si iniziò a camminare verso est, verso la Polonia, si faceva trenta chilometri il giorno, per dieci giorni. Ci si arrangiava perché i Tedeschi avevano lasciato tutto, in dei posti si ammazzò anche il maiale, e per muoverci prendevamo tutti mezzi che si potevano trovare. Finalmente si arriva sul confine della Polonia dove c’era una stazione ferroviaria. Ci sarà stata una montagna di roba, perché lì si montava sul treno, non in tradotta ma con vagoni normali e veniva lasciato tutto, carrette, biciclette, tutto. In treno s’arrivò vicino a Varsavia e lì ci fecero andare in varie famiglie, io andai a Chestokowa, dove c’è la famosa Madonna Nera, io ho anche visto la chiesa, l’assomiglia un po’ alla Chiesa delle Carceri a Prato. A Chestokowa ci fecero sceglire come rimpatriare, tramite Odessa, o aggregandosi a loro, i Russi, durante l’avanzata in battaglione “Rabtti”, che vuol dire lavoro. Allora noi si accettò questa proposta anche per non allontanarci ulteriormente dall’Italia. Ci misero a fare i camminamenti quasi in prima linea, perché i Russi avanzavano con il sistema delle sacche, cioè avanzavano e poi tornavano indietro a rastrellare. Sull’autostrada da Breslau a Berlino durarono sette giorni a passare e ci dicevano “Si va a conquistare Berlino”. S’iniziò a fare anche i ponti, perché erano stati tutti distrutti, ci portavano la legna e noi si avviava a fare i ponti. L’ultimo ponte era a venti chilometri da Lipsia. Finito il ponte sparirono i Russi, noi domandavamo dove era un comando italiano, ma non c’era. I Francesi, tutti gli altri avevano il suo, ma gli Italiani no. E allora io e un altro di Pesaro, siccome questo ponte faceva da confine tra i Russi e gli Americani, c’era la bandiera sul ponte, si aspettò un camion che riportava i prigionieri russi e tornava verso Lipsia vuoto e si prese, in venti minuti s’arrivo a Lipsia. In città vedo una bandiera francese, e io che lo parlo vado a chiedere informazioni e mi dicono che c’era anche un comando italiano. Infatti si prese un 25


tram e si scese quando si vide una bandiera italiana. Si stette un po’ lì e poi ci portarono tutti per il rimpatrio, che avvenne in tradotta il 18 luglio 1945 alle 6 e 30 e arrivai il 26 luglio a Prato. Avevo mandato un foglio tramite uno che era partito prima che arrivavo. Io ero un anno che non avevo notizie e i miei cugini venivano tutte le sere alla stazione, ma da Bologna erano già partiti tutti i treni e io ed un altro di Empoli si prese un treno merci arrampicandoci sui respingenti in corsa, e da lì su un vagone di legname, nelle gallerie ci si buttava giù. Nella grande galleria ci si sarà stati un’ora e mezzo. Si partì alle 22,30 e s’arrivo a Prato alle 4 di mattina. Quando arrivai a Prato trovai la stazione tutta distrutta e dopo salutato quello d’Empoli che proseguiva per Firenze m’incammino. Mi sento chiamare: - Che sei Marcello? - Tu sei il Bellandi - era un ferroviere che stava vicino a me al casone di Porta Pistoiese. - Tutti salvi - mi disse - I tuoi cugini sono andati via ora. Allora gli chiesi di accompagnarmi, lui chiese il permesso e si partì. Quando s’arrivò lui chiamò il mio cugino, era luglio e c’erano le finestre aperte. - E’ tornato Marcello! - E allora alla Porta Pistoiese tutti fuori, abbracci…

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RENZO FATTORI, nato a Prato, il 9/4/1921. Sono partito per fare il militare nel 1941 e ho fatto tutta la campagna d’Africa da El Alamein fino a Tunisi. Poi da Tunisi sono stato deportato a Tripoli dove ho fatto tre anni e sei mesi di campo di concentramento e due anni e mezzo di cooperazione con gli Inglesi. quando sono partito per il militare ho passato i primi tre mesi a Pistoia, successivamente tre mesi a Montepiano, dove abbiamo finito di costruire la chiesa del paese. Da qui fui trasferito ad Alberobello, in Puglia, ed anche lì presso l’aereoporto militare ho fatto tre mesi di servizio. Quando sono partito per l’Africa siamo decollati invece da Castelvetrano, in provincia di Agrigento. Eravamo infatti una divisione aviotrasportata e il titolo ufficiale nel mio indirizzo di Posta Militare era Ardito Alato Fattori Renzo. Arrivammo in aereo fino a Tripoli, e dopo un mese, che abbiamo trascorso vicino a Tripoli andammo in linea di combattimento proprio ad El Alamein. Dopo la battaglia da lì iniziò la nostra lunga ritirata fino a Tunisi. C’era una strada che da Tripoli portava fino al Cairo ed era in terra battuta, su questa facemmo quattromila chilometri di ritirata. Ci trasportavano su dei camion; viaggiavamo per duecento chilometri circa e poi ci fermavano, ci facevano scendere e riprendevano altri soldati e noi fermi lì ad aspettare il viaggio successivo. Intanto venivano gli aerei inglesi a bombardare ed a mitragliare, allora noi si lasciavano i camion e si correva lungo il deserto. Era un’agonia, nel deserto non c’era assolutamente modo di ripararsi dalle bombe e dai mitragliamenti, ma bisognava per forza stare lì in delle buche improvvisate. Potevamo solo sperare di avere la fortuna di non essere colpiti e basta. Fui preso prigioniero dagli Alleati il 6/4/43 e da Tunisi mi riportarono a Tripoli.

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FERRINI LORENZO, nato a Reggello (Firenze), il 10 dicembre 1923. All’inizio del 1943, il 28 gennaio, partii da Reggello, dove risiedevo con la mia famiglia, per la Legione Allievi dei Carabinieri di stanza a Torino. Mi ero arruolato volontario con una ferma triennale nell’Arma. A Torino venni assegnato all’8A Compagnia alla Caserma Cernaia. Mi ricordo bene che il giorno stesso del mio arrivo subimmo un bombardamento aereo, e questo fu il mio vero e proprio battesimo di guerra anche perché, a causa dei frequenti bombardamenti dovuti alla grande presenza di industrie belliche sul territorio, la zona di Torino era già stata dichiarata zona di guerra a tutti gli effetti. I giorni seguenti iniziò la vita militare di addestramento al servizio di carabiniere: al mattino la sveglia suonava alle 5.30, le prime ore erano dedicate allo studio in aula, dopo iniziava la piazza d’armi, che comprendeva tutto quanto non era semplicemente teoria: era la preparazione vera e propria per affrontare il nostro futuro servizio. Passai a Torino i primi sei mesi di corso fino al giuramento, quando da allievo carabiniere, che ero stato fino ad allora, passai carabiniere effettivo. Eravamo dunque pronti per iniziare il servizio mentre la guerra si avvicinava sempre di più, infatti di lì a poco gli Alleati sarebbero sbarcati in Sicilia. Fui assegnato alla Legione Carabinieri di Firenze e da qui mandato alla stazione Carabinieri di San Giustino Valdarno in Provincia di Arezzo. Alla Stazione il servizio che svolgevamo era assai vario, anche se in quel particolare periodo si trattava soprattutto di farsi benvolere dalla popolazione, cosa in quel momento non era molto facile perché c’erano già dei bombardamenti e dovevamo cercare di non metterci in contrasto con le leggi di guerra che allora vigevano. L’ Armistizio dell’8 settembre ci corse di sorpresa e venne l’ordine di restare ai nostri posti, cosa che noi facemmo. Quasi tutti i giorni subivamo i bombardamenti alleati perché il territorio di nostra competenza era vicino alla ferrovia Firenze-Roma. In zona c’era un importante nodo ferroviario che gli alleati volevano interrompere perché i rifornimenti tedeschi non potessero raggiungere il fronte, che era fermo a Cassino. In particolare gli Alleati tentavano di bombardare e di distruggere il ponte di Bucine, cosa che era assai difficile perché era collocato in maniera che anche se mille bombe andavano di qua o di là, ma il ponte rimaneva sempre in piedi. Andammo avanti così fino all’estate del 1944, cioè al momento in cui i Tedeschi cominciarono la ritirata dalla nostra zona, anche se noi carabinieri della Stazione di San Giustino Valdarno eravamo a conoscenza che sul Pratomagno operavano i Partigiani della formazione di Potente, sapevamo anche che non ci sarebbe dovuto accadere niente, perché avevamo dei contatti con i Partigiani e avevamo loro promesso che al momento opportuno avremmo consegnato loro le armi. Invece le cose andarono così: il 30 luglio venne attaccata dai Partigiani una macchina tedesca e vennero uccisi tre ufficiali, per quella azione i nazi-fascisti fecero un rastrellamento arrestando una decina di persone che furono passate per le armi proprio di fronte alla nostra caserma. Noi l’avevamo lasciata la notte precedente dopo aver consegnato le nostre armi ai Partigiani. Io chiusi 28


la porta della caserma e presi la chiave che conservo ancora. Mi ero portato con me le armi che avevo in dotazione personale e tornato a casa, a Reggello, presi contatto con le formazioni partigiane che operavano in zona. Molti di loro erano miei amici che agivano nella zona di Secchieta: io facevo soprattutto da staffetta di collegamento informandoli su cosa facevano e dove si spostavano i Tedeschi ed i fascisti ... portavamo anche il mangiare alle formazioni partigiane, soprattutto il pane che facevano i contadini della zona, e che veniva da noi distribuito ai vari gruppi partigiani. Una domenica mattina tornando a casa la trovai circondata dai repubblichini che la stavano perquisendo. Per fortuna non trovarono le armi, che avevamo accuratamente nascosto, se no ci avrebbero uccisi all’istante. Trovarono invece soltanto del materiale di propaganda della Resistenza e dei volantini che gettavano gli Alleati dagli aerei. Ci interrogarono e ci misero alle strette e non avendo avuto risposte ci misero al muro e schierarono il plotone di esecuzione dicendo: - Vi si fucila.Io a questo punto dissi loro: - Quello che avevamo da dire vi si è già detto, se ci passate per le armi noi diventeremo degli eroi - e aggiunsi, rivolto al sergente Scolari, che conoscevo, e che sarebbe poi stato ucciso da altre formazioni partigiane: - voi sarete dei delinguenti e dei criminali.Per fortuna non ci fucilarono però ci arrestarono e ci portarono con loro, me ed un mio cugino, e, mentre continuavano il rastrellamento nelle frazioni del comune di Reggello, ci rinchiusero in una scuola, in uno stanzino che serviva per tenervi la legna. La notte ci fu un bombardamento e io pregavo che le bombe cascassero vicine in modo da poter scappare. Ma stavano bombardando la ferrovia nei pressi di Rignano sull’Arno e fecero solo tremare i muri della stanzina in cui eravamo rinchiusi. Il giorno dopo ci prelevarono da questa stanzina e ci portarono a Firenze alla famigerata Villa Triste dove operavano Lombrichini ed il maggiore Carità. Ci rinchiusero dentro ad una stanza e mentre ci chiudevano i sentii con i miei orecchi: - Cosa ne facciamo di questi due, qui è pieno, li fuciliamo tutti, tanto gli Inglesi stanno per arrivare e dobbiamo scappare quanto prima.Si stette rinchiusi due giorni, eravamo più di venti in una stanzina di tre metri per tre metri, tutti in piedi perché non ci si poteva nemmeno mettere seduti. Ci chiamarono la sera del secondo giorno, chiamarono: - Ferrini, via si parte! - Io a quel punto pensavo che ci ammazzassero. Invece dissero: -Voi andate via.- Via dove? - Fuori siete liberi. Quando uscimmo vedemmo due sentinelle una all’ingresso ed un tedesco al portone del giardino. Dissi a mio cugino. -Se si passa queste due sentinelle e siamo ancora vivi, per arrivare al Ponte Rosso è un balzello! E dal Ponte Rosso ci incamminammo verso Rovezzano dove trovammo un posto di blocco dove operavano insieme Tedeschi e repubblichini. Per fortuna io avevo sempre con me il tesserino da carabiniere e gli dissi che eravamo due carabinieri che ci dovevamo recare urgentemente a Rignano sull’Arno per arrestare una persona. Non era vero niente, ma ci andò bene: fermarono un camion tedesco che andava verso Arezzo e ci fecero montare sopra, quando fummo arrivati al posto dove volevamo scendere picchiammo al conducente che ci fermò. Ringraziai dicendo al Tedesco: -Arbeiter - cioè grazie. 29


Da quel momento iniziò per noi la vita alla macchia, organizzandosi per rimanere vicino a casa fino al momento che il fronte avanzando arrivò vicino a noi ed arrivarono le forze tedesche. Una mattina venne da noi che eravamo nascosti la zia, che era la massaia, la donna di casa, e ci disse che due Tedeschi volevano le frittelle ed aveva paura. Io gli dissi di far loro da mangiare, intanto con mio cugino si andò in cantina e, anche se avevamo poco vino, ne prendemmo un fiasco e ci si mise dentro una bella manciata di sale, insomma lo drogammo. Dopo che ebbero mangiato e bevuto quel vino erano già in euforia, girava loro la testa, erano sbronzi; allora io e mio cugino, che eravamo armati, entrammo in casa e li togliemmo le armi, che tra l’altro non avevano più nemmeno addosso, ma avevano lasciate appoggiate al muro di cucina. Li rinchiudemmo nello stalletto del maiale, che avevamo dietro casa. Questi due tedeschi erano gli ultimi, quelli che dovevano inserire i detonatori nelle mine già piazzate. Infatti di detonatori ne avevano un tubo pieno, e dovevano piazzarli in un ponte lì vicino che era già minato e doveva essere fatto saltare. Insomma riuscimmo a salvare sia il ponte che è ancora in piedi, che altri posti della zona che erano già stati minati. Lo stesso giorno sentimmo una grande esplosione che veniva dalla strada principale che passava vicino a casa mia: un carro armato inglese aveva preso una mina con un cingolo e era saltato in aria, ma i due occupanti erano riusciti a scendere e venivano verso casa nostra. Io parlavo un po’ d’Inglese e loro capivano qualche parola di Italiano, così riuscimmo a spiegarli che avevamo due prigionieri tedeschi e loro li presero in consegna. Per ricompensa ci dissero che potevamo prendere tutto ciò che restava sul loro carro armato. Dammo anche a loro un fiasco di vino, questo non drogato, presero i prigionieri e se ne andarono, rimase solo la carcassa del carro armato. Il fronte era già passato, ma restavano alcune sacche di resistenza dalle parti di Vallombrosa, da dove i Tedeschi sparavano con i cannoni verso il basso. Ammazzarono anche alcune persone. Gli Inglesi intanto avevano allestito a poca distanza da casa mia, in un terreno pianeggiante un piccolo campo di atterraggio per la Cicogna, un piccolo aereo da ricognizione. La Cicogna atterrava tutti i giorni tra mezzogiorno e l’una. Un giorno un capitano inglese venne a casa ed io gli dissi che pensavo di sapere da dove i Tedeschi sparavano con i cannoni, lui mi disse di seguirlo e mi portò dal pilota, che mi fece montare con lui sull’aereo, che era a due posti. Si partì e volando sopra gli oliveti si arrivò nella zona di Vallombrosa, dove io gli indicai al pilota dove potevano essere le postazioni tedesche e lui tramite radio avvisò l’artiglieria che iniziò a sparare contro la montagna. Dopo questo fatto la mia guerra finì. Tornai alla Stazione dei carabinieri di Reggello e la riformammo, anche se nei primi tempi dopo la Liberazione la situazione era assai confusa perché operavano ancora i Partigiani e stava insediandosi l’Autorità Militare Alleata. Noi cercavamo di mediare tra tutti, facilitati anche dal fatto che i Partigiani, che erano ragazzi della zona, li conoscevamo tutti bene. Poi la situazione cominciò a stabilizzarsi e gli Alleati insediarono a Reggello un Governatore Militare. Mi ripresentai allora a Firenze alla Regione Carabinieri e da quella sede centrale quando cominciarono ad 30


essere ricostituite le varie Stazioni territoriali fui destinato a Gambassi Terme, dove rimasi fino al congedo nel 1946. Successivamente ho sfruttato la mia esperienza come Carabiniere per diventare il primo vigile urbano del Comune di Vaiano, che fu costituito nel 1949. Sempre come vigile urbano ho continuato la mia carriera al Comune di Prato, pur continuando a risiedere a Vaiano.

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JACOPO GAVAZZI, nato alle Piastre, Casa Marconi (Pistoia), il 16/01/1919. Sono stato chiamato alle armi ai primi di maggio del 1939 e fui arruolato al 7° Genio di Firenze. Di là poi, nel 1940 mi hanno assegnato alla 53A Compagnia Artieri e fui spedito nei Balcani. Ci imbarcarono a Bari, sbarcammo a Durazzo e di lì andammo alla zona che ci avevano assegnata, da Librazhd al Passo Sciafed. Abbiamo combattuto a Struga sul lago di Ocrida, e poi si finì a Dibra, dove abbiamo passato l’inverno con il freddo fino a - 35°. Dopo la fine dei combattimenti con la Grecia, rimanemmo come truppa di occupazione; io però fui mandato a Tirana per fare un corso di specializzazione come motorista, finito il quale fui assegnato al 26° Genio di stanza a Tirana. Il mio lavoro di specializzazione in officina continuò fino a che l’8 settembre 1943 non ci fu l’armistizio. Dopo alcuni giorni arrivarono i Tedeschi; c’era veramente una baraonda. Fu emanata una circolare da parte del nostro generale con la raccomandazione di stare calmi, perché i Tedeschi ci avrebbero presi e portati in Italia via terra. Alcuni non ci credettero e fecero anche fuoco, sparando a tappeto, però la maggior parte di noi aderì alle direttive della circolare, e quindi dopo alcuni giorni ci fecero preparare per andare a Bitol, in Bulgaria, per prendere il treno. Nei giorni dall’8 al 21 settembre a Tirana ci fu il caos, con continui furti e rapine. Alla prima marcia che facemmo, io ebbi in consegna un automezzo (ricordo bene era una Lancia trirota per il trasporto zaini), mentre tutti gli altri dovettero partire a piedi. Da Tirana si partì il 21 settembre alle quattro del mattino, eravamo ventuno mila soldati, per ogni compagnia avevano assegnato due macchine per il trasporto zaini, tutti gli altri a piedi. Dopo un po’ che eravamo partiti a piedi ci attaccarono i ribelli albanesi al passo tra Tirana e Elbasan e molte colonne furono decimate. Una volta viste queste difficoltà fu deciso che il trasporto non dovesse più avvenire a piedi, ma con gli automezzi; in conclusione in cinque tappe si arrivò a Bitol, in Bulgaria1, qui ci chiamarono i Tedeschi e ci fecero la morale: ci dissero che chi voleva stare con loro se aveva un grado lo poteva conservare, e chi si rifiutava andava ai lavoro forzati nei campi di concentramento in Germania. In maggioranza fummo disarmati, ci fecero buttare tutte le armi su un prato, a me e a tutti gli altri che avevamo fatto da autisti ci portarono alla stazione e ci fecero consegnare gli automezzi. Dormimmo sotto una tenda ed il giorno successivo ci caricarono tutti su un treno di circa ottanta vagoni, tutti scoperti tranne tre. Dopo diciassette giorni di viaggio arrivammo in Germania. Il nostro treno era diretto a Belgrado, ma poiché i Partigiani jugoslavi avevano fatto saltare i binari ci fecero tornare indietro fino a Sofia, e da qui Bulgaria, Romania, Ungheria ... siamo passati anche sul Gernavola, un ponte che è a circa settanta chilometri dal Mar Nero. Dopo ventuno giorni di viaggio, diciassette in treno e quattro in macchina, arrivammo al 9° Campo di Concentramento. 1) Probabilmente si tratta di Bitola oggi in Macedonia, all’epoca in Jugoslavia, forse il fatto che Gavazzi pensasse che fosse in Bulgaria è dovuto alla circostanza che nel 1943 la cittadina macedone era occupata da truppe bulgare. (N. d. C.) 32


Abbiamo avuto anche dei morti, perché con una tradotta così lunga e scoperta ogni tanto qualcuno moriva; alcuni vagoni durante il trasporto si ruppero e gli occupanti vennero trasferiti sugli altri, fino ad arrivare a cento occupanti per vagone. Una volta arrivati ci chiamarono tutti in un grande prato, ci fecero ancora un discorso per dirci che per noi iniziava un periodo difficile, o collaborare o andare a lavorare nei Campi di Concentramento ai lavori forzati. Ma su circa tremila arrivati, sembra aderissero una quindicina, perché pensavano di essere mandati sul fronte italiano e quindi avevano la speranza di potersela svignare. Se ci riuscirono non lo so. Quelli che non aderirono furono assegnati ai campi di concentramento. Io ed altre cinquanta persone, tra le quali ne conoscevo soltanto tre, fummo mandati ad un distaccamento, il 9° C, dislocato a Kloster Allerdorf, nei pressi della cittadina di Bad Salzungen, in Turingia. Lavoravamo in due fabbriche più una parte di noi era al servizio della città. La mia squadra, che era di quattordici persone, lavorava in una fabbrica di macchine utensili, mentre un’altra squadra di circa una quindicina lavorava in una fabbrica di munizioni, sempre nella cittadina di Bad Salzungen, la rimanente manovalanza, era al servizio della città, di corvèe. In città la corvèe consisteva in questo: se arrivava l’ordine di scaricare un vagone si andava in stazione, se c’era da pulire un giardino o delle strade, ogni mattina andavano a fare il lavoro che c’era da fare, a volte andavano a scaricare le mele, perché lì c’era una fabbrica di marmellata, così che tramite loro a volte entravano in prigione anche dei torsoli di mela. Il nostro lavoro era di settantadue ore e mezza settimanali, quando non si faceva lo straordinario, che però era quasi inevitabile. Se per caso passava una squadriglia aerea al di fuori del normale (che lì ogni giorno annuvolava, per i tanti aerei), ci mandavano fuori e perdevamo mezz’ora di lavoro bisognava recuperarla. Ma non era solo questo, perché queste settantadue ore e mezza settimanali, le lavoravamo in sei giorni, ma se per caso la domenica, che doveva essere di riposo, arrivava un furgone di munizioni o qualcosa d’importante in stazione venivano a Kloster Allerdorf e prendevano una squadra di noi per i lavori più urgenti da fare. Nei primi quattro mesi di prigionia, benché venissi dal fronte, ho perso diciassette chili per il poco mangiare. Uno dei miei compagni mi diceva tutte le sere: - Io non ce la faccio, con questo mangiare non ce la faccio. Il cibo ce lo distribuivano presso la prigione, ci davano un pane, che era un mattone di due chili, in sette, circa trecento grammi a testa. La mattina ci davano un gavettino di caffè, che era di cicoria e a mezzogiorno ci davano una mezza gavetta di rape, che loro chiamavano rübe, che sarebbero tipo le nostre barbabietole da zucchero. Il novanta per cento della mezza gavetta era quello, ma molte volte non c’era nemmeno il segno delle barbabietole, il resto poteva contenere qualche patata o qualche pasta. Devo precisare che di pasta ce ne davano cento grammi al mese a testa, che cuocevamo tutta in una volta per sentire almeno l’odore. A questo punto facendo un salto in avanti, mi viene in mente un episodio indicativo: quando arrivarono gli americani, il 15 aprile del 1945, vennero da noi e vedendo un pentolone dove c’erano rape ci chiesero se avessimo dei maiali. Il bello è stato la mattina che siamo arrivati lì. Ci hanno portati subito in questa prigione, che era una vecchia fabbrica trasformata in prigione, con le doppie finestre in ferro e le porte anch’esse in ferro, e di fronte, sotto le finestre c’era il fiume, la Werra. 33


Noi più di una volta si pensava di togliere le finestre per buttarci di sotto, ma che cosa avremmo fatto? Ci poteva essere la possibilità anche in fabbrica di andare via, ma dove, con scritto KG2 sulla schiena, sui ginocchi e sul petto? Tutti ci avrebbero riconosciuti per prigionieri. Vorrei precisare che questo mio collega di Padova, di cui non ricordo il nome, quello che diceva di non farcela per il mangiare, una sera non venne come sempre da me. La sera dopo il lavoro c’inquadrarono, ma lui non c’era. Lo cercarono tutta la notte e lo trovarono verso le tre in fabbrica sotto i trucioli. Gli fecero una bella ramanzina e lo portarono in prigione. Con me si fidava molto, e la mattina gli chiesi cosa avesse fatto. Disse: - Ieri sera sono andato deciso a buttarmi sotto il treno, ma ho aspettato fino all’una e non è passato più nessun treno. Mi era venuto un gran freddo e cercato di passare la nottata per aspettare il primo turno di mattina. Fatto sta che era potuto rientrare in fabbrica saltando il cancello, perché la notte la sorveglianza era relativa. La mattina lo riportarono a lavorare con noi, verso le otto non c’era più. Verso le undici seppi che s’era buttato sotto il treno ed era morto. Io potrei ritrovare la tomba dove fu seppellito. Con la nostra fame chi poteva avere dieci marchi e un pacchetto di sigarette poteva rimediare due chili di patate. Grazie ai soldi qualcosa s’aveva, perché in Albania ci pagavano e tutte le volte i soldi non c’era la possibilità di spenderli: quando ci fecero prigionieri i soldi i Tedeschi non ce li presero; come sottufficiale guadagnavo circa ottocento lecchi3, e arrivai in Germania con dei soldi, qualche cosa avevo. Ce li ritirarono dicendoci che ce li mandavano a casa, cosa che naturalmente non fecero, però qualcosa riuscimmo a nascondere. Allora io conobbi un Francese che si era fidanzato con la figlia di un panettiere tedesco, al quale qualche pane poteva sempre avanzare, e bastava che gli dessi o dieci marchi o un pacchetto di sigarette che lui mi arrivava con un filone di pane. Dopo sei mesi questo Francese fu mandato a Buchenwald e non l’ho più rivisto. Un giorno sono riuscito ad avere un filone per tutta la mia squadra. Natruralmente quando si rientrava era un problema portare il filone, ma d’inverno, specialmente con il cappotto e la pancia che non c’era più riuscivamo a nasconderlo sulla pancia. Non solo facevamo contrabbando con il Francese: quando era possibile nella nostra fabbrica di macchine utensili cercavamo di fare macchinette accendisigari, o il pettine di alluminio o qualche temperino. Con un accendisigari si rimediavano due chili di pane. Questi prodotti in genere ce li comravano i Tedeschi. Magari un Tedesco che lavorava accanto a noi: allora succedeva che l’accendisigari veniva visto da qualcuno e veniva chiesto chi l’aveva fatto, e un giorno venne il comando di fabbrica a fare una perquisizione, trovando degli accendisigari e pettini in costruzione. Emersero tre responsabili: uno si chiamava Alcide Menchi, di Modena, era stato caporeparto della FIAT; un altro era Mario Bergamaschi, di Milano, che io per fortuna rincontrai in una via di Winterthur in Svizzera, sembra strano, nel 1948, faceva il tornitore; l’ultimo era un certo Ferrari, di cui non ricordo altro. 2) KG era la sigla per Kriegsgefangenen, prigioniero di guerra, ma agli Italiani, per ordine dello stesso Hitler, non vennero riconosciuti i benefici della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra e furono classificati come Internati Militari Italiani, IMI. (N. d. C.)

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3) Lech, la moneta albanese. Dal 1939 l’Italia aveva occupato militarmente l’Albania, ma lo stato balcanico aveva continuato ad avere la propria moneta e le truppe italiane presenti venivano pagate in moneta locale. (N. d. C.)


Io fui chiamato dal comando di fabbrica, perché a me tra l’altro avevano affidato mansioni di interprete perché fra i cinquantuno che eravamo non c’era un Italiano che parlasse una lingua straniera. Io per fortuna mi difendevo bene in francese, ed ogni volta che c’era qualcosa chiamavano me. Anche quella volta mi chiamarono. Cosa potevo fare? Non avevamo altre possibilità per sopravvivere. Anch’io avevo le macchinette in costruzione, che non mi avevano trovato. Passarono alcuni giorni, sembrava che la cosa fosse finita lì, ma una mattina ci chiamarono nella sala riunioni, in una quarantina. Era il 18 o il 19 gennaio 1945. I tre dovevano subire una pena spaventosa ... il principale fece un discorso agli Italiani, che ogni volta che ci penso mi si accappona la pelle. Disse in Tedesco che con la legge marziale, che era in vigore, non c’era che la pena di morte. Io avevo già sostanzialmente compreso, poi parlò l’amministratore in Francese per farmi capire meglio. Dopo aver spiegato la condanna ai miei compagni domandai di poter replicare e con coraggio chiesi loro se avessero mai provato a lavorare settantadue ore e mezza alla settimana mangiando quello che mangiavamo noi e se avessero motivo di dirmi che queste macchinette accendisigari fossero state scambiate con pistole, prosciutti, salami o qualcosa del genere anziché con il pane. Inoltre aggiunsi che se quella era la loro destinazione desideravo che fosse anche la mia. Notai che erano stati colpiti dal mio discorso e feci la proposta di una punizione diversa anche perché i fatti non avevano nuociuto alla produzione (infatti quando uno di noi lavorava di notte, quando c’era minor sorveglianza che di giorno, poteva fare anche qualcosa di extra, ma doveva fare anche tutto il lavoro assegnato e non un pezzo in meno, ed era grazie alle nostre capacità che potevamo fare degli oggetti per noi). La mia controproposta di punizione fu accettata. La pena di morte fu trasformata in ore di lavoro straordinarie e marchi da pagare. Dettero a Menchi e a Bergamaschi cinquanta ore da recuperare e cinquanta marchi da pagare, il terzo fu condannato al pagamento di venti marchi e a venti ore perché ritenuto meno colpevole degli altri. Potevano pagare dei soldi perché dal 24 agosto 1944, ci avevano obbligato a dichiararci liberi lavoratori, anche se si stava peggio di prima, perché da prigionieri ci accompagnava la guardia a lavorare e se si arrivava tardi era colpa sua, mentre una volta dichiarati liberi lavoratori se si arrivava un minuto più tardi si saltava il pane. Però avevamo un po’ più di libertà la notte ed io una sera ne approfittai per andare al cinema, ma rientrai dopo l’appello ed il giorno dopo per punizione mi mandarono a scaricare un vagone di carbone in stazione. A noi ci davano prima due sigarette e mezza al giorno, successivamente due. Erano quelle che ci permettevano, se si aveva la forza di smettere di fumare, di rimediare qualche chilo di pane. La cosa è che la ormai la maggioranza aveva smesso completamente di fumare, tanto per dire di cosa riesce a fare un uomo. A me ormai mi consideravano come un capo perché lì eravamo tre sottufficiali, ma nessuno se la sentiva di far qualcosa per tirare avanti la baracca, perché se non ci si organizzava un po’ per noi era un manicomio, tanto e vero che nei primi giorni ci fu una confusione spietata. Cazzottate per una buccia di patata, per un torso di mela. I Tedeschi arrivavano lì e se c’era un po’ di disordine dicevano che finché non ci fosse stato ordine non distribuivano da mangiare a nessuno. Fui costretto a fare più di un padre di famiglia. Dovetti fare una lista perfino per la pulizia e dire oggi io ed un altro facciamo le pulizie e ci rendiamo responsabili per la distribuzione del mangiare, domani tocca ad altri e così via, perché bisogna dire che loro esigevano la pulizia veramente: bastava che su una finestra ci fosse un po’ di polvere che non ci davano da mangiare. 35


Una volta montati sui vagoni a Bitol a noi ci davano mezzo chilo di pane a testa ed una scatoletta ogni ventiquattro ore; però durante il tragitto nei Balcani a tutte le stazioni, sembra strano venivano Bulgari, Rumeni, a tutte le stazioni veniva gente con il pane, con un fazzoletto ci davano un chilo di pane, anche due. C’erano quelli che arrivarono in Germania con solo quello che avevano addosso, altri che avevano un po’ di più, perché negli otto-dieci giorni che restammo a Tirana molti avevano cercato di rimediare uno zaino decente, dato che la roba restava lì ai Tedeschi, nello zaino qualcosa in più dell’indispensabile si poteva mettere. Il mercato nero cominciò appena montati sul treno a Bitol, fino a quando non si arrivò in Germania. Perché precisamente noi si partì il 21 settembre da Tirana e si arrivo al 9° Campo in Germania il 10 ottobre. Sino al 24 agosto 1944 noi eravamo assolutamente prigionieri e ci davano moneta stampata su carta comune, denaro che potevamo spendere in luoghi stabiliti. però esisteva anche un mercato nero di questo denaro, perché io con dieci marchi di questa carta da quel Francese finito a Buchenwald riuscivo ad avere due chili di pane, e da ciò si capisce che c’era anche la possibilità di spenderli altrove. In quel periodo ci davano diciotto marchi al mese. Dopo il 24 agosto 1944 ci pagavano con denaro corrente e a quelli ritenuti bravi (cioè che erano operai qualificati) davano cinquantatré centesimi di marco all’ora. Io facevo l’aggiustatore-montatore e avevo cinquantatré centesimi l’ora, come i tornitori ed i fresatori, dicevano che era la stessa paga che davano ai Tedeschi. In tutti i campi generalmente cercavano uno che si assumesse le responsabilità verso i compagni. Per esempio arrivavano le sigarette e non erano i Tedeschi a distribuirle, ma cercavano una persona che si rendesse responsabile. Nel mio campo eravamo tre sottufficiali, ma nessuno voleva farlo. Ora, siccome di me avevano bisogno perché ero l’unico che poteva volgere anche la funzione di interprete, e di una persona che si assumesse le responsabilità ce ne era proprio bisogno, perché se non c’era disciplina non ci davano da mangiare, le responsabilità me le assunsi io. avevo solo le responsabilità, privilegi niente. Continuai a lavorare come gli altri, senza alcuna funzione di comando. Quando arrivammo al comando del 9° Campo, dal quale dipendevano centinai di Italiani, ci fecero fare il bagno, che consisté nel farci spogliare in una sala, farci passare in un’altra, dove un Tedesco, con un pennello da imbianchino lo tuffava in un liquido ci spennellava tra le gambe e sotto le braccia, facendoci saltare per l’aria dal bruciore, per poi dopo lavati, uscire dall’altra parte dove ci restituivano i nostri panni disinfettati, raggrinziti che sembravano cotti. Si rimase con la divisa militare: però io arrivai lì che avevo due paia di scarpe e uno me lo presero, avevo altra roba e me la presero, di due coperte me ne presero una: quando le scarpe furono finite ci diedero degli zoccoli che cercavamo di chiodare, perché era molto difficile averne altri. Ogni volta che uno era tutto sbrindellato ci davano qualcos’altro, molta roba francese, divise militari francesi, qualcuno ha finito la prigionia con qualcosa di italiano, ma la maggioranza, quando sono arrivati gli alleati al nostro campo, aveva poca roba italiana. A noi non fecero la riga in testa: Il primo giorno, quando siamo arrivati in fabbrica e mi hanno dato la tuta, è venuto un pittore con un pennello e ci ha scritto KG sei volte: al petto, alle ginocchia, alla schiena, in modo che quando ci si spostava, tutti avrebbero visto un Kriegsgefangenen, al quale era assolutamente proibito conversare con gli altri: tanto è vero che io per avere uno scambio di pane con il Francese dovevo 36


fargli una strizzata d’occhi a cinque metri di distanza, ed essere così intelligente da capire di seguirlo, senza farmi notare, quando lui andava al gabinetto con un filone di pane, per poterlo così trasferire dalla sua alla mia pancia per portarlo poi ad un ripostiglio affinché la sera potesse essere portato a destinazione. Nel mio campo soltanto uno è stato picchiato. Dall’ingegnere che era in fabbrica ... siccome quello che si uccise diceva che non ce la faceva più e non poteva lavorare così ... una sera fu chiamato e seriamente schiaffeggiato dall’ingegnere, che dopo la guerra, quando la mattina andammo in fabbrica lo trovammo in cima da una scala, i miei compagno volevano farlo precipitare giù, e io ho dovuto adoperarmi per farlo scendere salvo. La nostra fabbrica produceva macchine utensili per la produzione di munizioni; non c’era una volta che una macchina finita restasse lì più di due ore. Era distante cinquecento metri dalla stazione, che la vigilia di Pasqua del 1945 fu colpita dagli aerei che fecero esplodere tre vagoni di munizioni: noi in quel momento eravamo in prigione, perché mancava la corrente, e l’esplosione fece cadere tutti i vetri della prigione, e in fabbrica, a cinquecento metri di distanza, le gru caddero nei reparti. vicino c’era un cimitero, quello dove era stato seppellito il padovano e tutte le tombe furono ribaltate. Noi eravamo affidati al comando dei militari prima del 20 agosto 1944 e dopo al comando civile di Bad Salzungen. Veniva la polizia la sera e sorvegliava se c’eravamo, se mancava qualcuno. Di SS non se ne vedevano, che proprio dicessero di essere delle SS, anche quando venivano i civili chissà chi erano... noi portavamo la scritta KG, loro non portavano scritto SS, ne altre scritte. Come quando furono pronunciate le tre condanne a morte, le disposizioni erano sicuramente delle SS, o della polizia, perché quando venivano commesse delle infrazioni, come nel caso di cui ho già parlato, di quel Francese preso per il contrabbando, perché loro erano praticamente liberi, veramente internati4, lui fu mandato a Buchenwald. Sul vestito avevamo KG, senza triangolo, avevamo il numero, il mio era il 50021, ma senza triangolo. I documenti sono delle lettere che mandavano a me dal comando perché qualsiasi cosa che succedeva reclamavano con me, e io potevo protestare presso un recapito indicato. Avevo chiesto di avere qualche ora libera per sbrigare quelle incombenze, perché lavorare settantadue ore e mezza settimanali e dedicarsi ad altri problemi era oltremodo gravoso. Io alla liberazione questi documenti li avevo con me e li ho tenuti, ho anche l’indirizzo di una quarantina di miei colleghi. Fui liberato il 5 aprile 1945, pochi giorni prima c’era stata la Pasqua: alcuni giorni prima la fabbrica fu bombardata, non direttamente. furono colpiti tre vagoni di munizioni alla vicina stazione e la fabbrica fu danneggiata. La nostra prigione era a circa tre chilometri dalla fabbrica, e noi in quei giorni non si poteva lavorare perché si era rimasti senza corrente. Fatto sta che i cannoni si sentivano notte e giorno, e dalla mia prigione passavano continuamente colonne di prigionieri di tutte le nazionalità, perché i Tedeschi si ritiravano e portavano dietro i prigionieri. A noi ci faceva paura, perché aspettavamo che qualcuno delle SS venisse a portare via noi, perché dicevano che andavano tutti verso Berlino. 4) Gavazzi fa giustamente una precisazione della differenza di trattamento, da parte dei Tedeschi, tra gli Internati Militari Italiani, sottoposti ad un regime particolarmente duro ed i prigionieri di guerra degli altri paesi occidentali che avevano condizioni di vita improntate al forrmale e sostanziale rispetto della Convenzione di Ginevra 37


Io avevo organizzato una certa difesa: perché li portavano uno avanti ed uno in coda per i sentieri e mi sembrava che bastasse un po’ di decisione per fuggire, acciuffando ad un cenno quello davanti e quello di dietro per farli prigionieri. Quando il 5 aprile 1945 arrivarono gli Americani e vennero alla nostra prigione c’erano quelli che parlavano benissimo l’Italiano, simpatizzarono subito con noi prigionieri e, come ho già anticipato, nel vedere sul fuoco un pentolone con le rape ci chiesero se si avesse i maiali: quando seppero che le rape erano per noi ci portarono ad una villetta dove si erano acquartierati, ci portarono in una cantina, deve c’erano venti, trenta quintali di patate e ci autorizzarono a prenderle subito. Per noi fu il giorno del matrimonio, si può dire. Prima che arrivassero gli Americani ci fu un intenso bombardamento... Lungo la strada avevano fatto ogni cinquanta, cento metri una serie di garitte dove si sarebbe dovuto sistemare un soldato tedesco con un Panzerfaust, con il compito di tirare ognuno ad un carro armato alleato. Io conoscevo un Tedesco che aveva minato il ponte sulla Werra e un giorno quasi scherzando gli dissi: - Ma se ora fate saltare questo ponte chissà quante volte poi dovrete riattraversare il fiume a nuoto. - Lo dissi scherzando, ma la fifa ormai ce la avevano, anche perché arrivavano nugoli di aerei che li facevano diventare con la faccia bianca. Il 5 aprile 1945 finalmente arrivarono gli Americani, che cominciarono a darci un po’ da mangiare, poi si cominciò a cercarlo da noi. Alla fabbrica era rimasto un barroccino da poterci caricare dieci quintali di roba... Quando arrivammo in Germania a farci la guardia c’erano due sottufficiali ed un soldato: si tirava la cinghia a tutto andare e loro ci dicevano che bisognava diminuire la razione perché a Natale volevano fare da mangiare un po’ meglio, noi ci si sentivamo ringalluzziti perché per lo meno si aspettava il giorno di Natale per riempire la pancia, perché si pensava che quel giorno... Sennonché due giorni prima di Natale gli Alleati fecero un grande bombardamento sulla città di Kessel, dove sembra che siano decedute novantamila persone in un quarto d’ora, tra le quali anche i genitori del nostro sottufficiale, cosicché per Natale rimase solo il soldato e guarda caso questo soldato aveva la famiglia a cinquecento metri. Noi questo soldato lo si chiamava Austen, perché tutte le mattine era lui che veniva a darci la sveglia dicendoci:- Austen! -5. Arriva il giorno di Natale, il sottufficiale non c’era ed il mangiare fu forse peggiore degli altri giorni. I miei colleghi allora sì che rimasero avvelenati, di un veleno che penso, a quelli che sono ancora vivi, non sia ancora passato. Allora finita la guerra, un gruppo di noi disse: - Questa mattina andiamo a trovare Austen.-Ragazzi non andiamo- dissi io. -Tu devi venire, devi fare l’interprete.- e mi portarono. Si va dove stava Austen e si trova la moglie, che si mette a girare e non trova il marito. Parte un sardo e va a vedere se lo trova, perché in quel momento avevano paura di noi e lo trova nascosto dietro una porta. Lo tira fuori per la manica della camicia e gli dice: Noi si vuole la margarina che ci hai rubato per il Natale del ’43.5) Probabilmente il soldato tedesco gridava: - Anstengen!-, cioè alzatevi 38


A quello per poco non gli viene un infarto, nel vederci lì. -Via - dicevo a questi ragazzi - lasciatelo stare- ma non c’era verso. Corse tutto il paese, persino il sindaco, noi si diceva che non avevamo da mangiare. Il sindaco ci rimediò cinque, dieci quintali di patate e noi si partì talmente soddisfatti che pareva una festa. Però le patate a cinquanta persone bastarono poco e il comune ci mandava qualcosa in più da mangiare, ma era ancora molto poco. Così quando finimmo le patate s’andava in quei paesetti di campagna per chiederne delle altre. A chi ce le rifiutava dicevamo: -Se ce ne avete ve le paghiamo, se invece non ce le volete dare ve le prendiamo.Allora, vedendoci decisi in quattro e quattro otto trovavano le patate ed in molti casi non volevano neanche i soldi, purché non si tornasse. Così abbiamo tirato avanti qualche mese: poi un giorno venne l’ordine degli Alleati di concentrarci tutti a Meiningen. Vennero ci caricarono sui camion e ci portarono a Meiningen. Devo precisare, a questo punto che tra noi c’era uno, un amico milanese, che aveva la ragazza. Questo perché vicino al nostro c’era un campo, presso una scuola, con ventotto russe deportate e lui si era trovato la ragazza tra queste. Ci concentrarono tutti noi e le ventotto russe in una fabbrica a Meiningen in attesa del rimpatrio. Lì facevamo anche un po’ di baldoria, spesso si ballava. Dopo ci trasferirono in un altro posto a Eisenach, in una caserma di una quindicina di padiglioni di cinque o sei piani l’uno, dove potevano essere ospitate dieci, venti mila persone. Passati sette od otto giorni gli Americani si ritirarono a quattordici chilometri ed arrivarono i Russi che ordinarono di trasferirci nella zona americana. Dovevamo trasferirci a piedi, ma quelli che avevano famiglia potevano andare con un treno, che doveva servire per trasferire trecento tubercolotici da un ospedale lì vicino. Ora un certo Gaggioli di San Mommè, che aveva la famiglia con se, mi disse: - Io ho la moglie e la figliola, vieni con noi, se ci trovassero dici che sei il marito di mia figlia.- E così facemmo. Al confine tra le due zone di occupazione gli Americani ci fermarono. quelli che erano venuti a piedi non avevano dove andare. Avevano piantato dei teli nei campi di grano, con dei baracchini, perché pioveva a dirotto. Il treno stette fermo un giorno o due. arrivava sempre altra gente: si diceva che cercavano altre vetture per farci proseguire. Dopo tre o quattro giorni arrivò un altro treno, dovemmo trasbordare, ci sistemammo anche appesi fuori dai vagoni, abbiamo avuto anche dei morti, in quel viaggio. Io ci ho messo dodici giorni per arrivare a Prato. Fino alla stazione di Mitenval, che penso sia in Austria, abbiamo proseguito con quel treno, poi lì, la ferrovia era saltata tutta e ci hanno fatto il trasbordo sui camion, poi ancora in treno fino a Bolzano, quindi a Verona e poi ognuno alle proprie destinazioni. Io sono arrivato a Bologna con l’ultimo treno la sera del 16 luglio 1945. La mattina successiva sono potuto ripartire con il primo treno che veniva chiamato espresso. Da Bologna a Prato ci mise dodici ore, poi da Prato a Pistoia mezz’ora, tre quarti d’ora: a casa sono arrivato la sera alle 20,00 del 17 luglio. Dei miei compagni di prigioni ho saputo poi che due furono al ritorno ricoverati in ospedale, ma non ho saputo poi più nulla: quando sono arrivati gli Americani eravamo in quarantotto, assai denutriti, ma sani, perché nel campo c’era molta pulizia e non ci ammalavamo. Dopo la guerra con i Tedeschi ci ho vissuto altri venti anni come emigrato a Zurigo in Svizzera, dove 39


a Winterthur, come ho già accennato rincontrai per caso Mario Bergamaschi che era lì per operarsi allo stomaco, cosa di cui già soffriva quando eravamo prigionieri. Presi singolarmente i Tedeschi non sono così duri come in collettività: Perché la loro forza è che ognuno fa veramente come gli viene detto, non come in Italia. Noi anche in guerra non si vogliono ordini. Il Tedesco se viene messo a guardare un pollo lo guarda, perché l’ordine è quello: Noi ordini non si vogliono. A volte avremo ragione, ma a volte anche torto, perché alla carlona un capo non dovrebbe essere mai scelto. Non li trovo più intelligenti di noi, ma solo più pignoli.

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IDAMO GOTI, nato a Prato, il 29/1/1924. Appartenevo al 2° Artiglieria d’armata. Sono partito 20 maggio ‘43 per Alessandria, in Piemonte. Sono rimasto ad Alessandria e fatto prigioniero ad Alessandria l8 settembre ‘43, immediatamente dopo l’Armistizio. Io vidi subito una situazione parecchio grave, perché pur essendo alleati dei Tedeschi questi ci presero subito a cannonate. In cittadella d’Alessandria c’erano due reggimenti il 2° Artiglieria d’armata e il 37° fanteria, eravamo 30.000 soldati in caserma. L’8 settembre di punto in bianco verso le 10.00, noi si sapeva dalla sera che Badoglio aveva detto guerra finita, e s’aveva la speranza di andare a casa, ci fu un cannoneggiamento che ci spaventò in maniera terribile e ci furono diversi morti anche in caserma. Venne dato l’ordine di cedere le armi e entrarono i Tedeschi. Io mi resi subito conto che s’andava finire in un monte di male. E guardai se c’era modo scappare, ma non c’era più verso. La Porta Reale era già tutta bloccata, sui bastioni c’erano le sentinelle tedesche, non c’era più niente da fare. Allora feci un primo tentativo di fuga, ma c’erano più bravi di me, c’erano quelli del ’20, del ’19 erano persone più esperte, io ero una recluta imbranata. Ci furono una decina di morti con il cannoneggiamento tedesco sulla cittadella. Quando vidi entrare le autoambulanze per portare via questi morti, mi intrufolai per vedere se c’era modo squagliarmela, ma non ci fu niente da fare, perché quelli più anziani e s’intrufolarono loro e le portantine andarono fuori e se li riuscì…non ho saputo più niente. Il giorno dopo vidi una colonna di muli che gli portavano fuori ad abbeverare al fiume Tanaro. Perché avevano bombardato, non c’era più corrente, non c’era più niente e i muli avevano molta sete anche perché in quei giorni faceva caldo. Allora presi un mulo e m’accodai alla colonna per andare fuori. Per andare a farli abbeverare al fiume Tanaro bisognava passare dal centro della città e l’intenzione era quella di scappare. Con un occhio vigile davanti ed uno dietro, perché c’erano le sentinelle ogni 15 metri. Ad un certo punto lasciai il mulo, c’era un uscio aperto ed infilai in una palazzina, raccontai il fatto e il mulo andò dietro alla corrente, andò a bere e poi rientrò. Appena entro in casa una signora, io se la potessi ritrovare le bacerei le mani ed i piedi, subito pantaloni, camicia, scarpe, in 5 minuti da militare a borghese, roba anche loro non ne avevano da buttare via, i pantaloni erano corti ma insomma ero civile. Intanto riportano un’altra colonna di muli, perché muli e cavalli ce ne erano tanti, e un altro soldato fece lo stesso gioco che avevo fatto io, ma erano trascorse sei o sette ore. Questo era successo la mattina, nel pomeriggio venne quest’altra colonna. Ma lo videro e venne i tedeschi su per le scale, sembrava il finimondo, perché le prime parole di tedesco non si capiva più nulla, urli su quelle scale e tutto faceva pensare al peggio. Allora questa signora prese a braccetto me e quell’altro che era venuto dopo di me e diceva al soldato tedesco: - Questi miei fratelli che tornare da lavorare. - No, questo militare. - insomma ci riportano in caserma tutti e due. E lei con le lacrime agli occhi: - Io ragazzi ho fatto quello che ho potuto, perché vedo che la situazione è grave. Il terzo tentativo di fuga fu quando da Alessandria ci portarono a Mantova, dove formavano le tradotte. Quando si arrivò alla stazione di Parma, io ero su un carro bestiame scoperto, detti un’occhiata nella stazione e gli dico ad un ferroviere: - La mi dia il cappello - per camuffarmi un po’, e cercai di far perdere le tracce andando verso i binari morti, dietro i vagoni. Ma l’occhiata dei tedeschi vigili mi adocchiò e fui riportato sul carro a forza di spintoni e calci. Mi ributtano sul vagone che ci portò a Mantova. Lì ci si stette 41


un paio di giorni, formarono le tradotte, carri bestiame piombati e si partì per la Germania, anzi direttamente in Polonia. Dissi ho avuto l’intenzione di scappare tre volte a questo punto vado dove il destino mi porta. Perché nella notte dalla tradotta si sentivano tante cose. Si sentiva chi segava le sbarre per scappare, si sentivano i mitragliamenti e si diceva: - Qualcuno muore di sicuro. E allora io rinunciai e andai a finire in Polonia, di lì si fu immatricolati, tosati, disinfettati, ci fu dato la montura con l’iscrizione nel groppone e nelle ginocchia ‘Kriegfangen’ che vuole dire ‘prigioniero di guerra’ a lettere fosforescenti per farlo vedere anche di notte. Da questo campo che si chiamava Arnestei a venti chilometri da Danzica, che era un campo di concentramento di smistamento di lavoro, dove arrivavano le richieste di manodopera. Da lì si viene spostati ad Ankla, un paesino dalle parti di Stettino, in una fabbrica di zucchero. Non ci andò male, per essere i primi giorni, dissi: -Ma, un po’ di zucchero si mangerà, siamo a farlo. Ai primi di ottobre del ’43 s’era a lavorare in questa fabbrica, con un campo a parte per noi prigionieri. Il 9 ottobre viene un bombardamento e disfecero la fabbrica e ci furono anche diverse centinaia di morti tra la popolazione. Allora i prigionieri addetti ai lavori furono tutti messi a disposizione per lavorare alle macerie e per aiutare la popolazione, per una quindicina o venti giorni si lavorò alle macerie e a seppellire i morti, si fece lo scavo per una fossa comune dove si seppellirono cinque o seicento morti. Tutto a picco e pala. Poi la fabbrica in qualche modo riprese il lavoro e si ricominciò a lavorare nello zuccherificio fino a tutto marzo e aprile del ’44. Finito la campagna dello zuccherificio ci riportarono in un campo di concentramento chiamato Starga, dove siamo stati un paio di mesi. Tutti i giorni si veniva prelevati, portati alla stazione con il vagone addetto ai prigionieri, eravamo un centinaio ed andavamo a lavorare in un campo di aviazione vicino a Stettino. Dopo quando fu stabilito di fare un piccolo campo per noi, c’erano anche dei Francesi, si fu trasferiti in questo campo di aviazione, dal campo principale. Il mio lavoro consisteva nel fare mascheramenti, vale adire piste di atterraggio e capannoni e mascherarli, con un’impresa tedesca appaltatrice. In questo campo ci siamo stati fino ai primi di marzo del 1945, quasi un anno. E le mansioni erano stabilite da ciò che avevano bisogno, sono stato anche a caricare bombe sugli aerei. Ma era un campo piccolo da addestramento, ho visto tanti di quei ruzzoloni, perché addestravano gli allievi. Ho visto tanti apparecchi cappottare. Ma negli ultimi tempi sfruttavano anche questo piccolo campo per andare a bombardare, perché eravamo vicini al fronte, tanto è vero che noi si caricava le bombe e si vedevano ad occhio nudo andare a bombardare e tornare indietro a ricaricare. Ai primi di marzo del 1945, che il fronte era vicinissimo ci fanno sfollare, ci portano via con loro, come la popolazione. Di noi prigionieri si servivano per fare tutto quello di cui avevano bisogno i militari, trincee, camminamenti, sbarramenti e loro comandavano. Non ci arrivava dare più da mangiare, ci potevano dare quattro o cinque patate lesse il giorno, perché oggi eravamo qui domani potevamo essere a venti chilometri e così via, spogliare non ci si spogliava più, lavare non ci si lavava più, perché eravamo in prima linea. Eravamo più di trecentocinquanta Italiani e c’erano anche duecento Francesi. Il 1° maggio del 1945 si videro sparire le guardie, il fronte era imminente. Saranno state circa duecento guardie e sparirono e ci lasciarono in mezzo alla campagna, nel giro di un’ora iniziarono a passare tanti di quei carri armati russi che io restai sbalordito, perché la guerra continuava, finì l’8 maggio. Allora ce ne erano tanti, di questi mezzi corazzati, che le strade erano gremite di questi mezzi. Fino al 20, 25 maggio rimanemmo liberi a giro per la campagna. I Russi si fermavano vedevano che eravamo Italiani 42


e ci dicevano di tornare a casa. Senza nessuno che ci diceva dove andare, per mangiare andavamo nelle grandi tenute, grandi fattorie, che erano state abbandonate, dove potevamo trovare patate, galline, perché avevano lasciato tutto, anche il bestiame era abbandonato. Eravamo sei toscani, io presi due cavalli, s’attaccò un carro a quattro ruote, perché non potevamo a piedi e si cominciò a fare strada, circa venti chilometri il giorno, la sera si faceva sempre tappa in queste fattorie, si mangiava, si sistemava i cavalli, si mettevano al fieno, se c’erano dei cavalli che erano perdevano dei ferri si sostituivano con altri animali. Ma non era possibile tornare a casa così, non c’era verso. Noi si diceva sempre: - Per Berlino - s’arrivava sulle strade, sull’autostrade si trovava altri Italiani che andavano nella direzione opposta che ci dicevano che andavano a casa - Anche noi - rispondevamo. Finchè dopo ad un posto di blocco i Russi ci dissero che noi Italiani dovevamo presentarci ad un determinato campo di concentramento in attesa del rimpatrio. E infatti, la fu la mano di Dio, perché il rischio che si correva anche per procurarci il cibo. Mi sono trovato ad entrare in qualche casa per cercare qualcosa, un filone di pane, e trovarci dei soldati affettati a vanghettate, perché tra la popolazione succedevano queste cose. Allora si va a questo campo di concentramento e ci si presenta con i cavalli, perché chi rientrava con i trattori, chi con le motociclette, chi con le biciclette, insomma in questo campo eravamo sette, ottomila in attesa del rimpatrio e ci si sta fino alla metà di ottobre. Tornai alla fine di ottobre, ad un certo punto formarono le tradotte per l’Italia e si rientrò. Ma la cosa più tragica furono i due mesi da marzo al 1° maggio, perché ci spostarono insieme a loro per fare tutti i lavori umili di cui avevano bisogno e allora né più da mangiare, né più da bere, né più da lavarsi, più niente e i bombardamenti sempre sopra, sempre sopra.

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TORELLO LIPPINI, nato a Luciana, frazione di Vernio, nel 1921. Mio padre lavorava alla costruzione della Direttissima, la mamma era casalinga. Sono partito a 20 anni per il servizio militare di Leva, era il 12 gennaio del 1941. Fui mandato a Treviso a fare il CAR. Dopo 40 giorni, fui trasferito a Santo Stefano di Cadore nella 2a Compagnia, Battaglione Cadore, Divisione Julia degli Alpini. Il 24 luglio del 1942, a scaglioni partimmo per la Russia. Eravamo armati di mitragliatrici e mortai da 81 e il moschetto con i caricatori. Eravamo vestiti con un cappotto foderato di pelliccia di agnello, ai piedi, zoccoli foderati di pelliccia, la pelliccia ci arrivava fino ai ginocchi, mentre i soldati tedeschi avevano gli stivali di cuoio. Si combatteva sul Don, per aiutare i tedeschi a ritirarsi. Noi soldati Italiani si faceva la resistenza. Era il 19 novembre del 1942, in quel combattimento io rimasi ferito. Eravamo tre caporali maggiori, due morirono. Uno si chiamava Bergani Aldo e l’altro Fontana Elio, erano tutti e due di Santo Stefano di Cadore. A Elio diedero un mese di licenza per andare a sposarsi, la moglie rimase incinta. Il figlio non ha conosciuto il babbo. La moglie Ada, finita la guerra, si recò in Russia, girò per tanti uffici alla ricerca di notizie ma non ricevette nessuna risposta, solo che era stato dichiarato disperso. Prima di Natale del 1942 tutto il battaglione fu sterminato, morirono tutti. Io mi salvai perché ero rimasto ferito, mi rimpatriarono all’Ospedale Militare di Vicenza. Quando fui guarito mi mandarono a fare servizio sedentario sulle tradotte militari da Mestre ad Atene in Grecia. Si riportava i militari ai loro reggimenti o reparti, al ritorno si riportava in Italia i soldati feriti, diretti ad Ospedali o per la convalescenza, alcuni che andavano a casa in licenza. Questo seguitò fino al 25 luglio del 1943, con la caduta del fascio. Quando l’8 settembre Badoglio annunciò l’armistizio io mi trovavo a Magliano Veneto. Un colonnello ci disse: - Ragazzi siete liberi! Non si sa più chi comanda, tornate a casa. Eravamo 800 soldati del battaglione di scorta treni e servizio di cucina, tutti allo sbando. La metà scapparono subito, gli altri il 12 settembre, fra i quali io con altri tre compagni toscani, uno era di Siena, uno di Borgo San Lorenzo e uno di Malmantile. Partimmo a piedi e si attraversò il Po al Ponte delle barche, ci avevano avvertito che i tedeschi non c’erano in quel punto del fiume. Diverse famiglie caritatevoli ci aiutarono, dandoci degli abiti civili e qualcosa da mangiare, a volte nei campi si trovavano delle mele o uva, ma la fama era tanta. Si dormiva in terra, oppure in qualche fienile, i piedi ci sanguinavano, le scarpe le avevamo finite. Arrivai a Luciana il 16 settembre del 1943, quando la mia mamma mi vide, non credeva ai suoi occhi, mi credevano morto, era tanto che non avevano mie notizie. Non volli più sapere di guerra, andai a lavorare alla macchia a far carbone al posto del mio babbo, ormai anziano, nei boschi della fattoria delle suore di San Cresci a Borgo San Lorenzo. Quando passavano i partigiani, eravamo diversi boscaioli, cercavamo di aiutarli come si poteva, salvammo anche un soldato inglese. Finita la guerra andai a lavorare in fabbrica a Prato dal Ricceri, in bicicletta, con il bello e il brutto tempo, da Luciana a Coiano dove si trovava la fabbrica.

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Torello Lippini in divisa da alpino. Foto scattata nel 1943, quando, tornato dalla Russia, furono restituite le divise con la mantella e ritirate quelle con la pelliccia di agnello e gli zoccoli. 45


MAURO MONTINI, nato a Prato, il 27 aprile 1922. Nel 1942 avevo vent’anni e sono stato richiamato sotto le armi. Era un momentaccio perché l’Italia era in guerra dal 1940. Sono partito di notte, dalla stazione centrale della mia città, Prato. Destinazione Castiglion del Lago, in Umbria dove mi hanno assegnato al corpo degli avieri per il ruolo specialisti e vestito da militare mandato a Roma: Forte Boccea, nelle vicinanze di piazza Vescovio e poi al Centro di Istruzione di Centocelle Sud. Dopo un periodo di addestramento con altri militari, sempre dell’aviazione, siamo stati trasferiti a Napoli per andare al fronte in Africa. Tutto era già predisposto per la partenza da Capodichino, quando improvvisamente, per me, giunse da Roma un contrordine. Fui richiamato indietro e tornato a Roma fui trasferito al Ministero dell’Aeronatica, di stanza stabilmente all’aeroporto di Guidonia, quale meccanico specializzato, (mi ricordo ancora l’indirizzo di posta militare: R. Aeroporto 358 5.G.1 PM 3300). Qui avevo un banco di lavoro con tanti arnesi del mestiere, tutto per me, timbravo il cartellino e il lavoro che facevamo ci veniva pagato, mi pare venti o cinquanta centesimi l’ora, però non ricordo bene. Il contr’ordine per me, al momento della partenza da Napoli, era dovuto all’intervento di Curzio Malaparte, “fratello più che di latte” come lui si definiva, di Ofelia, mia mamma, figlia maggiore di Milziade Baldi, quindi mio nonno e balio di Curtino. Dopo un breve periodo di tempo, mi levarono da quel lavoro e, sempre alle dipendenze del Ministero, ebbi l’incombenza di trasportare una piccola scatola di legno o un pacchettino, da Roma alla Piaggio di Pontedera, industria di aeronautica dove venivano fatte variazioni particolari di parti di aerei militari. Da quel momento trascorsi il mio servizio militare in treno, nei viaggi da Roma a Firenze-Pontedera e viceversa. Naturalmente, tra l’andata e il ritorno, trovavo sempre il modo di fermarmi a Prato dai miei genitori. Quando arrivavo a Pontedera, consegnavo il pacchettino per le modifiche all’ufficiale addetto e col suo consenso potevo trascorrere qualche giorno con i miei. A volte dovevo aspettare il pezzo modificato e riportarlo. Ma appena rimettevo piede in caserma, trovavo belle e pronto un altro pacchettino e dovevo ripartire. L’8 settembre 1943, alla notizia dell’armistizio di Badoglio, ero a casa e decisi di restarci. Con i miei genitori, lo zio Faliero, Clara la moglie di Alessandro Suckert, fratello di Curzio Malaparte, eravamo sfollati alle Coste vicino a Villa Fiorita. Sapevo dei Partigiani sui monti, e qualche volta mi veniva l’idea di andare con loro, ma i miei genitori erano contrari, soprattutto la mamma che si metteva a piangere. Così ho trascorso il resto della guerra nascosto nei tombini, per sfuggire ai tedeschi e cercando di rendermi utile nei modi possibili alla comunità di cui ero parte. Anche da sfollati abbiamo assistito, sia pure di riflesso, ad episodi sconcertanti come: i frequenti bombardamenti alla città, le retate da parte dei tedeschi di civili e le deportazioni nei lager in Germania, l’atroce episodio dell’impiccagione , a guerra ormai quasi finita, dei Martiri di Figline. Tra questi un mio carissimo amico Santino Grassi. Lui, è quello che riuscì a salvarsi perché si spezzò la corda o perché seppe approfittare della confusione generata dall’improvviso scoppio di una bomba, c’è chi dice una cosa e chi l’altra. Comunque, nella corsa per fuggire, infilò la porta aperta di una casa con in fondo al corridoio una finestra, aperta anche quella, dalla quale il “disgraziato” saltò nei campi riuscendo a nascondersi e a scamparla. Queste cose me le ha raccontate Santino, poi morto in un incidente. 46


A fine guerra, siamo tornati nella nostra casa, in via Santa Trinita, perché l’abitazione non aveva subito grossi danni. In città invece le rovine erano tante, ma tutti avevamo una gran voglia di ricominciare, eravamo contenti di averla scampata e di essere liberi. Lo zio Faliero ripeteva di sentirsi un re: finalmente libero dalla paura di essere picchiato, messo in carcere, confinato, come gli era più volte successo durante il fascismo, essendo lui un antifascista schedato. Io, invece andai subito a lavorare da Alessandro Suckert, in piazza Mercatale, inizio via San Bartolomeo, dove prima della guerra, facendo il rappresentante di materie prime per le filature, aveva un ufficio e un magazzino. Dopo la guerra si mise in proprio, con il mio aiuto, a fare corde e cordette, sempre per le filature. Mi ricordo che i macchinari per le cordette si comprarono in Germania, perché in Italia ancora non c’erano, invece quelli per le corde furono comprati a Monza e da me modificati per adattarli alle nostre necessità di lavoro.

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Foglio matricolare dell’aviere Mauro Montini. 48


Cartolina di Guidonia, nel cui aereoporto svolgeva il servizio militare Mauro Montini. La cartolina fu spedita alla madre. 49


Mauro Montini in divisa da lavoro. 50


SESTILIO MONTINI, nato a Montale (Pistoia), il 1 giugno 1923. Sono stato richiamato alle armi a diciannove anni nel 1942 e sono stato destinato a Viterbo, alla Scuola Paracadutisti. Terminato l’adestramento sono stato mandato in Sicilia, con tutto il mio reggimento per fronteggiare lo sbarco degli americani. In seguito ho fatto tutta la ritirata, dalla Sicilia, per far ritorno a casa. Con mezzi di fortuna sono riuscito a far ritorno a casa e ritrovare la mia famiglia. Quando arrivai a Livorno riuscii a salire su un treno, fino a Pistoia, da dove raggiunsi casa mia a Montale. Rientrai il 10 settembre del 1943. Sono stato fortunato, perchè tutta la Divisione Nembo, di cui io facevo parte fu completamente decimata da un bombardamento degli americani. Io mi salvai perché mi venne la febbre. Un tenente, originario di Lucca, mi consigliò di risalire il continente con mezzi di fortuna, mi fermavo alle case e le persone mi aiutavano come potevano cibo e molti mi davano lettere da impostare per i figli militari in alta Italia, mi davano anche i soldi per i francobolli, questo per essere sicuri che io le impostassi. Tornato a casa non mi sentivo sicuro, così mi rifugiai a Sarchiano, in Maremma. I miei genitori erano a far carbone nei boschi. Il padrone per cui lavoravano, si chiamava Brogelli ed era fascista, seppe che io mi ero rifugiato, ed io dovetti scappare, insieme ad un amico che aveva la mia stessa età. Feci ritorno a Tobbianella e rimasi nascosto nei boschi fino alla Liberazione. Questo perché i Tedeschi e i fascisti cercavano i giovani che non si ripresentavano alle armi.

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SEVERINO MORGANTI, nato a Castiglione de’Pepoli (Bologna), il 9 agosto 1921. Sono partito per il militare a diciannove anni e mezzo nel gennaio del 1941, come tutti quelli della mia classe. All’inizio sono stato destinato a Verona al Genio Minatori. Dopo i tre mesi di addestramento ci hanno trasferito in Jugoslavia, in Slovenia prima a Postumia e poi a Lubiana. Da qui siamo stati spostati nel Montenegro, nella zona di Cattaro, dove c’era un importante porto militare, le cosiddette Bocche di Cattaro, che era difficilmente attaccabile dal mare, ma che noi dovevamo proteggere dagli attacchi partigiani che potevano arrivare dalle montagne subito aridosso del porto. Eravamo di stanza in un forte a Langatica e per questo servizio ho anche ricevuto un encomio solenne. Successivamente fui trasferito a Spalato, dove facevo il centralinista. Nonostante questo incarico della fine della guerra l’ho saputo perché sono stato avvisato dalla ragazza slava di cui ero innamorato. Nel frattempo tutte le varie compagnie dislocate nelle vicinanze rientrarono a Spalato, dove tutti insieme fu deciso di combattere contro i Tedeschi. Ci unimmo ai partigiani Jugoslavi e per quindici giorni, combattemmo contro i Tedeschi. Dopo quindici giorni io ed alcuni altri fummo catturati ed iniziò il nostro Calvario. Fummo portati attraverso le montagne jugoslave a Zagabria, il viaggio durò trenta giorni che trascorremmo continuamente camminando a piedi, e senza mangiare. A Zagabria fummo fatti salire su un treno piombato che ci portò in Germania dove arrivai il 1° novembre del 1943. La prima destinazione fu vicino ad Achen in Bassa Sassonia, alla cui stazione fummo fatti fermare. Più precisamente fummo assegnati alle miniere di carbone di Lisdolfer. Il nostro gruppo fu assegnato al turno di notte. Il lavoro nella miniera era molto duro, specie per chi non era abituato a lavorare sotto terra. Io avevo lavorato da ragazzo ad undici, dodici anni, alla Direttissima nella costruzione della stazione sotterranea di Ca’ di Landino, ed ero per questo un po’ abituato. Il nostro gruppo faceva l’avanzamento della miniera ed era un lavoro duro e rischioso. Cioè facevamo, scavando a mano, un piccolo foro di circa cinquanta centimetri, nel quale venivano poi piazzate le mine per avanzare. Ciò era molto rischioso e avemmo anche diversi incidenti, mi ricordo un caro amico, Bargazzini, che morì schiacciato per il crollo dell’armatura della galleria. Ricordo anche un altro di Pesaro che fece la stessa fine. C’era poi il fatto che noi Italiani eravamo discriminati dagli altri prigionieri, perché eravamo stati alleati dei Tedeschi e allora Francesi, Russi, Polacchi ci sputavano addosso e spesso facevamo anche a botte. In miniera ci sono stato dieci mesi, poi dopo lo sbarco alleato in Normandia ci spostarono verso l’interno della Germania. Il viaggio fu spesso interrotto da devastanti bombardamenti. Finalmente io arrivai, in treno, con alcuni compagni in quella che ora è la Repubblica Ceca e fummo assegnati ad un posto vicino Praga, una grande abetaia in montagna. Qui fui assegnato ad un particolare lavoro quello di fare l’avvistatore di aerei durante i viaggi notturni che i Tedeschi facevano per rifornire le loro truppe impegnate sul fronte russo. In pratica io dovevo stare disteso sul cofano di un camion e dovevo avvisare il conducente quando si vedevano in cielo degli aerei. Questi viaggi si facevano sempre di notte per evitare maggiori pericoli ma era lo stesso un compito assai rischioso, non solo per me, ma anche per il conducente del camion. Avevo la Carta di Lavoro n.° 2494. Alla fine di febbraio del 1945, quando il fronte orientale era già molto vicino, il conducente del camion 52


a cui ero affidato mi fece fuggire, forse per evitare anche lui di rischiare la vita in quei continui viaggi notturni. Fuggimmo io ed un altro compagno di prigionia, il conducente tedesco mi aveva dato anche un grosso pacco di tabacco dicendomi che vendendolo alle varie fattorie della zona avrei trovato cibo ed ospitalità, perché il tabacco era raro e molto prezioso, in quelle circostanze. Ed, infatti, fu così. Per circa quaranta giorni siamo stati alla macchia, avvicinandosi per quanto era possibile al confine italiano. Poi all’arrivo delle truppe russe continuammo il viaggio seguendo il fronte verso l’Italia ed il 7 maggio del 1945 eravamo a Zolanzo ad ottanta chilometri da Tarvisio. Da qui in cinque giorni riuscii ad arrivare a Castiglione dei Pepoli, passando da Udine a Mestre da dove prosegui per Forlì poi Imola ed infine Bologna, facendo parte del tragitto a piedi, parte in treno ma soprattutto utilizzando mezzi di fortuna.

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ITALO NARDI, nato a Pistoia, il 5 ottobre del 1920. Sono partito per il militare il 13 marzo del 1940, quando l’Italia non era ancora entrata in guerra, con destinazione Messina, ero soldato semplice. Dopo sei mesi sono stato mandato in Albania, ed ho partecipato alla guerra di Grecia. Sono iniziati subito i combattimenti, eravamo alleati dei Tedeschi e si combatteva contro i Greci. Nella mia compagnia ci sono stati molti morti e feriti. Addirittura il primo giorno sette morti. Il mio battaglione combatteva con i soldati tedeschi di cui eravamo alleati. Siamo stati costretti dall’esercito greco a ritiraci fino al porto di Durazzo, in seguito sono arrivati rinforzi di truppe tedesche e abbiamo ripreso l’avanzata. I Greci quando vedevano le camice nere le ammazzavano, mentre ai soldati italiani non facevano ritorsioni. Terminate le ostilità con la Grecia eravamo in zona d’occupazione, ci siamo rimasti per due anni. Dopo l’8 settembre, siamo stati fatti prigionieri dai Tedeschi e mandati in un campo di concentramento in Germania. Il viaggio fu lungo, eravamo chiusi nei vagoni del bestiame, non si mangiava quasi niente, io mi ridussi a quaranta chili e mio fratello Armando, che avevo ritrovato ed era insieme a me, stava molto male, pesava solo trentacinque chili e non si reggeva in piedi. Dopo tre mesi di grandi sofferenze e di patimenti, (la fame ci divorava, vivevamo nella sporcizia, avevamo tutti i pidocchi) ci fecero rientrare in Italia. Fu un viaggio infernale, con mio fratello ci siamo persi e ritrovati a casa. Mio fratello fu mandato all’ospedale, dove rimase per lungo tempo, per la convalescenza fu ospitato in una casa di contadini dove il cibo e l’aria buona lo rimisero in salute. Sono rientrato a casa nel luglio del 1945, da allora, fino all’ età della pensione ho lavorato nella cementizia di Santomato a Pistoia.

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La tessera di prigioniero di Italo Nardi. 55


SORIANO PANCANI, nato a Quarrata (Pistoia), il 26 agosto 1923. Mi sono arruolato volontario nella Pubblica Sicurezza ed ho frequentato la Scuola Militare a Caserta. Al termine della Scuola Militare fui trasferito come agente di Pubblica Sicurezza a Catania, per svolgervi il mio servizio. Era il 1942 e i bombardamenti erano frequentissimi. Quando suonava l’allarme dovevamo attuare il servizio d’ordine; consisteva nel controllare, dopo il segnale del cessato allarme, che annunciava la fine dei bombardamenti, dove si trovavano i feriti e anche i morti, oltre a sorvrgliare che gli sciacalli non andassero a rovistare fra le macerie causate dalle bombe per rubare. Per noi soldati era una gran sofferenza aspettare l’arrivo delle unità di soccorso chiamate UMPA, fra le macerie con le urla dei feriti e delle persone che si trovavano sotto cumuli di detriti. Coloro che facevano parte dei soccorsi, erano persone anziane, ausiliari vestiti da soldati. Il tempo di recupero dei cadaveri era lungo e c’era un gran puzzo di putrefazione. Era una gran paura e tanta sofferenza per noi soldati dover agire sotto i bombardamenti. In seguito fui trasferito alla questura di Caltanisetta, qui si faceva servizio a piedi, perché non avevamo mezzi. Fui fatto prigioniero dagli inglesi della 5a Armata e fui assegnato, sempre nel servizio di Pubblica Sicurezza, alla viabilità delle truppe di Liberazione a Catania. Nel 1944 feci ritorno a Caltanisetta, verso la fine dell’anno fui congedato. Finalmente dopo un viaggio avventuroso, autostop e molto a piedi, durato venti giorni feci ritorno a casa. Nel 1945 trovai lavoro, mi sono fatto una famiglia ma il ricordo della mia gioventù rubata dalla guerra è rimasto nel mio cuore. Dal 1958 vivo a Montemurlo, dove ho sempre lavorato.

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Soriano Pancani in divisa di agente di Pubblica Sicurezza nel periodo bellico. 57


PARISIO PINI nato a Migliana, Comune di Cantagallo, il 3 agosto 1919. Sono nato in una famiglia di contadini a mezzadria, andai militare nel marzo del 1940, con destinazione Trento all’11° Reggimento Alpini Battaglione Trento, 144° Compagnia B (l’indirizzo era Posta Militare 206). Quando è scoppiata la guerra, mi trovavo a Col di Lavigne, passo delle Cavalle Cuneo, Valle Stura. Il 10 giugno del 1940 ci fu la dichiarazione di guerra. Il 25 giugno dello stesso anno i Francesi firmarono l’armistizio. Siamo rientrati a Cuneo passando da Boves e siamo stati condotti in Val Pusteria a Brunico, con tutta la divisione. Il 30 novembre siamo stati portati a Trento per partire per l’Albania. Per sei mesi abbiamo combattuto contro la Grecia, fino al 23 aprile 1941. Tra morti e feriti siamo stati decimati, del nostro battaglione eravamo rimasti una cinquantina. Nel mese di agosto del 1941, arrivò l’ordine per il rimpatrio, ma scoppiò una rivolta nel Montenegro fatta dai Partigiani di Tito, contro i Tedeschi e gli Italiani che avevano invaso la Jugoslavia. La divisione Alpini Pusteria fu inviata a combattere contro i Partigiani di Tito per liberare il Montenegro. Non si poteva nè catturare nè sparare se i Partigiani oppure i civili non erano armati. Il battaglione Trento riuscì a liberare il territorio. Successivamente siamo stati rimpatriati a Bussoleno in Val di Susa. Eravamo ben equipaggiati e il cibo era piuttosto abbondante. Quando sono sbarcati gli Alleati in Algeria e Marocco, era l’8 novembre del 1942, abbiamo occupato la Francia fino al Rodano. I Francesi non si sono ribellati e non abbiamo mai sparato. Quando eravamo in libera uscita a Grenoble si trovava da conversare e non ci mancavano le ragazze. Tutti gli spostamenti avvenivano su treni merci e carri bestiame. Con l’Armistizio dell’ 8 settembre si sarebbe dovuti rientrare in Italia, ma i Francesi ci fecero prendere prigionieri dai Tedeschi e fu la milizia fascista a dare l’ordine di non sparare e di abbandonare le armi. Eravamo circa ottocento fra soldati e ufficiali del battaglione Trento. I Tedeschi ci considerarono prigionieri di guerra. L’Alto Comando Tedesco considerandoci prigionieri di guerra ci fece scegliere: collaborare e continuare a combattere a fianco dei Tedeschi oppure lavorare e restare prigionieri. Solo uno di noi accettò di collaborare con i Tedeschi. Tutto il battaglione fu trasferito in un campo di concentramento a Salon de Provence. Si lavorava a ripulire il campo di aviazione (di fortuna) dalle pietre. Avevamo sempre la divisa e a me mancava il cappello degli alpini, la milizia fascista per spregio me l’aveva preso quando avevo detto che non accettavo di collaborare. Il mangiare era schifoso, caffé amaro e una brodaglia dolce per minestra. Fu reclamato, allora presero due prigionieri italiani per preparare il rancio all’italiana, ma era sempre immangiabile. Nel mese di novembre del 1943 tutti i prigionieri del 6° plotone furono inviati a Mont de Marson nelle Landes. I Tedeschi ci facevano tagliare e sbarbare i pini per fare piste di atterraggio per gli aerei. I bombardamenti erano frequenti e si intensificavano di notte. Ai primi di gennaio del 1944 alcuni incaricati del comando tedesco passarono a controllare noi prigionieri per vedere come lavoravamo. Quelli più bravi, attivi e cattolici furono portati a visitare il Santuario di Lourdes, furono solo dieci compreso me. Il viaggio fu effettuato su un treno viaggiatori da Bordeaux a Lourdes. Io riuscii a fuggire durante quel viaggio: chiesi di andare in bagno e mi buttai dal treno quando rallentò per entrare nella stazione di Corsadi. 58


Mi arruolai nella Resistenza francese, si combatteva contro i tedeschi, nelle file della quale rimasi fino alla liberazione della Francia. Durante il periodo della Resistenza conobbi la mia futura moglie Ida Vettorelli. Il nostro è stato un amore di guerra. Ida era emigrata in Francia nel 1925 con tutta la sua famiglia, quando aveva solo cinque mesi . La sua famiglia mi aiutò durante gli anni passati in Francia e il nostro amore nacque nella miseria e nella paura, ma è stato un amore durato tutta una vita. Rimpatriai il 12 maggio 1946 con la moglie Ida Vettorelli ed il figlio Giulio di due mesi e mezzo. Mio fratello Luigi era nato nel 1922, fu richiamato il 14 maggio 1942 ed assegnato all’artiglieria contraerea. Nel 1942 fu mandato in Russia e risulta disperso sul fiume Don.

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Un’immagine del fronte francese dove, nel giugno 1940, era Parisio Pini. 60


Luigi Pini, fratello di Parisio, disperso in Russia nerl 1942.

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RENATO POLIDORI, nato a Montemurlo, il 27 aprile del 1922. Mi arrivò la cartolina di leva nel 1942. Fino al luglio rimasi a Firenze nella Divisione Firenze. Successivamente Fui trasferito in Macedonia ad un ospedaletto da campo, il n.° 839, facevo parte della Sanità. L’8 settembre mi trovavo ad Elbasan in Albania. Gli ufficiali prima ci dissero che si ritornava in Italia perché la guerra era finita, invece ci misero tutti in colonna con altri reparti di soldati italiani. Facemmo tutta la strada a piedi dall’Albania alla Bulgaria. Avevamo solo qualche galletta per mangiare, ci si fermava ogni trentacinque, quaranta chilometri e se si aveva la fortuna di trovare una fonte era festa perché la fame e la sete erano grandi. Arrivati in Bulgaria gli ufficiali italiani ci consegnarono ai Tedeschi che ci presero come prigionieri e ci disarmarono. Dopo qualche giorno ci caricarono su vagoni bestiame, senza mangiare, tutti pigiati, per la sete quando il treno si fermava alle stazioni si alzava la borraccia per farsela riempire dalla pompa che riforniva la motrice del treno. Quell’acqua fu la nostra salvezza in quel tragico viaggio durato dieci giorni e indici notti, senza potersi mai distendersi. Per fare le necessità corporali era un problema ed eravamo pieni di pidocchi. Arrivammo a Dusseldorf in Germania e, per arrivare al campo di concentramento, stremati e affamati facemmo dodici chilometri a piedi. Sul cancello del campi una scritta con questa frase “Perdete ogni speranza voi che entrate”. Era la pubblicità per indurre i soldati a collaborare con i tedeschi. Prima di entrare ci presero tutto, orologi, scarpe, portafogli, tutto quello che aveva un certo valore. Si iniziò a lavorare nel campo, si dormiva sulle tavole con una copertina, per riscaldarsi si dormiva in due con una coperta sotto ed una sopra. Per mangiare un pane di due chili per sei prigionieri, qualche patata e una brodaglia di cavolo. I lavori erano: sotterrare le patate nelle fosse che poi venivano ricoperte con paglia e terra e il Volga – Volga, che consisteva nel portare via il bottino su un carro grande trainato a mano da otto persone e rovesciare il contenuto puzzolente in un campo dove c’era tanta mota. A febbraio 1944 feci la domanda, pur essendo nella sanità, di poter andare a lavorare in una polveriera esterna al campo dove si costruivano dei capannoni per deposito di bombe, speravo che il lavoro fosse più leggero e il cibo migliore, ma non fu come speravo, il lavoro era duro e il mangiare pochissimo e cattivo. Il 27 aprile del 1945, era il mio compleanno, arrivarono le truppe inglesi e ci liberarono: dalla fame assaltammo le cucine e così ci siamo sfamati. Appena arrivati in Italia salimmo sui vagoni merci, al Brennero ci diedero tre mele. Dalla grande emozione non riuscivo a scendere dal treno. Arrivai a casa il 18 agosto dopo varie peripezie, trovai la mia famiglia salva e la gioia più grande, la mia fidanzata che mi aveva aspettato e in seguito diventò mia moglie. Io non avevo più avuto notizie di lei e neppure della mia famiglia, i miei sogni di ritornare a vivere una vita normale in pace si stavano concretizzando.

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Una foto in divisa, scattata in uno studio fotografico, di Renato Polidori. 63


ELIO RINALDO, nato a Chioggia (VE), il 17 agosto 1920. Appartenevo al 1° Granatieri di Sardegna, classe del 1920. Per andare al fronte in Albania si partì da Roma, dove era di stanza il nostro reggimento e ci aggregarono al 3° reggimento Granatieri, che era stato decimato in Albania durante la prima fase della guerra nei Balcani L’Albania la raggiungemmo via mare. Si sbarcò a Valona, si passò la prima notte nelle vicinanze di quel porto, poi, il giorno dopo, ci portarono sulle prime linee verso il Goico e si venne accampati, un po’ alla meglio, su questa montagna. Poi, solo dopo due giorni, ci fu l’attacco dei Greci e noi si contrastò, s’andò avanti anche noi per raggiungere le prime linee dei Greci, ma il tempo peggiorò e con la neve si dovette accamparci in queste montagne, alla meglio, finchè non si poté proseguire. In quei frangenti s’è perso tanti commilitoni in combattimento, in uno in particolare ho perso un caro amico: Faggi Renzo. Anche lui era di Prato. Stava in via Carbonaia, si lavorava insieme. Fu una scheggia di mortaio, che lo prese nella testa. Noi s’era un attimo più indietro di lui. Io ero con un’altra squadra e s’arrivò giù, ora non mi ricordo il posto preciso, insomma s’attraversò la Colussa, il fiume che passava di lì, ed oltre il fiume ci si accampò. Venne il capitano e domandò se c’era qualcuno che si sarebbe sentito d’andare a portare la croce, qualcuno che lo conosceva, io pensai a questo mio amico e accettai. Ci disse di stare attenti perché c’erano delle mine che gli sminatori stavano trovando. Ritornai nel posto dove s’era seppellito e lì ci misi la croce, vicino al loro cimitero. Rientrai facendo bene attenzione ma non si trovò nè mine né niente. Da lì si ripartì il 24 maggio, me ne ricordo bene perché commemorammo la Prima Guerra Mondiale, ci portarono con gli automezzi ad Atene. Successivamente arrivammo nella zona del confine, per andare giù verso la Grecia. Arrivati in Grecia ci fu la resa dei Greci e ci si accamppò nelle caserme dei soldati greci. Ci portarono nelle caserme dei Greci ed in questi paesi si passò il primo periodo di occupazione, nel quale la sera si doveva andare di servizio a controllare perché c’era sempre qualche attentato dei partigiani greci, qualche cosa insomma. Fu in questo tempo che poi a me mi gonfiò una gamba e mi dovettero ricoverare all’ospedale d’Atene. Avevo un focolaio d’infezione. Quando rientrai al reggimento, dall’ospedale, non c’era più nessuno dei soldati, solo qualcuno che era stato malato, come me. Domandai al furiere dov’era il reggimento, e mi disse: - Li hanno mandati a combattere i Partigiani di Tito. E un giorno benché io, come altri, fossi ancora convalescente, venne il furiere e disse: - C’è il maggiore che cerca un cameriere, e chi trovo, non c’è nessuno. Io gli dissi: - Andrò io perché un po’ l’ho fatto, non proprio di mestiere, ma insomma… Mi portò dal maggiore che era di Firenze e mi disse d’andare alla mensa del Quartier Generale, dove c’erano più di quattrocento tra ufficiali italiani e tedeschi. Mi dettero la bassa di passaggio e mi passarono alla mensa del Quartier Generale. Il capitano di mensa mi dette tutte le disposizioni, cosa c’era da fare, e lì stetti fino all’ 8 settembre. 64


Nel frattempo, l’anno precedente, nel 1942 mi aveavano concesso la licenza per venire a casa. L’anno dopo, il 25 luglio si sentì agitazione tra gli ufficiali e si venne a sapere che era caduto il governo italiano ed avevano arrestato Mussolini. Dopo l’8 settembre i Tedeschi, si vede che aveavano mangiato la foglia, e ci presero tutti lì al Quartier Generale, alla svelta, alla svelta. Subito dopo che ebbero preso il comando, prima ci fecero posare tutte le armi, ogni cosa che s’aveva, e lungo la strada che dalle caserme ci portava alla stazione era tutto un buttar fiori: - Italiano non partire - ci dicevano i Greci. Ci condussero in tradotta, s’arrivò a Vienna e poi da lì proseguimmo per la Germania. In Germania sono stato in diversi posti, a fare dei lavori esterni. Quando si poteva ci si nascondeva, tanto è vero che una volta, quando con gli altri rientrai da un bosco, dove mi ero nascosto per non lavorare, un ragazzo mi disse che avevano fatto la chiama ed io ero mancato. Quando rientrai alle baracche una guardia rifece la chiama ed io risposi, mi chiamò, mi prese il piastrino e mi disse che sarei andato a Mathausen. Rimasi male. Ma passò un giorno, ne passarono due, poi tre, quattro e io andavo sempre a lavorare, m’avevan messo alla betoniera, insomma dopo una settimana, mi chiamò quest’Austriaco, c’erano parecchi Austriaci tra le guardie, mi ridette il piastrino e mi disse di continuare a fare come facevo e di non allontanarmi. Poi mi mandarono ad un altro campo, dove si scaricavano dei vagoni di carbone e ci doveva scaricare controvento, s’aveva gli occhi c’erano diventati delle palle da biliardo. Allora qualcuno ci si ribellò, io mi misi sul letto a castello al quarto piano, perbenino, con la coperta sopra e quando il capo entrava per chiamarci per andare a lavorare io restavo lì. Quando tornavano mi mescolavo con loro e andava tutto bene, finchè un giorno qualcuno fece la stessa cosa e così ne vennero a mancare diversi, se ne accorsero, ci presero e ci misero in prigione, vicino a dove c’era il comando. Ci raparono a zero, e ogni mattina alle cinque ci facevano andare fuori a dorso nudo nel piazzale, un freddo boia… Ci liberarono gli Americani e appena liberati ci ordinarono di andare incontro al grosso delle truppe americane, perché i Tedeschi avrebbero potuto contrattaccare. Fummo alloggiati in una caserma che avevano occupato gli Inglesi però non s’andava tanto d’accordo con gli Inglesi. Ogni tanto erano baruffe. Successe che una mattina venne una camionetta con tre o quattro Americani, uno parlava Italiano, era Italo-Americano, e ci disse: - Ragazzi che ve la sentireste di venire al campo d’aviazione, abbiamo bisogno di qualcuno di voi come manodopera. Andammo con loro e gli Americani per prima cosa ci passarono la visita, bronchi, polmoni, tutto, poi ci fecero fare il bagno, ci dettero le divise dell’esercito americano, ci dettero tutto quello come davano ai soldati, sigarette, zaino, tutto e ci dettero l’alloggio. Poi domandarono se c’era qualche meccanico e qualcuno andò a lavorare con loro. Io dissi loro che ero commesso e allora un maggiore mi assegnò a sorvegliare, di giorno, la palazzina degli ufficiali per evitare che vi andassero i soldati perché vi venivano conservati gli alcolici. Poi la sera giocavamo a carte. Dopo questa esperienza di collaborazione con gli Americani, rientrai a Prato negli ultimi mesi del 1945. 65


Un giorno dissi al maggiore che volevamo tutti rientrare in Italia, eravamo otto o dieci. Il maggiore ci battè a macchina il lasciapassare per il settore francese per evitare che ci venisse presa la roba che ci avevano dato gli Americani. Un ufficiale francese si oppose lo stesso, ma tra noi c’era uno di Firenze che sapeva il Francese, ci parlò lui e con il foglio che ci avevano dato gli Americani riuscì a convincerlo per cui infine ci mandò via. Si rientrò passando dalla parte di Innsbruk.

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LEO SANTINI, nato a Prato, il 10 luglio 1915. Sono partito il 24 aprile 1936 e venni destinato al 7°Artiglieria Contraerea a Firenze. Sono stato una vita militare e sono passato caporale, poi caporal maggiore e avevo la patente, perché l’avevo presa subito lì, ed ero anche un bel giovane sicchè fui scelto come autista al Colonnello, non mi viene il nome, e passai tutto il periodo militare così. Mi dettero anche i guanti, avevo le scarpe da borghese, il Colonnello stava lassù in cima a Piazza Vittorio (ora piazza della Repubblica), avendo le spalle alle Poste c’è un palazzone alto, sotto allora più di sessant’anni fa, c’era la Rinascente. Il 24 settembre 1937 fui congedato con il grado di caporal maggiore. Ripresi il mio lavoro, dal Mazzini, ero assistente al lanificio in via San Martino. Nel 1939 fui richiamato, non più all’artiglieria contraerea, ma al 7° Centro Automobilistico, perché avevo la patente civile, sempre a Firenze alla Fortezza da Basso. Mentre di fronte c’era la caserma Favini dove era il 7° Artiglieria Contraerea, ma anche prima quando ero artigliere le macchine si tenevano in Fortezza. Quelli in nomina da sergente fummo presi e ci fu fatto fare un corso e dopo sei mesi tornai a casa il 1° novembre ‘39. Tornai a fare il mio lavoro, ma c’era puzzo di guerra. Il primo giorno di guerra, il 10 giugno ‘40, io ero già richiamato al 7° Centro Automobilistico e lì sono a disposizione e mi mandano a Pistoia in attesa, dopo pochi giorni mi richiamano a Firenze e mi spediscono a Pisa e mi aggregano al 22° Fanteria, 44° battaglione mortai, erano mortai da 81. Dopo un po’, c’era un colonnello imbecille, allora non c’era un ufficiale di fanteria, che sapesse cos’era un motore a scoppio. Si chiamava Fiumarella era un imbecille, perché la gente con il fascismo era un po’ rimbecillita. Da lì si parte in febbraio, a me danno trentanove autocarri L 39 con le gomme semipiene, senza batteria (anche prima quando ero all’autocentro le macchine si mettevano in moto a manovella – e c’era un motore a cinque cilindri che era un diavolo e tante volte dopo partito si spengeva e si doveva rifarsi daccapo). Si parte in treno con tutte le macchine e si parte da Civitavecchia, era una stagione terribile, dove mi aspettavano diciannove autieri che erano partiti da Pisa, ed io presi il comando di questo piccolo reparto, ero io l’unico responsabile. Ci mandano in Sardegna si sta due giorni in mare, perché era agitato e si sbarca ad Olbia. Questo viaggio fu un po’ non tanto di villeggiatura, perché si viaggiava di notte al buio, c’era un mare che faceva paura, digiuni, io ero fradicio perché dovevo stare sul ponte a controllare il carico, ero l’unico responsabile. S’arrivò in Sardegna ad Olbia, l’11 dicembre ‘42 dopo una venticinquina d’ore di navigazione, e ci da contentarsi perché s’arrivo, si poteva anche non arrivare, perché di notte, fermi, si sentiva urlare con i megafoni tra loro le navi che s’incontravano, a ripensarci oggi viene da ridere, ma non fu un viaggio di piacere, come si fa ora in Sardegna. Ora, ci sono stato anch’io è un’altra cosa. Si sbarca e laggiù la guerra non si sentiva tanto, per dire la verità. Ci mandano a Macomer, in treno. Avevano preparato due capannoni e lì ci mandarono con gli autocarri. Noi si dormiva su una carretta, si chiamavano carrettiere, perché noi autieri non avevamo il sacco, ma l’amaca, si metteva il telo da cima a fondo e si dormiva lì. Ci si stette un periodo di tempo non male, si vivacchiava. Io che avevo fatto da giovane l’elettricista, presi la corrente dai fili che passavano e avevo messo una luce portabile anche nella macchina. Fu un periodo antipatico, perché non c’era nulla, ma passò. Da lì ci mandarono in cima alla Sardegana ad Aggius, un paesino bellissimo, dove si trova tanta gente brava, mi telefonano ancora, ci si fa gli auguri e ci sono ritornato due o tre volte a trovarli, perché io trovai un altro babbo e un’altra mamma, 67


mi presero in casa, la sera quando si sortiva io ero libero e avevo fatto amicizia con questa famiglia, mi lavavano, mi stiravano, perché s’ha bisogno di tante cose. Lì si dormiva in un capannone, ci passavano anche i gatti, coperto con del telo incatramato. Lì ci si stette benino, perché c’era una botteghina dove si poteva prendere un caffè e latte e sopperire alla miseria del mangiare, perché il cibo cominciava a scarseggiare. Poi, finito lì ci mandarono a Benetutti, ora sarebbe nella provincia di Oristano, sei mesi qua, sei mesi là, da lì si partì per Olbia per partire ad occupare la Corsica. Ad Olbia ci si stette parecchio tempo, sotto l’acqua il vento da far pietà; a proposito della Corsica, sotto il fascismo si cantava: “Osteria della Savoia, se si prende quella troia si rimane senza noia, dammela a me biondina, dammela a me biondà”. Noi eravamo quelli che dovevano prendere la Corsica. Prendere la Corsica non era difficile, era difficile rimanerci in Corsica, come ora gli Americani in Irak. Ci si imbarca con le macchine il 13 dicembre ‘42 e vado a due chilometri da Ajaccio, dove c’era il comando di battaglione. Lì facciamo vita normale, perché non succede niente e pareva tutto a posto, sennonché si comincia a sentire che un soldato è stato ammazzato, allora s’incomincia a rinforzare le guardie, perché la cosa cominciava a puzzare. In Corsica ci sono stato dieci mesi, fino a fine settembre. In Corsica io fui attaccato, ero a Cognopoli con le macchine e per andare al comando di reparto a piedi, perché la benzina non si poteva buttar via – avevamo anche due motociclette: una gilera 500 e una MR 500 – e fui comandato di partire con cinque macchine per combattere con i Tedeschi, perché c’era già stato il ribaltone dell’8 settembre e il Generale Primieri aveva l’ordine di attaccare, quindi ci furono delle grande battaglie, perché i Tedeschi cercavano di raggiungere Bastia per lasciare la Corsica. Io vengo comandato per delle isolette vicino ad Ajaccio, passai il campo di aviazione e andai avanti e quando arrivai a due chilometri da Ajaccio sento un aereo che ci mitraglia. Fermo sul bordo della strada tutti a terra, non s’aveva la tuta mimetica, ma quella da meccanici. Le macchine erano rimasti fermi, e con la prima passata e mitraglia le macchine, si scende e i soldati vanno verso una cava di pietre che era vicino alla strada. Le macchine erano rimaste vicine tra di loro. L’aereo fatto il giro, tornò indietro, mentre io dicevo a due soldati di venire con me per allargare le macchine in modo che non bruciassero. Ma non facemmo in tempo perché l’aero lanciò una bomba incendiaria e con i serbatoi precedentemente bucati, vennero delle fiamme …Cominciò a sparare la contraerea e l’aereo sparì, forse era uno degli ultimi che avevano i Tedeschi. Io rimasi lì a vedere che succedeva. Due macchine le feci ripartire, due macchine erano fuori uso, una completamente bruciata. Passa il comandante del reparto che veniva ad Ajaccio, con l’ufficiale Raveggi, che era l’Assistente in Prima, mi dettero da bere una gazosa, perché non ero come si deve, tra l’altro era una giornata con quaranta gradi di calore. Di quest’incendio di questa macchina non ho saputo più nulla al reparto. Poi arrivò De Gaulle in Corsica di passaggio per l’Inghilterra dove doveva preparare lo sbarco in Normandia. Con De Gaulle ci siamo incontrati in Corsica: lui aveva davanti una macchina per fargli posto ed io camminavo con le mie carrette, ma oramai si operava insieme, perché i Tedeschi erano già andati via dalla Corsica. Venne il momento che mi dettero l’ordine di ripartire con due carrette ed una motocicletta da smontare, la dovevo portare in cassette. Io metto la Gilera in pezzi e ci si imbarca da Bonifacio a Santa Teresa di Gallura, su delle barche piccole, in venti minuti si fece la traversata delle Bocche di Bonifacio. A Santa Teresa di Gallura io baciai la terra, perché quello che avevo patito in Corsica lo so io, stetti dieci mesi sotto una tenda insieme a dieci macchine, pronto a tutte le evenienze. Una sera c’era la ronda e passò dal mio accampamento e cento passi l’ammazzò un tizio che era una spia, peccato tra l’altro era un Santini, l’ammazzò il sergente maggiore, uno che con il moschetto ‘91 ammazzava anche i corvi. Di 68


notte lo videro: - Altolà! Chi va là! Fermi o sparo! - questo tento di tornare indietro e il sergente maggiore l’ammazzò. Poi successe il finimondo, perché nel paese poi ci fu la rivolta e divento una vita d’inferno. Io avevo la tenda lì, la spostai un po’ ma non si dormiva più. Finalmente venne il giorno che si venne via dalla Corsica. Molti rimasero laggiù, si partì il Tenente, io e due autocarri, e forse un altro soldato, il resto rimasero a disposizione delle forze francesi. Invece io venni in Sardegna per preparare il reparto per ripartire per il fronte, e si venne a Benetutti, lì ci si stette un bel pezzo e venni reinquadrato come artigliere. Da Cagliari partii nel 1944 di ottobre, novembre, sull’incrociatore Filiberto di Savoia e fui sbarcato a Napoli il giorno dopo. Per sbarcare fu un problema perché non c’era un metro per poter scendere, tutte le navi voltate in su. C’era una nave con la chiglia rovesciata e avevano fatto un tavolato su questa chiglia e di lì si sbarcò. Da Napoli, a piedi, perché le macchine che avevo rimasero in Sardegna, per una decina di chilometri, in posto dove ci riordinammo e da lì, sempre a piedi a Principato in Provincia di Avellino. Laggiù ci restituiscono le macchine, ma non c’erano autieri, perché quando eravamo sbarcati a Napoli chi poteva scappare, scappò e la fanteria non aveva un autista. Io non potevo venire a casa, perché la nostra zona era sempre occupata e c’erano battaglie a Montecassino. A Principato c’era una piccola stazione ferroviaria con un deposito che ci faceva comodo, perché, avendo già le macchine, dieci o dodici autocarri e una bella Jeep originale con il verricello, che mi serviva per mettere in moto gli autocarri, faceva da ricovero per i mezzi. Io dovevo fare scuola guida, in questa campagna da mattina a sera sotto un tempo diavolo, era una strada con le fossette come usa in campagna. Erano fanti e li dovevo fare autieri, li dovevo in sostanza portare al fronte. Fino ad un certo punto, che ero stufo, non ne potevo proprio più: dormivo sotto una tenda; c’era un pantano da morire e litigai con un maggiore la sera che l’ufficiale effettivo era andato in licenza, perché avevano già liberato la sua terra ed era rimasto un capitano, un esoso che si dava dell’arie, veniva dal Fascismo questo, tanto per essere chiari. Io la sera dopo aver fatto dieci ore di scuola guida non ne potevo più andavo nella tenda a cercare di asciugarmi e lui mi mandava a chiamare, perché aveva messo il comando in un a bella casa, che aveva preso, ad un duecento metri di distanza, da un fante. - Cosa vuole, perché mi manda a chiamare qua con questa pioggia, non ho mica l’ombrello io e neanche l’impermeabile -, avevo un pastranuccio. E là con gli ufficiali per dirmi delle bischerate, il giorno dopo mi rimanda a chiamare da un soldatino: - Sergente Maggiore, il capitano la vuole.- Tu gli hai a dire che vada a pigliarlo nel culo, io non ci vado, se mi vuole viene qua. - Io ero disposto anche ad andare in galera, perché quando si arriva a quel punto lì, io era sedici mesi che non sapevo più nulla di casa mia, che cosa me fregava a me di lui, non mi importava più di nulla, che senso aveva la vita, perché io non ero più un ragazzo, sicché mi manda il Tenente Medico che mi dice: - Santini che fai? Ti capisco, sai, ma vieni con me.- La non mi porti, ma perché si è disturbato, signor Tenente, la mi lasci stare, la non vede che non rispondo delle mie azioni. Prima che mandasse il Tenente Medico gli avevo detto davanti atutti gli ufficiali: - Lei mi ha già rotto i coglioni! -, ma con il Tenente Medico mi toccò andare. Il Tenente Medico mi porta là e mi disse: - Tu stai zitto, devi stare sempre zitto. E io feci così e poi ritornai al campo, perché mi aveva messo in galera, scortato da un fante con la baionetta in canna. Insomma la mattina si rincomincia a fare scuola guida e venne un po’ di sole, sennonchè verso le11.00 mi chiamano per andare al comando. Io faccio per andare al comando e c’era già il sole, doveva 69


essere novembre o dicembre, mi sento chiamare: - Santini! - era il Maggiore quello vero, che aveva saputo tutto, quando lo vidi lo salutai: - Bentornato, signor Maggiore! Lui mi fa: - Santini, oh che fai, cosa hai fatto. - e io quasi, quasi mi metto a piangere: - La lasci stare. - Io lo so cosa hai, lo sai cosa ti dico, ti mando in licenza, perché Prato è liberata! -Sì, Maggiore. - Vai al magazzino, fatti dare dieci giorni di viveri ed io ti mando in licenza. Il 12 dicembre ‘44 io preparai un sacco di roba: tonno, altra roba in scatola, pane, sarà stato trenta chili ed il giorno dopo un autocarro ci porta me ed altri a Firenze, poi a Prato. Però prima di partire il Maggiore mi chiama e mi dice: - Tu vai in licenza, io ti mando in licenza. Tu mi devi dare la parola d’onore che tu verrai a raggiungere il reparto. - Signor Maggiore io sono un uomo di parola la raggiungo dove la va. - E la mattina parti venni a Prato, prima a Firenze s’arrivo di notte, perché da Avellino è lunga e poi non c’era neanche un ponte, c’era da fare certi giri ogni volta che c’era un fossetto, c’era da stare attenti, perché laggiù dove ero io ci morirono due soldati che erano in motocicletta e per un paracarro buttato giù morirono tutti e due, così succedeva era difficile camminare. A Prato arrivai la sera , dopo che ero arrivato a Firenze in piazza Beccaria dove sentii una voce: - Oh, oh! Santini che sei qui! - Di casa mia che sai nulla? - Sì, ho visto tuo fratello che non è tanto. - Che strada c’è di qui per andare a Prato? Passo da Sesto o di sotto? - No, no, tu passi da Sesto ma stai attento ai ponti. Allora al Ponte alla Fogliaia c’era un fosso con un ponticello e ero con un Sergente Maggiore si aveva un autocarro grosso di quelli che c’è ancora, era lui il responsabile e guidava lui, però sapeva che ero un autiere e quando si arrivò a codesto punto era rimasto poco di qua e di là e mi fa: - Santini piglialo te il volante. Io vado avanti e ti faccio strada. Quella macchina lì aveva già la batteria e i fari, erano già cambiate le cose. Così quando si passa di qua e di là e si esce. Quando arrivai a Ponte Pietrino credevo di passare ed invece il Ponte Pietrino era tutto giù e allora bisognò fare il Chilometro Lanciato, che era tutto segnato: mine, mine, mine…Sicchè si va a passare al Ponte dell’Orfanotrofio, c’era poco da scegliere. Quando s’era quasi lì, una ruota va in una buca e non si ripartiva. Io li dissi, il ponte era rotto: - Ragazzi, bisogna torniate indietro e quest’ora non so cosa farete. Io sono a casa e qualcuno trovo. Avevo da passare la ferrovia e poi il Bisenzio, ma la Passerella c’era ancora, era rimasta in piedi. Me lo disse un soldato che era lì e con il quale ci s’intese alla meglio, meno male. Andai alla Misericordia, perché da civile ero stato capoguardia della Misericordia, per sentire se c’era qualcosa di nuovo. A piedi, perché c’era la ronda. Mi fermai alla Misericordia, suono il campanello e : - Santini! - Santini sei tornato! - Sono tornato in licenza. - insomma le solite cose che si fa in quei momenti: - Ma che sapete nulla della mia famiglia? - Sì, tuo fratello l’ho visto qui. - Allora vado a casa -. Andai a casa ritrovai mio fratello, i genitori, la fidanzata. Io ero a Prato, c’era le feste di Natale e tanti mi dicevano. - Cosa fai? Ma che sei grullo a tornare al fronte? E io - No, bisogna che torni laggiù. 70


In San Francesco, accanto alla chiesa c’era un comando tappa, potevo andare lì. Ma insomma feci passare Natale. Sennonché venne giù Pinochi di Montecatini, uno che era stato con me in Corsica ed in Sardegna e che doveva ripigliare anche me per riportarmi al reparto. Viene a casa mia mi chiama e io: - Guarda appena sono pronto si va via. - Ma quando s’arrivò a Firenze, in via dell’Oriolo, non ci fecero ripartire, perché la strada per andare al fronte, eravamo sull’Adriatico, non era praticabile. Perché la mia divisione la “Cremona” ebbe l’onore di far parte dei primi reparti che formarono l’Esercito Italiano in quattro corpi di combattimento e combattevamo sull’Adriatico. Però ci si avevano gli ufficiali di collegamento Inglesi, eravamo vestiti da Inglesi e da mangiare quanto si voleva. Comunque alla fine si ritorna là , mi avevano dato disertore, e ci si trova a dormire con un telo addosso in zona di operazioni. Il 10 aprile ‘45 si deve dare l’assalto, per cui si fu tutti mobilitati. Eravamo dopo Ravenna, sulla linea formata dai fiumi Senio e Santerno, che dovevamo passare. Io ero su un Ford carico di fusti di benzina che andavo a rifornire le macchine davanti, che seguivano il 22° ed il 21° fanteria. Io alle dieci di sera ero su un ponte sul Senio fatto di barche, costruito dal Genio Militare. Prima dell’assalto della fanteria dalle parti del fiume c’erano sempre i soldati tedeschi e ci furono atti di grande coraggio da parte dei Partigiani che erano laggiù. Qualcuno ancora si ricorda i nomi dei morti. Comunque io camminai solo con un soldatino, che aveva il fucile scarico e dovevo andare avanti di notte, con i fari spenti, solo con questo soldatino, non era una cosa facile. Ora per chi è pratico di quelle zone ci si trova anche dei veri fiumi, che non sono fiumi però son canali dove ci si casca e ci si muore. Io mi trovai, ad un certo punto al tocco di notte, a non saper dove andare e trovai una casa, picchio, dico: “Sono un soldato italiano, sono un Italiano, non abbia paura, se la mi può dire questo e quest’altro”. Mi risposero: - La vada a destra, poi c’è un comando - e infatti era vero. Verso le due di notte arrivai a questa cittadina, mi fermai in piazza, spostai i fusti di benzina, per fare un sonnellino. Presi sonno, venne la mattina e mi ricordo mi trovai a vedere che la gente ci festeggiava, s’eramo arrivati e i tedeschi erano andati via, ma erano atre passi, li si correva dietro. E s’era vicino al Po, s’era proprio sulla sponda del Po. Lì praticamente la guerra era finita, perché io andai anche in trincea di notte a vedere quello che c’era. C’era un cannone ogni dieci metri su tutta la linea e più indietro, siccome era già caldo, c’erano tutte le tombe dei morti, che erano fitti come i boschi, da ricordare, prima del Po. Quando arrivai al Po andai sulla sponda e c’era un cavallo e c’era anche un morto, un soldato tedesco, che galleggiava, in quell’acqua gialla, perché il Po era in piena. Mi congedai alla fine della guerra. La guerra finì l’8 maggio ‘45, io il 14 di maggio ero vicino a Venezia ma non potevamo entrare in Venezia, mi mandò a chiamare il maggiore e mi disse: - Ci sono delle novità, Santini. - Speriamo le siano buone, Maggiore. Si va là, mi fermo c’era un prete ragionava con delle puttane, erano tutti lì a chiaccherare con dei soldati e parlavano di puttane. - Meno male siamo alle buone, ora non si parla più di guerra si parla di puttane. - Poi tornò il Maggiore e mi fa: - Santini di che classe tu sei? - Maggiore, son del ‘15. - Allora tu ti congedi, ma io non ti posso mandare via non ho nessuno. Io gli dissi: - Signor Maggiore io gli avevo dato la parola, ho fatto il mio dovere in pieno e son contento, potevo essere morto, come è morto il Sottotenente che ho visto nel cimitero, io sono vivo ancora e vado 71


a casa. Ho una ragazza, la fidanzata che mi aspetta, io vado a casa, se la mi da un fogliolino scritto io l’accetto volentieri perché me lo merito e se no, vado a piedi, piano, piano a casa. - Che scherzi, Santini, tu vai a casa domani l’altro, si fa un camion apposta si manda fino a Siena e ti mando a casa con tanto di licenza illimitata. - Bene, son contento. Casa mia l’avevo già vista perché ero tornato di lassù con l’autocarro a pigliare il vino a Firenze, per portarlo in su. Ero stato a casa mia a desinare, con il Tenente, anzi feci un rubamento, perché avevo un Dodge, ed ero venuto giù dal fronte con cinque fusti di benzina e venni a Firenze, si feci quello che dovevamo fare e poi dissi: - Ora si va a casa mia. Si stette lì a desinare ed io accanto avevo la fidanzata e venne il mio suocero, che aveva un sidecar in un campo bellino lì dietro. Gli dissi: - Lastrucci, ci ho messo l’autocarro di là, venite, guardate c’è cinque fusti di benzina, ne lasciate uno e quattro li prendete voi. - Oh che sei matto Leo. - E io gli feci vedere che avevo in tasca il blocchetto per ritirarne altri. Sicchè il mio suocero prese gli ottanta litri di benzina. Si ripartì quasi la notte e s’arrivò a Ravenna che s’era stanchi morti, insomma fu bellina. Io tornai a casa il 17/5/1945.

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La patente militare del 1939 rilasciata a Leo Santini. 73


Prima di una parata alle Cascine di Firenze, quattro ufficiali posono davanti all’automezzo, che vede Leo Santini al posto di guida. Sul retro c’è la scritta “11/11/36-XIV”.

La fotografia adattata a cartolina ci mostra Leo Santini insieme ai suoi compagni del corso per sergente. Sul retro dell’immagine c’ la scritta “25/12/1940 Sergenteria Alè”. 74


Messa al campo in Sardegna, 1941. 75


Fotografia scattata sulla nave che portava Leo Santini dalla Sardegna in Corsica. Sul retro la scritta “Alla mia famiglia con affetto sincero. 27/4/42-XX� 76


L’immagine scattata in Corsica. Porta sul retro la scritta “Perché siati certi che sto bene e vi penso affettuosamente Vostro Leo. P M 64 - 19/9/42-XX” 77


NELLO SGUANCI, nato a San Casciano Val di Pesa (Firenze), il 3 novembre 1920. Il 4 gennaio 1940 fui chiamato alle armi come militare di leva e destinato al 35° Reggimento Fanteria di stanza a Bologna. Erano tempi duri per tutti, perché c’era la guerra. I giovani richiamati sapevano che dopo un primo periodo di addestramento sarebbero dovuti partire per una zona di guerra, in Albania o in Africa orientale, queste erano le destinazioni dei reparti del 35° Reggimento. Al deposito del Reggimento ebbi la divisa di fante con tutti gli accessori, fra i quali un cappotto nuovo, che la mattina successiva, al posto di quello, ne trovai una tutto sdrucito e liso, al quale erano stati strappati i galloni da caporale. Lo stesso giorno ai nuovi arrivati, domandarono chi di loro conosceva la musica. Io risposi di conoscere la musica e di suonare il clarinetto. Quella fu la mia fortuna, perché mi concessero subito un permesso di quarantotto ore per tornare in famiglia a prendere il clarinetto con il quale avrei dovuto sostenere l’esame di ammissione per entrare a far parte della grande orchestra del 7° Corpo d’Armata con sede in Bologna. Il 3 marzo inviaii una breve lettera a casa, nella quale scrivevo di essere molto contento di far parte dell’orchestra, aggiungendo di aver compreso, nel confronto con gli altri orchestrali, tutti di alto livello professionale e di elevata cultura, la necessità di rimettermi a studiare cominciando da zero. Ossia, da quella quarta elementare terminata con uno schiaffone, per aver replicato alla decisione del padre di mandarmi a lavorare. Così, nel giugno del 1940 ho conseguito la licenza della quinta elementare e a settembre ho superato l’esame di terza media inferiore. Possedevo il dono naturale di una memoria fotografica per cui studiare non era per me una fatica eccessiva. E trovavo sempre, anche nel periodo di esercizio in caserma nella grande orchestra, un po’ di tempo per lo studio, spesso rubandolo al sonno, usufruendo della luce della lampadina che illuminava l’ingresso della camerata e sfidando il regolamento inflessibile degli ufficiali di ispezione. La guerra sempre più pressante, determinò nei primi mesi del 1942, lo scioglimento del complesso musicale del 7° Corpo d’Armata di Bologna. Ancora una volta fui fortunato. Infatti fui assegnato all’infermeria del Deposito del 35° Reggimento Fanteria, quale scritturale, passando dalla Caserma Cialdini, alla Caserma Giordani in via Santa Margherita, sempre nel centro di Bologna. Nella nuova posizione avevo più tempo per studiare e questo era il lato positivo del cambiamento. All’infermeria del Deposito dove io lavoravo come scritturale, al terzo piano dell’ultimo padiglione interno della Caserma Giordani, la maggior parte del lavoro si svolgeva al mattino, dedicavo invece le ore libere del pomeriggio allo studio e agli svaghi, sempre molto modesti perché i soldi a disposizione erano sempre pochi. Nell’estate del 1943 cominciarono i bombardamenti aerei sulla Direttissima nelle vicinanze di Bologna e l’intera regione dell’Emilia Romagna venne dichiarata zona di guerra. Pertanto i militari di quella zona dovevano restare armati e pronti al combattimento. Bologna città, almeno così si diceva, era invece considerata città ospedaliera e perciò fuori dal pericolo dei bombardamenti aerei degli Anglo-Americani. Ma il 23 luglio del 1943, una formazione aerea cominciò a girare e ad abbassarsi sulla città, e da ogni aereo furono sganciate grosse e devastanti bombe in pieno centro con danni anche alla Caserma Giordani. Tra la popolazione civile ci furono morti e feriti. 78


Io, come di solito, ero salito con altri sul terrazzino della Caserma, sopra il tetto dell’infermeria per curiosare e vedere lo sgancio delle bombe dagli aerei. Questa volta, la formazione dei bombardieri puntò sul centro, mirando e colpendo in pieno l’Hotel Brown, occupato da pochi giorni dall’Alto Comando Tedesco, di cui però, l’Esercito Italiano non sapeva nulla. Così gli scritturali dell’infermeria in pieno bombardamento si trovarono sul terrazzino impietriti dallo spavento e nell’impossibilità di scendere, perché la scala aveva ceduto. Quella fu per tutti una esperienza terribile. Il 25 luglio 1943, la notizia della caduta del fascismo arrivò anche a Bologna. Con entusiasmo anch’io presi parte all’esultanza della popolazione, alla festa dove tutti esprimevano la gioia di un ritorno, finalmente, alla pace e alla libertà. La festa finì subito con le parole del Maresciallo Badoglio, che assunto il supremo comando delle Forze Armate Italiane, disse che la guerra continuava a fianco dei Tedeschi. La notizia gelò gli entusiasmi della gente, poco prima esultante ed euforica per un possibile ritorno alla normalità. Rientrai, mogio mogio, nell’infermeria della caserma Giordani e per calmare il tumulto dei pensieri, mi concentrai nello studio. Rimasi negli uffici dei vari reparti del Reggimento, come scritturale e soldato semplice, una posizione di privilegio perché esonerato dal prestare servizio, a turno, anche nelle ore di libera uscita. Per questo motivo avevo sempre evitato la promozione a caporale, finché fui scoperto, promosso e consegnato per dieci giorni. La consegna punisce il soldato in modo leggero, privandolo della libera uscita. L’8 settembre 1943 arrivò la notizia dell’armistizio, l’Esercito Italiano si dissociava dall’alleanza con i Tedeschi. La notizia arrivò improvvisa e fu per tutti un’esplosione di gioia. Per me quel giorno era l’ultimo dei dieci giorni di consegna. Il tempo di consegna lo avevo impiegato in parte a costruire, nella cameretta degli scritturali, una scaffalatura in legno per sistemare i libri che avevo comprato nei mercatini, sulle bancarelle dei libri usati, e in parte a studiare. Certo la notizia dell’armistizio aveva messo tutti di buonumore ed esso fu accolto e considerato come un preludio al ritorno alla normalità. Però, nella caserma c’erano l’infermeria e i degenti, la responsabilità dei quali era degli addetti al servizio che non sapevano come regolarsi perché completamente isolati dal resto del mondo. Verso le nove del mattino arrivò nell’infermeria il tenente medico Stella. Era vestito con abiti civili e al braccio portava una fascia bianca con la croce rossa. La presenza del tenente Stella aveva rassicurato tutti, perché si pensava avrebbe dato ordini e istruzioni necessarie a risolvere quel difficile momento. Invece il medico, dopo aver visitato i malati ci disse che i ricoverati potevano essere tutti dimessi, ma senza spiegare come poteva essere fatto. Per il resto non sapeva cosa consigliare perché l’ufficiale non si considerava in servizio. Mi resi subito conto che chi si trovava dentro la caserma era ormai prigioniero dei Tedeschi. Durante la notte i tedeschi avevano ostruito tutte le uscite della caserma dove si trovava l’infermeria. Avevano lasciato aperto soltanto il portone principale, ma solo per entrare, avendo ostruito l’ingresso con un panzer e ai lati erano di guardia alcuni soldati tedeschi in assetto di guerra. Intanto qualcuno, il Capitano Minguzzi, per esempio, si era già messo a disposizione del comando tedesco, facendo opera di persuasione presso i soldati della caserma, a fare altrettanto, aiutandosi con una insolita facilità di parole e con un bel frustino sferzante. La maggioranza dei soldati non aderì e per questo motivo erano scortati come galeotti nel cortile posteriore della caserma, cortile ben sorvegliato dei soldati invasori. 79


Ma i soldati italiani trovarono ben presto un modo per evadere. Il muro del cortile dove erano relegati era in comune col Seminario Vescovile ed aveva subito grosse lesioni nei recenti bombardamenti aerei. Con le mani i militari allargarono una grossa crepa trasformandola in un passaggio a misura d’uomo. Uno alla volta i prigionieri uscivano in silenzio e con ordine dal cortile della caserma, entravano nei locali del seminario Vescovile, uscendone poco dopo vestiti da prete, dalla porta principale. Quando i tedeschi si accorsero della beffa chiusero il passaggio e spostarono i soldati rimasti nel terzo cortile e li spedirono nei lager. I sei addetti all’infermeria, compreso me, eravamo rimasti in trappola. Proposi io, una via d’uscita, che si rivelò ottima. Infatti proposi di metterci una fascia bianca con la croce rossa al braccio, come aveva fatto il tenente Stella, poi il più mingherlino di noi doveva fare finta di essere un ammalato grave. Fu preparata una barella per il trasporto urgente all’ospedale, con tanto di certificato redatto con rigorosi termini del codice militare, vidimato con i timbri autentici del servizio sanitario e firmato da me stesso che mi finsi medico per l’occasione. Quando tutto fu pronto, il drappello partì guidato dal caporal maggiore Emmedì, che presentò il certificato medico all’ufficiale tedesco, facendosi capire soltanto a gesti, non conoscendo una parola di tedesco. La messa in scena non fece una grinza. I soldati di guardia all’uscita, fecero spazio per lasciare passare il gruppo. L’ospedale militare di Bologna era a poche centinaia di metri dalla caserma Giordani. A metà strada tra questa e quello, sotto il porticato di via Aurelio Saffi, c’era una sartoria: la sartoria Mansanesi. Il nostro gruppo entrò in questa sartoria e quando uscirono sembravamo totalmente trasformati, infatti eravamo stati completamente rivestiti con abiti civili. Eravamo felici e fuori c’era un bel sole. Non avevo rimpianti. Al pensiero che mi rodeva dentro come un tarlo, tirai un bel calcio. Era il pensiero di aver lasciato gli amati libri in mano ai tedeschi. Fuori c’era un bel sole. Nel sole un invito allettante: l’invito a vivere. Era finita la vita militare, ma non certo la guerra. Dopo l’armistizio, i soldati italiani di ogni corpo, di qualsiasi grado e ovunque si trovavano, furono posti di fronte ad una drammatica alternativa: dovevamo scegliere di collaborare con le truppe tedesche, prima alleate, ora nemico invasore o cercare di tornare a casa e diventare clandestini. Io scelsi di tornare. Della mia bella famiglia, dodici figli tra fratelli e sorelle, eravamo in sei sotto le armi, quattro fratelli e due cognati. In quattro riuscimmo a superare le difficoltà, a non cadere nelle mani del nemico, e dopo varie peripezie, a rientrare a casa sani e salvi. Gli altri due furono invece catturati e portati come bestie nei campi di lavoro coatto, nel nord estremo della Germania. Tornarono a guerra finita gravemente debilitati dalla prigionia e dal lungo, massacrante viaggio, ma a quel punto l’importante era essere di nuovo tutti insieme. Io vestito da civile, intrapresi la strada del ritorno, ma le difficoltà non furono poche. Intanto decisi di uscire il più presto possibile dalla città, di viaggiare su strade secondarie, poco frequentate e puntare verso i monti dell’Appennino. Camminavo di notte attraverso viottoli, strade campestri e nei boschi. Di giorno mi fermavo spesso vicino a un casolare sperduto, ricevendo da quelle brave persone cibo, comprensione e solidarietà. 80


Ce la feci a tornare, ma la vita da clandestini proseguiva nel furore dei bombardamenti, nella paura di essere catturati dalle truppe tedesche, inviati nei campi obbligati a impiantare le mine sulle strade e sui ponti, e a volte, al minimo sospetto, si poteva anche essere fucilati sul posto. Vivevo nascosto, cercando di utilizzare il riposo forzato per studiare. Entravo strisciando sul ventre, in un cunicolo scoperto, da bambino nei giochi con i fratelli, ed ora rifugio contro la ferocia della guerra. Stavo molte ore in quel nascondiglio naturale, difficile da vedere dall’esterno, e indisturbato, isolato dal mondo, in compagnia dei miei amati libri, studiavo. Studiavo perchÊ volevo cambiare la mia vita e un po’ anche il mondo.

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La lettera alla famiglia in cui Nello Sguanci annuncia di essere entrato a far parte della grande orchestra del 7° Corpo d’Armata. 82


SIRO VIGNOLINI, nato a Barberino del Mugello (Firenze), il 27 gennaio del 1917. Fino al momento della leva ero lavoratore mezzadro agricolo. Il 5 marzo del 1938 fui chiamato dal distretto militare di Firenze ed inviato al 2° Contraerei di Napoli. Dopo due mesi di addestramento fui trasferito al 21° Reggimento di Corpo D’Armata di Bengasi, Libia. Qui fui ammesso alla scuola radio telegrafisti. Nel mese di novembre, con altri tre compagni fui inviato al 7° Genio di Firenze per un corso di radio montatore. Nella primavera del 1939 avvenne la prima grande manovra in Tripolitania, attraversammo il Deserto Sirtico fino alla Tunisia. Nell’autunno del 1939, invece di essere congedati, fummo trattenuti. Nella primavera del 1940 ci fu la seconda grande manovra in Cirenaica, ai confini con l’Egitto. Nell’autunno 1940, con l’entrata in guerra dell’Italia con la Germania, fummo inviati sul fronte egiziano contro gli inglesi. Qui avvenne la prima avanzata (fino a Marsa Matruk). In seguito per ragioni logistiche, dopo aver fatto partire tutti gli automezzi vuoti, per non farli catturare dal nemico, ci fecero distruggere (con un piccone) tutte le stazioni radio, e, dopo essersi liberati di ogni cosa superflua, quei chilometri di avanzata li dovemmo rifare a piedi fino alla Ridotta Capuzzo, nostro confine libico. Qui avvenne il mio Calvario: essendomi liberato delle scarpe vecchie, quelle nuove mi facevano male ai piedi, così dovetti rifare tutto il cammino a piedi nudi, per tre giorni e tre notti. Gli inglesi non si erano accorti subito della nostra partenza, per il primo giorno tutto andò bene, ma il secondo e il terzo cominciarono a bombardare la nostra colonna: per grazia divina ci venne in aiuto il ghibli, il vento del deserto che oscura di sabbia tutto il cielo, come una fitta nebbia da noi. Gli inglesi non vedevano più la nostra colonna e non vedevano neppure dove cascavano le loro bombe. Grazie al ghibli giungemmo indenni a Sollum, posto di confine libico mentre le pulci e i pidocchi che avevamo addosso, furono distrutti successivamente in prigionia. Il 3 gennaio 1941 quasi tutto il nostro Corpo d’Armata infatti fu fatto prigioniero. Il 6 gennaio avemmo il primo pasto, una scatoletta di tonno e una gallettina ogni quattro soldati: il giorno dopo, un gavettino di acqua. Rimanemmo per tre mesi in un campo di prigionieri ad Ismailia: per pasto tre cucchiai da cucina di riso stracotto al giorno. In seguito partimmo per il Sudafrica. Sbarcammo a Durban e fummo trasferiti a Zonderwater, nel Transvaal, al blocco numero 2 di Zonderwater. Ogni blocco era composto di quattro campi, noi ne avevamo occupato soltanto uno, gli altri erano liberi; ogni campo era composto di altrettante cucine già pronte all’uso dove noi andavamo a far bollire i nostri panni nei grandi pentoloni per togliere pulci e pidocchi. Malgrado la porzione del cibo, che dicevano di essere uguale a quella dei loro soldati, per noi prigionieri era molto scarsa, data la fame arretrata e patita nell’accerchiamento e in quei tre mesi passati in Egitto. La mia fortuna fu di saper scrivere bene in stampatello. Ero lo scrivano di tutti i prigionieri del blocco n° 2. Per aver ideato un sistema per tagliare le fette di pane tutte uguali, feci parte dello staff della cucina. Dopo otto anni che ero partito militare arrivò la fine della prigionia. Tante sarebbero le peripezie e i patimenti da raccontare: le pulci, i pidocchi, al confine con l’Egitto fui anche ferito al braccio destro: essendo in posizione avanzata, dovetti trasmettere con la mano sinistra tutti i dati che mi venivano recapitati per il Quartier Generale. Per tale motivo mi fu conferita la Croce di Guerra al valor militare e la promozione da caporal maggiore a sergente. 83


Dopo otto anni dalla partenza, meno una settimana, il 26 febbraio 1946, mi ricongiunsi con la mia famiglia a Barberino di Mugello. Mi presentai alle elezioni amministrative e fui eletto Assessore alla Pubblica Istruzione (allora si chiamava cosÏ), ma per motivi di lavoro ed esigenza di una mia sistemazione, emigrai a Prato, dove tuttora risiedo. Ho lavorato nella filatura Galli & Capponcelli fino all’età della pensione, nel 1977. Ho ripreso anche a scrivere sonetti (la mia grande passione), quando ero prigioniero ne avevo scritti un centinaio. Mi piange il cuore nel vederli chiusi in un cassetto, come carta straccia finiranno in una discarica, fanno parte della mia vita e raccontano la mia odissea, comune ai tanti soldati che furono protagonisti nell’ultima guerra, molti dei quali non fecero ritorno alle loro famiglie.

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Siro Vignolini, telegrafista, in una foto presa davanti alla caserma Moccagatta a Bengasi nel 1939. 85


Fotografia del reparto di Siro Vignolini; Bengasi 1939. 86


Due immagini scattate sulla nave che riportava in Libia Siro Vignolini; è ripreso con due suoi commilitoni, Giovanni Bandini e Brachi. 87


Caserma Moccagatta, Bengasi; 1939. 88


Tre caporal maggiori telegrafisti: Siro Vignolini, Rolando Gremetieri Mario e Mario Fedele: La foto fu scattata a Bengasi; 1939. 89


Copertina del libro paga del prigioniero Siro Vignolini. 90


Interno del libro paga del prigioniero Siro Vignolini, con i suoi dati personali. 91


Dichiarazione di adesione alla guerra contro la Germania firmata da Siro Vignolini. 92


Vogliamo chiudere questo volume di ricordi e testimonianze di guerra, con tre poesie di Siro Vignolini, scritte durante la sua prigionia in Sudafrica.

ANNI DI GIOVENTU’ RUBATI RICORDI DI GUERRA E DI PRIGIONIA

Quando la notte scende Quando la notte, scende nel mio cuore si sveglia di ricordi un grande arcano, che la tenebra porta da lontano in questo luogo tinto di terrore1 La mia casetta, il biondeggiante grano, l’uva matura vedo in un bagliore sfilar davanti l’occhio mio, l’amore che mi sorride e mi porge la mano. Ma ecco le quattro stelle2 del dolore salire in cielo e, come un sogno vano, vedo il recinto, risento il clamore delle fievoli voci il parlar strano che mi tolgono all’estasi il sapore e rientro in quest’alveo disumano.

1) Il reticolato (N. d. A.) 2) La Croce del Sud (N. d. A.) 93


ANNI DI GIOVENTU’ RUBATI RICORDI DI GUERRA E DI PRIGIONIA

Passano l’ore Passano l’ore, i dì, le settimane, passano i mesi , le stagioni egli anni, e noi “ P.D.G.”3 in mezzo a tanti affanni ancora in questa gabbia si rimane. Tra le angustie penose e i gravi danni di un’attesa serotina , le vane immagini di gioia, “il dolce pane” non allietan, ma più son torvi inganni. Oh, libertà perché non ascolti il pianto di noi soldati vinti e prigionieri, che non soccorri quei che ti aman tanto? Oh, grande cosa desiata – imperi la tua potenza e, come per incanto, riportaci le gioie come ieri.

3) Prigionieri di guerra. (N. d. A.) 94


ANNI DI GIOVENTU’ RUBATI RICORDI DI GUERRA E DI PRIGIONIA

25 dicembre 1941 4 Il Natale del bimbo nazareno è giunto col suo giubilo di pace fra l’angustie penose sì mordace che non soffriamo in questo arido seno La neve qui non cade sul terreno bella soffice come da noi piace, e il ceppo a consumar così vorace fra quella fiamma ardente c’è nemmeno. Il sole brucia, scotta è qui l’estate5: la gabbia ci detien, nel cuor si sente un vuoto come un libico deserto e l’occhio per “colui” freddo, scoperto cader lascia una lacrima silente sperando che di noi abbia pietà.

4) Primo Natale in prigionia. (N. d. A.) 5) Nell’emisfero australe le stagioni sono invertite rispetto alle nostre. (N. d. A.) 95


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