Ultime Voci Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti a cura di Luca Squillante
Volume quinto Prato 2012
“Se l’antifascismo ha potuto condurre una così grande e lunga lotta e uscirne poi vittorioso nella Resistenza, ciò è anche dovuto al sostegno, all’abnegazione, ai sacrifici delle nostre compagne e del loro lavoro, non sempre appariscente ma di grande valore di cui non se ne parla quasi mai”. Dalla testimonianza Matrimonio sull’Isola di Ventotene, riportata in questo volume.
Redazione a cura di Luca Squillante. Impaginazione e grafica a cura di Luca Squillante. Luana Cecchi ha realizzato l’intervista a Roberta Bartoletti e ha raccolto la testimonianza di Luisa Tozzi. Giorgio Lavorini ha raccolto la testimonianza di Dilvia Zucconi. Michele Di Sabato ha raccolto la testimonianza di Lia Vittoria Sara Millul e delle sorelle Nepi. Ennio Saccenti per la testimonianza su Ofelia Giugni. Silvana Santi Montini ha realizzato le interviste a Sara Castellani, Maria Corazza Poggiali, Franca Favini, Giacomina Giacomelli, Marisa Migliani, Maria Laetita Pala in Mazzoni, Marisa Palloni, Franca Poggiali, Fedora Toccafondi, Rosetta Valenza. Francesco Venuti ha realizzato le testimonianze di Tosca Martini e Teresa Meroni ed ha elaborato la vicenda 5 Settembre 1944: un delitto occultato. Si ringraziano Loretta Magnolfi Calamai e Luciana Riva per la loro disponibilità a riproporre su questo volume le proprie testimonianze. Si ringrazia la Fondazione CDSE Centro di Documentazione Storico Etnografica per le fotografie di Tosca Martini e Teresa Meroni. La fotografia di copertina ritrae un gruppo di tranviere. Le donne sostituiscono gli uomini che sono al fronte in tutte le mansioni lavorative. Associazione Nazionale Combattenti e Reduci – Federazione di Prato
Piazza San Marco 29 – 59100 Prato Telefono e fax 0574/21352 Email ancr.po@gmail.com
Presentazione
Il sacrificio delle donne in Guerra Ho proposto al comitato di redazione delle Ultime Voci che la quinta pubblicazione fosse redatta con le memorie di guerra delle donne, il loro sacrificio, i loro dolori, la loro sopportazione, il contributo dato in vite umane. Io penso che particolarmente nella seconda Guerra Mondiale possiamo additarle generalmente superiori agli uomini. La donna è madre è sorella, è moglie, è amore, è datrice di vita, la considero eroica in pace e in guerra, la considero eroica in tutta la vita perché essa soffre il parto, sa che potrebbe perdere la vita come ogni tanto succede, assiste suo figlio e la famiglia, lavora, a fine giornata si dedica alle faccende di casa; molte donne hanno prestato servizio in guerra come crocerossine, hanno partecipato armi alla mano alla Resistenza, nella prima guerra mondiale le famose portatrici carniche rifornivano i loro uomini combattenti in alta montagna di munizioni, vettovagliamento, abiti e biancheria di ricambio, alcune persero la vita, molte furono ferite da cecchini Austriaci. La donna per tutta la vita è disponibile ad offrire la sua esperienza e protezione in tutte le situazioni difficili che la guerra porta, particolarmente la fame; la madre è spesso sola, con il marito al fronte di cui non ha notizie se è morto o prigioniero, ma lei combatte e vince con l’amore. Tantissime madri hanno pianto la perdita di un figlio, del marito del fratello, poi, essa muore nei tanti eccidi, nella resistenza, nei bombardamenti nella deportazione. L’uomo muore in combattimento con il pensiero alla madre, la chiama. La donna inizia a morire quando perde il figlio, il marito, il fratello, il suo amore che ha avuto e dato in vita. Nello stesso tempo la donna sa anche battersi per il riconoscimento dei diritti non solo della sua categoria, ma anche di quelli di tutti. Nella storia dell'Italia del '900, quando il 2 febbraio 1945 il governo presieduto da Ivanoe Bonomi emanò il decreto legislativo luogotenenziale che riconosceva alle donne il diritto di voto e di conseguenza il suffragio universale, non fece altro che sancire il risultato di decenni di lotte femminili per la
parità di condizioni. Il 2 giugno 1946 la vittoria referendaria a favore della Repubblica fu anche e soprattutto merito delle donne, che sono sempre state statisticamente superiori agli uomini per numero di aventi diritto al voto. Contestualmente a questa vittoria si insediò quell'Assemblea Costituente che avrebbe dato vita alla Costituzione della nostra Repubblica. L’intento della presente opera è quello di mettere in luce le tante e varie modalità di trasmettere la memoria e il suo valore educativo. La speranza è quella di poter dare elementi di stimolo e di riflessione “per un ulteriore sviluppo della memoria del dramma in cui affondano le radici comuni dell’Unione Europea” e la nostra bellissima Costituzione, nata appunto dalla Resistenza, nella quale tanta parte, come abbiamo visto, hanno avuto le donne, e non solo come sofferenza, ma come presa di coscienza della propria forza e consapevolezza di diritti. Sergio Paolieri Presidente della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci Prato, settembre 2012
Ringraziamenti
Ciascun volume di Ultime Voci che viene pubblicato rappresenta il risultato di un lavoro collettivo, da parte di più persone che con compiti diversi si impegnano affinché la memoria non vada persa. Questo è vero a maggior ragione per questo volume dedicato alle donne, un volume speciale per il tema e per l’eccezionale numero delle testimonianze che raccoglie: nessuno dei precedenti numeri, infatti, presenta un indice delle testimonianze così ricco di nomi e di vicende. A tutti i protagonisti delle vicende va il nostro primo ringraziamento, perché è grazie alla loro disponibilità a raccontarsi che la nostra collana esiste e prosegue. Il successivo grazie va ai collaboratori, che raccolgono e sistemano i racconti dei testimoni. Ringraziamo Luana Cecchi per l’intervista a Roberta Bartoletti ed il racconto di Luisa Tozzi. Giorgio Lavorini che ha scelto di pubblicare sulla nostra collana le vicende della madre Dilvia Zucconi. Michele Di Sabato, per le testimonianze su Lia Vittoria Sara Millul e sulle sorelle Nepi, nonché per le numerose ricerche la cui traccia si ritrova in altre testimonianze. Ennio Saccenti per il ricordo di Ofelia Giugni. Ancora, grazie a Silvana Santi Montini, che ha realizzato le interviste a Sara Castellani, Maria Corazza Poggiali, Franca Favini, Giacomina Giacomelli, Marisa Migliani, Maria Laetita Pala in Mazzoni, Marisa Palloni, Franca Poggiali, Fedora Toccafondi, Rosetta Valenza.
A Francesco Venuti che ha realizzato le testimonianze di Tosca Martini e Teresa Meroni ed ha elaborato la vicenda 5 Settembre 1944: un delitto occultato. Si ringraziano ancora Loretta Magnolfi Calamai e Luciana Riva per la loro disponibilitĂ a riproporre su questo volume le proprie testimonianze. Infine, un particolare ringraziamento va alla Fondazione CDSE Centro di Documentazione Storico Etnografica per le fotografie di Tosca Martini e Teresa Meroni.
Indice delle testimonianze
Roberta Bartoletti........................................................................13 Sara Castellani............................................................................17 Franca Favini..............................................................................19 Giacomina Giacomelli.................................................................21 Ofelia Giugni..............................................................................25 Loretta Cesira Magnolfi Calamai...................................................29 Tosca Martini..............................................................................34 Teresa Meroni.............................................................................37 Marisa Migliani............................................................................39 Lia Vittoria Sara Millul.................................................................43 Maria Laetitia Pala in Mazzoni......................................................48 Franca Poggiali...........................................................................55 Marisa Polloni.............................................................................61 Maria Corazza Poggiali................................................................64 Luciana Riva...............................................................................71 Fedora Toccafondi........................................................................74 Luisa Tozzi.................................................................................80 Rosetta Valenza..........................................................................82 Il sacrificio della donna in guerra - avvertenza..............................97 Portatrici Carniche....................................................................................98 Anna Maria Enriques Agnoletti.........................................................102 Le spose in stato di gravidanza di S. Anna di Stazzema.............................104 Il sacrificio delle donne della Provincia di Prato....................................107 La strage di Artimino.....................................................................107 Donne Pratesi eroiche...................................................................112 5 Settembre 1944: un delitto occultato..............................................115 Il crollo della galleria di Saletto........................................................118
Volume quinto Roberta Bartoletti
Roberta nel giugno 1944 fu costretta ad evacuare dal paese sull’Appennino Tosco – Emiliano in cui viveva per trasferirsi in un paese situato a 1019 metri d’altitudine lungo la Linea Gotica. In questo “agglomerato di case” si trattenne fino all’arrivo degli Alleati, quando poté rientrare nella sua casa.
Vivevo a quell’epoca, cioè quando ero una bambina, in un paese di montagna nell’Appennino Tosco-Emiliano, paese di villeggiatura, ma in quel periodo, c’erano molte persone sfollate dalle città limitrofe per paura dei bombardamenti. Il mio paese era molto bello oppure così pareva a me che ci abitavo. C’erano tanti boschi dove nel mese di giugno si raccoglievano le fragole, di luglio i funghi e in ottobre le castagne. C’erano certi viali con bellissimi faggi diritti come ceri e molti molti abeti. C’era anche un fiume che scorreva sotto la mia casa, dove noi bambini andavamo a pescare. Purtroppo tutto questo ebbe fine con l’inizio della guerra. In quel tempo il paese era molto affollato, in particolar modo dalle truppe tedesche che insieme a quelle italiane stavano facendo le fortificazioni per il passaggio del fronte. Nei giorni che precedettero l’evacuazione dei civili dal paese, c’era un gran fermento tra i soldati tedeschi e si udivano ripetere le parole “rauss” e “kaput” che davano un senso di sgomento a chi le udiva perché sembravano annunciare qualcosa di tragico per noi civili. I grandi, cioè i nostri genitori, mostravano in viso espressioni molto gravi: pensavano con preoccupazione alla loro e di più alla nostra sorte di figli. In questo clima davvero 13
Ultime Voci poco promettente passammo un inverno durissimo. Nel mese di giugno del 1944, il comando tedesco ordinò l’evacuazione del paese, così con grande tristezza preparammo le nostre poche cose e sfollammo in un piccolo borgo agricolo, per fortuna poco lontano dal nostro paese. In questa località vivemmo delle tragiche vicissitudini. Infatti il paesino dove andammo era un agglomerato di case dell’Appennino Tosco-Emiliano collocato proprio sulla linea Gotica. Si trovava a 1019 metri di altitudine, senza acqua, né luce... In compenso non mancavano latte, burro, formaggio e pane, perché mio nonno aveva in quel luogo alcuni terreni in proprietà e coloni (mezzadri), così noi potevamo usufruire di tutta quella grazia di Dio. Intanto i nostri uomini preparavano il rifugio per un eventuale, necessario sgombero dalle case e mio zio ingegnere dava la sua opera di tecnico per armare la struttura di quello che sarebbe diventato il nostro ricovero per parecchi giorni. Il primo settembre 1944, verso le diciotto, quando ancora non era pronta la porta d’uscita del rifugio, cominciarono a piovere fitte fitte le cannonate e tutti dovemmo rifugiarci in questo antro senza sfondo, dove c’era acqua per terra e acqua che veniva giù dalle travi. Mia madre era inferma, così mio padre la prese sulle spalle e con grande fatica riuscì a fare l’erta salita che conduceva al rifugio. A intervalli arrivavano le persone del villaggio, sfollati e contadini del posto per proteggersi dalla furia delle cannonate. La prima notte fu terribile. Non era possibile entrare tutti nel rifugio perché eravamo più di sessanta persone e il rifugio poteva contenerne una quarantina, ma questo si seppe dopo qualche giorno, quando diverse persone dissero di essere uscite dal rifugio non potendoci respirare e aver dovuto trascorrere la notte all’addiaccio. Sopra i mille metri , a settembre l’aria è già abbastanza fredda. Durante la notte, fra uno sparo di cannone e un rumore di aereo, sentimmo un cigolio di carri armati, gli uomini più anziani, quelli che avevano fatto l’altra guerra, con molta preoccupazione per ciò che prevedevano, dissero che i tedeschi portavano i pezzi di artiglieria per opporre resistenza sul nostro piccolo borgo, questo aggiunse ancora più disperazione alla nostra situazione già abbastanza tragica. La mattina dopo verso l’alba ci rendemmo conto che in quel rifugio dovevamo starci diversi giorni e non sapevamo come avremmo potuto resistere in quelle condizioni: senza acqua, senza cibo e con tutti i pericoli che comportava tale situazione. I disagi subiti furono tanti, ne menzionerò in breve i più salienti. 14
Volume quinto C’era un bambino di poco più di un anno che aveva bisogno di mangiare pappe calde e solo a lume di candela era possibile riscaldarle, e poi non essendo sufficienti a sfamarlo erano ugualmente pianti strazianti di fame e di ogni cosa. Le persone anziane non potevano uscire perché debilitate dal poco cibo e dalla paura. Molti di noi giovani eravamo pieni di eruzoni sulla pelle per mancata igiene e con tanto freddo addosso, perché il rifugio non poteva contenerci tutti, come ho già detto. Insomma la situazione era davvero tragica. Ma qui avvenne il miracolo. Da un paio di mesi vivevano nel paesino cinque militari tedeschi a presidio della zona, e noi civili avevamo fatto amicizia con loro. Uno di questi si chiamava Franz, era un bel ragazzo biondo e robusto, il classico tipo tedesco. Frequentava una bella ragazza sfollata con la famiglia da una città vicina. Fra loro era nata una forte simpatia e questa dolce vicenda giovò a tutti noi. Un giorno, quando i morsi della fame cominciavano a farsi sentire con più forza, arrivarono quei cinque tedeschi con una grande pentolona di minestra, con dentro pezzi di carne di maiale, di pollo, di coniglio e verdura, cioè con tutto quello che avevano potuto racimolare nel villaggio. Così per diversi giorni ci portarono il pranzo. Ma un giorno fummo molti dispiaciuti perché una scheggia di cannone aveva colpito la pentola provocandovi un grosso buco dal quale era fuoriuscita la minestra che fu comunque sufficiente a sfamare tutti. La vicenda così umana, ci fa capire che quando c’è una sincera amicizia non ci sono barriere tra i popoli e questo sentimento univa i giovani tedeschi a noi italiani. Dopo tanti anni, ripensando a quei momenti, sembra incredibile averli vissuti ed io non potrò dimenticare la gentilezza dimostrata da quei giovani soldati in un conflitto così atroce che portò morte e tante sventure. Dopo quattro giorni di permanenza nel rifugio, gli uomini dovettero scappare per nascondersi nelle boscaglie fitte perché avvertiti dell’arrivo delle truppe delle S.S., venute per rastrellare gli uomini e le donne: i primi per i lavori di fortificazione e le seconde destinate alle cucine per le truppe tedesche. I nostri amici tedeschi ci consigliarono di resistere ancora per pochi giorni, loro dovevano partire per unirsi al loro reggimento in ritirata, ma dicevano che presto sarebbero finite anche le nostre pene. Questa partenza ci procurò molto dispiacere perché in un certo senso la loro vicinanza 15
Ultime Voci ci dava un po’ di sicurezza. I giorni che rimanemmo nel rifugio passarono tristemente, senza il sostegno degli uomini, senza mangiare e con tanta paura. Gli aerei di ricognizione solcavano il cielo di continuo e le cannonate piovevano sempre più di frequente. Per fortuna il rifugio era ubicato in un punto scosceso, e aveva davanti una piccola altura per cui era difficile che gli aerei ci potessero avvistare. Dopo tante pene di ogni genere, il dodicesimo giorno, la mattina presto, sentimmo un gran trambusto di macchine,un parlare diverso dai tedeschi e avemmo la grande sorpresa di vedere uomini in uniformi mai viste. Ci rendemmo conto che quei soldati erano i nostri salvatori. Finalmente erano arrivati gli Alleati e per noi la guerra era finita. I soldati vennero su al rifugio e furono molto meravigliati di trovare in quel piccolo antro umido e maleodorante persone inferme, bambini e vecchi in condizioni veramente disperate. Venne un ufficiale medico a visitarci, portò medicine e rimedi del caso per i più bisognosi di cure, ma dovemmo restare per due giorni ancora nel rifugio piantonati dai soldati. Dopo tante pene e sofferenze di ogni genere arrivammo al quattordicesimo giorno e finalmente potemmo riprendere la via di casa. Rientrammo nelle case bombardate e pericolanti, con tanti soldati che giravano per tutto il borgo distribuendo viveri, cioccolate e sigarette. Soltanto dopo qualche mese potemmo ritornare al nostro paese. Trovammo la nostra casa disastrata e piena di soldati. Il paese era tutto in rovina, senza luce, né acqua; le strade piene di fango e si camminava con difficoltà. Molte piante lungo i viali erano state abbattute dai militari per difendersi dal freddo dell’inverno. Era uno spettacolo molto triste. Il paese aveva un aspetto sinistro, quasi spettrale. Le case in gran parte distrutte, i ponti caduti per i bombardamenti. C’erano pezzi di artiglieria che sparavano ad una distanza di 60 chilometri e questo avveniva due volte al giorno, e quando c’era questa azione i tramezzi dentro le case crollavano come fossero di cartone. I soldati andavano e venivano dal fronte e naturalmente nel paese era un vivere ancora in guerra. Il fronte era fermo a cinquanta chilometri, così fra una disgrazia e l’altra, finalmente arrivò la primavera e con essa cessarono i conflitti bellici. La vita, molto lentamente riprese la normalità. 16
Volume quinto Sara Castellani
Sara Castellani è nata a Prato il 7 marzo 1933. Fin da giovane è stata parte attiva nelle lotte per la conquista dei diritti dei lavoratori e delle donne. E’ stata consigliere nel comune di Vaiano.
Sara è lieta di partecipare a questa nostra raccolta di memorie con un suo racconto di guerra, testimonianza di vicende vissute e rimaste indelebili, come si deduce anche dal titolo del lavoro scelto “Ricordi da ricordare”. Sara Castellani conosce e apprezza l’impegno e il lavoro intrapreso dalla “Casa delle memorie di guerra per la pace” con “Ultime voci”, ed è contenta di contribuirvi. RICORDI DA RICORDARE Quel giorno era il mio compleanno sette marzo 1944, avevo undici anni. Eravamo in guerra e il nostro cielo e la nostra serenità, era offuscata da quelle formazioni aeree che sorvolavano di frequente anche sopra La Briglia, obbiettivo la ferrovia e la fabbrica Forti. Un sinistro allarme anticipava l’arrivo di quei bombardieri. Convinti di un rifugio sicuro, correvamo in galleria all’interno delle nicchie.
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Ultime Voci A volte, per aspettare il cessato allarme, si fermavano in galleria i treni della Croce Rossa, ma quel giorno, era un treno con i vagoni piombati, e dai piccoli finestrini, tante mani tese chiedevano aiuto. Incosciente per la mia giovane età, riuscii ad arrampicarmi, mettendo i piedi nelle fessure, e porgere il mio “uovo sodo” in una di quelle mani, la mamma me lo aveva messo in tasca prima di scappare. All’interno di quel vagone una voce gridava: - Dimmi come ti chiami... e dove siamo... - Con quanto fiato avevo in gola, dissi il mio nome, e poi, siete a La Briglia, comune di Prato. Turbata, accompagnai con lo sguardo quel treno che riprendeva il viaggio, con un carico di dolore. I giorni passavano e la nostra speranza era la fine della guerra, carica di tante tragedie, come i morti sotto le bombe della Briglia, i ventinove martiri di Figline, i deportati dai tedeschi... La storia di Bruno Doni in Russia, fortunatamente ritornato. Il mio racconto non finisce qui. Un giorno squillò il campanello di casa mia. Aprii e sulla porta un signore , molto ben vestito, ma provato nel fisico, si reggeva a malapena in piedi. Gli chiesi cosa desiderava. Cerco Sara Castellani. Sono io, gli risposi. Mi prese le mani e le strinse così forte, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Io non capivo. Cosa c’entravo io con quella emozione? Lo feci entrare in casa, gli offrii un bicchiere d’acqua e quando si calmò, mi disse, che era sua , quella mano tesa che aveva ricevuto quell’uovo sodo, e la speranza di potermi un giorno conoscere, non l’aveva mai abbandonato.
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Volume quinto Franca Favini
Franca Favini è nata nel dicembre del 1936. Durante la Seconda Guerra Mondiale la casa dove era sfollata con la sua famiglia fu bombardata e perse la madre ed i fratelli, oltre ad altri due cugini; lei si salvò perché la paura non la trattenne dall’entrare in casa.
Testimonianza resa per iscritto da Franca Favini sotto forma di lettera e corretta da Silvana Santi Montini.
e ricostruita
Sono una signora di 75 anni che compirò a dicembre, abito a Prato. Sul giornale che mi arriva a casa, ho letto cose che mi hanno spinto a scrivere questa lettera per raccontare la mia storia. Sono una vittima di guerra non riconosciuta pur avendone tutti i requisiti. Sono vedova da due anni. Ero sposata con un pratese dal quale ho avuto due figli, uno ha ora 46 anni, l’altro Alessio, ne ha 43 ed è malato di un tumore. Sottoposto a continue chemio spero riesca a sfangarla. Però lo scopo di questa mia lettera, non è questo,bensì quello di raccontare i fatti di cui mi sento vittima non riconosciuta. Dunque, all’epoca abitavo a San Quirico di Vernio e nel periodo della seconda guerra mondiale eravamo sfollati a Castiglion dei Pepoli, località Bacucci, quando fummo avvertiti che Prato era stata liberata. Tutti contenti uscimmo fuori dalla baracca che ci faceva da rifugio. Eravamo in tanti. Io e la mamma eravamo andate a prendere dell’acqua a una fontanelle nelle vicinanze, quando sentimmo un gran rumore come di cannonate. Erano bombe che ci arrivavano addosso, quelle che si chiamavano “granate”. Corremmo 19
Ultime Voci verso la baracca e trovammo una strage. La mamma entrò d’impulso, pensando di poter salvare qualcuno. Io rimasi bloccata sulla porta e rimasi viva. Dentro fu una strage, perirono tutti. Meno male! I miei zii e il mio babbo erano nei boschi per sfuggire ai tedeschi. Invece la mamma con i miei fratelli: Giulio di anni dieci, Franco di sei e il più piccolo di due, perirono in quel bombardamento. Così rimasi sola col mio babbo, il nonno, la nonna e una zia. Anche ai miei zii, però, morirono in guerra,e proprio in quell’incidente, uno o due figli allo zio Mario, e allo zio Quinto ricordo che erano sicuramente due. Ricordo anche, e molto bene, che poi cominciò a piovere e che a un contadino del posto scapparono dalla stalla tanti maiali, per la paura e perché, dicevano, l’odore acre del sangue li invitava verso i morti. I miei zii e il mio babbo li tennero a bada per un bel po’ e finalmente riuscirono a mandarli via. Insieme a noi, nel rifugio- baracca, c’era una famiglia di sei persone, di Luciana, perirono tutti. A Vernio, appena saputo della strage, il Comune mandò alcuni barroccini per trasportare i morti, i quali furono sistemati nel salone del Comune in attesa di preparare le bare per la sepoltura. Allora, di fronte a questi fatti, io sono ancora qui a domandarmi, come mai, i figli dei miei zii hanno avuto una piccola pensione, che tuttora la mia cugina riscuote. Nella stessa condizione, a me non è stata mai riconosciuta. Al tempo dei fatti, avevo otto anni, le bombe della guerra mi portarono via quattro famigliari: tre fratelli e la mamma, tutti insieme, in quello stesso bombardamento dove perirono i miei cugini. Ero iscritta agli orfani regolarmente. Ha forse sbagliato qualcosa il mio babbo nel fare la domanda?! Su questo se fosse possibile, vorrei una risposta. Tanto per sapere come sono andate le cose, se pure, ormai, sono trascorsi tanti anni...
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Volume quinto Giacomina Giacomelli
Giacomina Giacomelli è nata a Vaiano il 19 luglio 1923, in una famiglia benestante: la mamma gestiva il telefono pubblico di Vaiano e il babbo era vice direttore della fabbrica Calamai sul Bisenzio. Quando la famiglia venne ad abitare a Prato, Giacomina era ancora una bambina, ma vi è cresciuta e ci vive ancora.
Quasi un romanzo Se dovessi raccontare tutto quello che ho passato ci sarebbe da scrivere un romanzo, dirò l’essenziale iniziando da qualcosa di bello. Ho avuto un’infanzia felice, ci tengo a dirlo, perché quello è stato il tempo più bello e felice della mia vita. La mamma, Zaira Squilloni, gestiva il centralino del telefono pubblico di Vaiano, noi bambine ( eravamo tre sorelle) andavamo a portare gli avvisi alle persone e avevamo diritto a una mancia che mia sorella sapeva reclamare con fermezza. A Vaiano, all’epoca, eravamo le uniche bambine ad avere una bicicletta vera perché nessuno se la poteva permettere. Tutti gli altri bambini del paese hanno imparato ad andare in bicicletta con la nostra e questo sta a dimostrare la grande fraternità che c’era nel popolo e che non si consideravano le diversità; anzi quando un bambino, maschio o femmina, aveva imparato ad usarla, era festa per tutti e noi ne eravamo fiere. Il babbo era Vice Direttore nella fabbrica Calamai sul Bisenzio detta “Calamaione” per distinguerla dall’altra, guadagnava mille e duecento lire al mese, e quello era il tempo 21
Ultime Voci della canzone “Se potessi avere mille lire al mese”! Si stava bene ma proprio per essere più vicino al lavoro il babbo decise di trasferirsi a Prato. Aveva già fatto il compromesso per il terreno dove costruire la casa e ci aveva mostrato, mi ricordo come se fosse ora, il denaro messo in bella mostra sul letto. Perché il babbo, Nello, aveva la sana abitudine di metterci a parte dei suoi progetti sempre. Forse proprio per renderci consapevoli che eravamo in condizione di poter affrontare senza problemi la nuova situazione e il progetto di farsi una casa. Però successe una cosa brutta e improvvisa. La mamma si ammala di setticemia, una malattia difficile e lunga perché al tempo non c’erano rimedi adeguati. Furono due anni di lotta, di tante spese e di speranza. I soldi per la casa andarono tutti per le cure, i consulti medici, le infermiere, perché la mamma fu curata in casa, in particolare dal nostro medico di famiglia e amico Dottor Emilio Bettini: bravissimo. La sua bravura e capacità professionale fu riconosciuta e apprezzata anche dai luminari da lui chiamati per i vari consulti. Grazie alle cure del Dottor Bettini, l’assistenza continua e premurosa di persone che seppero esserci vicino, la mamma guarì perfettamente e non ne risentì mai. Visse fino all’età di 91 anni, accudita e tenuta come una principessa dalle figlie, eravamo tre, e dai nipoti. Io ero orgogliosa di farmi vedere con la mamma. Però anche in quel caso di grande difficoltà, sia il datore di lavoro, i fratelli Calamai, come il Direttore Signor Bisori, furono molto vicini alla nostra famiglia, perché Nello, il mio caro babbo, era uomo stimato e di valore. Il babbo era un antifascista ma stava al suo posto, né cercava di imporre ai famigliari le proprie idee, pur manifestandole. Era un uomo giusto, rispettoso, con valori veri di grande umanità a cui aderiva in ogni sua manifestazione. Un uomo di cui il mondo si fa deserto. Tempo di guerra Dal balcone di piazza Venezia Benito Mussolini annuncia alla folla, all’Italia e al mondo, con un discorso plateale, l’entrata in guerra dell’Italia: 10 maggio 1940. Quell’annuncio mi impressionò profondamente, avevo allora 17 anni. Ne ebbi un turbamento così forte che la rievocazione mi fa ancora male e non posso pensarci. Abitavamo a Prato nella zona di via Filicaia, ma intorno c’erano tutti campi; c’erano soltanto le case dei reduci 22
Volume quinto in via Dei Ciliani e quelle della Concordia (dal nome della Cooperativa che le costruì) di via Rubieri. I primi tempi della guerra restavamo in casa, solo agli allarmi andavamo nel rifugio costruito dal babbo nel giardino di casa, una buca scavata sotto terra, o nei campi intorno. Ma quando la guerra si fece più seria con bombardamenti continui, il babbo capiva che non era più il caso di restare in città e ci portò a Fognano, in Vallata. Ma qui le cose non migliorarono perché essendo vicino alla linea Gotica c’erano continui rastrellamenti e rappresaglie e non si era mai tranquilli. Da Fognano si poteva vedere gli aerei bombardare la città, quando succedeva montava in me un desiderio irrefrenabile: prendevo la bicicletta e correvo a Prato a vedere se la casa era ancora in piedi. Una volta venne con me anche mia sorella, fummo fermate dai tedeschi e volevano la bicicletta, mia sorella si oppose con tutte le forze alla loro prepotenza, finché ci puntarono contro la rivoltella. Però dopo, mia sorella ebbe la forza e il coraggio di presentarsi al comando tedesco che era al Montale per farsela rendere, ma non ci fu nulla da fare. I miei genitori decisero allora di andare a Firenze, dalla famiglia di un amico, era un colonnello al quale il babbo aveva fatto l’attendente da militare e poi erano rimasti in ottimi rapporti di amicizia, e la promessa che per qualsiasi necessità o bisogno la sua casa era sempre aperta. Abitava in via delle Caldaie, nei pressi di piazza Santo Spirito. Così partimmo per Firenze. Caricammo le nostre cose sulla bicicletta del babbo, più un sacco di farina e un prosciutto e ci mettemmo in marcia. Prima di partire il babbo dette a ciascuna di noi un sacchettino che appuntammo con uno spillo da balia sotto il vestito all’altezza del petto. Dentro aveva messo, non ricordo bene se venti mila o duemila lire per ognuno; ventimila mi sembrano tanti e duemila pochi, comunque ricordo che consideravamo di avere una bella cifra. Ci aveva dato quei soldi pensando che se ci fosse capitato qualcosa di brutto o fossimo stati divisi i soldi ci avrebbero potuto aiutare. Lungo la strada, di tanto in tanto, s’incontravano altri fuggiaschi, alcuni avevano un carretto carico di robe. Qualcuno più misericordioso ci offriva di salire per alleviarci dalla fatica e dal disagio di tanto camminare a piedi. A sera, sul tardi, arrivammo a casa dell’amico. Ripetutamente bussammo alla porta, ma nessuno venne ad aprire. Oltre alla stanchezza ci prese una grande delusione e non sapevamo cosa fare. Sapemmo dopo che c’erano in casa ma avevano l’ordine di non aprire a nessuno e per nessuna ragione, dopo un certo orario. Tornammo indietro 23
Ultime Voci e passammo la notte in un piccolo albergo in via Dei Fossi. La notte porta consiglio. Infatti la mattina il babbo si ricordò della Marianna che aveva aiutato la nostra famiglia, più che se fosse stata parente, durante la malattia della mamma, e con la quale eravamo rimasti in contatto e in ottimi rapporti. Il babbo si ricordava che Marianna aveva sposato un uomo che abitava in via San Zanobi e davanti agli occhi aveva fisso e preciso l’uscio di quella casa. Così andammo là e fummo accolti con calore e festa. Loro avevano un buon quantitativo di riso e noi un sacco di farina e un prosciutto che avevano viaggiato da Fognano a Firenze, fortunatamente senza incidenti. Posso dire di non aver mai patito la fame e in mezzo a tante tribolazioni e incertezze era già una bella fortuna. Poi nell’imminenza dell’arrivo degli Alleati, i tedeschi fecero saltare i ponti sull’Arno e i cecchini sparavano a qualunque cosa si muovesse. La situazione era molto pericolosa, per cui il babbo decise di spostarsi ancora. Gli amici ci indicarono il nome di un contadino che abitava all’Impruneta e che ci accolse con familiarità e non ci fece mai mancare nulla. Era una famiglia numerosa, allegra e cordiale. In quel luogo ho assistito alla trebbiatura del grano sull’aia e alla vendemmia. Rammento il gran da fare, la polvere, la fatica del lavoro e che mi ammalai, perciò sia dell’una che dell’altra “faccenda” non ho un buon ricordo. A guerra finita siamo tornati a Prato, abbiamo trovato la casa tutta una rovina. L’abbiamo ricostruita e piano piano la vita è ricominciata nella normalità delle cose. Di recente sono tornata a vedere quest’ultima località che ci accolse sfollati. Nulla è rimasto com’era. Sono state costruite tante case e strade e di contadini nemmeno l’ombra. Ma pur essendo tutto cambiato, ho riconosciuto quel muro rimasto come allora, di cinta alla strada, uguale. Quando mi sono resa conto di dove ero, ho sentito dentro un tuffo di ricordi e una forte emozione mi ha fatto rabbrividire nel pensiero di ciò che abbiamo vissuto e grazie a Dio di averla scampata.
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Volume quinto Ofelia Giugni
Ofelia Giugni nasce a Schignano il 6 marzo 1906. Animata fin da giovane da sentimenti antifascisti, opera fin dal 1943 come staffetta portando viveri e messaggi ai partigiani della Brigata Buricchi, tra cui incontra il comandante Armando Bardazzi, al quale resterà legata per la vita e che sposerà in punto di morte nel 2001.
Ofelia Giugni è stata una formidabile staffetta partigiana che ha operato sul territorio pratese, dimostrando sempre grande coraggio e tenacia. Ofelia nasce a Schignano il 6 marzo 1906 e lavora come operaia alla fabbrica del Forti a La Briglia, fin da giovane mostra la sua avversione per il fascismo perché non sopporta i soprusi, famoso è rimasto un episodio quando, da ragazza, schiaffeggiò un fascista che aveva l’abitudine di toccare le ragazze e quando questi cercò di farlo con lei reagì immediatamente. Alle minacce profferte dai fascisti tutta la famiglia Giugni si mise di vedetta in casa con i fucili per respingere eventuali aggressioni che poi però non ci furono dimostrando quanto vili fossero certi personaggi appartenenti alle camicie nere. Ofelia comincia subito la sua attività come staffetta fin dal settembre 1943 ed il suo primo atto di resistenza è il favorire la fuga di alcuni militari italiani fermati e costretti dai tedeschi a scendere dal camion su cui viaggiavano poiché si rende conto che li attende una sorte incerta. Il camion era stato fermato proprio davanti a casa sua a La Briglia ed Ofelia fa capire a gesti ai giovai di entrare in casa e poi, con la collaborazione della madre e della sorella Ada, anche in seguito sua compagna nella lotta partigiana, li fa uscire dalla 25
Ultime Voci porta posteriore che si apre sul bosco. Aiutare i militari che scappavano dopo l’8 settembre è una delle azioni che fanno sostanzialmente le donne in molte regioni italiane poiché i nostri soldati vengono colti impreparati dalla notizia dell’armistizio firmato per ordine del re Vittorio Emanuele II con gli Angloamericani e, senza ordini da parte delle gerarchie militari, i soldati si sbandano e cercano di tornare con tutti i mezzi possibili a casa, purtroppo lungo il tragitto molti vengono catturati e poi deportati in Germania dai tedeschi perché divenuti nemici del Terzo Reich. Ofelia insieme alla madre ed alla sorella aiuta questi giovani soldati, ma uno dei ragazzi che si è rifugiato da loro rifiuta di scappare nel bosco perché troppo impaurito e le donne sono quindi costrette a nasconderlo sotto il letto anche se si rendono conto del pericolo che corrono ed addirittura si preparano con alcuni bastoni a difendere il giovane in caso di perquisizione dei tedeschi, fortunatamente a fuga non viene scoperta ed il ragazzo per il momento è salvo. In seguito sarà sempre Ofelia a portarlo al sicuro presso la casa di un contadino a Popigliano ed a mandare un messaggio alla famiglia del ragazzo, messaggio in cui, fingendosi una parente, rassicura sulle sue condizioni di salute e si firma con il nome di Nicoletta, poiché il ragazzo si chiama Nicola. Poco tempo dopo, in conseguenza di questo messaggio la famiglia del soldato manda a La Briglia un cappellano militare per riportare a casa Nicola, dopo un primo momento di diffidenza in cui Ofelia, chiamata dal prete del paese, nega di conoscere il ragazzo il cappellano militare le mostra il messaggio scritto da lei ed allora Ofelia ammette di conoscerlo e li fa incontrare. Ofelia per far partire con sicurezza i due uomini li accompagna anche a casa di una cugina dove Nicola può travestirsi da prete, il suo timore infatti è che far uscire da casa sua due preti possa dar adito sospetti ai fascisti locali, essendo una cosa assai insolita ed essendo La Briglia una piccola frazione in cui tutti si conoscono, da casa della cugina poi, rassicurando continuamente il giovane, li accompagna a fino alla stazione per assicurarsi che prendano il treno per tornare sani e salvi a casa. Ofelia è una donna molto decisa ed anche impulsiva, in un’altra occasione trova un soldato tedesco addormentato su un sentiero e, dopo essersi accertata con un calcio che dorme profondamente, anche a causa dell’alcol ingerito gli porta via la pistola per consegnarla 26
Volume quinto ai partigiani. L’attività partigiana di Ofelia è ininterrotta fino alla liberazione, nel settembre del ’44, instancabile porta armi, viveri e messaggi ai partigiani della Bogardo Buricchi, ai faggi di Javello; una testimone la ricorda così: “… l’Ofelia, pantaloni bermuda, scarponi con certi calzini e i capelli ricciuti al massimo, tirati su con le forcine, non legati, abbastanza grande, non bella, determinata, bandoliera, energica però brava e buona …”. Una donna forte e decisa che non ha paura dei pericoli e che proprio tra i partigiani incontra anche l’amore della sua vita, il comandante Armando Bardazzi a cui rimane accanto per tutto il resto della sua esistenza e che sposa in punto di morte nel 2001. Ofelia continua la sua battaglia anche dopo la fine della guerra mantenendo sempre salde le sue convinzioni e le sue idee e continuando a lottare per i valori in cui credeva, icona vivente di un tempo in cui certi uomini e certe donne hanno rischiato tutto, anche la vita stessa per il bene della collettività, sempre presente in tutte la manifestazioni anche per ricordare quei giovani che la vita l’hanno donata davvero per la libertà.
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Ultime Voci
Ofelia Giugni che porta con orgoglio la bandiera dell’ANPI Provinciale di Prato. 28
Volume quinto Loretta Cesira Magnolfi Calamai
Loretta Cesira Magnolfi Calamai abitava a Prato. Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale aveva all’incirca 11 anni e racconta di come fu costretta a lasciare la città per rifugiarsi in località più sicure. Alla fine della guerra si trovava nella zona di Castiglione dei Pepoli, da dove scese per tornare a Prato.
La mia guerra Avevo 11 anni e andavo a scuola, facevo la prima media e non era facile perché si era nel ’42. C’erano spesso gli allarmi notturni che ci costringevano ad alzarci dal letto ed andare: o nei campi o, in inverno, in cantina per “ripararci” dalle bombe che gli aerei “alleati” sganciavano su Prato. E poi c’era il fatto che il cibo era poco (perché tesserato) e cattivo. Mia madre, che lavorava in una piccola fabbrica tessile vicina a casa dovette licenziarsi perché la ditta si trasferì lontano ed allora decise di andare a far visita ai parenti nel Castiglionese per procurare un po’ di roba da mangiare che integrasse le magre razioni della “tessera”. Mio padre non voleva che andasse da sola e così o io o mio fratello la accompagnavamo, (naturalmente ne patì la scuola). Andavamo in treno fino a Sa Benedetto e da lì prendevamo la corriera per Castiglione dei Pepoli. Scendevamo al Sodi o in Lagaro e da lì al Corniolo dove abitava la sorella di mia madre con 2 bambini piccoli e il marito alla Guerra. A volte andavamo con la corriera da Prato a Castiglione facendo la strada di 29
Ultime Voci Vernio e Sasseta. Avevamo delle valigie in cui mettevamo dei sacchetti con farina, burro, uova ecc. e ripartivamo appena fatto il carico. I parenti di mio padre appena seppero di “questo” cominciarono a venirci a trovare con la speranza, spesso esaudita, di ottenere un po’ di cibo per loro e i loro bambini. Durante questi viaggi è capitato più di una volta che degli aerei abbiano mitragliato il treno su cui viaggiavamo, nel qual caso il Capotreno faceva fermare il treno in una delle gallerie che ci sono lungo quel tratto e lì aspettavamo che il pericolo passasse. Anche alla Stazione però non eravamo esenti da pericoli perché spesso c’erano le guardie a controllare passeggeri e bagagli e se trovavano roba da mangiare la sequestravano per stroncare (dicevano loro) la borsa nera. Dopo un po’ mia madre si ricordò di una cugina, anche lei col marito alla guerra, che abitava allo Spianamento, a poche centinaia di metri dalla Stazione di S. Benedetto e le chiese di ospitarci per l’estate, così che mio padre ala sera prendeva il treno e ci raggiungeva consentendoci di dormire tranquilli senza allarmi o bombardamenti. Alla fine dell’estate del ’43 tornammo a Prato, ma per poco perché la vita in città era sempre peggio, quindi andammo dalla mia balia nei pressi di Travalle. Assieme a noi in quella casa c’erano anche tanti altri parenti, sfollati dalle case vicine alla ferrovia o da altri luoghi ritenuti “pericolosi”. Dormivamo in tanti in una camera e, sarà stata la paura, ma ci volevamo tutti un gran bene. All’inizio dell’estate successiva mio padre, che aveva una paura matta dei bombardamenti, e ora anche dei tedeschi (che avevano cominciato a portare via gli uomini in Germania) non volle restare più a Prato, si licenziò e per liquidazione si fece dare 5 pezze di stoffa. La gente non voleva più denaro per paura dell’inflazione o di un eventuale cambio di moneta e preferiva roba. Quelle pezze furono preziose. Tornammo da mia zia al Corniolo con poca roba e tanta speranza di passare vivi attraverso il fronte che stava avanzando. Proprio pochi metri sopra il borgo i tedeschi piazzarono delle batterie antiaeree e i ragazzi come me che andavano con le pecore e le mucche a farle pascolare, furono costretti a costruire dei rifugi contro le schegge che piovevano copiose e avevano già ferito tante persone. Da dove eravamo, anche se bassi rispetto alla strada che da Firenze e Prato porta, attra30
Volume quinto verso il valico di Montepiano fino a Bologna, vedevamo tanti branchi di bovini passare verso Nord e questo ci riempiva di sgomento per la nostra sorte futura. I tedeschi addetti alle batterie erano tutti in là con l’età, direi oltre i 40 e ricordo bene la festa che fecero quando a Luglio Parigi venne liberata dagli alleati. Dissero che così la guerra sarebbe finita presto e loro sarebbero tornati alle loro case. Quella stessa notte fu sfiorata la tragedia perché dalle montagne soprastanti scesero giù i Partigiani che passarono in fila indiana proprio nel centro della borgata, per fortuna la sentinella tedesca invece che dare l’allarme si nascose in un anfratto, così che noi, ignari, lo sapemmo il giorno dopo. Dopo pochi giorni le batterie vennero smontate e portate via. Quando fummo di nuovo fra noi, i nostri uomini che si erano nascosti nei boschi tornarono giù per fare dei rifugi nelle rocce, fu fatta saltare anche la parete di una galleria morta che non veniva più usata come condotta d’acqua dal bacino del Brasimone e dopo aver spazzato fuori tutta l’acqua residua, ci portammo dentro delle pietre per fare un massicciata, sopra le pietre fu messa della terra e sopra questa frasche e paglia su cui distendevamo coperte e materassi per affrontare il passaggio della guerra. Ci vennero in tanti in quella galleria: da Castiglione, San Damiano, Mogne e altre case vicine c’erano perfino dei siciliani che, dopo che noi avevamo tanto lavorato, volevano i posti migliori. Io, benché piccola, fui l’unica che si risentì e dissi loro le cose chiare e tonde. Da allora mi guardavano sempre storti. Penso che fossero pezzi grossi fascisti, si davano grandi arie e dicevano che il vecchio era Cavaliere e che tutti lo conoscevano e rispettavano, bah! Dopo pochi giorni mia zia seppe che in paese erano arrivati dei tedeschi e temendo che le avrebbero preso l’unico coniglio che era rimasto, ci disse a me e mio cugino (che aveva 8 anni) di andare ad ammazzarlo, spellarlo e portarlo lì. Io avevo visto tante volte ammazzare e pulire i conigli ma non l’avevo mai fatto, ciò non toglie che lo facemmo nel migliore dei modi. Eravamo a metà Settembre e sentivamo spesso i cannoni tuonare oltre la Serra. Una sera sentimmo dei grossi boati e dopo poco arrivarono dei tedeschi in paese, (noi eravamo stufi di stare in galleria all’umido ed eravamo tornati) quelli ci dissero di essere Polacchi e ci chiesero del pane. Mia madre era molto sensibile verso i popoli soggetti ai tedeschi e mi disse di portare loro l’ultima pagnotta che avevamo, il giorno dopo ne avrebbe fatto di nuovo. Loro ringraziarono e ci chiesero dove abitavamo, glielo indi31
Ultime Voci cammo e poco dopo passarono oltre, Durante la notte entrarono in tutte le case del paese facendo razzia, meno che nella nostra. Sapemmo dopo che erano quelli che avevano fatto saltare la Centrale Elettrica, furono gli ultimi tedeschi che vedemmo. Verso mezzogiorno arrivò un uomo che non saprei definire: sembrava uno del luogo ma nessuno lo conosceva, ci chiese dove fossero i tedeschi e disse che a Castiglione c’erano gli Alleati. Mio padre non se lo fece ripetere: tirò giù dalla soffitta la bicicletta di mia madre, la gonfiò velocemente e partì per Prato. Il giorno dopo mia madre tostò del pane (perché durasse) e con pochi fagotti ci incamminammo a piedi. Era piovuto da poco e le stradine erano diventate dei fossati, ad ogni modo arrivammo a Castiglione dei Pepoli. Appena sbucati nella strada davanti allo Stabilimento vedemmo una lunga fila di camion in sosta a lato della strada ed alcuni militari, con divise mai viste prima, ci porsero cioccolate e stick di caramelle! Anche se il ritorno a Prato si presentava avventuroso le premesse non erano brutte. Ci incamminammo verso Montepiano e mentre proseguivamo nella mota verso Sud dal lato opposto della strada veniva una fila ininterrotta di soldati a piedi con impermeabili mimetici e turbanti in testa; immagino che fossero Indiani. Ai lati della strada c’erano delle carcasse di cavalli morti con le gambe all’aria che diffondevano un grande fetore. Quando giungemmo all’altezza del ponte di Rasora vedemmo un militare che dirigeva il senso alternato del traffico su degli enormi tavoloni che sostituivano il ponte fatto saltare dai tedeschi, aveva vicino un tronco che bruciava e mentre io e mio fratello ci scaldavamo a quel legno fradicio che bruciava puzzando di benzina, mia madre gli chiese se fosse possibile trovare un posto su uno dei numerosi camion che andavano giù. Egli ci fece cenno di aspettare e ogni tanto fermava un camion e chiedeva qualcosa all’autista ma poi ripartivano tutti. Il tempo passava e cominciava a farsi scuro, mia madre preoccupata di trovare un posto per la notte gli disse che lo ringraziava lo stesso ma che avremmo proseguito a piedi. Lui ci fece capire che era una questione di poco e infatti poco dopo parlò a lungo con un camionista, poi ci fece salire diretti a Sud. Ci rannicchiammo in 3 su un solo sedile e ogni chilometro che passava lo consideravamo una grande Conquista. Noi non lo sapevamo ancora ma l’autista aveva avuto il preciso ordine di depositarci davanti a casa. Non avemmo il coraggio di farci portare fin lì, avevamo visto strada 32
Volume quinto facendo tante distruzioni che temevamo anche per la nostra casa, così che quando arrivammo in Piazza San Marco dicemmo di essere arrivati e dopo averlo ringraziato ci affacciammo cautamente all’angolo per vedere se la nostra casa era ancora in piedi. C’era ancora! E anche se eravamo: senza Luce, senza Acqua né Gas perlomeno un tetto sulla testa l’avevamo ancora. La mia guerra poteva dirsi FINITA.
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Ultime Voci Tosca Martini
Nata a Cantagallo l’11 gennaio del 1914 fu una donna fortemente impegnata nell’attività antifascista. Arrestata dai fascisti con l’accusa di aver contribuito all’esposizione di una bandiera rossa il 1° Maggio 1944, fu consegnata alla banda Carità per farla confessare. Neppure le ripetute torture, i cui segni permarranno anche a distanza di anni, inducono Tosca a confessare. Liberata dalla prigionia partecipa alla Resistenza armata ottenendo il riconoscimento di partigiana combattente.
Tosca Martini nasce a Cantagallo l’11 gennaio del 1914 e della sua attività di antifascista possediamo un documento ufficiale datato 5 maggio 1944, relativo all’esposizione di una bandiera rossa con nastrino tricolore e tre manifestini antifascisti nella notte del 1° maggio a Usella. Essa è fermata come sospetta autrice di un colpo di pistola sparato contro il tenente della GNR Raffaello Lotti, mentre provvede alla rimozione della bandiera. Condotta alla sezione femminile delle Murate di Firenze, Santa Verdiana, è ripetutamente percossa e infine consegnata alla banda Carità per farle confessare il delitto. Sappiamo che Tosca è impegnata nella vallata del Bisenzio nell’organizzazione della lotta contro il fascismo, in specie nelle località di Usella, il Fabbro e Carmignanello, e nella distribuzione di materiale clandestino: in questa attività si mostra instancabile. La sua opposizione al regime culmina appunto con la caduta nelle mani dei torturatori fascisti sotto l’accusa di avere indotto il giovane Ballerini Enzo a mettere una bandierina sulla cima di un albero1. Il 7 maggio è sottoposta ad interrogatorio e a pestaggio, dopo essere stata denudata. Ricoverata in infermeria per le sue gravi condizioni, il 3 giugno è ricondotta da Carità, rinchiusa in cella e costretta a stare tutto il giorno in piedi senza cibo né acqua. 1 Andrea Mugnai, La banda carità, Firenze, Becocci Editore, 1995.
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Volume quinto Uno degli aguzzini confessa che aveva le mani intormentite e che aveva adoperato anche la cinghia ma che quella vipera bolscevica non avrebbe detto nulla. Qualcuno allora disse che con due o tre di quei trattamenti anche la vipera (la Martini) avrebbe parlato. Lo dicevano gli stessi militi che l’avevano denudata e avevano usato di tutto per percuoterla (deposizione di Amabile Zanichelli al processo di Lucca)2. Una detenuta politica, Tosca Buccarelli, liberata dal carcere il 9 luglio con un’ardita azione dei gappisti guidati da Bruno Fanciullacci, così la descrive: Tosca Martini, quella di Prato, che, insieme a me, era più torturata di tutte. E’ probabile che fra le diciassette ragazze liberate ci sia stata anche Tosca, i cui segni delle sevizie subite risaltano ancora dopo un certo numero di anni, ma che non le impediscono di partecipare alla Resistenza armata e di essere riconosciuta partigiana combattente. A Liberazione avvenuta, una sentenza della Sezione speciale della Corte d’Assise di Firenze del 24 febbraio 1947 scagiona Raffaello Lotti e tutti i fascisti che avevano arrestato diversi oppositori al regime per poi consegnarli a Carità, perché le percosse, sia pure a sangue, non rientrano nell’ambito definito dalla legge delle “sevizie particolarmente efferate”.
2 Ibidem. La circostanza è narrata anche da M. Di Sabato, Dalla diffida alla pena di morte, Prato, Pentalinea, 2003.
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Ultime Voci
Tosca Martini, al centro con alcune amiche di Usella. (Archivio storico-fotografico Fondazione CDSE, Centro di Documentazione Storico Etnografica).
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Volume quinto Teresa Meroni
Nata a Milano nel 1885, Teresa Meroni fu fortemente attiva nel sindacato nella Val di Bisenzio, organizzando numerose proteste contro la guerra. A causa del suo impegno nel 1918 viene condannata al confino in una località della Garfagnana, ma questo non le impedisce, una volta rientrata nella Val di Bisenzio, di continuare la sua battaglia a favore dei diritti degli operai.
Teresa Meroni fu operaia, sindacalista, punto di riferimento delle lotte operaie nel primo Novecento. Compagna di Giovan Battista Tettamanti, dirigente della Lega laniera Vaianese, dopo la sua chiamata alle armi nel settembre del 1915, ella assume la guida dell'organizzazione socialista e sindacale in sostituzione del compagno. Gli opifici della Val di Bisenzio sono in quel periodo militarizzati, per le forniture di stoffa all'esercito e le maestranze sono composte prevalentemente da donne. La Teresina, com'è affettuosamente chiamata, riesce a mobilitare le operaie della vallata in una battaglia contro il caro vita, la annunciata requisizione di cereali che avrebbe gettato nella fame nera migliaia di famiglie e contro la guerra. Il 2 luglio 1917, sotto la sua guida, quattrocento donne della vallata danno via ad una coraggiosa marcia di protesta che da Cantagallo le conduce alle porte di Prato. Giunte a La Briglia le donne sono già più di millecinquecento, ma sono bloccate dalle forze dell'ordine. Quando alcuni poliziotti, in segno di disprezzo, lanciano alla Teresina alcune monetine, ella le raccoglie dicendo: "Allora andremo a bere alla salute delle donne!". Teresa è in seguito imputata per avere organizzato questa marcia per la pace e per offese a pubblico ufficiale, condannata a tre mesi di carcere e al pagamento di una multa di L. 37
Ultime Voci 60. Ma già all'inizio del 1918 è pronta a mobilitare di nuovo le donne della Vallata, nella convinzione che "saranno le donne che diranno alla borghesia: basta oscurantismo, basta ignoranza, basta pregiudizi, basta guerra!" E' per questo allontanata da Vaiano con foglio di via obbligatorio per Livorno e infine è condannata al confino in una località della Garfagnana, ma Teresa continua a lottare ottenendo nel 1919 le otto ore lavorative per gli operai della Val di Bisenzio e un versamento a carico degli industriali per la costruzione di Case del Popolo a Vaiano e a Prato.
Fotografia di Teresa Meroni scattata alla fine degli anni ‘20. (Archivio storico-fotografico Fondazione CDSE, Centro di Documentazione Storico Etnografica).
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Volume quinto Marisa Migliani
Marisa Migliani è nata a Prato il 31 agosto 1928. Testimone di diversi tragici episodi di guerra avvenuti a Prato, ha deciso di raccontarli ai giovani per impedire che si ripetano, ricorrendo spesso anche a composizioni poetiche.
La testimonianza di Marisa Migliani è stata rilasciata a Silvana Santi Montini, che l'ha ricostruita tenendo conto anche delle numerose poesie e racconti di episodi di guerra da lei scritti. Marisa Migliani vive a Prato in via Zarini. Così si racconta. Sono nata alla famosa “casa nova” di fronte all'Ippodromo , dove ora ci sono i giardini, il 31 agosto 1928. Sono, e lo dico con orgoglio, una pratese di nascita. Prato è la città che amo e dove ho sempre vissuto, tranne il breve periodo di Vaiano, quando mio marito, Giorgio Sadun, era impegnato politicamente nel partito e nelle Istituzioni di quel nuovo Comune. Mio testimone di nozze è stato Carlo Ferri il primo sindaco di Vaiano e per mio marito Ribelli Mauro, che è stato anche vice sindaco del Comune di Prato e ha ricoperto altri incarichi importanti, sia per il comune che per la provincia. Anche l'amicizia con Giorgio Gori parte da lontano. Siamo infatti cresciuti insieme perché la mamma di sua moglie mi ha allattato. Perciò tra noi c'è sempre stato un legame profondo, un affetto fraterno e conoscere le sue vicende di guerra, i tormenti e gli orrori 39
Ultime Voci patiti nel campo di RHUSPRINGEN, leggere e capire quanto quei fatti, quelle terribili esperienze abbiano inciso sul suo modo di essere, e come si sia potuto finalmente aprire al racconto con i giovani delle scuole, consapevole dell'importanza della memoria. E come anche in me si sia rafforzata l'idea di trasmettere le mie emozioni, le paure e i disagi patiti con la guerra. Sono stata testimone di numerose esperienze, di fatti angosciosi, di soprusi bombardamenti, paure e miserie. Anche di morte in quel tempo buio e di tanta fatica per salvare la vita. Gli episodi mi sono rimasti impressi nella memoria e ora ritornano più vivi che mai. Io li scrivo nelle mie composizioni poetiche, come nei brevi racconti perché restino memoria e monito al mondo. Avevo sedici anni quando La vita dovrebbe essere tutta una festa, e io mi ritrovavo a seguire un funerale di guerra, dove il morto era un mio carissimo cugino di appena quindici anni, compagno di giochi, ucciso da una scheggia di bomba d'aereo. E ancora, in Dimenticare mai c'è la presenza della morte, che nel fiore degli anni, delle speranze, dei sogni, porta via due miei compagni di giochi e con loro la mia gioia e la mia innocenza. Un ricordo che non potrò mai cancellare, insieme a quello della mia fanciullezza, così chiusa e amareggiata da una guerra portatrice di lutti, rinunce, stenti. La morte ritorna in molte mie composizioni. Piera, per esempio, è una bambina di quattro anni quando le viene a mancare per sempre la mamma, uccisa da una bomba. Aveva portato in salvo in un rifugio la piccola figlia, poi era tornata indietro per aiutare l'anziana suocera, ma tanto generoso senso di responsabilità l'aveva fatta incontrare con la morte. Io ero più grande di Piera di dodici anni: avevo giocato con lei, l'avevo guidata nei primi passi, avevo ascoltato il balbettio delle sue prime parole, le cantavo la ninna-nanna e le raccontavo le favole. Dopo la tragica fine della mamma, Piera è cresciuta nella nostra casa e per me era una sorella. Da tutto ciò e molto altro ancora è nata la mia voglia di scrivere, come questa poesia Zia Zara che mi piacerebbe riportare per intero.
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Volume quinto Quante medaglie andrebbero coniate per donne come te, donne che per amore hanno donato la vita. Eri sfollata a Castelnuovo nel luglio 1944 e durante un bombardamento con in braccio tua figlia Piera avevi raggiunto il rifugio e ti sentivi già al sicuro, però avevi lasciato a casa nonna Letizia “tua suocera” e sentendoti responsabile di lei, “suo figlio era in guerra” stavi fremendo non volendola lasciare da sola. Così affidando tua figlia a una amica al rifugio sei uscita nuovamente per portare nonna Letizia con te. Ma essa non potendo camminare pregandoti ti ha detto, torna da Piera io sono “vecchia ormai” così correndo verso tua figlia la scheggia di una bomba ti ha colpito questo gesto d'amore ti è stato fatale. Ora il tuo nome è inciso sul cippo dei caduti in guerra e nel mio cuore indelebile resta il tuo ricordo. ZARA VINATTIERI n. 1912 m. 1944 41
Ultime Voci Così mi è rimasto dentro l'odio per la guerra e so per certo che la guerra è il peggiore dei mali per l'umanità. Un altro brutto ricordo è quello della paura che ci teneva tesi come corde e sempre nascosti per quanto si poteva, per non cadere nelle grinfie dei nazi-fascisti. L'amicizia con Giorgio Gori, il conoscere le sue vicende, mi hanno incoraggiato a raccontare le mie. E come anche in me si sia rafforzata l'idea di trasmettere le mie emozioni, le paure e i disagi patiti. Pertanto sono ben lieta di rilasciare questa mia testimonianza per il lavoro importantissimo che state facendo alla “Casa delle memorie di guerra per la pace”, del quale voglio dirvi grazie, e per il quale avete tutta la mia riconoscenza.
Marisa Migliani nella foto con il marito Giorgio Sadun. 42
Volume quinto Lia Vittoria Sara Millul
Lia Vittoria Sara Millul nacque a Pisa il 29 Agosto 1924. Si trasferì con la famiglia a Prato nel settembre del 1941, per cercare di sfuggire alle conseguenze delle leggi raziali. Con l’aggravarsi della situazione, si rifugiò in un convento fiorentino, dove fu catturata dai nazisti. Non si conoscono il luogo e la data della morte. Testimonianza tratta da Michele Di Sabato Il sacrificio di Prato sull’ara del Terzo Reich Editrice Nuova Fortezza 1987, a cui rimandiamo per le note bibliografiche.
All’epoca della prima pubblicazione di questa ricerca sapevamo soltanto che una ragazza ebrea era stata catturata a Prato, deportata ad Auschwitz e poi svanita nel nulla. Gino Guidi, suo padre, probabilmente era morto, morta certamente sua madre, Giulia Luzzatti, mentre suo fratello Elio David, scampato alla furia nazista, da Milano si era trasferito in Israele. Trascorsero gli anni e, con il procedere delle personali ricerche, emerse una documentazione interessante sulla comunità ebraica di Prato, della quale non si conosceva niente, nessuno se n’era mai occupato e pareva che non fosse nemmeno esistita. Il risultato di quella “scoperta” trovò doverosa documentazione con una ricostruzione della breve esistenza di Lia Millul e del mistero della sua fine. A quel punto potevamo considerare assolto il compito della nostra ricerca, ma nel ritornare sull’argomento deportazione sembrava tuttavia ingiusto non inserire il suo nominativo con una “scheda” che la ricordasse in un insieme organico come vittima della stessa follia criminale. Soprattutto perché anche lei era stata oggetto di una personale ventennale attenzione approdata, fortunatamente, con l’individuazione di una testimone d’eccezione. 43
Ultime Voci La famiglia Millul, dunque, emigrò a Prato da Pisa il 16 settembre 1941, dopo che Lia, all’entrata in vigore delle leggi razziali italiane, aveva dovuto troncare gli studi magistrali con l’espulsione dalla scuola pubblica e suo padre, probabilmente, ritenne opportuno cambiare residenza con la speranza di mettere al sicuro sé stesso e la famiglia in una località più affidabile, dove nessuno ancora li conoscesse. A Prato presero alloggio in Via Zarini n. 6/a, in una casa annessa alla Manifattura del Bisenzio, azienda tessile degli ebrei Alphandery, Angelo Camerino e Faggi, socio, quest’ultimo, che forse aveva prestato il nome per salvare dall’esproprio previsto dai provvedimenti fascisti dove trovò lavoro, oltre al capo famiglia, anche la stessa Lia come scollettatrice e paneraia. Sembra che i Millul non fossero religiosi praticanti: a Gino, anzi, si attribuiscono tendenze sinistre, mentre sua moglie a Pisa si era fatta battezzare e, quando nel 1942 era morta, era stata sepolta al cimitero della Chiesanuova, ovviamente non nel recinto riservato agli ebrei e la stessa Lia aveva accompagnato sua madre alla chiesa del Soccorso, quando ci andava, perché le piaceva ascoltare le preghiere in latino, forse con freudiani richiami alla lingua che aveva dovuto studiare e poi abbandonare, dimostrando probabilmente con ciò anche di tendere più verso le scelte di sua madre che alla conservazione della fede dei suoi ascendenti. Fra la gente nuova che Lia a Prato cominciò a conoscere e praticare Anna Caterina Dini divenne presto la sua amica del cuore che la ricorda con commozione. Prima che lei partisse per il monastero che doveva ospitarla Anna le tagliò un ciuffo di capelli che alla fine del 1998 conservava ancora con una fotografia, alcune lettere, delle cartoline, dei pensierini che l’adolescente e sognante Lia affidava alla carta quasi per trasmetterci il suo ricordo. A lei piaceva l’arte, la letteratura, la poesia, e quando tra le famiglie Dini e Millul si strinsero rapporti più stretti, al punto di condividere in conviviali “farinate” il poco che avevano, Anna e Lia divennero confidenti intime. Andavano insieme al cimitero della Chiesanuova, a Firenze alla sinagoga, in giro a passeggio per farsi vedere, così Lia aveva finito col legarsi sentimentalmente con un giovane cattolico pratese. Finché la situazione non precipitò. Dopo la tregua fugace seguita ai quarantacinque giorni di Badoglio, infatti, alla riorganizzazione fascista all’arrivo dei tedeschi, la campagna antisemita che fino ad allora in Italia si era limitata al censimento, al sequestro dei beni, all’esclusione dalle scuole, dalle cariche pubbliche ed altro, divenne “caccia 44
Volume quinto all’ebreo” e anche Lia dovette cercare di nascondersi per non farsi arrestare. Con l’aiuto di un prete fiorentino non identificabile, conosciuto e frequentato perché le piaceva conversare di teologia, arte, letteratura, si trasferì in un convento fiorentino di suore, identificabile quasi con certezza nella Casa del Santissimo nome di Gesù delle suore francescane missionarie di Piazza del Carmine. Ad ogni modo, dal momento della partenza da Prato, sulla sorte di Lia scese il mistero della “notte e della nebbia” e di lei Liliana Picciotto Fargion ha potuto scrivere soltanto: «Ultima residenza nota, Firenze. Arrestata a Prato (FI) nel novembre 1943. Deportata ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia, deceduta in luogo e data ignoti». Ma non a Prato fu arrestata Lia Millul, bensì a Firenze, anche se dove era difficile individuarsi, e alla fine ci apparve plausibile per diverse considerazioni che sia finita nel carniere nazista nel monastero di Piazza del Carmine dove, proprio il 27 novembre del 1943, ben trentadue donne ebree furono catturate in un solo colpo ed avviate alla morte. Troviamo la testimonianza di quel giorno terribile nel “diario” 1991-2001 della Casa Santo Nome di Gesù Firenze. Suore Francescane di Maria. Quel 27 era domenica e l’irruzione nazista avvenne alle tre di notte. Soldati ed SS forzarono un portone, frantumarono una vetrata e in una trentina penetrarono ovunque, anche nelle celle di clausura. Catturate le genti che vi trovarono, tagliarono i fili del telefono. Ottanta furono le donne che convogliarono nel salone – teatro, e con un elenco un ufficiale cominciò a chiamare, un altro ad interrogare mentre altri depredavano alle malcapitate ogni cosa e procedeva l’interrogatorio, con l’aiuto di una giovane ebrea che si offrì di fare da interprete di francese e tedesco riuscendo a far liberare parecchie donne. Poi, mercoledì 30, anche quel bottino umano fu caricato su un camion e avviato alla morte. Altra testimonianza di quella spietata operazione la troviamo in Memo Bemporad con il racconto di Ida Levi, nonna del Bemporad, una donna energica ed intraprendente che riuscì a salvarsi. Avevano detto loro, dice la Levi, che in un convento sarebbero state al sicuro ed invece improvvisamente arrivarono le SS, alle quali si ribellò. Ad un fascista giovane disse che era «Obbrobrioso quello che facevano», ed in quanto a lei non potevano arrestarla perché era madre di un ufficiale caduto in guerra, «morto da eroe», e cominciò a mostrargli le medaglie del figlio Sergio che portava in borsa sempre con sé. Il giovane ci pensò su e disse: «Sono gli ordini», poi la mise in un angolo e girò una porta, la nascose e disse 45
Ultime Voci di star ferma, di non muoversi, consentendole di essere forse l’unica a salvarsi di quella retata. I nazisti erano dunque arrivati al convento con un elenco, ma chi gliel’aveva procurato? Anna Dini sostiene che a fare la spia sia stata una suora, maldisposta verso gli ebrei perché avevano ucciso Gesù Cristo. «La odiammo tanto, quella suora», afferma ma forse quella suora esiste soltanto nella sua mente, vogliamo credere, e di quella di Gino Millul che gliene parlò, perché le suore di quel convento fiorentino hanno avuto importanti riconoscimenti da Israele per l’ospitalità ed il soccorso prestato agli ebrei nei tempi della persecuzione, con rischi innegabili per quella comunità religiosa ed inevitabili conseguenti ripercussioni sulla gerarchia ecclesiastica. Ora a noi di Lia Millul resta il ricordo di una ragazza gentile, assassinata non si sa dove da gente a cui di umano era rimasto assai poco. Lei era giovane, anche se non bellissima, poteva lavorare per la grandezza del Reich, lottare per sopravvivere, ma era stata condannata a morte affinché la sua «razza» fosse cancellata dalla faccia della terra: anche se nel frattempo le ragazze come lei erano sfruttate spregiudicatamente senza scrupoli razziali di sorta perfino nelle case delle bambole di funesta memoria. Dopo che la sua adolescenza era stata sconvolta dall’interruzione degli studi, il cambio della residenza, l’assunzione di un lavoro manuale, anche per lei era stata naturale la ricerca di relazioni sociali affettive e lei aveva continuato a sognare, a voler bene, come testimoniano le sue riflessioni, i suoi pensieri scritti ed affidati all’amica del cuore per lasciarci l’immagine di un’anima bella in un mondo feroce ed abbrutito. Il 7 settembre 1943, il giorno prima dell’annunzio dell’armistizio, Lia Millul era in villeggiatura a Cattolica e scrisse ancora con la massima tranquillità ad Anna Dini: «Eccomi a mantenere la mia promessa di scriverti a lungo e raccontarti tutto quello che mi capita». Ma forse quel giorno non aveva molto da raccontare, oltre a consegnarci il ritratto della figlia di una cognata di sua zia, un’«adorabile bambina di quattr’anni bionda come l’oro ed abbronzata come una piccola araba, con una fila di denti sempre scoperti da un sorriso giocondo». Alcuni pensieri sparsi nei suoi bigliettini:«Senza il tuo amore, il mio cuore non potrà vivere/ Come la rondinella torna al suo nido, verso te il mio cuore fedele torna sempre./ Come l’onda che il vento spinge e passa, così tutto passa, tutto si scorda eccetto il mio ricordo». 46
Volume quinto La parola amore è ricorrente nelle sue riflessioni di un candore ancora infantile, sentimentale, un attributo, questo, che tuttavia lei “aborriva” e traduceva con «patetico», ma fu anche con quella pericolosa creatura, sovversiva e nemica, che il Reich volle infierire per ripulire il mondo della sua razza.
Fotografia di Lia Vittoria Sara Millul. 47
Ultime Voci Maria Laetitia Pala in Mazzoni
Maria Laetitia Pala in Mazzoni, nata a Firenze il 15 ottobre 1936, è stata insegnante di lingue nella scuola media a Prato, la città dove risiede.
Subito grandi Sono nata a Firenze da una famiglia borghese; la mamma professoressa - il babbo direttore di un istituto farmaceutico. Ero felice, in casa non mancava nulla, c'era molta armonia e mi piaceva tanto il fratellino nato da poco, che io coccolavo, nutrivo con le pappe preparate dalla mamma e lo dondolavo per farlo addormentare. Un giorno il babbo dovette partire: fu richiamato in guerra- in marina-. Sentivo che la mamma diceva che non era tanto più giovane ma ormai chiamavano anche quelli di quella classe lì, (1903). La nostra vita cambiò repentinamente, anche perché non avevamo nessun parente vicino. La mamma andava a scuola la mattina presto, perciò dovette prendere una ragazza per guardare il bambino e me e fare qualche faccenda. A quel momento le ragazze che venivano in città per “servire”, provenivano quasi tutte dal Casentino. Le famiglie le mandavano perché potessero racimolare qualche soldo per farsi “i materassi” e potersi sposare. Molte erano bionde come erano le fiorentine della storia. Così era la Natalina, alta, forte, bonacciona: ci voleva un gran bene e noi a lei. Avevo anche un'ami48
Volume quinto chetta “Marisa” che abitava al piano di sopra, aveva la mia stessa età e la sua mamma era abbastanza amica della mia. Giocavamo molto insieme, anche sul Mugnone che era di fronte a casa e dove le mamme ci mandavano perché incontravamo i bambini dei palazzi vicini. Sole, con la chiave di casa al collo. Del resto pericoli non ce n'erano: anche le automobili a quell'epoca, passavano raramente. Giocavamo a “chiappino” ai “quattro cantoni” a “campana”, a palla, sotto una grande acacia che era in mezzo ad uno dei pratini. State attente qua, state attente là, non comprate i semi o i chicchi del carrettino che passava ad una cert'ora del pomeriggio, erano le raccomandazioni delle mamme. “non è roba igienica” dicevano e noi morivamo dalla voglia di comprare un cartoccino di semi o di lupini, come gli altri bambini, ma obbedivamo. Quando tornavamo a casa ancora con gli spicciolini in tasca, erano grandi discussioni con la Marisa: io abitavo al terzo piano e la mia amichetta al quarto. Ci volevano venti centesimi per salire in ascensore. Grande dilemma: salire in ascensore o fare le scale a piedi? Meglio a piedi, forse domani riusciremo a comprare qualche chicco. Eravamo molto tentate. Meglio conservarli quegli spiccioli. Un brutto giorno, era mattina, suonò l'allarme: ero in casa con la Natalina e il fratellino mentre la mamma era a scuola, con corse forsennate in bicicletta cercava di raggiungerci a casa prima che gli aerei sganciassero qualche bomba. Tutti gli inquilini scendevano di corsa in cantina (lo chiamavano rifugio)ed anche noi stavamo per andare. Sulla porta di casa, sul pianerottolo, l'orribile boato della bomba caduta proprio lì vicino, il rumore dei vetri infranti, delle finestre che cascavano, delle porte scardinate, delle urla, dei pianti dei bambini e delle donne mi investirono sotto il grembiule della Natalina che lo aveva steso sulle nostre teste nel tentativo istintivo di ripararci. L'aria era irrespirabile; il polverone tremendo non faceva vedere quasi niente; lo spavento grande e nessun altro ricordo di quel momento. La mamma decise allora che non era troppo sicuro abitare lì perché vicino alla ferrovia, perciò andammo ad abitare in piazza Signoria N. 7 da amici, nello storico palazzo del Marchese Uguccioni. Se cade Palazzo Vecchio, possiamo cadere anche noi, diceva. Ci fu un cambiamento di vita e di abitudini: intanto gli allarmi erano più frequenti ed il mio passatempo preferito, con un ragazzino della mia età che abitava accanto, era scendere in piazza, sdraiarsi a terra con la testa sul marciapiede e seguire il volo delle 49
Ultime Voci “cicogne” , che riconoscevamo e che passavano in ricognizione. Appena suonava l'allarme- via dentro- Anche la scuola non era più la solita, era lì, dietro casa, vicino alla casa di Dante Alighieri. Ci davano anche la colazione: un ramaiolo di latte che in fila passavamo a prendere con il nostro gavettino: il più delle volte non mi toccava. Qualcuno più forte o più furbo prendeva il mio posto. Ero molto magrina e forse avevo anche fame. La mamma faceva quel che poteva, del babbo non sapevamo più nulla nonostante le ricerche. Anche la Natalina tornò a casa dai suoi preoccupati per lei. Era duro stare n città; era duro stare da soli. Ero la prima a tornare a casa quando suonava l'allarme, prendevo il fratellino dalla vicina e scappavo con lui in cantina. Mi riusciva già fare diverse faccende in casa: spazzare, lavare i piatti, fare le polpette e qualche altra cosa, cambiare il fratellino, rifare i letti anche se non perfettamente... sapevo che la mamma tornava stanca e preoccupata, così... Poi facevo benissimo anche la spesa, quella pochina che potevamo fare. In quei giorni ci fu una nuova presenza in casa: la signora Nella, vedova, con il figlio Bruno che era già un giovanotto. Era premurosa con noi, ma mi sembrava un po' strana perché non andava mai ad aprire la porta se suonavano, non rispondeva a nessuno, correva spesso in bagno dove si rinchiudeva specialmente quando sentiva i cingolati tedeschi passare da via della Condotta dietro casa o quando sentiva il rumore di qualche plotone militare che passava marciando giù sotto. Mi pareva buffo. Dopo del tempo, quando anche lei era tornata a casa sua, seppi che era ebrea. Da piazza Signoria qualche volta la mattina, qualche volta il pomeriggio, ci portavano a giocare nel giardino di Boboli. Attraversando Por Santa Maria, il Ponte Vecchio e un pezzetto di via De' Guicciardini c'eravamo già. Mi divertivo moltissimo perché quel giardino dava un senso di libertà esagerato. Mi pareva immenso: giocavo a nascondino riparandomi dietro le alte siepi e correndo intorno alle fontane. Vedevo gli aerei in cielo ma non mi facevano paura: mi pareva di potermi mettere al riparo da ogni cosa. C'erano altri bambini a cui mi univo nei giochi: quante corse, quante risate, quanti salti! Vedevamo però altri bambini su per giù come noi, che non potevano uscire di casa e ci guardavano da dietro le finestre del pianterreno del palazzo Pitti, quasi aggrappati alle inferriate. Erano i figli dei Savoia; i Savoia appunto che non avevano il permesso di uscire per unirsi a noi: ci pareva strano e anche un po' cattivo. 50
Volume quinto Anche questo periodo, forse il più spensierato per noi bambini, finì presto. Venne l'ordine di sgomberare le strade e le case limitrofe a Palazzo Vecchio e lungarni perché i tedeschi volevano far saltare i ponti sull'Arno per impedire agli americani di entrare in città. In tempo brevissimo, la mamma, mio fratellino ed io trovammo ospitalità da un'amica che abitava in via De' Pecori, lì a due passi dal Battistero e il Cupolone. Scappammo da Piazza Signoria a corsa con la carrozzina stracolma di quelle poche cose che avevamo; la mamma con il bambino in braccio, una “valigetta” color cuoio custodita sempre gelosamente. Penso contenesse documenti e tutto quello che avevamo di importante. La portavamo con noi anche in cantina durante i bombardamenti. Oggi si chiamerebbe beauty, quella valigetta. Io avevo un sacco grande e un guanciale che mi trascinavo dietro lungo via Calzaioli durante la fuga e il cui peso, ingombro, la fatica e la paura ricorderò finché campo. La mamma spronava a correre perché il tempo per sgombrare era veramente poco. Come Dio volle arrivammo e ci sistemammo nella sala da pranzo di questa amica, con due materassi a terra per dormire tutti e tre. Rimanemmo lì per il periodo dell'emergenza e anche un po' oltre. In quei giorni mi sono gravemente ammalata e capivo che la mamma aveva molta paura per me. Le cure erano molto relative e così il mangiare. Per fortuna la mamma era riuscita a procurarsi un sacco di farina di piselli ( ancora li mangio malvolentieri) e del tè, questa era la sopravvivenza, ma non avevamo molta acqua. Scendevamo alla bocchetta della strada in determinate ore per procurarcela e riempire 1 o 2 fiaschi. Ma c'era sempre un soldato tedesco armato che in piedi faceva la guardia e ci scacciava passato il tempo stabilito: pena una fucilata nella schiena. Meno male piovve per cui riuscimmo a riempire d'acqua dei catini posti sul terrazzo del tetto del condominio. Che periodo atroce fu quello per chi abitava in città! Non potevamo uscire, mancavamo di tutto, sentivamo gli scoppi delle mine che facevano saltare i ponti sull'Arno e anche tutta via Por Santa Maria. Che dispiacere! C'era lì un piccolo negozio che, tra l'altro, vendeva perline di tutti i colori per i ricami dei vestiti delle signore. Ci passavo delle mezz'ore davanti a quella vetrina, incantata dalle scatoline scintillanti e di mille colori. Mai comprata una. Del resto poi non ci fu più traccia di quel piccolo negozio, come di moltissimi altri di cui la strada era piena. Peccato! Ma tanto non avevamo soldi da “sprecare”, perché il denaro anche prima e anche poi, in casa, è stato considerato sempre qualcosa di limitato che poteva soddisfare le necessità, i bisogni, ma solo dopo una ponderata riflessione 51
Ultime Voci per cui una cosa ne escludeva un'altra nello stesso tempo. E poi il denaro non pioveva dal cielo, doveva essere guadagnato nel senso che il guadagnare era faticoso, richiedeva dignità e rispetto di alcune regole. Persino il denaro guadagnato giocando non era visto di buon occhio a casa mia. Questa cosa mi ha “condizionato” la vita perché ho sempre messo un freno alla mia possibilità di guadagno, magari dedicandomi ad attività in cui potevo offrire il mio tempo, le mie qualità, il mio impegno a vantaggio di chi ne aveva bisogno o era solo, senza remunerazione. Nonostante la gravità della situazione, ci fu in casa una ragazza di nome Adriana, che doveva aiutare nelle faccende domestiche e sorvegliare noi bambini perché non ci mettessimo in pericolo o facessimo qualche malestro. Presto mi accorsi che la mattina, dopo poco l'uscita della mamma, anche lei usciva e tornava prima che rientrasse. Aveva imparato gli orari. Mi domandavo che ci stava a fare in casa e avevo molta antipatia per lei. Un giorno mi stufai e chiusi la porta dal di dentro in modo che non potesse rientrare. Venuta l'ora cercò di aprire la porta senza riuscirci; mi chiamava da fuori e mi diceva di aprirle. Io non mi mossi, anzi dopo un po' le risposi che se ne poteva andare tanto avevo già provveduto io a fare tutto. Il ritorno della mamma risolse in un amen la questione: Adriana fu costretta a far fagotto e andarsene immediatamente, su due piedi, così si diceva. E' restata alla “storia” questo mio atto così deciso per l'età. Al momento i bambini erano soli, ma non erano soli. Voglio dire che oggi i bambini non sono mai soli con tante persone che se ne prendono cura e che li fanno qualche volta diventare capricciosi e infelici. Non è perciò la solitudine ma piuttosto la moltitudine di adulti che non lasciano mai quei pochi bambini creando una “diseducazione” che ormai vediamo imperante. Comunque tristissimi giorni furono quelli passati in via De' Pecori: avevamo molta fame. Un giorno il babbo della mia amichetta Marisa, che non era stato richiamato, arrivò portandoci “tre” fichi che si era procurato non so dove. Fu grande festa per noi: la mamma li pulì, levò loro la buccia che mangiò e dette a noi la polpa. Non mi ricordavo nulla di così buono. Qualche tempo dopo la stessa persona ci portò “due” carote che era riuscito a prendere da un carrettino che trasportava verdure... Qualcosa cominciava a circolare e sentivamo che il tempo peggiore stava per finire: potevo affacciarmi, seppure con prudenza, al parapetto della terrazza per guardare più in là senza essere centrata dai cecchini appostati sui piani alti delle case e che sparavano appena vedevano muovere qualcosa, come era 52
Volume quinto già accaduto. Non si sentiva parlare o vedere passare persone anziane sole morte di stenti o fame. Qualche volta sentivo parlare del fronte e delle truppe che si ritiravano. Diventò più grande la speranza che il babbo, se era vivo, sarebbe tornato. Intanto gli Americani erano entrati in Firenze distribuendo caramelle, cioccolata ai bambini e agli adulti che erano andati loro incontro; misero subito delle grandi vasche d'acqua in Pza Signoria; distribuirono del pane così bianco che a me non piaceva affatto, mi sembrava sapesse di acetilene. Ad un certo punto la mamma decise che si poteva tornare nella vecchia casa, visto che miracolosamente era rimasta in piedi e non era stata requisita- che fortuna! Penso però che non stavo tanto bene in salute: ogni volta che vedevo un uomo biondo scappavo o cominciavo a gridare forte e ci voleva per calmarmi...! Il dolore del corpo non si ricorda quando scompare, ma il dolore dell'anima, le ferite, quando sono profonde, si risarciscono ma non si dimenticano. A casa ricominciò piano, piano la vita di una volta seppure con molte difficoltà per rifornirsi di alcuni alimenti: io e la Marisa, ormai esperte in un angolo appartato lungo il Mugnone avevamo fatto “l'orto di guerra” così lo chiamavamo, piantando semi di pomodori, di zucchine ed altro che andavamo ad annaffiare con cura. Dovevamo provvedere alla famiglia!! La mamma aveva ripreso la scuola, io la mia e mio fratellino all'asilo. Certo sognavo il babbo e insieme alla mamma parlavamo di come sarebbe stato bello essere tutti insieme. Anch'io aspettavo con ansia qualche notizia che facesse sperare. Un giorno ci fecero sapere che il babbo insieme ad un compagno d'armi fiorentino erano nei pressi di Roma diretti a Firenze. Venivano in su, via via che i tedeschi si ritiravano, a piedi, attraversando i campi minati. Venivano dall'estrema punta dell'Italia Meridionale dove erano rimasti per il resto della guerra. Il babbo era a capo di una polveriera. Da Roma a casa aveva impiegato circa una settimana, mi raccontò poi. Mi ricordo e mi ricorderò sempre il giorno che sentimmo la scampanellata tipica del babbo. La mamma era come intontita, io saltavo come una matta e mi precipitai giù per le scale incontro al babbo che aveva sulle spalle un gran sacco militare grande, grande, ma ormai vuoto. Mi fece impressione perché mi parve diverso ma non mi importò gran che perché troppa era la gioia di rivederlo. Ecco eravamo di nuovo una famiglia vera, completa, certa, compatta dove tutto era amore e dono nonostante i molti sacrifici che ancora 53
Ultime Voci ci aspettavano. Grande miseria, ma dimentichi delle cose passate eravamo diritti, senza capogiri, senza pi첫 paura, con la speranza nel cuore di andare avanti, aperti al futuro. Il babbo era molto affettuoso, sia con la mamma che con noi bambini: la sera tornando dal lavoro, mi portava sempre una bambola; piccola, un po' pi첫 grande, con le trecce, con i capelli corti, per me sempre meravigliosa. Anche da pi첫 grande mi sono continuate a piacere le bambole; anche ora mi soffermo volentieri a guardarle quando ne vedo qualcuna. E' un'emozione lieta, felice, recuperata che non si frantuma facilmente: sopravvive come una luce interiore, come la scia luminosa di una stella nel cielo estivo.
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Volume quinto Franca Poggiali
Franca Poggiali nata a Imola il 15 gennaio 1915 è morta alla bella età di 90 anni il 12 marzo 2005. La figlia Valeria ha voluto scrivere in suo ricordo, questa toccante testimonianza, pubblicata il 22 marzo 2008 sul giornale Sabato Sera. La storia di Franca si accompagna alla successiva testimonianza di Maria Corazza, la moglie del fratello di Franca che ricorre in queste pagine Franchina era la mia mamma. Molti anni fa, alla stazione di Bologna, sedute in un treno che stava per partire, vedemmo passare nel corridoio del vagone due carabinieri che tenevano il capo di una lunga catena alla fine della quale c'era un uomo ammanettato. Assistere alla scena e scoppiare a piangere, per mia madre, fu tutt'uno. “Mamma che hai?... Mamma... perché?”. E intanto la stringevo come una bambina. Le mani sulla faccia, fra i singhiozzi, mi rispose: “Mi è venuto in mente zio Berto, quando fu arrestato...”. Io naturalmente sapevo che mio zio era stato antifascista da subito, che aveva ricevuto la sua dose di olio di ricino, di botte,che era stato più volte ospite delle patrie galere e infine era stato in “villeggiatura”, al confino, nell'isola di Ventotene. Ma ora finalmente capivo perché mamma non si era mai dilungata in spiegazioni: le sofferenze sopportate dai suoi genitori e da lei, ragazzina di 15 anni, erano ancora laceranti e vive. Ho poi ricostruito a poco a poco le vicende, soprattutto attraverso le memorie di mio zio, Carlo Alberto Poggiali, e di sua moglie Maria, che di mamma era stata amica. Nel 1930 zio Alberto, giovanotto focoso di 22 anni, aveva costituito con altri la cellula comunista di porta dei Servi e dovevano organizzare la propaganda per l'anniversario 55
Ultime Voci della Rivoluzione d'Ottobre. Troppo ingenui e faciloni, si tradirono, furono arrestati e internati nel carcere di San Giovanni in Monte a Bologna e poi a Castelfranco. Era Franchina, fragile ragazza di 16 anni, che andava a trovarlo in carcere mentre a casa le cose andavano maluccio. Zio Alberto era l'unico sostegno della famiglia, i nonni erano vecchi, in più era stato sequestrato il cassonetto della farina per una tassa non pagata. Nel'32, zio Berto fu rimesso in libertà e ricominciò a lavorare alla fornace, continuando naturalmente la lotta antifascista. Per evitare bastonature e purghe mia mamma andava a prenderlo all'uscita della fornace. Posso immaginare il suo stato d'animo...le paure... le ansie. Nel 1934 zio fu di nuovo arrestato per attività clandestina e con lui furono arrestati suo padre e la sua compagna Maria. Poi Maria lo raggiunse a Ventotene, dopo un matrimonio per procura. Ma questa è un'altra storia . Fortunatamente la vita ha le sue esigenze e procede nonostante tutto. Mamma si era sposata nel dicembre del '39 con mio padre. Nel '40 nacque mio fratello Valerio. Era cominciata la guerra e mio padre fu richiamato in Sicilia. Lei, che nel frattempo aveva preso il diploma di infermiera, era stata assunta in qualità di “avventizia” presso l'Ospedale psichiatrico dell'Osservanza e si recava a lavoro in bicicletta, a volte durante gli allarmi dei bombardamenti, si trovava ad attraversare l'antico ponte romano sulla via Emilia, perché stava con i miei nonni paterni di là dal fiume. Poi ci fu il 1943, il si salvi chi può. Miracolosamente ritornò mio padre Vittorio: aveva risalito, con un amico imolese,tutta la penisola, un po' a piedi, qualche volta nei vagoni merci ed era riuscito a tornare a casa sano e salvo. Di nuovo insieme erano tornati a casa in via dei Mille, dove nel cortile c'era un vecchio pozzo asciutto. Ad ogni buon conto mio padre vi allestì un nascondiglio e quando i tedeschi vennero per un rastrellamento trovarono mia madre, in cortile, intenta a sbucciare patate, mentre il babbo era nel pozzo, a pochi metri. Sei stata brava, mamma, con il cuore che ti batteva a mille a fingere quella calma che non avevi, riuscendo a sorridere e a dire qualche battuta. I tedeschi se ne andarono senza sospetti. Poi finalmente la pace. Nel 1946 sono nata io, Valeria, purtroppo con la lussazione alle anche e quindi altri patemi, altre preoccupazioni nella generale carestia di viveri e di tutto. La vita si è poi normalizzata e abbiamo vissuto tutti un periodo bello e sereno. Mamma come una piccola ape operosa, badava alla casa, ci cresceva,lavorava in ospe56
Volume quinto dale e nei lunghi turni di notte cuciva vestiti a tutta la famiglia. Aveva coraggio, la capacità di affrontare i problemi senza perdersi d'animo. Serena e solare ci incoraggiava e ci sosteneva sempre, avendo forte il senso della giustizia e della solidarietà. Questa è l'eredità che mi ha lasciato, che ci ha lasciato. Franchina ha avuto una vita lunga, accanto a suo figlio, allietata dalla nascita di tre nipotini che adorava. E' morta all'età di 90 anni il 12 marzo 2005. Era nata a Imola il 15 gennaio 1915. Fra le sue cose ho trovato una medaglia d'argento del “Partito democratico della Sinistra” con questa dicitura: “A Franca Poggiali 50 anni di militanza per la democrazia”. Valeria
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Ultime Voci
Franchina nel 1939 al suo Vittorio con immutato affetto.
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Volume quinto
Franchina a passeggio con le amiche fine anni '30.
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Ultime Voci
Accompagna la storia l’immagine di un gruppo di militari antifascisti, fra i quali al centro è seduto Carlo Alberto Poggiali. La fotografia è stata scattata in Sicilia nel 1943.
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Volume quinto Marisa Polloni
Marisa Polloni abita a Lucca. Nel 2012 ha partecipato al Concorso letterario “Un tessuto di Prato” con il seguente racconto Lo sconosciuto, per il quale ha ottenuto il terzo premio tra i racconti di narrativa inedita.
LO SCONOSCIUTO La storia che sto per raccontare ha inizio piuttosto lontano nel tempo. Eravamo alla fine degli anni quarantacinque del ‘900. Ero piccola ma ricordo benissimo i soldati tedeschi che occuparono il mio cortile, con i cavalli e i carri armati. I carri armati li coprivano con delle frasche verdi per non farli vedere agli aerei americani. Io ero spaventata, stavo sempre vicino alla mia mamma. Nella casa vicina alla mia, si trovava una famiglia di sfollati, provenienti dalla vicina Viareggio,in cui c’era una bambina poco più grande di me. Ma a differenza della mia famiglia, loro avevano una vita agiata: il padre, di nome Enrico, lavorava con i tedeschi e non si faceva mancare niente. Mara, la bambina, suonava il piano e sua mamma era maestra di musica. Ogni tanto dava lezioni pure a noi bambini, che per la guerra non potevamo frequentare la scuola. Mio padre, assieme ad altri uomini vicini di casa, avevano fatto un grosso scavo sotto la collina vicina alle case, ma nascosta, per non essere trovati dai tedeschi. Il sentiero che conduceva al rifugio era ricoperto di sterpaglie, affinché noi per raggiungere il luo61
Ultime Voci go potessimo nascondere la fuga. Il padre di Mara conosceva il nostro rifugio segreto ma non lo rivelava a nessuno. Un giorno, mentre veniva bombardata la vicina stazione di Viareggio, gli aerei volavano bassi e mitragliavano all’impazzata. Noi bambini, nel rifugio, ci stringevamo forte ai nostri genitori. Ad un tratto cominciammo a sentire uno strano rumore lungo il sentiero, seguito da un pianto di bambino piccolo, come un lungo lamento. Quando si affacciò al rifugio il padre di Mara con un bambino tra le braccia. Era piccolissimo, di pochi mesi. Io ero spaventata perché quell’uomo era vestito con l’uniforme tedesca. Tutti noi rimanemmo a guardare, sorpresi e diffidenti. Enrico veniva avanti, mentre il bambino non smetteva di piangere: era ricoperto di fango, il visino paonazzo da tanto piangere. L’uomo depose quell’esserino tra le braccia di mia madre dicendole di accudirlo, perché la sua mamma era sta colpita dalla mitraglia. Mia madre e le altre mamme presenti, presero il bambino e tornarono nelle case, dove venne lavato e nutrito con del latte fresco della mucca che mio nonno teneva dietro la casa. Le donne a turno cercavano di accudire quel piccolo esserino nel miglior modo possibile. Gli diedero un nome: Francesco. Il tempo passava e il bambino cresceva, finché finì la guerra. La mamma di Mara volle tenere il bambino e patirono per la Sardegna dove possedevano una casa. Di loro non avemmo più notizie. Però io pensavo spesso a quel bambino di cui non si seppe più niente. Un giorno, mentre mi trovavo al mare a Viareggio, sentii una famiglia parlare sotto ad un gazebo vicino al mio ombrellone. Un signore anziano, con folti capelli bianchi parlava con una signora che nonostante l’età era ancora bella. Stavano parlando della guerra e del paese che volevano visitare. Era il mio paese, così mi avvicinai incuriosita e chiesi se conoscevano qualcuno in quel luogo. L’uomo, allora, mi disse di chiamarsi Francesco e che durante la guerra era stato salvato da un uomo speciale, che lo aveva adottato, fatto studiare e ora era lì con la moglie e con i suoi nipotini ai quali voleva far vedere il luogo dove era stato salvato. Gli diedi il mio indirizzo e il mio nome. Dopo un mese, una grossa macchina, si fermò davanti alla mia casa, cercando di capire dove abitavo. I miei cani cominciarono ad abbaiare e quando mi affacciai al terrazzo, vidi un gruppo di persone che salivano verso casa mia. Guardai più attentamente e in mezzo agli altri riconobbi quell’uomo che avevo conosciuto al mare. Scesi in cortile e mi diressi 62
Volume quinto a salutarlo. Mi presentò i suoi nipotini e la moglie. Dopo averli fatti passare in casa, li portai a visitare i luoghi dei rifugi del tempo di guerra. I nipotini stavano ad ascoltare come se fosse una fiaba, mentre Francesco,molto emozionato mi ascoltava assopito. Poi, salutandomi mi confessò che per tutta la vita, aveva pensato di venire a vedere i posti che lo avevano accolto piccolino. La fortuna lo aveva aiutato. Mi ringraziò tanto e mi parlò dei suoi genitori adottivi. Erano persone speciali, come pure Mara. I genitori erano morti parecchi anni fa. Mara aveva studiato farmacia e adesso ne possedeva una a Sassari. Si era sposata e aveva due ragazzi. Col tempo, forse anche loro torneranno a rivedere questi luoghi. Sono contenta di aver conosciuto la storia di questa famiglia, a me tanto cara durante la guerra.
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Ultime Voci Maria Corazza Poggiali
Maria Corazza Poggiali è la moglie di Carlo Alberto Poggiali. La sua testimonianza è esemplare delle difficoltà incontrate dalle donne che, durante il regime fascista, amavano un uomo impegnato politicamente.
MATRIMONIO ALL’ISOLA DI VENTOTENE1 Era l’ottobre del 1932 e tornava allora con un anno di amnistia, dopo averne scontati due nel carcere di Padova, inflittogli dall’allora famoso “tribunale speciale”. Lo conobbi e divenimmo amici, avevo a quei tempi diciotto anni. Ci incontravamo spesso e lui soleva parlarmi del periodo trascorso in carcere, degli uomini colà conosciuti, dei sentimenti trasfusi in lui, delle lunghe lezioni pazientemente impartitegli, dei piani per l’avvenire, dei sistemi di lotta per la cacciata del fascismo ed un domani migliore per gli operai. E tanto mi entusiasmò quel suo modo di parlare, nuovo per me, che mi sembrò un uomo diverso dagli altri al punto da divenirne la fidanzata, la compagna. Per due anni lavorammo insieme scrivendo manifesti da portare clandestinamente nelle fabbriche per spiegare agli operai il motivo della situazione in cui ci trovavamo, per incoraggiarli alla lotta, per dir loro che il Partito Comunista pensava costantemente ad essi. Portammo in giro la stampa e le parole d’ordine per dire agli operai e ai contadini 1 Da Ricordi di lotta Antifascista nell’esercito e in prigionia dattiloscritto di Carlo Alberto Poggiali datato Imola 8/12/1974.
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Volume quinto come dovevano protestare, come dovevano essere forti per trovare la forza di resistere e lottare. Ogni tanto arrivava un allarme come burrasca a seguito di qualche arresto e ci faceva restare alcune settimane inattivi, col fiato mozzo, sospettosi di tutto e di tutti, come lepre braccata. Poi la burrasca si quietava e le acque riprendevano superficialmente la loro calma, mentre sotto continuavano un cammino agitato. Allora ci guardavamo in viso sorridendo e con una scrollata di spalle e un grosso sospiro ci dicevamo a vicenda: “Un falso allarme!” E ricominciavamo da capo. Ma il brutto giorno arrivò. La polizia da tanto tempo sguinzagliata, aveva trovato il sentiero buono: una spia infilata tra noi aveva fatto strada e la retata fu fatta. Una notte i segugi invadono la casa di lui. Egli fa in tempo a saltare da una finestra, la polizia spara, ma lui riesce ugualmente a darsi alla campagna. Da allora non vi è in me che un desiderio, salvarlo tentando di farlo espatriare. Bisognava portargli i vestiti e i mezzi necessari perché era fuggito pressoché nudo. La polizia piantona notte e giorno la sua casa. Una notte che mai potrò dimenticare, fra un imperversare di tuoni e di lampi, come solo l’estate sa donare simili temporali, mi avvio sola per la campagna dove pressappoco sapevo di poterlo trovare per portargli il necessario onde poter fuggire. Ero bagnata fradicia, non vedevo i sentieri che al bagliore dei lampi e confesso che i tuoni e il vento che fischiava tra gli alberi, il rumore dell’acqua del fiume che precipitava mi mettevano tanta paura. Pure camminai, non saprei dire per quante ore, lo chiamai con tutta la forza della mia voce, ma non riuscii a trovarlo e me ne tornai a casa col cuore rotto. Di giorno non era possibile muoversi di città e per non dare sospetti andai al mio lavoro. Intanto la polizia non dava tregua e tornando una sera trovai la casa circondata: mi aspettavano e mi condussero con loro dopo aver minuziosamente perquisita tutta la casa. Mio padre e mio fratello di appena quindici anni erano già stati trasferiti al commissariato, loro che proprio non c’entravano per nulla. Strano e interessante particolare: trenta uomini armati di tutto punto per arrestare una giovane di vent’anni, che all’aspetto non dimostravo. Non potei fare a meno di farglielo notare e con abbastanza sarcasmo. Dal mercoledì al sabato furono interrogatori, minacce, insulti, preghiere, con la conclusione di uno di quegli sgherri che diceva: “Ti ha istruita bene, ma non lo rivedrai mai più”. Sentii qualcosa stringermi dentro come a togliermi il respiro, ma trovai la forza per rispondere: “Ho solo vent’anni e non ci credo”. Nelle ore di libertà il guardiano della Rocca mi lasciava sulla torre della fortezza, da 65
Ultime Voci cui dominavo, aldilà delle case, tutta la vallata. Cercavo con gli occhi quale fosse il cespuglio che lo nascondeva, sperando che qualcuno gli avesse portato il necessario per fuggire. Non seppi mai quale fosse il vitto della fortezza, perché alla mia richiesta di cibo, mi fu risposto che non avevano nessun ordine di darmi da mangiare. Quand’ecco il sabato mattina ad un’ora insolita si apre la porta della cella e mi dicono che sono libera. “Come? Perché? Cos’era successo?”,chiesi meravigliata al guardiano che mi riconsegnava i lacci delle scarpe e la cintura del vestito. Giuro, tale notizia non mi procurò nessuna gioia, anzi mi faceva prevedere qualcosa di brutto. A tutti quelli che incontravo per strada chiedevo notizie, volevo sapere. In prossimità della caserma incontrai sua sorella che tra le lacrime mi disse: “Lo hanno arrestato!”. Ecco il motivo della mia libertà. Seppi più tardi che un miserabile a cui fu dato un compenso di cinquanta lire era venuto in città ad avvisare la polizia che l’uomo ricercato dormiva in un capanno, lassù nel suo campo. La stanchezza, il sonno, la fame lo avevano costretto a riposare e lì lo avevano preso. Nello stesso istante giunge una macchina, non so perché ma istintivamente mi accosto alla porta della caserma e vedo lui … mentre lo stavano ammanettando. Un urlo mi sfugge dalla gola. La polizia mi riconosce, mi spinge via, mentre a forza cerca di caricare lui sulla macchina per impedirgli di dire anche una sola parola, ma fra il baccano dei poliziotti e dei carabinieri riusciamo comunque a salutarci. Incomincia così la via dolorosa. Mio padre, la mamma morì che ero ancora una bimba, che sempre si era mostrato contrario alla mia relazione, perché a quei tempi, coloro che venivano arrestati per ragioni politiche erano considerati fautori di violenza, dei disfattisti, nemici della famiglia ed altro ancora, con un cipiglio che non ammetteva repliche mi pose il dilemma: “ O la smettessi con lui o mi arrangiassi a vivere”. Che fare? Non risposi. Serrai tutto il mio dolore nel cuore, mi rivolsi a un vecchio compagno di lotta e dopo un mese, messe le mie poche cose in alcune scatole, annunciai a mio padre che me ne andavo. Sapevo cucire e stirare assai bene, me ne andai presso una nobile famiglia come cameriera. Intanto aveva luogo il processo e lo condannarono a tre anni di confino in un’isola. Tre anni. Una breve parola, ma a doverli vivere ora per ora senza una casa propria, lontano da tutti, in una città dove non conosci nessuno, senza poter sfogare il dolore che strazia dentro, in un lavoro che ti umilia continuamente, in casa d’altri dove la propria volontà non esiste più. Dove non puoi neppur piangere finché vuoi che ti senti dire che i dispiaceri bisogna lasciarli fuori, che devi avere sempre un viso sorridente. Chi queste 66
Volume quinto cose non le ha provate non può capire. Il peso della parola “padroni” si fa sentire in tutta la sua gravità, mentre tutto l’insieme delle cose che si vedono in quei lussuosi ambienti, a raffronto con chi soffre ed è privo del minimo necessario e chi lotta per porre fine a tale sistema viene “processato e confinato”, fa fremere di sdegno. Per questo, superata la crisi del dolore si diventa più forti per lottare. Intanto giungevano le prime lettere. Stare tre anni senza vederci ci sembrava impossibile, così escogitammo di sposarci. Cominciò la trafila delle lettere al Ministero degli Interni per ottenere i permessi, facendo leva sulla propaganda demografica, allora in vigore. Finalmente dopo otto mesi arrivò l’autorizzazione di poterci considerare “promessi” nella nostra città natale. Invece per il matrimonio sarei andata io stessa all’isola dove lui era confinato. Ma intanto ci possiamo rivedere. Quanta gioia! Le pene passate sembravano sciocchezze, pensando a quanta esistenza avevamo ancora davanti a noi. Ci promettiamo. E la polizia torna alla carica tentando di corromperlo promettendogli la libertà immediata, il lavoro assicurato, la tranquillità con la giovane sposa, in cambio dei nomi dei compagni di lotta. Quei nomi che non erano riusciti a strappargli nel “processo”. Quanta meschinità! Non capiscono che anche il viaggio non serviva solo per la promessa di matrimonio. Infatti nonostante la continua sorveglianza riusciamo a preparare i doppi fondi alle valigie e riempirli di scritti e libri necessari ai compagni che sono laggiù. Dopo tre giorni il mio promesso riparte per la sua isola, dove io spero di raggiungerlo presto. Invece no! Ecco sorto un altro intoppo. Dopo che avevo ottenuto i permessi per raggiungerlo, e c’erano voluti mesi,il giorno prima della mia partenza arriva un telegramma: “Carcerato sospendi partenza”. Che avviene? Che pensare? Non so, so solo che questo è un nuovo colpo che mi piomba addosso. Nuovo dolore, nuove lacrime, fino a quando arrivano le prime lettere che mi spiegano l’accaduto. In conseguenza ad una provocazione ordita dalla polizia contro i confinati, a seguito delle restrizioni riguardo la biblioteca, lo spaccio e altre concessioni ottenute dal Ministero dell’Interno, che erano il frutto di anni di sacrifici da parte di tutti i confinati che avevano trascorso lunghi periodi sull’isola, per solidarietà tutti si rinserrarono nelle celle e iniziarono per protesta lo sciopero della fame. Per questo furono tutti arrestati, sottoposti a processo e condannati a otto mesi di carcere, in più dei tre anni, da scontare nel carcere di Poggioreale a Napoli. Così, superata la nuova fase di dolore, decisi che non mi restava che di farmi coraggio e andare avanti, nell’attesa della fine degli otto mesi. 67
Ultime Voci Dopo, di nuovo si ricomincia da capo con domanda, deleghe, atti notarili, permessi. Un lavoro che non finiva più, fin quando un giorno il commissario di P.S. della mia città mi chiama e mi mostra il permesso concessomi dal Ministero degli Interni di poter partire per l’isola di Ventotene. Finalmente! Quel pezzo di carta rappresentava per me più dell'universo intero. Lo presi e corsi via con in cuore una gioia e un'ansia che nessuna penna può descrivere. Il mattino dopo mi metto in viaggio. Bologna, Firenze, Roma, Napoli, ecco le tappe del mio primo viaggio così lungo e da sola. A Napoli avrei dovuto presentarmi in questura, ma mentre cercavo di attaccar discorso con un facchino della stazione per informarmi dell'orario del piroscafo, sentii parlare di arresti di studenti, di Pastore come questore. Quel tal Pastore che aveva già condannato e fatto il processo ai nostri, anni fa, al Tribunale Speciale, così per tema di conseguenze poco simpatiche, presi una macchina e giunta al porto mando l'autista a farmi un biglietto di prima classe e salgo sul piroscafo come turista. Ischia, Procida, Santo Stefano, tutti nomi conosciuti fino allora solo sui testi di geografia. Poi, finalmente l'isola di Ventotene. L'arrivo del postale era per i confinanti un avvenimento, e ogni volta essi si raggruppavano sulla parte alta del porto, per vedere se vi era qualche nuovo arrivato, o il sacco della posta o qualsiasi altra piccola novità che li facesse sentire legati alle loro città lontane. Quando con una barca, perché a Ventotene allora il porto era stretto e poco profondo, il piroscafo doveva fermarsi a largo, raggiunsi la gradinata che dal mare porta all'isola, sentii chiamarmi da mille voci. Nessuno mi conosceva, ma certamente mi avevano visto in qualche fotografia e sapevano che sarei dovuta arrivare da un giorno all'altro. Tutti con immensa simpatia e fraternità corsero a porgermi la mano. Qualcuno volò in cerca di lui e ancora oggi dopo tanti anni mi sembra di vederlo arrivare di corsa attraverso la piazza di fronte al commissariato, e sono tra le sue braccia: sono tanto tanto felice! Sbrigate le formalità “poliziesche” con visita minuziosa della valigia e personale, posso finalmente uscire con lui che mi sta aspettando in piazza. Tutti ci festeggiano, ognuno cerca con ogni mezzo e possibilità di offrirci qualcosa, privando magari loro stessi. Il giorno dopo, il 18 marzo, nell'anniversario della Comune di Parigi, fra la gioia e la partecipazione di tutti i confinati si celebrava il mio matrimonio. Era il primo matrimonio civile che si celebrava in un'isola di confinati, tra antifascisti. Maria Corazza Poggiali 68
Volume quinto Di seguito le conclusioni scritte da Carlo Alberto Poggiali sul testo riportato di sopra e relative al contributo delle donne. Riandando col pensiero a quei giorni, non posso dimenticare le nostre compagne di allora, che tanto avevano dato alla lotta antifascista, come tante altre donne semplici e modeste, come la vecchia madre di Piancastelli Giuseppe, morto al confino, che ci diceva di essere certa che le idee di suo figlio erano giuste e ci incoraggiava a lottare anche in condizioni molto difficili. Non posso dimenticare la mia compagna Fernanda Guadagnini, Cecchina Gualandi, Prima Vespignani. Pierina Costa, la madre di Lorenzo Serantoni, Giannina Zanarini Zanelli, Nella e Maria Baroncini ed altre ancora di cui mi sfuggono i nomi. Se l'antifascismo ha potuto condurre una così grande e lunga lotta e uscirne poi vittorioso nella Resistenza, ciò è anche dovuto al sostegno, all'abnegazione, ai sacrifici delle nostre compagne e del loro lavoro, non sempre appariscente ma di grande valore di cui non se ne parla quasi mai. Le donne degli antifascisti, poche purtroppo, ma vivono ancora e dovrebbero essere delle benemerite della Repubblica conquistata dall'antifascismo e dalla Resistenza. Se per le nostre compagne fu duro il seguirci e aiutarci nel nostro peregrinare chi all'estero, chi tra un carcere e l'altro, chi al confino e chi purtroppo anche morendo, lasciando ad esse il peso di dover vivere, dei figli da allevare in condizioni assai amare, in una società fascista che tutto negava loro perché legate ai cosiddetti “sovversivi”. Noi invece possiamo considerarci uomini privilegiati, perché avevamo giustamente capito la realtà della vita per lottare affinché le dighe frapposte dal fascismo al corso del grande fiume dei popoli, fossero superate e travolte per la libertà e la pace, contro la tirannide fascista, contro le cause che l'avevano determinato. Per la nostra conoscenza e consapevolezza fu una situazione di favore anche se acquisita alla dura vita del carcere fascista e al confino politico, con uomini come Mauro Scoccimarro, Umberto Terracini, Giuseppe Amoretti e altri, allievi e discepoli di Antonio Gramsci, il cui maggiore orgoglio era quello di diventare uomini semplici come gli operai e i contadini e poter trasmettere agli altri il sapere del loro intelletto e i principi della loro nobile coscienza, rinunciando a tutto per trasformarsi in autentici lottatori rivoluzionari, con bontà e fraternità senza pari, senza nessuna avidità di arrivismo, ma solo per il progresso, per una società più giusta dove il rispetto della personalità umana e la pace siano i beni più preziosi. 69
Ultime Voci Queste sono le grandi cose che apprendemmo allora giovanissimi e che ci hanno spinto nella lotta antifascista prima, e in guerra poi, fra i soldati e i prigionieri in Sicilia, Tunisia e Algeria.
Documento del Partito Comunista che attesta l’impegno ed il lavoro di Carlo Alberto Poggiali.
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Volume quinto Luciana Riva
Luciana Riva è nata a Novi Ligure – Alessandria – il 5 maggio 1959. Nell’ottobre del 2003 ha pubblicato il suo primo libro Anime di vetro vincendo il “Premio Superga” di Torino e primo classificato al “Premo Narrativa San Marco” di Venezia. Altri riconoscimenti le sono stati conferiti a numerosi concorsi di internazionali di narrativa e poesia. Con il seguente lavoro ha partecipato al “Premio Internazionale Prato: Un tessuto di Cultura”, su richiesta di Silvana Santi Montini ne ha autorizzato l’uso per le Ultime Voci.
Dachau
A te caro papà … Forse è un segno della vita! Memorie che il breve sonno concede. Destatevi ora. Ora che il vento muove le foglie dei pioppi. Ora che il cammino su queste pietre che ancora grondano dolore deportazione annientamento dell’essere umano. Oscuro aumenta in me il peso dei morti partiti per giungere da qualche parte al disotto della loro essenza umana. Le camere a gas dove l’oblio continua a incidere unghie sul muro e le assi di legno emettono il medesimo impercettibile passo svegliandosi alla loro rassegnazione mentre all’anima nuda resta soltanto la perseveranza della morte. Braccia magre consunte in fosse appena disfatte e da lontano il cielo piange il dolore che nel sono fa digrignare i denti. Uno sparo spacca l’aria stura di cenere e carne bruciata nel cranio un buco l’impronta
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Ultime Voci dell’orrore la scandalosa istituzione dello schiavismo con diritto di vita o di morte su chi non la pensava come loro. Nell’ingiustizia provocata da una forza cieca o nemica il torpore del “volere” che mantiene l’uomo imprigionato nella lotta della guerra in questo gioco di potenza rea gli uomini. L’ansia della morte si dissolve sotto gli edifici crollati, negli uomini uccise per strada, fucilati nelle piazze o gettati nelle bocche spalancate dei forni. Ecco che allora quando ogni speranza è bruciata proprio allora all’uomo solo e disperato e impotente può accadere di scoprire una forza nuova. Non è questione di fede! Non si tratta di credere, ma di essere! Un giorno a Dachau Disseccato nel museo degli orrori Uno scheletro contempla l’umano sacrificio, e mi accorgo che la vita e la morte coincidono anche nelle ombre che hanno accompagnato questa mia giornata. Chiedo perdono a Dio di tutto ciò che ho visto e mi chiedo se sono io o se sono loro a lasciarsi la vita alle spalle. Addio papà! E ancora oggi qualcuno sostiene che l’olocausto non è mai esistito!!
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Volume quinto
Frontespisizio originale della poesia di Luciana Riva.
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Ultime Voci Fedora Toccafondi
Fedora Toccafondi è nata a Spedaletto – Barberino di Mugello l’8 giugno 1927. Il racconto della sua infanzia include episodi legati alla guerra, in particolare legati alla lotta partigiana di liberazione.
RICORDI D’INFANZIA Sono nata il giorno 8 di giugno del 1927, a Barberino di Mugello, in località Spedaletto. Oggi in quella cascina, per l’occasione ristrutturata, c’è il ristorante “Il Paiolo”, ma allora la mia famiglia che vi abitava, era composta di venti persone tra genitori, nonni, zii, cugini e fratelli. Nel 1928, quando io avevo solo sette mesi di vita, la famiglia si divise e una parte di essa andò ad abitare in località Citorniano, nel podere “il Forno” della fattoria del Cornocchio di proprietà dei Contebardi. Era un podere grandissimo, c’era tanto lavoro per tutti, tanto che eravamo costretti a farci aiutare nel lavoro dei campi da alcuni garzoni esterni, che poi pagavamo con la merce che loro stessi raccoglievano. Nei campi coltivavamo un po’ di tutto: canapa, lino, grano, mais, patate, rape, olivi e viti. Nell’orto: cipolle, cavoli, insalata, pomodori, baccelli, fagioli ecc. Avevamo anche molti alberi da frutto: meli, peri, susini, noci, alberi di fico, peschi, albicocchi, noccioli. Il podere veniva coltivato con enormi sacrifici, tanto che sembrava un giardino, anche se purtroppo tutti i contadini della località Cornocchio avevamo lo stesso grave problema: “l’acqua”. 74
Volume quinto Nell’inverno avevamo un pozzo distante cento metri da casa, situato su un poggetto detto “Il Colle”, profondo circa sedici metri. Attingevamo l’acqua con un secchio legato a una catena che girava su una carrucola, ma adoperavamo anche acqua piovana raccolta in alcune pozze, che al primo freddo ghiacciavano. Noi per far bere le pecore, le vacche, i maiali e per lavare i panni, dovevamo rompere la lastra di ghiaccio. Invece alla prima siccità estiva il pozzo si seccava e le pozze si asciugavano, così che noi eravamo costretti ad attingere l’acqua per ogni necessità della famiglia, al fiume distante circa due km. Si caricavano le botti di legno, fatte a proposito e alcune damigiane di vetro sul carro trainato dai buoi. L’acqua scarseggiava e veniva adoperata con risparmio. Per lavarsi i piedi o le mani, si usufruiva di quella già usata da altri per lavarsi il viso, e così via. Nonostante questa situazione critica “Il Forno” era un buon podere e conveniva rispettare i padroni e in particolar modo il fattore. Mi vedo ancora davanti agli occhi mio nonno Luigi quando arrivava il fattore Adelindo Mannoni della fattoria del Cornocchio, perché era uno spettacolo garantito. Mio nonno Luigi si chinava più volte davanti al fattore, togliendosi il cappello e gridando: “Buon giorno sor fattore e benvenuto”. Poi gli faceva un bel resoconto della situazione del podere: le bestie, il raccolto … tirando bene le somme che non mancasse un centesimo, perché quello era il sistema per farsi voler bene e non rischiare di farsi mandar via dal padrone. In quel tempo essere mandati via da un podere, significava essere considerato di scarso rendimento, per trovarne un altro eri costretto a lasciare la zona e a rivolgerti ai sensali, e loro si interessavano a trovarti una qualche sistemazione altrove. Un altro problema della mia infanzia era la mancanza di energia elettrica, per illuminare si adoperavano dei lumi a olio o a petrolio. La cucina era una stanza molto grande, e era anche la stanza più importante e frequentata della casa. Infatti in cucina c’era un grande lume a petrolio con campana che illuminava bene tutta la stanza. Inoltre c’era il focolare con un ampio camino, intorno al quale, durante l’inverno, si riuniva l’intera famiglia per raccontarsi favole, storie vere, e parlare dei vari problemi. Qualche volta g li uomini giocavano a carte, le donne invece ricamavano o facevano la calza e giocavano a “lanino” ( il gioco serviva ad imparare a fare velocemente la maglia: si contavano cinque o sei braccia di filo per ogni partecipante, poi si iniziava a lavorare, vinceva chi finiva 75
Ultime Voci per prima la lana). Spesso la sera dopo cena, si invitavano altre famiglie del vicinato a “veglia” e si stava tutti insieme. Della mia infanzia ricordo bene che si lavorava tutti, anche i bambini. Ricordo che non arrivavo ancora all’altezza dell’acquaio, che era grande e di pietra, e già mi facevano rigovernare. La mia zia che era la massaia, mi metteva due catini sul pavimento, in uno lavavo le poche stoviglie che avevamo e nell’altro le sciacquavo. Ricordo che avevamo soltanto un bicchiere ogni cinque o sei persone. Dopo la guerra, quando gli Americani si ritirarono, lasciarono in giro tante bottiglie di birra, noi le andammo a recuperare e le riempimmo di olio bollente. Le bottiglie si ruppero esattamente al punto dove arrivava l’olio, fu così che riuscimmo ad avere tanti bicchieri. Mia sorella Bruna che era la primogenita all’età di quattro anni doveva già badare all’ultimo nato che aveva pochi mesi. Le mettevano il bimbo in braccio e non lo riprendevano finché non piangeva. Mia sorella aveva capito l’antifona, così dopo un po’ gli mordeva le orecchie fino a quando cominciava a piangere e se ne liberava. Io sono la seconda di nove figli, al tempo della seconda guerra mondiale la mia famiglia era aumentata fino a raggiungere il numero di 24 persone: 17 figli e sette adulti. Per questo motivo, nel 1942 lo zio Piero, fratello di mio padre, andò ad abitare con la sua famiglia nel podere del Mulinaccio, sempre dello stesso padrone, e così nel podere del Forno restammo in diciotto persone. Dopo nove anni, nel 1951, un altro fratello di mio padre, lo zio Tonio, andò ad abitare con la famiglia, a Spedaletto, nella vecchia casa della famiglia Toccafondi, dove essa risiedeva da oltre quattrocento anni. Nonostante la formazione dei nuovi nuclei familiari, si tramandavano le tradizioni da padre in figlio. Per esempio non mancavano i grandi raduni al momento dell’olio nuovo, o alla svinatura, con grandi tavolate imbandite con tutti i prodotti del podere. Inoltre una volta l’anno veniva ammazzato un maiale che poteva raggiungere anche 240 chili di peso, ma doveva durare un anno intero ed essere diviso tra 24 persone. Si può ben capire che non era mai troppo. Il mio futuro suocero Leonello Galligari, che faceva il norcino, veniva a lavorare le carni: salava spalle, rigatina e prosciutti, un prosciutto era per il padrone, preparava tutti 76
Volume quinto i tipi di insaccati: salami, salcicce, finocchiona e capocchia, col grasso si facevano i ciccioli e il lardo, con le ossa si faceva il sapone per lavare i panni. Anche in questa occasione, la così detta “smaialata” erano invitati tutti i parenti, era un’altra occasione per ritrovarsi insieme. Veniva preparato il pranzo, quasi esclusivamente a base di carne di maiale: primo, secondo e i migliacci col sangue. Di solito si mangiava, polenta, pasta, pane cereali e verdure del campo. Più spesso era soltanto “minestra e rizzati”, come si diceva noi, la carne si mangiava la domenica. C’è una cosa che mi è rimasta in mente. La spartizione del cibo in famiglia: agli uomini veniva data una aringa ogni due, alle donne un’aringa ogni tre, a noi bambini un’aringa ogni cinque o sei. Si allevavano: pecore, conigli e polli, questi facevano anche le uova, ma spesso bisognava vendere animali e uova per comprare il pesce, il sale lo zucchero, i vestiti o le scarpe. Le scarpe quando erano finite, venivano riutilizzate. Mio padre preparava il sotto di legno e con la tomaia faceva gli zoccoli. Anche la seconda guerra mondiale mi ha lasciato grandi ricordi. In quel tempo, un’ordinanza del Sindaco imponeva, se avevamo del posto, di ospitare gli sfollati. In casa nostra venne un certo Ghinea con tutta la famiglia. Lui era appena tornato dalla guerra in Russia. Raccontava che erano arrivati a pochi km da Mosca, quando li sorprese un grande gelo. La temperatura scese a 50° gradi sotto lo zero, molti soldati morirono dal freddo, altri tornarono indietro con i mezzi di soccorso, e altri ancora si dettero disertori. Ma la guerra è guerra, c’è sempre chi coglie l’occasione per fare delle “bravate”. Raccontava il signor Ghinea, che anche i nostri soldati prendevano i bambini dalle braccia delle loro madri, li buttavano in aria e poi gli sparavano col fucile. Nel luglio del 1944, eravamo tutti nell’aia a battere il grano col correggiato, quando bombardarono la stazione di Vernio, improvvisamente si videro nell’aria dei grandi paracadute. La contraerea tedesca aveva abbattuto un apparecchio americano con sei uomini a bordo. Due di essi bruciarono a bordo dell’aereo che precipitò a Secciano, ad uno non si aprì il paracadute e si schiantò sul poggio della Calvana; il quarto scese al Mulinaccio, vicino alla casa del mio zio Piero e fu preso in consegna dai partigiani, il quinto capitò vicino alla fattoria di Ponzano e con l’aiuto del fattore Mannelli venne catturato dai tedeschi, il sesto scese vicino al Ferri, in località “Camponi” e si nascose sulla Calvana, 77
Ultime Voci restando nel cavo di un masso per cinquanta giorni, fino all’arrivo degli Americani. Di notte usciva dal nascondiglio per procurarsi da mangiare, rivolgendosi ai contadini della zona, in particolare alla famiglia Ferri, che abitava nel podere San Benedetto ed era la più vicina al bosco. Questa famiglia rischiò più volte di essere fucilata dai tedeschi per aver dato aiuto a un americano. In quel periodo i tedeschi ritirandosi facevano irruzione nelle case e portavano via gli uomini che trovavano. Quando giunsero da noi non ne trovarono, perché gli uomini avevano fatto in tempo a nascondersi. Si erano rifugiati su un ballatoio detto “parchetto” che era un corridoio buio, tra le camere. Però ne avevano già catturati una decina nei poderi limitrofi, li avrebbero portati alla stazione di Vaiano e da qui, con un treno merci in Germania. Fra i catturati, c’era anche il mio futuro cognato Bruno Cangioli. I prigionieri erano tenuti di mira soltanto da due tedeschi armati: uno in testa alla fila, l’altro in coda. Fortunatamente queste persone trovarono in servizio alla stazione un loro conoscente che li aiutò a scappare. Una mia cugina, Natalina Ferretti, che abitava nella zona venne catturata con altre persone ma riuscì a scappare, con pochi altri, approfittando di una fermata effettuata dal treno in Emilia. Delle persone rimaste su quel treno non se ne è saputo più nulla. Mentre il fratello di Natalina, Rino Ferretti, sfuggito ai tedeschi, pestò una mina, messa dagli stessi tedeschi nei campi del podere e finì a brandelli. Quando avevo sette anni, la mattina andavo a scuola e il pomeriggio avevo il compito di portare le pecore al pascolo insieme a una signora anziana, Marianna nei Collini che abitava di casa vicino a noi. Ho cominciato la scuola a sei anni e ho fatto soltanto la terza elementare, che era allora la scuola dell’obbligo. In prima ci facevano fare soltanto puntini, bastoncini e tondini, verso la fine dell’anno scolastico si facevano tutte le sillabe però staccate fra loro; in seconda classe ce le facevano rimettere insieme a gruppi e ci insegnavano le tabelline; in terza classe ci insegnavano la storia, la geografia, le scienze, la matematica e l’italiano. Ricordo bene il giorno dei miei esami di terza, mi fecero fare un tema: “Cosa dice il vostro cuore di Addis Abeba”. Era il 1936, io svolsi il mio compito parlando dei nostri valorosi soldati. Le maestre si guardavano in viso, lessero tutte il mio tema, passandose78
Volume quinto lo l’un l’altra. Io vedendo quel movimento ero terrorizzata, invece alla fine presi il voto migliore di tutta la classe: “lodevole”. Sono sempre andata a scuola molto volentieri, anche se per farlo dovevo fare a piedi quasi due km di strada ogni giorno. Sognavo di diventare maestra, ma purtroppo essendo la seconda di nove figli non c’era la possibilità di studiare. Dovetti invece imparare velocemente a fare la sfoglia in casa, il pane, il formaggio, il bucato e quant’altro serviva. Ripresi ad andare a scuola nel 1974, a l’età di 48 anni, dopo aver allevato tre figli. Feci un corso serale per ottenere la licenza della quinta elementare, anche perché mi serviva per entrare a lavorare in comune come bidella. Poi, nel 1981, all’età di 54 anni, grazie alle 150 ore dei lavoratori, sono riuscita a prendere il diploma di terza media.
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Ultime Voci Luisa Tozzi
Quello che segue è il racconto di Luisa Tozzi di una vicenda che le è capitata da bambina.
Incontro ravvicinato fra Tedeschi e Partigiani nel lontano 1944 Mia madre ripeteva che i tedeschi un gli potea vedere e se li ritrovava sempre in casa, con grande sgomento di tutta la famiglia. Fu così che una mattina di primavera del ‘44 ci fu una lunga e attenta perquisizione del Bastione. Una ventina di soldati entrarono con la prepotenza in casa nostra spingendo da parte i poveri vecchi zii che chiedevano spiegazione di quella irruenza. La mamma si fece avanti con estremo coraggio accompagnando i militari per le tante stanze della casa. Essi rovistavano dappertutto, spostavano armadi, letti e tutti i mobili furono allontanati dalle pareti; la mamma in lacrime chiedeva la spiegazione di tutto ciò, e, un tedesco le disse che cercavano suo marito sospettato di collusione con i partigiani: lei, con una prontezza formidabile, disse che era soldato e mostrò loro la foto del marito in montura fascista. Sembrò che quella foto placasse un po’ la loro furia, così iniziarono ad andarsene, ma non era ancora finito lo spavento. Ridiscesi al piano terra, nel grande salone appartato, sotto un telo rattoppato dormiva il vecchio pianoforte a coda che era appartenuto al nostro antenato direttore d’orchestra. Alcuni soldati levarono il telo e apri80
Volume quinto rono il coperchio dello strumento, ma là dentro c’erano solo le corde, un altro soldato accennò sui tasti delle note poi se ne andarono tutti e alla mamma, che aveva il cuore in gola, le dissero che sarebbero tornati quella sera. «I che t’hanno detto que’ tedescacci» furono le parole unanimi di tutti i parenti che erano stati spintonati «Ho capito che torneranno stasera e troveranno di sicuro i’ mi’ marito». Ma il babbo era irreperibile, fu cercato per la casa chiamato e richiamato ancora, ma di lui nessuna notizia. Tutti si domandavano dove fosse, fu il vecchio zio che con la voce sibillina dette questa spiegazione, in dove sta sta bene così tranquillizzò in parte i familiari. Durante la giornata tutti noi avevamo l’aria abbattuta, la mamma aveva rifatto i letti, ma non aveva la forza di riportare i mobili al muro e gli zii e i nonni non la potevano aiutare, così era rimasto tutto buttato all’aria. Le giornate erano già molto lunghe, e il sole tramontava con calma, indifferente alle nostre angosce. C’era nell’aria come un fermento insolito, come un via vai misterioso e inconsueto, in quella giornata, mi ricordo che lo zio non mi perse di vista un momento e, di quando in quando mi richiamava in casa come se la casa fosse davvero più sicura. Più tardi quando ci sedemmo a cena per consumare la poca farinata che c’era a lume di candela, ecco che i tedeschi della mattina tornarono di nuovo. Peccato che non si potessero capire i loro urlacci, anzi ci mettevano in soggezione, ma furono subito palesi le loro intenzioni; con nostro grandissimo stupore spostarono il pianoforte al centro della sala, ci posero sopra alcune torce e uno di loro si sedè iniziò a suonare. Il silenzio fu totale e nel silenzio ancora più cupo di una città assediata, quelle stupende note volarono alle finestre aperte, furono udite anche dalle persone che abitavano vicino a noi e a poco a poco, dalla porta rimasta aperta, cominciarono ad entrare uno alla volta in punta di piedi e, terminata la musica, ci fu un grande applauso. Quel pianista sconosciuto suonò a lungo tanti brani famosi facendo dimenticare la guerra. Nessuno dei presenti per quella sera “almeno” si ricordò che i tedeschi erano nostri nemici e quando andarono via ci strinsero la mano. A guerra finita il babbo parlò di codesta serata «Come tu fai a sapere di codesta serata se ‘un tu c’eri» «C’ero, c’ero, io e un gruppo di partigiani miei amici, eravamo tutti nascosti nel sotterraneo segreto e proprio quella sera dovevamo uscire per fare un’imboscata ai tedeschi e pensare che li avevamo a suonare il pianoforte dentro casa mia!». Fu così che noi familiari sapemmo la verità su quel sotterraneo segreto che era servito per tante volte a nascondere i partigiani. 81
Ultime Voci Rosetta Valenza
Rosetta Valenza insegnante nata a Pantelleria in una famiglia numerosa di condizione agiata. In Toscana per lavoro si è sposata e ha insegnato per quasi quarant’anni con professionalità e grande amore per il suo lavoro. Vive con la famiglia a Prato.
La storia di Rosetta Valenza è piena di sorprese e curiosità, oltre che di storie legate ad avvenimenti politico – sociali nei quali si è ritrovata suo malgrado. Comincia dai suoi nonni emigrati in America ai primi del ‘900 con le tre figlie: Maria, Anita, Giuseppina e il figlio maschio Michele, divenuto in seguito custode del museo Meucci l’inventore del telefono. La figlia maggiore, in America, si era sposata con il giornalista Salsedo che seguiva e si interessava al caso Sacco e Vanzetti. In questo suo lavoro precipitò da una finestra e morì. Ma l’incidente non è mai stato chiarito, resta tra i fatti misteriosi di quell’avvenimento. Giuseppina, fidanzata anche lei in America, non poté coronare il suo sogno d’amore, perché il giovane fu colpito dalla “Spagnola” un’epidemia mortale diffusasi anche in Europa alla fine della prima guerra mondiale, facendo più vittime della stessa guerra. La mamma delle ragazze, nonna Antonina per Rosetta, non superò mai la nostalgia per la sua terra e tanto disse e fece che la famiglia decise di tornare a Pantelleria. Si era intorno all’anno 1920. Delle due figlie ritornate in Italia, una era vedova del giornalista Salsedo, l’altra si spo82
Volume quinto sò poco dopo con un giovane isolano, Michele, capitano marittimo del veliero “Giulietta”, adibito al trasporto di prodotti tipici dell’isola nel continente come vini pregiati, uva passita, capperi. Mentre al ritorno faceva il carico di prodotti alimentari che nell’isola mancavano, oggetti per la casa e altro. Il giovane Michele faceva insomma attività commerciale essendo figlio dell’armatore del suddetto veliero, che aveva anche un importante mobilificio.
Il veliero Giulietta.
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Ultime Voci “Mi ricordo” dice Rosetta “l’isola degli anni prima della guerra vera e propria. Fu un periodo assai vivace e brillante. Pantelleria era un’importante base militare, un punto strategico del mare Mediterraneo, così a mezza strada tra la Sicilia e la Tunisia. Era una fortezza dotata di numerose batterie costiere e antiaeree, oltre che di un campo di aviazione. Per questo vi erano stanziati vari ordini militari con le famiglie, così si facevano spettacoli, feste e c’era sempre un gran movimento, grandi parate e manifestazioni alle quali partecipava anche la popolazione. Per me quello fu un periodo pieno di curiosità, mi divertiva e mi è rimasto dentro come un momento felice e prezioso. Infatti fino al 1943 sull’isola avevamo vissuto abbastanza tranquillamente. C’erano stati solo sporadici allarmi ma senza conseguenze di sorta”. «Finché verso la metà del mese di maggio gli attacchi dei bombardieri anglo-americani rovesciarono sull’isola – dodici chilometri di lunghezza e sette di larghezza – 6400 tonnellate di esplosivi. Una vera enormità. Quando l’undici giugno le navi da guerra alleate si presentarono davanti a Pantelleria, per dare l’ultimo colpo a protezione dello sbarco, furono accolte dal silenzio delle difese italiane. L’invasione si svolse così in tutta tranquillità, poiché l’ammiraglio Gino Pavesi comandante militare dell’isola, aveva già ottenuto da Mussolini il permesso di arrendersi, accampando come motivazione l’assoluta mancanza d’acqua. Ben 11339 soldati vennero fatti prigionieri senza sparare un colpo: un solo ferito tra gli alleati, colpito duramente dal calcio di un mulo1». Rosetta ricorda molto bene l’inizio di quei bombardamenti a tappeto sul porto, sulla flotta della marina italiana. “Il mare sembrava un enorme fuoco. Era come se bruciasse il mondo. In quell’occasione agli abitanti fu ordinato di lasciare il paese, di trovare rifugio in campagna nelle case dei contadini, presso i parenti chi ce li aveva. Ben presto però dovemmo abbandonare anche quelle e rifugiarsi nelle grotte, dove in tempi normali riparavano gli animali. Il periodo trascorso nelle grotte con la mamma e le sorelle, il padre fuori per lavoro era rimasto bloccato in Sicilia, ha lasciato in me una paura e un disagio indicibili. Eravamo senza mangiare e senza poter far nulla di quello che è normalità di vita”. 1 Gianni Rocca, L’Italia invasa 1943 – 1945, pagina 33.
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Volume quinto Poi gli aerei degli alleati inondarono l’isola di manifestini: avvertivano la popolazione che Pantelleria sarebbe stata rasa al suolo. Allora l’aviazione militare mise a disposizione i propri mezzi per evacuare coloro che decidevano di abbandonare l’isola. Anche Giuseppina, la mamma di Rosetta, decise di affrontare con i figli quel viaggio se pure tanto scomodo, bisognava entrare nell’aereo carponi e restarvi sdraiati. Ma ne valeva la pena per potersi riunire al marito, rimasto col veliero nel porto di Mazara impossibilitato a rientrare, causa i bombardamenti e il precipitare degli eventi. “Finalmente l’aereo militare atterrò a Castelvetrano in provincia di Trapani, dove il babbo era ad aspettarci. Ci sentimmo sollevati perché finalmente ora eravamo almeno tutti insieme”. Poi la famiglia decise di proseguire per il continente per allontanarsi sempre di più dalla guerra. “La nostra meta era San Miniato, cittadina nota per il collegio dove andavano a studiare molti giovani di Pantelleria e l’idea della presenza di conoscenti, amici o comunque conterranei ci rendeva più tranquilli e fiduciosi. Sul treno che ci portava lontano, ironia della sorte, sentimmo il comunicato radio annunciare la resa di Pantelleria con l’occupazione degli alleati. Da quel momento se fossimo rimasti sull’isola, per noi la guerra sarebbe stata conclusa, sarebbe finita la nostra peripezia. Invece così ne cominciava una nuova che sarebbe stata più tragica e lunga”. “Ricordo di aver fatto l’ultima parte del viaggio in autobus. Eravamo tre famiglie, ad ognuna fu trovata una sistemazione relativamente al numero dei componenti. Le due famiglie meno numerose furono accolte in due diverse fattorie,la nostra dal Pievano di Toiano. Dopo questa provvisoria sistemazione, il comune di Palaia, come profughi, ci mise a disposizione le soffitte del palazzo comunale, appositamente liberate dell’archivio ivi custodito. Le soffitte furono rese abitabili e sistemate alla meglio con mobili e oggetti offerti dalla generosa solidarietà di tutto un popolo comprensivo della situazione. Ma come si viveva? Avevamo diritto a un sussidio perché come profughi non avevamo potuto portare con noi nulla, tranne i vestiti che avevamo addosso”. “Sebbene nell’incerta provvisorietà, i primi mesi passarono abbastanza tranquilli, poi la guerra arrivò anche lì e le cose peggiorarono per tutti. I tedeschi invasori, incattiviti per la situazione sempre più incerta e difficile se la rifacevano con la popolazione, cercavano gli uomini per portarli in Germania o nei campi di lavoro. Anche il mio babbo, Michele, in uno di questi rastrellamenti fu preso prigioniero, ma fortunatamente, sia per l’età e forse impietositi della situazione familiare, fu rilasciato durante il tragitto, non troppo 85
Ultime Voci distante dal paese”.
Famiglia Valenza, Rosetta è l’ultima a destra.
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Volume quinto “L’avvicinarsi della guerra, peggiorava di giorno i giorno la situazione. Fu necessario ancora una volta abbandonare le abitazioni per i rifugi scavati sotto terra. Per noi quello fu un tempo terribile. La mamma ci aveva lasciato da poco. Era morta quindici giorni dopo la nascita dell’ultimo figlio, Sergio, il babbo lo avevano preso i tedeschi. Noi non avevamo più nessuno. In quell’occasione ci sentimmo davvero disperatamente sole”. “Finalmente una sera mentre stavamo a prendere un po’ d’aria fuori dai rifugi, arrivarono gli americani. Fu per tutti una grande festa, perché era la liberazione tanto attesa”. “Con l’arrivo degli alleati abbiamo sentito di essere di nuovo liberi, al sicuro e soprattutto di poter tornare a casa. Bisognava ritornare per vedere cosa era successo alla nostra abitazione, per riprendere una attività di lavoro e ritrovare la normalità della vita”. “Il viaggio lo facemmo a tappe col babbo e qualche amico d’avventura, usavamo mezzi di fortuna in special modo i camions americani che si spostavano da un posto all’altro. Quando si fermavano perché erano giunti alla meta, noi scendevamo restando sulla strada in attesa del prossimo passaggio. Nelle grandi città come Roma e Napoli si cercava di metterci in contatto con i parenti, amici o paesani che vi abitavano per avere un minimo di riposo e di ristoro, un’accoglienza amica e un po’ di conforto”. “Come Dio volle arrivammo a Trapani, da dove avremmo dovuto prendere la nave per Pantelleria. Qui, date le conoscenze del babbo, abbiamo potuto soggiornare nell’albergo “Russo” nelle vicinanze del porto”. L’albergo è ancora esistente e funzionante. Infatti Rosetta mi racconta di esserci tornata col figlio Alessandro in tempi recenti e di aver riconosciuto la camera dove in quell’occasione erano rimasti in attesa dell’imbarco. In modo particolare riconosceva e ricordava proprio così com’era allora, la stradina che lei percorreva per recarsi al mercatino della piazzetta poco distante dall’albergo. E se pure a distanza di tanto tempo, o proprio per quello, è stato rievocativo di un subbuglio di emozioni e di sentimenti. “Da Trapani, appena è stato possibile ci siamo imbarcati per rientrare a Pantelleria. Purtroppo abbiamo trovato il paese in macerie. Non c’era più una casa in piedi. Allora ci siamo recati in campagna, nelle cosiddette contrade, dove ormai tutti si erano sistemati come potevano in case dei parenti o in vecchie abitazioni rimesse in uso per l’occasione”. La famiglia Valenza aveva trovato ospitalità presso la sorella del babbo in contrada Scauri, ma vi rimasero per poco tempo in quanto essendo le due famiglie numerose ci 87
Ultime Voci stavano stretti. Michele trovò quindi una casetta in contrada Khaddiuggia per sé e i propri figli. Rosetta racconta che i ragazzi delle contrade, compresa lei e le sue sorelle, dovevano percorrere ogni giorno un bel pezzo di strada a piedi per frequentare la scuola, “ma eravamo in tanti e ci si divertiva un monte. Noi figli di Michele vivevamo spesso soli in quella casa, perché il babbo era dovuto tornare in Sicilia, a Mazara del Vallo, per riparare il motoveliero danneggiato dalla guerra e cercare di riprendere a lavorare. E’ stato un tempo difficile e di sacrifici. Ora, quando ci penso, non sembra nemmeno possibile essere stato”.
Mappa dell’isola di Pantelleria.
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Volume quinto
La mamma di Rosetta, Giuseppina. E’ visibile l’anello di fidanzamento.
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Ultime Voci Dilvia Zucconi
Dilvia Zucconi nacque a Montecatini Val di Nievole il 27 gennaio 1917. Nel 1939 si sposò con Armando Lavorini, che per l’occasione ebbe una licenza straordinaria. Negli anni successivi, Armando era sempre richiamato alle armi e Dilvia viveva con la paga del soldato e lavorando per gli alberghi di Montecatini. Quando il 12 agosto Armando fu dichiarato disperso a Dilvia fu sospeso il sussidio e da allora dovette impegnarsi e sacrificarsi per mantenere sé stessa ed il figlio Giorgio.
Racconto e testo del figlio Giorgio Lavorini La MAMMA – Zucconi Dilvia nata a Montecatini Val di Nievole il 27/1/1917 a modesta famiglia di agricoltori, rimase orfana di padre insieme ad altre tre sorelle ed un fratello, all’età di 12 anni. Poiché non c’erano forza valide maschili per poter mandare avanti il podere, furono cacciati fuori e accolti in due stanzine da un’altra famiglia di contadini. La nonna materna per tirare avanti la famiglia andò a servizio e di lì a poco anche la mia mamma dovette andare a servizio, dove per sciaquare i piatti aveva un piccolo panchetto perché non arrivava all’acquaio. In questa Villa – dai signori Cerchiai e Tosi di Montecatini Alto – la mamma continuò il servizio per tutta la Sua adolescenza e giovinezza. Conservò una Sua foto con dietro questa dedica: “Ai miei cari Signori Con tanto affetto e riconoscienza Per la loro infinità Bontà verso di me che io ciercherò di ricompensare con tutto lo zelo dell’anima mia. Sua Devotissima Dilvia Zucconi 2.5.1937” 90
Volume quinto Poi la Mamma incontrò il Babbo (un fratello del Babbo – Angiolino – aveva sposata una cugina della Mamma: Marinella) e si fidanzarono. La domenica successiva al 15 di Agosto di ogni anno, si tiene una grande Festa nella Macchia Antonini (Comune di Piteglio (PT)) e nel 1938 fissarono di andare anche il babbo e la mamma accompagnati si intende da parenti ed amici. All’epoca andavano a piedi e poiché detta Festa era distante da Massa e Cozzile (residenza del Babbo) circa 10 Km e da Nievole (residenza della Mamma) circa 9 Km, partivano alle ore 2 di notte. Non esistevano ovviamente telefoni o altre vie di comunicazione, ed avevano fissato di fare un segno di carbone su una pietra, laddove le rispettive strade si congiungevano, per capire chi era già transitato. Uno dei due (non ricordo chi) dimenticò il carbone a casa e quindi transitò senza lasciare nessun segno. Finalmente alla Festa si trovarono e la giornata finì bene con una foto ricordo che qui allego. L’11 Novembre 1939 si sposarono nella Chiesa di Nievole – frazione del Comune di Montecatini Val di Nievole. Il Babbo ebbe una licenza straordinaria poiché combatteva sul Fronte Albanese (come si desume dal Foglio Matricolare). Il babbo e la Mamma presero in affitto due stanzine di una casa di campagna in località Le Molina (Comune di Massa e Cozzile) con pochi essenziali mobili: la camera con un cassettone e letto in ferro, la cucina con il tavolo 4 sedie ed una vetrina. Conservò ancora questi mobili che per me sono sacri. In special modo il letto in ferro ove io sono nato il 5 Maggio 1941. In quell’epoca il Babbo era sempre richiamato sotto le armi e la Mamma viveva di quel poco che era la paga dei Soldati e si impegnava a lavare biancheria degli alberghi di Montecatini andando e tornando a piedi e con i pacchi di biancheria sulle spalle. Quando il Babbo fu dichiarato Disperso, (21 Agosto 1942) la Mamma ebbe la sospensione del sussidio e mi raccontava che la popolazione che abitava vicino a noi ci aiutava molto, anche con una “colletta”. Nel Giugno 1943 (era il tempo della trebbiatura del grano!) la Mamma non avendo né grano né farina per fare a me farinate di grano, prese il coraggio a quattro mani e andò nell’aia di un contadino dove stavano trebbiando il grano. Chiese al contadino se gliene 91
Ultime Voci poteva dare un sacchettino per portarlo al molino e fare un po’ di farina per poter fare le farinatine al bambino. Il contadino le indicò poco distante il Federale (in camicia nera) che controllava la quantità che usciva dalla trebbiatrice per conferirla all’ammasso. La Mamma andò dal Federale e gli disse di essere Vedova di Guerra e con me da svezzare …. Le fu dato un sacchettino di quel prezioso grano! La mamma continuò a fare la lavandaia soprattutto alle Forze Alleate. Non sapendo a chi lasciarmi mi portava con sé e i Soldati Americani mi davano sempre le cioccolate. E così la Mamma ha sempre lavorato per tirare avanti perché anche la pensione di guerra è sempre stata di misero importo (ci si poteva comprare solo il latte!!). Nel 1946 la nonna materna Armida che abitava insieme allo zio Luigi e alla zia Laurina, ci ritirò in casa con loro e la mia Mamma nel 1947 fu assunta alle Terme di Montecatini ove ha lavorato per oltre 30 anni andando e tornando a piedi da Montecatini Terme a Montecatini Alto per molti anni. Ho avuto la fortuna di essere cresciuto in una famiglia semplice, povera ma con tanta dignità. Conservo tutte le lettere e cartoline postali che il Babbo scrisse alla Mamma dalla Russia e 14 lettere scritte dalla mamma al Babbo e giunte al Fronte quando il Babbo era già stato dichiarato Disperso e quindi restituite alla Mamma dalla Posta Militare n.69. Qui di seguito trascrivo alcuni brani significativi tratti da queste 14 lettere ove si evince l’ATTESA, lo SCONFORTO, il DOLORE, l’ETERNA SPERANZA della donna, della moglie. Brani estratti dalle lettere scritte dalla mamma al babbo restituite dalla Posta Militare n.69 – non recapitate – al babbo al giungere di queste lettere al fronte, era già “disperso”. 27/8/42 Caro Armando non passa giorno che non ricevo qualcosa credimi io quando leggo le tue lettere mi sembra di essere con te e dopo sono un’altra il tempo mi passa prima e meglio io Caro Armando con questo bimbino che me lo fa passare discretamente col suo chiassare e fare di mattie tu vedessi quando sono qui in cucina che fo le faccende come corre dietro e mi
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Volume quinto chiama tante volte e viene alla sottana a chiapparmi sembra colle sue grasse risate che voglia brontolarmi e dirmi mamma lo siamo solo ma poi presto tornerà anche il babbo Armando in quanto ai soldi che ti mandai a dire che mi ero trovata al corto di soldi mi dici che vuoi sapere dove li o messi e che ti dica tutto ma santo cielo lo vedevi quando eri a casa anche te dove andavano i fogli da cento e io lo spesi per il solito verso non sono mica una scema che li getto nel mezzo della strada e chi vuole li pigli intendo di essere una donna colla testa al posto e quindi quando torni ti spiegherò tutto ò pagato la pigione le spese sono tante. 23/9/42 Carissimo Armando Non puoi credere come mi trovo in pensiero da un po di tempo è un mese e sei giorni che non ricevo tue notizie quindi conosci bene il mio carattere che è tanto sensibile e puoi considerare il mio stato d’animo di questi giorni sai caro Armando a dirsi fino che ora ero abituata tanto male che no mi sembravi neppure lontano come siei tutti i giorni potevo saltarne qualcuno avevo tue buone notizie e ora trovarmi così per un lungo tempo senza ricevere e più pensieri cattvi saltano nella mente. un po penso sarà la posta un po dico che la verità penso che forse se dipendeva da un disquasto di posta a questora dovevano essere arrivate come mi dicevi anche sula tua ultima lettera che è in data 16 Agosto che tutti i giorni mi inviavi un tuo scritto che fosse lettera o cartolina allora come mai? cosa pensare? Ora più che sempre vorrei essere una mosca per volare lontana e vedere come stai in certi momento anchio mi metto a rileggere il tuo scritto e allora dalle tue lettere mi consolo un po e mi salta in mente un filo di speranza e coraggio sempre fiduciosa da una mattina allaltra di ricevere due o tre lettere insieme non potrei pensare se questa mia speranza fosse vana e come consolarmi? Voglio scacciare i pensieri cattivi dalla mente e mi auguro che a ricevere di questa mia tu goda buona salute come me e il piccolo Giorgettino che ogni giorno ne impara sempre di nuovo e si fa un gran birbone per oggi non ò altro da aggiungere spero domani di ricevere 93
Ultime Voci ti saluto con grande affetto e ti bacio caramente unita al piccolo Giorgettino Baci Baci Baci Baci tua indimenticabile Dilvia aggiungo un foglio e una busta con il mio indirizzo Anche io sono stata un po senza scrivere perchĂŠ non mi si addice quando non ricevo Baci Baci Baci Baci tua indimenticabile Dilvia Baci Baci Baci Baci Dilvia
Dilvia Zucconi ed Armando Lavorini, ancora fidanzati, ad una festa alla Macchia Antonini (Piteglio) il 21 Agosto 1938.
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Volume quinto
Dilvia Zucconi, fotografia datata 2 Maggio 1937.
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Ultime Voci
Il contributo delle donne alla Resistenza è a livello internazionale. Questa foto che ritrae Dolores Ibarruri insieme ai suoi miliziani è una cartolina di propaganda dell’esercito Repubblicano spagnolo ed è un manifesto della Resistenza femminile.
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Volume quinto Il sacrificio della donna in guerra - avvertenza Le pagine che seguono raccontano episodi esemplari del contributo che le donne hanno avuto nelle due Guerre Mondiali. Leggendole, si potrà notare che esse sono diverse rispetto alle pagine precedenti. Di solito in Ultime Voci si raccontano gli episodi che hanno visto coinvolto il protagonista della testimonianza, molte volte anche in prima persona, riportando le parole stesse del protagonista. In questi brani, invece, la componente biografica è minima, meno accentuata rispetto al racconto delle vicende, e l’attenzione è rivolta maggiormente sui fatti, sottolineando il ruolo che le donne hanno avuto in essi. Il
motivo di questa differenza è semplice: gli eventi che riporteremo hanno visto la presenza significativa delle donne, ma chi li ha raccontati non ha preso come punto di riferimento la storia delle donne. Noi, invece, che abbiamo voluto dedicare un numero speciale della pubblicazione alle donne, abbiamo voluto ricordarle in tutte le vicende che le hanno viste attrici, anche se per farlo è necessario ricorrere ad altri lavori e ricerche, dal momento che mancano testimonianze dirette.
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Ultime Voci Portatrici Carniche
La seguente testimonianza riguarda le Portatrici carniche: donne che si sacrificarono per portare rifornimenti e munizioni agli uomini al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, arrivando là dove persino le bestie da soma avevano difficoltà. Le notizie sono tratte dal sito Donne in Carnia http://www.donneincarnia. it/ieri/portatricicarniche.htm, pagina visitata nell’agosto 2012
La straordinaria pagina delle Portatrici carniche, scritta tra l’agosto del 1915 e l’ottobre del 1917, è forse unica nella storia dei conflitti armati. La Zona Carnia, ove erano dislocati 31 battaglioni, aveva un’importanza strategica nel quadro generale del fronte, in quanto rappresentava l’anello di congiunzione tra le Armate schierate in Cadore alla sinistra, e quelle delle prealpi Giulie e Carso sulla destra. Costituiva quindi un importante difesa delle maggiori direttrici di movimento del nemico: quelle del Passo di Monte Croce Carnico e del Fella. La forza media presente nella zona si aggirava intorno ai 10-12 mila uomini. I soldati, per vivere e combattere nelle migliori condizioni di efficienza materiale e morale, avevano bisogno giornalmente di vettovaglie, munizioni, medicinali e materiali per rinforzare le postazioni, e attrezzi vari. I magazzini e i depositi militari, dislocati in fondovalle, non avevano collegamento con la linea del fronte, non esistendoci rotabili che consentissero il transito di carri a traino animale o di automezzi. La guerra si faceva sulle montagne e i rifornimenti ai reparti schierati dovevano essere portati a spalla.
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Volume quinto La situazione venutasi a creare con i feroci combattimenti, non permetteva che venissero sottratti i soldati dalle linee per adibirli a questo servizio. Ecco quindi che il Comando Logistico della Zona e quello del Genio, chiesero aiuto alla popolazione. Ma a chi? Gli uomini validi erano tutti alle armi, nelle case solo donne, anziani e bambini. Le donne di Paluzza avvertirono la gravità della situazione, ed aderirono subito all’invito drammatico a mettersi a disposizione dei Comandi Militari per trasportare a spalla quanto occorreva agli uomini della prima linea Furono dotate di un apposito bracciale rosso con stampato il numero del reparto da cui dipendevano. Il carico dei rifornimenti da portare alle prime linee, sui 30 - 40 kg e anche più. L’età variava da quindici a sessant’anni, e nelle emergenze, venivano affiancate anche da vecchi e bambini. Se necessario, venivano chiamate ad ogni ora del giorno e della notte. Ricevettero il compenso di una lira e cinquanta centesimi a viaggio, equivalenti a circa L. 6.000 lire di oggi. In tre furono ferite: Maria Muser Olivotto, Maria Silverio Matiz di Timau e Rosalia Primus di Cleulis. Maria Plozner Mentil fu invece colpita a morte. Queste donne avevano ereditato dal loro passato la fatica. Abituate da secoli per l’estrema povertà di queste zone, ad indossare la “gerla” di casa - che mai come in questo caso può rappresentare il simbolo della donna carnica - , ora la mettevano sulle spalle al servizio del Paese in guerra. Fino ad allora l’avevano a caricata di granturco, fieno, legna, patate e tutto ciò che poteva servire alla casa e alla stalla. In questa situazione invece la gerla era carica di granate, cartucce, viveri e altro materiale. Venne costituito un vero e proprio Corpo di ausiliarie formato da donne più o meno giovani, della forza pari a quella di un battaglione di circa 1000 soldati. Con disciplina militare (pur non essendo state militarizzate), partivano a gruppi di 15, 20 senza guide, imponendosi una tabella di marcia. Dopo percorso il fondovalle con la gerla carica, “attaccavano” la montagna dirigendosi a raggiera verso la linea del fronte. 99
Ultime Voci I dislivelli da superare andavano da 600 a 1200 metri, quindi con due o quattro ore di marcia in ripida salita. Arrivavano a destinazione col cuore in gola, stremate dalla disumana fatica, che diventava ancor più pesante d’inverno, quando affondavano nella neve fino alle ginocchia. Scaricavano il materiale, una sosta di pochi minuti per riposare, per portare agli alpini al fronte qualche notizia del paese e magari riconsegnare loro la biancheria fresca di bucato, portata giù a valle, da lavare, nei giorni precedenti. Si incamminavano poi in discesa, per ritornare a casa, dove c’erano ad aspettarle i bambini, i vecchi, la cura della casa e della stalla. All’alba del giorno dopo si ricominciava con un nuovo “viaggio”. Qualche volta, per il ritorno veniva chiesto alle portatrici di trasportare a valle, in barella, i militari feriti o quelli caduti in combattimento. I feriti erano poi avviati agli ospedali da campo, i morti venivano seppelliti nel Cimitero di guerra di Timau, dopo che le stesse Portatrici avevano scavato la fossa. Nei giorni del 26 e 27 marzo 1916, quelli della perdita del Pal Piccolo e della sua riconquista con furibonde lotte, dove si contarono fra i nostri 190 morti, 573 feriti e 25 dispersi, le donne di Timau si presentarono e si offrirono come serventi ai pezzi di artiglieria, chiedendo inoltre di essere armate di fucile. Non fu necessario il loro impiego, ma servì a rincuorare i soldati che combattevano e che provarono ammirazione e riconoscimento per queste donne.
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Portatrici Carniche.
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Ultime Voci Anna Maria Enriques Agnoletti
Nata a Bologna nel 1907 fu membro attivo della sezione fiorentina di Radio CORA. Per la sua attività venne arrestata dalle truppe nazi-fasciste il 15 maggio 1944 ed il 12 giugno dello stesso anno fucilata a Cercina insieme con gli altri patrioti della radio. Le notizie sono tratte dal sito Resistenza Toscana.it http://resistenzatoscana.it/biografie/enriques_agnoletti_anna_maria/ pagina ad opera di Giovanni Baldini visitata nell’agosto 2012
Nata a Bologna nel 1907 lavorò come prima archivista all’Archivio di Stato di Firenze fino alla promulgazione delle leggi razziali. Anna Maria, nonostante si fosse da tempo convertita al cattolicesimo e fosse di discendenza ebrea solo da parte paterna, fu costretta ad abbandonare il suo incarico. Come paleografa trovò impiego alla Biblioteca Vaticana dove entrò in contatto con esponenti del movimento cristiano sociale. Dall’otto di settembre fu continuamente impegnata in attività di collegamento con il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale e adoperandosi per offrire aiuto ai militari sbandati e ai perseguitati con il fratello Enzo, rappresentante del Partito d’Azione in seno al CTLN. Ma a Roma vennero arrestati e ferocemente torturati alcuni esponenti del movimento cristiano sociale e venne fatto il nome di Anna Maria. Inviando a Firenze un falso ufficiale sbandato a chiederle aiuto i nazi-fascisti riuscirono a incastrarla: il 15 maggio 1944 fu portata a Villa Triste. Dopo sette giorni di torture e pesanti interrogatori Anna Maria venne trasferita al carcere delle Murate senza che fosse stato possibile estorcerle alcuna informazione. Il 12 giugno venne prelevata da alcuni fascisti e nazisti e, unitamente ai patrioti di Radio CORA, portata a Cercina e fucilata. 102
Volume quinto
Anna Maria Enriques Agnoletti decorata con Medaglia d’Oro al Valor Militare.
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Ultime Voci Le spose in stato di gravidanza di S. Anna di Stazzema
La
barbarie nazista non conobbe pietà neppure di fronte alle donne in stato di gravidanza. Di seguito un elenco delle spose in stato di gravidanza uccise a S. Anna di Stazzema. Brano tratto da Giorgio Giannelli Sant’Anna l’infamia continua Edizioni Versilia Oggi.
Una delle superstiti della strage del 12 agosto, Leopolda Bartolucci nei Berretti, che al giorno d’oggi può essere definita la memoria storica di S. Anna, è stata in grado di comporre l’elenco delle donne che in quel periodo erano sicuramente in stato di gravidanza. Eccolo: 1. Bartolucci Irma, moglie di Natale Pieri, residente ed uccisa ai Franchi al quarto mese di gravidanza. 2. Battistini Sabina, moglie di Nello Federigi, residente all’Argentiera ed uccisa alla Vaccareccia al quinto mese. 3. Berretti Evelina, moglie di Galliano Pieri, residente a Merli ed uccisa alla chieda proprio il giorno in cui era stata colta dai dolori del parto. 4. Bonuccelli Irma, moglie di Raffaello Bertolaccini, residente all’Aia del Lessa ed uccisa alla chiesa al sesto mese. 5. Mancini Claudina, moglie di Amos Moriconi, residente ed uccisa a Coletti al nono mese. 6. Mancini Pasqualina, moglie di Marino Gamba, residente a Merli ed uccisa alla chiesa al settimo mese. 7. Pieri Ilva, moglie di Mario Bertelli, residente a Merli ed uccisa alla chiesa al settimo mese. «Queste spose erano tutte di S. Anna», scrive la Leopolda, evidentemente a conoscenza soltanto delle sue paesane in stato di gravidanza. Chissà quante altre donne, provenienti da paesi diversi ed uccise il 12 agosto nella stessa località, saranno state nelle stesse condizioni.
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Volume quinto
La lapide che ricorda le vittime dell’eccidio di S. Anna di Stazzema, avvenuto il 12 agosto 1944.
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Ultime Voci
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Volume quinto Il sacrificio delle donne della Provincia di Prato La strage di Artimino
Secondo le ricerche fatte da Sergio Paolieri sono 160 le donne della provincia di Prato che hanno perso la vita per cause belliche. Non essendo possibile ricordarle tutte, abbiamo deciso di riportare due brani che raccontano due episodi che hanno visto loro malgrado come protagoniste le donne del nostro territorio. il seguente brano è estratto dalla ricerca inedita sulla strage nazista di Artimino di Michele Di Sabato.
Si ricorda che all’approssimarsi del fronte i tedeschi avevano concentrato tutti gli abitanti del paese nella villa della contessa Maraini, e che la rappresaglia fu compiuta in seguito al ferimento probabilmente mortale di un militare nazista da parte del mugnaio Angelo Cinotti.
In villa un giorno le Nepi cominciarono a vedere dei capannelli di persone che parlottavano con fare misterioso e, al loro avvicinarsi, interrompevano il discorso. Giulia Fossi s’insospettì, con la sua “lingua lunga” chiese spiegazioni e riuscì finalmente a sapere che in paese i tedeschi avevano ammazzato alcuni suoi familiari. Già dalle finestre della villa si vedeva in lontananza un cadavere sulla strada di fronte, poi fu saputa tutta la verità e dopo cinque giorni, di notte, andarono delle persone a recuperare le vittime per deporle in casse rimediate con assi di imballi di sapone prelevati dalla cantina della contessa. Monsignor Nunziati, “bella figura di sacerdote”, andò al cimitero a benedire le salme. Alle persone che si erano prestate per la pietosa sepoltura, non avendo altro da dare, offrì una presa di tabacco. Cos’era successo quel tragico 6 agosto 1944 lo riferirono tre o quattro persone della famiglia contadina di Pergentino Pucci, che, nascoste nella soffitta di casa, avevano assistito ai fatti attraverso le fessure della persiana di un finestrino. Ad una certa ora del pomeriggio, dissero, avevano visto arrivare dei tedeschi armati con cinque paesani che si fermarono dov’è collocata l’epigrafe in ricordo della strage. 107
Ultime Voci L’attuale via Cinque Martiri allora era poco più di un viottolo all’interno delle mura, non aveva l’attuale curva presso il circolo e scendeva direttamente dove oggi è ubicato il cippo, alla cui destra furono fermate le vittime designate. Tutto si svolse con una rapidità allucinante: un tedesco fece intendere a Nella Del Conte di dirigersi verso il bosco, a destra, con chissà quali intenzioni. La prese per un braccio, ma lei cominciò ad urlare e a piangere in quell’attimo sua sorella Annita fuggì, sperando che gli altri la seguissero. Ma mentre Nella si buttava in ginocchio, dicendo che se volevano fucilarla la fucilassero pure dov’era, Olinto Fontani si tirò il cappello sugli occhi e la sola Zelinda Vangi cercò di seguire velocemente Annita, che nel frattempo si era dileguata sparendo dalla vista degli aguzzini senza essere inseguita. La prima raffica fu quindi per lei, Zelinda, poi toccò agli altri. E poiché le vittime dovevano essere cinque, e una era fuggita, i carnefici si rimisero a girare per il paese. Trovarono l’anziano Samuele Nepi all’estremità destra dell’attuale parcheggio e l’assassinarono per pareggiare il conto, proprio di fronte alla villa da dove la gente che vi era ammassata poté vederne il cadavere senza capire chi fosse e perché era stato ucciso, immaginando addirittura che si trattasse di un tedesco. Le vittime di quell’allora inspiegabile assassinio furono quindi Nella Del Conte, nata a Capraia e Limite il 7 aprile 1904. Vincenzo Del Conte, suo padre, nato a Capraia e Limite il 15 agosto 1886. Olinto Fontani, nato a Carmignano l’8 agosto 1884. Samuele Nepi, nato a Carmignano il 3 luglio 1876, abitante come altri ad Artimino. Zelinda Vangi, nata a Carmignano il 28 agosto 1900, abitante a Poggio alla Malva e sfollata probabilmente ad Artimino in seguito agli avvenimenti dell’11 giugno. Presso la pieve di San Leonardo ad Artimino abbiamo trovato gli atti in cui monsignor Nunziati registrò i morti nella strage del 6 agosto 1944, avvenuta “davanti alla casa di Samuele Manetti per rappresaglia di soldati tedeschi”. Il n. 55 riguarda Olinto Fontani, il 56 Vincenzo Del Conte; il 57 Nella Del Conte; il 58 Samuele Nepi. Manca Zelinda Vangi, sepolta a Poggio alla Malva. Oltre a quelle sintetizzate nelle didascalie formulate per le fotografie non abbiamo altre notizie su queste sfortunate persone.
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Volume quinto
Annita del Conte, superstite della strage, aveva sposato Dante Nepi ed era casalinga. Dopo la fuga disperata attraverso i campi dal luogo dove doveva lasciare la vita non si sa che cosa abbia fatto, né dove sia andata. Rientrò nella chiesa la sera, sbandata, quasi pazza ed urlando: «Non chiudete l’uscio perché fuori c’è la Nella, c’è il babbo». E per più di dieci giorni non volle far chiudere quella porta, essendo convinta che prima o poi i suoi familiari sarebbero tornati. Psicologicamente non recuperò mai, e, tormentata da quel ricordo, non dandosi pace per essersi salvata lei soltanto, dopo qualche tempo si ammalò di cuore e fu necessario applicarle il pacemaker. Non aveva figli. In una ricorrenza imprecisabile della commemorazione dei morti, in novembre, vide nel cimitero di Artimino Angelo Cinotti e gli s’avventò contro, lasciandolo solo quando la gente accorsa riuscì a levarglielo drammaticamente dalle mani.
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Ultime Voci
Nella Del Conte aveva sposato Brunellesco Nepi, fratello di Arnolfo. I tedeschi la catturarono mentre dalla villa, dov’era con gli altri, stava portando dei fagioli, della pasta agli uomini nascosti in chiesa. Quando l’andarono a recuperare e la sollevarono per deporla nella cassa e seppellirla “vomitò” delle pallottole, asseriscono le sue nipoti Nepi. Non aveva figli.
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Volume quinto
Zelinda Vangi era cugina delle sorelle Del Conte e aveva sposato un Nesti. Abitava a Poggio alla Malva, i tedeschi la uccisero con tre colpi e fu trovata poco piÚ avanti degli altri, vestita con una vestaglia scura a puntini bianchi. Fiorenzo, il solo figlio che aveva, poco dopo la sua morte fu ferito gravemente dall’esplosione di una mina e rimase invalido.
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Ultime Voci Donne Pratesi eroiche
Altri
episodi di resistenza alla violenza da parte di due donne pratesi che avrebbero meritato un riconoscimento di Valore che non comprendiamo perché non sia stato loro concesso.
Bruna Nerucci Il 29 Luglio 1944, mentre l’occupazione imperversava ancora a Prato, una giovane donna, di nome Bruna Nerucci, allo scopo di scampare alla bruta violenza di un nazista riuscì a disarmarlo e lo uccise con la sua stessa arma. In seguito a questo suo atto eroico, che le permise di salvare sé stessa assieme all’onore di tutte le donne italiane, la Nerucci, una giovane maestra, dovette allontanarsi rapidamente con la famiglia da via di Galciana, dove era sfollata, e chiese ospitalità al convento di San Niccolò. La madre superiora suor Cecilia rifiutò l’ospitalità in quanto l’atto compiuto da Bruna Nerucci, avere ucciso per non essere violentata, poteva creare gravi conseguenze al monastero che ospitava altre persone. La famiglia superando difficoltà e pericolo raggiunse il paese di Migliana dove restò fino alla fine della guerra. Miretta Biagioni di Leone Miretta Biagioni di Leone, nata ad Agliana il 26 Novembre 1920 ed abitante in via Malfante a San Giusto, fu ferita mortalmente nella sua abitazione da una pattuglia di tedeschi che volevano violentarla. Miretta era una religiosa fervente, voleva farsi suora e si oppose con tutte le sue forze ai militari dicendo che non potevano farle violenza se Dio era con loro, secondo la nota e blasfema “Gott mit uns”. Morì dissanguata a causa di una ferita d’arma da fuoco alla coscia sinistra.
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Volume quinto Iolanda Giorgi1 I protagonisti di questa vicenda sono Giulio Conti di Raffaello, nato a Prato il 7 febbraio 1916, sua moglie Iolanda Giorgi, nata il 12 ottobre 1919 e Carlo Giorgi fu Gaspero nato a Mussulmano il 5 ottobre 1880 padre di Iolanda. Abitavano in via Matteo degli Organi a Galciana, e quel giorno una pattuglia tedesca in ritirata passando catturò Giulio Conti. La Giorgi, ricordata come una bella donna, sperando di intenerire il comandante della pattuglia e far rilasciare suo marito, volle seguirlo, e la stessa cosa per lo stesso motivo fece suo padre Carlo dopo aver racimolato, si dice, tutti i soldi che avevano in casa per tentare di corrompere i militari nazisti. SennonchÊ, secondo una vecchia notizia raccolta a Galciana, Iolanda a un certo punto sarebbe stata violentata alla presenza del babbo e del marito, e comunque i loro corpi seviziati e straziati furono trovati verso Bagnolo in un luogo solitario.
1 L’episodio si legge in Michele Di Sabato Prato dalla guerra alla ricostruzione pag. 275-6.
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Ultime Voci
“La mia è una pedagogia dura. La debolezza dev’essere bandita. Nelle mie cittadelle dell’Ordine crescerà una gioventù di cui il mondo dovrà aver paura. Io voglio giovani violenti, dominatori, temerari e crudeli. I giovani devono essere tutto questo. Devono sopportare il dolore. In loro non ci dev’essere debolezza o gentilezza alcuna. Nei loro occhi deve tornare nuovamente a lampeggiare lo sguardo della belva, libera e superba. Forte e bella voglio la mia gioventù (…). In questo modo potrò creare qualcosa di nuovo”. Adolf Hitler Le madri, nate dopo la guerra, che non l’hanno vissuta direttamente, dovranno tenere alta l’attenzione affinché le teorie di cui sopra non abbiano a ripetersi. La storia ci indica che i criminali sono sempre possibili. Sergio Paolieri
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Volume quinto 5 Settembre 1944: un delitto occultato
A proposito delle innumerevoli donne che hanno vissuto e sofferto la guerra, vale la pena di citare la storia di cinque sconosciute ragazze pratesi, vittime della violenza e della brutalità dell’occupante tedesco. Il breve racconto è la sintesi di Francesco Venuti di un articolo che apparve su IL TIRRENO in data 6 settembre 1997, presente all’interno di uno “Speciale” dedicato alla Liberazione, a firma di quel profondo conoscitore della realtà pratese del Novecento che è lo storico Michele Di Sabato.
Dopo avere delineato un quadro vivo della situazione a nord della città alla vigilia della Liberazione, con la presenza degli sfollati che tentano di sottrarsi ai feroci bombardamenti che colpirono il cuore di Prato in quel terribile anno, e di sfuggire alle prestazioni lavorative richieste a tutti dall'occupante nazista, con la collaborazione attiva del fascio locale, lo storico pratese Michele Di Sabato rievoca lo scontro di Vainella fra le truppe tedesche in ritirata e i partigiani della brigata "Bogardo Buricchi" e contestualmente a questa ricostruzione cita "un fatto oscuro, perché le persone rimaste coinvolte non hanno mai voluto parlare", del quale comunque aveva già trattato in una delle sue opere. Lo storico pratese, che ebbe modo a suo tempo di parlare con una delle vittime, ci racconta dunque che cinque ragazze furono condotte a Villa Mennini, alle Sacca, e ivi sequestrate da un gruppo di soldati tedeschi, con la scusa di essere utilizzate per "mondare delle patate". Accusate pretestuosamente di essere le fidanzate dei partigiani catturati nella zona, dopo avere inchiodato gli scuri delle finestre, in modo che nessuno si accorgesse della presenza delle giovani nell'edificio, ben dieci soldati le stuprarono. Così si racconta una di loro, alla quale lo storico ha dato il nome fittizio di Elena, a distanza di cinquantatre anni: ... e ci presero, una alla volta. Ci presero, una alla volta e 115
Ultime Voci ci portarono in un'altra camera ... me ne ricordo come se fosse ora ... A me mi sfilarono la sottana e mi misero un cuscino sulla faccia per soffocarmi. E non lo so che dissero fra loro. Non mi fecero niente (questa affermazione, frutto di comprensibile, umana reticenza è da lei stessa smentita nel prosieguo del racconto), questo sì. Ma mi spogliarono mezza ... Tutte si stette zitte. Nessuna voleva dire che c'era capitato. Ci pigliarono, una alla volta, ma nessuna disse mai che c'era capitato ... Non si parlò. Non l'ho detto nemmeno a casa mia. E poi aggiunge: Ci presero tutte e cinque. Ci volevano ammazzare, ci volevano portare a Bologna, ci facevan, ci facevan ... e, insomma, andò a finir male, e basta. Le madri, alla ricerca delle loro figlie, davanti alla Villa Mennini furono accolte da un colpo sparato a scopo intimidatorio e fino al giorno dopo le ragazze non furono liberate. "Fu ordinato perentoriamente loro di stare zitte - scrive lo storico - si pretese pure che prima di allontanarsi dessero le mani ai loro torturatori". Il 7 settembre i tedeschi sgombrarono. Il silenzio che gli stupratori imposero alle giovani è più forte di un urlo, per denunciare ora e sempre chiunque approfitti del suo potere, di qualunque potere, per ridurre un proprio simile a mezzo e ad oggetto. Anche queste sofferenze imposte a cinque innocenti ragazze finiscono per far parte a pieno titolo dell'immane sofferenza collettiva di tutte le donne, come di tutti gli esseri umani, causata dalla guerra.
Una fotografia recente di Villa Mennini a Le Sacca.
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Volume quinto
Giovanissima ragazza legge un giornale democratico, con la coscienza che questa libertà è dovuta al sacrificio dei combattenti donne e uomini per la libertà. Fotografia scattata il 10 Settembre 1950 alla Festa dell’Unità di Piazza della Stazione a Prato.
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Ultime Voci Il crollo della galleria di Saletto
La
seconda testimonianza è un elenco delle donne rimaste vittime del crollo della galleria di Saletto avvenuto il 28 marzo 1945. Il racconto della tragedia è tratto da Dalla Direttissima alla Linea Gotica. Immagini e testimonianze del territorio di Vernio a cura di Manfredo Robazza, Amministrazione comunale, Vernio 1996, pag. 194.
La tragedia della Turbola Anche le donne si adattarono a lavori pesanti: andarono a colar rena in Bisenzio o a fare i manovali alla ferrovia. Il 28 Marzo 1945 alle due del pomeriggio, all’imbocco della galleria della Turbola presso Vernio, un improvviso crollo travolse una cinquantina di operai. Morirono 32 persone fra cui 10 giovani donne, molti furono i feriti: vittime, anch’essi, indirettamente, delle distruzioni della guerra. Occorre rammentare qui il senso di responsabilità di Luisa Zanin che era a quell’epoca l’assistente di tutte le donne che lavoravano alla Turbola: fu lei ad accorgersi del pericolo, perché aveva notato una vasta crepa all’imbocco della galleria. Aveva immediatamente fatto ritirare tutte le operaie scontrandosi duramente col direttore dei lavori (un tenente sudafricano) che arrivò a licenziarla in tronco. Costretto poi dal sindacato a riassumere la Zanin e ad allontanare le maestranze dal pericolo, egli ostinatamente mandò altre squadre di lavoratori per puntellare la struttura cadente. Fu un’ostinazione fatale: tra i morti una bambina di 13 anni che aveva sostituito momentaneamente la madre, costretta ad allontanarsi dal lavoro. 118
Volume quinto
Vittime del Comune di Vernio nel crollo della galleria di Saletto (28 marzo 1945)
BENSI LILIANA, di anni 24
GIARDI LUIGIA, di anni 15
CAPOCCHI MASSIMINA, di anni 36
GIARDI ONEGLIA MARIA, di anni 33
CIOLINI ROSA, di anni 23
LIPPINI CESARINA, di anni 29
FIESOLI GIULIANA, di anni 21
MACCELLI MARESCA, di anni 13
GIARDI CUNEGONDA, di anni 22
MARZOPPI IVANA, di anni 16
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Ultime Voci
In queste fotografie giovani donne sopravvisute alla guerra che si mobilitano a favore della pace. Fotografia di gruppo scattata sul terrazzo della Camera del Lavoro di Prato nel 1949/1950.
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Volume quinto
Le giovani si riuniscono dietro lo striscione “La gioventù salverà la Pace”.
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Ultime Voci
Il corteo sfila per le vie cittadine.
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