Ultime Voci volume 4

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Ultime Voci Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti a cura di Luca Squillante

Volume quarto Prato 2011



Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione. (Piero Calamandrei)


Redazione a cura di Luca Squillante con la collaborazione di Francesco Venuti. Impaginazione e grafica a cura di Luca Squillante. Luana Cecchi ha realizzato l’intervista a Tosco Sarti. Roberto Mucci ha reso disponibile la testimonianza di Amor Lulli. Silvana Santi Montini ha realizzato le interviste a Siro Betti, Mammoli Gandolfo, Emilio Quercioli. Clarissa Tonarelli ha raccolto la testimonianza di Angiolino Seghi La fotografia di copertina riproduce un CD musicale dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci . Associazione Nazionale Combattenti e Reduci –Federazione di Prato

Piazza San Marco 29 – 59100 Prato Telefono e fax 0574/21352 Email ancr.po@gmail.com



Presentazione

Siamo in Guerra??? L’articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra eppure abbiamo soldati operanti in tantissimi paesi, li chiamano soldati di Pace, ma sono armati, danno e ricevono morte, a noi combattenti quanto succede indicano piccole guerre in più paesi, ognuna delle quali con diverse indicazioni e cause ma tutte portao ad un unico denominatore: interessi economici, “Petrolio”. L’ultimo esempio, la Francia attacca la Libia seguono gli Stati Uniti, Italia ed altri, motivo, il popolo libico si ribella al suo governo, ovviamente ci sono uccisioni e corriamo in difesa della democrazia con aerei supersonici con portaerei e bombe cosiddette intelligenti. Con la fine della seconda guerra mondiale alcuni paesi attraversati dalle truppe dei maggiori paesi crearono con la forza governi imposti. Dopo pochi anni questi popoli si ribellarono, dicemmo tutti che la democrazia non si impone con le armi, che i popoli debbono liberarsi dai loro dittatori con la loro maturità e sacrificio: la caduta del muro di Berlino è il grande esempio della unione e pacificazione europea. Certamente abbiamo un dovere, che questi movimenti di liberazione abbiano la nostra solidarietà, il nostro aiuto umanitario, che raccogliamo migliaia di profughi, dando loro ogni possibile assistenza, ma ci dà dolore pensare che partecipiamo con le armi di offesa. Noi combattenti abbiamo nella memoria i sacrifici e i lutti della seconda guerra mondiale siamo preoccupati che il mondo arabo nel tempo avvenire, rimetta il conto del nostro operato attuale. Ricordiamoci che la nostra frontiera non è più al nord, è al sud, con gli attuali moderni mezzi di offesa la distanza di circa 100 km è molto più vicina operativamente dei 30 metri della frontiera austriaca del 1915. In Libia ancora non abbiamo inviato soldati di terra, confidiamo che non avvenga, la situazione presenta difficoltà e le esigenze operative potrebbero giustificare il proseguire nell’errore dimenticando che l’Italia aveva buoni rapporti e collaborazione con la Libia,


rapporti costati circa 60 anni di trattative in quanto i libici ci indicavano aggressori dal 1912 al 1943. Nel commemorare i 150 anni dell’Unità d’Italia vorremmo che la nostra bandiera sventoli sempre come simbolo di civiltà e garanzia di Giustizia. I Combattenti augurano Buon anno Italia

I detrattori dell’Unità d’Italia

1861=2011 === 1848=1945

“Lega Nord”

Io mi ritengo un uomo fortunato di nascita, sono nato a Prato regione Toscana, mi è stato insegnato che c’erano tante regioni che erano più sfortunate, da dove dovevano emigrare, dove era tanta la miseria che a causa della poca alimentazione composta di polenta, questo alimento privo di jodio, alle persone veniva un grosso gonfiore esterno alla gola (gozzo). Una di queste regioni era il Veneto. Le regioni cosiddette padane che erano austriache nel 1915 hanno sul proprio territorio cimiteri militari con tanti caduti provenienti da tutte le regioni: è stato grazie ai combattenti della prima e seconda guerra che nasce la Repubblica con la sua Costituzione. L’Italia con la ricostruzioe diventa una nazione industriale: quelle regioni non hanno più quella endemica miseria, e in riconoscenza per questo risultato offendono la bandiera, l’inno nazionale, parlano continuamente di secessione. Noi combattenti protestiamo con forza, l’attuale governo ha gli scissionisti i detrattori nel proprio seno, nel nome di tutti coloro che diedero la vita vigiliamo per la salvaguardia della nostra bandiera. Comm. Sergio Paolieri Presidente della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci Prato, settembre 2011



Nota del curatore Con il presente quarto volume della collana Ultime Voci continua la pubblicazione delle testimonianze dei militari che, rispondendo all’appello dell’Associazione Combattenti e Reduci di Prato, hanno scelto di inviare i racconti delle loro vicende affinché fossero pubblicati e portati alla conoscenza di quante più persone possibili. In

questo modo, l’Associazione

Combattenti

persegue l’obiettivo che si è posta negli

ultimi anni di conservare la memoria dei propri associati e trasmetterla alle nuove generazioni.

L’identità

di una nazione e di uno stato, infatti, riposa sulla memoria e

sul ricordo di quanti ci hanno preceduto, e sull’impegno, da parte dei contemporanei, di rielaborare e rendere attuale quanto apprendono dal passato: è così che la storia diventa ponte e collegamento tra le generazioni.

La funzione della storia come “maestra di vita” è tanto più importante in questo anno 2011, in cui si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Questa ricorrenza è ricordata nel quarto volume in due occasioni: nella testimonianza di Amor Lulli, un giovane soldato che combattè nella Prima Guerra Mondiale, e nella poesia scritta da Mario Pini in onore della Patria.

ERRATA CORRIGE: la testimonianza di Jacopo Gavazzi, pubblicata nel terzo volume, era già apparsa nel primo: ci scusiamo per l’errore con il diretto interessato e con Michele di Sabato, che ha raccolto la testimonianza.



Ringraziamenti Come sempre, il primo ringraziamento va ai Combattenti, le cui testimonianze sono la ragione d’essere di questa pubblicazione. Non possono poi essere taciuti quanti hanno dato e continuano a dare il proprio contributo nella raccolta e nella conservazione del materiale.

Ringraziamo Luana Cecchi, che ha curato la testimonianza di Tosco Sarti, Silvana Santi Montini, che ha curato le interviste a Siro Betti, Gandolfo Mammoli, Emilio Quercioli. Infine un ringraziamento particolare a Roberto Mucci e Clarissa Tonarelli: il primo per aver reso disponibile per la nostra collana le vicende di Amor Lulli; la seconda per la testimonianza di Angiolino Seghi, che ci auguriamo essere la prima di molte altre.



Indice delle testimonianze Rodolfo Baroni.............................................................................15 Siro Betti.....................................................................................31 Florido Fiaschi.............................................................................36 Arturo Lastrucci...........................................................................39 Amor Lulli...................................................................................54 Gandolfo Mammoli.......................................................................82 Mario Mascii................................................................................84 Dario Ponzecchi...........................................................................92 Emilio Quercioli............................................................................94 Tosco Sarti..................................................................................99 Angiolino Seghi..........................................................................109 La Patria e il suo valore..............................................................114



Volume quarto Rodolfo Baroni

Rodolfo Baroni padre Doroteo il giorno dell’armistizio si trovava in Albania come tenente cappellano del 19° Reggimento Cavalleggeri Guide. Rifiutata l’idea di continuare la guerra a fianco dei Tedeschi, fu fatto prigioniero e portato in Polonia. Dopo avere sperimentato la prigionia in diversi campi, poté tornare in Italia nel settembre del 1945. La testimonianza è stata resa in occasione della Conferenza “Esperienze personali dei campi di concentramento in Germania” tenuta il 24 aprile 1985 a Firenze. La testimonianza è stata consegnata ai combattenti per la pubblicazione da parte di Silvana Santi Montini. Esperienze personali nei campi di concentramento in Germania 1 Il ricordo di tante angosciose impressioni, di macabre scene, di dolorose esperienze, sperimentate nei due anni di prigionia nei campi di concentramento in Germania, è vivo adesso come allora. Faccio subito notare che i campi di concentramento erano destinati per gli Ufficiali inferiori e superiori e si distinguevano dai campi di sterminio per gli ebrei e prigionieri politici come Dachau, Belsen, ecc. e dai campi di lavoro per Sottoufficiali e soldati, dai quali gli internati venivano ogni giorno prelevati e portati sul posto di lavoro. 2 L’armistizio dell’8 settembre 1943 mi sorprese in Albania come Tenente cappellano del 19° Reggimento Cavalleggeri Guide di stanza a Tirana. Alla viva e spontanea sensazione di gioia per la fine della guerra subentrò subito un senso di insicurezza e di smarrimento per il nostro prossimo futuro essendo la madre patria impossibilitata a raggiungersi con

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Ultime Voci ordinari mezzi. Venne scartata subito l’adesione ai Tedeschi di continuare una guerra ormai considerata irreparabilmente perduta. Non offriva neppure la minima garanzia l’unione ai partigiani Albanesi che ci avevano, specialmente nell’ultimo anno, resa tanto difficile la vita con molte perdite umane. Il fatto increscioso della morte del Cap. Pirzio Biroli, figlio del rinomato Gen. Pirzio Biroli, e del Colonnello comandante le autoblindo, barbaramente uccisi dal capo Partigiano a revolverate, a causa della fallita loro delegazione presso il Comandante Italiano per la concessione di una polveriera vicino a Tirana, tolse ogni velleità di raggiungere la montagna per lottare con i partigiani contro i Tedeschi. La prigionia fu quindi per noi una vera e sentita scelta; perché sebbene si presentasse tutt’altro che rosea, preferimmo chiaramente di fare con essa il bene della patria. Infatti la resistenza nei Lager agli allettamenti dei Capi Fascisti e dei Tedeschi di aderire alla Repubblica di Salò, valse a risparmiare alla nostra patria tante vite umane, tante sciagure e tante distruzioni. Il tangibile merito di avere messo a repentaglio la propria vita per il bene della patria, non solo con la perdita della libertà, ma anche con la sopportazione di vitali privazioni e di inutili sofferenze da portarci al limite dell’esistenza, è stato finalmente - dico finalmente - riconosciuto con l’estendere ai reduci dalla Germania la qualifica di “Volontari della Libertà”. Dopo una quindicina di giorni dall’armistizio con l’ordine del Generale Dalmazzo, comandante le truppe dell’Albania, contenente le severe norme del comando tedesco, il reggimento in pieno assetto di guerra partì da Tirana per raggiungere Bitoli-Monastir (Bulgaria). Ma dopo una marcia di 15Km. il reggimento si dovette arrestare e prendere posizione per difendersi dall’attacco dei partigiani Albanesi. Bella quanto infausta ironia della sorte! Dovere combattere per guadagnarsi l’amara prigionia e per lo più tedesca!! Dopo due o tre giorni il Reggimento riprese la marcia e transitò sotto la vigilanza dei carri armati tedeschi il passo Fatliafastames (?) e continuò il suo restante cammino senza gravi difficoltà. Giunto a Monastir il Reggimento venne completamente disarmato, furono scelti 80 cavalleggeri per la cura dei cavalli, agli altri fu messa a disposizione una tradotta con carrozze di III° classe per gli ufficiali, favore questo e riguardo del Colonnello di cavalleria tedesco, comandante il campo. Nel partire la notte stessa dell’arrivo per la Germania demmo il nostro addio alla libertà con l’animo tanto triste e preoccupato per il nostro avvenire! Ad una città di confine dell’Ungheria avvenne lo scambio della 16


Volume quarto scorta armata. Il saluto del comandante della piazza, la buona distribuzione di viveri e l’accoglienza gentile ungherese rianimarono un po’ i nostri spiriti con la sensazione di una prigionia più o meno sopportabile. 3 Dopo 4 o 5 giorni di viaggio arrivammo a Norimberga nelle prime ore della notte. Qui sentimmo subito il morso della prigionia. Al buio completo per un bombardamento di pochi giorni avanti, noi ufficiali separati dalle ordinanze e soldati fummo portati al campo di concentramento e spinti in baracche, salvate dalle bombe. Ricordo che nella mia baracca ci sistemammo alla meglio al lume di candela del mio altarino portatile. L’impressione del rancio fu nauseante! Era una broda di patate non sbucciate e anche non lavate perché il fondo della gavetta presentava uno strato di terra. Due giorni dopo per punizione perché furono distrutte macchine da scrivere, fummo dislocati in baracche bombardate nelle quali dovemmo sistemarci a dormire sulla nuda terra e al freddo per grandi fessure sul tetto e per mancanza di porte e finestre. Per fortuna la nostra dimora a Norimberga fu breve perché il campo funzionava da smistamento. Infatti dopo una decina di giorni noi ufficiali del reggimento e altri ufficiali a sera inoltrata fummo portati alla stazione e rinchiusi al buio in un carro bestiame. Non rispettando i tedeschi il detto che era anche regola: 8 cavalli e 40 uomini, nel mio vagone ci trovammo in numero di 52 ufficiali! Ciò impediva di dormire tutti distesi sul pavimento e quindi ogni notte dovevamo fare a turno, dormendo gli sfortunati sul proprio zaino. Non essendovi nel mezzo del vagone il famoso mastello per i bisogni fisiologici come in altri carri, dovemmo fissare un cantone di esso e adoperare per i nostri bisogni corporali i bussolotti di carne in scatola (che contenevano tre razioni) gettandoli poi dal finestrino dopo l’uso. La durata di 13 giorni (dico 13 giorni!) di viaggio, rinchiusi in un carro bestiame, aperto la mattina per soli 5 minuti per introdurre i viveri a secco, la tanto disagiata sistemazione interna, l’assoluta mancanza di rispetto della personalità umana anche nelle sue necessità corporali, insinuano chiaramente quanta sofferenza morale e corporale dové sostenere ciascuno di noi, specialmente chi come il sottoscritto patì il disturbo intestinale causato dai viveri a secco e dal notturno freddo dell’ambiente. A questo proposito ho un penoso ricordo da raccontare. Nelle ore piccine della notte avvertii un forte dolore alla pancia. Cercai di resistere fino alla mattina con un sovrumano sforzo. Allora i miei compagni cominciarono a bussare alla porta dicendo in tedesco 17


Ultime Voci “malato” (brauche?)1. Dopo del tempo la porta si aprì e un caporale tedesco alto come un soldo di cacio, vedendomi così sofferente mi fece cenno di discendere, impedendo però con la rivoltella puntata agli altri di fare altrettanto. Disceso dal vagone e fatto l’atto di distaccarmi un po’ il caporale sempre con il revolver puntato mi costrinse a sbottonarmi i pantaloni e farla alla presenza di tutti. Nauseato però dal pestifero odore della scarica, il caporale sempre con la rivoltella puntata impedì la seconda, imponendomi di alzarmi e insieme ad un soldato mi spinse violentemente sul vagone come un sacco senza darmi il tempo di riabbottonarmi i pantaloni. Mezzi morti giungemmo così al Tarnapol2, cittadina polacca sulla linea Leopoli - Odessa, contesa tra Tedeschi e Russi, ora sotto il dominio della Russia. Sebbene scaricati sulla neve, l’aria aperta ci fece l’effetto di una piena rianimazione anche se avidamente aspirata, seduti sul nostro zaino nell’attesa di partire. Il susseguente cammino dalla stazione al Lager perfezionò l’opera d’una buona rinfrancatura. Arrivati al Lager per prima cosa subimmo la rivista nella quale fummo privati dei valori in denaro e di altri oggetti come macchine fotografiche, binocoli, radio, nonché naturalmente ogni arma. Io potei salvare diversi marchi nascondendoli nel Messale dell’altarino da campo. La prigionia a Tarnapol durò circa tre mesi, ed eravamo alloggiati la maggior parte in baracche di legno. Il comandante del campo, fanatico luterano, permise che fosse celebrata una sola S. Messa alla Domenica. Vivendo io in baracca che veniva chiusa la sera alle sette e riaperta alle otto del mattino, correndo il rischio di essere scoperto che mi avrebbe comportato almeno diversi giorni di prigione, mi dicevo la S. Messa tutte le mattine con devoti ufficiali prima della riapertura della baracca. Ancora è tanto vivo in me il primo triste Natale di guerra: io con l’aiuto del tenente di cui non mi ricordo il nome, primo violoncellista della Radio Torino, misi su una piccola “schola cantorum” per eseguire canti natalizi alla S. Messa. L’altro Cappellano, Don Amadio, oggi Vescovo di Rieti, si occupò della preparazione spirituale che fu molto sentita dalla maggior parte degli ufficiali. Si celebrò la S. Messa Natalizia la sera verso le sette in una baracca vuota e fredda, pienamente però affollata dagli ufficiali e alla presenza di un bel presepe preparato con amore e perizia da competenti ufficiali. Sebbene la S. Messa venisse accompagnata da cori natalizi con mia soddisfazione, Don Amadio non 1 krank 2 In realtà Tarnopol è una città dell’Ucraina.

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Volume quarto poté rompere il silenzio della commossa cerimonia neppure col dire: “Signori Ufficiali, Buon Natale a Voi e famiglie!” per espressa proibizione di (non) parlare del comando tedesco. 4 Dal Tarnapol con un forte contingente di ufficiali nei primi di gennaio 1944 raggiunsi il campo 366 di Siedce, cittadina a 40 Km. a nord di Varsavia. Sebbene l’inverno fosse tanto rigido, anche 30 gradi sotto zero, avevamo il conforto di riscaldare col carbone fossile le baracche e di avere una baracca riscaldata adibita a Cappella con piena libertà del servizio religioso. Il comandante del campo, austriaco e cattolico, ci faceva pervenire il materiale liturgico richiesto dalla Curia Vescovile. La cortesia e gentilezza dei Polacchi si manifestò con diverse elargizioni di viveri. Ricordo che in una elargizione si ricevé un chilo di mele e un chilo di cipolle. Io con tanto piacere mangiai 5 belle cipolle, ne lasciai una per paura che mi facesse male; invece non successe che il piacere di avere nel momento smorzato un po’ la fame. A questi ricordi abbastanza confortanti ne aggiungo uno penoso e triste. Il giorno dopo l’arrivo al campo fummo convocati nel precampo dove la neve oltrepassava i 30 cm., allo scopo di un numerico controllo. Dalle nove alle dodici fu un andirivieni dei tedeschi per la conta che a loro non tornava mai. Negli intervalli passeggiavamo su e giù per difendersi dal freddo fino al nuovo controllo fatto sull’attenti. Passate le undici tutto a un tratto intirizzito dal freddo caddi in una crisi di disperazione e di pianto invocando la morte: Ah, è meglio morire, dicevo, è meglio morire!! Al colmo della disperazione mi sentii abbracciare da un tenente amico d’Albania che mi disse: Anche tu, Baroni, sei qui! Sono contento di rivederti e di stare insieme. Io non potei rispondere che balbettando parole senza senso e facendo gesti da ebete. “Coraggio, Baroni, sono alla baracca 21, vieni a trovarmi”, mi disse l’amico raggiungendo il suo posto all’ennesimo richiamo d’appello. Per fortuna dopo questa conta i tedeschi ci dissero di rompere le file e di raggiungere le baracche. Al forte calore della baracca dei Cappellani feci presto a rianimarmi e a sentirmi normale. Nel pomeriggio andai a trovare l’amico scusandomi dell’accaduto che certo non mi aveva fatto onore come Cappellano che aveva il dovere di consolare e non di essere consolato! Per finire mi piace raccontare anche questo fatto non privo di umorismo avvenuto a Siedce. Per il riscaldamento della Cappella il mio confratello Ten.-Cappellano Tamburini di Bologna, ora missionario in Argentina, si prese l’incombenza di ritirare il carbone dal 19


Ultime Voci magazzino ricevendone sempre più del bisogno. A un certo punto ci si accorse che il carbone veniva trafugato in discreta quantità senza però arrivare alla mancanza necessaria alla Cappella. Parlando un giorno con un ufficiale tanto amico e paesano candidamente egli mi domandò se era peccato grave rubare il carbone in Chiesa. Io sorridendo gli dissi: Allora sei stato tu a rubare il carbone! Mah! Considerando il bisogno di calore per la tua camerata e il fatto di non avere arrecato danno alla Chiesa ti assolvo molto volentieri dal tuo peccato! 5 Caduta Stalingrado e avanzando l’Armata Russa, tutti i campi della Polonia nella primavera 1944 furono evacuati e concentrati in Germania nei campi della zona di Amburgo. Il mio campo di Siedce fu destinato al campo X B di Sandboster3, grande campo internazionale con capienza di 70.000 prigionieri di cui circa diecimila italiani. Dopo aver subito una rivista a nudo partimmo asserragliati in un carro bestiame e dopo tre giorni arrivammo alla stazione di Bremenford dove ci sorprese la faticosa marcia di circa 12 Km. per raggiungere il Lager. Arrivati pienamente estenuati dalla fatica dopo le formalità di rito d’una nuova rivista e bagno fummo alloggiati in baracche di legno, alcune con castelli a due o tre piani senza divisori in modo che il posto del prigioniero era computato con quasi due metri di altezza e di 80 centimetri di larghezza. L’entrare in una di queste ultime baracche si aveva l’impressione di entrare in una stalla ammucchiata non di bestie ma di uomini con il loro bagaglio attaccato e deposto nel loro tanto limitato spazio. Al X B avemmo la sorpresa impensabile di trovare nel comandante del campo Cap. Pincher, una persona da vero prussiano, dotata di scrupolosità e rigidezza nell’applicare la disciplina e sempre pronta a punire con violenza la più piccola trasgressione. Se una compagnia non scattava sull’attenti a dovere, veniva punita con ore di faticosa marcia nel campo. Se un ufficiale veniva sorpreso non in regola all’appello non sfuggiva la prigione a pane e acqua. Quanti ufficiali ho veduto andare in prigione per non avere risposto per debolezza al comando dell’attenti e quanti ne ho visti cadere a terra durante i due giornalieri appelli, uno la mattina e uno la sera, fatti con crudele scrupolosità anche sotto la pioggia e solo dispensati e fatti in baracca solo quando scrosciava, perché rendeva inutile l’uso dell’impermeabile che portavano i Tedeschi. L’impudente rigorosità del Cap. Pincher venne piano piano un poco mitigata dall’influenza del comandante italiano, me3 Sandboster si trova nelle vicinanze di Hannover.

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Volume quarto daglia d’oro Ten. di vascello Brignole, ex comandante del Calatafimi che si distinse nel tentato bombardamento di Genova da parte della flotta Francese. Tuttavia lo sdegnoso e inumano trattamento del Cap. tedesco verso i prigionieri non sfuggì a una violenta morte avvenuta per mezzo dei Russi dopo lo sfacelo delle armate tedesche. Al campo X B ci stetti un anno. Rompeva la nostra solitudine dall’esterno la radio clandestina detta “Caterina” che ci mise al corrente dello sbarco degli Alleati in Normandia, in Sicilia, ad Anzio con la presa di Roma, l’attentato a Hitler, ecc. Queste notizie servivano ad alimentare in noi la speranza della prossimità della fine della prigionia che le numerose sedute spiritiche avevano completamente deluso. I tedeschi avvisati dalle spie che pullulavano nel campo per ragioni della fame, fecero di tutto per scoprire la località rivistando la camerata designata o facendo la rivista ai componenti. Ma i loro tentativi furono tutti frustrati perché la radio veniva smontata all’appello prendendone i pezzi diversi ufficiali e poi sempre pronta a cambiare baracca in caso di pericolo. La “Caterina” fatta con mezzi primitivi e di fortuna fu opera dell’ingegnere Olivero Oliveri. Nella mia annuale permanenza al X B successero tanti tristi episodi che caratterizzarono la terribilità della prigionia. Sarebbe troppo lungo qui ricordarne la maggior parte e perciò mi limito a riferire i principali. Vicino al fosso prospiciente ai reticolati passava un filo spinato ammonitore con la scritta: “Chi tocca questo filo sarà fucilato!” In una delle poche giornate di sole il ten. Romeo Vincenzo sentì la voglia di lavarsi con più cura alla fontana del campo. Non sapendo dove mettere l’asciugamano lo gettò sul filo spinato. Seguì subito una scarica di fucile mitragliatore da parte della sentinella appostata sulla torretta vicina che fulminò il Ten. Romeo. Questo increscioso quanto insano gesto provocò nel campo una sommossa nella quale si elevarono urla di indignazione, grida di maledizione e imprecazioni di odio che non ebbero come risultato che il semplice allontanamento della sentinella. Una pallottola della scarica perforò la vicina baracca e precisamente il posto di Guareschi che per fortuna era assente. In precedenza a questo increscioso fatto avevo prestato a leggere all’autore del Don Camillo e Direttore del Candido i sonetti in dialetto pisano del Fucini che egli non conosceva. Mi ringraziò molto non solo dell’opportunità di avere conosciuto l’umorismo del Fucini ma soprattutto di avergli fatto passare dei momenti di buon umore in quella tanto triste circostanza prigionale. Per definire la figura di Guareschi è doveroso riconoscere 21


Ultime Voci che egli fu l’animatore di tutte le manifestazioni artistiche, concerti in musica, commedie e conferenze che servirono a rompere la monotonia della nostra vita e ad elevare gli spiriti tanto affranti e oppressi. La nascita di una sua bambina ispirò a Guareschi una poesia che musicata dal maestro Coppola diventò la canzone del campo, nominata “Carlottina”. Io ricordo solo queste parole messe in mente alla bambina che prende il biberon nella sua culla sulla terrazza. “Chissà, chissà come sarà questo scassatissimo marito di Mamma!”. 6 Un altro violento insano gesto fu la sparatoria di un’altra sentinella contro un forte gruppo di ufficiali ammassati vicino al filo segnalatore che guardarono la discesa di un paracadute manovrato dal pilota di un aereo da caccia alleato, abbattuto nelle vicinanze del campo. Per fortuna la sparatoria ebbe conseguenze di solo due feriti leggeri. Il soldato si scusò presso il Comando Tedesco di avere sparato perché aveva avuto la sensazione che il numeroso gruppo di ufficiali volesse forzare i reticolati. Questa scusa fu tanto ridicola quanto inconcepibile perché il reticolato, costituito da due reti alte circa 3 metri, distanti tra loro un metro e collegate da un vero ammasso di filo spinato, non presentava la minima possibilità di essere forzato. Un fosso profondo poi impediva il tentativo di fare dei tunnel dalle baracche. Uno dei più gravi pericoli che incombeva sui campi di concentramento era il tifo petecchiale, diffuso abbastanza in Oriente. Esso rappresentava per noi Italiani non vaccinati una epidemia di mortalità del 90%. Si manifestava con febbre altissima che spingeva a soddisfare la fame anche con atti di vero cannibalismo gettandosi sui corpi dei compagni appena spirati per divorarli, come accadde in diversi Lager. La morte di un ufficiale con sospetto di tifo petecchiale spinse subito i tedeschi a mettere il campo in quarantena, consistente nella completa chiusura del campo. A scongiurare il pericolo oltre che ad elevare preghiere speciali al Signore, Madonna e Santi, ciascuno si preoccupò di fare una scrupolosa pulizia della persona, del proprio bagaglio e della baracca. Dopo 15 giorni di vero incubo non ci demmo alla pazza gioia per lo scampato pericolo, ma passammo i restanti giorni della quarantena con maggiore serenità e allegria perché liberi dall’ossessione dei giornalieri appelli e non turbati dalla non certo gradita presenza dei Tedeschi e specialmente dalla presenza del Cap. Pincher che incedeva nel campo, sempre accigliato, con vero sussiego alla spagnola. 22


Volume quarto A Settembre del ‘44 il campo di Sandboster venne completato da una trentina di Cappellani, tra i quali P. Giulio Pacini e P. Silverio Naldi, miei confratelli, e da un centinaio di medici. Essendo passati i soldati Italiani al ruolo di lavoratori civili, i cappellani e i medici addetti alla loro cura nei campi di lavoro, furono inviati nei campi di concentramento, invece di essere rimandati a casa secondo la legge internazionale, non essendo più necessari al loro servizio. Nell’Ottobre dello stesso anno, essendo risultato che molti ufficiali specialmente della bassa Italia non avevano ricevuto il Sacramento della Cresima, Il Capp. Capo Mons. Pasa ottenne dal comando tedesco il permesso con licenza di fare fotografie in ricordo, di procedere alla funzione cresimale che risultò molto sentita e commovente. Nel Novembre sempre del ‘44 il campo X B cominciò ad essere evacuato con contingenti di ufficiali inviati in altri campi per fare posto ai Polacchi con donne e bambini, prigionieri della famosa sommossa di Varsavia. Essi conservarono nel campo il loro ostile atteggiamento e spirito combattivo. Si dimostrarono molto buoni compagni con noi, chiedendoci stellette, cinturoni, gambali e dimostrandosi generosi nel dare in cambio tabacco e viveri di riserva. L’ultimo contingente formato da una quarantina di Cappellani, da più di un centinaio di medici e da più d’una cinquantina di invalidi lasciò il X B diretto a Wiezendorf nel Febbraio del 1945. 7 Nell’intraprendere la marcia di 12 Km. per raggiungere la stazione di Bremenford la primiera andatura si dimostrò a noi affamati e denutriti con lo zaino sulle spalle e i cappellani anche con la cassetta dell’Altarino, abbastanza sopportabile. Dopo però qualche centinaio di passi un ufficiale dell’SS in bicicletta si mise a fare la spola in su e in giù gridando di camminare più veloci e non contento di ciò si mise in testa per regolare un passo molto sostenuto. A questo punto ricordo che il P. Silverio Naldi, mio compagno di studi, oriundo dell’Impruneta, giovane sacerdote di bello aspetto con 1,82 di altezza e 1,90 (?) di peso, vero apparente colosso, dotato di una bellissima voce di baritono, cominciò a non potere più sopportare la forzata andatura col rimanere indietro. Fu raggiunto dall’ufficiale che ci mise accanto un soldato con l’ordine di farlo fuori se non arrivava in tempo alla partenza del convoglio. Arrivati alla stazione pienamente sfiniti ed estenuati dalla fatica fummo subito rinchiusi nei carri bestiame attendendo la partenza che avvenne 23


Ultime Voci dopo due ore. Durante la faticosa marcia e dopo, io ero molto preoccupato sulla sorte del P. Naldi, ma per fortuna egli arrivò pochi minuti avanti la partenza del convoglio. Il suo aspetto mi fece rabbrividire, ma pensando a quello che poteva succedere mi rasserenai. Dopo tre giorni di viaggio con il solito carro bestiame arrivammo a Wietzendorf4, dove trovammo tanti conosciuti compagni ed amici ed una disciplina militare un po’ più blanda e sopportabile, nonostante l’opera delle cimici che letteralmente ci mangiavano. 8 Io rimasi nel campo come prigioniero appena due mesi perché nell’Aprile 1945 fummo liberati dai Canadesi. La nostra liberazione avvenne in modo insolito e curioso che merita di essere descritto nei suoi particolari. Dopo una notte d’inferno nella quale tremammo dalla paura di fare la morte del topo per un intenso cannoneggiamento e bombardamento i cui proiettili sfrecciavano sibilando sulle baracche, al mattino cessato il fuoco, con sorpresa constatammo la scomparsa dei Tedeschi dal campo. La gioia di essere liberati però scoppiò in abbracci e in grida di giubilo quando apparve un maggiore Canadese che accogliemmo portandolo in trionfo. Egli dopo avere eletto il comandante del campo il Colonnello francese e vice comandante il Colonnello Italiano Testa, ritornò al suo reparto di carri armati, assicurando che sarebbe ritornato il giorno dopo, riparato il ponte al quale erano attestati. Passò un giorno, passavano due e tre, e il Maggiore non si fece vivo. Il quarto giorno ritornarono le SS. che liberarono il Capitano Tedesco, detto “Armistizio” per la sua bontà, e i pochi soldati che erano rimasti di guardia per la consegna del campo. Presero poi il Colonnello Francese che scongiurò il grave pericolo, minacciando di accusare come criminale di guerra il Generale Tedesco che voleva fare la decimazione del campo, in punizione di una vera razzia commessa dagli ufficiali Francesi nel vicino paese dove erano andati a fare il pane. Passati una decina di giorni nella più amara delusione, inaspettato venne l’ordine di prepararsi, perché fin dalle sei del mattino del giorno dopo dovevamo, compagnia per compagnia, incamminarci per passare dalle linee tedesche a quelle americane. Ricordo che la sera dell’ordine il comando italiano ci distribuì 1 chilo di patate, mezze cotte e mezze crude. La marcia verso la libertà per i suoi numerosi altolà durò parecchie ore. Finalmente arrivammo al ponte determinato indicato dalla presenza di un sergente tedesco e ad una sessantina di metri di un militare Americano spiegante al vento una bandiera 4 Comune della Bassa Sassonia.

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Volume quarto bianca. Lascio pensare a voi con che ansia e sveltezza percorremmo quella sessantina di metri! Giunti alla linea Americana un graduato ci disse di deporre zaini e fagotti e prendere a piedi la strada per Bergher5 perché durante il cammino saremmo stati imbarcati sui camion che facevano la spola. Io dovetti farmi il percorso di 4,6 Km. a piedi perché una forte fermentazione prodotta dal chilo di patate mangiate la sera prima e la mattina, mi costringeva a fermarmi spesso. A Bergher fummo sistemati a gruppi nelle case evacuate dai civili fin dalla mattina per comando alleato. Bergher era un paesotto agricolo molto ricco capace quindi di soddisfare la nostra famelica avidità a rimangiare viveri da tanto tempo dimenticati e a farci risentire il dolce e sereno riposo di ridormire in un soffice letto. Lascio immaginare a voi cosa successe nella case nei 7 o 8 giorni di permanenza in esse e come furono ritrovate dalla popolazione. Ad onore del vero posso affermare con un po’ di vergogna che i tedeschi le case occupate dagli Italiani non le trovarono come quelle occupate dai Francesi che in esse distrussero il distruttibile! Ora qui c’è da ridere! Io con un collega Cappellano fummo sistemati in una camera sopra il solaio di una giovane sarta che aveva avuto il fidanzato, caduto in Russia. Io cambiai la mia ormai incartapecorita maglia e mutande in ben trinata maglia di lana e mutande da donna! A Bergher eravamo in aspettativa per essere trasportati via aerea a Brusselle6, si diceva per raccomandazione della allora Principessa Maria José. Dopo la completa evacuazione del contingente Francese la Germania chiese la resa, e così noi Italiani avemmo la brutta sorpresa di essere ricondotti al campo di Wietzendorf in aspettativa di essere a suo tempo trasferiti in Italia. Dall’Aprile del 1945, data della liberazione, al Settembre dello stesso anno, data del nostro rientro in Italia, sebbene liberi nei nostri movimenti e sufficientemente nutriti la nostra vita si svolse in angosciosa attesa per mancanza di notizie dalle nostre famiglie. 9 La mancanza di libertà anche se vulnerata dal più rigoroso quanto violento atteggiamento dei Tedeschi, sarebbe risultata abbastanza sopportabile se non si fossero aggiunte quelle terribili sofferenze minanti la salute fisica e morale che caratterizzarono la nostra prigionia come unica nel suo barbarico aspetto in confronto alla prigionia trascorsa presso gli Alleati Occidentali. 5 Berger, località delle regione del Reno-Westphalia. 6 Ovviamente, Bruxelles.

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Ultime Voci La prima e più sentita sofferenza era costituita dalla fame! I Tedeschi ci distribuivano viveri per 700-800 calorie mentre la media per l’uomo è di 3000-3.500 calorie! Naturalmente questa forte insufficienza di calorie si ripercuoteva nell’organismo continuamente indebolendolo e (ri)dimagrendolo mentre la sua richiesta stimolante di cibo si faceva più viva. La distribuzione dei viveri veniva fatta una volta al giorno. Essa così si componeva: la zuppa per i Tedeschi da noi chiamata “sbobba”, contenete acqua, sale (che venne a mancare per tre o quattro mesi), 8 gr. di grasso, rape o crauti nei giorni feriali, fiocchi di avena e miglio nella Domenica; 150 gr. di patate (due o tre patate), 300 gr. di pane fatto di segale e si diceva mescolato con farina di piobbo; 8 gr. di margarina ricavata dal carbon fossile, un formaggino (potrei aggiungere puzzolente), 6 gr. di zucchero (un cucchiaio raso), 50 gr. di marmellata ricavata dalle corbezzole non rare anche nei nostri boschi. Mi riferisco qui al trattamento nel campo X B dove io sono stato un anno. Anche se negli altri campi ci fu una variazione di viveri la distribuzione di essi non oltrepassava la generale norma delle 700-800 calorie. A noi ufficiali veniva passata la metà della razione del soldato italiano perché non si lavorava. la distribuzione del rancio si presentava molto laboriosa, richiedente lo spazio di circa due ore. Una baracca che aveva ricevuto per prima la sbobba generalmente era l’ultima a ricevere la razione di pane, avendo avuto in precedenza gli altri viveri. La razione del pane veniva fatta con quella scrupolosità da non dare appiglio a lamentele. Un abile tagliatore affettava il filone del pane e la razione veniva pesata con una bilancia delle numerosissime bilance nel campo che avevano spinto l’abilità di molti a farlo con vera perfezione perché con esse venivano pesate patate, margarina, marmellata ecc. L’assegnazione della razione di pane veniva fatta in questo modo: allineate tutte le razioni l’ufficiale tagliatore e pesatore indicava la razione ad un ufficiale appartato in un cantone, dicendo: A chi questa? risposta: al Ten. Tale. A chi questa: Cap. Tizio, ecc. Posso assicurarvi che prendendo la razione assegnata ci sembrava sempre la più piccola! La distribuzione terminava con: “A chi toccano le briciole e a chi tocca pulire la marmitta dai suoi rimasugli?”. L’argomento della fame non era l’argomento del giorno, ma l’argomento di tutto il giorno. Al desiderio di uno: “Oh, se avessi una bistecca alla Fiorentina”, corrispondeva il sogno di un altro di avere fatto un lauto pranzo a base di ravioli alla Bolognese con cotoletta alla Milanese. E così nell’esprimere alcuni il desiderio di mangiare le proprie specialità e altri a raccontare lamentevoli sogni di avere mangiato piatti speciali della propria regione, si venne alla conoscenza generale 26


Volume quarto delle specialità della cucina nazionale che invogliò diversi a scriverne le ricette nel dichiarato proposito di stare in cucina al ritorno per tre o quattro mesi per gustare le segnate e prelibate specialità nazionali. La fame superava spesso la dignità e l’onore di ufficiali rubando qualcosa da mangiare ai propri camerati e spingendo molti a rovistare nel cosiddetto laghetto qualcosa tra la massa dei rifiuti, contenti di aver trovato mezza patata o un pezzetto di rapa, ecc. Io fui dichiarato uno dei più denutriti della camerata e quindi privilegiato ad avere un supplemento di mezza razione di sbobba che a me piaceva consumare quando conteneva rape fresche mentre la ricusavo quando si trattava di crauti perché producevano molta acidità per essere cotti nell’acido acetico prima di essere buttati nelle caldaie; e similmente la rifiutavo quando conteneva rape seccate, perché disgustevoli anche per la quantità di carbone che contenevano. Dopo del tempo rifiutai il supplemento perché l’invidia dei camerati si era espressa nel considerare la mia posizione di denutrito come un favore perché Cappellano. Gli Alleati invece di rinchiuderci e trattare la nostra ripresa con latte, brodo, vitamine ecc. fecero molto male nel gettarci all’arrembaggio per soddisfare come lupi la nostra tanto arretrata fame; cosicché si verificarono diversi decessi per incontrollabile ingordigia e abuso nel mangiare. Ricordo che un ufficiale morì dopo essersi staccato da una botticella di latte condensato e un altro per avere mangiato un chilo di pasta all’uovo. Il terzo giorno della liberazione io mi svegliai gonfio come un pallone. Lo stesso fenomeno successe anche agli altri. Naturalmente la medicina prescritta dal Dottore era un forzato e tanto inconcepibile digiuno! perciò possiamo concludere questo argomento della fame riconoscendo che i Tedeschi risparmiarono sì la nostra vita, ma con il loro trattamento la portarono al limite della resistenza. 10 La seconda terribile sofferenza che affliggeva i prigionieri era il freddo. In Polonia, come già accennato, ci riparavamo abbastanza dal freddo perché ci veniva distribuita una giornaliera razione di carbone quasi sufficiente per alimentare durante la giornata le stufe. In Germania, sebbene ci fossero le stufe nelle baracche, non veniva distribuito il carbone con la scusa di non averlo. Le due coperte da campo permesse dai Tedeschi si dimostrarono veramente insufficienti a sopportare il rigido clima del Nord della Germania con un inverno tanto lungo. Non avendo la possibilità di asciugarsi dopo appelli sotto l’acqua 27


Ultime Voci e di riscaldarci dal freddo che entrava nelle ossa da farci rabbrividire, le due coperte di lana arrotolate alla persona in piena tenuta vestiaria con cappotto servivano ad attenuare la rigidità ma non a debellarla del tutto specialmente nel riposo notturno. Io mi dichiaravo fortunato perché avevo il sacco a pelo che i tedeschi tentarono più volte di togliermi. In esso avevo la fortuna di asciugarmi, riscaldarmi e passare le nottate senza brividi. A proposito del freddo ricordo quanto penosa e laboriosa si presentasse la disinfestazione a prevenire il tifo petecchiale. Un’ora o due avanti il bagno venivamo portati con tutto il nostro vestiario a pestare i piedi nella baracca prospiciente ad esso. Dopo eravamo chiamati in una stanza non riscaldata per svestirsi e attaccare i nostri panni e coperte ad un carrello che veniva trasportato nella stanza della disinfestazione. Poi passavamo nel bagno dove facevamo la doccia ad acqua calda per una decina di minuti senza sapone. Dopo la famosa spennellata dove ci sono peli che faceva saltare dal bruciore si passava in una stanza per asciugarsi. Da questa dopo la verifica della nettezza del capo si transitava in una stanza a ghiaccio in aspettativa abbastanza lunga di essere chiamati a vestirsi all’aperto anche se il terreno era nevoso o piovoso. La resistenza fisica dell’organismo a sopportare e superare tante e tali difficoltà di vita presentava il suo limite nei giovani da 30 anni in giù e negli anziani da 50 anni in su. I giovani a causa di bronchiti, pleuriti e polmoniti cadevano in TBC e non avendo medicine e sostentamento adatto ben presto vedevano la loro fine. Gli anziani si dimostrarono impari a superare tante difficoltà. Riguardo ai giovani in TBC mi piace ricordare che dopo la liberazione la Croce Rossa Svedese fece la proposta a loro di portarli in Svezia per curarli a dovere. Io naturalmente appoggiai presso i miei ammalati di Celle7la proposta. Non me ne pentii perché venni a conoscenza dal Ten. Santi di Prato che essi furono curati con coscienziosa e fiduciosa perizia e con dovizia di mezzi curativi, prestati in un ambiente tanto accogliente e confortevole. Tra questi malati c’era il P. Silverio Naldi. La sua penosa e sofferente marcia dal campo di Sandboster alla stazione, come sopra abbiamo ricordato, fu la goccia che fece traboccare il bicchiere tanto che arrivato a Wietzendorf fu ricoverato subito all’infermeria e poi trasportato all’ospedale a Celle. Le sue condizioni di salute prima del viaggio in Svezia erano molto compromesse, un polmone fuori uso e l’altro intaccato seriamente. In Svezia era talmente migliorato da non prevedere a Ottobre la fine per fulminante emottisi. 7 Si tratta probabilmente della cittadina di Celle-Lehrte, nella Bassa Sassonia.

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Volume quarto 11 Alle sofferenze della fame e del freddo minanti la nostra salute fisica si deve aggiungere una grave sofferenza morale che rese ancora più nera e insopportabile la nostra prigionia perché essa non si dimostrò uguale per tutti. Noi Italiani fummo dichiarati ospiti del grande Reich, internati quindi e non prigionieri. Questa dichiarazione impedì alla Croce Rossa Internazionale di intervenire a nostro vantaggio con quella assistenza che prestava agli altri prigionieri, Francesi, Inglesi, ecc. Essi non conoscevano il morso della fame perché il prigioniero riceveva quattro pacchi al mese di 5 chili e più partecipava in tre compagni a due pacchi al mese di 8 chili, senza contare i pacchi che riceveva dalla famiglia. Il rancio quindi per loro era considerato come un semplice oggetto di mercato nero. Noi Italiani avevamo solo la speranza di avere pacchi dalle famiglie per ricevere i quali ci venivano dati due moduli al mese. Ma gli ufficiali del Sud Italia non avevano nessuna speranza di ricevere pacchi perché occupata dagli Alleati, mentre quelli del Centro e Nord Italia sognavano continuamente di ricevere pacchi e alle volte con tanta gioia coronavano i loro sogni nel ricevere cose da mangiare ancora più buone perché inviate da cuori trepidanti. Io ricevetti due pacchi dalla famiglia e tre pacchi da un sacerdote del Trentino che non ho potuto ringraziare perché anonimo. Ho conosciuto un ufficiale di un paese vicino che ricevé 120 pacchi, egli certamente non conobbe gli spasimi della fame! La venuta dei pacchi favorì maggiormente il mercato nero producendo una netta divisione tra fortunati e sfortunati. Si vendevano indumenti, generi alimentari, riso, pasta, pane, ecc. in cambio di valori personali come orologi, catenine, medaglie, anelli, ecc. Un ufficiale mi domandò se poteva vendere la fede. Assentii senz’altro mettendomi a sua disposizione se, tornato a casa, avesse avuto delle noie. L’affissione ai gabinetti degli innumerevoli avvisi di offerta di pane, riso, pasta in cambio di sigarette e di oggetti personali costituiva uno spettacolo veramente nauseante! Confesso che anch’io per attutire la voglia del fumo vendevo per sigarette mezza razione di pane dopo d’essermi liberato dell’orologio, della catenina d’oro, gambali e indumenti interni, ecc. Un giorno comprai una rapa per 30 marchi! Grossa era la rapa, ma molto più grande era il valore di essa! Le sigarette venivano spezzate e fatte come spillini con le cartine che i tedeschi ci davano forse per prenderci in giro non passandoci il tabacco. Si fumava di nascosto per non sentirsi dire: “Mi fa fare un peo?”. Non mi vergogno di dire di avere fumato foglie secche di cespugli del campo, bucce di patate e foglie del tiglio che 29


Ultime Voci i tedeschi ci passavano la mattina come tè, che io usavo essendo caldo per farmi la barba e a berlo durante la giornata perché alla fonte del campo c’era scritto che l’acqua non era potabile. Nel vendere i miei indumenti interni mi riservai il semplice cambio che veniva lavato semplicemente messo a mollo e strizzato per mancanza di sapone. Comprenderete che dopo del tempo la maglia si era talmente incartapecorita da non parare più il freddo. Oh quanti tristi episodi e amare esperienze sarebbero da ricordarsi per far risaltare ancora più la crudeltà di una prigionia che non può essere capita e sentita nella sua realtà se non sperimentata a fondo! Tuttavia, credo che questa mia narrazione sulla dura e nera prigionia dei campi di concentramento vi metterà certamente in grado di comprendere le terribili sofferenze, gli incredibili orrori ed esecuzioni in massa di innocenti inconcepibili alla nostra secolare ventennale (?) civiltà, che avvennero nei campi di sterminio di Dachau, di Belsen, dove venne immolata la giovanissima Anna Frank, di Mauthausen, di Buchenwald dove trovò una barbarica fine la Principessa Mafalda di Savoia, e di Auschwitz dove sfiorì un fiore di santità in San Massimiliano Kolbe. Nel terminare, tante volte ho sentito dire dagli ex-internati: “Quello che ho patito non lo augurerei neppure ad un cane!”. Io aggiungo che non lo augurerei neppure ad un animale perché dai tedeschi non fummo considerati neppure come animali, ma come semplici numeri; il mio era il 42674 per chi lo volesse giocare al lotto!

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Volume quarto Siro Betti

Siro Betti è nato a Montale, Pistoia il 26 ottobre 1921. Chiamato alle armi per servizio di leva il 21 gennaio del 1941, fu assegnato al secondo Artiglieria Alessandria col grado di caporale. Nel maggio del 1942 viene trasferito ai reparti di Villa Literno e dal 29 luglio 1942 al 19 febbraio 1943 alle operazioni di guerra svoltesi in Russia col 73° gruppo Artiglieria d’Armata mobilitata, arrivando vicino al fiume Don. Tornato ad Alessandria, vi rimase fino all’otto settembre 1943, prestando servizio come soldato presso il 25° Reggimento; l’otto settembre, lasciò il reparto e tornò a casa, dove rimase nascosto fino alla liberazione. La testimonianza è stata scritta da Silvana Santi Montini sulla base di documenti inviati da Siro Betti e da un sommario delle sue vicende.

Durante il periodo militare, Siro rammenta che il vitto non era certo di prima qualità, ma sufficiente e passabile. Però i rifornimenti spesso lasciavano a desiderare e si avvertiva chiaramente che le cose non si mettevano bene. Infatti nell’ultimo periodo il vitto era scarso e spesso immangiabile. Lui sperava che la guerra finisse presto e il suo primo pensiero era sempre quello di poter tornare a casa dai suoi, insieme all’altro di poter cambiare il colore della camicia, che invece, anche se strappata, dice: “dovevamo portare la camicia nera o erano guai grossi”. Il caporale Siro Betti racconta di avere usufruito nel suo primo periodo di militare di una licenza straordinaria di 15 giorni più 2 per gravi motivi di famiglia. La licenza reca la data: P.M. 6-19 febbraio 1943 - XXI, timbro e firma del comandante interinale del 9° raggruppamento Artiglieria Armata Col. Manlio Sbrana. Siro non rammenta le date, ma

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Ultime Voci fa presente di aver ottenuto anche altre liceze, però di pochi giorni. Le licenze per Siro erano di grande importanza, perché essendo la sua una famiglia di contadini c’era un gran bisogno di braccia valide, specialmente per certe faccende, come la mietitura e la trebbiatura del grano, la vendemmia e la raccolta delle olive. L’8 settembre 1943 si trovava ad Alessandria come soldato presso il 25° Reggimento. Per i noti motivi ed eventi anche lui decise di lasciare il proprio reparto per tornare a casa, dove poi rimase nascosto fino alla Liberazione, senza, e questo ci tiene a dirlo, più far parte di corpi armati di nessun genere, né di organizzazioni di lavoro coatto come le Todt. Un’ombra di grande tristezza passa nel ricordo dei suoi compagni, gli amici più stretti. Ne aveva tre: uno era di Lastra a Signa, uno di Siena e poi un piemontese. Tutti e tre morirono accanto a lui sul fronte. “Ci prese in pieno una cannonata, io fui fortunato, gli altri ci rimasero secchi”.

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Volume quarto

Sopra: Siro Betti seduto accanto al guidatore su un camion militare. Nella pagina a sinistra: certificato di idoneitĂ alla conduzione dei veicoli militari di Siro Betti.

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Ultime Voci

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Volume quarto

Siro Betti (il primo da sinistra) in una fotografia con i compagni.

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Ultime Voci Florido Fiaschi

Florido Fiaschi è nato a Poggio a Caiano. Era arruolato nella 87° squadriglia aerea con la mansione di marconista.

Nel terzo volume di Ultime Voci abbiamo già riportato un contributo di Florido Fiaschi, per la precisione il racconto Storia di un paio di guanti che riportava un episodio che gli era capitato durante il militare. Quella che segue invece è più propriamente una testimonianza delle vicende accadute a Fiaschi durante la guerra, e non un singolo racconto, sebbene lo stile sia comunque molto narrativo. Il mio nome è Florido e sono nato a Poggio a Caiano e vivo qui dopo aver vissuto 37 anni a Prato. Ho quasi 91 anni e abito in una casa insieme a mia figlia, mio genero e mio nipote. Due anni fa morì mia moglie. Avevo tre figli due maschi e una femmina, il maggiore si chiamava Giuseppe e morì all’età di 30 anni in un incidente stradale con la moto. Quando guardo mio nipote che ha 22 anni ed è studente universitario, la mia mente ritorna indietro a quando anche io avevo la sua età. Ero in Africa e precisamente all’aeroporto K3 di Bengasi in zona di guerra. Mio nipote la sera molte volte fa le ore piccole, anche a me capitava facendo la guardia agli aeroplani perché molte volte gli inglesi che venivano dal deserto con le loro camionette cercavano di fare più danni possibili e vi lascio immaginare quali erano le nostre notti. Molte volte la mattina presto con l’aeroplano perlustravamo la zona con scarsi risultati. Io appartenevo all’87° squadriglia di O.A. (osservazione Aera) come specialista marconista . Prima di andare in Africa ero all’aeroporto di Lecce e di Bari, dove facevamo la scorta alle navi e caccia ai sommergibili. In quel periodo la guerra si avvertiva poco, i fronti erano lontani e solo una volta ci fu un mitragliamento da parte di sei aeroplani inglesi

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Volume quarto all’aeroporto di Lecce, ma con pochi danni. Successivamente la mia squadriglia fu trasferita a Bari, ed io che dovevo prendere parte ad una missione fui sostituito all’ultimo momento con un altro marconista; nessuno fece più ritorno. Dopo pochi mesi venni mandato con tutta la squadriglia in Libia all’aeroporto K3 di Bengasi: era l’anno 1942. Appena prendemmo posto nei nostri tendoni fummo assaliti da pulci e pidocchi e non fu facile liberarsene. Avevamo il compito di perlustrare il deserto a caccia di camionette inglesi che di notte attaccavano i nostri avamposti. Nella ritirata all’aeroporto di Tripoli, un aereo che volava accanto al nostro per tornare in Italia fu colpito dall’artiglieria nemica e precipitò in fiamme. Il viaggio di ritorno fu molto più lungo che all’andata; dovevamo stare attenti a non essere intercettati dagli aerei nemici che possedevano il radar. Quando atterrammo in Sicilia era l’inverno del’43, le date precise mi sfuggono dopo tanti anni, e venimmo trasferiti a Gela. Il mio primo giorno di libertà andai in città e il primo pensiero fu di comprarmi un cannolo siciliano in una pasticceria. Mi colpì la bellezza di una giovane che si trovava nella pasticceria, i nostri sguardi si incrociarono, erano penetranti e pensai che anche lei aveva i miei stessi desideri. Un ragazzino di circa dieci anni si accorse di noi e mi disse che lui conosceva la ragazza e di aspettare perché mi avrebbe fatto sapere qualcosa da parte sua. Lo ringraziai promettendogli come ricompensa un cannolo. Non tardò molto ad arrivare e mi diede un bigliettino dove c’era scritto: “Aspettami stasera quando i miei genitori dormono”. Purtroppo il mio permesso scadeva alle 18 e dovevo rientrare… Nel breve periodo a Gela, un caccia inglese fu abbattuto dalla nostra contraerea e cadde vicino all’aeroporto; fummo i primi ad accorrere sul posto. In un raggio di 100 metri erano sparsi i pezzi dell’aereo e i resti del pilota. Trovammo il suo portafoglio dove era conservata la foto di sua moglie abbracciata alle due figlie, l’aveva ricevuta da pochi giorni. Lui era un tenente e a pochi metri dal portafoglio una parte del cranio con ancora dei capelli rossastri e poco più in là su di una pietra il cuore o qualcosa di simile. Maledissi la guerra, lui era un mio nemico, ma in quel momento ebbi pietà di lui. Fummo trasferiti all’aeroporto di Gerbini nella piana di Catania. Nelle settimane precedenti gli sbarchi degli americani, ogni giorno stormi di aerei nemici bombardavano intensamente gli aeroporti. I primi giorni i nostri caccia ne abbatterono parecchi, ma non avendo ricambi la controffensiva finì presto, mentre loro erano sempre più numerosi. 37


Ultime Voci Le nostre giornate le passavamo nei rifugi e le notti molte volte sparsi nella campagna circostante. Dopo tre giorni dallo sbarco degli americani, la nostra squadriglia fu trasferita a Novi Ligure: dall’inferno al paradiso, era il settembre del ’43. Dopo non molto venne l’ordine di trasferimento a Tolone in Francia ed io chiesi al mio Comandante il permesso di andare a salutare la mia famiglia. Lui mi disse: “Vai ma non tornare, perché qui è uno sfascio, non si sa più chi comanda e cosa succederà”. Io mi rifugiai sulle colline del Monte Albano per non essere preso dai tedeschi. Qualche mese più tardi fui arrestato dai repubblichini fascisti e portato a “Villa Triste” a Firenze dove era il comando del famigerato Maggiore Carità. Quella notte dovevo essere interrogato, ma prima di me c’era un giovane accusato di essere un partigiano. Ci portarono nell’ufficio del Maggiore Carità che stava seduto alla sua scrivania, oltre a lui c’erano altri quattro repubblichini, due a fianco del maggiore, uno davanti al giovane accusato di essere un partigiano, l’altro dietro. Il ragazzo portava gli occhiali, era uno studente universitario e negava di essere un partigiano. Quello che gli stava davanti gli sferrò un pugno in faccia e gli fece cadere gli occhiali. Il naso sanguinava, gli ordinarono di raccogliere gli occhiali, mentre si chinava quello dietro a lui gli diede un calcio violentissimo nei testicoli; cadde a terra svenuto. Io che dovevo assistere a quella scena mi sentivo mancare pensando a quello che mi sarebbe successo, ma proprio in quel momento ci fu una telefonata e il maggiore si alzò e impietrito ordinò ai suoi di seguirlo e di portare tutti noi detenuti alle Murate. Dopo pochi giorni venni liberato e mio padre venne a prendermi alle Murate. Seppi che la mia liberazione si doveva ad un fascista influente del mio paese. Avevo 24 anni, i migliori anni della mia gioventù se ne erano andati. Il 7 Luglio del 1943 Poggio subì un bombardamento aereo e mio padre morì in quell’occasione sotto una bomba in piazza XX Settembre. Florido Fiaschi 1 Febbraio 2011 38


Volume quarto Arturo Lastrucci

Arturo Lastrucci è nato a Montemurlo il 20 Novembre del 1922. Arruolato come aviere, partecipò alla campagna di Grecia da dove fu poi deportato come prigioniero di guerra in Germania. Esiste

un’incertezza sul nome di Lastrucci che abbiamo scelto di non sciogliere. Infatti nei documenti compare la forma “Arturo Lastrucci”, che abbiamo seguito per il titolo della testimonianza; tuttavia, a conclusione di questa stessa testimonianza Lastrucci si firma con il nome di Artemio. Abbiamo conservato l’incertezza mettendone a conoscenza il lettore.

8 SETTEMBRE 1943 Da un anno ero militare in Grecia. 8 settembre 1943. Caduta di Mussolini11, i nostri ufficiali ci dicono di stare pronti per combattere contro i Tedeschi, se ci avessero attaccati! Perché chi ci aveva fatto fare la guerra era il fascismo, io ero uno di quella maggioranza che la guerra non la voleva. Per noi una volta caduto il fascismo la guerra sarebbe finita. 11 SETTEMBRE 1943 Infatti l’11 settembre viene l’ordine dai nostri ufficiali che per noi la guerra è finita e andiamo tutti a casa. La nostra gioia era così grande che non si credeva nemmeno a quelle ragazze greche che ci dicevano: “Non vi portano in Italia, vi portano in Germania. Rimanete qui da noi!”; ce lo dicevano piangendo. Ma la voglia di venire a casa era più 1 Il 25 luglio 1943.

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Ultime Voci forte del loro pianto. Allora si lasciò fucili e munizioni, si salì su un camion che ci portò alla stazione di Atene, dove ci aspettava una tradotta, con tanti vagoni bestiame. Si salì sopra, 40/50 persone per vagone e dopo qualche ora il treno partì. Eravamo tutti contenti, pensando di ritornare in Italia e dai nostri familiari. La tradotta andava piano, a tutte le stazioni si fermava per fare rifornimento di acqua e carbone. Si attraversò tutti i Balcani, ci si mise circa 10 giorni e nessuno ci dava da mangiare, si mangiava quando il treno si fermava un po’ di più alla stazione, si faceva lo scambio del nostro corredo militare con un pane. I vagoni erano aperti e si poteva scendere tutte le volte che il treno si fermava. Noi eravamo contenti perché ci si avvicinava sempre di più all’Italia. Però il brutto aveva ancora da venire; quando una sera la tradotta si fermò a una stazione e c’era tutti i Tedeschi che in due minuti chiusero tutti i vagoni. In quel momento la gioia che avevamo prima si trasformò in tristezza. Eravamo vicini all’Italia, allora ci ritornava in mente le ragazze greche e un mio caro amico greco che mi diceva di non andare via e io non ci credevo. Credevo al nostro capitano, forse anche il nostro capitano non lo sapeva, forse anche lui fu ingannato da quelli più alti di lui. Ma ritorniamo a quella maledetta tradotta, che aveva quel fischio cupo, sembrava una bestia feroce, il fischio l’ ho sempre nelle orecchie. Dopo la chiusura dei vagoni, quella notte il treno non si fermò mai. Quando venne il giorno il treno si fermò ad una stazione e si vide la scritta in tedesco: quello ci confermava che eravamo in Germania. A quel punto si cominciò a parlare tra noi: “Dove ci porteranno? Ci porteranno a lavorare”. Non sapevamo che c’erano i campi di sterminio! Sapevamo che i Tedeschi erano cattivi, ma non fino a quel punto di cremare la gente. Dopo 4/5 giorni dalla chiusura dei vagoni, il treno si fermò in mezzo a una campagna, era di notte, circa le tre di mattina. Allora cominciò l’inferno: si aprirono i vagoni bestiame e cominciarono a urlare con parole in tedesco, si capiva solamente “Raus! Raus!”. Ci misero tutti in fila e ci fecero incamminare verso un campo. Che campo era non lo so con precisione, era un grande campo sui confini Germania/Polonia. All’entrata nel campo c’era un tavolo che c’era le SS che ci facevano passare uno per uno facendoci lasciare forbici, aghi, coltelli, macchine fotografiche, insomma tutto quello che poteva essere pericoloso. Lì ci presero nome e cognome, ma serviva più il nome. Serviva il numero di matricola e un piastrino di ferro, con la scritta in tedesco con il numero 15663; questo numero lo ricordo in qualsiasi momento, il numero di matricola era 40


Volume quarto il nostro nome. Da lì ci mandarono in una parte del campo in delle buche sotterranee, e quella era la nostra residenza. Era un campo grandissimo, con dei reticolati di filo spinato, con garitte alte e il tedesco col mitra. In quel campo ci siamo stati circa 10 giorni, in quei 10 giorni abbiamo cominciato a sentire la grande fame, ci davano da mangiare una volta al giorno una fetta di pane e un pentolino di acqua e cavolo. Noi non sapevamo che cosa ci aspettava. Un giorno vennero i Tedeschi, ci misero tutti in fila e ci portarono davanti a una stanza grandissima, ci fecero spogliare e ci misero tutti dentro. Ad un certo punto dal soffitto della stanza cominciò a venire acqua calda, poi tutta fredda: eravamo tutti chiusi dentro. Questo continuò per 10/15 minuti. Noi non si pensava a che cosa servisse quella maledetta doccia. Ora me lo spiego: loro lo fecero per misurare le nostre forze, perché loro sapevano che noi dovevamo andare a lavorare, volevano uomini forti. Dopo 10 giorni che eravamo in quel campo, si vide arrivare dei camion, ci fecero salire tutti sopra. Non sapevamo dove ci avrebbero portato, si viaggiò molte ore, quando arrivammo in un altro campo: forse era Buchenwald. Noi ci misero a fianco di quel campo, quello era ancora peggiore del primo; ci davano da mangiare alle 9 del mattino un pentolino d’acqua e cavolo, pane niente, e fino alle 9 del giorno dopo non si mangiava niente: questo durò per 6/7 giorni. Il campo che avevamo a fianco di noi, forse era Buchenwald, era pieno di prigionieri, quelli erano trattati (meglio) (peggio n.d.r.) di noi. Noi avevamo la grande fame, ma loro, oltre la fame, li facevano marciare con un saccapane pieno di sabbia, sdraiati per terra con il corpo sollevato e con le punta delle dita, fino a che non perdevano le forze, poi non so quello che veniva dopo, “forse la morte”; tutto questo veniva fatto sotto gli occhi delle SS “maledetti”. Noi non sapevamo niente del nostro destino, il nostro pensiero più grande era la fame, perdevamo ogni giorno che passava, le forze ci calavano. Quando una mattina arrivarono dei camion e ci fanno salire: dove ci portavano non si sapeva. Dopo diverse ore i camion si fermarono, ci fanno scendere. Erano soldati tedeschi, la voce era più garbata, non era la voce delle SS che sempre urlavano “Raus, Raus, arbeiten!”. Ci misero in colonna e davanti a noi c’era un campo; quel campo doveva ospitare 350 prigionieri: era piccolo. Ci fecero entrare, dove c’era ad aspettarci un capitano tedesco che ci parlò; le sue parole non erano cattive come quelle delle SS. Ci disse che lì ci davano da mangiare, ma bisognava lavorare, e per cena un pentolino di acqua calda con den41


Ultime Voci tro cavolo, qualche patata, qualche pezzetto di carote e rape. Per noi fu tanto, perché era quasi un mese che non si cercava (?) più. Dopo la cena ci mandarono dentro le baracche: 50 per baracca. Il gabinetto e le cannelle dell’acqua erano fuori della baracca. Avevamo circa un’ora per andare a lavarsi o andare al gabinetto: poi tutti in baracca dove c’era la stufa nel mezzo della baracca, alle pareti c’erano i castelli dove si dormiva, uno sotto e uno sopra, con un pagliericcio e una coperta. Lì ci chiudevano dentro fino alla sveglia, per gabinetto avevamo un secchio vicino alla porta per pisciare e altro. La mattina dopo ci misero in fila e fecero le squadre, chi doveva lavorare in un posto, chi in un altro; a me toccò a lavorare insieme a 15 dei miei compagni, fra i quali c’era anche un mio caro amico di Galciana, “eravamo come fratelli”. Inquadrati ci portavano a piedi in una grande fabbrica che si chiamava… (?). Allora si seppe anche dove eravamo: “Berlin Spandau”. Ci insegnarono a lavorare al tornio! Si lavorava 11 ore di giorno e 13 di notte; la domenica la fabbrica era chiusa, ci portavano a caricare vagoni o a scaricare, “riposo mai”. Dopo qualche giorno che eravamo lì cominciarono i primi bombardamenti. La Germania era ancora molto armata e rispondeva con la contraerea e i caccia tedeschi si alzavano in volo e si battevano in aria con i caccia americani, che proteggevano i bombardieri. Per noi fu il primo bombardamento, saranno stati un centinaio di aerei, sembrava un inferno, si vedeva palazzi crollare, aerei che cascavano; qualche volta il pilota faceva in tempo a buttarsi fuori col paracadute e lo vedevamo scendere giù piano piano, dove c’erano i Tedeschi che lo aspettavano. Per noi non c’erano rifugi, ma forse era meglio, perché noi andavamo fuori, per terra, sdraiati a bocca aperta e con i diti ci si chiudevano gli orecchi. Te lo spiego: la bomba o ti casca addosso o lontano cinque metri non ti fa più nulla; lo spostamento d’aria, con la bocca aperta puoi respirare, con le orecchie tappate i timpani non si rompono. Questo fu il primo bombardamento. Ritorniamo al lavoro. Ci portavano al lavoro alle 6 del mattino a piedi, inquadrati con la guardia, era un tedesco piuttosto anziano, ma pronto a sparare se non ci si comportava bene; entravamo in fabbrica, ognuno di noi si andava alla nostra macchina, dove un tedesco civile ci insegnava. A mezzogiorno si fermava un’ora per il desinare. I tedeschi avevano la mensa, noi avevamo un bidone con della brodaglia “acqua, un po’ di patate, cavolo, rape e qualche foglia di cavolo e qualche pezzetto di carota”; alla sera, quando si ritornava al campo, molte sere non si trovava niente, il pane ce 42


Volume quarto lo davano due volte la settimana, il martedì 2 etti e mezzo con un pezzetto di margarina, il venerdi 3 etti e mezzo di pane. Ma la fame era una brutta bestiaccia, non pensavamo né ai bombardamenti, né alle bombe, né agli urli delle SS “maledetti”, pensavamo solo a trovare qualcosa per mettere in bocca. Quando si poteva sfuggire all’occhio dei tedeschi, andavamo a frugare nei rifiuti. Bastava trovare una foglia di cavolo, una buccia di patata, una patata mezza marcia. Ma la fame aumentava sempre più. Passarono alcune decine di giorni in queste condizioni, sempre all’interno della fabbrica. I bombardamenti aumentarono sempre di più, sempre all’interno della fabbrica. A quel punto bisognava rischiare. Era una fabbrica grandissima, grande quanto tutta Prato, lì c’era di tutto. Allora per sopravvivere bisognava rischiare, anche la morte. La fame era più brutta di tutto. Allora io e il mio amico Gelsumini, si disse che quando gli americani bombardavano e i tedeschi andavano nei rifugi, noi andavamo più vicini possibile ai magazzini dove erano le patate, se ci avessero visti c’era la fucilazione sul posto. Ma la fame non ci faceva pensare a nulla, qualche volta qualche patata si riusciva a portarla. Una volta, mentre la sirena suonava l’allarme, io andai, come sempre andai vicino al magazzino dove c’erano le patate e mi cominciò a cascare le bombe; vidi dei tedeschi entrare sotto questo magazzino in un corridoio sotterraneo ed entrai anch’io; dopo pochi minuti cominciò a cascare le bombe sopra di noi che sembrava finisse il mondo; in questo sotterraneo veniva polvere, fumo; si durava fatica a respirare. Finalmente il bombardamento cessò, andammo per trovare l’uscita, ma era chiusa. “Il magazzino di 3 piani” era tutto sopra di noi, colpito dalle bombe. Fortunatamente i tedeschi che erano fuori sapevano che sotto c’erano delle persone, si misero a scavare e dopo circa un’ora e mezza rivedemmo la luce. Una volta uscito vidi feriti, morti e c’era anche un prigioniero come me ferito al cuoio capelluto, una grossa ferita; pregai i tedeschi che anche lui lo portassero all’ospedale, di lui non ho saputo più niente. Io mi incamminai per ritornare al mio posto di lavoro; quando entrai, Gelsumini, il mio amico, e i miei compagni di lavoro avevano già detto: “Il Lastrucci è morto!”. Gelsumini sapeva dove ero andato e vedendo il magazzino tutto a terra aveva le sue ragioni per credermi morto. Venne anche il caporeparto, dispiaciuto, ma anche contento perché mi aveva rivisto: era un padre di famiglia e sapeva quanto costano e quanto sono cari i figli; si chiamava Gherich. I giorni passavano! Noi pensavamo che con quei bombardamenti la guerra finisse presto, ma invece durò ancora molto, molto, troppo! 43


Ultime Voci Intanto, mentre passavano i giorni , che erano tutti uguali, con la guardia che portava … (?) a fine lavoro; qualche ragazzino ci sputava anche addosso. Forse erano i figli di nazisti. Vedevamo, mentre si passava per la strada, gli uomini, le donne che passeggiavano per la strada, entravano nei negozi, uscivano: erano persone libere, e noi ci si chiedeva: “Quando anche noi si ritornerà liberi di andare dove ci pare?”. La tristezza, la fame, i bombardamenti ci finivano, ma il più era la fame! Arrivammo vicini alle feste di Natale, speravamo di avere un trattamento un po’ migliore, ma invece anche la mattina di Natale arrivò la guardia e in lingua tedesca: “Wecke auf, wecke auf, schnell, schnell!”; ormai quelle parole le si capivano, volevano dire: “Sveglia, sveglia, svelti, svelti!”. Un camion ci spettava: ci fecero salire sopra e ci portarono per le strade di Berlino a levare le macerie che c’erano per le strade: Questo fu il primo Natale che si passò da prigionieri e tutte le feste si passarono così. Il giorno dopo Natale il nostro capo tedesco ci portò un boccone di dolce, ma di rimpiatto, perché se lo vedevano i nazisti lo mandavano sul fronte. Di più non lo poteva fare, perché aveva cinque figli, anche lui non aveva nulla da scialare. Noi dove si lavorava eravamo di tante razze: Russi, Francesi, Polacchi, Cecoslovacchi, Tedeschi, anche donne; qualche donna tedesca ogni tanto mentre era vicino a noi, senza che nessuno la vedesse e non voleva nemmeno che la ringraziassimo, ci metteva una fettina di pane sul banchetto da lavoro e camminando ritornava al suo posto di lavoro. Anche tra loro c’era qualcuno pietoso, ma aveva tanta paura delle SS. E noi andavamo avanti così: “fame, lavoro, bombardamenti”; gli aerei venivano sempre più spesso e buttavano tante bombe, che noi si diceva: “Se continuano a bombardare così, la guerra finisce presto”: avevamo questa speranza. Una speranza che si perdeva subito, ma bisognava resistere! Pensavamo che un giorno sarebbe finita e ora racconto un episodio abbastanza rischioso. Fuori del campo c’erano delle patate, che servivano per la nostra cucina. Noi avevamo fatto una buca sotto il filo spinato del campo e qualche sera il mio amico Gelsumini si sdraiava per terra e andava dall’altra parte, prendeva un po’ di patate e velocemente rientrava; quella sera era festa grande per noi. Io avevo paura, ma non potevo fare rischiare sempre lui; dovetti provare anch’io; andò bene per qualche volta, ma una sera buia, era gennaio o febbraio, mi vide il capo baracca, un italiano come me; io mi misi a correre, scappando e lui dietro mi diceva: “Fermati! Fermati! Non ti fo nulla”. Io mi fermai, quindi vide chi ero, chiamò il tedesco e mi consegnò a lui: “era un 44


Volume quarto prigioniero come tutti noi”. Da quel giorno lo odiai; anche se non me lo aspettavo, dopo si pentì di quello che aveva fatto. Torniamo a noi: il tedesco, io non sapevo cosa mi aspettava, il capitano cominciò a parlare, arrabbiato sì, ma non come gli urli delle SS; io non ho capito nulla, ma l’interprete mi spiegò che la punizione che dovevo fare era di andare dal barbiere e farmi fare la rapa a zero, però era molto freddo : a Berlino l’inverno non finisce mai, là c’è sempre la neve. Gelsumini, il mio amico di Galciana, faceva il barbiere e andai da lui, che mi disse: “Te la fo un capellino più alta”. Quando aveva fatto, io dovevo ritornare dal capitano tedesco; cominciò a sbraitare arrabbiato e all’interprete gli disse di chiamare chi me l’aveva fatta. Quando arrivò, gli disse: “Anche tu ti devi rapare a zero, e poi rifargliela anche a lui”. Poi l’interprete si mise a discutere con il capitano e lo convinse a rifarmela solo a me. Erano tempi duri e bisognava superarli. Chi si buttava giù e perdeva la speranza, era la fine; mi ricordo un ragazzo milanese che non sapeva lottare e rischiare. Forse da civile era un figlio di papà. Si dovette prenderlo, spogliarlo e lavarlo e convincerlo a rimangiare, anche se il mangiare era poco: ma piano piano riprese. In quel campo ci volevano tutti bene ma la fame a volte ci faceva fare qualcosa che non si doveva fare. La guerra, i bombardamenti continuavano, però la speranza che un giorno si sarebbe tornati nelle nostre case non si perdeva mai. La speranza era l’unica arma che avevamo. Come ho detto, la guerra e i bombardamenti continuavano sempre più forti, le sirene che suonavano l’allarme suonavano anche 2-3-4 volte al giorno. Una notte, non mi ricordo la data, eravamo a lavorare e vedemmo arrivare dentro la fabbrica soldati delle SS che controllavano tutti noi, Italiani, Russi, Francesi, Polacchi, insomma tutti. Noi non ci si raccapezzava cosa fosse successo. La mattina si seppe che avevano fatto un attentato al Fuhrer nella sala dove si riunivano tutti i generali tedeschi 22, gli attentatori furono i 4/5 dei suoi generali! A quei generali gli andò male, ma andò male anche a noi perché loro furono fucilati, e per noi la prigionia continuava: se l’avessero ucciso la guerra sarebbe finita. Non ho detto tutto, perché la vecchiaia fa dimenticare tante cose, poi mi ritornavano alla mente: te lo dico in poche parole. Il primo campo l’avevano già bombardato; dopo ci misero in un teatro vecchio, dove c’erano i castelli per dormire, ma pieni di cimici, pulci, etc. Era sempre vicino alla fabbrica, sempre a Spandau. Dopo un po’ di tempo ci bom2 Il 20 luglio del 1944.

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Ultime Voci bardarono anche quello; nel centro di Spandau passa un fiume che forma un lago33; nel mezzo c’era un’isoletta con dei fabbricati: allora ci portarono lì; si stava un po’ meglio e lì successe una cosa strana. Forse era stato un po’ prima, non me lo ricordo bene, ma è successo. Ci chiamarono tutti, ci fecero la fotografia, forse anche le impronte digitali; dopo qualche giorno ci diedero un tesserino con la fotografia attaccata e ci dissero di andare a lavorare da soli. Per noi fu una cosa grande: “non so il perché, forse sapevano che scappare era impossibile o forse perché i soldati che guardavano noi gli servivano sul fronte per continuare la guerra”, non lo so. Per noi fu tanto, ma la fame e il lavoro erano sempre uguali, e la guerra continuava. I bombardieri americani venivano sempre più spesso, la contraerea tedesca sparava sempre di meno, le munizioni le avevano quasi finite, i caccia tedeschi non si alzavano, noi si sperava che a quel punto i tedeschi chiedessero la resa. Niente: la guerra continuava, ma la speranza nostra era sempre la solita: “Forza ragazzi, presto finirà!”. Passò un po’ di tempo: era una bella giornata serena, era d’estate, noi avevamo lavorato di notte, eravamo a dormire in mezzo a quell’isoletta, suona l’allarme, arrivano gli aerei, cominciano le bombe e noi via di corsa si scese e si entrò in uno scantinato. Lì ci siamo stati 3/4 ore; insieme a noi c’erano anche dei soldati tedeschi, andò via la corrente, le bombe ci cascavano a grappoli. In quella cantina fra gli scoppi delle bombe e lo spostamento dell’aria, ci sbalzavano da una parte all’altra. Siamo stati lì sotto 3/4 ore, gli aerei venivano in formazione cento o duecento per volta e sganciavano bombe: dietro di loro c’erano altre squadriglie, una dietro l’altra, e durò tutto quel tempo. Quando suonò la sirena del cessato allarme, noi non si sapeva più se eravamo vivi o morti, quando poi si vide che eravamo ancora vivi si sortì di dentro, si vide tutte macerie e fumo, “bruciava tutta Berlino”; il sole che c’era prima era sparito, lo aveva coperto la polvere e il fumo; questo buio durò anche il giorno dopo: queste sono le guerre! “Distruzione, sacrificio e morte”. Anche il magazzino dove si dormiva era in briciole; la notte si passò alla peggio in quella isoletta, però ci aspettava una bella mangiata: si vide a riva del laghetto arrivare dei pesci, erano pesci morti per le bombe che erano cascate nell’acqua. Si accese il fuoco, si misero in un secchio, si fecero lessi; però in compenso si fece una bella mangiata, che ci fece dimenticare anche il patire che avevamo provato in quelle 3/4 ore. Noi si parlava fra noi, si diceva:”Ragazzi, non ci perdiamo d’animo, la resa dei Tedeschi arriverà presto; hanno distrutto tutto, vedrete che sarà questione di gior3 Il fiume Havel.

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Volume quarto ni”. La speranza non bisognava perderla, ma i giorni passavano e la guerra continuava. Ripeto: noi si lavorava 11 ore quando si era di giorno e 13 ore quando eravamo di notte. I nazisti diventavano sempre più cattivi. I controlli nella fabbrica, mentre si lavorava, erano sempre più frequenti; di sottocchio si vedeva il passo cadenzato, la rivoltella, il nerbo, che se ci avessero visto guardarli, il minimo era il nerbo: bisognava lavorare, lavorare, lavorare! L’estate era finita, cominciava l’autunno del 1944 e la guerra e i bombardamenti continuavano di giorno e di notte, non potevamo mai dormire. La fame, il lavoro, i bombardamenti: tutto questo a volte ci faceva perdere la speranza, ma bisognava riflettere e bisognava tenere duro. Ma i mesi passavano e la guerra non finiva! Una notte, mentre ero a lavorare al tornio, il sonno che avevo mi faceva chiudere gli occhi senza che io me ne accorgessi; un truciolo mi prese un dito e mi stritolò l’unghia: ancora ho il segno. Il mio capo mi portò da un dottore che era a dormire in una stanza sempre dentro la fabbrica; questo dottore, quando il mio capo gli disse che ero italiano, non si voleva alzare; il mio capo era bravo: cominciò a chiacchierare arrabbiato e finalmente il dottore si alzò, mi guardò il dito, mi ci buttò dentro un po’ di spirito e mi disse: “Domani vai dal dottore del campo”. “Era il dicembre del 1944”. La mattina dopo andai dal dottore del campo che mi finì di levare l’unghia, me lo medicò e mi diede dei giorni di riposo in campo; era un dottore italiano prigioniero come ero io, fu bravo, per me fu una fortuna, almeno potevo dormire. E arrivò un altro Natale: “1944”. Intanto da dove si dormiva nel magazzino dell’isolotto ci avevano trasferito in un altro campo, era il quarto lì a Spandau, più due di prima e siamo a sei: sembrerà una novella, ma è la verità. Il lavoro, la fame e i bombardamenti, i Tedeschi, le SS “maledetti nazisti”. Quando la domenica ci portavano a levare le macerie che erano cadute nelle strade e nelle piazze, noi con una pala in mano, e loro a guardarci e sempre urlavano “Arbeit, Arbeit!, schnell, schnell!”. Ci si fermava solo se le sirene suonavano l’allarme. Febbraio 1945. Mentre la nostra vita non cambiava per niente, si vide però qualcosa di nuovo. Si vedeva che i Tedeschi nelle strade di Berlino mettevano i tram che erano stati bruciati dai bombardamenti di traverso alle strade e li riempivano di calcinacci, lasciavano solo il passo dai marciapiedi. Poi non bastavano: tagliavano anche le strade con buche profonde: noi li per lì non ci si raccapezzava che cosa potesse succedere. Ma subito si trovò la soluzione che a noi ci ritornò la forza e la speranza. Perché la nostra so47


Ultime Voci luzione era quella giusta. Era fortificazione della città di Berlino. Voleva dire che i Russi avanzavano e per noi era una grande gioia, ma non bisognava dimostrarla ai Tedeschi; dovevamo sempre subire, lavorare come se non fosse niente, ma vedevamo i Tedeschi sempre più parlare tra loro. Si capì che loro avevano tanta paura dei Russi, perché sapevano quello che avevano fatto a loro. “Erano i primi di aprile del 1945” e in lontananza si cominciava a sentirei rombi di camion, poi ogni giorno che passava si sentivano sempre più vicini. Ma i Tedeschi non si arrendevano. Si vedeva tornare dal fronte soldati feriti in tutte le maniere, ma la Germania non si arrendeva! Era circa il 20 aprile del 1945. Si vedevano i civili, donne e bambini che caricavano camion e barrocci di un po’ di roba che avevano in casa e scappavano. Arriva il 22 aprile. La vera guerra era arrivata e sembrava il finimondo. Ci si riunì in otto amici e si disse: “Scappiamo anche noi”. Ma era una decisione che non si sapeva se era quella giusta. Un mio caro amico di Bolzano che parlava il tedesco, rimase lì a Berlino, perché aveva un’amica tedesca che lavorava con noi; lei lo aveva aiutato nella prigionia e lui l’avrebbe aiutata quando sarebbero arrivati i Russi. Mi regalò un paio di pantaloni, che erano fatti con un pagliericcio. Io lo ringrazia, lo salutai e con i miei amici si partì. Si prese la direzione dove andavano gli sfollati tedeschi; dopo 4/5 ore di cammino si trovò un boschetto e si decise di passare la notte lì dentro e si fece una buca per rimpiattarsi dentro. Avanti di entrare in buca per dormire, si disse: “Fumiamo una sigaretta!”. Si accese un fiammifero e si sentì una sventagliata di cartuccia che ci fece buttare dentro senza risortire fino alla mattina. Il fronte era calmo in quel punto dove eravamo noi. La mattina si decise di ripartire; appena si sortì dal bosco un aereo russo ci girava sopra di noi, forse ci vide che eravamo prigionieri “dagli stracci che avevamo addosso”. Lo capì e ci fece andare via; per la strada trovai delle scarpe tedesche che erano due sinistre; le presi e me le infilai; erano grandi, ma camminavo abbastanza bene, meglio che gli zoccoli. Si camminava insieme agli sfollati per tutto il giorno; quando si arrivò vicini a un paesino si trovò una colonna di Tedeschi e subito gli aerei russi arrivarono a mitragliare: noi per fortuna si rimase tutti otto vivi. Per la strada si trovavano morti coperti con una coperta sul ciglio della strada, poi si trovò un cavallo morto dai mitragliamenti; se ne staccò un pezzo e in un casolare abbandonato si mise in un secchio e si bollì: fu la prima carne che si mangiava dopo quasi due anni, era la sera del 23/24 aprile. Dormimmo in quel casolare abbandonato. La mattina si ripartì: per la strada c’era abbastanza calma e via via si 48


Volume quarto trovava sempre più calma. Si arrivò in un paesino: sembrava che la guerra non esistesse più; ci si fermò da un contadino, gli si chiese se ci faceva dormire e ci disse a malincuore di sì per una notte in una capanna dove c’era la paglia per le mucche. La mattina del 25 aprile delle donne di casa ci portarono un po’ di latte e un po’ di pane. Questo contadino ci fece rimanere lì il 26 e il 27; il 28 mattina ci disse che bisognava abbandonare la casa perché aveva paura delle SS; se fosse stato scoperto che lui ci ospitava, passava dei guai. Noi si ringraziò e si partì: sapevamo che a circa una quarantina di chilometri c’era il fronte americano; noi si camminava per tutto il giorno; si arrivò in una cittadina, si dormì in una stalla dove c’era stata la cavalleria tedesca. La mattina del 28 (?) si ripartì: eravamo stanchi e a mezzogiorno ci si fermò, per bollire delle patate che s’erano trovate per la strada, si mangiò e poi si trovò un mulino a vento: si dormì lì e la mattina del 29 aprile si ripartì.La sera eravamo a due chilometri dal fiume Elba: due persone ci dissero che un po’ più avanti c’era un posto di blocco tedesco che non faceva passare nessuno. Era quasi notte e allora ci si fermò per dormire. A quel punto si era quasi convinti che la nostra prigionia era veramente finita. La mattina del 1° maggio eravamo sempre nel territorio tedesco. Il fiume Elba era a due chilometri, il posto di blocco tedesco c’era ancora. Ma la nostra decisione era quella di andare avanti; il desiderio di essere liberi, dopo tante ingiustizie, era troppo forte. Arrivammo al blocco: c’erano solo 5 o 6 Tedeschi; ci fermarono e in tedesco ci dissero di tornare indietro: “Italienisch zuruck”. Noi non ci arrendevamo, e con un po’ di tedesco che sapevamo parlare dissi loro che si veniva da Berlino e che avevamo fatto 200 chilometri per arrivare lì. Un Tedesco, “forse era il capo”, disse ai suoi compagni: “Hanno una mamma anche loro, falli passare!”. Dopo poche centinaia di metri arrivammo sul fiume Elba. Lì ci si trovò diverse persone, prigionieri come noi: Russi, Polacchi, Francesi e anche civili tedeschi che volevano attraversare il fiume, perché dall’altra parte del fiume c’erano gli Americani. Lì la guerra era finita: non combatteva più nessuno. Era stato fatto un patto dei Quattro Grandi (Russia, America, Inghilterra e Francia): gli Americani si dovevano fermare sull’Elba, l’occupazione di Berlino era compito dei Russi 44. Noi eravamo sempre sulla riva del fiume, dall’altra parte c’erano gli Americani, “c’era la libertà”. Con degli stracci legati ad un bastone gli si faceva cenno di venire a salvarci. Passarono 3 o 4 ore , quando si vide dall’altra parte del fiume gli Americani che salivano 4 Conferenza di Yalta del febbraio 1945.

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Ultime Voci sopra un barcone, lo misero in moto e si dirigevano verso di noi. Fu un urlo di gioia: “la prigionia per noi era finita”. Ma successe un piccolo incidente: prendevano solo chi aveva il piastrino con il numero di matricola. Io il piastrino non lo avevo più, me lo aveva preso pochi giorni prima che si partisse da Berlino una guardia tedesca, perché mi sorprese a prendere bucce di patate. Dovevo andare in un campo di punizione, per un po’ di bucce di patate: meno male arrivarono i Russi e noi si scappò. L’incidente si rimediò facilmente: il mio amico Gelsumini salì sulla barca, si levò dal collo il suo e nella confusione me lo buttò. La barca partì, li scaricò e tornò da noi: feci capire all’americano che lo avevo ritrovato e mi fece salire. Dopo tante sofferenze, eravamo salvi. Il piastrino che ho non è quello autentico, perché me lo rifece uguale un mio amico di Lucca quando fummo liberati. Era il 1° maggio 1945: quel giorno è un giorno che io non me lo sono mai dimenticato. E’ una doppia festa, ma quella della liberazione contò più di tutte. Saranno state le 4 o le 5, gli Americani ci fanno salire sopra a dei camion, ci portano a una stazione ferroviaria e lì aspettiamo un treno. Eravamo sempre digiuni, ma non si sentì più nemmeno la fame. Dopo un paio d’ore che eravamo alla stazione, arriva un treno, si sale e ci portano in una caserma che era dei tedeschi: ci sembrava di sognare; ci diedero un tegamino, ci versarono del riso a brodo e dopo, un pezzetto di pollo lesso: per noi fu una buona cena. La libertà è una delle cose più belle del mondo, io che ho conosciuto anche la dittatura vi dico: “Amate la libertà”. In quei mesi di attesa per tornare in Italia non si faceva niente. La mattina una piccola colazione , a mezzogiorno un mangiarino leggero, la sera un brodo con un pezzetto di pollo lesso; per la fame arretrata che avevamo il mangiare era poco. Il perché si seppe qualche giorno dopo; ci dissero: “Il vostro stomaco è piccolo e allora bisogna mangiare poco alla volta per farsi ritornare lo stomaco a posto”. La decisione che noi e amici si venne via da Berlino fu quella giusta. A Berlino si combatteva ancora una guerra micidiale casa per casa, passo per passo e i Tedeschi non si arrendevano ancora. Finalmente un capitano americano, la mattina dell’otto maggio ci raduna tutti insieme e ci fa il solenne annuncio: “La guerra è finita”. Per noi la guerra era finita il 1° maggio, ma per quelli che erano rimasti là era finita la notte del 7/8 maggio e chi sa quanti ne saranno tornati vivi? Il capitano americano continuò il discorso e ci disse: “Io ho visto Berlino, nessun uragano, nessun terremoto poteva distruggere Berlino 50


Volume quarto in quella maniera”. Noi non gli si disse niente, ma sapevamo prima di lui le bombe che ci avevano buttato i suoi colleghi. Noi dove eravamo, con gli Americani, si stava molto bene: allora dalla speranza che avevamo prima del 1° maggio di “essere ancora vivi”, si aveva la nostalgia di tornare a casa per rivedere le nostre famiglie, la nostra Italia. Si passò un mese con gli Americani; noi ci si rivolse a un Americano e gli si chiese quando ci avrebbero portato via, lui ci rispose quando le ferrovie sarebbero state riattivate. E lì si passò ancora due mesi; erano i primi di agosto, quando una mattina arrivarono dei camion e ci portarono alla stazione: si sale sul treno, era sempre una tradotta. Il treno parte con destinazione Italia. Finalmente il giorno di venire a casa arrivò, il treno andava piano, causa la ferrovia disastrata. Lungo il viaggio ad una stazione trovammo due ragazzine che chiesero se si potevano far salire con noi, volevano venire in Italia e ci dissero che i loro genitori erano morti. Ci fecero compassione e dopo una riunione dei miei amici del nostro vagone si fece l’accordo che non si dovevano toccare. Anche se erano due anni che noi non avevamo avuto un contatto con una donna, aveva 22 o 23 anni, ci fecero compassione. Il treno arrivò in Austria, si fermò e ci fecero scendere, ci portarono in un capannone e lì facevano una disinfestazione da capo ai piedi. Eravamo vicinissimi al Brennero, la nostalgia di entrare in Italia aumentava sempre di più. Il giorno dopo risalimmo sul solito treno: finalmente arrivammo al Brennero, si fecero scendere le ragazzine e dopo un po’ si arrivò a Bolzano. La stazione era piena di familiari che domandavano se si erano visti i loro figli che erano prigionieri come me. (…) Io ero un grande amico e gli comunicai che era vivo: era quello che rimase a Berlino, quello che mi regalò i pantaloni. Il treno ripartì e si fermò a Verona: ci si fermò per una notte e lì ci diedero 70 lire per uno: dopo tanto tempo si poté andare a una bancarella a bere con i nostri soldi. La mattina dopo il treno ripartì: alle piccole stazioni c’erano delle donne con dei panieri e dentro c’erano dei panini con del salame, che ci aspettavano per darcene uno per uno. Erano madri che sapevano quello che avevamo passato. Dopo un po’ il treno arrivò a Bologna e si fermò. Il capostazione ci disse che quel treno non veniva a Prato, ma andava dalla parte dell’Adriatico. Si scese e si aspettò un altro treno che passava da Prato. Mentre si aspettava io andai dietro un mucchio di macerie, presi i pantaloni che mi aveva dato il mio amico, buttai via quelli stracci che avevo e mi infilai quelli del pagliericcio. Io pensavo che quando arrivava un treno si facesse presto ad arrivare a Prato, ci si mettesse poco più di un’ora, ma invece fu di più. Dopo due ore che aspettavamo a Bologna,arrivò il treno merci carico di legname; 51


Ultime Voci si pregò il macchinista di farci salire sopra le tavole; lui ci pregò di stare a giacere perché sopra c’era la corrente e così si fece. Erano le ore sei, il treno partì. Sopra questo vagone c’era anche un pratese civile, che abitava vicino a me sulla via Montalese. Io avevo un pensiero nella mia mente: i miei, la mia mamma, la mia sorella Iole: “Sarà successo nulla? Ce li ritroverò? Anche qui è passata la guerra” era troppo che non ci vedevamo o sentito. In tutta la prigionia c’eravamo sentiti una sola volta nel 1944. Mi feci forza e chiesi a questo conoscente di via Montalese, qui eravamo sempre sul treno sopra le tavole: “E’ successo nulla ai miei familiari?”. Un po’ rifletté per capire chi potessero essere, dopo un po’ mi disse di no; quel no fu una liberazione di tutto quel pensiero che avevo chiuso nel mio cervello. Finalmente arrivammo a Prato: erano le due di notte, 8 ore per arrivare a Prato. Si scese dal treno, la stazione era stata bombardata, lui ci fece strada per uscire e ci si incamminò per venire a casa. Gelsumini, salutandoci, prese la strada per Galciana e noi si continuò per la nostra. Era di notte, era ancora buio; io pregai il mio compagno di strada di andare avanti lui e di avvertirli. Gli disse che aveva sentito delle voci che io ero per tornare. In quel momento io ero un po’ distante, sentii scendere le scale… Chiudo, non ce la fo a raccontarlo! Ho lasciato tante cose importanti, scrivendo pensavo a una cosa e me ne dimenticavo un’altra. Quegli anni sono stati duri. Le guerre non ci vorrebbero mai. Lottate voi giovani e difendete la Repubblica e la Libertà! Intanto quello che mi sono dimenticato lo troverete sulla storia e sui documentari. Un caro abbraccio a tutti voi fratelli. Vostro nonno Lastrucci Artemio Non dimenticate mai le brutalità che avevano le SS. Non odiate, ma non dimenticate. Questo racconto lo dedico al mio nipote, che giudichi lui stesso che cosa è stata la prigionia.

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Volume quarto ANNO 2000 Mio nipote ha letto un libro e ha trovato su una cartina il campo dove ci portarono la prima volta; è in vetta alla Germania e il mio piastrino corrisponde a quel campo: STALAG – 1B Hohenstein 55, il mio numero è 15663. 27/1/2001 – Oggi mio nipote mi ha portato a quella cerimonia a Prato al cinema Eden. Stamattina mi sentivo male, ma ce l’ho fatta. Sono stato molto contento di sentire da quelli che hanno parlato, che dopo tanti anni hanno ricordato i prigionieri di guerra che non avrebbero dovuto lavorare dopo la guerra e invece ci hanno fatto lavorare come schiavi. Maggio 2001 – Sono passati 56 anni, la vecchiaia si fa sentire, come si sa per me è doppia festa. Io non l’ho potuta festeggiare: sono malato, ho passato tutto il giorno in casa a ricordarmi minuto per minuto quel giorno della mia liberazione, il primo maggio. Siamo alla fine del 2001: mi viene in mente un altro piccolo episodio. Il primo mese di lavoro una domenica ci portarono a lavare e a caricare e scaricare vagoni; si finì il lavoro troppo presto, così la guardia tedesca, per non vederci senza far nulla, ci fece prendere dei tavoloni da una parte e ce li fece portare da un’altra parte. Noi pensavamo di avere finito. La guardia cominciò a sbraitare in tedesco, urlava e non si capiva niente; io gli dicevo di non capire e lui mi picchiò sul viso, il sangue veniva fuori dal naso; in quel momento arrivò l’interprete e ci fece capire che bisognava riprendere i tavoloni e riportarli dove prima. I primi giorni non si capiva il tedesco: per terra c’era la neve, il mio sangue macchiò tutto il viottolo; quella guardia tedesca era un vecchio e lo avrei ammazzato con un cazzotto, ma bisognava subire con tanta rabbia. Ora parlo un po’ del mio amico Gelsumini di Galciana. Ci volevamo veramente bene, lui da civile faceva il barbiere e aveva gli arnesi per fare i capelli. Il nostro capo tedesco seppe che Gelsumini faceva il barbiere; un giorno gli chiese se gli faceva i capelli nel tempo di pausa di mezzogiorno, in cambio di un pezzo di pane. Dopo il nostro capo tedesco, vennero altri due tedeschi, sempre per un pezzo di pane. Quel pane era metà anche mio: “Ci volevamo tanto bene!”. 5 Quasi sicuramente la regione dello Schleswig-Holstein, al confine con la Danimarca.

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Ultime Voci Amor Lulli

Amor Lulli era un soldato del 127° Reggimento di Fanteria – 10 Compagnia, partito da Prato per la Prima Guerra Mondiale il 24 Maggio 1915. Era un giovane padre di famiglia che lasciava una moglie amata e due bambine piccole. Fu stanziato a Plava, lungo il corso del fiume Isonzo, dove partecipò soltanto alle prime due battaglie (23 Giugno-7 Luglio, 18 Luglio-3 Agosto). Per meritarsi una breve licenza Amor si offrì volontario per una missione speciale durante la quale fu gravemente ferito: ricoverato all’Ospedale Militare di Treviglio (Bergamo) morì il 6 Settembre 1915 a 24 anni. Quelle che seguono sono le lettere che il soldato Amor Lulli scrisse alla moglie dal fronte durante la Prima Guerra Mondiale. Le lettere sono state portate all’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci dal sig. Roberto Mucci affinché avessero una maggiore diffusione. Le lettere descrivono episodi della Prima Guerra Mondiale, e quindi si discostano dall’ambito cronologico caratteristico della nostra raccolta di testimonianze, e cioè la Seconda Guerra Mondiale; tuttavia abbiamo ritenuto opportuno includerle in questo numero delle Ultime Voci perché il volume esce nel 2011, anno in cui si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

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Volume quarto Il 27 Maggio 1915 Cara Moglie mia Vengo con questa mia letea per farti sapere che io sto molto bene come pure spero che sia di te e delle mie bimbe che tanto bramo di sapere come stanno di salute. Senti Ottavina mia detto il mio Capitano che tu vada subito dal sindaco per farti dare i soldi che teglidevonodare subito. Mi fai il piacer di fare avvertire il mio padrone che il mio indirizzo è questo, Al Soldato Amor Lulli 127 Regg. Fant. 10 Comp. Basta quelle parole per fare il mio indirizzo. Non mettere il bollo alla lettera, io ti faccio sapere che noi non possiamo dire niente dove ci si trova perche i nostri superiori non vogliono far sapere niente. Non mi resta che salutare te elle mie bimbe Ricevi un Bacio dal tuo affe. Amor Lulli Senti Ottavina io starò un poco senza scrivere perché non so dove si va perché si sta un giorno qui e un giorno la e per questo non posso scrivere. Matte puoi scrivere quando credi perche le lettere vengono sempre. Lindirizzo farlo come tiò fatto in prima pagina guarda di farlo compagno a quello. Bacia le bambine addio a presto

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Ultime Voci Il 1 Giugno 1915 Mia Cara Moglie Ti scrivo questa lettera per farti sapere che io di salute sto bene e spero chel simile sia di te e delle mie bimbe. Senti mia cara Ottavina siamo entrati in territorio Austriaco per 24 chilometri e dal momento che io a rivai quassu che savanza tutti i giorni senza trovare nessuno perche noi del 127 siamo di seconda linea e per questo non sé scaricato il fucile. Affare la prima linea c’è la 84 Fanteria e la 83 Fanti e il primo e secondo Regg. Artiglieria da Campagna che si avanzano sempre più verso Trieste che non troviamo quasi questo contatto perche siamo tanti soldati di tante armi e per questo noi perora siamo liberi dal fuoco. In prima linea ci deve essere Antonio e Alfredo che loro sono al fuoco nemico e noi siamo lì distanti a Chilometri dal fuoco nemico. Mi fai il piacere di salutare la mia famiglia che mi pare mille anni di non avere veduto nessuno di tutti voi. Non mi resta che salutare te e le mie bimbe che tanto bramo di vedere anche in fotografia per avere sempre comme le mie figlie che giorno e notte penso sempre alloro che sono del mio sangue. Ottavina ti prego di volergli sempre bene che io quando sonosolo ci penso sempre perdona gli sbagli perche o scritto sopra a una fossetta qui dove sono a campato nel territorio nemico. Ricevi i più cari saluti dal tuo marito Amor Saluta tutti che domanda di me e tanti saluti alla famiglia Canovai e quel giovane che sta dall’Irma che non ricordo il nome. Saluta la tua famiglia e Gina e la Fidelina e la famiglia Brunetti e la famiglia Gobbi e dirgli a Onesto che faccia tanti saluti a Egidio e al mio patrone e dirgli se mi pole fare tornare a casa per venire a trovarti per darti un Bacio. A Dio stai bene e dai un Bacio alle mie figlie da parte mia e stringile al seno e ripetigli un secondo Bacio. Saluti a tutto il paese di S. Lucia e alla famiglia della Marianna. Amor Lulli

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Volume quarto Lettera senza data (prima decade di giugno1915), parzialmente leggibile, portata a mano da un soldato di Figline in licenza. Cara Moglie, Ti faccio sapere che io sono molto di spiacente di non avere ricevuto niente. Nella lettera che o ricevuto Donatello mia detto che tu non ai ricevuto niente e io ò pensato di scriverti questa lettera per dirti che io tio scritto la lettera e una cartolina e per questo io sto in pensiero che tutti voialtri state male Senti Ottavina mi fai il piacere di dire a mio padre di dire che avevo a lui già scritto la lettera e anche da lui non o ricevuto niente. Per farti ricevere questa lettera ò pensato di mandarla per uno che torna a casa che è di Figline. Non mi resta che salutarti te elle mie bimbe e tutti di casa. Saluti tutta la famiglia e alla famiglia Canovai e a quel giovane che va da Lirma. Ti saluto tuo aff.mo Marito Lulli Amor Lindirizzo farlo così al Soldato Amor Lulli al 127 Regg. Fanti 10 Comp. Basta così perche i nostri superiori non vogliono far sapere dove ci si trova. Saluto tutti i miei amici e chi domanda di me. A Dio stai bene e dai un bacio alle bambine da parte mia e stringile al seno. Amor

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Ultime Voci Il 18 Giugno 1915 Mia cara Ottavina Io vengo con questa mia per farti sapere che io mi trovo in perfetta salute come pure spero che sarà di te e delle mie bambine. Di nuovo tiripeto quando mi scrivi mandami della carta per scrivere perché quassu non senetrova per niente per questo tiò scritto questo foglio solamente. Senti Ottavina non so se ai ricevuto quella lettera che tiò mandato per quello di Figline che torna a casa che ti mandai a dire che tu mimandassi della carta per scrivere senno io non posso più scriverti. Per scriverti queste due righe meladato questo foglio il mio tenente senno non riavrei scritto ne pure. Ti ripeto di scrivermi più presto che puoi perche io tiò scritto tante volte e delle tue lettere neo ricevute 4 solamente. Tu non sai che quando arriva la posta e io non ciò niente ci trovo dolore quanto tirarmi una stilettata nel cuore perche ne le sere lontani così io prenderei notizie di te e delle mie bambine che tanto mi stanno sul cuore ed è tanto che io non leò viste non vedo il momento di rivedere loro e te. Ottavina mi raccomando vogli li bene e sopporta se ti fanno un poco confondere perche siamo stati tutti piccoli e per questo sopporta più che puoi. Non puoi credere quanto sono rimasto contento quando ricevei quella cartolina che in fondo a quella ci trovai scritto che la Lina chiamava il babbo. Se io avro la fortuna di tornare a casa trovero anche ilmio secondo genito che verra a rincontrarmi alla stazione. Ottavina quando io ricevo tue notizie dalla grande contentezza non mangio ne pure e se io non ricevo niente non c’è terreno che mi regga perche sto troppo male. Non so neppure come fai col mangiare non so da chi vai a servirti di spesa per mangiare ma forse vai sempre dal Gino a servirti. Comunque fammelo sapere che io sappia come fai e se il mio padrone tia dato niente mi fai sapere quanto ti da al giorno. Come ti ripeto Ottavina amme non pensare perche io sto bene e contento e mi fo coraggio piu un giorno delaltro e non mi manca niente perche quello che mi danno mi basta per scampare lapele. Non mi resta he salutarti te elle mie bambine e ricevi un bacio dal tuo per sempre Amor. Dai tanti baci alle bambine e farti coraggio anche te come mi fo io saluta tutti di casa 58


Volume quarto Canovai e la famiglia di Maso e tutti di casa tua e della Marianna farmi sapere della Graziana.

Immagine di soldato della Prima Guerra Mondiale in partenza che saluta la propria moglie.

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Ultime Voci Il 22 Giugno 1915 Mia adorata moglie Ti fo sapere che per i presente mi trovo in perfetta salute come pure spero che sia di te e delle mie bambine e che in vano mi pare di vederle e che ogni momento vorrei vedere loro e te che non mi riesce di vivere così lontano da tutti voi. Senti Ottavina ma non so comemai non mi scrivi più spesso perché mi pare di averti a vertito con quelle lettere che tiò mandato che quando non ricevo posta sto male e non posso più stare tranquillo che quando io vedo tutti che ricevono notizie da casa sua io prenderei una coltellata nel quore. Io vedi che quando posso scriverti ingegno per non farti star male te e tutti di casa. Non posso più scriverti più per momento perche ciò da andare in trincea ed il nemico ci fa confondere e non ci fa dormire nel notte nel giorno. Dopo a quelle ragioni cenè ancora un’altra ce quella del cattivo tempo che tutti i giorni piove e bisogna dormire nel fango che io non so comemmai non mi viene i dolori per poter stare un poco a l’Ospedale e potrei tornare un poco in convalescenza per stare quarche mese assieme con te e alle mie bambine. Ottà fà il piacere di salutare tutti di casa mia e di casa tua e più a Gina e Guido e alla famiglia Canovai e quella di Maso e di Stefano e di Brunetto e di Alamanno e di fare tanti saluti alla Teresina e alla Marianna e farmi sapere dove si trova Graziano e Renato Calamai e dirmi se anno richiamati altri di S. Lucia e se anno richiamato Fortunato di Cellino sieno fai tanti saluti alla famiglia Berretti e di tuo zio Pasquale e alla famiglia di Boccheri e più tegli mando a te uniti con mille Bacia te e alle mie bambine. Saluto la mi sorella Attilia al suo figlio adio stai bene stringile forte al seno le mia Bambine. Tuo aff.mo marito Amor Lulli Scusa agli sbagli

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Volume quarto Il 25 Giugno 1915 Con molto piacere o ricevuto tue notizie come sento che sono buone di te e delle mie bambine. Ma se io Ottavina avessi questa fortuna di tornare a casa per 2 o 3 mesi mi parrebbe di essere il più signore di questo mondo perche quassu non fa che piovere tutti i giorni che stiamo sempre a dormire nel fango come i maiali non so come fa a convenirmi i dolori che gli piglierei tanto per tornare a casa in convalescenza come e tornato Alfredo di ….. quella per me si chiama fortuna ma vedrai non ci sara niente perche non sono nato a fortunato per avere quella o quelaltra fortuna masperia che uno di due mi venga per torna a casa che io non vedo il momento di tornare nelle tue braccia a goderti te e vedere le mie bambine che mi pare mille anni di essere venuto via di casa. In riguardo alle Fotografie mi dici che vuoifare una raccomandata ma non importa che tu faccia quella spesa che ai detto tanto ci mettono il listesso tempo che mandare una lettera normale perche non e in tempo di pace che facendo quello che ai detto sarebbe meglio per farlo arrivare prima. Mi fai il piacere di dire al mio padrone che io glio già scritto quattro volte e non o mai ricevuto risposta non so comemmai sono andate sperse tutte così ma forse che lavra strappate la censura che sta a Bologna invece di farle proseguire per suo viaggio e per questo che lui non a mai ricevute io mi sono messo una idea che loro che sono alla censura perche cera che io mi raccomandavo che lui mi facesse tornare a casa e per questo io dico che non lanno fatte proseguire. Ottavina scrivimi più spesso che prima perche senno sto troppo mal contento senza ricevere notizie da te e dalla mia famiglia che anche loro non mi scrivono quasi mai. Non mi resta che salutarti di vero amore te elle mie adorate bambine e più ricevi tanti baci dal tuo per sempre unito. Amor Lulli Saluta tutti di casa tua e di casa mia e tutti quelli che domandano di me e più fagli a codeste famiglie del vicinato saluta Gina e la Fidelina e mia sorella Attilia e Guido.

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Ultime Voci Il 29 Giugno 1915 Mia amata moglie Ti fò sapere che io mi trovo in perfetta salute come spero che sia di te e delle mie figlie che tanto mi stanno sul cuore perche non posso satre un minuto senza pensare a loro che mi pare sempre daverle davanti agli occhi. Senti Ottavina io sono molto contento che perora io sono sano perche accanto a me ci fu 4 morti e 12 feriti il giorno 27 Giugno mentre si stava nelle trincè arrivo un strappel e levo lavita a questi poveri fratelli darmi. Credilo Ottavina io sono perora a fortunato perche dovevo morire il giorno 28 Giugno mi scoppio una granata davanti amme che un pezzo di questa mi casco davanti a 2 metri Ottavina o speranza di tornare perche non so morto ora non muoio più. Ora dopo un mese di fatiche di Guerra cianno fatto tornare a dietro per potere riposare un poco perche siamo stanchi e sporchi che in questo riposo ci dobbiamo ripulire e a comodare un poco la roba che c’è bisogno. Non so se costi c’è cattivo tempo qua dove mi trovo e più di dieci giorni che si dorme nel fango sempre sotto la pioggia che siamo sempre come i pesci che stanno nel mare. Ma si vede che io devo stare sempre sano che anche tu sai bene che io mi faceva male stare nellumido ai dolori che mi tormentono altro che quando sono a casa perche io però al lavoro con tutto questo umido che noi sià stati e stiamo ancora non sono ne pure infreddato. Alla vita che noi sifa qua in guerra si facesse a casa sarei siguro che non si camperebbe ne pure un mese. Senti Ottavina mi fai il piacere di farmi un pacchetto di 300 Grammi di cioccolato per mangiare col pane non farlo più grande he di quello che tiò detto perche senno non viene questo pacchetto fammelo subito perche ora sista un poco in riposo ed io posso mangiare in pace. Non mi resta che salutarti te elle mie bambine e dagli una dozzina di baci per farle stare a legre e contente saluta la Famiglia di Maso e della Canovai e tutte quelle del vicinato e tutti i miei amici a tutti quelli che domandano di me tuo per tutta la vita Amor

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Volume quarto Il 2 Luglio 1915 Mia adorata Ottavina Ti scrivo questa lettera per farti in palese del mio stato di salute che per il presente è molto buono come pure voglio sperare che sia di te e delle mie amate creature che mai si scostano dalla mia mente. Mia amata a pena sono sortito dalla messa che fanno due volte alla settimana che qui c’è un prete ogni Reggimento per dire messa e per comunicare se uno fosse in punto di morte se vedessi quanti si va ad asistere alle funzioni mi pare di andare la domenica dal nostro priore Canovai. Non so come mai non miai mandato a dire quello che il mio padrone quel risultato de l’avvocato Perini che certamente sara tornato da Roma. Mia cara io sto pensando notte e giorno a questo per vedere se io posso tornare a casa per potere stare un poco asieme conte e alle mie figlie adorate che io non vedo il giorno di poter tornare e sortire di qua a questo territorio che notte e giorno non ce modo ne di dormire ne riposare che dopo che noi siamo stati in trincea savrebbe bisogno di dormire per potere ritorna in combattimento che invece di essere riposati siamo più stanchi che quando si va per riposare. Mi fai il piacere di domandare a Modesto se lui a ricevuto la lettera che glio mandato se lui ti dice di si gli devi dire che mi risponda subito puoi sentire se lui a capito tutto quello che voglio. Guarda se puoi andare da la mamma di Renato e farti dare il suo indirizzo che io non so il suo indirizzo e fargli tanti saluti da parte mia. Con questo cesso di scriverti ti saluto te elle mie bambine e più ricevi tanti baci te elle mie figlie tanti saluti alla mia famiglia uniti alla tua altrettanti fargli a Gino e di Guido che non miai mandato a dir niente di Gino Salimbeni dove si trova non so come mai anche lui non mi abbia mai scritto ma forse sé scordato di me ma forse non vuole sapere più niente di me Tuo Amor

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Ultime Voci Il 6 Luglio 1915 Mia cara Ottavina Il giorno 6 o ricevuto tua lettera el solito momento tio subito risposto perche era stato qualche giorno che io non ti avevo scritto perche sapevo che tu eri andata a Vernio e non sapevo quando potevi ritornare e per questo sono stato un poco senza scriverti perche io non ero sicuro che tu fossi sempre a Vernio. Ora Ottavina mi fai sapere che sei tornata e io tio subito risposto per non farti sta male perche non mi piace sta male ne pure farti stare male te mi piace quando ricevo posta sto molto contento che non ce cosa che mi faccia sta contento come quando so tue notizie e delle mie bambine che la notte e il giorno sto pensando a tutti voi sto sempre vagellando nel pensare a te e alle mie bambine. Credilo Ottavina che io non sto un momento senza pensare a voi di cose e fra me dico dove saranno le mie bambine dove sara la mia sposa ma cosa diranno ma penseranno a me che io sono tanto lontano dal loro cuore e io sono ad afrontare la morte che mi circonda notte e giorno ma col mio coraggio ellamia forza sapro affrontare questo pericolo di morte. Io sai mi fo tanto coraggio e vo sempre avanti per uccidere il nostro nemico ……….. Sai Ottavina mi sono abituato a sentire passare le palle sopra la mia testa che non è più come quando arrivai qui in queste terre riverdenti sevedessi che bei posti che sono questi si mangia tante patate che sai bene che quassu ci fanno molte perche siamo in terre straniere sie mangiato tante ciliegie che ci sono campi interi e poi ce tante susine ma queste sono ancora acerbe ci sono tanti peri che si mangiano mezzi acerbi. Senti Ottavina non so sella zia Ersilia arricevuto quella lettera che gli mandai il 16 del mese scorso non mia risposto ma forse tia detto qualche cosa lei di quella lettera . Oggio scritto al mio zio Dante e al zio Albino ma per ora non o avuto risposta. Senti Ottavina mi pare di averti fatto o vertito altre volte che quando mi scrivi non mettere il bollo alle lettere quello che si mette per mandarlo a me lo devi mette in busta per non pagare a quelle lettere che ti mando io perche io non pago anche senon ci metto il bollo. Non mi resta che salutarti di vero amore te elle mie bambine e più a tutti quegli di casa mia e quegli di casa tua e tutte le famiglie del vicinato e alla Giovanna che di lei miero scordato e chiedigli scusa 64


Volume quarto da parte mia. Saluta tutti i miei amici e quegli che chiedono di me Tuo Amor

Busta da lettera con l’indicazione dell’indirizzo della destinataria Ottavia Lulli scritto da Amor Lulli.

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Ultime Voci Il 7 luglio 1915 Mia cara sposa Vengo con questa mia per farti sapere lo stato di mia salute che per il presente e buono e voglio sperare che sia di te e delle mie figlioline che non posso stare senza rammentarle anche quando sono in combattimento che non si potrebbe pensare altro che dove siamo. Ma credi Ottavina che io ti parlo col cuore e non colla lingua anche quando sono accombattere penso sempre a te e alle mie bambine. Se tu credi Ottavina io non ero mai stato così come di salute che anche la stagione sia stata molto cattiva per i cattivo tempo del momento che io sono a rivato in zona di guerra e piovono tutti i giorni figurati coi dolori che a me mi tormentono tutti glianni anche ora sono in perfetta salute. Ma non sai sposa mia che e più di un mese che sono qua sempre siè dormito nel fango come i maiali ma credi si sta tanto allegri quando si torna da fare delle ricognizioni e specialmente quando si torna tutti. Ieri sandò a fare unbe bagno nel fiume detto l’Isonzo e a lavare la mia roba che è sette settimane che non ci siamo levati le scarpe di piede se vedessi che l’acqua che ce in quel fiume quel l’acqua viene da l’Alpi belli sono i poggi dell’Alpi che ce sempre la neve che ce un aria buona e fresca sa sempre un apetito che si mangerebbe un ciuco morto di vaiolo. Sai Ottavina io o marcato visita perche non mi basta quello che mi danno mia detto il mio capitano che sì il governo lo faresti fallire ero un poco dimagrito ma ora o avviato a ripiliare ma credi ero molto dimagrito per cagione del male ai denti e poi dopo avere male ai denti andai all’Ospedale e un tenente medico me lo spezzo figurati il patire che io avevo tutto ma ora sono tornato in perfetta salute. In riguardo a Perugio gliò fatto sapere anche al mio padre che lui gli dica che lui a fatto male aspettare a ora a rivolere il denaro poteva aspettare a quando tornavo a casa che iogli davo quello che gli passava la Banca mi parrebbe che gli dovesse tenere più conto aspettare quando torno che ora tu neai bisogno. Ti prego Ottavina non patire ne te ne le mie bambine che quando torno vi trovi in perfetta salute e grassi e freschi come tordi ……………………. ….. Non mi resta che salutarti di vero cuore te elle mie bambine e ricevi tanti di quei Baci e più una stretta di mano il tuo per sempre amato sposo Amor Lulli 66


Volume quarto Saluta tutti di casa mia uniti a quegli di casa tua e più Guido e la Giovanna colla Teresina alla Marianna a famiglia di Maso e delle Canovai Papi Stefano Alemanno e Alfredo di Nunzio e Modesta Diego la Lombardi la Assuntina la famiglia di Pasquale e Corradino e Giuseppe Bernetti e la Giuseppina ………..

Busta da lettera indirizzata ad Amor Lulli con l’indicazione del reparto.

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Ultime Voci Il 8 Luglio 1915 Mia adorata sposa Rispondo alla tua adorata lettera dove sento che di salute stai bene te elle mie bambine il giorno 7 luglio ricevei la fotografia non puoi sapere quanto sono rimasto contento nel vedere come state bene di salute e siete in buono stato. Se tu credi Ottavina che ogni momento tengo sempre per le mani la tua fotografia che tu miai mandato per stare più contento e più tranquillo ma avervi davanti ai miei occhi bene che siete in un pezzo di cartone ma non puoi sapere come e la mia contentezza perche quando sono in trincea ed il nemico non ci fa confondere. Tu mi dici che vuoi sapere dove sono io sono a Plava al di la dell’Isonzo in prima linea che e da 12 di Giugno ma perora sono sano e in buone condizioni a sieme a Donatello che noi ci sivuole bene come fratelli che noi si sta sempre insieme. Mi fai il piacere di dire alla famiglia di Vasco ce io non posso saperlo dove si trova il suo reggimento perche il nostro fronte e tanto grande che noi non si puole sapere in dove e quel reggimento gli devi dire che io mi posso impegnare per sapere dove si trova io anche ora dal mio capitano per sentire se lui lo sa dove si trova e allora io penso a scriverti a te e tu lo dirai alla sua famiglia. Mi dici che io scriva a gli zii di Vernio ma io gli scrissi a tutti e due quando eri a Vernio te e non o avuto risposta e poi scrissi al zio Albino anche lui non mi a risposto ma speriamo che saranno per la strada che mi arrivano per sapere sue notizie. In questo momento che io ti scrivo il comandante del mio reggimento cià dato 2 sigari e 2 pacchetti di tabacco per fumare a pipa e più un pacchetto di sigarette e una scatola di fiammiferi perche noi sie combattuto molto bene e se qasi occupato il Monte Cucco. Oggi assieme alla tua lettera o ricevuto una cartolina dalla Giovanna e una di Anghise e una della mia sorella Angiolina mi ai il piacere di ringraziargli Anghise ella Giovanna e più le mie sorelle Attilia e la Terzilia che loro mi anno mandato due pacchetti fra cioccolata e caramelle e qualche di confetti ringraziate da parte mia. Ricevi i più sinceri saluti dal tuo aff. Amor Saluta tutte le famiglie del vicinato e più alla famiglia Brunetti e Gobbi e tutti i miei amici e tutti quegli che domandano di me Amor 68


Volume quarto

La fotografia, datata Giugno 1915, rappresenta la famiglia di Amor Lulli: la moglie Ottavina di 22 anni e le figlie Ernesta di 3 anni e mezzo e Lina di 6 mesi. Questa fotografia fu ricevuta da Amor il 7 Luglio 1915 ed è citata nelle sue lettere dal fronte dell’8, del 10 e dell’11 Luglio 1915. 69


Ultime Voci Lettera con timbro postale del 9 luglio 1915 Mia cara sposa Ti scrivo queste due righe per farti sapere che io sto molto bene e spero che sara di te e delle mie bambine. Senti Ottavina ti prego a non stare in pensiero se vedessi che per qualche giorno non ricevi mio scritto perche mi anno mandato di pattuglia e di lĂŹ non ce modo di potere scrivere e per questo non stare in pensiero: Non mi resta che salutarti di vero cuore e dare tanti e poi tanti baci alle mie piccine e piĂš ricevigli te dal tuo affezionatissimo Marito Lulli Amor.

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Volume quarto Il 10 Luglio 1915 Rispondo alla tua adorata lettera dove sento che stai bene t elle mie adorate bambine. Non puoi sapere quanto sono contento quando vedo la fotografia che non passa un momento che io non labbia tra le mani non soltanto in vedervi così in cartolina e vedervi così belli grassi e in perfetta salute. Al giorno 9 Luglio ò ricevuto il tuo pacchetto di quale ti mando soldatini che gli dai all’Ernestina e alla Lina per via che si divertino con questi che gli mandai io. Senti Ottavina mi fai il piacere quando mi scrivi di mandarmi dei fogli e delle buste per poterti rispondere se non mi mandi i fogli elle buste non posso risponderti perche non si trovano quassu. Di quelle cartoline mi anno date una e non più invece in questaltri Reggimenti gli passano quattro alla settimana. Quando mi rispondi mandami a dire se paghi la tassa per le lettere che ti mando io se pagassi fammelo sapere subito. Ma quando mi scrivi non mettere il bollo perche noi non si paga anche se lamandata senza bollo ma mi pare di averti fatto avertito ma non so come mai seguitate sempre a mettere il bollo. Mi fai il piacere di dire alla famiglia di Renato Calamai che gli scrissi una lettera a lui e a Domizio e alla famiglia Sarti che ò scritto al suo figlio Golfredo e a Ulisse sarti gli devi dire che a vedere suo figlio e molto difficile perche dove sono io non si trova quel Reggimento e per questo e troppo difficile ora mia da dare risposta il mio capitano che io andai subito per sentire dove si trovava quel Reggimento e mi disse che lui sentiva lo stat Maggiore a lora mi dava risposta io ti scrivevo subito e tu gli fai sapere subito quello che midice. Io Mia cara Ottavina sono in perfetta salute che così non ero mai stato così in riguardo alla salute per la quale spero che sia dite e delle mie bambine che tutti fanno che dire che son di belle bambine che si somigliano proprio da sorelle anche i miei superiori mi dicono che ò una bella famiglia ma proprio belle che parete angeli del paradiso. Ti ringrazio te elle mie sorelle de comprimenti che voi mi avete fatto che io lo ricevuto tanto volentieri. Non mi resta che salutarti di vero cuore te elle mie bambine e altrettanti gli farai a Guido e la Giovanna e a Gino a ………. E Fidelina e la Fortunata e tutti quegli di casa mia e all’Attilia e suoi figli a tutte le famiglie del vicinato e tutto il paese di S. Lucia e più ricevi tanti baci …………………….. Una stretta di mano tuo Amor 71


Ultime Voci

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Volume quarto Il 11 Luglio 1915 Rispondo alla tua adorata lettera dove sento che di salute state tutti bene te elle mie bambine che non mi stanco mai di guardarle le tengo sempre frallemani sia di notte sia di giorno che starei sempre con quel tratto a guardarle. Tu mi dici di non sapere seio o ricevuto tutto quello che mi avete mandato perche tutti i giorni ricevo posta e sono molto contento perche sento che di salute state tutti bene che il simile e di me. Mi fai il piacere di farmi sapere se è a casa anche Tonino perche nona mandato i suoi saluti ma forse me gliai mandati che lui sia sotto le armi se è sempre sotto le armi farmelo sapere e dove si trova. Senti Ottavina mi dici che vuoi fermare il mio padrone per sapere selui puole farmi tornare a casa ma ti prego di non confonderti più perche mi a già detto tutto che ……… perme non a potuto ottenere niente dal comando supremo dell’Esercito. Senti Ottavina ti prego a farti coraggio che io perora sto bene e cisto volentieri e mi fo tanto coraggio per vedere se posso a frontare la morte che posso ritornare fra le tue braccia e delle mie bambine e di tutti di casa mia e di casa tua. Ottavina ogni 12 giorni ci danno il cambio per potere riposarsi un poco e noi dopo 12 giorni senza riposarsi salvo qualche ora per notte mi pare che siabbia bisogno di andare un poco a dietro e sortire dalle trincee per tre o quattro giorni. Ma non sai manno dato la maschera per via del gas asfissiante che tirano gli Austriaci con le bombe ma credi che cianno tutti istruiti per noi soldati per non farci morire e tutti i nostri superiori ci portano in pianta di mano gli si chiede dei sigari e delle sigarette e dei fiammiferi e loro subito mettano la mano in tasca eceglidonano. Da quattro giorni a questa parte mi pare dessere a casa e di andare a fare il bagno alla pescaia perche si sta senza giacca senza camicia e poi si va dentro nel fiume a fare il bagno che ora e cominciato a farsi caldo anche quassù. Con questo cesso di scrivere perche ce il rancio per andare a mangiare un poco se no rasega e poi non e più buono per mangiare: Ti saluto di vero cuore te elle mie bambine e più ricevi tante care cose da fetto dal tuo indimenticabile sposo Amor. Saluta Maso Canovai e la Teresina Brunetto e Stefano e sua famiglia tua e mia famiglia e dai un bacio alle mie nipotine e nipotini da parte mia saluta la famiglia Bernetti benelli 73


Ultime Voci Sarti Antonio e la Dusolina e tutti i parenti e dei miei di S. Lucia farmi sapere del Carrai Scusa lasciarti presto o furia.

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Volume quarto Il 25 Luglio 1915 Mia cara Moglie Ti scrivo questi due righi per farti sapere che io sono stato ammalato dal 16 del mese fino a questoggi e sono stato all’ospedale di S. Giovanni di Manzano in provincia di Udine colla Febbre ma ora sono tornato in perfetta salute. Mi scuserai se io sono stato questo poco tempo senza scriverti perche non ti volevo fare sapere che io mi trovavo all’Ospedale se non te stavi in pensiero che io stessi male ma invece era poco male. Senti Ottavina gli devi dire a Ulisse che il suo figlio si trova al fronte ma prima di andare al fronte lui si trovava a Cormons dove mi sono fermato per vedere se io lo potevo vedere ma lui era già partito e io sono rimasto molto male quando sono andato al comando del suo reggimento e mi anno detto che lui era già partito per il fronte. Mi fai il piacere di mandarmi dei soldi perche sono molto dimagrito e per questo mi fai il piacere di mandarmi dei soldi per potere rimettermi in forze. Ora Ottavina il mio reggimento si trova vicino ai confini che li si trova da mangiare che io posso ritornare in forze. Quando mi spedisci dei soldi farmi una lettera assicurata che viene prima del vaglia. Non mi resta che salutarti di vero cuore te elle mie piccine che tanto mi stanno sul cuore ricevi tanti baci dal tuo aff.mo Marito Amor Bacia tante e tante volte da parte mia saluta tuo padre e tua madre e Guido e Gino e la Fidelina e tutti di casa mia e la Giovanna e Maso Canovai e Stefano e Brunetto e tutti i miei amici Amor Lulli

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Ultime Voci Il 27 Luglio 1915 Mia Adorata sposa Ti scrivo questa lettera per farti sapere che io mi trovo in perfetta salute come il simile spero sia di te e delle mie piccine. Mi scuserai se io sono stato tanto senza scriverti ma io ti fo sapere il motivo. Io mi trovavo all’Ospedale ed io per non fartelo sapere pensai di scriverti quando tornavo al mio Reggimento e farti sapere che io ero stato all’Ospedale perche senno sarei stato sicuro che se tu avessi ricevuto mie notizie che io mi trovavo ammalato all’Ospedale chissa quello che tu andavi a pensare quello che fosse stato di me. Invece io avevo un poco di febbre di stanchezza e seza altro che la febbre. Mi scuserai Ottavina perche a me mi pare di avere fatto bene così a non fartelo sapere quando ero all’Ospedale che ero ammalato. Senti Ottavina quando ero all’Ospedale rimasi senza soldi ed io scrissi al mio amico Santini quello che a te ti domando di fare all’amore e mi feci mandare L. 10 perche avevo tanto appetito e ero in un paese che cera tutto quello che uno voleva ma la lira sispende 40 soldi quassu perche siamo troppi e per questo ce troppo afluso nei luoghi che vendono la roba. Mi fai il piacere di mandarmi dei soldi perche neo bisogno e gli possa rendere al mio amico Santini. Basta di non sforzarti per far patire le mie bambine mandami quello che puoi ma mandamelo subito e farmi una lettera assicurata. Non mi resta che salutarti te elle mie bambine e tutti di casa mia uniti a quegli di casa tua mi fai il piacere di dire a Corrado che io oricevuto sua cartolina e fargli tanti saluti da parte mia a lui e alla sua famiglia saluto Maso Canovai Stefano Brunetto e tutti che domanda di me saluta la Giovanna e la Teresina e Giuseppe Modesto Guido Gino la Fidelina Aldo e mia sorella Attilia e più ricevi tanti baci dal tuo per sempre Marito Amor

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Volume quarto Il 28 Luglio 1915 Mia adorata moglie Ti scrivo questa lettera per farti sapere che godo una perfetta salute come spero che sia di te e delle mie piccine. Come ti ripeto che io sono stato all’ospedale ma credi ora sono tornato in perfetta salute. Ora Mia cara sono in riposo e miglioro tutti i giorni perche mi trovo sempre più in forze che quando tornai da l’Ospedale ti prego anon pensare a me perche sto tanto bene e contento perche si sta tanto allegri che io sono quello che faccio ridere tutti colle mie parole curiose che dico quando andai all’Ospedale gli dispiacque a tutti perche io sono quello che gli tengo tanto allegri per potere scacciare qualche pensiero che ci conforti tutti i giorni perche siamo tanto lontani dalle nostre care famiglie. Senti Ottavina ieri ricevei la lettera di mio padre dove mi dice che mi avete spedito carta e cioccolata con delle caramelle ma perora non o avuto niente perche melavevano spediti all’Ospedale ma io ero già per la strada per tornare al mio Reggimento ora quando ritornero quassu alora io ti mando a dire quello che io ciò trovato dentro i quei due pacchi. Ma sai Ottavina e gia 15 giorni che io non o avuto notizie di te e delle mie bambine a causa che io mi ero ammalato che la posta era andata alla mia compagnia ed io ero in Italia all’Ospedale figurati come mi pare lungo questo tempo che io non vedo tornasse presto quella posta che mi anno spedito dove ero ammalato mi pare molti anni di non aver visto tuo scritto per potere sapere tue notizie e delle me care che io non mi stanco mai di guardarle nella fotografia. Senti Ottavina ora siamo lontani dalla linea di fuoco e mianno detto che noi si deve andare a inaugurare la nostra bandiera che ce lanno fatta e donne fiorentine e ora siva in Italia a questa festa ma non so dove si vada a inaugurarla anno detto che si deve andare il 3 Agosto ad inaugurare quella bandiera. Ottavina quando mi scrivi non mettere il bollo alla mia lettera perche non si paga noi militari perche anche quegli che gli arrivano senza bollo non pagano niente e dirlo anche al mio padre che anche lui non ci metta il bollo perche non paga non dare retta a quello che ti dice il postino perche noi non paghiamo niente. Non mi resta che salutarti di vero cuore te elle mie adorate bambine e dagli mille e mille baci da parte mia e più ricevigli te tanti baci ed una stretta di mano dal tuo per tutta la vita Amor 77


Ultime Voci Saluti Maso Canovai e la Teresina e Brunetto e Stefano e tutti quegli che domandano di me saluti tua famiglia e uniti alla mia anche Gino la Giovanna e sua famiglia e mia sorella Attilia.

Fotografia di Amor Lulli

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Volume quarto Il 29 Luglio 1915 Mia adorata sposa Ti scrivo questa lettera per farti sapere che io mi trovo in perfetta salute che spero che sia di te e delle mie affezionate bambine che mi pare tanto di non avere letto tuo scritto che ne pure oggi non o ricevuto niente che è dal 16 Luglio che io non so niente di tutti voi che penso quasi a male. Ma forse saranno in quelle che mi anno mandato all’Ospedale che io ero già tornato e il mio caporal furiere melaveva gia spediti perche non possono tenere fermo le lettere nelle sue mani perche i nostri superiori l’anno proibito di trattenere le lettere e per questo lui mele spedi subito all’Ospedale. Ma speriamo che presto ritorneranno da me per sapere come stai te elle mie. Senti Ottavina io ti voglio ripetere questo che quando mi scrivi di non mettere il bollo alle lettere che mandi a me perche noi non paghiamo niente di franchigia ma ti prego di darmi retta a quello che io ti dico perche sono certo che noi no paghiamo niente. Fra quelle lettere cera anche quei due pacchi che mi avete spedito. Ma ciò da dirti un altra cosa che questo mi pare che debba essere molto conveniente perme come pure per tutti voi. Voialtri quando mi fate dei pacchi quella ricevuta che vi fanno alla posta dovete tenerne di conto perche se caso io non ricevessi quello che mi spedite voi potete andare e protestare e fargli vedere la ricevuta che io vimando a dire. Anche ora se voi avete sempre la ricevuta di quel pacco di sigari che io fino a questo presente giorno non ho saputo niente di quello ma tutti quei pacchi che mi avete spedito gli o ricevuti tutti ma quello dei sigari non ho saputo niente. Senti Ottavina farti coraggio e sta contenta e vivi tranquilla lì colle nostre creature che spero presto di tornare fra le vostre braccia per passare quelle ore tranquille come si passava tempo a dietro. Cesso di scriverti col salutarti di vero cuore te unito alle nostre care e ricevi tanti baci te elle bambine dal mio cuore che si trova tanto lontano da te saluti Maso Canovai Teresina tuo padre tua madre Guido Gino e Giovanna e tutti di S. Lucia tuo per sempre marito Amor Rispondi subito e scrivi tutti i giorni a Dio stai bene coraggio coraggio Amor 79


Ultime Voci Il 1 Agosto 1915 Mia cara sposa Non puoi credere quanto sono inquieto di non ricevere tuo scritto che e dal 13 del mese non so come mai ma forse ti sei scordata di me o pure ti sei presa a male perche sono stato un poco senza scriverti ma credi Ottavina mi pare di avere fatto meglio di stare senza scriverti che farti sapere che io mi trovavo ammalato all’Ospedale perche se ti fosse arrivata una lettera col timbro dell’Ospedale mi pare che tu dovessi restare peggio che stare qualche giorno senza mandarti scritto se io fossi andato all’ospedale in Italia allora ti avrei scritto subito o pure se avessi avuto un male da stare tanto all’Ospedale ti avrei fatto subito avvertire del male che io avevo ma siccome era un poco di febbre di stanchezza che vuoi che io ti mandassi subito una lettera che io ero malato se tu sei una donna che rifletti mi devi dire che ho fatto bene a fare come o fatto appena che io sono sortito dall’Ospedale tiò subito scritto come pure certamente lavrai ricevuto dove senti il posto dove io mi trovavo. Senti Ottavina o ricevuto una lettera dalla Emma Lenzi dove mi dice che io mi fossi spiegato meglio per la lettera che io o mandato a voi ma in vece io non o scritto a nessuno che io mi trovavo ammalato all’Ospedale e lei mi dice che io non mandi lettere da farvi sta male ma non so chi sia stato quello che gli abbia detto queste cose perche mi pare di avervi scritto lettere da non farvi star male tu puoi parlare con questa Lenzi e fargli vedere le mie lettere che tiò mandato e poi devi dire che non sono lettere da fare sta male tanto come mi dice che io vi faccio stare. Mia cara Ottavina sono tornato nel solito posto dove sono stato fino a lora ma credi ora sono in perfetta salute come pure spero che sia di te e delle mie care. Mi fai il piacere di scrivere più che puoi perche se non ricevo tue notizie sto troppo male perche penso sempre che state male quando non ricevo posta. Non mi resta che salutarti di caro quore te elle mie care e tutti di casa mia uniti a quegli di casa tua ricevi tanti baci e una stretta di mani dal tuo sposo Amor Saluti i miei e tutti i tuoi la Giovanna eTeresina Canovai Maso e Stefano Guido e Gino Brunetto e la Fidalma e mia sorella Attilia e bacio i miei nipotini 80


Volume quarto Il 12 Agosto 1915 Mia amata sposa Anche questoggi in vano aspetto tue notizie che nonso come mai non ricevo tua posta e quella della mia sorella Angiolina e pure quella del mio padre che tutti i giorni ricevo sue notizie ma non sto contento a non ricevere anche la tua m piacerebbe ricevere anche la tua perche mi premano quanto quelle di mio padre e forse più perche ce cose che mi premono più che di sapere notizie delle mie care bambine che sto sempre a pensare a loro che non mi sortono di per lamente anche quando sono a scaricare il mio difensore che sarebbe il fucile per uccidere questi infami Austriaci che anno il cuore peggio che duna Tigre perché quando passa i feriti in barella che gli portano a medicare all’Ospedale e questo noi Italiani non sa il cuore cattivo perché quando passano loro noi non gli si spara a quei poveri feriti che si lamentano momento per momento. Senti Ottavina non farmi starmale così che tutti i giorni sto aspettando tue notizie. Ma credi che quando viene la posta e non ci trovo tue notizie sto troppo male e l’ore mi paiono anni a da spettare il giorno dopo per vedere se ciè tue notizie ma sono tre giorni che sto aspettando tue notizie ma invano sto aspettando non puoi sapere quale sia il mio dolore che prova il mio cuore ti prego di scrivere più presto che puoi. Non mi resta che salutarti di vero cuore te tutta la famiglia tua e mia e più mi fai il piacere di salutare la mia sorella Attilia il suo marito e bacio da parte mia tante e tante volte dal mio cuore mie bambine e alla Minolfa Gino Guido la Giovanna e la Teresina e Maso Dante Pasquale e Carrai Brunetto Stefano Canovai la famiglia Bernetti e la famiglia Pelagatti Alighiero Alfredo Cherubini e la famiglia del mio amico Renato Sanatori e Giuseppe Modesto e Alamainno e più ricevigli te da mi cuore che mai non ti dimentica mai e ricevi tanti e poi tanti baci e duna stretta di mano dal tuo aff.mo sposo per tutta la vita Amor Lulli Addio stai bene e farti coraggio perche io me ne faccio tanto e non tengo mai pressione e specialmente quando ricevo tua posta Amor. 81


Ultime Voci Gandolfo Mammoli

Gandolfo Mammoli è nato a Prato il 3 marzo 1919. Come militare di leva nel 1939 viene mandato al distretto di Barletta e da qui sull’Incrociatore ausiliario Principe di Piemonte, per l’emergenza del momento adibito a nave da guerra. Insieme ad altri militari parte quindi per l’EGEO, destinazione Rodi.

Nel 1940, quando l’Italia entra in guerra, io ero al comando della bandiera a Campo Chiaro, e proprio lì per primi noi ci si accorse della guerra vera. Si vedevano gli aerei buttare le bombe e le contraeree rispondevano con tiri veri. Si capì subito che quelle non erano più esercitazioni e immediatamente demmo l’allarme. Era il 1943, quando i tedeschi cominciarono le baruffe contro noi italiani, considerandoci traditori e intimandoci la consegna delle armi. Poi successero le fucilazioni e molti militari furono fatti prigionieri. Di questi, in parte furono internati nei campi di concentramento, in parte trasferiti in Grecia e impiegati come soldati, con l’intento di trasferirci sul fronte russo. Dopo una breve permanenza qui, fui tra quelli fatti salire sui vagoni bestiame di un treno diretto in Jugoslavia. Sul vagone dove mi trovavo anch’io, con un temperino, riuscimmo a fare un buco da usare come gabinetto per i bisogni. Fu un viaggio allucinante, triste e pieno di incertezze. Però io non facevo che pensare a una fuga. Nel 1942, per meriti di buon servizio, mi fu data una licenza premio. Tornai così in Italia e finita la licenza rientrai a Rodi via Brindisi con un incrociatore ausiliario trasformato in nave da guerra. Nel porto di Cefalonia, l’incrociatore fu colpito da due siluri. 82


Volume quarto In pochi minuti scese a picco e affondò. A me riuscì buttarmi e a nuoto allontanarmi il più possibile dal luogo dell’incidente. Fu terribile! Rimasi in acqua in balìa delle onde venti ore, cercando dei relitti per attaccarmici e assistendo sgomento al salvataggio dei cadaveri prima di me. Come se non mi vedessero e sentissero i richiami di aiuto, di me che pativo da matti ed ero vivo. Forse, pensavo, non riuscivo ad agitarmi abbastanza per farmi vedere e distinguermi dai morti. Ma non mi sapevo capacitare come si potesse fare una cosa del genere. Finalmente salvato da una nave cisterna, con qualche altro ci portarono a Cefalonia. Era il 4 gennaio 1942. Quando scesi dalla nave cisterna che mi aveva salvato, faceva un gran freddo, grandinava e tirava un vento gelido che mi intirizziva tutto, fin nelle ossa. Mi accorsi soltanto allora di avere un piede squarciato. Fui ricoverato all’ospedale di Patrasso, dove però rimasi poco tempo insieme ad altri quindici militari. Infatti fui trasferito a Bari e quando mi fui rimesso, fui mandato in licenza a casa. Ricordo che il 15 di agosto ero a Venezia, poi in Jugoslavia dove fui internato in un campo di concentramento, dal quale riuscii a fuggire, ma fui ripreso e di nuovo internato. Ma io volevo fuggire, avevo questa idea fissa e ci pensavo sempre valutando il momento giusto. Così ci riprovai per la seconda volta e fui fortunato, perché nella fuga mi imbattei in un deposito di ruote di aerei e mi ci nascosi dentro. In Serbia, fui poi aiutato dalla popolazione riuscendo perfino ad ottenere una dichiarazione che mi permetteva di lavorare in uno zuccherificio. Non pativo la fame, ma era quasi impossibile trovare indumenti per vestirsi. Le truppe russe a Sarajevo avevano portato via tutto, c’era una gran miseria. Con l’aiuto di una famiglia iugoslava riesco ad ottenere i documenti necessari per tornare in treno a Trieste, in Italia. Avevo in tasca duemila dinari, con quel denaro comprai tutta frutta e la distribuii a tutti. Quindi tappa dopo tappa, e ancora con qualche difficoltà, riuscii ad arrivare a casa, a Prato. Era il settembre del 1945. Prato era una città distrutta e piena di rovine, ma era casa mia.

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Ultime Voci Mario Mascii

Mario Mascii nato a Prato il 9 luglio 1923 prestò servizio militare nella Marina Militare negli anni 1943 – 1945 con il grado di cannoniere: per la sua attività nel 1975 fu insignito del riconoscimento della croce al merito di guerra.

La testimonianza di Mario Mascii presenta la caratteristica particolare di essere prevalentemente fotografica: le pagine seguenti riportano infatti una scelta di documenti e fotografie che illustrano i momenti più significativi delle vicende biografiche di Mascii che aprono il capitolo.

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Volume quarto

Documento con i dati biografici (luogo e data di nascita) completi di Mario Mascii.

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Ultime Voci

Prima concessione della croce al merito di guerra a Mario Mascii.

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Volume quarto

Seconda concessione della croce al merito di guerra a Mario Mascii.

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Ultime Voci

Riconoscimento delle campagne di guerra svolte da Mario Mascii.

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Volume quarto

Mario Mascii in divisa.

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Ultime Voci

Fotografia del faro di Otranto scattata dalla nave.

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Volume quarto

Fotografia di gruppo: Mario Mascii è il terzo da destra in prima fila.

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Ultime Voci Dario Ponzecchi

Dario Ponzecchi prestò servizio militare come caporal maggiore nel II battaglione del 187° della Divisione Folgore.

Mario Zanninovich può essere fiero dei suoi paracadutisti, formati ed educati con passione, II battaglione del 187°. Il caporal maggiore toscano Dario Ponzecchi è stato mandato di vedetta nel vasto campo minato antistante, per impedire che il nemico, con l’aiuto del buio e dei nebbiogeni, crei i varchi per l’avanzata degli uomini e dei mezzi blindati. Infatti il graduato è avvolto rapidamente dalla nebbia artificiale, lattiginosa nel chiarore lunare ma impenetrabile. E sente movimento vicino: si muove deciso, cade in una imboscata, solo, ma non esita a impegnare una furiosa lotta corpo a corpo. Finalmente a gran voce ordina ai compagni della linea di aprire il fuoco senza badare a lui: e così viene ucciso per salvare la integrità del campo minato.

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Volume quarto

Dario Ponzecchi

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Ultime Voci Emilio Quercioli

Emilio Quercioli è nato a Fiesole (Firenze) il 7 giugno 1924 da una famiglia di agricoltori. Fu chiamato alla leva l’8 marzo del 1943 e assegnato all’aviazione come Armiere Puntatore. Finito l’addestramento fu inviato a Padova. Dopo l’armistizio tornò a casa, dove per non essere catturato dai tedeschi iniziò a vivere una vita di latitanza, vivendo nei campi e spostandosi frequentemente. Alla fine della guerra fu richiamato militare per concludere il periodo di leva che aveva interrotto senza finire. Io, Quercioli Emilio, sono nato a Fiesole (FI) il 7 giugno 1924 da famiglia di agricoltori. Fui chiamato alla leva, cioè militare, l'otto di marzo del 1943 e assegnato all'aviazione: Armiere Puntatore ottavo plotone, seconda squadra aerea. Finito il corso di addestramento fatto a Firenze, fummo destinati a Padova. In giro c'era già tanta confusione, tra fascisti e bandiere rosse per esempio, e spesso ci scappava l'incidente. Non si poteva cantare “bandiera rossa” o manifestare contro il regime, per chi trasgrediva le pene erano severissime. Quando, in attesa del treno, alla stazione di Firenze, uno della nostra compagnia si mise a cantare “bandiera rossa”. Ci fermarono subito e volevano sapere chi era stato. Ma nessuno confessò e nessuno fece la spia. Allora ci misero in fila e fecero la decimazione prendendo i primi cinque. Io ero il numero sei. Quel numero fu la mia salvezza. Il giorno dopo i compagni scelti furono portati nella torre di Maratona a Campo di Marte e mitragliati. Ripartimmo con lo spavento negli occhi e una gran pena nel cuore. Durante il viaggio in treno da Firenze a Padova, fummo presi di mira da continui bombardamenti aerei e quando arrivammo a Padova, la nostra caserma era stata bombardata poche ore prima. Anche in quel caso pensai che la fortuna continuava ad essere dalla mia parte, perché 94


Volume quarto ancora una volta la sorte mi aveva fatto arrivare tardi all'appuntamento con la possibilità di morire. Si vede proprio che non era destino. In quel trambusto, la caserma era inagibile, così non ci vestirono nemmeno, si rimase con gli zoccoli e in tuta bianca. Pochi giorni dopo arrivò l'8 settembre, l'armistizio del Maresciallo Badoglio e il “gran disfacimento di tutto”. Il mio primo pensiero fu quello di tornare a casa ed ero nel numero dei più. Dopo vari giorni di un viaggio non facile giunsi a casa, dove rimasi chiuso in camera una settimana per nascondermi ai fascisti e ai tedeschi. Ma in casa era pericoloso perché quelli frugavano dappertutto e se ci trovavano erano guai seri per tutti i familiari. Cominciò così la mia vita da rimpiattato, nei boschi e nei capanni, sempre qua e là come un randagio, anche la notte. Quando cominciarono i grandi bombardamenti su Firenze, io abitavo in via Aretina, N° 226 di Rovezzano. Le difficoltà e il pericolo aumentavano tutti i giorni. C'era tanta fame e c'erano tanti stenti per la popolazione, ma nei momenti difficili le persone sono più unite e solidali. Lo dimostrava il fatto di saper condividere sempre tutto ciò che potevamo avere o trovare nei campi. Con la roba raccolta nei campi si sfamavano gli abitanti di via Aretina fino a Rovezzano. Come Dio volle arrivammo alla fine della guerra. Dopo la guerra, ricordo le risse tra i partiti: Democristiani, Comunisti, Fascisti, Socialisti, Liberali..., e soprattutto ricominciarono le invidie tra le persone, sempre in lotta per accaparrarsi qualcosa di più. La gente tornò ad essere egoista. Quando le cose ripresero un andamento normale fui richiamato militare, perché a suo tempo non l'avevo finito. Era il 1949. Avevo 25 anni. Fui mandato a Orvieto, poi assegnato al corpo dei Granatieri di Sardegna a Roma, nell'undicesima Compagnia, dove rimasi sette mesi, quindi fui congedato per anzianità. Questi sono i miei ricordi della vita militare e della seconda guerra mondiale.

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Ultime Voci

Al centro della foto Emilio Quercioli militare a Roma nel 1950. Questa fotografia, come le altre, è stata scattata durante la permanenza di Quercioli a Roma dopo la conclusione della guerra. 96


Volume quarto

Visione delle rovine di guerra della cittĂ di Roma 1950.

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Ultime Voci

Ricordo della vita militare nei Granatieri di Sardegna di Emilio Quercioli (Roma 27 gennaio 1950)

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Volume quarto Tosco Sarti

Tosco Sarti, nato il 25 marzo 1918, nel comune di Cantagallo, arruolato il 4 aprile 1939 per il servizio militare, destinato a Bressanone al 9° Reggimento Artiglieria- Brennero. Combattente e invalido di guerra.

Anno 1939 Il Reggimento a cui fui affidato per il servizio militare di leva era un reggimento storico, era stato fondato nel 1863 e aveva partecipato alla battaglia di Custoza (1866), alla presa di Porta Pia (1870), alla campagna d’Africa nel 1895, alla guerra Italo-turca nel 1911 e nel 1915-18, durante la prima guerra mondiale, aveva operato nel Friuli, sul San Michele del Carso, partecipando nel 1916 alla presa di Gorizia. La mia divisa del reggimento era di panno grigio-verde, con fasce del colore della divisa, i calzini di lana “portati da casa” e le pezze per coprire calzini e piedi da mettere dentro le scarpe. Avevamo due divise, una di panno verde per l’inverno, ed una più chiara di cotone, una panciera di lana per i dolori; avevamo anche il cappotto per l’inverno. Eravamo armati di moschetto e fucile, questo si differenziava per la canna più lunga. Dunque…avevo raggiunto da pochi giorni il glorioso 9° Reggimento Artiglieria- Brennero , quando nel mese di Maggio ci spostammo da S. Francesco al Campo a Mattiè in Val di Susa, per un breve periodo di addestramento, anche se ben presto il nostro destino sarebbe stato segnato perché il 10 giugno l’Italia entrò in guerra. 99


Ultime Voci Da qui il 16 giugno, alle ore 11,30 il reggimento si spostò nella zona del Moncenisio per operare,verso la Francia con il 1° corpo di Armata composto dalle divisioni Superga, Brennero e Cagliari. Io fui destinato a rimanere in Italia a guardia del posto in cui eravamo. Il nostro Reggimento non aveva mezzi di portata per tutto il materiale ed io dovetti presidiare quanto rimaneva a terra: munizioni varie, bombe a mano nelle cassette, niente viveri, e la radio non funzionava. Mi fu assicurato che i militari sarebbero venuti a ritirarlo il prima possibile, ma passarono notti, giorni, ben 4 giorni, in cui non vidi nessuno: senza cibo, sotto una tenda, mi trovai nella notte al freddo, mentre sentivo in lontananza i militari che combattevano. Ero solo a guardia di Forte Casso, mentre la Francia chiedeva l’armistizio il 25 giugno e i gruppi del 9° erano in marcia nella Valle dell’Are. Incominciai allora a chiedermi cosa potessi fare in questo stato di cose e alla fine decisi a mio rischio di raggiungere un vicino Comando Militare. Mi presentai all’Ufficiale di guardia e spiegai la mia condizione oggettiva. Questo ufficiale si meravigliò di quanto mi era successo, mi diede da mangiare e mi disse queste parole che non dimenticherò mai: ”Tu sei un eroe... l’eroe di forte Casso”. Il materiale bellico non venne mai abbandonato, subito recuperato e collocato in un luogo sicuro fino al ritorno del 9° reggimento, il 30 giugno di quello stesso anno. Grande fu la sorpresa del mio Comandante nel vedermi ancora vivo, perché aveva incaricato un militare di raggiungermi e questo, non trovandomi, aveva riferito che non ero presente sul luogo, quindi avevano comunicato alla mia famiglia che ero disperso. Rendere conto al comando militare del perché avevo agito in quel modo fu difficile: dovetti ricostruire esattamente come avevo svolto il mio compito, fare capire che non avevo abbandonato mai il mio posto di guardia e che, in conclusione,avevo agito non tanto per salvare me stesso, ma per proteggere tutto il materiale depositandolo in un luogo sicuro; il comandante mi diede fiducia e io fui creduto. A quel punto restava da comunicare alla mia famiglia che non ero disperso, ma vivo. Scrissi una lettera ai miei e sperai che arrivasse il prima possibile mentre dal Comando militare fu inviato un documento in cui si certificava che ero vivo. Dopo molti mesi,venni a sapere che i miei, a casa, non si erano mai preoccupati di me perché avevano ricevuto la comunicazione in cui ero dichiarato disperso contemporaneamente alla lettera in cui 100


Volume quarto davo mie notizie e per questo avevano capito che si trattava di un errore! Dopo molti mesi il reggimento rientrò nella sede di Bressanone, ma la divisione Brennero fu chiamata, ben presto ad altri compiti, arrivarono i richiamati del 1914 per completare il Reggimento e il 27 Dicembre ebbe inizio l’imbarco a Bari, il 28 dicembre si entrò nel porto Durazzo. Il 2 gennaio 1940 cominciò lo spostamento verso il fronte: i gruppi procedevano a grandi marce, i movimenti erano faticosi per le pessime condizioni delle strade e per il tempo. Da qui, per un sentiero, si salì nella Val Saliari verso il fronte, da Lekdushaj al Cundrevizza, dove operavano la nostra fanteria e reparti di artiglieria. Frequenti erano le richieste di fuoco. Quando fummo arrivati sul fronte, la fanteria era davanti a noi, non ci furono né feriti né morti nel 9° Reggimento, invece nella fanteria ci furono feriti e morti. Anno 1940 Con l’anno 1940,la guerra divenne più dura e il 27 gennaio, durante un’azione, si ebbero i primi caduti della nostra fanteria, ma non del mio reggimento; noi dovemmo attendere la primavera per scatenare l’offensiva. Dal 9 Aprile al giorno di Pasqua con un tempo orribile, perché nevicava e faceva molto freddo, Val Saliari si animò con un movimento insolito di uomini e di automezzi: veniva richiesto il trasporto dell’artiglieria in linea delle bombarde. Il 14 Aprile, alle ore 7 del mattino, giungeva l’ordine di iniziare la preparazione dell’artiglieria: furono disposti 90 cannoni, 90 bocche da fuoco pronte a sparare contro la postazione avversaria. Si preparavano di giorno le azioni e si sparava la notte. Il mio lavoro era l’artificiere, mi avevano mandato per due mesi a Piacenza a imparare e addestrarmi a preparare le munizioni. Dovevo preparare la polvere da inserire dentro il bozzolo. Un giorno mi è scoppiata una capsula in mano, ancora tengo la cicatrice. Il 17 Aprile mattina, l’esercito nemico colpito si diede alla fuga, ma per noi l’inseguimento fu lungo, faticoso e difficile, tanto che ai combattenti che si distinsero in azioni di coraggio furono concesse le prime decorazioni. Si mangiava pane fresco, mezza gavetta di brodo con un pezzo di carne, oppure can101


Ultime Voci nelloni. Ci sembrava tutto buono perché avevamo tanta fame. Ci davano anche mezzo gavettino di vino. Il 20 Aprile i nostri gruppi entrano a Delvino. Il 12 Maggio il 9° reggimento artiglieria del Brennero fu passato in rivista dal Re Imperatore Vittorio Emanuele III. Nel giugno, la nostra divisione ricevette l’ordine di presidiare Atene. In marcia attraverso un paese dal clima afoso, si giunse, dopo 16 tappe, a Lepanto. Si abbandonò il mare, si procedette per Amfissa e Tebe, infine si giunse ad Atene il 22 giugno. Eravamo accampati su un’altura con i cannoni puntati verso Atene. Il nostro compito difendere il territorio e nel mio caso io ero a guardia dei cannoni, così come testimonia una foto scattata nel giugno del 1940, da un fotografo reporter di guerra. Su questo territorio trascorremmo diversi mesi e un giorno da un camion pieno di soldati che si spostavano verso Atene, mi sentii chiamare: era un compagno con cui ero partito da Prato per il servizio militare. Scese di corsa, mi abbracciò, ci scambiammo poche parole e poi ripartii; ebbi modo di incontrarlo ancora una volta ritornato a casa. Lui in guerra si era ammalato di tubercolosi e morì ancora giovane. Di lì a poco anch’io mi ammalai di una brutta forma di otite bilaterale, con la perdita dell’udito. Ricoverato in ospedale, ci rimasi a lungo e quindi fui inviato a casa in convalescenza per 3 mesi, che successivamente furono estesi fino a cinque. Anni 1941-1942 Quando ritornai sotto le armi, a causa della malattia fui destinato al servizio sedentario e inviato a Nettunia, in una fabbrica di armi, in cui svolgevo il lavoro di artificiere. In questo anno, gli eventi di guerra precipitarono: si ebbe l’intervento tedesco nei Balcani e la rapida conclusione della guerra contro la Grecia. Il conflitto mondiale, si diffuse rapidamente nel mondo dalla Russia, al Giappone, all’Africa settentrionale. . Anno 1943 In questo anno giungevano notizie dal fronte che la IV armata tedesca si era arresa nel febbraio a Stalingrado. 102


Volume quarto Poi la guerra si modificò, ci fu lo sbarco anglo – americano in Sicilia, la caduta del Fascismo il 25 Luglio e infine l’otto Settembre, con l’armistizio tra gli alleati e il governo Badoglio: la guerra per noi era finita! Eravamo contenti, tutti felici che la guerra fosse finita. Badoglio aveva detto:” La guerra è finita, gli Italiani possono tornare a casa”. Noi ci abbiamo creduto. Ma non fu così, i tedeschi invasero l’Italia facendo prigionieri i nostri militari. Io, mi spogliai della divisa militare. La famiglia che mi aiutò a vestirmi in abiti civili, era di origine toscana, contadini trasferiti a Roma in cerca di lavoro, in quelle terre del Lazio bonificate durante il governo di Mussolini. Mi accolsero con affetto, contenti di aiutarmi in nome di una umana solidarietà che in quei giorni terribili nasceva spontanea. Fu poi una grande sorpresa venire a sapere che erano originari dalla valle del Bisenzio e che avevano conosciuto anche i miei genitori. Pensai che tutto questo fosse un segno buono e con coraggio, insieme ad altri compagni, iniziai il ritorno a casa. Il ritorno a casa Andai a piedi da Roma a Rocca di Papa e arrivato alla stazione mi trovai in una condizione di totale confusione e paura. I tedeschi perquisivano tutti, ma cercavano le armi ed io che non avevo niente, fui sottoposto a perquisizione, ma non fermato. Allora mi detti da fare per raggiungere Firenze.Pensai di prendere un treno, ma non riuscii a salire, perché c’erano uomini e ragazzi giovani che scappavano, erano tanto pigiati da rimanere quasi soffocati. Disperato, ma deciso con ogni mezzo a partire con quel treno, mi accorsi che un compagno si era sdraiato sul tetto, allora mi feci coraggio e anch’io ci salii. Coraggio e incoscienza che furono premiati perché arrivai sano e salvo alla stazione di Arezzo. Qui c’erano ancora i tedeschi che rastrellavano uomini e mezzi e deportavano i soldati italiani in Germania. Dovetti scendere comunque dal tetto del treno, perché non potevo proseguire il viaggio in quello stato; nella tratta verso Firenze, il viaggio diventava pericoloso per le continue gallerie e i tralicci della corrente elettrica. 103


Ultime Voci Allora cercai disperatamente di entrare sul treno e quando riuscii a salire rimasi incastrato nel vano della porta che chiudendosi mi ferì una mano. Finalmente il treno partì e giunsi a Firenze. Qui c’erano ancora tedeschi in movimento e allora pensai che non mi restava altro che cercare di non farmi notare: sedetti in uno scompartimento vuoto e, come un passeggero qualunque, mi misi al finestrino a vedere quello che succedeva; nessuno mi notò o mi chiese chi ero, nessuno si preoccupò di cosa facevo. E infine ci si mosse verso la stazione di Prato. Mio padre, dopo la morte della mamma, si era risposato ed abitava a Prato, lo raggiunsi e ci fu grande gioia: passai la notte in città e al mattino ripresi il viaggio per Carmignanello, nella Val di Bisenzio, dove si trovavano i miei fratelli e la sorella più piccola. Mio fratello Sanzio non era stato richiamato, mentre Rodolfo, classe del 1915, era in Albania. Fra leva e guerra fece nove anni di soldato. L’altro fratello Dino, classe del 1920, fu richiamato prima dell’8 settembre, fu preso prigioniero e portato in Germania, sopravvisse lavorando. Tornò alla fine della guerra. La mia sorella più piccola Giuliana era del ‘22, le volevamo tutti molto bene perché dopo la morte della nostra mamma ci fece da mamma a tutti e quattro i fratelli. Anni 1943-1945 Il ritorno a casa fu bello e commovente, ma sopravvivere fu drammatico per la guerra e per molti che conoscevo che si ammalarono e morirono. Avevo un amico, di nome Foresto, entrava ed usciva dall’ospedale per quella brutta malattia ai polmoni diffusa in molte case, per la miseria in cui si viveva. Un giorno eravamo in bicicletta, perché Foresto aveva deciso di andare a San Quirico di Vernio per trovare un suo zio; io lo avevo accompagnato, ma ero rimasto fuori ad aspettarlo. All’improvviso arrivarono dalla strada principale due tedeschi accompagnati da due italiani; sospettosi iniziarono a farmi domande, volevano sapere chi ero, cosa facessi, chi aspettavo e quando arrivò Foresto decisero di portarci al loro comando. Foresto aveva paura ed io cercavo di tenerlo calmo, gli dicevo che non avevamo fatto niente e che ci avrebbero rilasciato. Ma ai tedeschi dava fastidio la mia calma mi comandarono di stare zitto; erano agitati, stavano aspettando l’arrivo di un ufficiale tedesco e poi avrebbero stabilito cosa fare di noi. L’ufficiale tardava ad arrivare e quando fu molto 104


Volume quarto tardi, all’improvviso, ci lasciarono andare con l’obbligo di presentarsi la mattina successiva. Non ho mai capito cosa sia successo, ma questa fu la nostra salvezza. Se le cose stavano così, non potevo più restare, sapevano il mio nome, chi ero, dove abitavo, passai la notte in un casolare isolato e poi, all’alba, scesi verso Prato, nella zona del nord-est, località Le Sacca, nella villa Bellavista. Là una famiglia di contadini che abitava nella casa colonica della villa mi dette ospitalità. Erano brava gente, semplice che avevano aperto la porta della loro casa anche ad altri italiani. Nei primi tempi, dato che i tedeschi mi cercavano, rimanevo in casa, ma con il passare delle settimane incominciai ad uscire, imparai a fare il contadino, lavoravo nel campo e mi rendevo utile alla famiglia. Quando suonava l’allarme mi rifugiavo sotto la casa,in un buco che avevo ricavato dalla pietra usando anche la dinamite, il contadino invece non aveva paura, rimaneva nei campi e guardava verso l’alto, gli altri si avviavano sempre verso un rifugio vicino scavato nella montagna dagli abitanti del borgo delle Lastre. Dopo il bombardamento di Prato, l’11 Novembre del 1943, nella zona, arrivarono altri sfollati presso altre case o nei locali di Villa Le Sacca. La villa fu affollata di famiglie pratesi. Tutte le persone avevano la tessera annonaria e andavano a comprare il pane e il cibo alla bottega di Pacciana, a Coiano e a Figline. Io non avevo la tessera annonaria, mangiavo quello che trovavo o che qualcuno mi offriva. C’era anche il contrabbando (o borsa nera come si diceva allora) della carne, perché venivano uccise nei boschi di nascosto bestie e maiali. Nella valle, agivano le formazioni partigiane e di frequente scendevano fino alla casa, dove c’era sempre qualcuno pronto ad aiutarli, come la contadina che faceva il pane fresco per tutti. Ma nel Dicembre 1943 dopo che il Cicognini e le Sacca furono occupati dai tedeschi, la zona divenne pericolosa per il continuo passaggio di soldati e per il timore di rappresaglie. Tanti pratesi sfollati ritornarono in città, ma io non volli lasciare né la zona né quella gente che mi aveva ospitato, a cui mi sentivo legato da affetto e riconoscenza. Oggi, quando ripenso a quei giorni mi rendo conto che fu questa decisione di restare lassù, qualunque cosa accadesse, che mi salvò dalle rappresaglie fasciste in città, dai rastrellamenti indiscriminati dei tedeschi, dalla deportazione nei campi di lavoro germanici. Lassù in collina i tedeschi venivano e andavano continuamente e presto requisirono la cucina della casa ad uso proprio. Io non mi nascosi, come sfollato lavoravo molto nel 105


Ultime Voci campo e parlavo solo se richiesto; sentivo poco, a causa della perdita parziale dell’udito da entrambi gli orecchi e così diventai una presenza poco significativa per loro. Mi comandavano qualche servizio, come l’acquisto delle patate, a cui non potevo sottrarmi, perché obbligato. I partigiani continuavano ad agire e spesso scendevano, arrivavano di notte e si nascondevano o nel capanno o vicino al pozzo; lì incontravano soprattutto le donne al mattino, quando uscivano presto; chiedevano di mangiare o le scarpe, che non avevano, noi si aiutavano con quello che c’era. Ma soprattutto volevano informazioni sui movimenti dei tedeschi e noi, che eravamo in una posizione di passaggio,si collaborava ad indicare le diverse direzioni dei tedeschi; allora ci ringraziavano e procedevano. Mi ricordo di un caso in cui non si riuscì a salvare un giovane partigiano che si fermò davanti al casolare e per quanto gli si dicesse di allontanarsi subito perché i tedeschi giravano intorno, volle restare e andare incontro al suo destino di morte. All’inizio del mese di settembre 1944 in val di Bisenzio i soldati rastrellarono gli abitanti dei paesi dove passava la Linea Gotica, Cantagallo fu distrutto ed io che ero nato in quel territorio e che ero stato costretto a lasciare mi domandavo quale fine avessero fatto tanti che conoscevo. Dopo un paio di giorni si diffuse la notizia che la formazione partigiana Bogardo Buricchi, che stazionava sul monte Javello, sarebbe scesa a valle per collaborare alla imminente liberazione di Prato. Tutti sapevano che i partigiani sarebbero scesi alle Lastre e a Coiano, e gli sfollati scapparono via in previsione di quello che sarebbe successo. La notizia non era rimasta segreta e i tedeschi conoscevano tutta l’operazione. Non si sa quanti fossero i tedeschi che aspettavano i partigiani, ma certamente erano pronti per colpire la brigata. Quando i partigiani scesero, i tedeschi iniziarono a lanciare i bengala e a far fuoco con le mitragliatrici. Nella notte tra il 5 e il 6 settembre combatterono fino all’alba e ci furono molti morti. Al mattino si trovarono ovunque sparsi nel bosco e lungo la strada che portava a Pacciana. Presto si seppe che 29 partigiani erano stati catturati e subito impiccati a Figline alle travi della via che oggi è a loro intitolata. L’otto settembre 1944, Prato fu liberata e tornò di nuovo un po’ di speranza. Lassù alle Sacca arrivarono gli Alleati, ragazzoni biondi a cui piaceva bere il vino toscano, occuparono la casa e restarono nel territorio senza avanzare oltre la linea gotica fino all’aprile 106


Volume quarto del 1945. Io restai ancora nella casa di Bellavista con i contadini, lavoravo nei campi e li aiutavo. Restai alle Sacca fino agli anni ‘50, tornai a Prato e sono stato artigiano tessile dato che impiantai una filatura in via San Jacopo.

La fotografia ritrae Tosco Sarti a guardia dei cannoni, come raccontato nella testimonianza.

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Ultime Voci

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Volume quarto Angiolino Seghi

Angiolino Seghi, detto“Agiorde” è nato nella zona di La Secchia nel 1923. Arruolatosi nel Corpo degli Alpini come Guardia di frontiera, fu mandato l’8 gennaio del 1943 in Iugoslavia, ad affiancare come carabiniere ausiliario le forze italiane che fronteggiavano i gruppi di ribelli della zona. All’armistizio fu fatto prigioniero dei tedeschi e portato in vari campi di concentramento. Il 13 giugno del 1944, in seguito al bombardamento del campo di prigionia da parte degli Alleati, fu gravemente ferito. Rientrò in Italia il 10 maggio del 1945. Angiolino Seghi, per gli amici “Angiorde”, classe 1923, nato nell’unica zona rurale dell’alta montagna,a la Secchia, è oggi un simpatico e arzillo anziano abitante ad Abetone e che volentieri mi ha fatto partecipe dei suoi ricordi di giovane soldato, partito, durante la seconda guerra mondiale, con ideali di giustizia e di libertà e, miracolosamente, ritornato con una gravissima menomazione. “… il militare avrei voluto farlo nei Corpi dei Vigili del Fuoco, ma non mi fu permesso; così entrai nell’esercito, nel Corpo degli Alpini, come Guardia della frontiera. L’8 gennaio 1943 fui mandato in Jugoslavia; rimasi a Cirkina come recluta e successivamente fui spostato a Godovici, località occupata da noi italiani, distante 7 chilometri dal Montenero. Poiché c’era bisogno di carabinieri, mi presentai come ausiliario. L’esperienza fu per me positiva anche se dovevamo stare molto attenti perché c’erano molti gruppi di ribelli agguerriti. L’8 settembre 1943 ci fu l’armistizio; i tedeschi allora ci presero e ci portarono, come prigionieri, in Germania; da Godovici marciammo fino a Udine, dove prendemmo un treno per Mestre; qui c’erano i Tedeschi che arrestarono, oltre al sottoscritto, l’abetonese Giulio Colò e Piero Brugioni di Fiumalbo. Ci portarono sui confini tra Polonia e Danimarca (Alta Slesia) nel campo di concentramento di ARMESTEN. Il

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Ultime Voci viaggio, che durò 7/8 giorni, fu allucinante, chiusi e pigiati nei vagoni del bestiame, senza poterci spostare, in mezzo alla sporcizia e ai nostri escrementi. A Innsbruck c i fu dato del pane con una scatoletta di carne poi … più niente fino al campo di concentramento. Qui, addestrati dai cani lupo, ci facevano mettere in colonna. Abitavamo in una casa di contadini, tutte le sere una guardia ci chiudeva dentro; era il tempo della raccolta delle patate e andammo dai contadini con la speranza di mangiare di più … ma niente da fare, così, quando il calzolaio del paese ci chiese di lavorare per lui, io, che conoscevo bene questo lavoro, accettai. Qui stetti molto bene con la nuova famiglia, ma durò poco perché dopo alcuni mesi ci portarono al Campo Disciplinare di Essen; qui lavoravamo a rifare i tetti in lamiera. Tra l’esperienza ad Armesten e quella di Essen ce n’è stata un’altra a Oberhausen: qui tentai per ben tre volte di fuggire ma fui sempre ripreso. La vita qui fu molto dura; la sera, incolonnati, tornavamo nel campo di concentramento¸ dovevamo ricostruire le case bombardate e i rifugi sottoterra. Per 5 persone ci veniva data una razione di 1 kg di pane, un pezzo di margarina e un brodo di erbe. Mangiavamo una volta al giorno, la sera, al rientro dal lavoro. Poi la mia vita cambiò completamente quando Americani e Inglesi, il 13 giugno 1944, bombardarono il campo … fui portato in coma all’ospedale civile di Essen dove tutti mi davano per spacciato; invece m ripresi ma avevo perso il muscolo del polpaccio sinistro, più varie ferite in tutto il corpo. Ricordo che prima del bombardamento eravamo tutti in baracca, sdraiati sul nostro letto a castello … io, Brugioni Piero che in quella occasione morì, e Toni Lino di Castelfiorentino. Ci furono 23 morti e 105 feriti. Poi in autunno bombardarono anche l’ospedale di Essen, così fui trasferito all’ospedale di Saulgan (Stoccarda). Dopo quasi 11 mesi fummo rimpatriati, tramite la Croce Rossa Internazionale, all’ospedale di Varese ed io avevo ancora le ferite aperte. Da qui, con mezzi di fortuna, arrivammo a casa e quindi dal 10 maggio 1945, all’ospedale Militare di Firenze. Sono stato via da casa, senza che i miei avessero notizie, per ben due anni; in questo periodo ricevettero solo una cartolina. Dalla prigionia tornai con un forte esaurimento, ero confuso, non sapevo chi ero e dove dovevo andare; tornato ad Abetone trovai rovine dappertutto; c’erano solo Fidelio e l’Argia, nonni di Enrica Zanni e Dodo e la moglie, genitori di Giovanni Colò. Dormii da loro 110


Volume quarto e il giorno dopo mi recai al Bicchiere dai miei genitori e dai miei fratelli.

Al centro Angiolino Seghi, al lato sinistro Innocenti, al lato destro Alberto Magrini. Sono della provincia di Arezzo.

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Ultime Voci

Gino Gestri di Prato autiere della III Armata seduto sul parafango di un automezzo FIAT 18 BL.

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Volume quarto

Particolare della tragica ritirata per sfuggire all’accerchiamento delle truppe sovietiche. Titolare della fotografia Alfredo Ranfagni. 113


Ultime Voci Questo volume de Le Ultime Voci esce nell’anno in cui si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, alla quale diedero un importante contributo i soldati italiani che combatterono nelle due guerre mondiali. Per questa ragione, abbiamo scelto di concludere questo volume pubblicando una poesia dedicata all’Italia scritta dall’excombattente Mario Pini.

La Patria e il suo valore Inno nazionale del poeta contadino Mario Pini

AMATEVI , FRATELLI D’ITALIA La terra è il nostro pane, il vino è il nostro sangue il verde è la nostra mente. La fede è la nostra speranza nella famiglia e nel lavoro, nell’arte e nello studio. AMATEVI FRATELLI D’ITALIA. Noi si amò. Nelle fabbriche e nel lavoro rurale manca la manodopera adatta, per faticare a lavorare. La vita, non è una rosa fiorita. Noi in famiglia si GIUDICO’. AMATEVI, FRATELLI D’ITALIA UNITA. Dalle Alpi al Mare Mediterraneo, dal Piemonte alla Venezia Giulia, dalla Sardegna alla Toscana. I raggi della luna si specchiarono Nella città in Fiore di Firenze,

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Volume quarto adornata di arte e cultura nata dentro le sue mura. AMATEVI FRATELLI D’ITALIA UNITA. Noi si Rispettò. Basta con le sofferenze e le guerre, hanno portato miseria e crudeltà. Ricordiamo con onore i caduti Il loro sacrificio, morti da eroi, per causa di guerra e l’ordine pubblico della nazione, per la libertà della Patria. AMATEVI FRATELLI D’ITALIA UNITA. Noi si ringraziò. Siamo arsi d’affetto e d’amore, nel nostro cuore regni il perdono. Offri la tua mano ad un fratello lontano. Ognuno ha bisogno del tuo sangue del tuo aiuto e del tuo dono. Amatevi Fratelli d’Italia NELLA FAMIGLIA UNITA, Noi si Amò. Uniamoci nella famiglia ai figli nella loro felicità di fede e di amore, nel bene e nel male, sino alla morte. Uniamoci nel lavoro e nella speranza Per molti di noi, ci manca. Uniamoci alla nostra gloriosa “BANDIERA” Fatta di Tre colori, è lo specchio dei nostri Cuori NELLA PACE FRATELLI, Vogliamoci Bene. FRATELLI D’ITALIA UNITA, NOI SI GIURO’ … Prato 18 – 2- 2011 – il poeta contadino Mario Pini 115


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