Ultime Voci Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti a cura di Luca Squillante
Volume sesto Prato 2013
…Guai quando è l’ignoranza che prevale, guai quando la storia insegna poco o niente. Chi rimuove il passato o lo ignora, non vive, vegeta. Nel dopoguerra, quando rimpatriavano i superstiti dalle varie prigionie, la gente era già distratta, già disposta a dimenticare, tanta era la fretta di ricominciare a vivere. Anche noi, i partigiani combattenti, abbiamo tardato a renderci conto che la prigionia nei lager tedeschi era una pagina della resistenza almeno nobile quanto la nostra guerra di liberazione. Credevamo, sbagliando, che solo la lotta armata meritasse un giusto riconoscimento. Ma chi aveva saputo, nell’inferno dei lager tedeschi dire no ai fascisti e ai nazisti, era un partigiano combattente, di quelli autentici. […] Ecco perché li ammiro immensamente. Nuto Revelli In: Luigi Collo, La resistenza disarmata, Marsilio editori, 1965
Redazione a cura di Luca Squillante. Impaginazione e grafica a cura di Luca Squillante. Luana Cecchi ha realizzato l’intervista ad Armando Abati, Egisto Bruni, Pietro Brienza, Alfredo Fusi, Otello Giuliani. Michele Di Sabato ha realizzato la testimonianza su Bogardo Buricchi. Giacomo Milloni ha realizzato le testimonianze di Alamanno Magni e Archimede Milloni. Silvana Santi Montini ha realizzato le interviste a Fiorello Angelini, Rolando Baroncelli, Gennaro Bianchi, Brunero Ferroni, Giorgio Gori, Carmine Piemonte, Guido Scarpelli, Marcello Vannucci. Sergio Paolieri ha raccolto la testimonianza di Vasco Degl’Innocenti. Francesco Venuti ha realizzato le testimonianze di Giacomo Cimarelli, Emilio Colarusso, Antonino Conte, Carlo Alberto Poccianti, Giordano Siro Vignolini. Le fotografie riportate alle pagine III, 127-130 sono tratte da Costantino Scudieri Il Balilla va alla guerra Ilibridellaleda 2012. La copertina ritrae la sfilata di Autieri dell’Esercito Italiano alle Cascine di Firenze. La fotografia è parte della raccolta di immagini di Leo Santini, militare già apparso nel primo volume de Le Ultime Voci. Associazione Nazionale Combattenti e Reduci – Federazione di Prato
Piazza San Marco 29 – 59100 Prato Telefono e fax 0574/21352 Email ancr.po@gmail.com
Presentazione
La nostra scuola: i Balilla vanno alla guerra Imperativo: CREDERE, OBBEDIRE, COMBATTERE
La scuola di regime educò i giovani delle classi 1918/1926, futuri eredi delle aquile di Roma, ad essere i nuovi soldati, frutto del regime che noi tutti abbiamo conosciuto; il consenso fu di massa: oro alla Patria, ferro, ghisa, alluminio, compresa l’accettazione passiva delle difficoltà del vivere in autarchia prima e poi nel regime di guerra. La scuola, millantando la giustezza della rivendicazione di un posto al sole, del mare nostrum, soffocato dagli stretti di Gibilterra e di Suez occupati dagli Inglesi, propagandava la necessità della guerra. Alcune nazioni avevano colonie nei due emisferi, per cui era considerato giusto e necessario conquistare le colonie in Africa Orientale Italiana, rivendicare la Savoia dalla Francia, e rivedere il trattato della “Vittoria mutilata” della guerra 1915/1918 (Pace di Versailles). I programmi scolastici davano la priorità alle conquiste di Roma, alla storia della “rivoluzione fascista”, ai segni che indicavano l’Italia portatrice di civiltà. Attività fisiche, saggi ginnici e olio di fegato di merluzzo in aula prima di iniziare le lezioni per compensare il cibo poco sostanzioso. Imperativo del duce: alla donna sta la maternità come all’uomo sta la guerra, è l’aratro che traccia il solco, è la spada che lo difende. Canzoni sempre inneggianti alla guerra e poi figlio della Lupa, balilla, moschettiere, avanguardista, giovane fascista del Littorio, premilitare, servizio di leva, soldato pronto per la guerra. I soldati delle classi di regime 1918/1924 combatterono e morirono su tutti i teatri di guerra del mondo: per moltissimi di loro non è stato possibile piantare una croce sulle loro tombe in quanto dispersi. Le classi 1925/1926 a partire dall’8 settembre 1943 combatterono nella Resistenza o al servizio degli Alleati, altri servirono nella Repubblica Sociale al servizio dei Tedeschi invasori. La storia ci dice che questi giovani furono particolarmente addestrati alla tortura e all’eccidio: sicuramente la responsabilità fu degli
adulti, che con facilità influirono su questi giovani- che avevano ricevuto dalla scuola una preparazione errata ed aberrante. Oggi la scuola, grazie al sacrificio di chi diede la vita, è libera e democratica, indica come finalità educative la Pace e la Fratellanza, anche se forse è ancora insufficiente nell’insegnamento della storia dalla nascita della dittatura alla fine del conflitto. Dallo studio di questa epoca storica si può facilmente evincere che le classi 1905/1924 furono le più sacrificate: alcune fra servizio di leva e richiami prestarono servizio per almeno ben otto anni! «Ci hanno rubato la gioventù» potrebbero testimoniare tutti questi giovani di allora, che combatterono tutte le guerre, nel 1936 in Etiopia, nel 1938 in Spagna, dal 1940 al 1945 nella seconda guerra mondiale. Sono passati 68 anni dalla fine di questa guerra, eppure non siamo stati capaci di esprimere una nuova classe dirigente e siamo in piena crisi sociale ed economica, abbiamo una situazione di degrado morale eccezionale: omicidi, suicidi, violenza sulle donne, delinquenza comune e politica, disonestà diffusa, miseria morale e culturale. Sembra che tutti si siano dimenticati i sacrifici sopportati dalle generazioni precedenti e dai tanti che persero la vita. Oggi il revisionismo, facendo leva sull’indifferenza, sull’amnesia collettiva e sull’ignoranza programmata, cerca di sovvertire la realtà storica accreditando i carnefici come uomini di virtù, per cui si pone l’esigenza di fare chiarezza su chi furono gli oppressori e gli oppressi, gli assassini e le vittime. Siamo diretti ormai da tantissimi anni da un individuo che detiene un potere economico e mediatico immenso, tramite un clan di affaristi, che è diventato una specie di padrone assoluto oltre che il creatore di tutti i guai italiani. Mi domando, ci domandiamo noi combattenti che cosa direbbero i nostri morti se potessero parlare, che delusione proverebbero, penserebbero ancora a un uomo inviatoci dal destino? Si chiederebbero come sia possibile che i loro figli facciano il loro stesso errore? «Credere, obbedire» gridano: attenzione alla terza parola! Sergio Paolieri Presidente della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci Prato, settembre 2013
Ringraziamenti QUELLO CHE VI APPRESTATE A LEGGERE È IL SESTO VOLUME DE LE ULTIME VOCI, LA PUBBLICAZIONE PERIODICA PROMOSSA DALLA FEDERAZIONE DI PRATO DELL’ASSOCIAZIONE COMBATTENTI E REDUCI. OGNI NUMERO CHE VA ALLE STAMPE RAPPRESENTA UN IMPORTANTE TRAGUARDO PER L’ASSOCIAZIONE, CHE DA ANNI È IMPEGNATA NELLA RACCOLTA E NELLA DIVULGAZIONE DELLE MEMORIE, ORALI E MATERIALI, RELATIVE ALLE GUERRE MONDIALI, E, COME NON MANCHIAMO MAI DI RICORDARE, È IL RISULTATO DELL’IMPEGNO COLLETTIVO DI TANTE PERSONE, CHE È DOVEROSO RINGRAZIARE. IN PRIMO LUOGO VANNO RINGRAZIATI I TESTIMONI, CHE SEMPRE CON ESTREMA GENTILEZZA RACCONTANO LE LORO STORIE AFFINCHÉ SIANO DI ESEMPIO E DI INSEGNAMENTO PER LE NUOVE GENERAZIONI: SENZA DI LORO NON CI SAREBBE IL LIBRO CHE STATE PER LEGGERE. PER QUESTO VOLUME IN PARTICOLARE RINGRAZIAMO GIACOMO MILLONI, CHE HA RACCONTATO LE STORIE DEL NONNO ALAMANNO MAGNI E DEL PADRE ARCHIMEDE.
UN SENTITO GRAZIE VA POI AI COLLABORATORI CHE RACCOLGONO IL MATERIALE: LUANA CECCHI, MICHELE DI SABATO, SILVANA SANTI MONTINI, FRANCESCO VENUTI, SERGIO PAOLIERI, PROMOTORE DELLA COLLANA E PUNTO DI RIFERIMENTO PER LE ATTIVITÀ DELL’ASSOCIAZIONE.
Indice delle testimonianze Armando Abati...........................................................................13 Fiorello Angelini..........................................................................15 Rolando Baroncelli......................................................................20 Gennaro Bianchi.........................................................................23 Pietro Brienza.............................................................................29 Egisto Bruni................................................................................34 Giacomo Cimarelli.......................................................................38 Emilio Colarusso.........................................................................44 Vasco Degl’Innocenti...................................................................48 Brunero Ferroni..........................................................................51 Alfredo Fusi................................................................................54 Otello Giuliani.............................................................................60 Giorgio Gori................................................................................62 Alamanno Magni.........................................................................67 Archimede Milloni.......................................................................75 Carmine Piemonte......................................................................87 Carlo Alberto Poccianti................................................................91 Antonino Conti...........................................................................95 Guido Scarpelli...........................................................................97 Marcello Vannucci.....................................................................101 Giordano Siro Vignolini..............................................................109 Su Bogardo Buricchi e l’11 Giugno 1944......................................114 Il Balilla va alla guerra ..............................................................127
Volume sesto Armando Abati
Armando Abati è nato a Vaiano, nel Comune di Prato il 22 maggio 1920. Nel 1940 è arruolato nel 14° Reggimento Artiglieria da Montagna ed inviato sul fronte Albanese. Dopo l’armistizio dell’8 Settembre fu fatto prigioniero dai Tedeschi e trasferito in diverse località (probabilmente non tutte sede di campi di concentramento, pur essendo controllate dai nazisti). Con l’arrivo degli Alleati fu liberato e poté rientrare in Italia.
Armando Abati, nato a Vaiano, Comune di Prato, il 22 maggio 1920, in una famiglia di contadini a Poggiole un podere sopra la Tignamica. «Ho lavorato nei campi fino al 2 gennaio 1940, quando mi arrivò la cartolina di leva. Dal Distretto di Firenze fui inviato in Albania. Il mio reggimento era il 14° Reggimento Artiglieria da Montagna. Avevo il cappello degli alpini, la mia montura mi piaceva. Siamo arrivati a destinazione nel mese di gennaio e in autunno ci hanno mandati sul fronte ai confini dell'Albania con la Grecia. I combattimenti terminarono nel maggio del 1941. Eravamo in zona di guerra a presidiare la zona. In seguito fummo mandati in Montenegro, dove si combatteva contro i partigiani di Tito. Le battaglie erano cruenti, meno male ho avuto fortuna, non sono mai stato ferito. Il rancio era scarso e dovevamo comprare il cibo. I soldi li avevamo perché ci pagavano abbastanza bene. La paga la davano una volta al mese. Tutto cambiò l'8 settembre del 1943, quando ci fecero prigionieri. Tutti in colonna dalla località di Cettigne, a piedi, abbiamo camminato un mese fino a Pristina. Abbiamo patito freddo e fame, si dormiva in terra senza coperte per ripararsi dal freddo. Io ho resistito perché i miei piedi erano ben calzati, ma a molti sanguinavano e facevano una gran fatica a camminare. Finalmente siamo arrivati a Belgrado, e siste13
Ultime Voci mati in un campo di concentramento dove ci facevano lavorare a lavori duri, quasi senza mangiare e senza lavarsi. Si mangiava qualche patata e quello che si trovava per terra. I soldati tedeschi, che ci comandavano erano tutti invalidi e mutilati di guerra, chi era zoppo, a chi mancava una mano, grandi ferite al viso o agli occhi, ma con noi erano tremendi, guai a non obbedire. Sempre nell'autunno del 1943 ci portarono nei pressi di Norimberga, in seguito in Ungheria, a Shoko . Si lavorava sotto le SS , nei campi di canapa e barbabietole. Fortunatamente i contadini ci davano qualcosa da mangiare. Io ero ridotto proprio male, non ce la facevo più. Portavo sempre il cappello degli Alpini, mi sembrava che mi aiutasse a sopportare quei patimenti. Non ero nelle simpatie delle guardie, mi trattavano male. Con un mio amico decidemmo di scappare. La mattina presto, quando ancora tutti dormivano comprese le guardie, riuscimmo a scappare, ma facemmo poca strada, ci catturarono soldati dell'esercito tedesco. Dopo vari interrogatori da parte delle SS, arrabbiatissimi perché non riuscivano a capire la nostra provenienza, ci arrestarono e ci misero in prigione. Nelle celle si stava malissimo, non c'era né luce non un filo d'aria e non ci davano da mangiare. Siamo rimasti in quell'inferno per quattro mesi. Quando ci prelevarono e in treno ci portarono in una zona vicino a Vienna, in un campo di concentramento, questo fu l'ultimo. Da questo campo, non mi ricordo il nome, ci condussero, a piedi, alla nave, dove siamo rimasti per un mese, eravamo diretti al campo di sterminio di Mata perché avanzava l'Armata Rossa. Fortunatamente non siamo arrivati al campo di sterminio, sono arrivati gli alleati. Dopo due mesi ci hanno rimpatriato, finalmente ho rivisto la mia famiglia, non credevano ai loro occhi, non mi riconoscevano, ero magro, magro, irriconoscibile, stentavo a stare in piedi, ed erano passati sei anni. Il barbiere, dopo essermi lavato e rifocillato mi fece barba e capelli disse: «Se un more questo non more più nessuno». Con le cure e l'affetto dei miei cari guarii e iniziai a lavorare come tessitore per conto terzi, mi sono fatto una famiglia e in seguito mi sono trasferito a Prato».
14
Volume sesto Fiorello Angelini
Fiorello Angelini è nato a Prato il 15 Novembre del 1921. A vent’anni fu arruolato in Marina ed inviato sull’Isola di Lero. Dopo l’armistizio rifiutò l’offerta di aderire alle forze tedesche e fu internato in Germania. Sopravvissuto alla prigionia, nel 1945 riuscì a rientrare in Italia.
Fui richiamato militare nel 1941. Avevo vent’anni, essendo nato a Prato il 15 novembre del 1921 e l’Italia era in guerra contro gli Inglesi. Fui arruolato nel corpo della marina, addetto ad una batteria costiera del fronte dell’Egeo sull’isola di Lero, dove rimasi per due anni, dal 1941 al 1943. Nel 1943, con l’Otto Settembre, l’armistizio del maresciallo Badoglio ribaltò la situazione, ora gli amici di ieri diventavano nemici e viceversa. La situazione si presenta subito caotica e controversa, anche se l’isola era presidiata dalle forze militari dell’esercito, della finanza e della milizia. Domando: Quali direttive vi erano state date l’Otto Settembre? Le direttive del comando italiano furono di difendere l’isola. I combattimenti durarono circa due mesi e la difesa principale era quella di ostacolare con l’uso massiccio delle contraeree, i famigerati stukas e con le batterie costiere le forze di mare. Dopo quattordici giorni e notti di continuo martellamento, arrivarono le forze di mare tedesche e l’esercito italiano viene sopraffatto. A quel punto, tutti i soldati italiani furono prigionieri dei 15
Ultime Voci tedeschi. Il nostro ammiraglio fu deportato in Germania insieme ai soldati, ma prima ci riunirono in un campo di raccolta, vicino all’aeroscalo, dove ci fu detto che potevamo scegliere una delle tre proposte: aderire alle forze tedesche, impegnarsi a lavorare in loro favore, o l’internamento in Germania. La maggioranza di noi scelse l’internamento in Germania. Io ero tra quelli, perché lo confesso, sentivo dentro di me un grande odio per i tedeschi. Avevo visto morire, causa loro, quattro dei miei compagni. Morirono per lo scoppio di un cannone di una delle quattro batterie contraeree e navali a cui eravamo impegnati, altri per lo stesso motivo furono gravemente feriti. Le batterie funzionavano senza sosta e i soldati si comportarono in modo eroico sparando una tale quantità di ordigni inimmaginabile, tanto che quando i tedeschi vennero a prelevarci, rimasero stupefatti nel vedere la gran massa di bombe sparate. Da quel momento eravamo prigionieri dei tedeschi. I tedeschi ci radunarono a Porto Longo, nel centro dell’isola di Lero, in attesa di altri spostamenti e destinazione. Infatti dopo due giorni arrivò una nave tedesca con la scritta a grandi caratteri “Prigionieri”. Eravamo circa duemila marinai, fummo imbarcati tutti su quella nave e dopo due giorni siamo giunti ad Atene. Al momento dell’imbarco, due cose mi sono rimaste impresse dentro e non le dimenticherò mai. Ci emozionò profondamente la presenza di una “matresse” appositamente venuta per salutarci. Ci salutò uno a uno stringendoci la mano e con parole di incoraggiamento e di augurio. Il gesto commosse e stupì per la solidarietà e la sensibilità davvero inaspettate. L’altro fatto dette la misura della durezza dei militari tedeschi nei confronti dei prigionieri. Erano veri aguzzini. Quando i prigionieri arrivavano sulla nave, li facevano scendere nella parte bassa, nella stiva, per tanto era predisposta una grossa fune. Via via che i prigionieri salivano dovevano prendere la fune con le mani e lasciarsi scivolare fino in fondo, spintonati e incitati da urla ingiuriose, a far presto. La maggior parte arrivava a destinazione con le mani piene di sangue e doloranti. Una volta sistemati, fu data ad ognuno una pagnotta di forse mezzo chilo di pane, che ci doveva bastare per i due giorni di viaggio, senza aggiunta di altro, nemmeno dell’acqua che veniva concessa solo in particolari momenti e spesso arbitrariamente. Durante il viaggio eravamo controllati a vista e con le armi puntate addosso, pronti a intervenire malamente per un nonnulla. 16
Volume sesto Arrivati al Pireo, porto di Atene, ci concentrarono in una grande piazza, dove vedemmo le masse delle divise dei vari corpi militari italiani. Anche noi, come quelli che ci avevano preceduto, fummo costretti a spogliarci della divisa d’ordinanza e vestire la montura dell’esercito italiano, senza distinzione d’arma. Dopo pochi giorni trascorsi nell’incertezza, ci trasportarono in una stazione secondaria di Atene, dove c’era un treno pronto ad aspettarci. Era un treno di almeno trenta vagoni merci, in ogni vagone venivano fatti salire cinquanta uomini, stipati come bestie e guardati a vista da un soldato tedesco armato. Anche stavolta fu dato ad ognuno il solito pezzo di pane che doveva bastare per tutto il viaggio e niente acqua. Siamo rimasti sul treno quindici giorni, in condizioni terribili. Partiti dalla Grecia siamo arrivati in Austria, abbiamo attraversato il Danubio per entrare in Romania, da qui siamo stati dirottati verso la Polonia e quindi entrati nella Russia Bianca, nel campo Minch . Quel campo di concentramento era difeso da ben quattro reticolati e il clima era quanto di più terribile potesse esserci. Siamo entrati col treno fino in fondo al campo, dove ci aspettava un capannone che non prometteva nulla di buono. Appena arrivati ci fecero fare il bagno. Eravamo pieni di pidocchi e ne avevamo proprio bisogno. Il sapone col quale ci siamo lavati era fatto con i corpi di altri prigionieri. Ma questo lo sapemmo solo dopo. Poco tempo dopo, una trentina di noi, tra i quali anch’io, fummo fatti salire su un treno e spediti ancora una volta verso l’ignoto, stringendo nelle mani quell’unico pezzo di pane che doveva bastare per tutto il viaggio. Dopo circa duecento chilometri attraverso il feroce freddo della Russia Bianca, arrivammo a Vileika, località vicina ai Balcani. Ci accolse una tempesta di neve incredibile. Non era possibile vedere nulla, eppure per arrivare a destinazione bisognava fare a piedi, ancora, un bel pezzo di strada. Presi in consegna da un drappello di soldati tedeschi, muniti di cani addestrati a orientarsi in tali bufere, perché per noi era proprio come essere ciechi, non saremmo mai potuti arrivare. Giungemmo comunque mezzi congelati e in condizioni disperate. In questo nuovo campo fummo impegnati in svariati lavori: alla manutenzione della ferrovia, a tagliare il bosco, in lavori di muratura e falegnameria. A me toccò di lavorare in ferrovia, a scaricare mattoni e ballini di cemento. Si lavorava in condizioni disperate per il gelo che non dava tregua, la fame, sottoposti a continue umiliazioni e soprusi di 17
Ultime Voci ogni genere. Condizioni inumane sopportate per otto lunghissimi mesi. I ricordi di questo campo sono terribili! A raccontarli tutti non basterebbe un libro, ma proverò a dire qualcosa. Sveglia che era ancora buio, muoversi in fretta e senza sbagliare nella neve gelata, dura e tagliente come il ferro, ordini e contrordini senza nessun senso, picchiati per il semplice gusto di farlo, umiliati e avviliti, feriti fisicamente senza pietà. Anche a me successe di essere spintonato sul ghiaccio con rabbia inaudita da una guardia e ridotto con la faccia tutta una ferita. Quando mi alzai sentivo dentro lo stesso fuoco che mi bruciava il viso e una forza che faceva paura a me stesso. Mi voltai e tornai alla baracca, consapevole che mi avrebbero potuto sparare alla schiena. Dopo otto mesi, l’avanzata del fronte russo costrinse i tedeschi a ritirarsi. Eravamo sottoposti a marce forzate di quaranta chilometri al giorno in condizioni di fame, di freddo, di debilitazione estreme. Domando: A proposito della popolazione russa cosa può dire? Non abbiamo mai visto nessuno. Eravamo isolati nell’immensa pianura russa, bianca di neve e senza orizzonte, perduti in un inferno di ghiaccio che nemmeno lasciava pensare. Di tanto in tanto, si scorgevano in lontananza altre file di tribolati, uomini, donne e bambini, che sapevamo destinati allo sterminio. Ci facevano pena e in me cresceva un sentimento ostile verso gli aguzzini tedeschi, un odio che mi cresceva dentro e che mi sono portato dietro per lunghissimo tempo. Quelle camminate forzate ci portarono a Vilna, in Estonia , da lì in treno raggiungemmo Stettino per l’imbarco, dove una nave , attraverso il mar Baltico ci portò, prima in Danimarca e poi a Rigeln, cittadina a nord della Germania quindi a Kiel vicino ad Amburgo, sistemandoci in un campo di concentramento degli inglesi. A Rigeln fummo impiegati in diversi lavoretti, ma per lo più nella rimozione delle macerie. Intanto si sentivano sempre più vicino le incursioni aeree e i cannoni delle forze alleate. Erano segni favorevoli per noi, ci facevano ben sperare. Un giorno, in occasione di un bombardamento, intesi rifugiarmi in una specie di casello ferroviario, come aprii la porta lo trovai pieno zeppo di soldati tedeschi morti e tutti nudi. Ne fui fortemente impressionato e con l’orrore negli occhi, richiusi e scappai di corsa. Ci furono anche malattie, come il tifo petecchiale che decimava. I malati venivano pre18
Volume sesto levati, ci dicevano per mandarli all’ospedale, ma di loro non si sapeva più nulla. Chissà che cosa succedeva! Intanto, sempre più netti segni e accadimenti ci facevano capire che la guerra era alla fine. Le guardie ci guardavano sempre meno, diminuivano per numero e per severità. Finché ci sentimmo liberi e con mezzi di fortuna raggiungemmo Amburgo, da qui col treno potemmo tornare in Italia che trovammo tutta una rovina. Era il 1945.
Fiorello Angelini in Marina.
19
Ultime Voci Rolando Baroncelli
Rolando Baroncelli nacque a Prato il 13 agosto del 1922. Nel 1941 fu assegnato alla fanteria da sbarco ed inviato in Corsica dove restò fino all’8 Settembre del 1943. Tagliato fuori dai combattimenti insieme ai compagni si diede alla macchia per un anno, quando fu trasferito in Sardegna e poi a Benevento dove fu riassegnato nei ranghi dell’esercito italiano alleato. Dopo poco fu congedato per motivi di salute e rimandato a casa.
Sono nato a Prato il 13 agosto 1922, alle ore 17, come puntualmente mi ricordava la mamma. A me il fatto di essere nato mi ha sempre dato l’idea di una cosa bellissima, riempiendomi d’immenso: una nuova unità vivente veniva a far parte dell’universo mondo e ero IO. Ricordo e voglio raccontare due particolarità della mia infanzia, perché credo abbiano influito a farmi diventare e essere chi sono. Quel ricordo mi dava e l’impressione continua tuttora, un piacere unico e completo del corpo e della mente, un senso di benessere intenso di sicurezza, provando ogni volta la stessa forte sensazione di gioia e consapevolezza di me. Era quando il babbo veniva la sera a rincalzarmi le coperte per la buonanotte. Sentivo di essere amato e prezioso. Lo stesso piacere di gioia di vivere era al risvegli, quando mio padre ci faceva trovare, a me e mio fratello, il regalo di un mandarino o un fico secco, che appendeva a un filo di rafia ai ferri del letto facendolo ciondolare sul nostro viso. Per me era ogni volta una sorpresa eccezionale, completa. Mi sentivo al centro del mondo, mi sembrava di tenerlo in pugno il mondo. Era il regalo più bello perché era completo di tutto. La mamma era una cosa a sé. Rappresentava la struttura portante della famiglia. Era la famiglia nella totalità: materiale e morale, per intelligenza e lungimiran20
Volume sesto za, il buon senso e la misura, una rara capacità educativa innata, creativa e umana, con la quale ci ha tirati su, nonostante la vita grama dei tempi come la mancanza del necessario sostentamento. Ai miei tempi in prima elementare si facevano le aste, i punti e le linee e un po’ mi annoiavo. In seguito, la maestra scoprì la mia capacità coi numeri e con quelli ho continuato il mestiere della vita in modo piacevole e soddisfacente. Ho continuato la scuola fino alla classe quinta elementare, che per quei tempi era già tanto. All’età di 12 anni e tre mesi, con regolare libretto di lavoro, fui assunto nel reparto filatura dal Calamai sul Bisenzio, quella dei figli di Michelangelo Calamai. Iniziai col fare il “bobinaio” a turni di otto ore, compresi quelli di notte, a tredici il “ragazzo” ossia l’aiuto sottofilatore, e a quindici il grado di “sottofilatore”. Il lavoro era a cottimo, si guadagnava in base alla produzione, consisteva in otto ore continuative dei turni sia di giorno che di notte. Ma il lavoro quando non uccide fortifica. Questa situazione durò fino al momento della chiamata del servizio militare in periodo di guerra: dicembre 1941 – dicembre 1944. Fui assegnato alla fanteria da sbarco “Divisione Friuli e avendo fatto l’addestramento di preparazione sulle coste tra Marina di Pisa e Castiglioncello per otto mesi, la mia prima operazione militare doveva essere lo sbarco a Malta. L’operazione venne annullata dai tedeschi perché ritenuta ad “alto rischio”. Aggiungo che sicuramente saremmo morti tutti. Quando gli americani sbarcarono ad Algeri nel mese di novembre 1942, tutto il reparto di cui facevo parte venne destinato in Corsica, dove restammo fino all’otto settembre 1943, quando gli alleati tedeschi divennero nemici. In quel passaggio improvviso ci furono scontri, secondo radio Scarpa, con trecento morti e molti feriti. Io, insieme ad altri, rimanemmo tagliati fuori e non ci rimase altro da fare che ritirarsi sulle montagne e il più possibile vicino ai piccoli centri abitati della zona, dove sarebbe stato più facile trovare qualcosa da mangiare. Eravamo militari male armati e senza alimenti e vestiti. Nel mio girovagare trovai nel bosco un particolare melo selvatico carico di frutti. Per giorni lo tenni nascosto ai compagni, ci andavo di soppiatto, per vincere i morsi della fame che non dava tregua. Alla macchia dopo venticinque giorni di permanenza nella zona, gli orti dei contadini sembravano visitati dalle cavallette. Non c’era più nulla! Finalmente nel novembre del 1943, fummo trasferiti in Sardegna dove restammo fino al giugno del 1944. Rientrati in continente, come si diceva, fummo portati prima a Napoli e dopo a Benevento dove fu riorganizzato l’esercito italiano con gli alleati, fummo adeguatamente 21
Ultime Voci equipaggiati e se pure in un’altra banda, sempre guerrieri. In Sardegna io mi ero ammalato di malaria e per quel motivo ottenni una licenza di convalescenza rinnovabile. Tornato a casa, avevo soltanto la montura militare, mi potei curare dai numerosi attacchi malarici con il chinino che mi procuravo con i soldi di mio fratello che, meno male, lavorava. Erano giorni duri ma ero giovane e ottimista, sapevo che ci sarebbe stato per tutti un tempo migliore. Già cominciavo bene perchÊ, per me, la guerra finÏ con la convalescenza.
22
Volume sesto Gennaro Bianchi
Gennaro Bianchi, nato a Sofignano Comune di Prato il 16 settembre 1919, fu chiamato alle armi nel 1940 ed inviato in Africa nel battaglione mitraglieri. A causa di una malattia, dovette tornare in Italia; rimessosi, fu assegnato agli alpini e successivamente, dopo aver preso il brevetto di paracadutista, alla divisione Nembo.
«Sono Gennaro Bianchi nato a Sofignano Comune di Prato, provincia di Firenze, il 16 settembre 1919. Ho trascorso l'infanzia sui prati della Calvana a badare le pecore, nella solitudine e nel silenzio dei luoghi, ho frequentato la scuola elementare fino alla terza classe, perché la mia era una famiglia numerosa, non si poteva fare di più. Il 2 febbraio 1940, richiamato alle armi, mi presentai al Distretto di Firenze, dove fui vestito e assegnato al battaglione mitraglieri, con destinazione Africa settentrionale. Tornai a Prato e partii per Napoli insieme ai compagni. A Napoli fummo imbarcati sul Lombardia-Genova, arrivando dopo cinque giorni nei pressi delle città di Derna e Tobruch, in Libia. Noi, soldati italiani eravamo vestiti con abiti in “grigioverde” invernali e scarponi, perciò arrivati a destinazione il disagio e il disorientamento per il caldo e l'ambiente nuovo, provocò un certo sgomento. Nel mio battaglione eravamo in cinque toscani, nella chiamata d'appello fummo messi nello stesso gruppo e nominati caporali. Sapevamo che per il nostro battaglione erano previsti degli spostamenti verso l'interno della regione, nella zona del deserto. Ma intanto, a pochi giorni dall'arrivo, ci portarono sulla spiaggia di Tobruch per fare un bagno, 23
Ultime Voci fummo subito avvistati dagli aerei nemici che cominciarono a mitragliarci. Si dovette tornare di corsa nei fortini e fummo fortunati perché a nessuno successe niente. Dopo una permanenza di dieci giorni ci fecero spostare a piedi verso l'interno del deserto libico». Gennaro racconta di una marcia difficile e drammatica perché gli si erano formate delle grosse vesciche ai piedi e gli davano grande dolore. Allora un ufficiale gli consigliò di levarsi gli scarponi e di rifasciarsi i piedi nelle apposite “pezze” per poter proseguire la marcia di altri venti chilometri. «Dopo uno spostamento complessivo, più o meno, di cinquanta chilometri, ci dettero l'ordine di fermarci e costruire un accampamento. Qui il disagio più grosso era la mancanza d'acqua. Non c'era una goccia d'acqua. Venivamo riforniti con autobotti e nemmeno una goccia poteva essere sprecata. Intingevamo il dito in ogni anfratto o superficie con segni di umidità». Nell'accampamento, dopo un po' di tempo Gennaro si ammala di febbri intestinali e di tifo. Per lui si rese necessario il trasferimento a Derna dove avrebbe ricevuto cure più efficaci e appropriate, ma la malattia non dava segni consistenti di miglioramento, perciò la Commissione decise il rimpatrio. «Così, continua Gennaro, fui trasportato a Napoli con la nave Arno dove mi curarono bene e mi ripresi in poco tempo. Dimesso dall'ospedale fui mandato a casa in convalescenza per tredici giorni. Finita la convalescenza, mi presentai al Distretto a Firenze. Questa volta venni assegnato alla Divisione Trento, “Corpo Alpini”. A Trento mi trovai subito a mio agio, la caserma degli Alpini era bella, grande e accogliente. Come caporale avevo il compito di andare a prendere alla stazione le reclute che arrivavano e accompagnarle in caserma. Qui, dopo poco, mi fu dato il grado di Caporal Maggiore col compito di istruttore dei nuovi arrivati. Ero molto orgoglioso, pensando che avevo appena la licenza di terza elementare e quando ero partito non sapevo spiccicare parola, ero timido e in difficoltà a relazionarmi con gli altri. Ora ero diventato disinvolto, capace di farmi apprezzare e di farmi onore. Da Trento fui trasferito a Recoaro, dove continuai la mia attività di istruttore facendomi notare per le mie buone qualità, tanto che fui promosso a pieni voti Sergente. Della permanenza a Recoaro ricordo vivamente la bellezza del paesaggio, dei luoghi incantati tra mare e cielo. A questo punto, siccome spesso mi lamentavo di avere pochi soldi, un mio superiore mi propose di partecipare al corso dei paracadutisti, dove avrei avuto la possibilità di 24
Volume sesto guadagnare qualcosina in più, che a me faceva comodo. Così accettai e partì per Tarquinia, vicino a Roma, per fare il corso di addestramento. Fu un corso affrettato e intensivo, perché bisognava essere pronti per completare la Divisione Nembo, di cui c'era necessità per imminenti operazioni. Furono tre mesi intensi di esercitazioni e addestramento, nei quali mettevo tutte le mie forze, non mi prendevo nemmeno il tempo di mangiare tanto ero preso dagli esercizi richiesti e dal desiderio di voler riuscire. Dopo tre mesi, precisamente nel mese di aprile, lo ricordo come se fosse ora, ci fu il “battesimo dei lanci”. In una settimana mi fecero fare cinque lanci: era un record di resistenza e bravura. Conquistai il brevetto. Così, con il mio battaglione, il XVI del 183° Reggimento, il Nembo era completo. Ci mandarono a Viterbo, però essendoci lì un campo di aviazione eravamo sottoposti a continui bombardamenti e fu necessario spostarci sui monti vicini, dove si rimase per pochi giorni. Infatti ci fecero partire per la Sardegna, destinazione Bastia in Corsica, che raggiungemmo attraverso Palau e le Bocche di Bonifacio. A Bastia c'erano i soldati tedeschi e noi non volevamo stare con loro, allora tramite un accordo tra le parti fu deciso che i tedeschi se ne andavano e gli italiani restavano». In questo contesto, per onori e meriti, Gennaro Bianchi fu promosso Sergente Maggiore. Conserva di quel periodo un riconoscimento scritto all'eroismo della Nembo di cui faceva parte e che giustamente mostra con orgoglio. Dalla Corsica i soldati italiani tornarono in Italia, in Puglia, Gennaro racconta di aver fatto tutta la traversata a cavallo di un fusto di cannone. A questo punto i nostri soldati si unirono agli Alleati contro i tedeschi, pronti a risalire e a liberare la penisola dall'invasore. Tappa dopo tappa, gli eserciti arrivarono ad Ancona, dove Gennaro fu colpito nuovamente da febbre alta e per questo mandato a Firenze con una licenza di quindici giorni. Finita la licenza e ristabilito in salute, raggiunse il suo battaglione a Cadore, nel Trentino. «Quei cinque mesi, si era ormai alla fine del 1944, trascorsi a Cadore, passarono felici, fu per me un periodo indimenticabile, sia per il posto che non si dimentica per le bellezze naturali, sia per il rapporto di amicizia e di stima con le persone frequentate. Il 25 aprile 1945, mi arrivò il congedo e tornai a casa». «Forse sbagliai - dice ora Gennaro - Se avessi dato retta a chi mi consigliava di restare nell'esercito e fare carriera, perché ne avevo tutte le possibilità, la mia vita sarebbe stata 25
Ultime Voci senz'altro diversaÂť.
1941 il sergente Gennaro Bianchi istruttore a Recoaro
26
Volume sesto
1940 Gennaro in Libia. La scritta sulla fotografia dice:�Tobruch 1940 Giugno�
27
Ultime Voci
Esercitazioni nel deserto Libico Caserma degli alpini Divisione Trento 30 gennaio 1943
28
Volume sesto Pietro Brienza
Pietro Brienza nato il 7 agosto 1910 a Monteleone (Foggia) all’età di 20 anni fu richiamato di leva ed assegnato al Battaglione A.O.I. 1° Compagnia Bersaglieri. L’8 settembre era di stanza in Albania, dove fu catturato dai tedeschi e deportato in Germania. Nel 1946 rientrò in Italia dalla sua famiglia. La seguente testimonianza sono i ricordi di quel periodo raccontati dalla figlia Felicita Brienza.
Mi chiamo Felicita Brienza, sono nata nel 1935 a Monteleone (Foggia), sono cresciuta fino a 11 anni senza conoscere mio padre, causa la guerra, lui era sempre sotto le armi. Anche se i ricordi sono ormai lontani e sbiaditi dal tempo, desidero lasciare la mia testimonianza di quel triste periodo. Io e mio fratello Angelo, siamo cresciuti senza la figura paterna, però siamo stati fortunati, nostro padre tornò, ma tanti bambini non hanno mai conosciuto il padre, morto in guerra o nei campi di concentramento. Mio padre si chiamava Pietro Brienza, era nato il 7 agosto del 1910 a Monteleone, lavorava come muratore. Si sposò con Francesca Norra, nel febbraio del 1929. Fu richiamato di leva nel 1930, e assegnato al Battaglione A.O.I., 1° Compagnia Bersaglieri. La foto ricordo lo ritrae il 6 settembre nel Fortino di Villa Italia. Finita la leva tornò a casa per poco tempo, fu richiamato di nuovo e fu mandato in Africa Orientale, era il 1935. Tornò a casa per una breve licenza, per ripartire in seguito con il suo Battaglione in Albania. Si distinse nei combattimenti e fu promosso sergente ed è stato insignito della Croce al Merito. Quando era in Albania, con tutto il battaglione, dopo l’8 settembre fu preso prigioniero dai tedeschi, furono tutti trasferiti in Germania in un campo di concentramento. Il babbo raccontava che aveva patito tanto, la fame, il freddo e il duro lavoro, molti suoi commi29
Ultime Voci litoni non resistevano, stavano male e alcuni morivano. Lui era di fibra forte e cercava di resistere, aiutava nel limite delle sue forze i compagni. Finita la guerra furono rimpatriati, ma si era ammalato di polmonite, così fu ricoverato nell’Ospedale Militare di Varese. Noi non avevamo mai avuto notizie, se era vivo o morto, o dove si trovava. Finalmente arrivò una lettera dell’Ospedale in cui ci comunicavano il suo ricovero per polmonite, in seguito non arrivarono più notizie. La mia mamma lavorava tanto per mandare avanti la famiglia, con l’asino, che aveva due otri sulla soma, andava a prendere l’acqua a una fontana fuori dal paese, la vendeva al medico, alla piccola farmacia e anche a privati. Il mio paese era povero, non c’era l’acqua nelle case. Così racimolava qualche soldo; avevamo i polli e un pezzetto di terra, avuto in dote quando si era sposata, lo coltivava e le verdure erano assicurate, la fame non l’abbiamo patita mai, lei lavorava tanto. Dopo l’8 settembre, sulla strada vicino a casa nostra, passavano tanti soldati che tornavano dal fronte, con la mamma e mio fratello sul ciglio della strada, mostravamo la foto del babbo, chiedevamo a quei soldati malmessi e affamati, stanchi, con negli occhi la speranza di tornare a casa, se qualcuno lo aveva visto. Ma nessuno ne sapeva nulla. La guerra era finita da tempo, notizie non ne arrivavano. Finalmente un giorno si vide arrivare, con una carrozza, trainata da due cavalli, era magro, la mamma quasi non lo riconosceva, debilitato dalla malattia ma vivo, era il 1946, io era la prima volta che lo vedevo, quando era partito ero piccolina, non lo ricordavo, durante la sua assenza ero diventata grande, avevo 11 anni. Neppure mio fratello che era più grande di me di cinque anni, lo riconosceva. Il mio babbo sapeva leggere e scrivere, aveva una bella calligrafia ed era bravo nel suo lavoro di muratore, riprese presto a lavorare nella ditta in cui aveva cominciato a lavorare da bambino. Nel 1950 ci siamo trasferiti a Prato, il padrone aveva un figlio che aveva studiato per geometra all’Università di Firenze e poi aveva trovato lavoro a Prato, a Montemurlo venivano costruite case e stanzoni, anche per noi costruì una bella casa, il lavoro non mancava. Lavorò come artigiano edile fino alla pensione.
30
Volume sesto
Foglio di congedo illimitato a favore di Pietro Brienza
31
Ultime Voci
Due immagini di Pietro Brienza La prima a sinistra è la foto menzionata nella testimonianza. Sul retro è scritto: Ricordo del 6 settembre nel fortino Villa Italia. Brienza Pietro. Battaglione Bersaglieri A.O.I. 1 Compagnia La seconda a sinistra reca la scritta: Ricordo del 1930 cugino Pietro. 32
Volume sesto
Documento che attesta la concessione della Croce al Merito di Guerra a Pietro Brienza
33
Ultime Voci Egisto Bruni
Egisto Bruni, nato a Prato il 4 Aprile 1910, fu richiamato alle armi nel 1944 e fu fatto prigioniero dai Tedeschi. Deportato nel campo di concentramento di Auschwitz fu sottoposto ad esperimenti che minarono la sua salute per sempre. Riuscì a sopravvivere e a tornare a Prato, dove continuò ad abitare fino alla morte.
Egisto Bruni, era nato a Prato il 4 aprile del 1910. Lavorava come tessitore al Lanificio Cangioli a San Martino. Fu richiamato alle armi nella prima metà del 1944, dopo pochi mesi (era il 1° settembre del 1944) fu fatto prigioniero dai tedeschi e internato nel Campo di Concentramento di Auschwitz, il suo numero di matricola era 2423. Su di lui furono fatti degli esperimenti “scientifici”, per cui stava sempre male e soffrì molto in questo periodo. Aveva fatto amicizia con un altro prigioniero, Davide Ferro, che lo aiutava quando i suoi aguzzini, dopo aver finito con lui, lo gettavano sulla brandina, svenuto, senza preoccuparsi delle sue condizioni. Egisto restava sulla brandina, senza potersi muovere dal dolore, anche per due giorni. Davide gli bagnava le labbra con l’acqua, e lo costringeva a mangiare il poco cibo cattivo che passavano ai prigionieri, ed era un grosso rischio, se lo avessero scoperto lo avrebbero fucilato. Dopo alcuni mesi in conseguenza degli esperimenti, non si reggeva più in piedi, e i tedeschi lo mandarono a lavorare in una casa di contadini, nella campagna vicino al Campo di Concentramento. Questa famiglia fu molto buona con lui, lo curò e lo aiutò a rimettersi in salute. Quando riprese le forze e si sentì bene, iniziò a lavorare nei campi e ad aiutarli
34
Volume sesto nei loro lavori, cercando di rendersi utile. Finita la guerra fortunatamente tornò a casa. Lui diceva che senza il suo amico Davide e la famiglia di contadini che lo aveva aiutato a rimettersi in salute sarebbe morto. Egisto non si è mai sposato. Al ritorno a Prato andò a vivere con la famiglia della sorella Francesca, in Piazza San Rocco. Riprese il suo lavoro al Lanificio Cangioli sempre in tessitura. Era molto assiduo al Bar San Marco, dove tutti lo conoscevano per una persona mite e buona. Con il suo amico Davide si ritrovarono dopo la guerra, e la loro amicizia, anche se a distanza, proseguì fino alla morte di Davide, che si spense prima di Egisto. I diversi interventi chirurgici e le angherie subite durante la prigionia ad Auschwitz avevano minato la sua salute, ed Egisto rimase una persona fragile, che spesso si ammalava, ed era costretto a frequenti ricoveri ospedalieri. Fortunatamente è sempre stato assistito dalla sua famiglia. Egisto si è spento il 17 luglio 1983. I documenti, come i soldi che lui non cambiò mai in lire, sono stati conservati dagli amati nipoti Piero e Daniela.
Egisto Bruni
Davide Ferro
35
Ultime Voci
Il documento di riconoscimento di Egisto Bruni e nella pagina successiva la banconota che aveva ricevuto in pagamento e che non ha mai speso 36
Volume sesto
37
Ultime Voci Giacomo Cimarelli
Giacomo Cimarelli, classe 1913, è stato Brigadiere dei carabinieri della 28° sezione motorizzata Divisione “Brennero”. Prigioniero dei tedeschi dal 25 settembre del 1943 al 3 luglio 1945, racconta le sue esperienze in un diario. La testimonianza che segue costituisce infatti l’introduzione ad un lungo diario tenuto dal brigadiere a partire dall’8 settembre 1943 fino al 3 luglio 1945 e contenuto in tre quaderni manoscritti. Esso presenta un titolo significativo e un po’ ironico, che proprio per questo carattere sottolinea la drammaticità degli eventi in esso narrati: Uomini, rape, e ... filo spinato. Il presente testo rappresenta già di per sé un documento prezioso per venire a conoscenza delle condizioni di vita di un internato militare italiano nei lager tedeschi. Chi leggerà queste pagine non si attenda gustare una prosa dilettevole e perfetta nello stile e nella forma e nemmeno una documentazione di notevole interesse poiché soltanto chi ha fatto la “villeggiatura” in Germania negli anni 1943-44-45, dietro il reticolato, può trovare interessante quanto ho scritto. Questo scritto, invece, non è altro che la copia esatta degli appunti che, durante la mia forzata permanenza al campo di concentramento “Lager Lho 1242” di Dortmund in Germania, riuscivo con molta fatica e solo saltuariamente a mettere insieme. Principalmente ne ero impedito dalla costante vigilanza dei tedeschi, i quali, per ragioni che riuscivamo a comprendere ma non a giustificare, ci sottoponevano ad improvvise e minuziose perquisizioni, con il risultato che riuscivano sempre a togliere ai prigionieri fotografie, lettere, scritti ed altre cose, tutte utili o care a chi nulla possedeva più di suo. Era naturale ed umano che ciascuno di noi cercasse in tutti i modi, ricorrendo ai più sottili espedienti, di conservare ad ogni costo almeno le fotografie della moglie e dei 38
Volume sesto bambini, della fidanzata o delle persone care. Io avevo un portaritratti con fotografie delle mie care appeso in capo al giaciglio. All’immancabile segnale di allarme di ogni notte e di ogni giorno afferravo il portaritratti e via di corsa, al rifugio. Ogni sera il pacchetto delle lettere che mia moglie mi aveva spedito in Grecia ed in Albania, insieme al pacchetto dei diari, che di giorno nascondevo dietro a una tavola della doppia parete della baracca, trovava posto in una tasca del pastrano ed in tal modo tutto ciò che io possedevo di caro, mi seguiva al rifugio e mi confortava, in mezzo al fragore delle bombe che scoppiavano ed al rombo sinistro ed assordante delle centinaia di fortezze volanti che scaricavano sulla città, sulle fabbriche e sui campi di prigionia, il loro carico mortale. Nel mio diario annotavo i fatti più salienti e gli avvenimenti che si verificavano nel campo, gli allarmi che erano seguiti dai massicci bombardamenti ed altre cosette per altri insignificanti, ma non potevo dilungarmi di più, e per mancanza di comodità e per “ragioni di sicurezza”, nel descrivere fatti, situazioni e persone, per non correre inutili rischi nel caso che i tedeschi, prima o poi, fossero riusciti a venire in possesso dei miei appunti. Tanti avvenimenti, tanti fatti, che accadevano nel campo e che pur interessavano la nostra grama vita di ogni giorno, avrebbero dovuto trovar posto nei miei appunti, ma in quei particolari momenti era sconsigliabile fissare sulla carta questi fatti, questi avvenimenti, queste particolari situazioni, per non compromettere me o danneggiare i miei compagni. Per esempio, il carissimo amico PERTILE di Padova, bravissimo pittore, aveva trovato il modo, servendosi di un pennino da disegno e inchiostro di china di riprodurre alla perfezione i bollini della tessera del pane che usavano i tedeschi. Sarebbe troppo lungo spiegare il sistema annonario dei tedeschi, ben dissimile da quello adottato in Italia durante la guerra. In primo luogo i tedeschi disponevano di razioni sufficienti e tutte le altre razioni supplementari consentivano loro di alimentare il mercato nero e di aiutare i prigionieri, specialmente italiani. Le donne tedesche infatti erano particolarmente generose con i prigionieri italiani e chi era abbastanza fortunato ed intraprendente per contrarre l’amicizia di una “frau”, era sicuro di sbarcare bene il lunario. Ritornando alle tessere del pane, i tedeschi disponevano di un bollino da mezzo chilo di pane al giorno. Altri supplementi di pane bianco e scuro, consentiva loro la disponibi39
Ultime Voci lità di parecchie sia pur leggere fettine. I bollini erano sciolti, cioè non facevano parte della tessera nominativa come in Italia e per i tedeschi non v’era obbligo di prenotazione. Gli Alleati poi, che ben conoscevano il sistema annonario che vigeva in Germania, lanciavano spesso pacchi di bollini su alcune zone per turbare la situazione annonaria e questi bollini, perfettamente imitati, venivano immessi sul mercato come regolari. Nel nostro campo capitò pure qualche bollino che si sapeva di “provenienza celeste” e questo, naturalmente, avveniva tramite il mercato nero che prosperava grazie agli italiani, russi e francesi. L’amico PERTILE, come dicevo, iniziò pazientemente la riproduzione a penna dei bollini ed io lo aiutavo. Per la carta era molto semplice procurarsela. Per quattro o cinque mesi infatti andavano a meraviglia le buste gialle d’ufficio che molti avevano ancora. I tedeschi, in seguito, cambiarono carta e questo non mancò di preoccuparci per qualche giorno ma poi il rimedio venne trovato. Infatti i biglietti postali in franchigia che molti di noi avevamo ancora in bianco, servivano magnificamente allo scopo ed anche la leggera filigrana a righe ondulate era identica a quella esistente nella carta dei bollini regolari. Sia per il colore che per il tipo della carta andammo bene per cinque o sei mesi. Intanto anche l’amico CARUGATI di Milano, un vero ingegno, discreto pittore, bravo attore comico, suonatore di violino e fisarmonica e che lavorava alla Ratzbau, una fabbrica di strumenti ed apparecchi di precisione, riuscì a fabbricare un timbro che veniva usato con inchiostro tipografico ed i bollini, allora, venivano stampati in serie. Anche dei bollini falsi non avrei potuto scrivere nel mio diario poiché, se il fatto fosse stato scoperto, la fucilazione era la pena riservata ai colpevoli di reati annonari. Sarebbe stato quindi semplicemente idiota mettere per iscritto la nostra colpa o fare nomi. Nel diario, a pagina 371, accenno al fatto che, andando noi ad occupare una nuova baracca, PERTILE aveva sistemato l’impianto della luce elettrica per il “suo lavoro”. Era proprio il “lavoro dei bollini falsi”, che PERTILE faceva di notte, dietro una coperta 1 Alla data del 1° aprile 1944, sabato, ore 24 l’autore annota: “... Stasera ci siamo trasferiti qui alla camera nr. 2. C’è stato da lavorare ma ci siamo sistemati benissimo. Pertile, come al solito, ha sistemato tutto per bene per il suo “lavoro” ed ha fatto un bell’impianto elettrico per il tavolo, indipendente dall’impianto centrale”.
40
Volume sesto appesa alla branda e mentre lui lavorava alla “camera oscura”, io e ZEPPIERI, a turno, si faceva la guardia per prevenire eventuali sorprese dei tedeschi che erano sempre in sospetto. Altro fatto, che pose in pericolo la stampa dei bollini fu questo: - scrivo a pagina 722 che alcune persone della “polizia” vennero a fare una minuziosa visita nel nostro campo. Annotavo che “non sapevo cosa cercassero” ed invece lo sapevo molto bene perché l’interprete DE ZOLT aveva ascoltato una comunicazione fatta dal Lagerfuhrer al telefono e mi confidò ciò che aveva sentito. CARUGATI era sospettato per i bollini falsi che venivano spacciati in gran copia nei negozi di Ukarde e dintorni (vedi nota 16.3.1945 a pagina 843). Saputo della conversazione del Lagerfuhrer al telefono, mi levai dal letto e cinque minuti prima che i poliziotti entrassero nel campo, riuscii a far sparire il famoso timbro, l’inchiostro e tutto il “materiale annonario” che era sotto l’armadietto di CARUGATI. I poliziotti se ne andarono a mani vuote. Non voglio uscire dal seminato. Dirò solo che, avvenuto il “passaggio volontario” di noi prigionieri a “liberi lavoratori”, dopo l’incontro Hitler-Mussolini avvenuto il 20 luglio 1944, io riuscii con maggiore libertà a raccogliere altri appunti, fotografie, carte stradali e topografiche, documenti e certificati dei deceduti nel campo, alcuni libri che appartenevano alla Sezione del Dopolavoro di Dortmund ed a conservare ancora, nonostante tutte le precedenti perquisizioni, la bandiera della 28° Sezione CC.RR. che non volli distruggere in Albania, secondo gli 2 Alla data 27 ottobre 1944, venerdì, ore 15 l’autore annota: “ ... Ieri sera vennero molte persone, della “polizia”, per controllo delle baracche e dovetti levarmi per accompagnarle. Chissà cosa cercavano? Credo di immaginarlo ././././”. 3 A quella data, venerdì, ore 11, il diario riporta la seguente nota: “Allarme continuo da stamani. Dovevo andare ad Ukarde a prendere il pane con il solito “sistema” ma ero appena giunto a metà strada quando i caccia inglesi si sono avventati verso la miniera. I velocissimi apparecchi hanno cominciato a mitragliare ed a lanciare piccole bombe da bassissima quota verso le sovrastrutture dei pozzi. Ho fatto dietro-front di corsa e sono ritornato al campo infilandomi nel rifugio dove mi sento più sicuro, specialmente quando vengono i caccia a mitragliare. I velocissimi caccia seguitano a girare intorno alle fabbriche ed ogni tanto si sente cantare la mitraglia di bordo e lo scoppio delle bombe che lanciano da pochissima altezza. Sono tranquillo e spero che tutto finisca presto per poter riabbracciare le mie care (moglie e figlia, n.d.r.). Nel pomeriggio vorrei uscire per andare a fare provvista di pennini da calligrafia da portare a casa e di matite da disegno che costano pochissimo e sono veramente speciali. Non ho però tanta voglia di uscire perché i caccia non la smettono mai e mitragliano anche persone isolate che circolano per le strade e per i campi”.
41
Ultime Voci ordini allora ricevuti. Avevo sistemato tutto in una scatola di cartone che speravo riportare in Italia e che invece dovetti lasciare al campo, al momento della liberazione4 (vedi nota 8.4.1945, a pag. 945). Quando, occupata Dortmund dalle truppe alleate, riuscii, insieme ad altri miei amici, a ritornare al Lager Lho 1242, non trovai più nulla perché i mortai, i lanciafiamme e le bombe avevano fatto quasi piazza pulita del campo e della nostra baracca e di altre rimaneva un ammasso di cenere e macerie. Soltanto i tre blocchetti con gli appunti del diario, le fotografie e le lettere di mia moglie, che non mi lasciavano mai, io riuscii a riportare a casa e per me, che avevo ancora la pelle intatta o quasi, era quanto di meglio potevo desiderare. Chi legge il diario dunque rimarrà forse deluso perché troverà solo una scarna e noiosa elencazione dei fatti di ogni giorno e la data e l’ora in cui essi si svolsero. Sarà però facile, specialmente per colui che ha vissuto la tragedia dei campi di concentramento tedeschi, comprendere gli stati d’animo, le preoccupazioni, le paure, le speranze, i sacrifici morali e materiali, la fame e tutto quanto di più orribile e spaventoso i prigionieri in Germania hanno dovuto soffrire. La lontananza dalle famiglie senza notizia alcuna o solo, per poco tempo, brevi lettere per quello che la dura censura consentiva, il sapere che la nostra terra era calpestata dai soldati tedeschi che pur alleati una volta, sono stati sempre i nostri nemici, il pensare 4 Alla data 8 aprile, domenica, ore 15, il diario così racconta: “ ... Eravamo da un’ora al rifugio, in attesa che l’eventuale pericolo passasse; quando ELI’ il francese è arrivato di corsa dicendomi che bisognava andare subito via perché il campo sarebbe stato spazzato via dalle artiglierie dei carri armati che erano vicini. Infatti le avanguardie americane si erano ritirate verso Hukarde sembrando loro pericoloso rimanere al Lager e facendo prima sloggiare tutti. Senza poter ritornare in camera mia, ho preso la pochissima roba che avevo con me e sono partito verso Hukarde insieme a tutti gli altri. Ho dovuto così lasciare parecchia roba anzi quasi tutto perché con me avevo solo i miei appunti, le lettere e le fotografie ed il sacco quasi vuoto. Mi rammarico solo di aver dovuto lasciare il pacchetto dei documenti e dei giornali e dei libri che pensavo portare con me in Italia e tutte le copie degli elenchi dei soldati prigionieri del nostro campo che via via avevo messo da parte. Pazienza, la pelle è sicuramente salva”. 5 “Oggi dunque, 8 aprile 1945, a diciannove mesi precisi dall’armistizio, siamo stati liberati. Vorrei che la mia Ada e la mia bimba ed i miei sapessero che ora è questione di poco tempo e tornerò da loro sano e salvo. Tutto è finito e finito bene, meglio di quanto speravo. Mi è difficile dire ora tutte le impressioni suscitate in me dagli avvenimenti di queste poche ore trascorse da stamane. Forse, con la calma, riuscirei a farlo. Lascio di scrivere, ora, pensando più che mai alle mie adorate che attendono con ansia il mio ritorno”.
42
Volume sesto alle difficoltà nelle quali si dibattevano certamente i nostri cari, ci era causa continua di dolorosa preoccupazione che nemmeno le nostre grandi miserie riuscivano a farci dimenticare, neppure per un istante. Eppure per ventuno mesi si riuscì, benché non tutti, a sopravvivere, sempre col pensiero ai nostri cari lontani che speravamo ancora in vita, nonostante che le notizie di “radio fabbrica” e la propaganda, sia tedesca che alleata, si adoperasse in continuazione per farci sapere che l’Italia stava diventando ogni giorno di più un immane cimitero. I francesi, liberi lavoratori in Germania, che al di là del reticolato godevano di una relativa libertà, ci assicuravano che i tedeschi, ritirandosi verso ed oltre la linea Gotica, lasciavano la terra bruciata ed i tedeschi, dal canto loro ci facevano sapere, a mezzo dei giornali nazi-fascisti “IL CAMERATA” e “LA VOCE DELLA PATRIA”, che gli inglesi e gli americani si vendicavano terribilmente degli italiani, facendo morire di fame donne e bambini e costringendo a duri lavori i giovani e gli uomini validi che non avevano voluto seguire i tedeschi nelle loro nuove posizioni, al Nord. Continue voci di sconfitte disastrose e di vittorie sfolgoranti degli uni e degli altri, notizie contrastanti ma sempre più tragiche e cattive sulla situazione in Italia, circolavano ogni giorno nelle fabbriche ed ogni notte nei rifugi dove si ammassavano deportati, prigionieri ed internati di ogni nazionalità, che la immane tragedia della guerra accomunava nella disgrazia. Chi legge, dunque, non pretenda godersi una divertente lettura, ma cerchi invece, scorrendo le pagine che seguono, di immaginare e comprendere i patimenti di tanti e ringrazio Iddio di averlo risparmiato da tali disgrazie e da tante sofferenze.
43
Ultime Voci Emilio Colarusso
Emilio Colarusso è nato ad Avellino nel 1919. Nel 1939 fu chiamato alle armi ed arruolato nel 13° reggimento Artiglieria. Nel 1942 fu assegnato all’80° reggimento “La Spezia” e partecipò alla campagna d’Africa. Catturato dagli Inglesi, rientrò in Italia nel 1946.
Sono nato ad Avellino e da ragazzo facevo il contadino e il pecoraio, poi a vent’anni partii militare, nel 1939 fino al 1946. Andai a Roma al tredicesimo reggimento artiglieria, poi fui assegnato alla sommeggiata, quella coi muli: si caricava un pezzo e s’andava in montagna. Andammo a fare il campo a L’Aquila: era d’estate ma faceva un gran freddo su quelle montagne e tornammo a Roma alla fine di luglio. Da lì andai a Bari a fare il cuoco e il cameriere agli ufficiali. Feci domanda per entrare nei carabinieri, ma non avevo la quinta elementare: ma quando ho preso il diploma e m’hanno chiamato per andare nei carabinieri i comandanti non m’hanno mandato, perché volevano che restassi all’esercito. Quando è scoppiata la guerra ero a Roma. Allora il mio reggimento andò a fare la guerra contro i francesi, ma io restai a Roma fino al 1942 perché ero di servizio al deposito. Ma avevano bisogno di militari da mandare al fronte e io fui messo nell’elenco di quelli che dovevano partire per la Russia, sennonché un volontario ci andò lui. E allora rimasi lì, ma non per molto: perché fui assegnato all’ottantesimo reggimento di artiglieria “La Spezia”, a Pisa. Da lì cominciò la tragedia. Io fui assegnato all’undicesimo battaglione contraerea e ci portarono all’aeroporto di Roma a fare esercitazioni, perché dovevamo sbarcare a Malta. Là facemmo una decina di giorni di addestramento e poi ci trasferiro44
Volume sesto no a Castellana, a Bari, ad Alberobello. Io ne approfittai per andare a salutare i miei: a Foggia presi il treno per Avellino e ci stetti un giorno e poi ritornai al reggimento. poi una mattina ci caricano su un aereo e ci portano in Sicilia. Noi perciò dovevamo fare lo sbarco a Malta, poi però successe che gli americani sbarcarono anche loro e allora ci mandarono in Africa. Un giorno si parte e io credevo di andare a fare le esercitazioni. Si sbarcò a Tripoli, a Castelbenito e ci portarono in una caserma alle porte di Tripoli. Dopo quattro giorni ci caricarono sui camion e ci portano al fronte, a El Alamein: si fece l’Arco dei Fileni, si fece tutta la Cirenaica, si camminò per giorni e giorni! Quando poi arrivammo ad El Alamein ci attaccarono gli inglesi. Noi eravamo coi tedeschi. I tedeschi avevano tanto materiale e roba da mangiare, pane, scatolette, e invece noi no. Qualche volta ci arrivava qualcosa, ma non bastava. Arrivammo alle postazioni nel deserto e la battaglia di El Alamein era già cominciata; poi gli inglesi sfondarono e i nostri cominciarono a ritirarsi. E c’era il generale Rommel, la volpe del deserto lo chiamavano, veniva a ispezionare; io l’ho visto di persona, veniva a ispezionare anche noi. Il compito era di bloccare il canale di Suez con la divisione “Rieti”, ma non c’era nessun rifornimento di carburante e di munizioni: il battaglione San Marco combatteva all’arma bianca. Si moriva e si stava anche dei giorni senza mangiare, non arrivavano i viveri: le gallette erano finite e io una volta ho mangiato un minestrone con gli insetti dentro, i vermi che camminavano e col cucchiaio li ho tolti e ho mangiato il resto: con la fame che avevo non mi pareva il vero di mangiarlo. Non ci si poteva lavare ed eravamo pieni di pidocchi. Ho visto morire il mio amico Belardinelli, un toscano, ucciso sotto i miei occhi da una scheggia che lo scanna completamente. Poi ci fu la ritirata e noi fummo presi fra due fuochi: gli americani a ovest e gli inglesi che ci incalzavano dal canale di Suez. Arrivarono i bombardamenti e i mitragliamenti. Io ero sul camion, sulla strada principale, Littoria si chiamava, prima dell’Arco dei Fileni, in pieno deserto. Quando si sentiva il rumore degli aerei ci si buttava e una volta mi stavo ammazzando da solo: mi butto dal camion col moschetto in mano e parte una pallottola che mi sfiora un orecchio. Non m’è successo nulla, ma ho avuto paura. Eravamo quasi dopo Tripoli, loro ci incalzavano perché non ci si poteva difendere, non avevamo nulla: invece di mandare viveri e materiale, quei fetenti di comandanti li facevano affondare. Quando fecero fermare le truppe ad El Alamein, la divisione Rieti aveva già avanzato nel deserto all’altezza di Alessan45
Ultime Voci dria d’Egitto e anche il battaglione San Marco, paracadutisti. I tradimenti che hanno fatto! Alla divisione Rieti, invece di mandare benzina, mandavano acqua, i carri armati non viaggiavano. Gli inglesi si sono rinforzati e attaccarono ad El Alamein. Tanti morti ci sono stati! la ritirata l’abbiamo fatta fino alla Tunisia, fino a Sfax. Dopo una notte di bombardamenti e mitragliamenti, verso l’alba arrivò un gran calma, perché gli inglesi avevano già sfondato ed erano passati con i carri. Erano entrati nelle nostre linee e non ce ne eravamo neanche accorti. Io tiro la testa fuori dalla trincea e faccio per guardare e sento dire: “Come on!”. Io mi alzai con le mani sulla testa e ci fecero tutti prigionieri e ci portarono via. Catturati, siamo costretti a ritornare verso Tripoli e poi in un campo di prigionieri in Egitto. Ma prima di arrivare lì fummo bombardati da aerei italiani: fortuna che nessuno dei nostri ci rimase secco. Una volta prigionieri finalmente si ricominciò a mangiare e bere. Ci fecero spogliare, ci misero la divisa di prigionieri e ci dettero un grosso pezzo di pane. Dopo alcuni giorni si poteva già uscire dal campo di prigionia se si voleva collaborare e lavorare per gli inglesi: sbucciare le patate, preparare da mangiare o lavorare nei campi. In genere gli ufficiali inglesi erano gentili, ma mi capitò un sergente maggiore che un giorno disse a noi italiani: “Fuck off!”. E io risposi: “Io, fuck off??? Fuck off you, mammate e sorete!”. Fortuna che dopo qualche giorno ci mandarono per nave ad Alessandria d’Egitto, in un altro campo di prigionia. Lì fecero lo smistamento: chi non voleva collaborare andava al campo 305, chi voleva invece lavorare, lo facevano lavorare. La maggior parte di noi, dodicimila prigionieri, si andò a lavorare in un campo a quaranta chilometri, dove c’erano tutte le razze: italiani, tedeschi, francesi ... Si cooperò fino alla capitolazione della Germania e poi cominciammo a chiedere di rimpatriarci, perché la guerra era ormai finita. Ma per un bel po’ rimandarci in Italia non se ne parlava. Allora per protesta rifiutammo di continuare a collaborare e molti di noi furono inviati al campo 305 dove c’erano i fascisti che avevano rifiutato di cooperare fin dall’inizio. Era un campo di concentramento in Palestina, a cinquanta chilometri da Gerusalemme: non si stava male, ci trattavano secondo le regole della Croce Rossa Internazionale e ci davano anche cinque sigarette al giorno. I fascisti lì prigionieri non ci potevano vedere e allora ci tenevano separati. E quando a volte la mattina ci incontravamo a fare la spesa, erano botte! Perché noi eravamo contro il regime d’allora. Quando venni via ci imbarcammo a Porto Said per rimpatriare, il 24 agosto del 1946: 46
Volume sesto non ritrovai tutta la mia roba che ci avevano tolta lì al campo, come la valigia e la borsa ... Però qualcosa trovai: infatti avevo una valigia grossa più un altro sacco, come quelli che hanno gli inglesi. Arrivammo nel Canale di Sicilia, con la nave che cominciò a fare testa coda: Madonna che correnti che c’erano! e io mi dissi: “Siamo quasi arrivati in Italia e si muore all’ultimo momento!”. Poi si passò il canale e il giorno dopo si sbarcò a Napoli. Quando si venne a Napoli si vedevano tanti ragazzi con fogli da centomila lire in tasca, perché commerciavano sigarette con gli americani. poi andammo al comando e ci diedero ventimila lire per ciascuno e ci mandarono a casa. Quando arrivai a casa i miei corsero ad abbracciarmi e mi diedero la notizia che l’altro mio fratello era morto prigioniero in Germania sotto un bombardamento.
Ritratto di Emilio Colarusso 47
Ultime Voci Vasco Degl’Innocenti
Vasco Degl’Innocenti nacque il 31 marzo 1921. Da sempre di idee socialiste, dopo l’8 settembre entrò nella Resistenza ed operò nella zone tra Prato e Firenze. Tradito da uno dei compagni, fu incarcerato nella prigione di Forte Boccea a Roma, dove subì numerose torture. Dopo la Liberazione di Roma militò dapprima nel’esercito Alleato per poi unirsi alla brigata partigiana Senigallia. La seguente testimonianza è basata su un riassunto dei numerosi appunti scritti da Vasco fatto dalla moglie Anady Ristori e dalla nipote Margherita Ventura. Purtroppo alcuni appunti erano incompleti ed alcuni indecifrabili, ed altri, quelli relativi alla Brigata Senigallia, completamente mancanti; ciononostante, le familiari hanno raccolto sufficiente materiale per raccontare vividamente la storia di Vasco.
Io Vasco Degl’Innocenti, nacqui il 31 Marzo del 1921. L’anno della mia nascita fu segnato dall’avvento del Fascismo. Crebbi in un ambiente familiare in cui prevalevano le idee socialiste ma fuori dalle mura di casa era impossibile non notare i segni della presente dittatura. Il terrore soggiogava gran parte dei miei concittadini al volere del governo. Divenuto orfano di padre fui mandato in collegio, dove vigevano rigore ed obbedienza mantenuti spesso attraverso violenza fisica e incomprensibili crudeltà. Compiuta la maggiore età entrai nell’esercito militare e iniziai ad operare nel distretto di Gaeta. Fui qui toccato da un’esperienza che sarebbe stata determinante per l’evolversi del mio destino. Nelle celle di Gaeta venivano quotidianamente torturati i confinati politici di sinistra. Le loro atroci urla sconvolsero la mia giovane mente e mi spinsero a fuggire.
48
Volume sesto Dopo una breve trasferta militare a Roma, volsi, solo, immediatamente dopo l’8 settembre, verso Firenze, mia città natale. Qui, con il mio animo bramoso di libertà, ritrovai molti compagni. Creammo un gruppo di giovani obbiettori con cui operai a lungo tra Firenze e Prato. Base delle nostre operazioni divenne Piazza Mercatale a Prato. Da qui le armi venivano trasportate clandestinamente a Firenze e da qui raggiungevano i nostri compagni che combattevano nelle campagne. I nostri spiriti fervevano di nobili ideali: libertà e democrazia. La nostra missione fu però interrotta da una retata fascista. Traditi da un nostro stesso compagno fummo separati ed arrestati. Dopo un viaggio di tre giorni, cadenzato da innumerevoli soste, ognuna delle quali andava ad incrementare il numero dei prigionieri, raggiunsi la prigione di Forte Boccea a Roma. Qui rimasi per quattro mesi, mesi di torture di cui a tutt’oggi porto ancora i segni: una lacerazione che solca il mio cuoio capelluto, un’unghia strappatami con forza e mai ricresciuta, bruciature plurime sulla mia coscia destra. Torture che segnarono il mio spirito nel profondo, andando ad acuire il mio bisogno di giustizia ed umanità ma che mai mi portarono a tradire i miei ideali ed i miei compagni. Condivise la cella con me per un breve periodo anche il caro Sandro Pertini, fatto prigioniero in Francia mentre, sotto falso nome, lavorava come muratore. Non ci fu clemenza neanche per lui e il nostro vissuto all’interno del carcere divenne tristemente simile. Difficile qualunque tipo di comunicazione tra i prigionieri, essendo ininterrottamente spiati. La mattina del 24 gennaio 1944, giorno che avrebbe tragicamente segnato la storia del popolo italiano e macchiato di sangue e vergogna le mani dell’esercito tedesco, i cancelli del Forte si aprirono. Era in corso una vigliacca rappresaglia per vendicare l’uccisione di trenta soldati tedeschi avvenuta in via Rasella. Trecentosessanta dei miei compagni di prigione furono prelevati e trucidati alle Fosse Ardeatine. Nel giugno del 1944, giunti gli americani a Roma, fummo liberati. Cercai disperatamente di mettermi in contatto con i partigiani senza riuscirci. Mi recai al Comando americano e dopo le formalità di rito chiesi di aggregarmi. Iniziava un altro periodo difficile: la ritirata dei tedeschi che ripiegavano sulla linea Gotica. Quel terribile inverno lo passai 49
Ultime Voci quasi tutto a Filigare . Inutile ricordare quello che ho incontrato sul cammino: borghi distrutti dai tedeschi in ritirata, partigiani impiccati agli alberi o nelle piazze di piccoli paesi, la disperazione di chi aveva avuto poco ed ora non aveva più niente … Nel marzo arrivammo a Reggio Emilia. Era vivissimo il ricordo della strage dei Fratelli Cervi, e io volli conoscere papà Cervi ed il ricordo di quell’incontro mi commuove ancora. La mia esperienza con gli Alleati finì qui. Dovevo tornare a Firenze, perché volevo unirmi alla Brigata Senigallia. Sentivo che c’era finalmente una certezza, che una finestra si era aperta sul mondo e che tutto l’avvenire era in quello spazio immenso ad attendere che ricominciassimo a volare.
50
Volume sesto Brunero Ferroni
Brunero Ferroni è nato a Prato il 9 giugno 1931. Proveniente da una famiglia antifascista, del periodo della guerra ricorda la fame e gli stenti, nonché le numerose persecuzioni subite dai suoi familiari.
Sono nato a Prato il 9 giugno 1931 in una casa di via Garibaldi vicino a piazza Mercatale. La mamma, Linda Nuti, mi ricordava, data la mia passione per la musica, che mentre nascevo, alla radio che il bar vicino teneva all'aperto perché tutti potessero seguire il "bel canto" e la musica, trasmettevano "La forza del destino". Veniva da sé dire che essendo nato con la musica sono cresciuto con quella passione, che era la stessa anche per mia madre e sicuramente cercava di trasmettermi. Da più grandicello, per un po' di tempo, andai anche a scuola di violino e mi sarebbe tanto piaciuto saperlo suonare. Ma venne il tempo della guerra e le necessità erano altre e di altro genere. Frequentavo la scuola pomeridiana CERI, che allora era in via Garibaldi, sopra la sala del cinema "Garibaldi", appunto. Ricordo che all'interno, in uno sgabuzzino, vendevano materiale di cartoleria per le necessità dei frequentanti. In quel tempo le paure e la fame non ci lasciavano mai tranquilli. Rammento, come se fosse ora, il bombardamento che ci fece precipitare fuori di casa lasciando sulla tavola il mangiare pronto per il pranzo. Quando potemmo tornare, nella pentola c'era caduto un pezzo d'intonaco. I morsi della fame non davano tregua, ma non c'era nulla da fare. La nostra casa esternamente non 51
Ultime Voci mostrava grossi danni, ma l'interno era una frana e non potevamo restare. Sfollammo dalle suore di San Vincenzo. Avevamo sempre fame. La mamma quando faceva il risotto lo cuoceva in una pentola di terracotta, facendolo bollire più del necessario per farlo crescere e almeno all'apparenza sembrare abbondante. Quello che passavano con la tessera non bastava mai, e non poteva bastare, se si pensa che a ogni persona, da quindici anni in su, davano due etti e mezzo di pane, al di sotto, due etti e basta. La mamma, rimasta orfana all'età di due anni, fu affidata alle suore, ricevendo da loro una buona educazione e acquisendo una particolare sensibilità e finezza d'animo che l'hanno caratterizzata poi nella vita. Però, devo dire che fin dalla prima ora tutti in famiglia sono stati antifascisti conosciuti e quindi perseguitati. Il fratello della mamma, Silvano, il sabato doveva consegnarsi ai carabinieri che lo mettevano in "guardina", rilasciandolo il lunedì. Tanti sono stati gli episodi dei quali sono stato testimone. Ho conosciuto "fascistoni", i gerarchi della città, che approfittavano del potere della divisa per dare addosso a chi non la pensava come loro, a chi non si adeguava. Bastava una voce, un indizio qualsiasi, un sospetto, per subire ritorsioni ed essere presi di mira. Questi "bravacci" locali una mattina molto presto si presentarono in casa di una famiglia, conosciuta appunto come non allineata. Entrarono di prepotenza, portarono via il capo famiglia, buttarono fuori gli altri, poi si diedero a spaccare e a rovesciare tutto quello che c'era da spaccare o da rovesciare, lasciando un macello. Non era rimasto nulla, neppure un bicchiere per bere. E, naturalmente, questa era la norma per tutti quelli che si ribellavano al fascismo. Il fatto destò indignazione e pietà fra la popolazione e lo zio Silvano organizzò una colletta perché quella famiglia potesse in qualche modo ricominciare. Alle elementari avevo la maestra Gurioli Vivarelli di Vaiano, fascista convinta. Ricordo che il sabato, se uno scolaro non aveva la divisa, veniva messo al centro dell'aula, come in berlina, e sottoposto a lunghe interrogazioni. Doveva giustificare perché non indossava la divisa. Inoltre, alla fine dell'orario scolastico, con grande disagio anche per i bidelli, la maestra ci tratteneva ancora, anche per un'ora e mezzo, per farci imparare a cantare gli inni fascisti. Rammento bene anche quando mio fratello Edo ricevette la cartolina e doveva presentarsi militare. Decise di non ubbidire, scelse invece di andare "alla macchia" con i partigiani, nonostante le ritorsioni, anche in quel caso, verso le famiglie. 52
Volume sesto Era tra i partigiani di Poggio Javello1 e quando si dovettero spostare per sfuggire ai nazifascisti si divisero in due gruppi. Fortuna volle che lui si trovasse nel gruppo che non incappò in brutti incontri. Pare che l'altro gruppo fosse quello dei martiri di Figline. Subito dopo la guerra entrai a lavorare nella fabbrica a ciclo completo del Franchi Orlando, che abitava alle "case nove" di piazza Mercatale e quando una sua sorella sposò il Pecci, questi incorporò tutto.
1 In realtà dei Faggi di Javello, dove operava la formazione partigiana intitolata a Bogardo Buricchi.
53
Ultime Voci Alfredo Fusi
Alfredo Fusi, nato a Barberino del Mugello il 10 agosto 1920, in località Migneto, vive a Vaiano. Nel 1940 parte per Tolmezzo per unirsi al 16° Battaglione Guarda Frontiera. L’8 Settembre 1944 gli viene concessa una licenza limitata e poté tornare a Vaiano, dove si unì alla Resistenza. Di quel periodo ricorda particolarmente l’episodio legato all’abbattimento di un aereo militare e alla sorte del pilota.
Ero molto giovane quando mi sono trasferito a Prato1 , con tutta la famiglia composta da undici persone, eravamo sei fratelli e una sorella, il babbo Giuseppe e la mamma Bardazzi Maria. Siamo ritornati in una casa colonica in Calvana, a Camposanico, era una proprietà di Alfred Spranger della Fattoria dei Piani all’Isola. Era un inglese, proprietario anche della villa di Meretto, di diversi poderi e pascoli in Calvana. Il nostro era un podere povero, una casa isolata vicino alla sommità della Calvana, i grandi pascoli ci permettevano di tenere tante pecore e mucche. L’unica cosa abbondante era il formaggio, ma dovevamo fare a metà con il fattore. Per recarsi a Vaiano c’era un’ora di strada e al ritorno di più, era tutta salita. Mi è arrivata la cartolina di leva nel 1940 e sono tornato nel 1944. Ero a Tolmezzo, in provincia di Udine nel 16° Battaglione Guarda frontiera. L’8 settembre il nostro Generale Giuseppe Castellano2, diede l’ordine di dare ai soldati una licenza limitata e ci mandò tutti a casa, così salvò tanti soldati dalla deportazione nei campi di sterminio in 1 Il comune di Prato all’epoca comprendeva i paesi della val di Bisenzio fino al Comune di Cantagallo. 2 Il generale Giuseppe Castellano (Prato 12-9-1893 –Porretta Terme (PT) 31-7-1977) firmò l’armistizio con gli alleati il 6 settembre 1943, a Cassibile in Sicilia.
54
Volume sesto Germania o dai campi di lavoro dove venivano trattati come bestie. Siamo stati fortunati, ma il viaggio di ritorno fu un’avventura. Siamo riusciti a prendere un treno, avevamo un lasciapassare firmato dal Tenente Colonnello Ferdinando Cordova, in data 25 settembre 1943. Quel lasciapassare lo conservo come una reliquia, anche se ormai è quasi illeggibile, quando ci chiedevano i documenti, si esibiva e ci lasciavano proseguire. Quel treno dopo pochi chilometri si fermò, non poteva proseguire la ferrovia era interrotta. Siamo scesi non sapevamo come fare per proseguire il viaggio, un italiano ci disse: “Vi porto io” salimmo in sette sul cassone di una moto. La fortuna ci aiutò, non trovammo tedeschi lungo il tragitto, ci portò fino a San Ruffillo, un paese vicino Bologna. La solidarietà dei civili che cercavano in tutti i modi di aiutare i soldati, salvò tanti giovani dalla morte e dalle deportazioni, anche noi trovammo persone che ci aiutarono, dandoci del cibo e vestiti civili. Raggiungemmo la stazione a piedi e finalmente, salimmo su un treno che ci condusse a Prato. Mi sembrava di sognare, ero vivo e vicino a casa. Raggiunsi Savignano a piedi, non sentivo la stanchezza tanta era la felicità di essere salvo e vicino a riabbracciare i miei cari. La mia famiglia, mentre io ero soldato, si era trasferita in un podere a Savignano, sempre della fattoria dei Piani. L’incontro con i miei, non lo dimenticherò mai, mi credevano morto o disperso, era tanto tempo che non avevano avuto mie notizie, mi dissero che era pericoloso dovevo stare nascosto, i giovani erano ricercati dai repubblichini e dai tedeschi. Per non farmi vedere in giro, passavo le mie giornate in Calvana a far pascolare le mucche e le pecore insieme ad altri contadini, a volte arrivavano giovani che si nascondevano per non essere catturati o persone che attraversavano la Calvana per recarsi dalle parti del Mugello. Gli unici rumori erano l’abbaiare dei cani che riunivano il gregge, il belato delle pecore e il vento che faceva muovere gli arbusti e gli alberi. A volte passavano giorni senza che vedessimo nessuno. Vedevamo passare i bombardieri o i ricognitori, anche piuttosto bassi, sentivamo le contraeree, dalle colline di Vernio, nell’alta Valle, che sparavano e a volte colpivano l’obbiettivo. Era il mese di giugno, un giorno fu colpito un aereo, passò bassissimo sopra di noi, avemmo tanta paura, buttava fumo dalla coda e i pezzi di lamiera cadevano vicino dove eravamo noi. L’aereo passò vicino al Monte Maggiore, noi ci buttammo per terra avevamo paura che i pezzi infuocati che cadevano ci colpissero, ma l’aereo con una virata, sorvolò il monte maggiore e scomparve dalla nostra vista. Vedemmo allora un puntolino che scendeva nella nostra direzione. Capimmo 55
Ultime Voci che quello non era un pezzo di lamiera ma un aviatore a cui non si era aperto il paracadute. Ci dirigemmo verso il punto dove lo avevamo visto cadere, la zona era chiamata: “La bua del Guido” , (ogni pastore aveva i suoi prati dove portare le bestie a pascolare, così ogni zona aveva un nome). Lo trovammo schiacciato sul prato, il paracadute non si era aperto e lui era come affondato nel prato, Per tanto tempo la sua impronta rimase in quel luogo. Due di noi si recarono al paese e alla chiesa, dal sacerdote si fecero dare la portantina più vecchia che stava in canonica. Don Redi fece loro tante raccomandazioni, di fare attenzione era una cosa pericolosa, i tedeschi erano sempre in giro, se fossero stati scoperti gli avrebbero sparato. Risalirono in Calvana con la portantina e quando si fece notte lo portammo al cimitero, avevamo paura dei tedeschi, alcuni andavano avanti a vedere se la strada era libera, se era libera ci facevano un segnale. Facevamo a turno a portare la portantina, eravamo diversi, mi ricordo; i ragazzi di Furbino, il Bruno Fattori, e altri dei quali non ricordo il nome. Fu sotterrato nella parte destra del Cimitero con sopra la tomba una croce di legno e il suo elmetto. Il nome di questo aviatore io non l’ho mai saputo, non aveva nessun documento e non ricordo di aver visto la piastrina. Per noi pastori e per gli altri giovani che erano in Calvana, fu una brutta esperienza, il ricordo di quel giovane morto rimase per tanto tempo nei nostri cuori. La Calvana era troppo scoperta e per tante ragioni stava diventando pericolosa, ed era pericoloso anche tornare a casa, così mi unii ai partigiani sul Monte Javello, il comandante era Carlo Ferri, insieme con tanti altri giovani. Eravamo tutti uniti, il nostro ideale era combattere i tedeschi e i fascisti per ritrovare la libertà e la pace. Con i sassi erano state costruite delle capanne nascoste dalla vegetazione, feci parte di alcune azioni di combattimento, portavo messaggi, molte volte di notte scendevo a Vaiano e risalivo fino a Savignano per mangiare e dormire in famiglia. Passata la guerra, fu disseppellito il pilota. In paese arrivarono tre persone, chiesero se c’erano dei giovani disposti ad aiutarli, andammo in diversi e con le pale lo dissotterrammo, loro avevano portato una cassa fatta con quattro tavole di legno, lo caricarono su una macchina militare americana. Io,non conoscevo quelle persone e non so come facevano a sapere dell’aviatore sepolto nel Cimitero di Savignano. Eravamo giovani senza un soldo, dato che lo avevamo sepolto e aiutati a dissotterrarlo, pensavamo che ci avrebbero dato una ricompensa, non ci dissero neppure grazie. Il ricordo di quel pilota morto sulla Calvana mi ha sempre dato una grande tristezza. Nel garage conservo ancora la barella con 56
Volume sesto cui lo portammo al cimitero, è tutta rotta ma non riesco a bruciarla. A seguito delle ricerche di Stefano Ballerini, di Calenzano, un giovane appassionato ricercatore di notizie e reperti bellici, siamo riusciti a sapere il nome dell’aviatore, pilota George Ahlstrom.
Il lasciapassare che Alfredo Fusi conserva “come una reliquia”.
57
Ultime Voci Oltre alle sue esperienze di soldato, vogliamo ricordare che Alfredo Fusi è un cantastorie: «Fin da ragazzo andavo per i mercati o alle feste di paese a cantar Maggio, con il poeta Andreini, il Masolini di Borgo San Lorenzo e altri poeti che cantavano in ottava rima, così ho imparato a cantare in poesia e mi scrivo anche le storie». Sono storie d’amore , di vita paesana , di guerra e di lavoro, ricordi struggenti di un mondo che non c’è più, come testimonia la posesia che segue. Povera Italia, poveri italiani. visitando Gorizia e il cimitero I disastri di Gorizia dove infinite crocelline vi era col nome dei caduti in guerra. Da quella valle tenebrosa e oscura che fu piena di inganni e di malizia, Fu fatto ammirazione quella sera ove si vede ovunque la sventura e di leggere i nomi e assai si brama per cagion di chi adopera l’ingiustizia. di trovare conoscenti no si spera. Vi voglio dar un’idea e una figura, La più grande attenzione si richiama, dei circondari e città di Gorizia guardando guardando quella sconvulsata e se permetti popolo onorato; terra; ti parlo del presente e del passato. e rigirando il triste panorama per veder fra quei poveri innocenti Appena che a Gorizia fui arrivato se c’era qualcheduno dei conoscenti. in forza alla diciotto infermeria fui a un distaccamento destinato; Io non trovai nessuno fra i giacenti insieme ad altri amici in compagnia. ma vidi un fante levarsi il cappello, facendo segni ed altri movimenti E questo posto stava collocato innalzando preghiere al ciel, per quello vicino al ponte nuovo sulla via, gli domandai se c’era suoi parenti; che si può dir bellissimo e pulito lui mi disse: - qui giace mio fratello. ma a me sembrava di sentirmi smarrito. E piangendo in ginocchio si gettava, presso una crocellina e la baciava. Tralascio questo e ad ascoltare invito ogni cuore che di gentil pensiero. Noi tutti impressionati si restava Io confidando al volere infinito non per il fatto solamente nel mio discorso sarò sincero. ma pensando ai caduti che li stava. Alla libera uscita fui sortito A tutti figliuoli della umana gente. 58
Volume sesto A povere famiglie si esclamava, che restano afflitte e malcontente. Qui fu formato un triste baluardo, per un pensiero e leopardo.
Ritratto di Alfredo Fusi.
59
Ultime Voci Otello Giuliani
La testimonianza di Otello Giuliani racconta un episodio di guerra e di Resistenza di cui è protagonista un pilota Inglese abbattuto sulle montagne fiorentine ed accolto ed aiutato dalla famiglia di Giuliani.
Il pilota Sono Otello Giuliani, classe 1931, nato a Barberino del Mugello in località Erbaia. Ero solo un ragazzo, ma mi ricordo bene della guerra e dei bombardamenti, gli aerei passavano sopra la nostra casa, l’obiettivo era la cittadina di Firenzuola e la Linea Gotica, in linea d’aria erano vicine alla nostra casa che si trovava al limitare dei boschi. La mia famiglia era composta dal babbo Anselmo, la mamma Natalina Baroni, cinque figli, tre maschi e due femmine. Viveva con noi anche un cugino del babbo che era rimasto solo, dopo la guerra del 15-18, anche lui lavorava nel podere. La paura era tanta, non ci sentivamo sicuri, un giorno una cannonata della contraerea cadde sul portone della capanna dove c’era il deposito del fieno, fu un miracolo che non prendesse fuoco. Un giorno un quadrimotore inglese fu colpito dalla contraerea tedesca, il pilota si lanciò con il paracadute e lo vedemmo sparire nella fitta vegetazione della macchia “Boddra”. Si salvò e verso sera lo vedemmo arrivare e chiese ospitalità, parlava bene l’italiano e doveva essere un graduato, io ero incantato dai gradi e dal distintivo dell’aviazione inglese che aveva sulla giacca. La mia mamma gli diede da mangiare, divorò tutto: era affamato. Dormì in un lettino nel corridoio vicino a una finestra, se fossero arrivati tedeschi o fascisti, aveva la 60
Volume sesto possibilità di scappare. La sera arrivava, cenava con noi e andava a dormire. La mattina, prima che facesse giorno, tornava nel bosco a nascondersi. La mamma gli dava un fagottino con pane e companatico per il pranzo. Questo durò circa un mese. Una sera allargò sul tavolo una carta topografica della zona, era così precisa che c’era segnata anche la fontana che era in fondo ai nostri campi. Ci chiese la direzione da prendere per andare sul Monte Morello o il Falterona, lui sapeva che su quei monti c’erano i partigiani. Un giorno decise di partire, ci ringraziò calorosamente, sapeva del pericolo che aveva corso la mia famiglia ad ospitarlo e aiutarlo. La zona era piena di tedeschi, se fosse stato scoperto ci avrebbero fucilati o deportati. Prima di partire ci consegnò una lettera dicendo: “Non ho soldi, non posso ricompensarvi di tutto quello che avete fatto per me, quando arriveranno gli alleati, questa lettera la dovete presentare al Comando a Firenze, vedrete sarete ricompensati”. Tanto sulla carta che sulla busta c’era lo stemma dell’aviazione inglese. Effettivamente i miei furono ricompensati, anche se i soldi presero un’altra strada, la ragione è che non ci furono consegnati. Lui non fu l’unico a essere aiutato, dalla strada della Futa passavano i camion tedeschi, pieni di deportati che andavano verso Bologna. Alcuni giovani, o i più coraggiosi, quando i camion rallentavano per la ripida salita, tentavano di salvarsi buttandosi di sotto correvano a nascondersi nel bosco. La mia casa era la prima che trovavano, la mia mamma non negava mai un pezzo di pane o formaggio. Noi non abbiamo mai patito la fame, avevamo le bestie, le pecore, polli, conigli, farina per il pane. Chi bussava alla nostra porta era sicuramente rifocillato. Non solo la mia famiglia, ma tutti i contadini della zona, aiutavano i partigiani con il pane e altre vettovaglie, li avvertivano dove si trovavano i tedeschi oppure davano rifugio ai fuggiaschi, nei limiti delle loro possibilità.
61
Ultime Voci Giorgio Gori
Giorgio Gori nasce a Prato il 15 novembre 1918. E’ richiamato alle armi il 9 marzo 1939 e assegnato alla Guardia Frontiere (G. A. S.) Caserma Italia, 17° settore. Dopo l’Armistizio è deportato in Germania, da dove rientrò il 26 giugno 1945. Fu profondamente segnato dalla terribile esperienza che raccontò a molti ragazzi delle scuole medie di Prato e Provincia,e in diverse opere in poesia e prosa. Morì a Prato nel 2007.
Giorgio Gori nasce a Prato il 15 novembre 1918. E’ richiamato alle armi il 9 marzo 1939 e assegnato alla Guardia Frontiere (G. A. S.) Caserma Italia, 17° settore. La sua tragica storia inizia l’otto settembre 1943, quando la Guardia Frontiere della Caserma Italia viene decimata e fatta prigioniera dai tedeschi, Giorgio con altri, 750 guardie di Frontiere, fu deportato nel campo di smistamento di Fallingbostel e poi nei campi di lavoro nazisti di Rhumspringe e di Dassel, dove rimase fino alla fine della guerra: maggio 1945, quando gli alleati liberarono i prigionieri. Di quei 750 prigionieri, solo 16 furono i superstiti, tra i quali Giorgio rimpatriato il 26 giugno del 1945. I prigionieri dei campi non avevano più un nome, ma venivano marchiati con un numero che dovevano saper ripetere a memoria ad ogni richiesta. Giorgio era il numero 154884. Giorgio Gori ha raccontato la sua storia di prigioniero nei campi di lavoro in Germania, in varie scuole medie della città e della provincia di Prato. I suoi racconti di esperienza vissuta, hanno suscitato nell’anima dei ragazzi emozione e raccapriccio, perché non credevano si potessero vivere simili situazioni. Le impressioni degli scolari sono anche state raccolte in un giornalino di classe, di cui 62
Volume sesto Giorgio era fiero. Giorgio Gori si spense nel 2007. Giorgio Gori ha pubblicato diversi libri di poesia, mostrando una poetica di profonda memoria, sentimenti, riflessioni e insegnamento. Un racconto preciso, esposto con pudica tenerezza, come dimostrano gli esempi che riportiamo. BALLINI VUOTI Un anno era trascorso appena ed erano rimasti soltanto in sedici dei settecentocinquanta gettati in quella bolgia infernale, quando un mattino, alla sveglia, uno di questi resta disteso sulla paglia, senza potersi mettere in piedi per andare al lavoro. Quella tremenda avitaminosi aveva già raggiunto l’ultimo stadio, paralizzandolo. I pestaggi, il lavoro disumano, la fame, quella vera, erano le patalogie di questo sterminio ed era questa la sveglia, l’ora della sua fossa comune, là dentro lo stavano aspettando centinaia di ragazzi già sotto quella calce viva. E’ stato allora: in cinque lo sollevano diretti alla solita stanza, quella di tutti, denudandolo senza perdere tempo, canottiera e camicia per tre piccole patate, che da vari mesi erano state sostituite con due ballini vuoti da cemento tenuti insieme intorno al collo, con un filo di spago. E messolo in ginocchio con la testa su di un panchetto iniziarono il pestaggio con scudiscio e attrezzi del mestiere; poi presolo fra tutti e come un sacco scaraventato fuori, nudo sulla neve. Questo era il preludio prima della fossa. Mentre un attimo dopo, scagliati fuori come lui, quei due ballini vuoti sospinti dalla brezza del mattino iniziano nell’aria una girandola librandosi sopra i reticolati del campo di morte, come in disperata ricerca di spazi e libertà perdute tra le tragedie del tempo.
63
Ultime Voci BRUCIATI SUL NASCERE Non è tutta una fiaba il mondo! Un tempo non lontano, ancora bimbi strappati a sogni tinti di rosa ci hanno mandati in guerra e tanti di noi son rimasti laggiÚ distesi sul campo dentro solchi di sangue, con grida di morte e sulle labbra l’ultima frase: un sussurro di mamma. Soltanto alcuni errando avevano trovato, ancora vecchie mura di casa e lasciato alle spalle ammassi di cumuli, senza croci, senza nomi, e ognuno di questi, serrato da lucchetti senza chiavi, con dentro: il profumo di steli 64
bruciati sul nascere.
Volume sesto POSARE UN FIORE Creando l'universo, il Signore aveva posto le sue regole, i suoi tasselli; ma questi purtroppo erano sconosciuti al sadismo di gente veramente spietata, operante in questo campo di sterminio come in tanti altri esistiti e quasi tutti fatti scomparire nel nulla. Sì, perché questi crimini dovevano essere sepolti dentro le fogne di quelle pareti. Ed è proprio per questo che tante povere madri non potranno sapere mai dove posare un fiore o volgere una preghiera al suo ragazzo perduto nel nulla. Ed era con folle spietatezza che si stavano stroncando giovani esistenze senza un perché o col solo pretesto di averli trovati morenti di fame in possesso di una misera buccia di rapa ricoperta di vermi, raccolta sopra un monte di immondizie. Prima di alzare il sipario però questi sciacalli truccati da uomini dovevano esibirsi in un bestiale repertorio. Ponendo a questi infelici un mattone in ogni mano, imponendo loro di alzarli verticalmente sopra la testa; al primo cenno, poi, di cedimento, i gomiti di questi innocenti venivano stritolati da tremendi calci di moschetto e mentre la neve, sconvolta dal sangue, intristiva la terra, era la volta dei polmoni, obiettivo mirato di quei calci gocciolanti sangue infelice. Aveva così inizio la scena madre: diretti ad una fossa, dove il crimine aveva già sepolto l'argine e fornendo per questo di pale e calce viva ogni componente prelevato dentro le nostre file, già composte di esseri attoniti, sgomenti, in attesa ognuno del suo turno. ANNI STRONCATI Sto seduto sopra un bagaglio colmo di tante storie, forse troppe per una mente sola. Ero ancora un ragazzo, quando un giorno una piccola striscia di carta mi strappò dai miei cari, da quelle vecchie mura, dal canto del fuoco, dalla mia vita, facendomi trovare al centro di una bolgia di violenze e di morte. Gli anni non si contano col ticchettio delle lancette fra il risveglio dell’alba o il preludio della notte. Sto sempre qui seduto e prima di partire, molti anni or sono, le mie risate di ragazzo si sentivano da lontano. Era già vecchio quando a casa una sera, dopo molti anni, tanti mesi, tante notti, senza più trovare accanto a me il sorriso, il calore di tanta vita. I miei compagni erano rimasti laggiù straziati in quei campi di morte. Ero rimasto quasi solo con tanta tristezza fra quelle vecchie mura di casa. 65
Ultime Voci LA CONTA Com'è rugginoso quel filo irto di spine ognun di noi, fasciato nel buio quando le nostre sedie del gelo della notte. Vuote... Al primo fischio mattutino novembre 1944 si lacerano insieme animo e carne mentre il duro stivale sull'asse portato da pesante passo io conosco, come pure la mano, quella nodosa mano, mentre artiglia lo scudiscio nero dalla lunga coda sempre pronto a strapparti lembi di pelle. Ti senti allora il filo rugginoso penetrar nella carne mentre i fianchi stringe le spalle, il corpo tutto. CosÏ si inizia la conta mezzi nudi all'agghiaccio pieni di fame 66
al lume di lanterna. Ad ogni sveglia il conto non torna. Quei buchi nelle file sembran sedie vuote spagliate. Si accorcian le file come strisce di carta da forbici tagliate. Da tanti mesi, tanti è la nostra sveglia questa chiedendoci ogni giorno
Volume sesto Alamanno Magni
Alamanno Magni nacque a Prato nel 1872. Svolse la funzione di postino nella zona di Vaiano, ottenendo numerosi encomi dalle Poste fino all’avvento del fascismo, quando, a causa delle sue idee socialiste, fu a più riprese perseguitato dai fascisti che arrivarono anche a tentare di incendiare la casa dove abitava e lavorava, senza però riuscire nel loro proposito.
Il mio nonno materno Magni Alamanno (detto Minne), nato a Prato, Toscana, nel 1872, morto nel 1944 e nonna Saletti Giustina, nata a Prato nel 1875, morta nel 1942, famiglia di nove figli, Marino, Alvino, Leonida, Cesarino, Clelia, Maria, Nadina, Palina e Olga (ultime due ancora viventi), abitanti a La Briglia (Prato) (oggi comune di Vaiano, provincia di Prato), in piazza centrale, in un fabbricato di tre piani e cantina, costruito dai proprietari del Lanificio Forti Beniamino nel primo Novecento, quando il Lanificio costruì i quattro grandi blocchi (casoni) con un totale di circa quattrocento stanze per gli operai, le abitazioni a schiera in via dei Ponticini per gli impiegati ed assistenti ed in via del Lei, villette per dirigenti. Contribuì alla fondazione della Pubblica Assistenza e il carro lettiga per portare feriti e malati all’ospedale di Prato fu realizzato con una sottoscrizione a cui parteciparono operai, impiegati e dirigenti del Lanificio. Il teatro aveva nel sottosuolo un grande circolo ricreativo con grosso apparecchio radio, un bellissimo biliardo a stecca, il bar con macchina caffè (dosato) a caduta, il circolo mandolinistico, l’ufficio delle doti (Cassa di risparmio, che serviva anche per aiutare le famiglie in difficoltà1), la biblioteca pubblica 1 Serviva alle ragazze quando si sposavano ed ai giovani quando partivano per il servizio di leva.
67
Ultime Voci aperta la domenica, ecc. Dal 1904 al 4 marzo 1926 era gestore ufficiale postale da ricevitore e distributore della colletteria2 postale di La Briglia (Prato, Toscana) e dirigente e amministratore della Società di Mutuo Soccorso con la forte collaborazione di mia madre Magni Clelia (nata nel 1901), come collaboratrice postina di un vasto territorio montano del Comune di Prato. Fu un servizio molto utile, in particolare dal periodo 195-18 quando mia madre doveva portare a domicilio in tutto il territorio (Parmigno – Faltugnano, chiesa parroco don Pondoni – Fabio, fattoria Gramigni – Grisciavola, fattoria Alfani – Villa Meretto e fattoria signori Spranger, inglesi – Cartaia Vecchia – Gamberame – Serilli - Popigliano, chiesa) tutta la posta e pacchi commerciali al Lanificio Forti ed a tutti i contadini in Calavana Valibona, sparsi ovunque, tutte le cartoline di precetto, tutta la posta dei militari, tutti i pacchi da inviare al fronte guerra 1915-18), tutte le lettere militari dei feriti e morti, migliaia di documenti per e dai militari, ecc. ecc., tutto consegnato a piedi e con periodi invernali terribili con molta neve. Il piccolo locale postale sito in vetta alla grande gradinata che porta dalla piazza alla strada provinciale, molto modificato, esiste ancora. I nonni nella loro abitazione in pazza de La Briglia, al piano terra avevano il negozio come rivenditore di giornali, riviste, cartoline, sale, zucchero, tabacchi, pasta, libri scolastici e loro accessori, dolciumi vari, prodotti utili per la casa, ecc. ecc. Tutte queste descrizioni dettagliate in parte le ho vissute anch’io da ragazzo (nato nel 1925), quelle antecedenti le ho avute direttamente da mia madre, padre, nonni, zii e paesani durante tutta la mia vita. Il nonno fu un grande socialista fino dalla fine dell’Ottocento al 4 marzo 1926, quando con infinite persecuzioni fasciste fu licenziato da ufficiale postale e in parte esonerato dalla vendita di sale e tabacchi e giornali. Tentarono più volte di incendiare la loro casa e negozio, insultato e minacciato di morte. E’ stato un grande divulgatore delle idee socialiste sia a La Briglia che in Valle di Bisenzio, forte attivista orale per reclutare iscrizioni al partito socialista ed è stato sempre in contatto diretto ed epistolare con la Federazione fiorentina, dove andava spesso, recandosi a Firenze per ragioni di lavoro; aveva anche contatti epistolari con il ministro on. Crispi e con diversi deputati toscani. Le idee socialiste le divulgava tutti i giorni nel suo negozio con una volontà instancabile ed incredibile, fino a quando fu perseguitato sino a dopo l’avvento del fascismo. 2 Raccolta.
68
Volume sesto In tutta la sua vita è stato un altruista eccellente, aiutò centinaia di persone in difficoltà sia materialmente che moralmente. Essendo stato ricevitore e distributore della colletteria postale per 22 anni, in particolare durante la prima guerra mondiale 1915-18 ed anche in anni precedenti, quando la maggioranza degli italiani erano analfabeti, aiutava tutti a scrivere per le loro famiglie lettere ai militari sotto le armi ed al fronte. Sino al 1922 ebbe dalla direzione delle poste di Firenze elogi ed encomi per il lavoro svolto. Poi arrivarono le ispezioni e persecuzioni inviate dai fascisti e carabinieri di Vaiano e dalle Poste di Firenze con ispettori (anno 1922, ispettore Palmieri, il 30/09/1925, ispettore Vettori Di Baldo, che dopo avere trovato un’encomiabile gestione avvertì il nonno Magni «Lei ha dei grandi nemici, attenzione!», altre ispezioni e informazioni furono fatte fra la popolazione, tutte negative). Il 24/02/1924 perquisizioni i fascisti di Vaiano e La Briglia con minacce di morte. Il 23/09/1924 altra perquisizione completa da parte dei carabinieri e fascisti di Vaiano e La Briglia (Cataldo Lotito, Vignolini Pio, Scaramelli, Moni, Mannelli ed altri) risultata negativa. In quella occasione minacciarono il nonno che presto avrebbero incendiato la casa. Molti amici ed impiegati del Lanificio Forti avvertirono il nonno di cessare di parlare di socialismo in pubblico, altrimenti in futuro correva grossi pericoli. Dai fascisti fu segnalato sui giornali “La Nazione “ ed “Il Nuovo Giornale” come disfattista e sovversivo, con tutti i peggiori nomi e calunnie possibili. Poi accadde il previsto: il 14/07/1925, da Vaiano, con un camion, i fascisti Cataldo Lotito, Vignolini Pio, Moni, Doni ed altri e della Briglia Scaramelli, Mannelli, Moni ed altri e carabinieri e fascisti di Prato, con fusti pieni di benzina per incendiare la casa ed il negozio. In casa, chiusi nelle camere, vi erano la nonna Giusta ed alcuni figli. Fra le urla di tutti, fu un momento terribile, perché tutti i fascisti erano decisi a tutto, i fusti di benzina erano già depositati nel negozio. Con molte trattative furono dissuasi da alcuni impiegati del Lanificio Forti ed amici influenti, facendo loro presente che la casa che volevano incendiare era di proprietà del sig. Forti Beniamino. In seguito, con altre perquisizioni, trovarono dei fogli colore rosso, che secondo loro servivano per fare propaganda socialista ed inoltre con altri pretesti lo accusarono i tenere nascoste delle munizioni. Per questi enormi spaventi e dolori la nonna Giusta si ammalò di cuore sino alla morte. Inoltre fu imposto al nonno di vendere giornali alle ore 12, per ordine del fascista Man69
Ultime Voci nelli al costo di £. 1 e £. 2, invece che al prezzo di testata. Per sei mesi gli vietarono di vendere dolciumi, pasta, il sale e tabacchi,ma la caparbietà, il coraggio del nonno e le altre amicizie che aveva a Firenze e con le influenze di don Rondoni (vecchio amico di famiglia), parroco di Faltugnano, riuscì a salvare tutto e proseguire la sua attività commerciale. Nel gennaio 1927 scrisse una lettera di tre pagine a Sua Eccellenza on. Marchi Giovanni, direttore del “Nuovo Giornale” di Firenze, per sapere il motivo per cui era stato sospeso da ricevitore e distributore della colletteria postale di La Briglia il 4 marzo 1926, per il suo decoro e della sua famiglia e per reclamare giustizia. Dal 1904 per 22 anni aveva diretto il suddetto ufficio con la massima diligenza e competenza, senza avere avuto osservazioni dai suoi superiori. Dal 1922 cominciarono le ispezioni da ispettori delle Poste ed intimidazioni dei carabinieri e fascisti, senza nessun motivo. In questa lettera (acclusa) indirizzata all’on. Marchi G. descrive nei particolari tutta la sua attività nelle Poste Italiane svolte sino alla sospensione del 4/03/1926. Dal 1927 in poi ebbe molti consigli da amici e figli di cessare la propaganda politica in pubblico, ma la sua grande fede socialista continuò con molta precauzione a distribuire a domicilio volantini e giornali antifascisti. In seguito il negozio fu gestito dalla figlia minore Olga, che ne entrò in possesso, sino a quando sposò il sig. Gasperoni Primo, continuano insieme la gestione e dando un rinnovamento totale e moderno con grande successo.
70
Volume sesto
Sopra: ritratto di Alamanno Magni. Nelle pagine seguenti la lettera scritta da Magni all’onorevole Marchi di cui si parla nella testimonianza. 71
Ultime Voci
72
Volume sesto
73
Ultime Voci
74
Volume sesto Archimede Milloni
Archimede Milloni, nato a Cortona (Arezzo) il 12 marzo 1899, si trasferì a La Briglia nel 1911. Partecipò alla I Guerra Mondiale ottenendo la medaglia al merito. Nel 1923 si innamorò di Clelia Magni: la frequentazione della donna, che proveniva da una famiglia di idee antifasciste, fu causa di persecuzioni fasciste a cui rispose attivandosi nella propaganda delle idee comuniste.
Milloni Archimede fu Dante nacque il 12 marzo 1899 a Cortona (prov. Di Arezzo), zona Torreone, da una famiglia di mezzadri, abitato in una grande vallata, tutta coltivata ad olivi, ad est del Santuario di Santa Margherita da Cortona, dove con forte volontà aveva ottenuto la licenza di quinta elementare, aiutato fortemente dal parroco locale, data la sua intelligenza, e dalla sorella Leonia. Nel 1911, condotto da Cortona a La Briglia (Prato – Fi) da zia Rosa Milloni, sposata Gianni Bianchi di Silla, i quali risiedevano al piano terra nei grandi casoni per operai, fabbricati dal Lanificio Forti. Fu assunto il 22 aprile 1912 alle dipendenze del Lanificio A. e C. di Beniamino Forti, di religione ebraica, fabbrica di tessuti di lana, come magazziniere e poi capo tintore, continuando anche a studiare per i successivi tre anni, presso le scuole serali tecniche di Prato, spostandosi con un mezzo motorizzato, che il Lanificio Forti aveva messo a disposizione dei giovani dipendenti e locali che volevano proseguire gli studi, ottenendo la licenza tecnica tessile. Rimase occupato presso questo lanificio dal 22 aprile 1912 al 12 febbraio 19M17, epoca del suo richiamo alle armi, nel corpo di fanteria, partecipando alle battaglie del Montello e ottenendo la medaglia al merito per avere salvato un ufficiale ferito in battaglia. 75
Ultime Voci Lo stabilimento tessile era stato trasformato come ausiliare militare (Decr. Min. n°135 del 10 novembre 1915), producendo tessuti e coperte militari di lana per tutte le Forze Armate, esonerando dal servizio di leva molti dipendenti utili alla produzione di tessuti militari. Rientrato dalla guerra 1915-18 (ragazzo del ’99), decorato con medaglie di bronzo e di merito e congedato con il grado di caporalmaggiore, è liquidato con una moneta-carta da £.500. Successivamente svolse a Forlì, per circa due anni, servizio di ordine pubblico sino al 1920, rientrando al lavoro nel Lanificio Forti, sempre come capo tintore, sino al 19 aprile 1923, quando fu richiesto ed assunto, con ottimo stipendio, in qualità di impiegato e capo dei reparti di tintoria e follatura, dal Lanificio F.lli Sbraci Metello ed Oscar, fu Alimo, nella fabbrica della Cartaia Vecchia (Prato), circa due chilometri a sud de La Briglia, ove rimase sino alla liquidazione generale il 16/03/1954. Dal 31/01/1955 al 31/01/1956 lavorò come chimico tintore presso la tintoria per terzi Ti.Mo., in via Angiolini a Prato. Dal 31/01/1957 al 20/03/1959 in qualità di dirigente chimico presso la tintoria per conto terzi Bardazzi Benito a S. Paolo, Prato, azienda allora in deficit, riuscendo a risanarla completamente e rendendola fortemente attiva. Subì un incidente stradale in moto-vespa a causa di un pirata della strada e per tale motivo dovette ritirarsi in pensione causa inabilità al lavoro. Nel terribile inverno del 1929 nella Valle del Bisenzio avvenne una grande alluvione, con il trascinamento a valle di centinaia di enormi alberi, sradicati dagli argini di tutta la valle, provocando così una diga davanti al ponte della fabbrica dei sig.ri Sbraci, allagandola completamente ed aprendo una grossa falla nel muro esterno, nel momento stesso in cui il direttore sig. Noris, mio padre e tutti i caporali ed assistenti nel luogo erano intenti a spostare dal magazzino le materie prime e molti colli di lana1. L’enorme quantità di acqua, entrando nel magazzino, trascinò nel fiume il direttore, il cane lupo e molti dei colli; mio padre, che si trovava sopra al cumulo, riuscì per miracolo a sfuggire in tempo e salvarsi. Il direttore, il cane, altre due persone a sud di Mercatale di Vernio non furono mai ritrovati. La nostra abitazione, sita a ridosso dell’argine in basso lungo il fiume, fu anch’essa allagata, perché mentre ci eravamo rifugiati, io e mia madre Clelia, in piedi sopra la tavola di salotto, tenendomi fra le braccia ed aspettando la morte, la forte corrente 1 Giacomo Milloni, autore della testimonianza, racconta le vicende di questo paragrafo in prima persona.
76
Volume sesto dell’acqua ed i colpi dei tronchi degli alberi, ruppero le finestre di cucina invadendo con violenza e distruggendo tutto. Mia madre discese dalla tavola ed immersa nell’acqua già alta, tentò inutilmente con tutte le forze di aprire la porta principale, dato che la finestra di camera era munita di inferriate di ferro, rimanendo così intrappolati. Ricordo ancora le urla strazianti di aiuto di mia madre e dei miei, mentre il livello dell’acqua cresceva velocemente. Fortunatamente al piano terra più in alto, confinante con la nostra abitazione, vi era una bottega di alimentari del sig. Bardazzi, dove la sera gli abitanti del luogo e dei dintorni venivano a giocare a carte il fiasco del vino. Il sig. Peduli, boscaiolo di Faltugno2, vedendo aumentare il livello del fiume, si ricordò che mio padre era stato chiamato con urgenza in fabbrica e che noi eravamo rimasti soli. Si precipitò in aiuto cercando di aprire la porta con forti spallate, riuscendoci e mettendoci in salvo, caricandosi mia madre sulle spalle ed io fra le braccia. Il livello dell’acqua in casa raggiunse i mt. 1,70, lasciando tanto fango, distruggendo tutti mobili, il letto, la cucina, tutti i miei bellissimi giocattoli e tutto il corredo nuziale di mia madre. Nel 1932 un’altra alluvione distrusse nuovamente quasi tutto, lasciando tanta melma ed arrivando l’acqua a mt. 1,40. Con forte determinazione mia madre, Clelia Magni, riuscì a convincere mio padre a trasferirsi in un altro luogo e così, nella primavera del 1933, andammo ad abitare a S. Lucia (Prato), in un appartamento del sig. Stefanacci Guido e nel 1934 acquistò a Rilaio-La Briglia, via Bolognese 109, una nuova casa a schiera, che abitammo fino al 1955. In seguito, dopo il matrimonio dei figli, i miei genitori si trasferirono a Vaiano, sino al decesso di mio padre nel 1960. Nel 1923, all’età di 21 anni, dopo avere combattuto nella guerra 1915-18 con i ragazzi del ’99 nelle battaglie del Montello e rientrato al lavoro nel Lanificio Forti di La Briglia, conobbe mia madre Clelia e se ne innamorò: era una bellissima ragazza, figlia di Magni Alamanno e di Saletti Giustina. Mio nonno, grande socialista per tutta la vita e perseguitato politico, era un ufficiale postale da ricevitore e distributore della colletteria di La Briglia (Prato), lavoro svolto con l’indispensabile collaborazione della figlia Clelia, come postino e proprietario del negozio di generi alimentari, vari prodotti scolastici, giornali, sale e tabacchi. A questo punto iniziò però per mio padre l’assurda ed ingiusta persecuzione fascista. 2 Si intende Faltugnano.
77
Ultime Voci Reduce di guerra, decorato, stimato tecnico del Lanificio Forti e da tutti i compaesani, dedito al volontariato in diverse associazioni, non si era mai dedicato alla politica per le sue semplici origini. Ma essendosi innamorato della figlia di un grande propagandista socialista, insieme all’amico Barni Carlo, fidanzato con l’altra sorella Leonida, furono convocati alla “casa del fascio” di Vaiano, dove fu imposto loro di lasciare le fidanzate e cessare di frequentare la casa Magni, evitando così gravi conseguenze punitive. Come tutti sappiamo l’amore non conosce ostacoli, quindi essi continuarono senza paura a frequentare le loro fidanzate. A causa della loro disobbedienza, furono di nuovo convocati alla casa del fascio e malmenati duramente. Mio padre continuò a frequentare la sua amata Clelia e nella primavera del 1924 convolarono a nozze a La Briglia ed abitarono alla Cartaia Vecchia in un appartamento piano terra destinato agli impiegati ed assistenti del Lanificio Fratelli Sbraci, dove era stato assunto nel 1923 come impiegato chimico pratico, dirigente del reparto tintoria e follatura con un ottimo stipendio. Sino al 1927 non si era iscritto al partito fascista, nonostante le forti pressioni e minacce dei gerarchi locali, fino a quando gli impiegati, causa rischio di licenziamento, furono obbligati. Si ribellò a questa imposizione cercando di non farlo, ma purtroppo, avendo una famiglia, dovette cedere per la forte pressione del titolare Sbraci Oscar, capo-gerarca del fascio di Prato e costretto a portare sempre all’occhiello della giacca il distintivo fascista. Fu richiamato insieme a Mengoni Vasco (cognato), Castellani Mario, Lascialfari Angiolino, Ciolini Rolando, Barni Carlo (cognato), ed altri, nuovamente presso la casa del fascio di Vaiano, perché frequentava amicizie considerate attive verso il P.C.d.I. e sindacati, per rispondere di attività antifascista a La Briglia. Per avere sempre negato (di fronte) alle accuse dei dirigenti fascisti, furono picchiati selvaggiamente con nerbi e bastoni ed il Barni fu picchiato a sangue dovendo ricorrere al medico. In altra occasione, di sera, fu picchiato ed aggredito in modo indiscriminato dentro il circolo ricreativo, insieme ad alcuni sospetti di attività sovversive, mentre giocavano a biliardo e carte, sempre da fascisti vaianesi. Tanti altri episodi di violenza fisica e morale subiti, di cui non ricordo con esattezza i particolari, mi sono stati raccontati da mio padre durante tutta la mia gioventù. A La Briglia, a Vaiano ed in tutta la Valle del Bisenzio aumentarono rapidamente nelle fabbriche i movimenti politici del partito comunista, del partito socialista e sindacali, coinvolgendo le nuove generazioni ed il consenso clandestino dei cittadini. Dalle 78
Volume sesto esperienze di quel triste periodo la sua vita cambiò completamente, facendolo diventare un convinto antifascista, nella lotta contro la dittatura per conquistare libertà e giustizia, mettendosi ancora di più in contatto diretto con uomini locali nella clandestinità, fra i quali Ferri Carlo, Menicacci Angiolino e Attucci Bianco, in seguito con tanti altri de La Briglia e di Vaiano, diventando un sicuro attivo divulgatore di giornali ed opuscoli clandestini del partito comunista e sindacati, rischiando la vita nelle galere fasciste ed al confino. Nascondeva molti degli opuscoli e giornali antifascisti in fabbrica, nell’ufficio e nel magazzino della tintoria, dentro i fusti vuoti dei coloranti o in casa in soffitta, sotto le tegole del tetto, dove in tempo di guerra sono spesso riuscito a leggerli di nascosto. Nel retro dell’abitazione a Rilaio (La Briglia dopo il 1934) vi era un giardino recintato comunicante con cancello con i campi coltivati, dove la notte avvenivano contatti con antifascisti locali, con scambio di materiale propagandistico clandestino. Contribuì così moltissimo nel lavoro organizzativo del movimento del partito comunista, cercando uomini convinti, sicuri e coscienti, per poterli istruire politicamente e sviluppare la loro coscienza di classe3. Negli stabilimenti dei fratelli Sbraci e Forti aveva acquisito grande stima fra gli operai, così pure fra tutti gli impiegati e dirigenti, frequentandoli quasi tutte le sere al Circolo Ricreativo Forti, giocando a carte e a biliardo. Mantenne una grande amicizia reciproca con don Corrado, parroco di Popigliano, fanatico giocatore e fumatore di sigaro, che alcune volte d’inverno lo invitava con gli amici in casa a giocare in salotto, lasciando cattivo odore di nicotina per tutta la settimana. Mediante queste trovate ingegnose e con altre e frequentando le persone più note, ottenne di essere meno controllato dai fascisti per diverso tempo, potendo dedicarsi con meno pericoli all’organizzazione clandestina ed alla diffusione della propaganda, sempre mantenendo molta cautela ed attenzione a non coinvolgere la famiglia. Nella zona di Popigliano (La Briglia) ebbe molti contatti serali (“a veglia”) con la famiglia del mezzadro Tonietti, sicuri antifascisti e collaboratori, dove nascondeva gli opuscoli di propaganda nel fienile e nella stalla ed in seguito con il figlio Dante anche armi che servirono per la prima formazione partigiana “Storai” sul monte Javello. Frequentava anche altri contadini di Popigliano, le famiglie Vangi, Calamai e Martini, Menichetti di Serilli, persone oneste e convinti antifascisti. Nel 1939 acquistò un ottimo e raro apparecchio radio (marca Irradio) con il quale, la 3 Vedi pag. 65 di Carlo Ferri, La Valle Rossa, Prato, Pentalinea, 2001.
79
Ultime Voci sera dalle 19 alle 21 e durante la notte ascoltavamo, dalle stazioni estere in lingua italiana, radio Londra, radio America, radio Mosca ed altre continuamente disturbate da rumori antiascolto. Radio Londra trasmetteva tutte le sere al C.L.N. messaggi in codice segreti per lanci segreti di armi ai partigiani in tutta Italia ed al controspionaggio militare e notizie di guerra in tutto il mondo. Invitava all’ascolto fidati amici i quali entravano dal retro della nostra casa attraverso i campi, tenendo il volume molto basso per non essere uditi dall’esterno, in quanto, se scoperto, avrebbe subito il licenziamento dal lavoro, il carcere, la violenza fisica ed il sequestro dell’apparecchio radio. Il 20 settembre 1943 il generale Graziani, capo del governo della Repubblica di Salò, oltre che proclamare il coprifuoco dalla sera al mattino, emanò, mediante l’affissione di manifesti in tutta la Valle del Bisenzio, un ordine ai giovani militari di leva o fuggiti dalle caserme l’8 settembre ’43, di presentarsi ai distretti militari; in caso contrario i genitori o la famiglia avrebbero rischiato pene pesanti. Noi giovani, presi dalla disperazione e dalla preoccupazione per i nostri cari, non sapevamo cosa fare. Alla fine con una decisione meditata e responsabile quasi tutti i giovani della Valle del Bisenzio andammo “alla macchia” (alcuni a lavorare nella TODT, Linea Gotica). Menicacci Angiolino e Ferri Carlo, esperti antifascisti, ci invitarono a non presentarsi ai distretti militari e ad ascoltare lezioni di antifascismo e democrazia nei boschi della collina di Schignano e per decidere insieme l’organizzazione della nostra resistenza4. I repubblichini, delusi, aumentarono le minacce con manifesti e lettere personali, perquisizioni, proclami via radio ed altro, arrestando persone sospette e portate a Firenze al carcere delle Murate e alla famigerata Villa Triste, dove venivano interrogate e torturate. Per invitare il popolo ad opporsi a questi soprusi furono fatti, nel novembre del ’43, molti volantini da Ferri, Menicacci, Bianco Attucci e mio padre e poi lanciati in tutta la valle e in modo particolare a La Briglia e Vaiano. I repubblichini, per dare prova della loro forza, fecero una retata a La Briglia arrestando B. Attucci, G. Favini, A. Lascialfari ed altri sei e prelevando mio padre in fabbrica con abiti di lavoro, portandoli quindi al fascio di Vaiano e rinchiudendoli in cantina. Menicacci e Ferri decisero di fare un’azione armata alla casa del fascio per poterli 4 Giacomo Milloni adotta nuovamente la prima persona, questa volta per raccontare le proprie vicende in guerra.
80
Volume sesto liberare, nominando come informatori per ogni movimento agli arrestati due compagni di Vaiano: Lido Magnolfi e N. Brachi e per fissare l’ora ed il punto d’incontro. Il Ferri, Menicacci e gli altri ci convocarono di notte e fu così composta una squadra armata con fucili, moschetti e munizioni, di circa trenta giovani decisi a tutto. Partendo da Popigliano, casa del Tonietti, attraverso boschi sentieri e strade vicinali interne, arrivammo nei campi sopra Vaiano (sino alla strada per Schignano, vicino alla casa Francolini), dove era stato stabilito l’appuntamento. Erano circa le 23 e il freddo era intenso, rimanemmo distesi per terra in un ciglio erboso, aspettando il Magnolfi ed il Brachi, che ritardarono per circa un’ora, comunicandoci all’arrivo che i repubblichini avevano portato gli arrestati a Prato e poi a Firenze, e noi eravamo rimasti impossibilitati ad essere avvertiti in tempo di questo fatto, prima di partire da La Briglia. Ricordo benissimo che il Ferri voleva assaltare lo stesso la casa del fascio per dare una forte punizione. Con accanita discussione e persuasione per le eventuali conseguenze sugli arrestati, il Magnolfi riuscì a convincerlo a rinunziare. Ritornammo a La Briglia e riportammo (le armi, n.d.r.) nella baracca dietro la casa del Menicacci ed alcune a casa propria. Mia madre, per cercare di fare rilasciare e liberare il marito, chiese aiuto, con forte determinazione, al cugino Magni Fiorenzo, militante nella R.S.I. di Vaiano ed a Sbraci Metello, ex segretario del fascio di Prato: gli arrestati furono sottoposti a interrogatori severi alle Murate di Firenze, dopo alcuni giorni rientrarono tutti alle loro abitazioni. Dopo il suo arresto (e la sua liberazione, n.d.r.) mio padre rientrò al lavoro e continuò, con tutti gli antifascisti de La Briglia e della Valle, ad organizzare la resistenza all’occupazione nazista. Essendo di leva nell’ottobre del ’43, con cartolina precetto fui chiamato a presentarmi al distretto militare di Firenze, ma rifiutai nascondendomi nei boschi per non essere arrestato; mio padre contribuì molto portandomi viveri di notte. Per creare l’esercito dotto l’egida della R.S.I. e dei tedeschi si presentarono pochissimi giovani di leva; nel mese di novembre ci fu una sospensione di reclutamento di 30 giorni e nel dicembre, con manifesti minacciosi di morte per noi disertori e genitori, avvenne di nuovo la chiamata alle armi. Insieme al mio amico Petracchi Mario ci nascondemmo per 30 giorni a S. Leonardo (Faltugnano), in casa di una signora con due figli piccoli e con il marito disperso nella battaglia sul fiume Don in Russia. Essendo impossibile continuare a nascondersi nei boschi della Calvana decisi di andare in bicicletta lontano dai parenti, a Cortona o in Val di Chiana. Partii il 3 gennaio 1944 alle cinque del mattino, ma giunto prima di S. Lucia, 81
Ultime Voci presso il ponte pedonale di ferro per Canneto, fui fermato da una pattuglia di repubblichini universitari di Prato, i quali facevano un blocco stradale mentre avveniva la battaglia di Valibona contro la brigata partigiana di Campi Bisenzio comandata da Ballerini Lanciotto. Mi arrestarono portandomi alla fattoria di Canneto, poi al Castello dell’Imperatore a Prato, dove fui interrogato e picchiato fortemente, accusato di essere renitente, avendo un documento falsificato e per avere risposto malamente al fascista Vignolini Pio di Vaiano, tenendomi per alcuni giorni nel sottosuolo insieme a molti giovani renitenti, in attesa di mandarci sul fronte tedesco a Cassino: lì ci tennero senza acqua e senza cibo. L’intervento positivo di mia madre presso il cugino carnale Magni Fiorenzo e la firma di una dichiarazione che mi sarei presentato alle armi, mi condusse alla scarcerazione, ma nuovamente mi nascosi nei boschi e successivamente fui fra i primi a formare la brigata partigiana “Storai” ai Faggi di Javello. Il 4 marzo 1944, sotto l’occupazione tedesca, in tutte le fabbriche del Pratese e Valle del Bisenzio, fu fatto lo sciopero generale che contribuì fortemente alla diffusione dei volantini insieme ai sindacalisti ed antifascisti. A causa dello sciopero generale i tedeschi e i fascisti fecero una ritorsione, arrestando circa quattrocento cittadini pratesi uomini e inviandoli nei campi di concentramento, da cui ritornarono poche decine. Io mi trovavo partigiano ai Faggi di Javello, poi nel Casentino e sul Falterona. Per i forti bombardamenti aerei su La Briglia, sulle fabbriche della valle, compresa la ferrovia e per sfuggire alla cattura degli uomini da parte dei soldati tedeschi, la mia famiglia decise di sfollare a Parmigno, presso il colono Fuligni, portandosi dietro poche cose. Mio padre dovette vivere nei boschi insieme a tanti altri e molti animali domestici sino alla liberazione. Prima e dopo il passaggio della guerra (Prato 6 settembre 1944), i titolari dello stabilimento Fratelli Sbraci chiusero la fabbrica per molti mesi, allontanandosi dalla Toscana per paura di essere perseguitati, essendo stati dei capi gerarchi durante il periodo fascista. Terminata la guerra nella nostra valle e continuata sulla Linea Gotica appenninica (6/9/44-25/4/45), i titolari rientrarono cautamente in possesso dello stabilimento tessile, di cui una parte del macchinario e la turbina furono riparate, con grande difficoltà di mezzi, dai bravissimi meccanici ed assistenti interni5. Per la riapertura dello stabilimento, insieme agli operai, sindacati e partiti politici locali, 5 Qui si conclude la testimonianza in prima persona di Giacomo Milloni.
82
Volume sesto mio padre fu determinante nella trattativa con i fratelli Sbraci, perché nel passato era nata una forte reciproca stima di lavoro nel dirigere tutta la fabbrica. Riprese il proprio lavoro di dirigente dei reparti tintoria e follatura sino al 16/03/1954, per chiusura di attività. Continuò a lavorare come capo chimico in tre tintorie per terzi, con grande esperienza nel territorio pratese ottenendo stima per l’alta professionalità sino al 1959. Tutto quanto sopra narrato, anche nei particolari, è stato da me vissuto o è stato raccontato continuamente dai miei genitori ed altri testimoni oculari. La mia natura è stata dotata di una forte memoria visiva, cioè tutto ciò che ho veduto nella mia vita, ricordo bene con molta facilità. Tutta la vita di mio padre è stata dedicata alla famiglia, la moglie Clelia con i tre figli Giacomo, Rosanna e Maura, al lavoro, al rispetto del prossimo, con la massima educazione, aiutando parenti, amici e bisognosi con altruismo encomiabile e ottenendo in tutto l’ambiente tessile pratese una fama di tecnico pratico e di alto livello. Durante il fascismo è stato nella clandestinità per molti anni, collaborò fortemente con gli antifascisti e sindacalisti de La Briglia e di Vaiano, rischiando carcere e confino, subendo violenza morale, fisica e soprusi pur di contribuire a sconfiggere la dittatura per riconquistare libertà, giustizia e democrazia.
83
Ultime Voci
Ritratto di Archimede Milloni.
84
Volume sesto
Sopra e nella pagina successiva: due lettere di referenze a favore di Milloni.
85
Ultime Voci
86
Volume sesto Carmine Piemonte
Carmine Piemonte è nato a Padula provincia di Salerno il 30 luglio 1918. Nel 1938 è richiamato alle armi ed inviato sul confine tra Albania e Grecia. Dopo l’armistizio fu fatto prigioniero ed inviato nei campi di prigionia in Germania, da dove rientrò in Italia.
Sono Carmine Piemonte, fui richiamato alle armi nel 1938, mi presentai al Distretto di Salerno dove venni assegnato al Corpo del Genio e mandato a Bolzano al centro di addestramento. Dopo qualche mese, col mio Reggimento si raggiunse la zona di confine con la Francia perché la nuova situazione di alleanze preoccupava. Dopo fummo trasferiti a Bari e da qui, via mare, sbarcammo a Durazzo in Albania, diretti in Grecia. Sul confine tra l’Albania e la Grecia restammo un po’ di tempo e in condizioni difficili, a combattere in prima linea. Ecco, per noi, la guerra vera cominciava allora e la combattevamo contro la Grecia. Eravamo in prima linea impegnati in servizi vari. Di quel periodo rammento il freddo terribile e che dormivamo sopra graticci di canne e di frasche per ripararci dall’acqua che scorreva sotto di noi come un fiume. In prevalenza il vitto consisteva in scatolette e gallette, che comunque erano preferibili al pane nero di segale dei tedeschi, nostri alleati in quell’avventura. Nel 1943 con l’armistizio del Maresciallo Badoglio e lo sfascio dell’esercito italiano, i tedeschi ci ordinarono il disarmo e ci fecero prigionieri. Come tali fummo trasferiti ad Atene e riuniti sull’Acropoli, dove ai nostri ufficiali disarmati era affidato il compito di mantenere l’ordine tra i prigionieri. Dopo una breve permanenza ci fecero tornare a piedi
87
Ultime Voci in Albania e da qui caricati in vagoni di treni “bestiame”, inviati in Germania nei campi di concentramento. Il mio primo campo mi pare fosse a Dussenfort, ma non ricordo con precisione. In questi campi non ci trattavano male, ma eravamo comunque prigionieri, con tutto ciò che una prigionia comporta in disagi e incertezze. Finché arrivò una circolare dove si diceva che chi voleva andare a lavorare fuori poteva farlo. Io colsi l’occasione e chiesi di lavorare al mantenimento della ferrovia che attraversava il centro della cittadina di Brisen. Così, con un gruppo di altri prigionieri che avevano scelto quel lavoro, si prese dimora in una grande baracca riscaldata e ben rifinita, situata dalla parte opposta della stazione di quella stessa cittadina. Da lì ogni mattina ci spostavano lungo la ferrovia a lavorare, dopo una misera colazione e una razione di 150 grammi di pane che doveva bastare per l’intera giornata. Verso le dieci ci facevano fare una pausa. Noi ne approfittavamo per spostarci nei campi a racimolare qualcosa da mangiare, quasi sempre patate che nascondevamo nelle maniche della giacca o nei gambuli dei pantaloni, legati in fondo con lo spago, poi la sera si cuocevano sulla stufa della baracca in un barattolo che fungeva da tegame. Durante il giorno sul lavoro eravamo controllati da un Maresciallo, che chiudeva un occhio su quello che facevamo, dimostrando umanità e comprensione, forse perché anche lui aveva due figli in guerra e li rivedeva in noi. Invece il nostro pranzo di prigionieri consisteva in una brodaglia di rape, due cucchiai di zucchero, un tocchetto di margarina e una punta di marmellata, ma appena il segno, e la notte nonostante le patate, lo stomaco continuava a brontolare. Inoltre di notte ci faceva la guardia un soldato dell’esercito tedesco, che però spesso andava per i fatti suoi, affidando la sorveglianza a un prigioniero italiano che aveva scelto di collaborare con la Germania. Spesso costui esercitava la sua prepotenza contro di noi senza nessuna ragione. Per esempio facendoci fare, in piena notte, anche quaranta giri di corsa intorno alla baracca, poi riferiva a modo suo ciò che vedeva e sentiva, accusandoci come più gli faceva comodo, di falsità. Era insomma come si dice “una vera carogna!” Improvvisamente ci trasferirono, ci spostarono sul confine della Polonia, vicino a Catovia, ma il nome non lo ricordo bene, e da lì ci mandavano a lavorare in una fabbrica di birra. Dalle voci che circolavano si sapeva che i russi si avvicinavano sempre di più e la guerra sembrava dover finire presto. I tedeschi indietreggiavano e noi eravamo come abbandonati. Infatti molti nostri compagni se ne andarono ognuno per conto suo. Io con 88
Volume sesto qualche altro ci si nascose per un po’ di tempo, poi ci accolse in casa una donna rimasta sola, che in cambio di aiuto nelle faccende dell’azienda ci dava da mangiare e da dormire. Questa donna aveva il marito al fronte e una figlia nascosta in un villaggio lontano per maggior sicurezza. Noi si stava abbastanza bene, nessuno ci dava noia, anzi gli italiani erano ben visti. Un giorno arrivarono sul posto tre o quattro militari tedeschi. Entrarono in casa e chiesero chi ci fosse con lei. La donna rispose che c’erano degli aiutanti italiani, noi in quelle occasioni ci si faceva da parte, rincantucciati: fermi, zitti e buoni, perché anche un movimento poteva essere motivo di reazioni incresciose e tragiche. I soldati non ci degnarono di uno sguardo, se ne andarono a bussare alla casa di fronte. A vederli sembravano anche un po’ ubriachi e non promettevano nulla di buono, ma per curiosità, noi si seguivano da lontano per vedere cosa avrebbero fatto. Purtroppo ci toccò vedere cose brutte. Appena la padrona della casa di fronte vide quei soldati, con un cenno indicò la cantina dove erano nascoste persone civili. I soldati fecero irruzione in cantina e con le armi puntate pretesero dai rifugiati i soldi, gli oggetti d’oro e gli orologi, poi uno di loro, forse il capo branco, scelse una delle ragazze e la portò in soffitta abusandone, e non finì lì, perché tornato giù, quel soldato, prese il padrone, gli fece fare il giro di tutte le stanze della casa, lasciando per ultima la cucina dove venne ucciso con un colpo di pistola. Quello è stato un fatto raccapricciante e terribile a cui ho assistito, ed è pura verità e non posso dimenticare. Finalmente arrivò l’esercito russo, noi italiani andammo con i russi seguendoli nell’impresa dell’occupazione e pensando di poter tornare a casa. Il viaggio proseguiva senza che succedesse niente di grave, tranne qualche bravata, come quella di obbligarmi a bere tutta di un fiato un bicchiere di vodka con una pistola puntata. Ad un certo punto del viaggio ci dissero che per noi era venuto il momento di fermarsi. Dovevamo restare, in certe caserme da loro indicate, in attesa di essere rimpatriati. I giorni passavano e non succedeva mai nulla, così un gruppo di dodici, me compreso, si decise di scappare, prendere un treno e venire verso l’Italia. Siamo fuggiti di mattina presto, alla stazione siamo saliti sul primo treno trovato disponibile. Era un treno senza finestre e senza porte, ma capace di muoversi e noi ci siamo infilati dentro speranzosi. 89
Ultime Voci A tappe, piano piano, con i mezzi che capitavano e la fortuna dalla nostra parte, siamo giunti in Austria, a Innsbruck. A Innsbruck siamo rimasti una decina di giorni per le procedure, visite e accertamenti del caso, quindi siamo potuti rientrare in Italia, in una città del nord. Poi io, con vari mezzi di fortuna, sono arrivato fino a Salerno, ma per arrivare a casa ho dovuto fare a piedi l’ultimo tratto da Battipaglia a Eboli.
90
Volume sesto Carlo Alberto Poccianti
Carlo Alberto Poccianti nato a Prato il 15 dicembre 1922 arruolato come Carabiniere nella sanità. Partecipò alla campagna di Russia nel 1942. Nel dicembre dello stesso anno gli fu ordinato dal suo capitano medico di andare via e cominciò la terribile ritirata dalla Russia, che si concluse nel marzo del 1943.
Io andai in Russia con la Sanità. Il primo settembre 1942 ero aiutante di Sanità di un reparto anticarro e accompagnamento: cannoncini 47/32 e mortai da 81. Questo reparto, che doveva difendere reparti aggregati alla Divisione "Pasubio" non era tutto insieme, era diviso per potere proteggere meglio questi reparti. Questo fu finché la guerra era normale, finché non fummo sul fiume Don. La tragedia cominciò già a novembre 1942. Il disastro, nel dicembre 1942, quando tutto fu distrutto. Mentre già con il freddo l'esercito sovietico faceva dei tralicci di legno per arrivare a che diventassero dei pezzi di ghiaccio su cui far passare i carri armati per attraversare il fiume: e così avvenne. Allora prima della tragedia il mio ufficiale medico fu ospedalizzato per dissenteria che gli era stata trovata su altri fronti di guerra, credo in Africa. E quindi ero rimasto solo. Allora un capitano medico, Mario Ottavianelli di Roma, mi chiamò. Con lui non ci stetti molto tempo, perché a un certo momento i carri armati sovietici avevano già attraversato il fiume e forse ci avevano già superato. Allora egli mi diede l'ordine di andare via subito ed io gli dissi: «Prendo il mio zaino!». «Niente - mi rispose - via subito!». «Ma guardi - obiettai - nel mio zaino ci sono i viveri di riserva, due scatole di carne e le gallette e un pacco da casa». «Niente da fare - mi disse - nessun rimpianto: lasciare tutto e andare via!». Già i carri armati ci 91
Ultime Voci sparavano addosso. E allora c'era un camion in partenza, mi aggrappai. Qualche tempo dopo seppi che questo capitano era stato catturato, attraverso altri. Il percorso per andare via fu Popovka, Arbuzokva, Chertkovo. Durante gli spostamenti io cercavo sempre di aiutare i feriti e chi aveva bisogno: solamente il fatto era che non avevamo più niente! E poi ci fu la battaglia di Arbusova, dove avvenne un macello di carabinieri: e lì ebbi modo di fare l'aiutante di Sanità anche a dei carabinieri. Fu lì che successe l'episodio di Plado Mosca. Non c'era nessun fotografo a documentare e la situazione era tranquilla. Eravamo tutti allo scoperto, non c'erano postazioni, e fu qui che accadde l'episodio della morte di questo carabiniere, medaglia d'oro al valor militare, secondo la testimonianza di Attilio Boldoni1. Io e tanti altri fummo testimoni anche del valore di Attilio Boldoni2: lo conobbi quando guidava una slitta su cui erano il suo capitano e dei carabinieri feriti e lui stesso ferito, congelato ai piedi, per metterli in salvo. Dopo la guerra ci siamo ritrovati a Roma, quando era già generale e io ero alla scuola allievi, insieme al maresciallo Antonino Conti3. Ho conosciuto anche il fratello di Salvo D'Acquisto, Alessandro, col quale strinsi amicizia grazie a un amico comune, Pietro Sangiorgio4. Comunque, ritornando alla ritirata, gran parte fu fatta a piedi, seguendo la Divisione “Pasubio”, che era stata spezzata in due: io seguii il percorso nella parte nord della Divisione5. Il capitano Carmelo Blundo, che comandava appunto i carabinieri della "Pasubio", ebbe un polmone traforato da un proiettile. Quando, tornato in Italia, lo cercai a Roma, era già deceduto a causa della ferita. La ritirata durò fino al marzo del 1943, quando ormai quelli che erano sopravvissuti erano in pochi. Io fui fermato a un posto 1 Giuseppe Plado Mosca fu uno dei due cavalieri che, col suo esempio, spinse i superstiti della Divisione “Torino” a rompere l’accerchiamento dell’esercito sovietico nella conca di Abuzovka per ricongiungersi con il resto dell’Armir in ritirata nei giorni 22-26 dicembre 1942. Solo ad Arbuzovka, chiamata la “valle della morte”, caddero non meno di 10.000 soldati italiani, si contarono 5.000 fra feriti e congelati e almeno altri 15.000 vennero fatti prigionieri. 2 Il sottotenente Attilio Boldoni, comandante della 66° sezione carabinieri in forza alla Divisione “Torino”, testimone della battaglia di Arbuzovka, è medaglia d’argento al valor militare. 3 Sul maresciallo Antonino Conti si veda la breve testimonianza in appendice alla presente. 4 Salvo D’Acquisto, brigadiere dei carabinieri della stazione di Torrimpietra (Fiumicino), scelse di essere fucilato il 22 settembre 1943 dalle SS per salvare la vita di 22 civili innocenti. E’ medaglia d’oro al valor militare. 5 Dal fiume Don al bacino del Donetsk corre una distanza di più di 400 chilometri, percorsi a temperature anche di 50 gradi sottozero.
92
Volume sesto di blocco germanico e ci spianarono davanti il mitra. Ero con uno slittino insieme a un tenente, Vincenzo Calamini, che ormai non camminava più. Quando s'accorsero delle nostre condizioni, un ufficiale medico tedesco ci visitò e lui fu portato via con una barella, sicuramente a un ospedale militare germanico, perché in quella zona non c'erano ospedali militari italiani. A me indicarono la strada per arrivare a un comando italiano e da quel momento la situazione migliorò: finalmente si poteva mangiare qualcosa e anche bere un po' d'acqua. E poi ci spostarono verso Gomel, in Bielorussia, e poi, piano piano, finalmente arrivammo in Italia, spostandoci con i camion o per ferrovia, ma fino a Dneprpetrovsk avevamo fatto tutto a piedi. Furono parecchie centinaia di chilometri e devo riconoscere che la popolazione agricola russa delle isbe, che noi trovavamo durante il percorso, quello che avevano, poveretti, ce lo davano. Il pranzo più ricco fu quello che ci dettero quando trovammo una famiglia seduta a mangiare: c'era una terrina con acqua calda e miglio e un solo cucchiaio. Se lo passavano a turno. Ci fecero sedere e ci passarono il cucchiaio. Per noi fu un gran pranzo: acqua calda e miglio cotto. Comunque essere al caldo lì era già molto. Il caldo lo producevano con sterco bovino e paglia, che nell'estate avevano fatto seccare facendone dei mattoni. Con quello producevano calore in una grande stufa. Il caldo per noi fu una salvezza: eravamo con le scarpe di vacchetta con i chiodi sotto e dovevamo camminare sul ghiaccio a diverse decine di gradi sottozero. Inoltre c'era sempre il pericolo di essere catturati, anche se il percorso che si fece noi era al di fuori del percorso fatto dai carri armati sovietici: perché di carri armati ce n'avevano parecchi i sovietici, i T34, resistenti ai nostri cannoni. I germanici che ci dovevano aiutare in quanto alleati e in qualcosa per la verità qualche reparto ci aiutò, erano però tutti impegnati a Stalingrado6. Qualche arma ci hanno mandato: qualche cannone anticarro, perché i nostri 47/32 gli facevano un baffo ai carri armati sovietici, ma erano insufficienti a fermare l'avanzata. In Italia arrivai passando dal Tarvisio. Appena arrivati ci spogliarono e ci fecero fare il bagno e finalmente ci diedero un po' di roba da mangiare. Il ricordo più bello fu quando scrissi al giornale "Il Carabiniere" con una foto di Plado Mosca. Sua sorella mi mandò la sua foto e la delega per ritirare le sue spoglie se fossero state ritrovate per la trasla6 Dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio 1943 la 6° Armata tedesca comandata dal generale Von Paulus rimase accerchiata a Stalingrado e fu annientata: da quel inizia l’avanzata dell’Armata Rossa verso Ovest che si concluderà solo con la conquista di Berlino il 2 maggio 1945.
93
Ultime Voci zione in Italia, perché non poteva muoversi da Palermo: era vedova di un appuntato dei carabinieri e viveva da sola. In tal caso io sarei dovuto andare a ritirare la cassetta con le sue spoglie per farlo inumare ad Acquaviva Platani, in provincia di Caltanissetta. Per concludere ripeto che se la popolazione agricola delle isbe non ci avesse aiutato, non ci sarebbero stati sopravvissuti. Alle autorità italiane non importava nulla di noi.
Carabiniere in avamposto di osservazione in un bosco di betulle. Fotografia dall’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito 94
Volume sesto Antonino Conti
Il presente breve testo non è una testimonianza diretta, ma il racconto di un'azione di guerra compiuta durante la ritirata di Russia nella quale è coinvolto Antonino Conti maresciallo dei carabinieri della stazione di Calenzano (Fi), più volte nominato da Carlo Alberto Poccianti, fuori testimonianza, come uno dei suoi più grandi amici. Il racconto ci proietta in presa diretta nell'inferno di quel teatro di guerra. Il brano è pubblicato in Enzo Anceschi, Elodio Perani, Carabinieri sul fronte russo, 1942-1943: la 356° sezione Celere, Trento, Manfrini editori, 1992. Il generale Di Blasio, comandante della divisione (si tratta della 3° divisione "Celere", n.d.r.), prima di partire dà personalmente al sottotenente Enzo Anceschi, comandante della 356° sezione carabinieri, le direttive del caso per quanto attiene l'impiego del suo e degli altri reparti. Non avrebbe mai voluto privarsi del reparto carabinieri, ma lo costrinse la scarsità di uomini. Nell'atto del commiato guardò negli occhi il sottotenente Anceschi come per dire «devo sacrificarvi ben sapendo a quale incerto destino andate incontro». Un ufficiale del comando di divisione li accompagnò verso la posizione che dovevano tenere sulle colline che dominano l'abitato di Meschkoff. Fatto questo, salutò il sottotenente Anceschi e gli augurò buona fortuna ma i suoi occhi tradivano un senso di disperazione quasi volesse dire «non credo che ci rivedremo ancora». Era una giornata grigia, un po' nebbiosa, di quelle che tritano la neve rendendola poltigliosa. Il sottotenente pensava alla tremenda responsabilità che aveva nel guidare uomini più anziani di lui, appena ventunenne, e, dopo un fugace ricordo alla famiglia, si raccomandò a Dio. Dispose nel migliore dei modi questi quindici uomini su un'altura con armi individuali, bombe a mano e tre fucili mitragliatori Breda 30 in dotazione ai carabinieri Conti, Focarelli e Pinochi, giovani sprezzanti del pericolo ed in costante dedizione al 95
Ultime Voci servizio di copertura e sbarramento. Verso mezzogiorno apparirono le prime pattuglie russe in avanguardia che cercavano di sondare il terreno e la consistenza del nemico. I carabinieri le vedevano molto da lontano e, appena si avvicinavano troppo, venivano accolte da un nutrito fuoco di moschetti e dal crepitare dei fucili mitragliatori azionati con grande abilitĂ dagli addetti che erano schierati sulla destra e sulla sinistra del sottotenente Anceschi. Le pallottole nemiche sibilavano ma non riuscivano a colpire i carabinieri che erano appostati sull'altura e ben nascosti. Di tanto in tanto dalle linee avversarie c'era un tizio col megafono che, in perfetta lingua italiana, invitava il temerario manipolo di quindici valorosi militi ad arrendersi. Quasi certamente si trattava di un fuoriuscito italiano, probabilmente comunista. A fasi alterne ci fu un fuoco infernale incrociato col nemico per tutto il pomeriggio durante il quale tutti i carabinieri si prodigarono oltre ogni limite sbarrando il passo alle avanguardie russe, costrette a sostare sulle posizioni raggiunte, e permettendo lo sganciamento dei reparti esistenti in paese.
Mitraglieri in azione di sbarramento. Fotografia dall’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito 96
Volume sesto Guido Scarpelli
Guido Scarpelli nasce a Moscheta Comune di Firenzuola (FI), il 24 gennaio 1917, dove ancora risiede. Congedato dopo l’addestramento militare, con la Guerra è richiamato alle armi ed inviato in Egitto. Fatto prigioniero dagli Inglesi, accetta di collaborare con loro. Finita la guerra torna a casa, dove si riunisce con la famiglia.
Sono contento di raccontare questa mia testimonianza, perché è bene e anche giusto che i giovani sappiano quello che abbiamo patito con la guerra, e che la guerra non è una storia qualsiasi, ma una storia di tragedie che lacerano e lasciano ferite profonde, non solo personali ma di popoli. La guerra è mancanza di tutto. Mancanza di speranza, di amici, di gioia, di amore. Sono stato richiamato militare di leva nel 1938. Assegnato all’aeronautica mi hanno spedito in Sardegna, ad Alghero-Pertilia dove c’era un campo di aviazione attrezzato per le esercitazioni del caso. Rimasi a Pertilia quattro mesi circa, poi fui trasferito a Olbia, dove con altri militari eravamo impegnati nel servizio di atterraggio degli aerei, che avveniva sopra una piattaforma che univa il mare alla terra; inoltre eravamo addetti ai servizi di pulizia e al mantenimento delle attrezzature e dei servizi relativi agli ambienti adibiti allo scopo. Sono rimasto a Olbia, quasi per tutto il servizio militare, 18 mesi. Però, nel 1939 la mia famiglia fu colpita da un grave lutto per la morte improvvisa di un mio fratello, motivo per cui mi fu concessa una licenza straordinaria. Ero ormai quasi alla fine del servizio militare, tanto che dalla licenza non mi fecero tornare, mi mandarono il congedo a casa. 97
Ultime Voci Allora abitavo alla Collina. La mia era una grande famiglia patriarcale di 17 persone. Il 10 giugno del 1940 l’Italia entra in guerra. La guerra aveva bisogno di uomini, così cominciarono a richiamare alle armi varie classi, cominciando dalle più giovani e arrivando sempre più indietro. Io vengo richiamato fra gli ultimi, anzi fui proprio l’ultimo della zona. Fra me dicevo: “Stai a vedere che mi rilasciano!” Non fu così. Mi presentai al distretto di Firenze e fui mandato a Forte dei Marmi per le prime istruzioni militari che poi abbiamo continuato a San Marcello Pistoiese. Dopo un po’ di tempo ci hanno spostati a Bari dove si sono continuate le esercitazioni aeree. I piloti della mia brigata, bardati di tutto punto salivano sull’aereo, facevano qualche giro in cielo come se fossero in ricognizione di una zona del fronte, poi l’aereo atterrava e i soldati rimasti a terra, tra i quali ero, si prendeva posizione come se fossimo in guerra, cercando di conquistare le posizioni nemiche. Tale intervento di addestramento avveniva dopo che i paracadutisti avevano perlustrato la zona. Insomma quelle esercitazioni erano la preparazione alla guerra vera che ci aspettava in Africa. Tutto era ormai pronto per la partenza per l’Africa. La mia compagnia vi sarebbe dovuta arrivare in nave via Malta, ma le cose precipitarono, così fummo inviati direttamente in Egitto dove imperversava la battaglia di El Alamain . Io non sono mai stato sulla linea del fronte, non ho partecipato direttamente alla battaglia perché quando arrivammo, l’esercito italo-tedesco era in ritirata. I nostri erano costretti a indietreggiare, inseguiti dalle cannonate e dagli spari nemici, di ogni sorta. Ci costrinsero a fare 3 mila km sotto un fuoco che non dava tregua, sempre in ritirata fino alla Tunisia. Ci mettemmo sei mesi. Furono sei mesi di inferno vero. Subimmo la tempesta del ghibli, vento del deserto pieno di sabbia. Una sabbia fine che ci nascondeva come la nebbia e penetrava dappertutto, poi il caldo, fino a 65 gradi, la fame e più di tutto la sete. Una sete insopportabile. Mi vergogno a dirlo, ma anch’io ho bevuto la mia stessa urina, perché la sete è la peggiore delle torture, era come impazzire. Ero attendente di un ufficiale, esente dal combattere in prima linea, ma ero lo stesso in pericolo perché ogni giorno, per due volte, dovevo attraversare una zona del deserto completamente scoperta per andare alle cucine a prendere il mangiare. Le bombe e le pallottole fischiavano da tutte le parti. Nei momenti di maggior violenza, io mi “raggruf98
Volume sesto fellavo” schiacciato nella sabbia e restavo fermo, pensando che se una bomba mi avesse preso in pieno, di me non sarebbe rimasto nulla, non avrebbero ritrovato neppure un ossicino a testimonianza della mia sorte. Ancora, continuo a pensare che qualcuno mi era vicino e mi ha protetto perché di casi difficili ne ho avuti tanti. Così, a forza di retrocedere, siamo arrivati in Tunisia. Io ci sono arrivato ferito a una mano, da una bomba a mano di cui ero munito, e che mi è scoppiata addosso perché toccata accidentalmente da un altro militare. Per quell’incidente vengo ricoverato all’ospedale di Tripoli per quaranta giorni. Una volta guarito rientro al fronte, dove dopo solo tre giorni vengo fatto prigioniero dagli inglesi con altri miei compagni. Gli inglesi ci utilizzarono nel lavoro di rimozione delle macerie e di ripulitura della città di Tripoli. Era un lavoro faticoso e pieno di tribolazioni, perché ci davano poco da mangiare e meno ancora da bere, per fortuna dopo un breve periodo fummo trasferiti con una nave da Tripoli ad Alessandria d’Egitto. Qui ci proposero di scegliere tra collaborare con loro, forze militari inglesi, o finire prigionieri in un campo di concentramento. Io scelsi di collaborare e fui occupato nella mensa ufficiali, che si trovava vicino al canale di Suez dove si stava abbastanza bene. Però dopo poco ci spostarono in Palestina dove fummo impiegati nei servizi di pulizia e alle altre necessità, negli accampamenti militari, sempre inglesi. La cosa più triste era non poter avere notizie di nulla. Si venne a sapere dalla Croce Rossa del nostro stato di prigionieri. In cinque anni di guerra (1941-1946) non ho mai saputo nulla della mia famiglia e loro non hanno saputo di me. Finita la guerra, noi prigionieri siamo stati riuniti in un campo a Gerusalemme, per pratiche varie, necessarie per il rimpatrio, poi hanno iniziato a rimandarci a casa cominciando da quelli richiamati per primi. Il 29 giugno è toccato anche a me. Imbarcati su una nave siamo arrivati nel porto di Napoli, poi con altri mezzi siamo giunti a Roma. A Roma, a me e ad altri militari come me, è stata data la somma di lire diecimila. Dopo di che ognuno era libero di tornare a casa come meglio poteva e voleva. Era stato pagato e licenziato. La mia prima meta era Firenze. Arrivato a Firenze sono andato dalle mie cugine e da loro, e soltanto allora, ho saputo che la guerra aveva fatto molti danni e rovine anche da noi e che non avevo più una casa, e che la mia famiglia e io con loro, avevamo perso tutto. Insomma, per quei cinque anni impiegati e patiti in guerra agli statali il governo ha 99
Ultime Voci concesso lo scivolo di sette anni, a noi niente. Ossia, quelle diecimila lire che io ho speso per comprarmi un vestito, sapendo che a casa non avevo piÚ nulla. Eppure eravamo contenti, grati di essere potuti tornare insieme. Ora, tutti, vecchi e giovani, la mia famiglia era composta di 17 persone, ci siamo rimessi di gran lena al lavoro con la speranza, l’orgoglio e la determinazione di ricostruire un mondo nuovo, per una vita migliore. Io mi considero fortunato. Sono ancora qua a raccontarla, sono contento di esserci e, mi piacerebbe restarci ancora un po’.
100
Volume sesto Marcello Vannucci
Marcello Vannucci è nato nel 1919. Fin da giovane appassionato di volo, ha conseguito il brevetto di pilota civile nel 1938 e poi l’anno successivo il brevetto di pilota militare. Come pilota ha partecipato a diverse azioni militari dalle quali è uscito indenne: è stato abbattuto una volta per errore dalla contraerea tedesca, alleata dell’esercito italiano. Dopo l’8 settembre sì unì alla resistenza partigiana militando nel Partito d’Azione di Prato.
Sono nato nel 1919, figlio di un combattente della guerra mondiale ’15-’18. Nel 1938 conclusi l’Ist. Tec. Nicastro che avevo frequentato insieme a Roberto Giovannini e tanti altri puri Pratesi sotto l’egida del Direttore Plutarco Bardazzi (fascista e sindaco di Prato negli anni avanti guerra). Lo stesso che mi bocciò in terza superiore e mi consigliò di arruolarmi nell’arma Aeronautica. Fu proprio in quell’anno 1938 che mio padre con sacrificio, mi fece prendere il brevetto di pilota civile presso l’aeroporto di Peretola con l’istruttore Vasco Magrini (famoso pilota). Nel 1939 fui chiamato alle armi e con il brevetto che già possedevo fui mandato a una scuola per conseguire il Brevetto di Pilota Militare. Scoppia la guerra, io dal 2 gennaio 1941 al giugno 1943, ho partecipato, credo con onore, a numerosi eventi bellici aerei. Eventi o imprese che racconto nel mio curriculum. Vannucci Marcello pilota militare nella seconda guerra mondiale. Con il brevetto di pilota civile nel 1940 al richiamo per il militare, fui mandato alla scuola per piloti a Falconara. Lì conseguii il brevetto di pilota militare nel 1942 e fui su101
Ultime Voci bito trasferito a Ciampino alla 369° squadriglia del 22° gruppo C. I. A Ciampino facemmo il passaggio sul RE. 2001 e fummo trasferiti in Sicilia, il 21 settembre 1942, all’aeroporto di San Pietro a Caltagirone da dove cominciammo a fare scorte ai bombardieri che andavano su Malta e ai convogli presenti nel Mediterraneo. Nel cielo di Malta abbiamo combattuto contro gli SPITFIRE inglesi e sempre nel 1942 i nostri aerei da caccia RE. 2001 furono adattati a portare una bomba di 250 chili. Così, il nostro RE. 2001 divenne il primo aereo da caccia bombardiere italiano. Sempre dalla base siciliana si partiva per andare a sganciare bombe su Malta, che sembrava dovesse essere occupata in poco tempo, invece, per cause a noi sconosciute, questo non avvenne. Intanto i nostri nuovi compiti furono di fare da scorta sia ai bombardieri che ai convogli. Il 5 novembre 1942, fummo trasferiti da Gela a Pantelleria, dove scortammo il famoso convoglio composto da tre petroliere e da tre caccia torpediniere che a sud di Pantelleria vennero tutti silurati e affondati dai sommergibili inglesi. Erano i rifornimenti che Rommel aspettava in Egitto per dare il colpo di grazia ad Alessandria. Nonostante tutto, anche lì andò male e noi fummo trasferiti in Sardegna: aeroporto di Monserrato vicino a Cagliari. In quei giorni, da Gibilterra entrò nel Mediterraneo un convoglio di navi americane, circa mille, che sbarcarono truppe ed armamenti lungo le coste africane, fino al porticciolo di Bona vicino a Biserta e a Tunisi. La fermata a Bona, dette tempo ai tedeschi di trasferire a Tunisi, via aerea, truppe e mezzi per fronteggiare via terra le truppe alleate. Questa incertezza degli alleati, questa loro titubante prudenza fece prolungare la guerra di almeno un anno. Lo stesso giorno, il 7 novembre 1942, nel trasferimento a Pantelleria a Monserrato in Sardegna, io con altri nove specialisti del 22° gruppo facemmo un ammaraggio forzato nelle acque territoriali tunisine. Fortunatamente ci salvammo tutti per la presenza di un battellino e una barca di gendarmi francesi. Approdammo con quei mezzi a circa venti km dal porticciolo di Bona dove si trovavano gli alleati. Per fortuna i gendarmi francesi ci portarono prima a Biserta e poi al consolato italiano di Tunisi. Da qui, con mezzi di fortuna il console riuscì a farci arrivare all’aeroporto dove stavano arrivando i tedeschi con i famosi aerei da trasporto JU. 52 carichi di armi e soldati per fronteggiare via terra l’avanzata degli alleati. Con il consenso dei tedeschi riuscimmo a salire su un JU. 52 che volando a pelo d’acqua ci portò a Trapani. Era il 28 novembre 1942 quando 102
Volume sesto rientrammo al reparto facendo Gela – Castelvetrano – Monserrato. Pochi giorni dopo, il 6 dicembre 1942, fui scelto per una missione di bombardamento in picchiata col RE. 2001 sul porto di Bona. Partimmo in cinque, portando a termine la missione di bombardare le navi e combattere contro gli SPITFIRE inglesi. Alla base rientrammo in quattro, purtroppo il tenente Arrigo Pederzolli di Firenze fu abbattuto dagli SPITFIRE inglesi. Rientrammo a Ciampino il 31 dicembre 1942, poi dopo una licenza premio di dieci giorni e dopo aver fatto il passaggio su MC. 202, il 22 gennaio fummo destinati a Napoli Capodichino per la difesa della città. Lo stesso giorno dell’arrivo ci fu una partenza su allarme, ma i bombardieri non si avvicinarono, erano diretti su altri obiettivi. Fino al 7 febbraio 1943, per noi, non ci furono che partenze su allarme e scorte ai convogli, ma proprio quel giorno 7 febbraio ben sette quadrimotori bombardarono Napoli: noi li intercettammo e nel combattimento che seguì cinque furono colpiti e probabilmente abbattuti. Da quel momento fino al 10 aprile eravamo tutti i santi giorni in volo su allarme per intensificata vigilanza, poi il 10 e l’11 aprile furono due giorni tremendi di attacchi violenti e continui, noi riuscimmo ad abbattere cinque LIBERATOR e probabilmente altri sei in collaborazione. I nemici bombardarono la città e i punti strategici come il porto e l’aeroporto, tanto che fummo costretti ad andare ad atterrare a Capua e a continuare da lì il nostro servizio, fin quando la pista di Capodichino tornò agibile. Un altro bombardamento in forza avvenne il 6 giugno: arrivarono di sorpresa, erano circa 150 fortezze volanti che sganciarono sul porto, sulla città e spezzonarono l’aeroporto distruggendo al suolo tutti gli aerei del ns. 22° Gruppo schierati sul campo per la difesa. La sera stessa, un CA. 133 dell’aeronautica prese a bordo tutti i piloti rimasti illesi portandoci a Metato, vicino a Pisa, in un campo di Fortuna, dove erano schierati una notevole quantità di aerei francesi DW. 520, preda bellica. Con quegli aerei ripartimmo per rientrare a Capodichino. Io partii con i primi tre aerei e lungo tutta la rotta avvertivamo la contraerea del nostro passaggio. Il viaggio andò bene fino al golfo di Gaeta. Invece nell’attraversare il golfo, a circa quattromila metri di quota, la contraerea tedesca, per errore essendo nostra alleata, cominciò a spararci contro. Furono pochi secondi ma ci avevano inquadrati bene. Infatti una granata mi scoppiò a pochi metri, davanti e fui colpito in pieno. Il motore e parte dell’abitacolo si frantumarono, io fui salvo grazie al vetro corazzato che mi parava la faccia. I compagni di formazione sparirono all’istante. Io prima di lanciarmi col paracadute 103
Ultime Voci controllai la manovrabilità dell’aereo e visto che l’aereo planando mi rispondeva, tentai di arrivare alla spiaggia. Tutto andò bene, così arrivato vicino alla spiaggia sfruttai gli ultimi metri di quota e picchiando sulla spiaggia per riacquistare velocità, riuscii a virare di 90° mettendomi parallelo al bagnasciuga. Mi trovai davanti gli alberi del fiume Garigliano, riuscii a saltarli, ma dalla parte opposta trovai una spiaggia vergine, la spiaggia di Ischitella, frastagliata da alberelli e montagnole di sabbia. Fu in una di queste che mi infilai con l’ala sinistra e dopo un giro su se stesso l’aereo si fermò proprio sul bagnasciuga. Presi una botta tremenda, urtai con la faccia sul cruscotto ricoperto da un cuscino di pelle e gommapiuma. Era il 6 giugno 1943. Nell’impatto mi ero procurato la rottura della mascella, delle orbite degli occhi, del setto nasale e dei denti. Mi vennero in soccorso tre marinai con una barca, Si trovavano lì essendosi la loro nave arenata nel golfo per scansare i siluri. Vennero perché avevano visto l’aereo cadere e con un’improvvisata barella mi salvarono portandomi al paese più vicino, da dove telefonarono all’ospedale che mandò un’autoambulanza. L’incidente avvenne alle 19,30: quando arrivai all’ospedale di Pozzuoli, ora sede dell’Acc. Aeronautica, erano le 23,30. Per questo incidente ebbi tre mesi di convalescenza, così l’8 settembre del 1943 mi trovò ancora convalescente e a casa. Da qui comincia un altro curriculum. Ero a casa a Galciana, sempre con i tedeschi fra i piedi, essendo accampati nelle vicinanze. Devo dire che con me erano molto rispettosi, mio padre faceva il fornaio e i tedeschi prendevano il pane del nostro forno e lo pagavano. Alla scadenza della convalescenza, mi presentai all’Accademia, alle Cascine di Firenze. I tedeschi intendevano inviarmi subito in Germania ad una scuola di volo che mi integrasse con loro. Io promisi che sarei andato, ma chiesi di poter tornare a casa a salutare i miei genitori. Loro trattennero tutti i miei documenti, mi lasciarono soltanto il libretto personale di volo. Non mi ripresentai. Mi misi alla macchia e con i partigiani partecipai ad azioni di disturbo contro le formazioni tedesche in ritiro. (Galciana Partito d’Azione)
104
Volume sesto
Dw. 520 (Preda bellica francese) Aereo con il quale Marcello Vannucci fu abbattuto dalla contraerea tedesca il 6 giugno 1943.
105
Ultime Voci
Immagine tratta dalla rivista che riporta il racconto di Vannucci sul suo abbattimento ad opera degli alleati tedeschi. 106
Volume sesto Quella
che segue è una lettera scritta da Vannucci ad Alessandro Cintelli in cui chiarisce alcuni fatti da lui vissuti. La riportiamo perché testimonia la grande passione per il volo che ha sempre animato Marcello.
Caro Sig. Cintelli Tu hai avuto l’ingrato incarico di intervistare un vecchio pilota da caccia dell’ultima guerra, 1940-1945, in servizio militare dal 1940 al 1943. Un pilota che ha fatto la sua guerra sempre agli ordini (anche se sbagliati), mandato allo sbaraglio, anche in voli quasi da Kamikaze, come ho scritto in vari racconti pubblicati sulla rivista Aeronautica. Sono sempre stato l’ultimo gradino in base a riconoscimenti, non ho mai parlato con il mio comandante di squadriglia, non sono mai stato in nessun caso nominato, non figuro nemmeno nell’elenco dei piloti RE. 2001 del Ministero dell’Aeronautica, nemmeno nell’elenco dei piloti del 22° Gruppo C.T. E pensare che fui assegnato al 22° Gruppo C.T. il 1° settembre del 1942, rimanendovi fino al 6 giugno 1943, come dimostra il mio “Libretto Personale di Volo” (mettere pagina relativa libretto ed alcune foto). Nonostante tutto, la mia passione per il volo non è mai finita. I primi anni dopo la guerra li trascorsi tra convalescenza e ricerca di un lavoro. Finché nel 1947 mi sposai e entrai a far parte del lanificio di mio suocero, facendo per trent’anni il dirigente. In quel periodo mi riprese l’hobby del volo, così ritornai a Peretola presso l’Aereo Club di Firenze e d’allora fino al 1995, anno in cui ebbi un infarto, per fortuna benigno, ho sempre volato fino a raggiungere fra militari e civili qualche migliaio di ore di volo. Anche in questo periodo ho avuto tante soddisfazioni: ho portato in volo tanti amici pratesi, ho fatto tanti battesimi dell’aria con relativi diplomi, intere scolaresche portate a Peretola dal maestro Giorgetti. Ho partecipato a raduni aerei, a gare aeree, a manifestazioni aeree con il mio BUCHER 131 tedesco, biplano, che insieme ad un altro aereo simile pilotato dal sig. Modi Aldo di Borgo San Lorenzo, ci siamo esibiti a Grosseto a Siena a Pisa e a Firenze (Ultima manifestazione fatta il 28 settembre 1980), Ma devo dire anche qualcosa a proposito del mio caro amico e compagno di scuola, dell’allora Sindaco di Prato Roberto Giovannini, grande appassionato di volo come me. 107
Ultime Voci Siamo stati insieme con un FIAT G. 46, aereo addestratore Piloti Militari, a Torino Mirafiori, per un raduno di piloti e la visita al museo. Era un grande pratese capace e sempre presente ai bisogni dei cittadini. Quanti ricordi! Abbiamo festeggiato insieme con lancio di fiori sulla tomba di Malaparte per la ricorrenza di un anniversario dello scritto, abbiamo lanciato manifestini su Prato per la festa da lui istituita per il 15 agosto di ogni anni (Santa Maria), la “scocomerata” in piazza del Comune. Anche la nostra attrice Pamela Villoresi ne sa qualcosa in fatto di acrobazie. Era entusiasta e sopportava bene tutte le accelerazioni positive e negative. Bellissimo il ricordo dell’esibizione fatta a Firenze all’Arma dei Carabinieri il 5 giugno 1966, nella ricorrenza della festa dell’arma. Eravamo su due aerei FIAT G. 46, uno pilotato da me, l’altro dal pilota pratese Carpeggiani Renzo, anch’egli grande pilota militare e civile. In quell’occasione il Comandante dell’Arma ci fece avere regali ed elogi con nostra grande soddisfazione. Un altro grande pilota che ha volato con me con un BUKER 131 è stato il generale Stelio Nardini, Capo di Stato Maggiore durante la guerra del Golfo (entusiasta di questo mio aereo biplano acrobatico). E poi come non ricordare i tanti matrimoni di personaggi pratesi che hanno ricevuto fiori dal cielo.
108
Volume sesto Giordano Siro Vignolini
Giordano Siro Vignolini nacque a Prato il 7 aprile 1924. Partigiano combattente, fu arrestato e deportato in Germania. Durante il viaggio in Italia, dove veniva riportato per farlo combattere contro gli Alleati, fuggì per riunirsi ai partigiani. Fu catturato dagli Americani, di cui rimase prigioniero fin quando Togliatti, come Ministro della Giustizia, fece liberare i partigiani catturati.
Quando si fu arrestati il giorno avanti, ma non ricordo quando, si erano ammazzati due soldati tedeschi in fondo a Pratolino, a Vaglia. Si veniva dal Monte Giovi, s’ebbe uno scontro con i tedeschi e ci lasciarono la buccia: tutta la documentazione è al Distretto Militare di Firenze. Mentre combattevo nei partigiani, un giorno arrivò un fascista e lo catturarono. Dopo due giorni fece per scappare, ma uno di noi era sempre pronto e con un paio di revolverate l’ammazzò: perché scappando sarebbe andato al comando dei fascisti a indicare dove eravamo. S’era sul Monte Giovi in quell’occasione. A Vaglia, come ho detto, si fece l’azione di guerra più importante, là dove c’era un fiume e una vecchia ferrovia. Noi s’era appostati su una strada, quando all’improvviso spuntò un mezzo tedesco, da una curva, c’erano sopra quattro militari tedeschi e noi quando si vide si tirò e s’ammazzarono due ufficiali. Nei partigiani mi portarono vecchi comunisti di Usella, che ci portarono alla formazione dei Faggi di Javello, come Carlo Ferri di Vaiano. Mi portò in formazione ai faggi di Javello e poi di lì s’andò a Monte Morello e infine ci si spostò sul Monte Giovi e sul Falterona. Inizialmente fui nella formazione “Orlando Storai”. Poi quando si fu attaccati dai battaglioni tedeschi ci si sbandò e ci fu chi la scampò come me e chi invece lo presero e lo fucilarono. 109
Ultime Voci Io dopo lo sbandamento tornai a casa insieme a Foscaro Ciampi , stava di casa a Fedeloni lui; ma ci catturarono i repubblichini e ci rinchiusero nel circolo di Usella: c’era Fiorenzo Magni con altri fascisti che ci facevano la guardia. Dopo quattro giorni ci portarono a Firenze e ci chiusero alle Murate. Dopo venti giorni di reclusione ci presero e ci portarono a Villa Triste, da Mario Carità. Eravamo in quattro e ci fecero entrare in un ufficio dove c’erano due ragazze che ci interrogarono. Allora a un certo punto una di queste urlò: «Voi siete dei ribelli!». E io risposi: «Ho fatto un po’ di guerra contro i tedeschi e sono andato alla macchia perché avevo paura. Io non sono un ribelle, io sono un italiano!». E da lì nacque una discussione accanita, ma dopo un’ora di interrogatorio arrivarono due vestiti in borghese e ci dissero: «Venite con noi!». C’era un corridoio lungo, in fondo c’era una porta. Ci fecero entrare in una stanza dove c’erano strumenti di tortura. In quel momento arrivò uno che doveva essere uno che comandava e disse agli altri: «Son questi gli ordini che vi s’è dato? Questi qui non vanno toccati in nessun modo!». E li mandò via. Evidentemente qualcuno in passato aveva parlato in nostro favore. Forse qualcuno aveva avuto paura di una ritorsione. Dopo essere riportati alle Murate, ci deportarono in Germania, a Stoccarda. Nel campo di prigionia in Germania non era come essere, per esempio, a Mauthausen, anche se si pativa ugualmente la fame. Però una fetta di pane nero ce la davano, insieme a una specie di farinata, e un po’ alla meglio si andava avanti. Ci sono stato per sei mesi. Non ci facevano lavorare, ma ci tenevano chiusi in questo campo, senza mai uscire. Si dormiva in una tendina canadese in quattro. Una volta, mi ricordo, uscii senza che se ne accorgessero per fare quattro passi in un’abetaia vicino al campo. Presi due coperte e m’avviai a camminare per quell’abetaia e scoprii che lì i tedeschi ci avevano accatastato montagne di bombe e proiettili: era tutto pieno. Se un aereo alleato avesse colpito queste cataste, sarebbe saltata tutta Stoccarda! La feci la mia! Quando tornai la sera, era piovuto e c’era tutto fango: per punizione un sottufficiale tedesco mi fece sdraiare nel fango e mi ordinava di continuo: «In piedi, in terra!». E a un certo punto non ne potei più e rimasi in terra semisvenuto. Ebbi fortuna, perché gli dissi: «Accidenti a te e alla tua mamma!». Se avesse capito l’italiano m’avrebbe ammazzato! Dopo sei mesi i tedeschi ci riportarono in Italia con l’intenzione di farci combattere contro gli Alleati e quando s’arrivò vicino al fronte della Linea Gotica io scappai, da solo, e fui accolto da una famiglia contadina, che mi dava da mangiare la polenta dolce e poi 110
Volume sesto mi indirizzò in un paese, nella zona di Pontremoli, Vinca , dove i tedeschi ci avevano ammazzato diverse persone. Mi dissero che avrei trovato una villa e lì dovevo chiedere dove erano i partigiani. trovai uno, con la moglie, e gli dissi: «Io sono scappato dai tedeschi e vorrei andare a Vinca». Lui mi diede le istruzioni per arrivarci e lì mi incontrai con i partigiani, ai quali consegnai il mitra che mi avevano dato in dotazione i tedeschi. Dopo quindici giorni dissi che volevo andare via e passare il fronte. Passato il fronte mi presero prigioniero gli Americani e mi portarono in un loro campo di prigionia. Dopo tre mesi, dal comando americano, nella persona di un colonnello, ci si sentì chiamare e noi non si capiva che cosa succedeva. In seguito si venne a sapere che, essendo Togliatti ministro della Giustizia nel nuovo governo dopo la Liberazione, attraverso dei compagni gli fecero sapere che noi eravamo partigiani ed eravamo chiusi in un campo di prigionia americano. Allora il Ministero comunicò al comando americano questa situazione. Ci chiamarono e ci dissero:«Voi è per merito di Togliatti che andate a casa. Se non c’era lui voi stavate qui». Ci accompagnarono con una jeep: le strade erano interrotte, era tutto devastato. Si fece una trentina di chilometri e poi, a piedi, si arrivò a casa nostra. Nel 1945, dopo la Liberazione, mi iscrissi al partito comunista e divenni un attivista, senza mai però avere incarichi di importanza. Ero nella zona di Usella. Fiorenzo Magni, il fascista che aveva fatto la spiata per farci portare da Mario Carità, doveva essere fucilato.
111
Ultime Voci
Sopra: attestato di riconoscimento a favode di Siro Giordano Vignolini. Nella pagina successiva: l’articolo in cui dove si raccontano le vicende di Vignolini. 112
Volume sesto
Articolo tratto dal giornale Il Proletario del 15 settembre 1945.
113
Ultime Voci Su Bogardo Buricchi e l’11 Giugno 1944
Concludiamo questo volume di Ultime Voci proponendo uno scritto di Michele Di Sabato su Bogardo Buricchi e sui fatti capitati a Poggio alla Malva l’11 giugno 1944.
Dopo oltre trent’anni a volte la mente mi ritorna ancora a quanto avvenne nel ’44 presso Poggio alla Malva: al sacrificio, dei fratelli Buricchi, di Ariodante Naldi e Bruno Spinelli. Da allora tante, molte cose, sono state scritte su quella vicenda – senza però mai apportare contributi tali da modificare il quadro e la sostanziale realtà di quei fatti – con illazioni talvolta puerili al punto che forte è la tentazione di scrivere un’altra “lettera” a Bogardo per confermargli la propria solidarietà, l’incondizionata fratellanza ai principi che ispirarono la sua scelta politica, il suo operato in un momento cruciale per l’intero Paese e difficile della sua personale esistenza. Di quando altri, ripetiamolo ancora una volta, ammettiamo pure la maggioranza degli italiani, aspettavano senza esporsi la soluzione del conflitto per schierarsi senza rischi e saltare possibilmente sul carro del vincitore a modico prezzo. Scrissi trent’anni fa nella mia “lettera” a Bogardo: «Tu dal vasto devastante travaglio spirituale che attraversasti emergesti rigenerato come uomo consapevole e deciso, già leader, e nella tua fede sincera scegliesti n posto di battaglia privilegiando il proselitismo e l’azione». 114
Volume sesto Allora ignoravo quanto fosse stato veramente grande e devastante quel travaglio e l’effettivo spessore intellettuale di Bogardo, ma intuivo tuttavia l’alto valore morale e civile della sua scelta nel momento che al popolo italiano s’era posto il dilemma di continuare a credere nel fascismo e nella guerra tedesca o combattere l’uno e l’altra, sperando e operando per un domani diverso dove l’anelito di libertà che affiorerà negli scritti ora apparsi di Bogardo avesse il primato, con una radicale palingenesi dei rapporti umani e sociali. Educato e istruito dalla scuola fascista ai postulati del regime come tutti i giovani della sua generazione, Bogardo ci aveva creduto come gli altri, e ne troviamo il riflesso, la conferma tangibile in ciò che egli scrisse di aver insegnato ai ragazzi nella sua fugace esperienza d’insegnante dopo il trauma del seminario e il disorientamento che ne era seguito. Dopo quel “momento” che mi fa pensare all’effervescenza della magnesia, evocata da un mio amico per esprimere in modo icastico lo stato che la sua mente stava attraversando all’inizio dell’adolescenza. Feci osservare a quel mio amico che dopo l’effervescenza torna la calma e la limpidezza dell’elemento in cui il fenomeno si è realizzato, e come immagino che egli sia diventato un professionista equilibrato e apprezzato così sono ancora persuaso che dopo la fase dello smarrimento e della disperazione per Bogardo sia sopraggiunta quella della consapevolezza, dell’equilibrio e dell’assunzione cosciente di responsabilità. Già nel luglio del 1943, intanto, Bogardo era una persona nuova. Si era riconciliato con Dio, aveva recuperato la fede, aveva presumibilmente accantonato l’avversione verso almeno una parte di quei preti che aveva oltraggiato e vituperato, aveva insomma sentito il bisogno di voltare pagina, la necessità di schierarsi, aderire a un’organizzazione e ricominciare a sperare, operando per un mondo migliore, a ogni modo diverso da quello che gli era proposto dal potere costituito. Ai revisionisti di oggi e di domani, ai visionari, ricordo pertanto i fatti terminali della parabola terrena di Bogardo Buricchi, tragici e incontestabili come sono, dai quali dovrebbe comunque sempre partire ogni onesta considerazione. Anzitutto, dirigenti e gregari della Resistenza con i quali Bogardo entrò in relazione ebbero stima e rispetto della sua personalità, della sua intelligenza, del suo equilibrio, del suo senso di responsabilità, serbandone un’ottima opinione. Da Mazzoni a Cantini a Martini a Leonardo Cecconi ecc., compreso i ragazzi della sua SAP, quelli che condivisero le sue scelte, si esposero con lui al tragico sabotaggio degli esplosivi ed ebbero la 115
Ultime Voci fortuna di salvarsi, sopravvivere e, soprattutto, testimoniare. Pertanto, per gli “storici” veri o presunti di oggi e di domani, per i distratti, per gli immemori, sintetizzo i fatti incontrovertibili, fornendo ancora una volta gli elementi che concorsero a determinare quella dolorosa vicenda, ponendo dei punti fermi da cui possa partire senza prescindere chiunque voglia speculare o continuare onestamente l’indagine per conseguire risultati affidabili. Quando prese contatto alla Catena con gli esponenti della Resistenza locale agli albori Bogardo lo fece con perfetta lucidità, con cognizione di causa. Chiese anzitutto l’autorizzazione a compiere con la sua squadra azioni armate contro i fascisti e i tedeschi, chiese i mezzi per compierle, e prese talmente sul serio il suggerimento di sabotare le comunicazioni che dopo qualche giorno si presentò agli stessi interlocutori con un grosso rotolo di fili di rame asportato dalle linee telefoniche e telegrafiche messe temporaneamente a tacere. Egli riuscì agevolmente ad inserirsi nel gruppo che operava alla Catena, partecipò alle riunioni, alle discussioni, alle decisioni, si confrontò senza apparire visionario a nessuno, consultandosi sempre con chi aveva responsabilità superiori alle sue prima di prendere iniziative personali. Dopo l’8 settembre 1943, la prima scelta autonoma, decisiva che troncava con un taglio netto i collegamenti con il passato, lui, suo fratello, Lido Sardi, Mario Banci e pure Enzo Faraoni, che era andato a lavorare alla Nobel per farsi esonerare, era stata quella di non rispondere alla chiamata alle armi della RSI. Ma non fu quella scelta a determinare la loro adesione alla Resistenza, com’era propenso a credere don Matteucci, perché tutti loro potevano con le consuete precauzioni continuare a nascondersi senza correre altri rischi, con la complicità di chi li avvertiva delle eventuali iniziative dei carabinieri per snidarli, bensì la disponibilità ad aderire a quel movimento che contestava l’apparato politico, la guerra nazista sul suolo italiano agevolata dai fascisti. Una disponibilità che implicava rischi d’ ogni genere, metteva contro la legge vigente, esponeva alla pena di morte, comunque e ad una vita difficile, scomoda, quando invece “aderire” garantiva tranquillità, un rancio, un tetto, un’esistenza nella legalità, senza bisogno di nascondersi. La situazione era densa d’incognite e sia fatto per l’ennesima volta un inciso: per schierarsi con la lotta armata clandestina, diventando così “banditi”, oltre a delle radicate 116
Volume sesto motivazioni profonde ci voleva veramente del fegato. Ci voleva del coraggio per sfidare la prepotenza tedesca e la connivenza fascista in quella lotta innegabilmente impari, dall’esito fin troppo aleatorio con delle prospettive non proprio rosee, mentre in tanti, sì, preferivano “stare alla finestra” o addirittura fiancheggiavano, spiavano, collaboravano con “il tedesco invasore” fruendo di protezione, mezzi, armi e avallo del potere. Certo che la prima scelta dirompente, decisiva della sua vita, Bogardo l’aveva fatta abbandonando il seminario e cadendo poi nella profonda depressione o crisi spirituale, nel disorientamento pressoché totale per ragioni che don Matteucci attribuiva all’influsso delle opere d’autori che avrebbero esercitato (su) di lui un’azione deleteria, tuttavia non valutabile nella sua reale entità. Ma chissà se fu estraneo a quella scelta il “Povero Padre Spirituale [che] in cambio dell’amore di una donna [gli aveva consigliato] l’affetto di un amico”. Gli aveva in sostanza suggerito di farsi un “amico”, di scegliere un maschio per esorcizzare i prepotenti richiami dell’altro sesso, la figura femminile e le pulsioni sensuali propri della pubertà e dell’adolescenza con gli innati richiami affettivi. Ma, oltre a quella fase sconcertante, gli uomini che in zona gestivano la Resistenza compresero subito la levatura culturale e la sincerità dell’impegno politico di Bogardo, utilizzandolo subito, coinvolgendolo nella causa comune, nella costruzione e poi nella gestione del “torchio” tipografico che fra l’altro stampò i volantini per lo sciopero generale del marzo 1944. Nel fallito sabotaggio a Ponte Bini del viadotto dell’autostrada, nella devastazione delle linee di comunicazione, il lancio dei micidiali chiodi a tre punte, fino a rendergli accessibile e fruibile, come vedremo, il materiale depositato a Colle nella cantina di Brunetto Fiaschi. Nella soffitta della casa colonica del Cecconi alla Catena Bogardo di giorno componeva i testi e di notte stampava con i suoi compagni i volantini sovversivi che la mattina presto avrebbero provveduto loro stessi a recapitare ai vari centri di diffusione, mentre magari i tedeschi già razzolavano nell’aia, Cecconi aggiogava i buoi e finti sfollati – perché non tutto quello che riluceva era veramente oro – forse già cominciavano a trincare dall’inseparabile fiasco di vino (sic!). Dalla considerazione obiettiva dei fatti non si evince che Bogardo abbia mai prevaricato, approfittando della fiducia che gli veniva accordata e della considerazione di cui godeva presso i compagni di lotta, e ne è esempio tangibile il suo comportamento circa gli esplosivi che puntualmente uscivano dal polverificio Nobel per alimentare l’arsenale 117
Ultime Voci bellico nazifascista. In quel caso egli prima ne parlò a Guido Mazzoni, che si riservò di consultare un esperto per valutare l’entità e la fattibilità dell’impresa. Con Loris Cantini andò addirittura a fare un sopralluogo orientativo per studiare bene la situazione, ma poi tutto era rimasto sospeso a causa delle perplessità e dei timori sugli effetti e le implicazioni insite in un’operazione del genere. Intanto tritolo e balistite uscivano a getto continuo dal polverificio ed erano avviati ad ignoti teatri d’operazione per arrecare devastazione e morte, per alimentare la guerra, per contribuire a procrastinarne la fine, e quando il vice capostazione Daniele riferì ad Enzo Faraoni che i carri allora fermi alla stazione stavano per partire Faraoni lo riferì a Bogardo e insieme decisero di romper gli indugi passando all’azione. Verso mezzogiorno del 10 giugno, pertanto, Bogardo si recò a Colle, recapito abituale del commissario politico di zona Loris Cantini, il quale, però, non c’era essendo andato ad accompagnare presso Quarrata Mario Martini – sottrattosi il giorno prima fortunosamente alla cattura – ricercato e quindi da mettere al sicuro in un luogo più appartato e affidabile. Bogardo aspettò a lungo che Cantini tornasse, quasi tutto il pomeriggio seduto su un muretto davanti alla casa di Duilio Vignozzi, a cui disse alla fine: «Ora dovrei andare. Ma avrei bisogno di una miccia…». Di miccia, nell’adiacente cantina di Brunetto Fiaschi, i partigiani ne avevano un’intera matassa e Bogardo ne prelevò e portò via sette metri, quanti evidentemente credeva ne fossero necessari. Sapeva, infatti, che bruciava alla velocità di un centimetro al secondo, perché l’avevano provata, ma prese anche un ordigno esplosivo consegnatogli da Brunetto Fiaschi con della balistite, a meno che non l’avesse già pronta da qualche altra parte, perché all’appuntamento alla stazione di Carmignano portò appunto il non meglio specificato ordigno a tempo e un “fascio di balistite” trafugato chissà da chi dal polverificio. Alla cauta e indispensabile ispezione il treno carico di esplosivo fu trovato completamente incustodito e Faraoni spiombò agevolmente un carro nel quale entrarono Ariodante Naldi e Bogardo, che, dopo una sommaria ricognizione, consegnò una delle casse di tritolo (del peso di 40 chili, da utilizzare secondo i progetti per far saltare il ponte del Mulino), a Bruno Spinelli e Mario Banci, i quali si avviarono subito in su, verso la Cavaccia, dove avevano stabilito di ritrovarsi dopo aver concluso l’operazione. Le disposizioni inoltre prevedevano che ad un segnale con la lampada elettrica di Bo118
Volume sesto gardo il gruppo doveva avviarsi rapidamente lungo il sentiero obliquo abitualmente usato dai pendolari attraverso la cipressaia per recarsi da Poggio alla Malva alla stazione e viceversa, correre a ripararsi sull’altro versante del costone a sinistra per poi ricongiungersi con Banci e Spinelli sulla rotabile che porta a Poggio alla Malva. Che cosa fecero Naldi e Bogardo nel carro non si sa. Ruffo Del Guerra affermò che Bogardo all’inizio disse loro: «Ragazzi, un po’ di tempo ci vuole. Sono casse di legno spesso, e per aprirle…». «Va bene, aspetteremo» gli risposero. Bogardo aveva quindi intenzione di aprire le casse, immaginando probabilmente che fosse impossibile innescare il fuoco all’esplosivo imballato, ma i forse a questo punto potrebbero essere una miriade e fatto sta che il po’ di tempo previsto diventò parecchio, poi troppo, tanto da impensierire un po’ tutti e indurre tacitamente il resto della squadra a radunarsi presso il sentiero previsto per la fuga. Quando però ci fu l’atteso segnale fecero appena in tempo a veder saltare Bogardo e Ariodante ed avviarsi che dal carro si sprigionò un’immensa fiammata, mentre l’onda d’urto del’esplosione investiva il resto della squadra distruggendo la cipresseta, travolgendo anche Spinelli e Banci che, secondo le previsioni, su alla Cavaccia dovevano trovarsi in zona di sicurezza. Nessuno dei superstiti parlò più della miccia, che pertanto non fu mai distesa, né accesa fuori del carro. La tremenda esplosione, innescata a catena, “per simpatia”, investì rapidamente uno dopo l’altro tutti i carri. «Non finiva mai…» ricordò drammaticamente Faraoni, mentre su di loro, scagliati qua e là per il pendio, diluviava il tritolo parzialmente combusto, continuando a ustionarli e straziarli, seminando danni e spavento nei dintorni per un vasto raggio. I tetti delle case furono quindi spazzati via, le porte scardinate, le saracinesche risucchiate verso l’esterno dall’onda di ritorno perfino a Prato, nel Corso Mazzoni. Il giorno dopo, sul teatro della tragedia, i corpi di Bogardo, suo fratello Alighiero e Ariodante Naldi furono trovati a brandelli irriconoscibili sparsi qua e là e raccolti in cassette cui fu assegnato un nome ipotetico, si ricordava. La ricostruzione di quei fatti e di quelli successivi è stata fatta oltre trent’anni fa e non è il caso di ripetersi in quest’occasione. Va invece ricordato che il polverificio, costruito a regola d’arte, dall’esplosione dell’11 giugno 1944 riportò danni d’entità trascurabile, ma da quel giorno cessò di lavorare. Non produsse più un solo chilo di tritolo per la guerra, perse ogni valore bellico e oltre tremila 119
Ultime Voci persone rimasero senza lavoro, elemento essenziale e prevalente per la popolazione dei dintorni, che vi gravitava ed ebbe quindi motivi sufficienti per indignarsi, indotta anche dalla contingenza e dalla propaganda. Sennonché quella fabbrica di morte era stata un obiettivo ambito anche dagli alleati, i quali in più occasioni avevano cercato inutilmente di colpirla con le loro bombe e non avevano fatto altro che costellare di crateri i campi dei dintorni, come quello del cugino di Duilio Vignozzi che aveva la disgrazia di abitarci nei pressi. E si era, quindi, trattato di un’audace, formidabile ed efficace azione di guerra partigiana, difficile però da capirsi fra la popolazione duramente colpita nelle abitazioni, nella perdita del lavoro, in comprensibile apprensione per le ripercussioni e le possibili rappresaglie tedesche, che però in quell’occasione non ci furono. Così la propaganda fascista ebbe facile presa in quel fermento, in quello sgomento, su quelle paure. Assicurò innanzitutto che quei carri strapieni di esplosivo non potevano partire perché il ponte di Camaioni era inutilizzabile, che pure in direzione di Firenze la linea ferroviaria era intransitabile e insomma l’attentato, oltre ad essere stato inutile, era stato compiuto a totale danno della popolazione per terrorizzarla, per indurla a ribellarsi protestando contro i tedeschi e il regime. I riflessi della “ruggine” allora seminata e assimilata dalle popolazioni sono stati rintracciati ancora ai giorni nostri nel corso di una ricerca sulla strage di Artimino, e non fu difficile afferrare, stabilire i nessi e spiegarsi perché la gente almeno in parte e lo stesso don Matteucci non capirono l’azione partigiana e il sacrificio di Bogardo Buricchi e dei suoi compagni. L’astuta campagna nazifascista s’innestava sulla sofferenza oggettiva, sul disorientamento generale, mentendo però sull’interruzione della linea ferroviaria, e lo dimostra fra l’altro il fatto che ancora il 18 giugno i tedeschi cercavano assurdamente di colmare la voragine presso Poggio alla Malva anche con turni di notte, mediante manodopera rimediata con rastrellamenti perfino a Prato come testimoniò Giuseppe Nuti in un articola apparso su Prato storia e arte nel numero di dicembre 1983. Sull’altro versante, in quella congiuntura innegabilmente difficile e paradossale, gli esponenti della Resistenza si mossero in modo sparso e piuttosto assurdo. Un tale, anzitutto, partì da Firenze per ammazzare Loris Cantini, che con la questione del sabotaggio di Poggio alla Malva non c’entrava per niente ma come capro espiatorio aveva un valore indubbio. La cosa fu riferita al Cantini da persona degna di fede che aveva letto un ma120
Volume sesto noscritto in gestazione, alla cui pubblicazione l’episodio però era sparito. Altri soloni, proprio per paura che la gente non capisse, formularono la tesi fortunata secondo la quale Bogardo e i compagni erano morti perché avevano una miccia troppo corta ed avevano agito ugualmente perché sapevano che quell’esplosivo doveva servire per distruggere le fabbriche di Prato. E chissà poi perché proprio quell’esplosivo doveva servire, se a Prato ad opera dei tedeschi le fabbriche cominciarono a crollare almeno venti giorni dopo e senza il sabotaggio dell’11 giugno dal polverificio sarebbe uscito tanto esplosivo da poter annientare città intere massacrando indiscriminatamente non importa chi e dove. Agli antipodi di chi crea in modo retorico gli eroi e di chi pretende affossarli, pertanto io lascio a chiunque la facoltà di collocarsi e qualificarsi come crede. Lascio ai fatui saputelli che l’hanno affermato la responsabilità di far morire Bogardo e i suoi compagni mentre s’allontanano – pur sapendo di aver acceso una miccia troppo corta – carichi di un “prezioso bottino” costituito dalle casse di tritolo, chissà se una ciascuno o una in due per strattonarsi meglio. Lascio a chi l’ha fatta la responsabilità dell’affermazione che Bogardo aveva la vocazione al martirio e, se non in quell’occasione, prima o poi sarebbe morto per cause non naturali avendone la disposizione nel proprio DNA: e questo sia perché non so se qualcuno è riuscito a riprodurne la sequenza per l’animo umano, elemento sempre mirabile e misteriosa essenza imponderabile in ognuno di noi, sia soprattutto perché anche la dichiarata volontà di uccidersi non implica quella di sacrificare altre persone. E qualora la propria morte si concretizzasse trascinando nel proprio destino un fratello e degli amici bisognerebbe trovare un altro termine, ammesso che ci sia, per definire la presunta disponibilità al martirio. Allora, con tanto di cappello a chiunque voglia e possa approfondire e recare elementi nuovi, affidabili, sulla questione, esorto a considerare sempre e soltanto i fatti, formulando magari anche ipotesi attendibili ma chiamandole con il loro nome e non spacciandole come verità e “storia”. Infine, per memoria di chi continua a voler bene come me a Bogardo e ai suoi compagni, e anche di chi la pensa diversamente, ritengo utile riproporre il testo del decreto relativo alla medaglia d’argento conferitagli e di quella assegnata alla città di Prato, che, essenzialmente, anche a quei fatti si ricollega. Ricordiamo che del 10 dicembre 1971 è il decreto presidenziale che assegnò la me121
Ultime Voci daglia d’argento al valor militare per attività partigiana ad Ariodante Naldi e Alighiero Buricchi, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 24 febbraio 1972, n. 108. Il 1° febbraio 1972 fu firmato il decreto relativo a Bruno Spinelli, pubblicato sulla G.U. del 16 maggio, n. 126; il 10 maggio quello per Bogardo Buricchi, pubblicato il 23 agosto, sul n. 218. La medaglia d’argento alla città di Prato fu invece conferita con decreto del Presidente della Repubblica il 19 maggio 1994, con pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del 15 marzo 1995, n. 62. *** Buricchi Bogardo, nato il 23 ottobre 1920 a Carmignano (Firenze) – Comandante di SAP, al fine di eliminare il materiale approntato dal nemico per la distruzione degli impianti industriali e delle opere pubbliche , con tre coraggiosi volontari sabotava numerosi carri ferroviari in sosta , carichi di esplosivo. Con i valorosi compagni, per imprevisto anticipato brillamento, cadeva nella imponente esplosione che ne seguiva, CONCORRENDO, a prezzo della vita, a preservare in gran parte dalle predisposte distruzioni il patrimonio industriale della sua terra. Prato, 11 giugno 1944. *** Comune di Prato. – La tradizione antifascista e l’amor di Patria della regione Toscana e di Prato in particolare non poteva che manifestarsi nel momento che la protervia nazifascista voleva comprimere la volontà di libertà dell’intera popolazione che dal settembre 1943 all’ottobre 1944, per azione di singoli e gruppi partigiani, affrontò l’occupante con coraggio e sprezzo del pericolo pagando un alto contributo di vite e di beni. L’ardire dei partigiani fu tale che con una rischiosa azione, che costò la vita a quattro valorosi patrioti, evitò la totale distruzione della città colpita, tra l’altro, da pesanti bombardamenti aerei. La volontà di libertà fu esternata particolarmente in occasione di uno sciopero generale durato cinque giorni che causò la vendetta dei nazisti e la conseguente deportazione di molti cittadini. – Prato, settembre 1943-ottobre 1944. Addio, Bogardo. Michele Di Sabato
122
Luglio 2013
Volume sesto
Bogardo Buricchi. 123
Ultime Voci
Alighiero Buricchi. 124
Volume sesto
Ariodante Naldi
Bruno Spinelli
125
Ultime Voci
Fotografia della stazione che fu teatro dell’azione dei fratelli Buricchi.
126
Volume sesto Il Balilla va alla guerra Questa e le le pagine seguenti riportano alcune fotografie dell’addestramento militare a cui venivano sottoposti i ragazzi durante il fascismo. Abbiamo voluto concludere questo volume de Le Ultime Voci con queste immagini per ricordare una volta di più come l’adesione al fascismo, infatti, avvenisse anche in forza di un sistema di insegnamento finalizzato ad annullare lo spirito critico nei ragazzi e nelle ragazze in modo da creare uomini e donne votati alla causa del Duce.
Queste immagini sottolineano vividamente quanto la scuola e l’educazione delle nuove generazioni siano importanti per garantire una società giusta e pacifica. Le immagini sono tratte da Costantino Scudieri Il balilla va alla guerra Ilibridellaleda 2012.
127
Ultime Voci
128
Volume sesto
129
Ultime Voci
130