Ultime Voci Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell'Associazione Nazionale Combattenti a cura di LUCA S QUILLANTE
Volume secondo Prato 2010
Redazione a cura di Luca Squillante con la collaborazione di Francesco Venuti. Impaginazione e grafica a cura di Luca Squillante. Luana Cecchi con la collaborazione di Sergio Mari ha realizzato le interviste a Primo Degl'Innocenti,
Sergio Diddi, Giulio Vitali.
Silvana Santi Montini ha realizzato le interviste a Giorgio Orlandi e Giuseppe Marangon.
La fotografia di copertina dal titolo Funerali fa parte della raccolta della Federazione di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci. La fotografia è stata scattata a Karagischew il 06/08/1942 e ritrae il funerale del Caporale Massi aldo, primo caduto del 213° Autoreparto. Il reparto fu colpito da un bombardamento aereo che causò la morte di Naldo ed il ferimento di altri tre militari. Associazione Nazionale Combattenti e Reduci Federazione di Prato P.zza San Marco 29 - 59100 Prato Tel. e fax 0574/21352 ancr.po@gmail.com
Presentazione Con il secondo volume prosegue la pubblicazione delle testimonianze di quanti vissero quel periodo delirante che fu la Seconda Guerra Mondiale. I testimoni raccontano dell’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940 a fianco dei Tedeschi, malgrado il parere contrario dei comandanti delle tre armi, Esercito, Marina, Aereonautica, che fecero presente ai gerarchi del regime la nostra debolezza militare, le armi obsolete, la totale impreparazione culturale, l’industria insufficiente. Fu una dichiarazione di guerra voluta dal Duce, convinto che dopo gli iniziali successi tedeschi la guerra finisse presto e che, come egli stesso affermò, avrebbe avuto bisogno di un centinaio di morti da far valere al tavolo della futura pace. E dopo la “coltellata alla schiena” alla Francia, i soldati italiani combattono in Africa Orientale, in ord Africa fino alla disfatta di El Alamein, contro la Grecia in una guerra parallela a quella dei Tedeschi, in Russia da cui quasi centomila militari non torneranno. su tutti i fronti subiamo perdite pesantissime e dolorose. Viene il 25 luglio e la caduta di Mussolini, il Re incarica Badoglio, quello stesso che nel 1917 a Caporetto non aprì il fuoco contro gli austriaci pur avendo a disposizione oltre seicento cannoni. Si arriva all’8 settembre, quando con errori e pasticci l’Italia firma l’Armistizio, al quale non seguono ordini precisi e nel caos che ne deriva hanno buon gioco i Tedeschi: mentre a Roma il Re ed il governo fuggono, migliaia di nostri soldati sono internati, l’Esercito Italiano è umiliato ed ogni soldato sente sulla propria pelle l’onta del tradimento. acque poi per proseguire la guerra a fianco dei Tedeschi la Repubblica Sociale, molti gerarchi della quale visitarono i campi degli Internati Militari Italiani, chiedendo loro di aderire al loro stato fantoccio. La quasi totalità dei militari internati rifiutò, riscattando così anche l’onore di quelli che li avevano abbandonati e quarantamila di loro pagarono con la vita quest’atto di Resistenza senza armi.
Sergio Paolieri
Presidente della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione azionale Combattenti e Reduci
Avvertenza
La stampa del secondo volume di Ultime Voci era stata prevista per l'autunno del 2008. Prima della data di consegna, tuttavia, il curatore Alessandro Cintelli è venuto improvvisamente a mancare. Il fatto ha addolorato quanti conoscevano Cintelli ed ha avuto delle conseguenze per l'elaborazione del volume. In particolare, noi che siamo subentrati ci siamo chiesti quali idee avesse in mente Alessandro per questo secondo, e se fosse lecito, ed in quale misura, modificare l'impianto dell'opera. Alla fine, le difficoltà di ricostruire esattamente il progetto originario hanno prevalso, ed abbiamo scelto di intervenire sulla veste grafica del volume e di lasciare inalterate le pagine preparate da Alessandro come omaggio alla sua memoria. Il lettore le riconoscerà facilmente perché riportano il nome di Alessandro, e potrà così apprezzare la sensibilità di Cintelli per la storia e per la sua funzione pedagogica, nonché il gusto letterario con il quale elaborava le testimonianze: ne è un chiaro esempio l'intervista di apertura. Un ringraziamento speciale va fatto alla dr. ssa Luisa Ciardi, che ha contribuito a questo volume ricercando ed ordinando il materiale di Cintelli. Il suo lavoro ha dimostrato attenzione e cura, oltre a grande pazienza e sollecitudine nel rispondere alle nostre richieste.
NOTA DEL CURATORE IN
QUESTO SECONDO VOLUME DELLA SERIE " ULTIME VOCI” CONTINUA, COME NEL PRECEDENTE LA PUBBLICAZIONE DELLE MEMORIE DI EX- COMBATTENTI DEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE, CON L’ UNICO SCOPO DI FAR CIRCOLARE QUESTI RICORDI TRA LE GENERAZIONI PIÙ GIOVANI, CHE NON HANNO MAI, PER LORO FORTUNA, VISSUTO IN PRIMA PERSONA LA GUERRA, IN MODO TALE CHE QUESTE TESTIMONIANZE POSSANO ESSERE DI MONITO E DI INSEGNAMENTO PER IL FUTURO. LA PRIMA PARTE DI QUESTO VOLUME È DEDICATA AD UNA STRAORDINARIA INTERVISTA DOPPIA FATTA, ORMAI ALCUNI ANNI FA, A GIORGIO ORLANDI E LORIS PACINI, CHE RICORDANO LE LORO COMUNI ESPERIENZE BELLICHE E LA LUNGA E TRAVAGLIATA PRIGIONIA CHE LE SEGUÌ. IL FATTO CHE DUE AMICI A DISTANZA DI TANTISSIMI ANNI SI TROVINO A PARLARE DELLA LORO GIOVENTÙ E DELLE COMUNI SOFFERENZE DI QUEGLI ANNI RENDE QUESTA LUNGA TESTIMONIANZA SPECIALE ED È PER QUESTO MOTIVO CHE HO DECISO DI APRIRE CON ESSA IL SECONDO VOLUME DI “ULTIME VOCI”. COME NEL VOLUME PRECEDENTE NON ESISTE UN DISEGNO OMOGENEO NEL PRESENTARE I RICORDI E LE IMPRESSIONI QUI RACCOLTE, ANCHE PERCHÉ DARE ORGANICITÀ ALLE MEMORIE DI CHI HA VISSUTO IN MANIERA PERSONALE E TRAVAGLIATA UNA TRAGEDIA IMMENSA COME FU LA SECONDA GUERRA MONDIALE SAREBBE UN' IMPRESA DIFFICILE E PROBABILMENTE INUTILE. Q UELLO CHE CI IMPORTA È CERCARE DI FARE IN MODO CHE TRAMANDANDO LE LORO ESPERIENZE LE SOFFERENZE DI COLORO CHE HANNO COMBATTUTO IN QUELL’ IMMANE CONFLITTO NON SIANO STATE DIMENTICATE.
ALESSANDRO CINTELLI
Ringraziamenti Anche per questo secondo volume il ringraziamento più importante deve senza dubbio andare alle “Ultime voci” cioè coloro che ci hanno, in tanti modi ed in tempi diversi, raccontato i loro ricordi del periodo della guerra ed in tal modo reso possibile la pubblicazione di questo libro. Un altro doveroso grazie va a tutti coloro che hanno raccolto le storie degli ex combattenti, collaborando attivamente alla stesura di questo testo come a quello precedente e agli altri della stessa serie che verranno successivamente editi. In modo particolare per questa pubblicazione è indispensabile citare i contributi in tal senso offerti da Luana Cecchi, da Silvana Santi Montini e da Sergio Mari, che con attenzione e cura hanno raccolto numerose testimonianze e documenti che formano una parte consistente di questo libro. Alessandro Cintelli
Indice delle testimonianze
Giorgio Orlandi e Loris Pacini Fiorello Angiolini Ilario Bellini Alceste Bogani Ezio Cappuccini Primo Degl'Innocenti Sergio Diddi Fornello Mauro Franchi Giuseppe Marangon Vincenzo Marino Serafino Menici Leonello Mordini Renato Orsini Sergio Paolieri Gino Piccardi Gino Santi Vittorio Toccafondi Giulio Vitali
pag. 13 pag. 27 pag. 31 pag. 37 pag. 42 pag. 53 pag. 55 pag. 59 pag. 64 pag. 67 pag. 74 pag. 83 pag. 84 pag. 87 pag. 90 pag. 101 pag. 104 pag. 106 pag. 109
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LA SEGUENTE TESTIMONIANZA È STATA CURATA ED ELABORATA DA ALESSANDRO CINTELLI. RICOSTRUENDO LA NASCITA DEL VOLUME, SIAMO GIUNTI ALLA CONCLUSIONE CHE SIA STATA SUA L' IDEA DI RIUNIRE LA MEMORIA DI O RLANDI E QUELLA DI P ACINI, COMPILANDOLE IN UN' UNICA INTERVISTA. IL RISULTATO È UN RACCONTO VIVACE ED AVVINCENTE. GIORGIO ORLANDI: Un nostro commilitone che abitava in Panna, sopra Barberino, dove c’è la riserva e l’imbottigliamento dell’acqua minerale, aveva scritto un poesia per raccontare della nostra partenza che iniziava così: “ Fu destinata la partenza mia, il 3 febbraio del Quarantadue, fu una penosa e disastrosa via... andare incontro a cose buie...” LORIS PACINI: Partimmo tutti nel febbraio e andammo subito a Bressanone. GIORGIO ORLANDI: Da Bressanone si partì e andammo ad Atene, poi proseguimmo per quel golfo che c’è di dietro... LORIS PACINI: Perché quando si arrivò in Grecia i combattimenti erano già finiti. GIORGIO ORLANDI: Da questo posto vicino ad Atene ripartimmo e fummo portati a Rodi, che tra l’altro non era occupata, era italiana e noi non eravamo truppe di occupazione. Eravamo nella primavera del ’43. Noi dovevamo andare in Africa ma laggiù la guerra era già persa ed allora fummo mandati in Grecia. LORIS PACINI: Nel ‘42 facemmo un campo vicino a Cortina d’Ampezzo, Quando s’era al campo la sera dovevamo andare a raccogliere delle frasche per fare da mangiare. GIORGIO ORLANDI: S’era sulle Dolomiti al Passo Gardena. LORIS PACINI: Avevo le scarpe sfondate, mi ci era entrato dentro la neve, perché c’era la neve ... poi una notte gelò e noi non ci si poteva spogliare, si dovette dormire vestiti dal freddo che c’era.. GIORGIO ORLANDI: Faceva tanto freddo... LORIS PACINI: Mi si ghiacciò i piedi, arrivai a mattina con i piedi quasi congelati... ma non volevano riconoscermelo ... vero, Giorgio, all’ora del rancio non avevo la forza per andare a prenderlo, andò lui per me. Io non potevo stare in piedi .. e credevo che mi dassero un po’ di riposo e invece non mi facevano nulla. Quando, finito il campo, si ripartì per andare a Bressanone io non potevo ancora stare in piedi. E io a quei giorni, non ero così, ero in forza, ma durante il trasferimento a Bressanone sotto il peso dello zaino, anche se era inverno ero tutto sudato, proprio non ce la facevo. GIORGIO ORLANDI: Quando arrivammo a Rodi era tutto tranquillo, anche perché in
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Tunisia ormai eravamo stati sconfitti e di andare in Africa non se ne parlava più. LORIS PACINI: Sì, era tutto tranquillo dove eravamo noi c’era una famiglia tedesca e nel caposaldo alloggiava una famiglia turca che aveva un po’ di terra e noi andavamo da loro per mangiare qualcosa. GIORGIO ORLANDI: Perché il rancio non ci bastava mai e anche l’acqua ce la portavano con l’autobotte: erano molto arretrati, per battere il grano utilizzavano il ciuco o le mucche: stendevano il grano nell’aia, piantavano un palo nel mezzo e facevano girare gli animali intorno al palo. LORIS PACINI: Noi s’andava da questa famiglia e li aiutavamo per avere in cambio qualcosa da mangiare, ma non è che facessimo solo i contadini, perché i comandanti si aspettavano un attacco inglese ed il mare intorno all’isola era tutto minato. Sulla costa c’erano questi capisaldi, ognuno con tre o quattro soldati con mitraglie e cannoni ad aspettare lo sbarco, anche se la compagnia era accampata più lontano dalla costa. Spesso la notte c’erano gli allarmi navali e dovevamo essere pronti per sparare. GIORGIO ORLANDI: Ma non arrivavano mai. LORIS PACINI: Nel luglio del 1943, io ero stato fatto caporal maggiore e mentre Giorgio era rimasto sul mare, io ero stato messo a fare le poste anticarro. Erano fosse nelle quali se fossero sbarcati gli Inglesi con i carri armati sarebbero dovuti rimanere piantati dentro. La mattina facevamo queste fosse e la notte immancabilmente suonava l’allarme, verso le due o le tre e allora tutti saltavamo fuori dalle tende e andavamo sulla costa con tutto l’equipaggiamento e la mitraglia ad aspettare l’attacco. La mia nuova squadra era composta in maggioranza da persone con 10 o più anni di militare stufi della guerra e che volevano solo tornare a casa, molti erano meridionali, ce ne era solo uno toscano, di Pisa, che andava sempre a caccia al cinghiale. Così questi vecchi per durare meno fatica avevano vuotato le cassette di legno delle munizioni e quando dovevamo andare sul mare per aspettare l’attacco lo facevamo con le cassette vuote. Una notte viene il vice comandante... GIORGIO ORLANDI: Testen, era di Trieste. LORIS PACINI: Era stato giocatore della Fiorentina. GIORGIO ORLANDI: Morì annegato, insieme all’Antonelli... LORIS PACINI: Insomma lui, quando si rientra all’accampamento dopo l’allarme che era durato fino quasi a mattina, passa in rivista tutte le armi e tutti i porta armi, perché forse erano venuti a sapere delle cassette vuote, e io allora gliele alzai e gli dissi: “se venivano gli Inglesi gliele tiravamo vuote addosso...” Insomma accadevano anche questi fatti qui. ll 25 luglio del 1944 me lo ricordo bene. Ero rimasto con dei soldati a pulire le tende e aspettavamo che venissero a portarci l’acqua da Rodi, perché noi eravamo in
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campagna, fuori città, e ci portavano l’acqua con le autobotti... GIORGIO ORLANDI: Per bere c’era per fortuna una fonte vicina. LORIS PACINI: Ci si beveva quando tornavamo dal mare, s’aveva una sete... perché quando tornavamo dal mare, era talmente caldo che le gavette non si tenevano in mano... Il 25 luglio, insomma, quando arrivano quelli da Rodi per l’acqua ci dicono che Mussolini è caduto, ma la guerra continua... GIORGIO ORLANDI: Per andare qualche volta in città a Rodi, per poche ore, ci voleva un permesso, io ne ho conservati uno... LORIS PACINI: Si rimase lì senza che accadesse niente fino all’otto settembre... quella notte ero uscito un attimo dalla tenda ... erano tende grandi... e vedo un apparecchio basso che lancia dei fogliolini e leggo che c’era l’Armistizio e io rientro in tenda e dico: “Ragazzi c’è l’armistizio” “ O come l’Armistizio?” e allora ci fu il passaparola da una tenda all’altra e un po’ d’euforia. GIORGIO ORLANDI: Ma durò poco, perché ci portarono via subito, controllati con le mitraglie, perché c’era un reparto tedesco nel centro dell’isola... Praticamente da alleati si diventò nemici e per quattro cinque giorni ci si controllò a vicenda, cercando di tenerli al centro dell’isola, perché si sperava che venisse un comando alleato ad aiutarci e a prenderci in forza, invece non arrivò nessuno e i Tedeschi avviarono a sparare e noi ci portarono in postazione così come s’era, in pantaloncini, mezzi ignudi... LORIS PACINI: Quando avviarono a sparare io mi sentivo responsabile, avevo sotto di me diversi soldati... arrivò una macchina con la bandierina del comandante, perché le macchine del comando avevano la bandierina, ed io salii sul predellino per vedere meglio e per schierare gli uomini lì davanti, perché io sapevo come metterli. L’autista mi fa: “ Madonna! Tu mi sciupi la macchina.” “Come ti sciupo la macchina? Qui ci ammazzano tutti!” Guarda le persone... era più attaccato alla macchina che alla vita. Combattemmo quattro o cinque giorni, poi ci si arrese ... Venne una macchina... noi si pensava di poter resistere perché eravamo più di mille Italiani contro seicento soldati tedeschi. Noi si pensava di aver vinto, che si fossero arresi i Tedeschi, se non che da questa macchina con la bandiera bianca scese un ufficiale italiano ... dissi “Madonna ci siamo arresi noi!” Allora ci portarono tutti là in un piazzale e ci fecero buttare le armi.. io lasciai lì la pistola... come ora si vede fare in Irak... e si posavano lì. GIORGIO ORLANDI: Io non ero appassionato alle armi e alla guerra, ma farsi disarmare non è bello... Tu rimani male... Poi i Tedeschi erano pochi. LORIS PACINI: Noi eravamo tanti e loro pochi, non potevano nemmeno rinchiuderci e sorvegliarci, così loro si misero nel centro dell’isola e fecero un ordine del giorno, comunicato con gli altoparlanti, nel quale dicevano : “Tutti i militari italiani che
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saranno trovati fuori dagli accampamenti verranno passati per le armi.” Cioè cercarono di tenerci buoni con la paura. Il comandante del reggimento, Campioni, che poi fu fucilato a Verona dai repubblichini perché non si era arreso subito, ci fece un discorso per spiegarci perché ci eravamo arresi. C’era tutto il reggimento schierato, prima gli ufficiali superiori, poi gli ufficiali inferiori, poi i militari.. lui fece un discorso quasi da babbo e disse: “Siete partiti tutti dall’Italia e io voglio cercare di riportarne a casa il più possibile: l’unica cosa per tornare a casa è non combattere i Tedeschi. Arrendersi ai Tedeschi.” Quasi, quasi ci aveva detto di collaborare con i Tedeschi. Infatti alla fine di questa adunata un ufficiale ci chiese se volevamo collaborare con i Tedeschi, dicendoci che se non si aderiva c’era il rischio di andare a morire o in fondo al mare o nelle fabbriche tedesche.. l’unico modo per cercare di scampare era quello di collaborare e alla fine chiese a coloro che aderivano a Salò di fare un passo avanti. Qualche militare sarebbe stato forse anche favorevole, ma degli ufficiali superiori nessuno fece un passo avanti e nemmeno tra quelli inferiori, e allora anche tutti i militari rimasero fermi. Allora questo, me lo rivedo ancora, mi ricordo che aveva un frustino, a quei giorni tutti gli ufficiali avevano un frustino, non potevano vivere senza, preso dalla rabbia lo sbatteva e disse: “Da questo momento fate quello che volete.” e da lì iniziò la nostra brutta storia, ci rinchiusero si tornò nel recinto senza più poter andar fuori... Eravamo scalzi ed ignudi, s’era in pantaloncini e canottiera, va bene che era ancora abbastanza caldo, ma già dopo una settimana la notte era freddo e la nostra roba l’avevamo lasciata tutta nell’accampamento, che era distante... GIORGIO ORLANDI: A me presero la roba che avevo, anche la penna. LORIS PACINI: Qualcuno era già andato di nascosto al campo, passando da dei viottoli un po’ nascosti, allora anch’io pensai di andarci per recuperare le mie cose. Meglio di stare ignudi come eravamo. Andai e presi un po’ di roba per me e per lui e la misi in dei sacchi, ma per la miseria, come erano pesanti... così che mano a mano ne buttavo via un po’ della mia e un po’ della sua. In ogni modo andò tutto bene e tornai dove erano loro. GIORGIO ORLANDI: S’andò avanti così fino al dicembre del 1943. Io lasciai Rodi a fine gennaio 1944, perché dal 24 dicembre, la vigilia di Natale, ero ricoverato all’ospedale per farmi un’operazione. L’ospedale militare era tenuto dagli Italiani, ma i tedeschi lo controllavano. Io fui ricoverato perché avevo una pustola infetta, forse causata dalla malaria, che avevo preso appena ero sbarcato ad Atene. Prima di andare all’ospedale mi ricordo, che siccome non si aveva nulla, per raccapezzare qualcosa facevamo il sale con l’acqua di mare per scambiarlo con un po’ di roba con i civili. Noi eravamo in caposaldo e riempivamo i bidoni di benzina vuoti
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con acqua di mare che bollivamo fintanto che non rimaneva il sale...veniva un sale fine, bello che era una meraviglia. Poi dopo qualche tempo dovemmo andare via da lì ed anche questo finì. LORIS PACINI: In quel periodo ci dividemmo, io fui mandato a comandare un orto, venivano chiamati orti di guerra, avevo quattro o cinque soldati con me, l’avevano sequestrato ad un turco e di roba ce ne veniva, noi ci si andava a lavorare e dopo venivano i Tedeschi con un sergente italiano, su un camion a prendere i prodotti. Ci si stava molto bene, c’erano mandarini, cavoli, e tante altre cose...Ci venivano anche dei civili, abitanti dell’isola a prendere un po’ di roba, perché c’era poco per tutti da mangiare. Tanto è vero che chiamarono tutti i comandanti degli orti, come me, al comando per farci una lavata di testa dicendoci che non si doveva dare questa roba ad altri. Io all’orto mi ci trovavo bene all’inizio, ma dopo questo fatto... Io ero un ragazzo di venti anni e con me avevo gente di trenta, trentacinque anni, che volevano lavorare poco... poi io non sapevo far da mangiare ed allora dissi facciamo un giorno per uno a preparare il rancio, ma quando si doveva mangiare spesso capitava che qualcosa non era lavato bene ed allora cominciava una musica con questi Baresi, perché erano quasi tutti di Bari, che mi dicevano che non sapevo far nulla... Poi successe che veniva una ragazzina locale vicino alla siepe che faceva da confine all’orto ed io che ero giovane, non per farci qualcosa ma per parlare, ero un ragazzino anch’io, gli passavo qualcosa, dei mandarini, roba così... Gli altri militari lo dissero al sergente maggiore, che veniva con il camion dei Tedeschi, perché era loro paesano, ma non ci furono conseguenze perché di lì a poco fui ricoverato all’ospedale. GIORGIO ORLANDI: Era il mio stesso ospedale, quello civile Regina Margherita. LORIS PACINI: Accadde questo, una sera esco, laggiù a Rodi c’erano tanti fichi, e a me mi erano sempre piaciuti, insomma ne feci una scorpacciata di questi fichi e quando rientro mangio anche il rancio che era stato preparato per cena... La notte credevo di morire e la mattina quando viene il camion mi videro come trasformato dopo quella nottata tremenda e mi chiesero cosa avessi, così chiamarono l’ambulanza e mi portarono a Rodi, all’ospedale militare. Appena arrivato mi portano in una stanza e mi dicono che devono operarmi d’appendicite, poi arriva un ufficiale medico, un professore che mi chiede da quanto tempo avessi questi disturbi ed io gli racconto ciò che era accaduto. Lui disse: “Se a questo ragazzo vengono messe le mani addosso, per operarlo, muore”. Se non arrivava lui mi avrebbero ammazzato. Poi la notte mi addormentai, con della roba che mi avevano dato. Quando mi svegliai ero all’ospedale civile Regina Margherita e accanto a me c’era un soldato tedesco, anche lui un ragazzo, che mi dice che da quando mi avevano portato lì era un giorno ed una notte che dormivo. Quando mi svegliai era passato tutto e stavo bene, ma se non arrivava
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l’ufficiale medico... GIORGIO ORLANDI: Quando eravamo all’ospedale molti dei nostri commilitoni erano già stati fatti partire, una nave con dei nostri soldati diretta ad Atene era già affondata il 3 gennaio. Noi partimmo in aereo. LORIS PACINI: Io partii alle sei di mattina ero l’ultimo a salire... GIORGIO ORLANDI: L’aero ci toccò spingerlo, cioè, siccome la pista era bagnata e c’era mota si rimaneva impantanati, si dovette spingere l’aereo davanti a noi... LORIS PACINI: I Tedeschi da Rodi portavano via tutto con questi grossi aerei per i prigionieri, portavano via ricchezze, opere d’arte. io montai su un apparecchio grande, lo chiamavano 81. Proprio nel mezzo c’era un soldato che aveva le braccia e le gambe rotte e quando c’erano dei vuoti d’aria, che è come cascare per tre o quattro metri, gli rovinavamo tutti addosso, poverino. Poi per atterrare ad Atene ci fecero buttare via la poca roba che avevamo per diminuire il peso, io riuscii a mettere qualcosa nella giacca, ma rimanemmo con la roba che avevamo addosso e basta. Arrivati ad Atene ci divisero: lui lo portarono in un posto ed io andai in un altro. Trovai un ragazzo di Vicenza, che conosceva Prato, perché ci veniva alla fiera con l’ottovolante, che mi raccontò la storia della nave che era affondata. GIORGIO ORLANDI: Anch’io trovai uno che avevo già conosciuto da militare che mi raccontò questa storia, perché c’era anche lui e si era salvato. LORIS PACINI: Anni dopo, andai a cercare uno che era su quella nave, stava a San Baronto, trovai un giovane e gli chiesi: “Ma qui, ci abita un certo Moronci” e lui mi rispose: “Durante la guerra è affogato in mare”... Uno di Iolo lo stesso, e poi il Baldini, il Ciulli... insomma di quelli sulla nave non ne tornò nessuno... GIORGIO ORLANDI: Il Bresci che era di Montespertoli... LORIS PACINI: Non tornò nemmeno il Bresci...Quando finì la guerra una donna della sua famiglia mi chiedeva se ne sapevo qualcosa. Mi scrisse, ma io non ebbi il coraggio di andarla a trovare...ora forse ci andrei. Come dai Ciulli, non ebbi il coraggio di andarci. GIORGIO ORLANDI: Insomma da lì fummo separati. Mi ricordo che dal campo di aviazione alla stazione di Atene c’erano una ventina di chilometri da fare a piedi... Quando arrivammo ad Atene c’erano i Greci che ci sputavano addosso e non avevano tutti i torti, meno male che c’erano i Tedeschi a badarci se no ci avrebbero dato addosso. Ad Atene rimanemmo pochi giorni, poi ci misero su un treno che viaggiò per un bel pezzo lungo il Mare Egeo e poi lungo il Mar Nero. Il viaggio durò una ventina di giorni. Ogni poco ci fermavano in mezzo a quelle praterie che c’erano, ma la prima tappa la facemmo dopo due giorni senza fermarci, ci toccava fare i nostri bisogni
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dentro e poi gettarli fuori. Alla porta del vagone c’erano delle lunghe candele tutte giallastre che ciondolavano dal ferro, perché era tutto ghiacciato. Alla fine arrivammo a Lipsia. LORIS PACINI: Anch’io arrivai a Lipsia, ma con un altro trasporto. Io lavoravo in una fabbrica. GIORGIO ORLANDI: Lipsia era una città industriale ed era stata molto bombardata, avevano bruciato ogni cosa, mi ricordo certi muri dritti e tutti bruciati. Noi come lavoro ci portavano a ripulire le strade bombardate, alla stazione ad aiutare come facchini, ed era il miglior lavoro perché si trovava qualche cosa da mangiare, poi al cimitero a fare le buche per sotterrare i morti e anche lì non si stava male perché eravamo al sicuro dai bombardamenti e poi venivano le donnine a fare visita ai morti e ci portavano una fettina di pane, stando attente a non essere viste: quando ci vedevano lasciavano la borsa, che avevano con loro, con dentro un po’ di pane su una tomba vicino e noi lo si poteva prendere. Una volta il soldato che ci scortava vide una donna lasciare il pane e le fece una canata tale che la donna scappò via. LORIS PACINI: Io invece per arrivare a Lipsia feci un giro più lungo, perché il nostro trasporto arrivò in un campo di concentramento nella Germania del nord, al confine con l’Olanda. Durante il lungo viaggio trovai uno di Montemurlo, che è morto poco tempo fa. Era nel vagone con me e stava male. Ci mettemmo fermi in un cantuccio, ogni tanto i tedeschi aprivano il vagone e ci facevano scendere per darci un po’ di roba da mangiare e farci prendere l’acqua nei fiumi che trovavamo durante il viaggio, una volta ci portarono sul Danubio, c’erano le giostre... Quando arrivammo dalla stazione al Campo c’erano sei o sette chilometri e questo di Montemurlo non ce la faceva a camminare e l’aiutai io perché se si fosse fermato i Tedeschi gli avrebbero sparato. Insomma arrivammo al campo, che era immenso, pieno di prigionieri di molti paesi: Russi, Francesi, Inglesi... La sera quando arrivammo ci fecero spogliare tutti fuori al freddo e ci portarono a disinfettarci e farci tagliare tutto il pelo... un freddo, lì tutti nudi e dopo che ci hanno dato la roba per vestirci ci portano nelle baracche, che erano grandi con tanti letti e con poche luci. “Dentro, dentro!” ci urlavano, ma dentro non c’era posto, le baracche erano piene e quelli che erano già dentro non volevano farci entrare, ma i Tedeschi non volevano vedere nessuno fuori e con gli altoparlanti annunciarono che chi non fosse entrato sarebbe stato passato per le armi. Insomma alla fine trovai un posticino in una baracca e ci rimasi poi una ventina di giorni. In quei giorni andavo a trovare in infermeria quello di Montemurlo, che ci era stato portato perché stava male. Mi ricordo che in questa infermeria non c’era nulla, ma io ci andavo tutte le mattine perché c’erano
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i letti a castello e mentre facevo visita al mio amico mi potevo un po’ riposare perché c’era sempre il posto di qualcuno che era morto da poco. La mattina ci mettevano in fila per prendere il caffè, ma generalmente non si prendeva mai perché dalla gran ressa che c’era i contenitori venivano rovesciati e così non toccava a nessuno. Dopo venivano i padroni per prenderci a lavorare nelle fabbriche, nelle miniere, dai contadini, quando erano pieni, cioè non c’erano più richieste ci lasciavano in libertà per il campo. Feci conoscenza con altri militari non Italiani: Russi, Francesi, Inglesi. I russi ci dicevano “Italiani, fascisti!” e noi a dirgli che no non eravamo fascisti, e loro ci ribattevano che anche se ora non eravamo più fascisti prima lo eravamo tutti. Insomma con i Russi non andavamo tanto d’accordo, anche se avevano un po’ di ragione. In quel campo ai Francesi ed agli Inglesi arrivavano i pacchi della Croce Rossa a noi ed ai Russi non arrivava niente. Noi si moriva di fame invece loro un po’ di roba l’avevano, allora i Francesi ci aiutavano, qualche cosa ci davano: gli inglesi invece ci chiedevano se si voleva un po’ di cioccolata, ma ce la facevano vedere e basta. Uno di loro mi fece una foto dicendomi che l’avrebbero spedita alla mia fidanzata, ma non ce l’avevo nemmeno. Anch’io ce l’avevo con gli Inglesi, che non ci hanno mai dato neanche un briciolo di pane, anche se loro avevano tanta roba, noi eravamo gli unici che non si aveva nulla, perché la Croce Rossa non ci mandava niente. Una mattina mi presero e mi misero in una squadra in partenza per andare a lavorare in una fabbrica dove facevano aerei a Lipsia. e così dopo un altro lungo viaggio sono arrivato a Lipsia anch’io. A Lipsia era peggio perché dove lavoravamo bombardavano e si rischiava la vita. GIORGIO ORLANDI: Io perlopiù a Lipsia andavo a ripulire dai danni dei bombardamenti, mi ricordo che una volta andammo in una farmacia, che era stata bombardata, per sgombrarla dalle macerie e ci si mise a vedere se c’era qualcosa da mangiare, si trovarono le pasticchine purgative, le si mangiarono e la notte la si fece intera; in un altro posto trovammo miele e dolciumi vari mescolati con i detriti, cosicché ciucciavamo i sassi con lo zucchero dentro. LORIS PACINI: Noi in fabbrica si facevano aerei, era un fabbrica immensa, però noi si dormiva a sette chilometri da lì e si facevano sette chilometri la mattina ad andare a lavorare e sette chilometri la sera a tornare, dopo aver lavorato dodici ore al giorno, la settimana che eravamo di giorno, il contrario la settimana successiva quando eravamo di notte. Senza mangiare non ci si faceva, in più la notte era piena di bombardamenti. Mi ricordo che un giorno arrivarono tanti aerei americani, senza bombardare, fu una specie di dimostrazione di forza degli Alleati, perché la stampa tedesca aveva scritto che gli americani non avevano più aerei disponibili. Quando tornai a casa mi dissero che gli avevano visti passare anche da qui, era il novembre del 1944. GIORGIO ORLANDI: Io non rimasi a Lipsia fino alla fine della guerra, perché fui
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trasferito vicino al confine con l’Olanda ed il Belgio: eravamo vicini al fronte occidentale. Praticamente ci portarono a lavorare alla costruzione delle postazioni difensive del fronte. Era molto pericoloso perché era un continuo avanzare ed indietreggiare dei due schieramenti e noi ci trovavamo nel mezzo. Questa situazione andò avanti per un po’ di tempo fino all’ultima ritirata tedesca, a febbraio del 1945, quando tutti dispersi si arrivò ad un paesino lungo la Mosella, dove si cercava da mangiare ed un abitante di lì ci disse di nasconderci perché al massimo due giorni dopo sarebbero arrivati gli Alleati. Allora noi ci si nascose in un boschetto vicino al paese. Da lì passò un soldato tedesco, che stava ritirando i fili del telefono, e dopo aver sparato una raffica di mitra, forse per intimorirci, ci disse di stare fermi lì ad aspettarlo che la sera sarebbe ripassato a prenderci. Per tutto il giorno sentimmo dei colpi di fucile sui poggioli vicini. Noi rimanemmo nel boschetto tutto il giorno e la notte successiva. Il giorno dopo non si sentiva più nulla e si tornò verso il paese dove c’erano già gli Americani. Una famiglia del paese ci accolse con loro e ci tennero come figlioli, avevano due figli in Africa prigionieri ed il genero disperso, anche lui in Africa, chissà se saranno tornati. Insomma ci tennero come figlioli e noi gli si aiutava a lavorare, avevano le bestie, si stava bene, ci si era anche un po’ ripresi e non si cercava di andare via. Un giorno passarono gli Americani per sapere se in quella casa c’erano exprigionieri e di lì a poco vennero a caricarci con una camionetta diretti a Innsbruck, ma sottoponendoci prima a tutte le procedure, accertamenti e visite, in questi casi necessarie. Ci portarono a Innsbruck e da qui con i camion a Bressanone. Da Bressanone a casa viaggiai in treno, fu un viaggio lungo e faticoso attraverso un’Italia umiliata e distrutta, ma io ero contento, e finalmente il 16 luglio 1945 fui a casa, dove purtroppo non trovai il mio carissimo babbo: era morto da un mese. Degli altri due fratelli, il maggiore era tornato, ero tornato io, ma uno di noi era ancora lontano. LORIS PACINI: Anch’io fui spostato da Lipsia, perché quando la fabbrica dove lavoravamo fu bombardata e rasa al suolo, il mio reparto, dove si facevano le code e gli sportelli per gli aerei, fu spostato in un paesino a circa trenta chilometri dalla città. Ci sistemammo in una vecchia fabbrica tessile e passammo due o tre mesi a smontare e buttare fuori telai. Era tanto freddo ed eravamo anche mezzi scalzi e ignudi. Qui si stava un po’ meglio rispetto a Lipsia perché da dove dormivamo alla fabbrica c’era solo un chilometro di distanza e anche se dovevamo lavorare ugualmente dodici ore, avevamo molta meno strada da fare tutti i giorni. Nel reparto dove ero io c’era un capo tedesco, si chiamava Schimann, che aveva un bell’ufficio ed era ancora convinto che avrebbero potuto vincere la guerra, per cui ci faceva lavorare molto. Una volta ebbi anche uno scontro con lui, perché c’era un tavolino che voleva far passare da una porta per sistemarlo nel suo ufficio, ma non ci passava e lui continuava ad insistere ed io a
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dirgli che non ci passava, ma chissà cosa intese perché me ne disse tante e poi tante. Anche per questo fatto che era successo volevo vedere se era possibile cambiare lavoro. Conoscevo un altro prigioniero, un veneto, che era andato a lavorare con un muratore, l’aiutava facendogli da manovale, e questo veneto, mi disse di andare con lui a sentire questo muratore se avesse avuto bisogno di un altro aiutante. Era un tedesco anziano, come si sarebbe noi ora, ed anche un po’ gobbo, io gli chiesi “Arbeit?” e lui mi disse subito di sì. Il mio amico veneto mi disse che bastava mettersi la vanga sulla spalla quando questo vecchino arrivava e non ci avrebbe detto nulla, perché a lui non interessava molto quanto lavoravamo. La mattina quando fecero l’appello io presi la vanga, ma il capo reparto della fabbrica dove ero a lavorare mi vede e mi chiama “Passini!”, perché Pacini lo dicevano Passini, ed allora io gli spiego alla meglio in tedesco che il muratore mi aveva detto di andare con lui. Allora il caporeparto chiamo il vecchino e stettero un’ora a litigare fra loro, finché il caporeparto, Schimann, mi portò con lui in fabbrica e mentre ci andavamo mi disse: “Tu, domani, tra un mese, tra un anno, tra due anni te sempre lavorare qui!” Ed infatti in quel reparto ci sono stato fino alla fine e ce ne ho passate tante. Era un reparto sempre pieno di fumo, il giorno un po’ meglio, ma la sera e la notte era incandescente. Meno male che dopo il caporeparto aveva preso di mira altri in particolare un napoletano, che abitava a Lucca, un certo Lenza, che dopo la guerra sono andato ritrovare ed un russo che aveva quarant’anni, ma sembrava molto più vecchio. Nella primavera del 1945 quando ormai la resistenza dei tedeschi era alla fine e le truppe russe si stavano avvicinando, volevano trasferire noi prigionieri, per cui ci caricarono su un treno per portarci verso un altro campo di concentramento, ma questo treno andava piano anche perché le linee ferroviarie erano assai danneggiate, avrà fatto non più di venti, trenta chilometri al giorno. Finché un giorno ci lasciarono completamente fermi nella campagna e le guardie tedesche scapparono. Dopo poco sono arrivati gli Americani che ci hanno rifocillato ed aiutato. Sono rimasto alcuni mesi con loro e sono rientrato dal Brennero nel giugno 1945.
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Fotografia scattata l'8/3/42. Reca la scritta "Ricordo da Bressanone Orlandi Giorgio Mascherini Giuliano Pacini Loris x Iolo Vannucci Semme Montemurlo Mensi Mario Firenze Benvenuti Sergio arnali".
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Tesserino di riconoscimento di Pacini Loris.
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Fotografia scattata a Rodi.
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Cartolina postale in uso durante la guerra.
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A 20 anni sono stato chiamato in Marina, sono andato a La Spezia. A La Spezia mi hanno vestito e poi dopo una settimana mi hanno mandato a Brindisi. A Brindisi ci sono stato una diecina di giorni, imbarcato e mi hanno mandato a Lero passando per il Pireo, il porto di Atene e dopo due giorni di navigazione siamo arrivati a Lero. Io a Lero sono stato 2 anni, il primo anno il 1942, s’era alleati con i tedeschi e venivano le incursioni inglesi, e bombardamenti come sempre e noi si imparava. Poi nel ’43 all’armistizio, Badoglio ci impose di combattere contro i tedeschi e allora vennero i bombardamenti tedeschi che durarono per 54 giorni. Ci hanno smantellato tutte le difese perché era un continuo bombardamento, ci saranno stati 200 bombardamenti in 54 giorni. Costì sono stato preso prigioniero, imbarcato, portato al Pireo. Dal Pireo ci hanno messo sui vagoni ferroviari e ci hanno portato a Minks in Bielorussia, attraversando diverse nazioni. Ci diedero una matricola. Mi mandarono in una compagnia di lavoratori tedeschi che lavoravano né più e né meno per una ferrovia. E da lì è cominciato il mio inferno perché mi hanno fatto patire la fame, il freddo e la violenza di questi tedeschi. Però in questi momenti qui o che sia stato in treno o che sia stato portato in un campo di concentramento avevi sempre il fucile puntato alla schiena “Vai,vai, corri!” ti davano le moschettate nella schiena, insomma parecchie cose cosi... E lì c’ho passato 2 anni e mi portarono a Vileira che era a 200 o 300 chilometri di distanza da Minks sempre più dentro l’URSS. Sono stato 6 mesi in questa città fino a che il fronte russo gli avanzò. E allora ci portarono via e ci obbligavano a fare 30 chilometri il giorno. C’avevo gli zoccoli ai piedi e anche le fasce. ...30 chilometri il giorno. Noi s’e girato mezza Europa fino ad arrivare ad Amburgo. Ci imbarcarono dalle parti di Stettino e ci portarono in Danimarca. Dalla Danimarca ci portarono a Rigeln che è una cittadina proprio nel nord della Germania. Da Rigeln ci portarono a Kiel vicino ad Amburgo. E ad Amburgo ci portarono in un campo di concentramento degli inglesi e ci rimandarono a casa nel ’45, maggio del ’45. Sì..Questo è grosso modo tutto quello che ho passato io, senza poi dirti delle angherie come tutti.. te ne posso dire una. Noi quando si era a lavorare, laggiù dove ci si fermava ci mettevano a lavorare, ci svegliavano che c’erano ancora le stelle e sino alle stelle tu lavoravi e i’ che succedeva che ti levavano da dormire e ti buttavano di sotto alla branda per andare in fila e dividevano per dire questi vanno sulla stazione, gli altri vanno... e via. A me quel giorno lì mi capitò, sentii dire che avevano chiamato il 32, gli ultimi due s’eramo io e un altro. E qualche cosina si avviava a capire con questi tedeschi, specialmente se tu adoperavi qualche arnese che poi veniva sempre ripetuto..
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e sentii dire di pigliare 2 pali e un piccone. E allora io con un freddo a quella maniera bisognava stare attenti a mettere i piedi dove c’era l’orme perché i’ ghiaccio ti tagliava i piedi. Sicché misi le mani in tasca e andavo dietro a quell’altro che gli aveva corso avanti a andare a prendere questi pali. Io feci nemmeno a tempo a sentire quello dietro ciuf ciuf, sentivo dei passi che rompeva la neve con gli stivaloni.. a un tratto sentii arrivare una pedata di dietro, giù nella neve sicché mi levai avevo 20 anni e quello ne avrà avuti 65 anni, un affare a questa maniera, avevo gli occhi come una belva e i’ che succede, succede. Quello lì mi tirò un cazzotto e persi i sensi. Allora dalla rabbia, perché non l’aveva mai fatto nessuno e presi e ritornai al campo di concentramento e mi messi nella branda, dopo poco e venne il capo del campo di concentramento insieme a un sergente maggiore nostro che parlava francese e s’intendevano. E allora gli avviò a bestemmiare in tedesco e mi riferì.. dice digli arrabbiato “A me m’ha a dire se siamo prigionieri o civili, i’ che siamo noi‘?” sai i’ che mi rispose?! Dice “Te non sei né un civile né un prigioniero, sei un numero!” E con quell’affare lì i’ che vuol dire che se tu sei un numero anche se tu sparisci. .. non tu sei più conosciuto.. Infatti diversi di noi sono spariti e non si sa nulla, dei nostri compagni che s’eramo insieme. Chi ha avuto una malattia, c’è stato diverse epidemie lì, tifo o Petecchiale, come si chiamava, e diversi sono stati mandati via non si sa perché, perché gonfiavano e gli veniva non che malattia è.. ma gonfiavano... insomma una diecina furono spariti tutti. Io diverse svariate volte per il freddo che entrava addosso ho fatto anche delle bischerate, una tra le quali mi ricordo quel giorno che c'era una tempesta di neve, che non vedevi da qui a lì, e ti facevano rompere, tagliare gli alberi con quei tre piedi, uno di qua e uno di là. Non ce la facevo più, quel giorno non ce la facevo più e allora i’ che feci messi un piede sotto il tronco che tagliava dopo poco mi venne un livido questa maniera e allora mi portarono nel campo di concentramento e ci sono stato 2 giorni a pelare patate, queste cose qui. Per dirti in che condizioni s'era, certamente e basterebbe un giorno solo che ti potessi raccontare tutto quello che ti capita. DA QUESTO PUNTO LA NARRAZIONE CAMBIA, PRESUMIBILMENTE PERCHÈ L'INTERVISTATORE FA DELLE DOMANDE. LA RESTANTE TESTIMONIANZA SI SEGUE CON UNA CERTA DIFFICOLTÀ Sono nato il 15 novembre del 21 a Prato. Sono partito militare il 15 novembre per il mio compleanno.. Facevo 20 anni precisi. E me lo dettero il compleanno.. A La Spezia e poi a Lero subito nel gennaio del '42. Fino al 15/11/'43 sempre il 15 novembre.. Poi sono stato prigioniero fino alla liberazione nel ... Alla fine di agosto, anche qualche mese dopo. Io laggiù a Lero che mi interessa più
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che altro perché c'è stato dei combattimenti, anche dei morti ma vorrei... I tedeschi non erano a Lero, non erano nell'isola ma erano nell'isola maggiore Rodi.. Si concentrarono lì.. A Lero s'era 1000 marinai, 1500 una cosa a questa maniera e poi vennero anche gli inglesi perché noi s'è combattuto sotto gli inglesi, il comando era britannico... Ma quello che a me mi fa rabbia, con tutti questi anni che è passato si sente dire Cefalonia, si sente dire Castelrosso, si sente dire.. Lero no, a Lero gli ha fatto la storia, lo sai che Lero gli ha fatto la storia.. Sì.. tutti fecero prigionieri, anche gli inglesi. A noi ci dovevano fucilare perché noi si combatteva contro di loro, a questo punto la sofferenza che ho fatto e me la merito un po' perché io ho sparato 1000 proiettili, fai 1000 proiettili con questi bossoli che gli arrivavano ... sai che catasta di proiettili.. Ero al cannone. Una batteria era composta di 4 cannoni, e di questi 4 cannoni ne rimase due, uno gli scoppiò e morì 4 persone e quell'altro si rigò la canna e meno male che se ne accorsero, sicché c'era il mi' cannone e un altro su 4,2, quanto si sparava.. ma quello che voglio dire è come mai non c'è stato nessuno che abbia imposto di far vedere questo sacrificio, ce l'hanno imposto, quella era vita militare sai, precisa perché loro non transigevano... un giorno t'avevi da fare la sentinella, un altro giorno tu avevi da pulire il cannone,... sicché l'era vita militare.. sempre sotto bombardamenti.. No, ci fu l'ammiraglio Bocchetta che in concordia con gli inglesi si arrese..con lo scopo che se noi ci si arrendeva, almeno s'è sentito dire, di non toccare i marinai; allora acconsentirono e ci presero prigionieri, però ci portavano nel campo di concentramento.. Ad Atene, s'arrivò ad Atene e io dico ci si stette 2 giorni, ci fecero spogliare di tutta la divisa da marinaio e ci imposero la divisa militare italiana, cioè scarponi, fasce, mantelloni, anche i guanti di stoffa, ogni cosa differente da quella dei marinai, cosa che poi... La divisa da militare specialmente invernale è tosta, è piuttosto pesante ha da coprire i venti di mare. Insomma ci imposero quella divisa e con quel vestito lì io ci ho fatto 2 anni, ti immagini in che condizioni che gliera perché poi ci facevano lavorare di qua e di là, e non stavano dietro ai dettagli, ma se un dettaglio te lo posso fare e ti dico questo: a un certo momento di ferrovia che tu aspettavi questo treno che gli arrivava, perché gli portavano a Bologna per scaricare. E c'era un po' di tutto e c'era bullette, ferri, ma c'era anche ballini di cemento. Con l'acqua si chiudevano e ti facevano portare i ballini sulle spalle sicché in che stato che gli erano..un giorno mi ricordo ci portarono sulla ferrovia e scaricarono dei vagoni di mattoni, guarda non è che ti dico una cosa per
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un'altra, ti dico la più sincera verità.. Io quando prendevo i mattoni non mi riusciva di staccarli capito?! Dal freddo non mi riusciva di staccarli...che sofferenza l’era quella, dalla mattina alla sera. E un pezzettino di pane.. Da 6 mesi che s’era laggiù a Vileira e cominciò la ritirata, perché i tedeschi venivano via.. Tutta a piedi, fino a che non ci arrivarono dalla parte di Stettino... guarda quante nazioni s’e passato. Tutte a piedi... Dalla parte di Stettino ci caricarono su una nave perché gli arrivavano i tedeschi e i russi gli arrivavano vicino, si vedeva i proiettili alla distanza di 1300 metri. Allora ci portarono via, ci imbarcarono per non farci pigliare perché sapevano della rabbia che s’aveva contro di loro, e ci portarono a Copenaghen.. Sempre con gli aguzzini, con i fucili puntati. Loro ci dettero il via libera quando si arrivò vicino a Kiev1 , e ognuno gli andò per la sua strada, gli era belle e tardi anche se t’avevi della rivalsa tu potevi fare poco.. l'unica soddisfazione, chiamiamola soddisfazione, quando ci presero imbarcati, portati via da Lero, sulla scalinata per entrare sulla nave, in fondo alla nave e c’era queste donne del casino e si dette la mano a tutte, l’unica soddisfazione che ho avuto è stata quella, ma guarda un pochino, poi noi di Lero siamo stati dimenticati. da tutti, anche da te, da tutti. Le munizioni erano quasi alla fine però ce n'erano ancora, cominciavano gli sbarchi aereo navali perché non c’e stato mica solamente i bombardamenti aerei, sbarchi aereo navali vale a dire che c’erano anche paracadutisti, insomma un po’ di qua, un po’ di la, insomma gli hanno smantellato tutto.. a noi ci venivano sopra con gli Stukas che poi gli Stukas gli sparirono perché appena gli abbassavano gli avevano certe bombe..cominciarono con questi apparecchi Liuk 88 che non mi ricordo, e allora loro portavano una bomba che tu l’abbracciavi e invece questi apparecchi gli andavano ad una altezza che non ci arrivavi più e scaricavano 20, 30, 40 bombe. E allora fecero un altro tipo di combattimento...non potevi più arrivarci arrivavano a 10000 metri non aveva più forza.. e quello gli arrivava ad 11.. Ci smantellarono tutto, prima con gli Stukas perché venivano proprio a mettere la bomba dove volevano, e si rifeciano dalle navi al porto.. ll cannone che ci sono stato io sopra 2 anni era del 15/18, del 15/18... me lo ricordo ancora del 15/ 18.. gli arrivò un paio di crociatori inglesi.. ma non si fermarono e entrarono in porto perché i tedeschi e venivano per cercare di bombardare. Avevano i cannoni rigati, porcaccia della miseria con un affare a quella maniera..noi ci hanno messo in condizione..poi ti dirò di più senti, quando eravamo alleati con i tedeschi e venivano gli inglesi, io ti avrei fatto vedere il fuoco che dall’isola di loro si espandeva nel cielo, ma non ci passava nemmeno una rondine.. e da lì ne erano arrivati parecchi di aerei inglesi.. insomma di 24 ne riportarono via 2..
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Quando poi cominciò quest’affare dell’armistizio e c’era della gente, volendo.. insomma pensando come la pensavano loro, ma come siamo stati amici e sparargli contro?! Infatti tu vedevi io gli sparava e uno no, uno gli sparava e uno no..fino a che poi da ultimo ci s’ammazzava e allora gli sparavano tutti... però e ci fu questo cambiamento e signori ufficiali e credevano che il loro lavoro fosse stato... ma a te ti impongano, se t’hai un ordine tu lo devi eseguire, no io militare, te tu lo devi eseguire.. e fare quello lì e invece... ho visto questa disparità, in più dal momento che non era il migliore.. Senti per arrivare in Turchia ci sarà stato almeno 70, 80 miglia di mare e poi alla distanza di una fascia di 30/40 miglia c’erano i tedeschi.. c’erano i pattugliamenti di tedeschi. Lì non tu scappavi..·Sicché abbiamo subìto questi bombardamenti parecchi sono morti, tipo 200 o 300 tedeschi sono andati giù..Sicché voglio dire che hanno subìto anche loro. La differenza te l’ho detto.. la mi' rabbia ancora che è passato 60 armi gli è perché nessuno si interessa di questa cosa perché? Nell’isola si sarà stati 1500 marinai.. Poi gli arrivò gli inglesi e erano 3000 persone.. che gli sparavano, gli sparavano a colpo. Però o gli avevano navi, aerei, paracadutisti. è stato affondato diverse navi però.. è ma non ce la fa.. Strano..Va bene..
1) Non è chiaro il motivo del riferimento a questa città: anche questo particolare, come del resto l'intervista, presenta delle difficoltà per quanto riguarda la omprensione di cosa intendeva dire Angiolini.
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Io andai militare nel 4° Reggimento Genio a Bolzano e diventai radiotelegrafista per autoblinde. Poi quando fui richiamato mi ritrovai a rifare la naia con i Bersaglieri, a Reggio Emilia, come radiotelegrafista appartenente all’8° Battaglione Autoblindisti. Questo battaglione fu mandato in Africa; ci portarono in treno fino a Castelvetrano in Sicilia e di lì le autoblinde le mandarono con una nave fine a Tripoli e noi soldati con un aereo. A Tripoli si ripresero le autoblinde e si fece la litoranea libica che la passa il Golfo della Sirte, Bengasi, Misurata, tutte queste cittadine libiche e si arrivò fino a Tobruk. A Tobruk, siccome eravamo vicini al porto, queste autoblinde avevano il compito di passare vicino alla linea di fuoco delle batterie inglesi, che sparavano sulle linee italiane, per farsi sparare addosso per vedere da parte italiana dove erano appostate le batterie. Una sera, perché questo si faceva sempre all’imbrunire per vedere da dove sparavano questi cannoncini anticarro, una sera nel tornare indietro, perché si doveva farsi sparare addosso e tornare nelle nostre linee, mi vidi passare a tre dita da un braccio una fila di proiettili che davanti a me c’era l’autista dell’autoblinda, che fu preso in pieno, morì, e lo ritrovarono il giorno dopo, un fagottino di roba; poi c’era il Tenente nella torretta, all’apparecchio radio da una parte, ed era vicino ad uno sportello, che teneva ben unto. In Africa ci mancava l’acqua, però benzina ed olio ce ne era a sufficienza, cosicché l’olio ci serviva per tenere lubrificati questi sportelli e la benzina ci serviva per lavarsi i vestiti, perché erano pieni di pidocchi. Quando fu colpito l’autista fu colpito anche il motore ed il mezzo si fermò e prese fuoco, e lo sportello ben unto, che si apriva con un dito anche se era d’acciaio e aveva le spessore di quasi un centimetro, lo aprii e mi buttai. Nel buttarmi, presentavo la schiena ai proiettili, atterrai nella sabbia, perché eravamo nel deserto, c’era sabbia e basta, e rimasi fermo lì, però ero ferito, non capivo più nulla e tre schegge di questi proiettili che scoppiavano nel motore mi presero dalla parte destra ed entrarono dentro e ci sono ancora. Poi durante la notte qualcuno venne a portarmi via di lì e mi portarono in un ospedale da campo. Da un ospedale da campo ad un altro, ad un altro, ad un altro s’arriva a Derna in un ospedale in muratura. Lì ero in una stanza ed un giorno venne uno stuolo di dottori con il camice bianco — nel frattempo a me era cominciato a venire un edema al polmone — perché nel porto di Derna era arrivata una nave ospedale per prendere tutti i feriti e riportarli in Italia. Quando arrivarono da me, si fermarono, stettero un po’ a chiacchierare e poi andarono via senza dirmi nulla. Allora bisogna tornare un po’ indietro. La mia nonna, che era una buona cristiana,
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mi aveva dato un rosario con il crocifisso, che mi ero messo al collo, ed essendo ferito in quel modo io in questo lettino ero senza nulla, nudo. Allora, dopo che erano andati via questi medici, lasciandomi lì, quasi a dire “tu resti a morire qui”, uno torna indietro e mi domanda quando ero nato e dove ero nato; quando gli dissi che ero di Prato, mi disse “Anch’io sono di Prato”: era il dottor Bacci, ma il nome non me lo rammento, l’ho rivisto dopo all’ospedale; io avevo preso servizio all’ospedale, lui era stato prigioniero, ma c’erano sempre i Tedeschi quando io rientrai. Poi mi raccontò che era stato lui a farmi mandare via da Derna, perché mi avevano lasciato lì a morire. E invece, il giorno dopo, mi caricarono su questa nave ospedale e arrivai a Napoli, dove la sera stessa che arrivai - mi misero in una stanzina vicino ad una finestra — fu bombardato l’ospedale e mi cascarono tutti i vetri della finestra sul lettino dove stavo. Il giorno dopo venne la Principessa José a vedere quello che era successo, con un ufficiale; mi dissero “Se voi avete da chiederle qualcosa, chiedetegliela”. Allora quando si fermò da me mi domandò come stavo e io le dissi: “Volevo vedere se era possibile avvicinarmi alla famiglia, perché sono di Prato e quindi Napoli è lontano”. Fatto sta che dopo qualche giorno venni messo in un treno ospedale e mi portarono a Salsomaggiore. Ci rimasi 127 giorni, sono stato operato, mi misero un cannellino, mi misero in una stanzina da solo, perché spurgavo tutta roba marcia che non ci poteva star nessuno insieme a me. Però c’erano delle crocerossine nel reparto insieme. In Africa c’era uno di Salsomaggiore che si chiamava Barozzi Alido e a queste crocerossine, quando incominciai a stare un po’ meglio, domandai se c’era verso ritrovare la famiglia di queste soldato e qualcuna si dette da fare a trovarne la famiglia, che abitava vicino a Salsomaggiore, venivano quasi tutti i giorni a portarmi le uova fresche e io cominciai a stare meglio e cominciai a mangiare, ero diventato uno scheletro si vedeva altro che le ossa, tutte le uova che mi portavano questi contadini le mangiavo fresche e in più mangiavo tutto quello che mi davano all’ospedale. Le prime sere, dopo operato, venivano a vedere quanto ero ingrassato; insomma dopo 127 giorni mi mandarono a casa. A casa feci la convalescenza, ogni tanto andavo all’ospedale militare per la visita e trovai questo professore. M’avevano preso in Comune a fare le tessere annonarie e ci sono degli amici che conoscevo io che hanno fatto carriera in Comune, son diventati capiufficio. Io arrivai ad essere primo contabile all’ospedale; ci sono stato 41 anni, nel frattempo il dottor Carlesi mi fece venir qui e ci sono stato fino al ’94; fui operato e non ci sono ritornato. Cosa si ricorda dell’inaugurazione della Casa del combattente di Prato?
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C’era un’asta di ferro prima del portone d’ingresso; c’era la bandiera italiana, poi era tutto il palazzo imbandierato alle finestre, poi c’era la fanfara dei bersaglieri, c’era il presidente nazionale, l’avv. Zavattaro, che era amico del Saccenti; furono fatti i discorsi nel salone, ma non c’era ancora il bassorilievo, che fu fatto dopo, c’era l’arch. Ciruzzi che aveva fatto il progetto dello stabile. Lo stabile è stato fatto su un terreno del Comune di Prato che prima era un cimitero. Quando fecero le fondamenta della Casa trovarono degli scheletri e siccome era un terreno cedevole l’arch. Ciruzzi fu messo nelle condizioni di dover fare un’enorme colonna di cemento armato, che ancora c’è nei sottosuoli dove c’è la tipografia, a sostegno. Questa colonna è grande che forse quattro uomini non l’abbracciano. Questa colonna regge tutto il cemento armato del palazzo, però è terreno cedevole, come è successo, quando io non c’ero più di un muro sembrava rovinare. Insomma questo l’arch. Ciruzzi, anche se ci ho avuto a che fare anch’io, il nome non me lo rammento più. Era un architetto di Firenze. E c’era anche l’avv. Antonio Allegri di Firenze, che era un consigliere della Federazione, amico del Saccenti, che si occupava delle cose legali, anche ultimamente, finché era in vita, poi è morto per una tubercolosi o qualcosa del genere. I bilanci li faceva lui e stava dietro alle cose legali dell’Associazione. Prato è sempre stato sotto la Federazione di Firenze, finché ultimamente è stata fatta una Federazione unica. All’interno della Casa del Combattente fu fatto un bar. L’intenzione era quella di tenere i soci vicino alla sezione per questo fu fatto il bar, dove ora c’è la tipografia, al piano terra, però i soci s’andavano sempre più assottigliando, naturalmente, perché erano tutti soci della guerra 1915—l8, che nel ’58 avevano tutti più di sessanta anni, insomma tutti soci vecchi, anziani, che s’allontanavano invece che avvicinarsi alla sezione e quindi il gestore del bar chiuse, andò via e prese un altro bar da un’altra parte. E allora lì fu affittato. Questa Casa fu fatta, prima che ci venissi io, con tre negozi davanti: il macellaio, che c’è ancora, la cartoleria che c’è ancora ed il terzo era il barbiere, non quello che c’è ora, ma un altro, amico del Saccenti. Allora non c’erano le regole che ci sono ora per gli affitti; era il Saccenti, presidente, che si metteva d’accordo con i gestori dei negozi e chiedeva un affitto corrente. Però al barbiere, perché era amico del presidente gli fu fatto un qualcosa meno; sopraggiunte le regole nuove gli fu detto di mettersi sotto l’UPPI, e da quel momento l’affitto che era in vigore aumentava tutti gli anni di quello che la legge permetteva. In definitiva il barbiere si è trovato ad avere un affitto misero e quegli altri un po’ di più. C’era il distributore di benzina, il Meoni, però con l’AGlP fu fatto un contratto particolare: ci potevano stare per 25 anni, mi pare, pagando 25/30 milioni subito, perché servivano alla Sezione per finire di pagare la Casa. La Casa fu ideata e poi fatta
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fare in base al guadagno della Sezione per i posteggi, che erano tutti gestiti dalla nostra Sezione di Prato, tutti: alla stazione, in piazza Mercatale, in piazza del Duomo, vicolo dell’Opera, in piazza S. Domenico, in via S. Trinita, in piazza del Collegio. Gestiti, nel modo, io li ho lasciati fare come li ho trovati, perché avevo altro da fare. C’era uno che li riguardava però lasciava il tempo che trovava. I posteggiatori se ne approfittavano un po’, però alla Sezione veniva una certa somma che messa in banca servì per fare la Casa. Poi è sopravvenuto il Comune, con certi posteggi che non si potevano tenere per la viabilità, poi c’è stata la Cap che ha voluto una parte dei parcheggi. Insomma siamo arrivati ad una legge che diceva che le associazioni, che avevano ottenuto dopo la guerra la concessione dei parcheggi in tutte le città d’Italia - tutte -, Prato si distinse perché riuscì a mettere da parte parecchi soldi per fare questa Casa, nelle altre città non so come è andata e se ci sono ancora parcheggi dell’Associazione. A un certo punto il Presidente Nazionale nuovo, non l’avv. Zavattaro, seccato da tutte le beghe che venivano fuori dai parcheggi delle Sezioni, riuscì a ottenere una legge che tutte le Sezioni diventavano Aziende e come tali dovevano avere il modo di attenersi alle regole delle Aziende: bilanci, gestione, tutto quello di cui c’è bisogno di fare ....
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Una fotografia della Casa del Combattente di cui parla Bellini nella sua testimonianza.
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Sono nato il 30 gennaio 1919 a Firenze. Sono figlio di italiani esuli in Francia antifascisti. Eravamo fuorusciti in un paesino vicino Parigi, nei sobborghi di Parigi. La bainlieu parisienne direbbero i francesi, la cintura di Parigi. Fino al 1939, quando avevo 20 anni e fummo costretti a tornare in Italia per via delle ritorsioni che ci facevano i francesi. Minacciati di morte, cercavano di picchiarci e allora si decise di tornare in questo paese, che era il paese natio. E fummo subito richiamati alle armi, nel marzo del 1940 fui chiamato alle armi. Prima al secondo reggimento d’armata dell’artiglieria pesante ad Alessandria. Quando tornammo a Firenze., c’avevo qualche familiare, c’avevo una sorella di mio babbo e un’altra zia e un altro zio, fratelli di mia madre. Fui ospitato, un po' sballottato a destra e a sinistra. Poi si partì a fare il militare, io che non sono un eroe, non ho fatto l’eroe l’unico gesto eroico che ho fatto io é stato quello di combattere per salvarmi la vita. Poi dopo ci mandarono sul fronte francese, ma questa non ci conta come campagna di guerra perché durò pochi giorni la nostra presenza e fummo costretti a tornare subito nella nostra base di Cuneo. Dopo si parti per l’Albania, cambiai reggimento andammo con il l3° reggimento d’artiglieria e partecipammo a tutte le azioni sul fronte albanese. Io volevo mettere in rilievo quello che sul fronte albanese era lo stato di mente dei combattenti italiani. Un giorno noi ci trasferimmo da un fronte all’altro prima eravamo sul fronte sud andammo sull’altro fronte più a nord. Mentre viaggiammo sulla strada sterrata e stretta, stretta, eravamo il 10 marzo 1941 quando fu sferrato l’attacco alla Grecia. Mentre si camminava i nostri pezzi erano portati da camion, da altri mezzi pesanti e noi camminavamo a piedi. Quello che voglio sottolineare è che a un momento passavano molte macchine tra cui una con il ministro della difesa, e tanti altri bei pezzi grossi del regime fascista. Passarono e dietro c’era una macchina più piccola dalla quale scese Mussolini. Montò su un mucchio di terra che era sulla strada e cominciò a fare il suo bel discorso ai soldati. Non fu degnato di uno sguardo, non fu degnato di un applauso e i soldati mal nutriti, mal vestiti, ammalati perché allora lì non si mandavano gli ammalati, per esempio di malaria, negli ospedali, si facevano battaglioni di malarici e si tenevano lì a patire e a soffrire. E quello che mi colpì quel giorno lì fu la mentalità dei militari italiani. Ne avevano abbastanza, erano stanchi perché quella non era la nostra guerra, questa era una guerra voluta da un dittatore e da un regime. Uno non si sentiva, se si pensa poi dopo che non avevamo
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neanche da mangiare, che eravamo malati, ero un malarico. Ci toccava stare lì a soffrire e si lottava come le dicevo prima non per far gli eroi, per fare gesti eroici, ma per tentare soltanto di salvare la nostra pellaccia. Ci fermarono. I nostri comandanti ci fermarono. Lo ripeto non fu alzato un grido, né contro, né a favore. Completamente muti i soldati, se ne fregavano proprio altamente. Per la malaria, non ci davano il chinino, perché non c’era nemmeno quello. Ci davano la zigrina, l'era una pasticca gialla che ci faceva diventare gialli in viso. Faceva qualche cosina, permetteva di avere qualche grado di febbre in meno, che io non sono medico non lo posso dire. Mancava tutto noi avevamo le armi antiquate, si voleva far la guerra, i nostri pezzi d’artiglieria i 149-35 erano pezzi antiquati presi agli austriaci il 19151/18. Il moschetto era un moschetto 91 anche se era a ripetizione, modificato nel ’38. Come si faceva a combattere.. prima di tutto perché non era la nostra guerra non la sentivamo, e poi anche perché non c’era nulla. Dopo mi successe che come figlio di italiani all'estero, per la legge, dovevo fare 2 mesi nel distretto di appartenenza e io avevo chiesto il beneficio di questa legge, ma nel frattempo avevo già fatto circa 15 mesi di servizio militare e fui rimpatriato prima nel campo di Durazzo dove c’erano tutti i malarici, sempre in Albania dove cercarono di curarci. Poi una sera io mi aggregai a gruppi di partenti e ci si presentò al porto, perché noi eravamo nei dintorni di Durazzo. M’aggregai a loro anche perché me lo permisero gli ufficiali, nonostante... mi domandarono “Avevi la febbre?” No non avevo la febbre. Quando stavo per salire sulla nave c’era un medico in fondo alla schiera, ci toccava il polso, mi disse “Tu hai la febbre?” dissi “Sì signore ho la febbre” e lui disse “Tu non puoi salire sulla nave, devi rimanere qui, mi dispiace.” A mani congiunte gli dissi “Ma lei a casa sua ce l’ha una madre?” con tutte queste parole mi lasciò montare sul ponte e si attraversò sul ponte della nave che era colma, che mi portò a Bari. Mentre eravamo in mare fummo dirottati verso Brindisi perché c’erano i sottomarini inglesi e poi si ritornò a Bari. Naturalmente si poté fermarsi, dormire fuori all’aperto, anche lì non avevano il chinino, non avevano medicinali e poi finalmente arrivai a Firenze da mia zia; sorella di papà mi fece ricoverare all’ospedale, all’ospedale civile di Careggi. Guarito tornai da mia zia, poi scesi a Firenze. A Firenze trovai un lavoro. Un lavoro dal cappellaio per donne, sicché lavorai 30 giorni e poi fui richiamato. Facevo cappelli di tutti i colori, di feltro, velluto, seta, ecc. .. E allora si faceva bene il lavoro per essere assunti a lavorare. Stetti lì 30 giorni poi fui richiamato. Ci portarono a Verona, poi lì decisero di creare un nuove reggimento e ci mandarono in Calabria come guardia coste, come guardia frontiere.
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Riacquistai subito la malaria con eczema tropicale, fui operato di peritonite e poi nel 1943 fui ricoverato all’ospedale militare di Gemona in Friuli. Dalla Calabria fu un bel viaggio. Prima all'ospedale di Napoli e poi all’ospedale di Gemona, nel quale si stava molto bene perché la popolazione era molto gentile, c’era da mangiare quando si usciva la sera e si stava bene. Se non che il 3 settembre 1943, il colonnello che comandava l'ospedale ci disse “Figliolo i Tedeschi stanno scendendo! Chi può camminare con le proprie gambe gli dò licenza di convalescenza e ve ne andate a casa, i mutilati invece stanno qui con noi”. E lì finì praticamente il servizio militare perché poi dopo non mi ripresentai, a parte le vicissitudini nell’ospedale militare di Firenze. Prima gli Italiani mi volevano far ritornare al fronte, invece i Tedeschi che erano aggregati lì, viste le mie condizioni, mi fecero tornare a casa con un’altra convalescenza. Da allora non mi ripresentai più. Da lì fu la mia tragedia, che poi dopo continuò anche in borghese perché il chinino non si trovava. Era una tragedia e poi l'eczema tropicale... c’era una specie di pelle che riaffiorava con dei bachini dentro, ne avevo addosso e uno sotto i piedi. E finalmente gli arrivarono gli americani e fu la mia salvezza perché avevano il chinino. Prima che arrivassero gli alleati ero da un mio zio sfollato a Carmignano. Meno male perché io non avevo casa, non avevo niente. Mi era rimasto soltanto il vestito con il quale ero venuto in Italia e un vecchio cappotto ricavato da un cappotto di mio zio. Quando arrivarono gli americani cercai di andare a lavorare, cominciai ad andare a lavorare, un po’ con gli americani, un po' con gli inglesi, un po' sulla strada a fare il manovale. La vita triste dell’esule che non ha famiglia, è stata questa la mia tristezza, quello che ho sofferto di più. Al fronte non c'erano eroi, dove eravamo noi, sono tutti discorsi. Mi premeva sottolineare questa cosa, lo stato d'animo dei soldati al fronte in Albania, lo stesso come guardia frontiera anche in Calabria. Tanto è vero che io da Caporale Maggiore fui degradato per aver detto ad un ufficiale, un tenente, eravamo in tre caporali, si stava lavorando alla costruzione di una strada in Albania che portava da dove eravamo noi al castello distante dall'isola di Caporizzuto che era un posto d'incanto. Lo è ancora. Ci domandò, per fare capire quanto erano stupidi i nostri ufficiali, che cosa ci poteva mettere nello spezzatino.. La risposta mia fu “le patate!” si può mettere “i fagioli” e lui “Questo lo sapevo!” e fummo degradati, ci denunciò. Per questo?
Per questo. Per dire la mentalità che serpeggiava nell’esercito. Non ne volevamo sapere di questa guerra, nessuno. Se si tratta di difendere il nostro paese quando siamo aggrediti si può anche difendere, ci si può anche andarci, ma la guerra per aggredire
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non l’ammetto. Non ammetto le guerre coloniali, non ammetto le guerre di aggressione, questo non lo ammetto. Certamente poi ci furono i resistenti, noi a nostro modo non presentandoci si fu resistenti anche noi. Son ricordi brutti... ma bruttissimi.. io tenevo particolarmente a far affermare che i soldati italiani nel 1941/42/43 e oltre erano stanchi della guerra. E per tornare alla fine della storia, arrivano gli americani, gli inglesi, lei va a lavorare con loro e finisce la guerra ad un certo punto. . .
Sì finisce la guerra. E lei stava sempre a Carmignano?
Stavo a Carmignano, poi dopo per mia fortuna trovai un lavoro al Cicognini, al convitto nazionale Cicognini, glorioso convitto nazionale Cicognini. Beh che si siano dimenticati ora che i poveri disgraziati che dal ’46 in poi lavorando per 14/16 ore al giorno, e tanti son morti, salvarono il convitto. Me lo immagino in che condizione poteva essere. . .
Ci sono stato fino al al 1982, andai via per dimissioni. Ero stanco anche lì degli atteggiamenti di certi capi che erano nel convitto. I capi d’istituto?
Era una brava persona, una bravissima persona. C'aveva grande cuore però non c’aveva il polso del capo, e a me quello non andava giù. E dopo poi sei sempre stato a Prato?
Dopo son stato a Prato e mi son sposato a Prato, ho avuto un figlio. Ho sempre tribolato perché chi va a lavorare fa sempre una vita grama, i posti che reggano non sono mai toccati a noi. Comunque doveva essere un lavoro anche abbastanza di soddisfazione. . .
Dal 1963 eravamo mal pagati al convitto Cicognini, però avevamo una branda per
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dormire e ci passavano da mangiare. PiÚ o meno è come i militari, soltanto che uscivamo per Prato, ecc.. Ci facevamo un po' ... non è stata una vita troppo gaia perchÊ dopo le conseguenze della guerra e della malaria...
Oro alla Patria. Mussolini mostra le fedi raccolte forzatamente dalle famiglie italiane per finanziare la guerra.
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Io, Cappuccini Ezio, fui chiamato alle armi il 16 gennaio 1943; fui mandato a Siena al 5° Reggimento Bersaglieri e rimasi tutto il mese di febbraio. Fui poi trasferito a Torino al 40° Battaglione Corazzati Autoblindo. La vita trascorreva regolarmente anche se c’era un po’ d’appetito, ma pazienza!, la speranza era sempre che finisse presto la guerra! Ecco che arriva il momento cruciale, cioè l’otto settembre 1943, il giorno in cui Badoglio dichiarò l’armistizio. Eravamo in libera uscita, ad un tratto sentimmo suonare la ritirata fuori dell’orario: che brutta sorpresa! Credevamo che finisse la guerra, mentre invece fu quando cominciò. Il giorno 11, a mezzogiorno, mentre eravamo nel piazzale a prendere il rancio, arrivarono i Tedeschi e ci disarmarono tutti. La mattina dopo, che ancora era buio, arrivarono con una fila di camion e ci caricarono tutti, soldati e ufficiali, e ci portarono alla stazione, ci chiusero dentro carri bestiame, diretti per la Germania. Partimmo da Pinerolo la domenica e arrivammo al campo di concentramento il giovedì sera: facemmo una sola sosta in Austria. Lascio considerare: quattro giorni senza mangiare. Solo in Austria ci dettero una roba! Nonostante la fame non si riusciva a inghiottirla. Giunti al campo di concentramento fummo sistemati nelle tende: 500 persone ogni tenda. I primi arrivati furono sistemati nelle baracche, e lì cominciò il martirio. Dentro le tende vi erano dei trucioli per terra, e questa era la nostra branda. La notte, se avevi bisogno di andare a fare pipì, eri disperato, perché era difficile poter rientrare; non si poteva accendere neanche un fiammifero, c’era pericolo di incendio. La mattina presto sveglia, lavarsi un po’. Circa alle nove adunata al rancio. Succedeva che quando ci toccava di essere fra gli ultimi si stava in fila fino a mezzogiorno, o anche all’una, qualche volta. Non sto a parlare del menù, perché con la fame che avevamo era tutto buono. In tutto il campo c’erano 35.000, tra soldati e ufficiali, compresi i generali. Dopo pochi giorni che eravamo lì, arrivò un gerarca fascista, il famoso Farinacci, che fece un discorso sul tradimento di Badoglio. E così ci mise in testa dei pensieri, fece la proposta di tornare in Italia a combattere contro gli Alleati. Per tutta la notte stemmo a pensare, alla sera si disse anche il rosario. La mattina seguente cominciò a circolare la voce degli ufficiali di non firmare, altrimenti la guerra non sarebbe mai finita. Difatti furono pochissimi quelli che firmarono. Dopo pochi giorni, cominciarono a formare dei gruppi a seconda di quante erano le richieste. Io il 29 settembre fui trasferito a Berlino, fummo sistemati in baracche di legno e lì cominciò la vita quotidiana: si partiva la mattina al lavoro, che consisteva in lavori vari,
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si mangiava quando si tornava dal lavoro, una volta al giorno. Dopo un po’ di tempo ci divisero: un gruppo di giorno e uno di notte. Quando eravamo di notte, il freddo ci divorava. Una sera andai al gabinetto: da una parte ci passavano dei tubi caldi e mi misi a riscaldarmi un po’. Nel frattempo il capo tedesco era stato a vedere che mancavo da un pezzo: mi rimproverò e mi prese il numero del piastrino che avevo al collo. Ogni giorno succedeva che trovavano qualcuno in flagrante infrazione dei regolamenti. Per un po’ di giorni continuò il lavoro regolare, finché una sera venne il capo campo e ci chiamò uno ad uno, ordinandoci di preparare tutti i nostri bagagli, ché la mattina dopo si sarebbe partiti. Quella fu una notte di grande disperazione, si pensò subito che saremmo andati a finire male, e così la notte la passai in bianco, pensando a quello che mi sarebbe capitato. La mattina sveglia e preparare quelle poche cose che avevamo. Dopo si vide giungere una fila di soldati armati in assetto di guerra; fecero l’adunata di tutti quelli presenti nel campo: circa 200. Ci portarono nella piazza davanti alle cucine. Quelli che ci avevano preso il numero eravamo 27: tutti quelli del campo da una parte, mentre noi 27 schierati davanti al plotone delle guardie. Nel frattempo era arrivato l’ufficiale giudiziario e dette l’ordine ai soldati di introdurre il caricatore. Non potete immaginare cosa subentrò nell’animo. Pensavamo all’esecuzione. Poi queste guardie furono schierate di fianco e di dietro, e così l’ufficiale giudiziario cominciò il discorso, a base di accuse di sabotaggio e di tradimento, a cominciare da Badoglio, mentre l’interprete ci traduceva tutto quanto. Dopo averci accusati di tradimento, si rivolse verso noi 27 disgraziati con queste parole: “I 27 mascalzoni avranno le loro pene da scontare”. Finita che fu l’adunata, gli altri partirono ognuno per il proprio lavoro, mentre noi 27 ci presero queste guardie: due davanti, due da parte è un po’ dietro e si partì a piedi per una quindicina di chilometri con passo slanciato e con gli zoccoli ai piedi. Per la strada, mentre si camminava, si faceva la pipì, perché non si fermavano neanche un minuto. Dopo un lungo cammino finalmente arrivammo ad un bosco, e lì camminammo ancora. Ad un certo punto si cominciò a vedere dei reticolati. C’era un campo di prigionieri italiani, ma noi ci portarono ancora più avanti, dove c’era un altro reticolato: lì dentro c’erano tutti quelli che erano stati accusati di qualcosa. Giunti all’ingresso del campo, le guardie si presentarono al comando e ci fecero passare dentro, per fila indiana. Appena consegnati, le guardie ripartirono. Allora il comandante ci passò in rassegna uno a uno; il primo, perché non scattò sull’attenti, prese subito un bel ceffone e gli cominciò a uscire sangue dal naso; noi vedendo lui si scattava tutti sull’attenti. Finita la rassegna ci portarono alle baracche e ci fecero consegnare tutto quello che avevamo nello zaino, compreso il portafoglio. In questo campo facevano servizio due sergenti italiani, che non erano meglio dei
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Tedeschi. Ci portarono nella baracca e ci assegnarono a ognuno il suo giaciglio, che consisteva in letti a castello a due piani, uno sopra e uno sotto: a ogni piano c’erano sette stecche di legno, senza pagliericcio, solo una copertina da campo; senza spogliarsi, ci si toglieva gli zoccoli e la giacca, che si faceva fare da cuscino; il cappotto si metteva sopra a quelle stecche e la copertina per coprirci. La mattina sveglia alle 5,30, al primo fischio saltare subito in piedi: appena si apriva la porta, se uno non era pronto, c’era subito la punizione. Siamo al 17 dicembre 1943: il primo giorno si parte alle 6,30, dopo avere aspettato quasi un’ora che si preparassero le guardie che ci avrebbero accompagnato. Si partiva a piedi, si facevano due chilometri a piedi; giunti alla stazione si prendeva il treno. L’ultima carrozza era riservata a noi; si doveva salire alla svelta, ci infilavano ammassati come sardine, sembrava un finimondo! Passarono alcuni chilometri prima che avessimo preso la posizione precisa. Appena giunti a destinazione, scendere in fretta e tutti inquadrati; ci contavano dieci volte, poi ci accompagnavano al lavoro, che era vario. Ci consegnavano pale, picconi per spalare macerie dei bombardamenti, senza fermarsi un minuto, fino alle sei della sera. Poi si ritornava alla stazione, per rientrare al campo. Arrivati al campo ci veniva distribuita quella po’ di porcheria, perché la fame era così tanta dopo tante ore di lavoro. Il lavoro ogni giorno cambiava: scaricare mattoni da vagoni, che erano pieni di neve, poi portarli al quarto piano dei palazzi bombardati; la dose era di sei mattoni alla volta; una guardia era al monte dei mattoni, una in fondo alle scale e una dove si scaricavano; fino alla sera era un continuo scendere e salire le scale. I giorni passavano uno peggio dell’altro, perché le forze diminuivano e il morale era a pezzi, perché non si sapeva quello che ci aspettava; passavano settimane, senza mai lavarsi, nemmeno il viso; solo la domenica, perché non si andava a lavorare, perché le guardie facevano festa. La domenica mattina la sveglia alle 7, ci portavano nel piazzale, si doveva portare l’unica copertina che si aveva, due a due, si doveva sbatterle per ore e ore: questo allo scopo di renderci la vita più difficile che mai. A mezzogiorno distribuivano il pane, un pane ogni 7 uomini. Alla cucina la domenica cuocevano lo scarto delle patate lesse con la buccia; si andava a prendere le marmitte alla cucina, eravamo in sei per portare tre marmitte: la guardia era dietro di noi. Una volta, mentre si camminava, presi una patata e la misi nella manica della giacca; appena giunti alla baracca, invece di farci entrare ci mise tutti fermi e ci fece la rivista, per vedere se avessimo preso delle patate. Quando giunse da me mi tastava le tasche e io tenevo il braccio un po’ piegato, ché non cascasse la patata; se ne accorse subito e mi rifilò un cazzotto sulla faccia; sbattei la testa sul muro della baracca e poi niente mangiare per tutto il giorno. La mattina si riparte per il solito lavoro e fino a sera niente mangiare, e così invece
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di 24 ore di digiuno, diventarono 48. Il giorno 3 gennaio 1944 era trascorso un anno da quando era stato celebrato il matrimonio del mio amico Gino e mi tornava in mente tutto quello che c’era per il pranzo: quella fu una giornata di grande disperazione, sentivo la fame che mi divorava e così la sera, invece di dormire, piansi tutta la notte. I giorni che trascorrevano sembravano settimane, le settimane sembravano mesi, ma nulla cambiava. Ho un altro episodio da raccontare: siccome era pieno inverno e il freddo ci faceva rabbrividire perché la temperatura era sempre sotto zero e per di più eravamo malvestiti, una mattina mi venne il pensiero di mettere la copertina sotto la giacca per ripararmi dal freddo: e come me altri ce l’avevano. Si accorsero che in camerata mancavano delle coperte e così la sera, al rientro, ci fermano, ci passano in rivista. Quelli che non avevano addosso la coperta poterono entrare in baracca a prendere quel po’ da mangiare dopo 24 ore, mentre tutti quelli che avevano la coperta furono portati nella piazza a fare esercitazioni: ogni tanto ci facevano stendere a terra e ripartire di corsa per una mezz’ora, finché ci avevano stroncato le gambe, e così un giorno era peggio di quell’altro. Non parliamo dei pidocchi, perché ce li avevamo di tutti i colori: gialli, marroni. Durante il giorno, quando eravamo fuori a lavorare, davano poco fastidio, perché era freddo, ma quando la sera si rientrava nella baracca, era una disperazione, e la notte non ci facevano dormire: ormai non ci si faceva più caso l’un con l’altro, perché eravamo tutti nelle stesse condizioni: che tristi notti maledette! Più i giorni passavano e più diminuivano le forze; ogni giorno cambiavamo lavoro, o a scaricare mattoni dai vagoni che erano pieni di neve, oppure a portare le travi di legno, dove c’erano stati i bombardamenti. Un giorno, mentre si portava una trave, uno di noi voleva fare la pipì e chiese alla guardia il permesso di farla; andò dietro a un muro, mentre la guardia aspettava lì da noi, e siccome si tratteneva troppo, la guardia andò a vedere quello che faceva. Questo prigioniero aveva visto tra le macerie un barattolo ricoperto da calcinacci: lo aprì e vide che c’era della frutta sciroppata: non l’avesse mai vista! Con la fame spietata che aveva si mise a mangiarla con le mani. La guardia, vedendolo in quello stato, prese il bastone che portava con sé tutto il giorno e lo colpì alla testa, poi gli fece riprendere la trave che aveva lasciato: ma con la botta che aveva preso, perdeva sangue e mentre camminava si accasciò a terra svenuto. Siccome c’era gente di passaggio, tutti cominciarono a fare un cerchio per vedere quello che era successo. Mentre la guardia faceva allontanare i civili, passò un ufficiale superiore e, vedendo quell’uomo in quello stato, si inferocì contro la guardia, la mise sull’attenti e cominciò a rimproverarla. L’ufficiale chiamò le altre guardie e fece radunare tutti, ordinando di rientrare al campo immediatamente. Per fortuna fu l’ultimo giorno della
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compagnia di disciplina. Appena rientrati al campo, ci portarono al magazzino e ci riconsegnarono quella po’ di roba che ci avevano tolto e si partì per andare alla disinfezione, perché di pidocchi eravamo pieni. Appena arrivati a questa disinfezione ci trovammo dei prigionieri francesi: anche loro erano andati a fare il bagno. I Francesi, man mano che avevano fatto il bagno, aprivano i loro zaini che avevano con sé e cominciavano a mangiare. Noi sciagurati, nel vedere che loro mangiavano, gli chiedevamo se ci davano qualcosa. Ai primi che arrivarono dettero qualcosa, ma siccome eravamo tanti e non potevano soddisfare tutti, richiusero gli zaini e appena finito di fare il bagno partirono tutti. Dopo toccò a noi fare il bagno; i panni che si aveva addosso ce li fecero mettere nei carrelli per poi andare ai forni per la disinfezione. Per asciugarci c’erano dei ventilatori, e così dopo circa mezz’ora tirarono fuori i carrelli e in questo modo i pidocchi erano seccati. Appena finito il bagno e rivestiti si ripartì: ci portarono a un campo di prigionieri francesi. Dopo cinquanta giorni trascorsi nell’inferno precedente, finalmente si ebbe il pagliericcio per dormire, perché dopo cinquanta notti a dormire sulle tavole, avevamo tutti le ossa rotte. Per lo meno si riusciva a dormire un po’. A lavorare non si andava: la mattina ci facevano la sveglia e, dopo esserci lavati, ci portavano fuori a prendere aria un paio d’ore, a mezzogiorno ci davano da mangiare: purtroppo la razione era misera. Ma in confronto a prima, ci sembrava di essere rinati. Nel frattempo ci fecero il processo, ci chiamarono dinanzi al Giudice militare, con l’interprete, e lì ci fu la condanna: chi due mesi di prigionia, chi tre o quattro. A me diedero tre mesi di prigione nelle carceri militari internazionali. Dopo una quindicina di giorni che eravamo in questo campo dei francesi, quelli di noi che erano in condizioni di potere viaggiare in treno, ci chiamarono e si partì per la Polonia. Alle prigioni internazionali qualcuno rimase perché non era in condizioni di viaggiare. Queste prigioni erano dei grandi castelli a tre piani: noi Italiani eravamo al terzo piano. Ogni nazione aveva il suo reparto, perché c’erano Francesi, Inglesi, Belgi. Tutti condannati per futili motivi. I Francesi e gli Inglesi non lavoravano, perché la Convenzione Internazionale non lo prevedeva. Mentre noi Italiani ci portavano a lavorare fuori, ogni guardia aveva dieci uomini in consegna: queste prigioni erano veramente tetre! Finestre piccole, con grosse inferriate da fare spavento. Castelli di legno a tre piani per dormire; di buono avevamo il pagliericcio a mo’ di materasso. Regnava una disciplina ferrea: la sera, prima di coricarsi, la guardia ci faceva andare tutti al gabinetto, che era in fondo al corridoio; dovevamo andare tutti, anche senza necessità; poi richiudeva la stanza, con quel mazzo di chiavi che facevano terrore! A mezzanotte la guardia faceva un fischio e poi apriva la porta e bisognava andare tutti:
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guai a chi non si fosse alzato. Poi richiudeva e fino alla mattina non apriva più. Ma siccome regnava una grande dissenteria e chi aveva bisogno durante la notte non poteva più andare al gabinetto, nei momenti che non resistevano più, la facevano o nella baracca [borraccia n.d.r.], chi ce l’aveva, o qualcuno perfino egli zoccoli, e la mattina li vuotavano al gabinetto. Una mattina, mentre si andava al gabinetto, il tedesco si accorse che uno aveva la borraccia piena; gli domandò che cosa aveva nella borraccia e lui rispose: “Acqua!”. Allora il tedesco gli fece il gesto di bere, e questo poveretto fece la mossa di portarla alla bocca: allora il tedesco fece una smorfia, brontolando nella sua lingua, e il poveretto la vuotò poi al gabinetto. Quando il tempo lo permetteva, ci portavano fuori a lavorare; quando la giornata era buona si preferiva andare fuori, per prendere aria buona, perché in quelle squallide celle era difficile passare le giornate. Il lavoro variava da un giorno all’altro, andavamo a zappare carote dai contadini oppure a ripulire le macerie dei bombardamenti. Dopo un po’ di tempo ci portarono a fare degli scavi, presso un ospedale militare con pala e piccone, ma le forze ogni giorno diminuivano. Una mattina, circa alle nove, mi prese una grande crisi, non ce la facevo a lavorare, mi accasciai a terra. La guardia mi domandò che cosa avevo, gli dissi che stavo male, che mi faceva male la pancia: allora la guardia mi lasciò a riposare; dopo pochi minuti giunse il controllo. Era un sergente: domandò alla guardia che cosa avevo, parlarono fra loro e poi mi ordinò di andare con lui, mi fece accompagnare da due miei compagni e mi portò dentro l’ospedale. Mi mise a sedere nel corridoio e lui andò a cercare un dottore. Mi portarono in ambulatorio e mi passarono la visita. Questo dottore mi domandava dove mi faceva male e io gli indicai la pancia, perché a parlare non ci si intendeva; il dottore chiamò un altro dottore e mi visitò anche quello, ma io non avevo gran male, solo una grande debolezza, che non mi reggevo in piedi. Parlarono fra di loro e decisero di operarmi dell’appendicite. Allora venne un vecchio e mi portò a prepararmi per l’operazione. Poi venne una crocerossina, mi mise la maschera e mi diede l’etere: così mi addormentai. Verso mezzogiorno cominciai a svegliarmi, lentamente: appena aprii gli occhi, mi girai da una parte e vidi una fila di letti, e altrettanti dall’altra parte: erano soldati feriti che avevano riportato dal fronte. La prima cosa che pensai dopo svegliato fu al mangiare. All’una portarono delle marmitte con la minestra, e poi c’era pane, burro, margarina, marmellata: con quella fame che avevo io, vedendo tutta quella roba, mi venne l’acquolina in bocca. Appena venne una suora, le chiesi subito da mangiare e lei mi rispose: “Per quattro giorni, niente mangiare!”. Alla sera, quando ritornò la suora, glielo chiesi di nuovo. Finalmente mi portò un pochino di latte e la mattina dopo, a forza di chiedere, mi riportò un altro po’ di latte. Accanto al
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mio letto c’era un soldato francese, anche lui ferito, e con lui mi intendevo un po’ meglio a parlare. Anche a lui chiedevo del pane, e lui mi faceva capire che mi avrebbe fatto male, ma la fame era così tanta che non mi rendevo conto di quello che mi poteva succedere. Comunque la sera mi dettero la minestra e il francese mi dette una fetta di pane e una mela. Il terzo giorno cominciai ad alzarmi, e all’ora di pranzo cominciai a mangiare come loro. Appena mangiato mi sentivo lo stomaco un po’ gonfio, ma poi mi passava. Mangiare ce n’era abbastanza e mi servivo da me. Quei soldati, vedendomi mangiare così tanto, ridevano, come dire:”Quanta fame avrà questo sciagurato!”. Ma a me non interessava se ridevano, bastava riempire la pancia. Quando poi cominciai a star bene, facevo dei servizi a feriti che non si potevano alzare, a chi gli mancava un braccio, a chi una gamba e quindi non si potevano muovere, e loro mi davano di tutto: biscotti, frutta, cioccolata, che pacchia! E così passavano i giorni e cominciavo a riprendere un po’ di forze, e soprattutto migliorava il morale, che è tutto. Finalmente, dopo 23 giorni venne una guardia a prendermi; allora la suora mi fece un pacco di fette di pane, con burro e margarina. E partii per ritornare alle prigioni con il foglio di uscita: mi avevano dato 10 giorni di riposo. Alla mattina guardavo il tempo: se conoscevo che era buono, mi mettevo con le squadre che andavano a lavorare, e sennò rimanevo in cella. Eravamo già nel mese di maggio del ’44. Le giornate erano allungate, e andando fuori, specie in campagna, si trovavano dei cestini di erba: come erano buoni! Finalmente il 22 maggio, non lo scorderò mai, finì la cella. Dopo tre lunghi mesi di agonia, era arrivata l’ora di cambiare vita. Quando uscimmo dalla prigione, eravamo in 7, ci portarono a un campo di prigionieri inglesi. Appena arrivati, si videro quei prigionieri, sdraiati al sole, con delle coperte per terra; ci pareva un sogno, per come erano trattati rispetto a noi Italiani. Lì rimanemmo una settimana: da mangiare ce n’era abbastanza, mentre gli Inglesi, del vitto tedesco, ne facevano poco uso, perché avevano i pacchi delle famiglie e più dalla Croce Rossa. Mentre gli Italiani non erano riconosciuti prigionieri di guerra. Voglio ritornare un passo indietro, mi sono dimenticato di raccontare dei poveri fumatori: quelli erano ancora più penalizzati, perché per mancanza di sigarette, succedeva che chi fumava, scambiava mezza fetta di pane per una sigaretta. E così si riducevano sempre peggio, perché il vitto era appena sufficiente per sopravvivere. I Tedeschi ci passavano sei sigarette alla settimana, il martedì, il giovedì e la domenica, però volevano che fossero riconsegnate le cicche: succedeva allora che di una sigaretta ne venissero fatte due; una la riconsegnavano, l’altra la fumavano in camerata; però era severamente proibito fumare in camerata; il difficile era accendere, in mancanza di fiammiferi; uno volta acceso uno, accendevano tutti. Spesso arrivava la guardia,
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guardava dallo spioncino, e se vedeva del fumo, apriva immediatamente; allora le sigarette sparivano, però il fumo rimaneva. Allora il Tedesco voleva sapere chi aveva fumato, ma nessuno usciva allo scoperto. Allora, dal terzo piano ci facevano scendere nel cortile, a fare ginnastica, finché non gli era venuto a noia e così anche chi non fumava doveva sopportare questa punizione. Ritorno di nuovo dove ero rimasto, cioè al campo dei prigionieri inglesi, e lì si rimase una settimana, poi venne una guardia a prenderci e ci portò a Danzica, a lavorare in un cantiere navale. Mi assegnarono alla scuola saldatori, si lavorava sempre di notte. Dopo due mesi di scuola, mi assegnarono la macchina saldatrice e cominciai a fare i turni: una settimana di notte e una di giorno. Nel settembre del ’44 decisero di lasciarci andare a lavorare senza essere accompagnati dalla guardia. Ci avevano fatto il cartellino con foto, e così all’entrata si presentava il cartellino, si saldavano i pezzi di sommergibile. Il cantiere di Danzica era così grande che vi costruivano enormi sommergibili; era un cantiere molto interessante che gli Inglesi e gli Americani cominciarono a bombardare; quasi tutte le notti c’era l’allarme; finalmente una sera, verso le 10, suonò l’allarme, ci tolsero subito la luce e cominciammo a scappare verso i rifugi; vi era una gran confusione, non si sapeva più dove andare; al primo rifugio che trovai chiamai per sapere se ci fosse qualche italiano, ma nessuno mi rispose, perché lì erano mescolate tutte le razze, e allora continuai a correre; ad un tratto cominciarono a sparare le batterie antiaeree tedesche, e così al primo rifugio che trovai entrai, perché non c’era più tempo per scegliere, in quanto cadevano già le prime bombe. Quella fu una notte infernale, che non dimenticherò mai. Fecero un bombardamento a tappeto, chissà le centinaia di bombe che cascarono quella notte, che distrussero molte delle fabbriche che c’erano. Fu affondato tanto naviglio che stazionava nel porto; quando alcune bombe cadevano vicino al rifugio, sembrava che si saltasse in aria. Appena finito il bombardamento, si uscì all’aperto: il terreno era diventato una melma; i rifugi erano stati costruiti a 50 metri dalla riva del mare e i più erano rimasti chiusi, perché erano crollati e dentro vi erano rimaste circa 700 persone. E così cominciò il caos: tutti cercavano di scappare, dopo essersi salvati; ma la polizia ci prelevò tutti, per poter salvare quelli che erano rimasti prigionieri sotto le macerie dei rifugi: si usarono martelli pneumatici per aprire qualche uscita, ma purtroppo fu tutto inutile, perché al buio non si poteva fare nulla; e così quei poveri disgraziati rimasero tutti uccisi. Finalmente riuscii a scappare per tornare al campo, cioè al campo che era di fuori dall’arsenale. Giunto al cancello, la guardia mi fece tornare indietro; allora decisi di cercare da altre parti, e così ce la feci a scappare. Appena arrivai al campo, c’era un gran confusione, perché lì accanto a noi c’era un campo di deportati ebrei, politici, e di
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tutto un po’. Molti di quel campo morirono e pure del nostro campo ne morirono tre. Appena giunsi alla mia baracca, entrai nella mia camerata. I miei compagni di camerata, saltarono tutti dalla cuccetta ad abbracciarmi, perché ormai mi avevano considerato disperso, invece il destino volle che mi salvassi. Il giorno dopo tornai a lavorare e a scavare nei rifugi, per estrarre quei poveracci pieni di fango, perché l’acqua era entrata dentro e così per diversi giorni si lavorò per rimuovere le macerie che erano rimaste, ma da quel giorno le cose cominciarono ad andare alla deriva. Anche i tedeschi cominciarono a perdere la fiducia. L’esercito russo cominciò ad avanzare verso Danzica, finché una sera, all’improvviso, arrivarono le guardie e cominciarono ad urlare: “Fuori! Fuori!”, sembrava che fossero arrivati i Russi; difatti, una puntata di carri armati era arrivata vicino, ma poi li avevano respinti e a noi fecero prender i bagagli e ci portarono al porto. Dopo qualche ora di attesa per l’imbarco sulla nave, ci fu un contrordine: ritornare al campo. Dopo due giorni di nuovo ordine di andare al porto, e questa volta ci si imbarcò davvero. Eravamo 32 Italiani: ci fecero scendere nella stiva della nave e sul ponte caricavano tutti i civili, perché il fronte ormai era vicino e così sfollavano tutti. Fecero una fila di sedici navi di sfollati, per portarli fuori dalla trappola che i Russi avevano creato, tagliando la strada della ritirata. Finalmente la nave partì. Appena fatte circa venti miglia trovammo un campo minato, perché il golfo di Danzica era pieno di mine che gli Inglesi avevano gettato. A quel punto si dovette fermare tutto il convoglio. E così si fece sera, e tutta la notte si stette in pensiero; poi si fece giorno, ma di partire nessun’ordine. Dovemmo restare tre giorni e tre notti, prima che decidessero di partire. A noi Italiani davano solo delle fette di pane e un pochino di margarina. Durante il giorno si usciva dalla stiva e si andava a prendere un po’ d’aria, ma solo per circa mezz’ora, e poi si doveva scendere di nuovo nella stiva, dove c’era sabbia, fusti d’olio e roba varia. Il convoglio, invece di proseguire per la sua destinazione, dovette cambiare rotta e approdare a un piccolo porto vicino a Stettino. Appena sbarcati, ci consegnarono alla polizia, che ci portò alla stazione, dove prendemmo un treno. Arrivammo a Rostock: appena giunti in stazione, suonò l’allarme; i civili li fecero scendere, mentre noi dovevamo rimanere in treno: per fortuna non ci fu nessun bombardamento. Finito che fu l’allarme, il treno ripartì, destinazione Amburgo. Lì ci consegnarono alle guardie, che ci portarono all’ufficio del lavoro. E da lì ci assegnarono a una piccola officina : rimanemmo lì in cinque, mentre altri ad altre destinazioni. Ci assegnarono al campo, non tanto lontano dalla fabbrica; vi era un capo che non era mai contento del lavoro; era un’officina privata, perciò costui voleva molto lavoro;
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secondo noi facevamo anche troppo, con la debolezza che avevamo, le forze erano quelle che erano, perché il mangiare era sempre poco; le notti spesso le passavamo ai rifugi, perché erano poche le notti che non c’era l’allarme; molte volte, appena cessava l’allarme, si ritornava alla baracca; sennonché risuonava di nuovo l’allarme e dovevamo ripartire per il rifugio, e così le notti passavano piene di paura e di disperazione. Dopo lo sbarco del giugno 1944 il fronte cominciò ad avvicinarsi e così cominciarono i grandi bombardamenti, di giorno e di notte, per intere settimane quasi sempre in preallarme: la vita era diventata insopportabile. Ricordo una sera, suonò l’allarme, e di corsa mezzo vestiti per la paura di non fare in tempo ad arrivare al rifugio. Appena giunti al rifugio, cominciarono a sparare le batterie antiaeree, fu una sera infernale, cominciarono a cascare le bombe, che facevano tremare i muri; non ci rimaneva che pregare di scampare a quell’inferno terribile: ci si salvò per miracolo. Appena finito il bombardamento, si uscì dal rifugio. Era un disastro! Palazzi che crollavano, case incendiate, gente che urlava, che chiamava, per ritrovarsi fra famiglie. Il mio rifugio fu salvo, mentre a trenta metri da noi c’era una grande chiesa : la metà fu distrutta, compreso il campanile. Quella fu una notte terribile, da non dimenticare! La città di Amburgo è una grande città, importante, piena di industrie e anche il porto è molto importante e di conseguenza i bombardamenti c’erano quasi tutti i giorni. E così i giorni sembravano mesi, i mesi anni, sempre con la speranza che finisse presto la guerra e di poter ritornare a casa, ad abbracciare le nostre famiglie, che anche loro avranno avuto il desiderio di rivederci sani e salvi. Ogni giorno che passava, si sentiva vociferare, non dai Tedeschi, ma dagli altri prigionieri, specialmente i Francesi, che la guerra doveva presto finire, e così riaffiorava in noi la speranza di potercela fare. Anche il nostro capo era un po’ cambiato, era diventato morbido, e questo ci dava il segnale che la guerra fosse vicina alla fine. Passavano i giorni e si cercava di avere notizie. Finalmente una mattina, mentre si andava a lavorare, si vide un gran movimento di gente che andavano all’edicola a comprare il giornale. Vi era esposto fuori un bollettino in grande scritta, che annunciava la morte di Hitler. Si vedeva la gente allarmata, qualche donna persino piangeva, mentre noi si cominciò a sperare che ormai la fine fosse vicina. Dopo qualche giorno, una sera, finito il lavoro, il nostro capo, che era sempre stato a noi ostile, cominciò a ragionare, tutto sorridente, con una faccia da brav’uomo, come non era mai stato. Ci annunciò che il giorno dopo sarebbero giunti gli Inglesi, l’Ottava Armata, e così fu. Appena rientrammo al campo, arrivò la polizia, ci ordinò di prendere la nostra roba e si partì di notte. Ci portarono in un vecchio teatro abbandonato e ci chiusero dentro; poi le guardie sparirono, perché sapevano che
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dovevano arrivare gli Inglesi. Erano stati fatti accordi che dovevano considerare Amburgo città aperta: questo significava che era vietato sparare in città; chi voleva resistere doveva andare fuori città. Verso la mezzanotte arrivarono i soldati inglesi. L’Ottava Armata Inglese. Finalmente, dopo tanta attesa, era arrivata l’ora della liberazione tanto sognata! Perché nei momenti crudi, tante volte avevo perso ogni speranza di ritornare a casa e poter riabbracciare la mamma, che tanto era adorata e desiderata, perché nei momenti più bui mi capitava di dimenticare anche le persone più care! Ripensando a quei giorni pieni di tristezza e angoscia, mi chiedo come avrò fatto a resistere alla tentazione di togliermi la vita, perché non restava la minima speranza di poter superare quei trattamenti bestiali, feroci, senza la minima colpa. Di trascorrere cinque mesi di quelle tremende giornate, che solo ora a ripensarci, mi sembra che non sia vero di aver potuto resistere a tante sofferenze. Speriamo che non avvengano più le guerre e che i nostri figli e nipoti non abbiano mai più a ritrovarsi a passare quello che abbiamo passato noi della nostra generazione. Mi resta da ringraziare la Divina Provvidenza, che mi ha dato la possibilità di tornare a casa sano e salvo e poter raccontare alle generazioni presenti quello che abbiamo passato, chi più e chi meno, ce n’è stato per tutti. Ringrazio Iddio che mi ha dato la forza di resistere e di superare quei tristi giorni. Prego che questo quaderno sia conservato, a ricordo delle mie successive generazioni. Un ricordo per sempre, vostro Ezio.
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TESTIMONIANZA RILASCIATA DALLA MOGLIE VERA, CON LA QUALE SI FIDANZÒ AL RITORNO DALLA PRIGIONIA E DALLA QUALE HA AVUTO DUE FIGLI, NEL MAGGIO 2008. Primo Degl'Innocenti era nato a Firenze l’11 gennaio del 1924. Ha vissuto a Prato, dove ha lavorato nel tessile. Partì per il servizio militare a 19 anni, fu assegnato al Corpo Lancieri Milano 4 di stazza a Voghera, il 9 settembre 1943. Insieme al suo battaglione fu preso prigioniero e internato nel campo di concentramento di Bremeworde, il 17 settembre 1943. Non avendo aderito alla Repubblica di Salò, non aderì neppure al lavoro di collaborazione con la Wehrmacht, rimase prigioniero e tornò in libertà ad Hamlury (1) il 10 settembre 1945. Quando era prigioniero dei Tedeschi, fu deportato ad Amburgo, dove fu addetto a lavori diversi dalla mattina alla sera: lavorava soprattutto a rimuovere i cadaveri degli uccisi nei bombardamenti della città e le macerie dalle strade. I prigionieri dormivano in brande infestate da pidocchi e ricoperte di ogni tipo di sporcizia, soffrivano la fame e il freddo. Questa vita, Primo, la fece per due anni. Ritornò a Prato con mezzi di fortuna, era spaventosamente dimagrito e si reggeva in piedi a fatica. Fu congedato nel 1945. Nel dopoguerra ha lavorato come fuochista alla fabbrica del Berretti, in via Paolo dell’Abbaco a Prato.
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Fotografia di Primo Degl’Innocenti scattata pochi mesi prima della sua deportazione nel campo di prigionia in Germania ad Amburgo. La foto è del 1942-1943.
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LA SUA FAMIGLIA ERANO SARTI DA GENERAZIONI, MA LUI CAMBIÒ MESTIERE E RACCONTA: A tredici anni sono entrato a lavorare come bobinaio, (in filatura) nella ditta Fratelli Valaperti, in via Bologna, a quel tempo era una fabbrica a ciclo completo. Nel 1942, mi arrivò la cartolina di leva. Fui mandato a Trento negli alpini, Divisione Tridentina. L’8 settembre ci comunicarono che la guerra era finita e noi soldati eravamo tutti contenti, si fecero tanti festeggiamenti insieme ai soldati tedeschi. La notte mentre si dormiva, i soldati tedeschi entrarono in caserma con i carrarmati e iniziarono a sparare, sparavano dalle finestre, di conseguenza ci fu un fuggi fuggi generale. Alcuni soldati morirono, altri furono presi prigionieri. Io fui fortunato, mi riuscì fuggire. Questo avvenne perché il comando tedesco diede ordine ai suoi soldati di disarmare gli italiani e di farli prigionieri. Nella fuga, fuori dalla città mi trovai in riva a un fiume dove incontrai il mio ufficiale di reggimento, così gli chiesi: “Cosa dobbiamo fare?” Lui mi rispose: “Scappare ognuno per conto proprio, basta salvare la pelle”. Ripresi il mio cammino e cammina, cammina, mi ritrovai sull’Altopiano di Asiago dove una famiglia mi diedero degli abiti civili, mi avevano avvertito che in quella zona, i soldati tedeschi facevano rastrellamenti e catturavano, gli sbandati e i soldati in fuga. Finalmente arrivai a Vicenza e salii su un treno, che speravo mi avrebbe portato a Prato. Avevo paura ma il viaggio fu abbastanza tranquillo. Arrivato alla stazione di Prato mi feci tutta la strada a piedi fino a Montemurlo, cercando di evitare la strada principale. Con la nascita della Repubblica di Salò, i soldati si dovevano ripresentare alla caserma. Sui muri delle piazze e delle case erano affissi i manifesti firmati da Almirante, c’era scritto che i soldati che non si ripresentavano, se veniva catturato sarebbe stato catturato come disertore. Io mi nascosi nei campi, ma andavo a mangiare a casa, solo però quando mi avvertivano che non c’era pericolo, oppure di notte. Mi incontravo anche con i prigionieri inglesi che erano fuggiti dal Campo di Concentramento che era a Bagnolo di sopra, dove c’era la Caserma dei Carabinieri, questi sorvegliavano i prigionieri inglesi. Dopo l’8 settembre, la sorveglianza gli aveva fatti fuggire e così si erano uniti a noi fuggiaschi e noi si collaborava con i partigiani. Per ordine dei partigiani, andai alle sede del CAI a Prato per prendere delle carte geografiche, della zona e soprattutto del Monte Javello e dell’Appennino Toscano. Questi viaggi erano particolarmente rischiosi. Cercavo di passare fra i campi e per viottoli poco frequentati, sapevo che se mi catturavano mi aspettava la prigione o il Campo di Concentramento. Dagli aerei inglesi
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a volte, avvenivano dei lanci di aiuti, soprattutto armi e viveri. Non sempre questi lanci venivano segnalati e una volta in un campo, trovai una radio trasmittente, era caduta lontano dall’obbiettivo, la raccolsi e la portai ai partigiani ai Faggi di Javello. I partigiani ricevevano messaggi cifrati da Radio Londra segnalavano la loro presenza, con dei segnali cifrati. Tutti i miei movimenti furono osservati da un vicino di casa che era fascista, fece la spia e i tedeschi mi catturarono. L’azione della cattura avvenne così; quando si vide arrivare i tedeschi, io mi nascosi sotto il letto. In casa avevamo degli sfollati che venivano da Prato. (In quasi tutte le case di campagna c’erano gli sfollati, scappavano dalle città per paura dei bombardamenti). In casa nostra, erano parenti e avevano due gemelli di pochi mesi, Piero e Paolo. I tedeschi sapevano con certezza che io ero in casa, gridavano che se io non uscivo avrebbero dato fuoco alla casa. Io pensai ai gemellini e alla mia famiglia, mi feci coraggio e mi presentai. Mi catturarono insieme al mio vicino di casa, a volte però non veniva centrato l’obbiettivo. I partigiani ricevevano messaggi cifrati da Radio Londra e i partigiani segnalavano la loro presenza con dei segnali. Tutti i miei movimenti furono osservati da un vicino di casa, lui era fascista, fece la spia e i tedeschi mi catturarono. L’azione avvenne così: Io ero in casa e quando si vide arrivare i tedeschi, io mi nascosi sotto il letto. In casa avevamo degli sfollati, venivano da Prato, ( come in quasi tutte le case sparse per la campagna, scappavano dalle città per sfuggire ai bombardamenti). La famiglia ospite nella nostra casa erano parenti e avevano due gemelli appena nati, Piero e Paolo. I tedeschi sapevano che ero in casa, gridavano che se non uscivo avrebbero dato fuoco alla casa. Io pensai ai piccolini e alla mia famiglia, così mi feci coraggio e mi presentai. Mi catturarono insieme al mio vicino di casa, si chiamava Franchi, ci portarono vicino a villa Giamari, eravamo una ventina, fra giovani e anziani. Insieme a noi c’era anche il Podestà di Montemurlo, Giuseppe Bessi. Questi mi disse: “Sergio come hai fatto farti catturare, sei giovane, potevi scappare”. Giuseppe però fu rilasciato, essendo fascista e per di più il “Podestà”. Successe che alla stazione di Montale Agliana fu ucciso un soldato tedesco. Per ritorsione i tedeschi fecero un rastrellamento e le prime persone che incontrarono le uccisero impiccandole alle piante della piazza del paese. fra gli impiccati c’era anche Giuseppe Bessi. Furono tenuti una settimana appesi agli alberi , e nessuno aveva il coraggio di andare a tirali giù. Noi che eravamo prigionieri eravamo molto impauriti, non sapevamo la sorte che ci aspettava. Dopo qualche ora che ci avevano preso, ci caricarono su un camion e ci portarono sulla collina pistoiese a scavare trincee, era il tracciato della Linea Gotica. Formarono delle squadre di lavoro. Si dormiva in alcune case di residenti che ci ospitavano, ci davano il rancio e il tè a
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merenda e io durante l’ora del tè scappai. Mi diressi verso Porretta. Il mio amico Natalino si diresse verso Pistoia, entrò in un campo minato, scoppiò una mina e gli furono amputate le gambe. Io proseguendo verso Nord, mi sono diretto al Monachino, dove incontrai un pastore che conoscevo. Lui mi chiese dove andavo e io gli raccontai la mia avventurosa fuga e desideravo tornare a casa. Lui mi consigliò di non andare, c’erano tedeschi in giro e mi avrebbero certamente ripreso. Era meglio se lo aiutavo a segare il grano. Così rimasi ad aiutarlo. Dopo un settimana arrivarono dei soldati tedeschi e ci catturarono. Fummo portati all’Aquerino a Ponte a Rigoli, in seguito sul Monte Bucciana, 1220 slm. di altitudine a scavare le trincee per le postazioni della Linea Gotica. Avevo l’ordine di andare a prendere l’acqua. I soldati tedeschi si fidavano di me. Un giorno non feci ritorno al campo, scappai e mi diressi verso casa. Sul monte Bucciasna si dormiva nelle rapazzole che sono capanne di frasche, la razione di cibo era uguale per tutti pane nero e margarina, eravamo solo noi due italiani ed una decina di Tedeschi. Quando finita la guerra, ho ritrovato il pastore che stava sul Monte Bucciana, quello cui avevo aiutato a segare il grano, mi disse che i tedeschi preoccupati per la mia sorte, non avendomi visto tornare mi cercarono per tutta la notte. Nel dopoguerra a Prato c’era crisi nel tessile, lessi sul giornale che cercavano operai per le ferrovie britanniche (per l’esattezza 25 operai): Mi presentai a Firenze nell’agenzia dove assumevano, eravamo in settanta, dopo la selezione siamo rimasti in venticinque,io che sapevo un po’ d’inglese fui assunto. Per 20 anni ho lavorato in Inghilterra, lavoravo a riparare binari, con un contratto di 5 anni tra Londra, Cambridge, Luton, Stewvenage e Hitchin. dopo 5 anni ero libero dal contratto ed ho lavorato alla ditta Marconi Instruments, dove si producevano impianti radar, fra i quali l’impianto dell’aereo supersonico Concorde. In questa ditta ho lavorato 56 anni, ho fatto ritorno a Montemurlo nel 1970. Per tutto il periodo che ho lavorato alla Marconi sono stato iscritto alle Trade Union. Quando sono tornato in Italia essendo pratico di Sindacato, mi sono iscritto nella Fiom, lavorando a Firenze nella ditta Sime, venivano prodotti telefoni, condizionatori d’aria, trasformatori ed impiantistica. Io lavoravo in attrezzeria, sono stato vicepresidente dell’associazione di Volantariato Auser di Montemurlo e fondatore del Centro Sociale Anziani Punto incontro di Oste, consigliere dei Combattenti e Reduci della Sezione di Montemurlo, e sindaco revisore dello SPI.
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Fotografia di Sergio Diddi. Reca la scritta: Ubi nos, ibi victoria (Dove siamo noi, là è la vittoria).
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Io pur non facendo parte dell’esercito ma della polizia, Polizia Africa Italiana, PAI, ci tenevo ad essere fra gli ex combattenti, infatti dall’Africa Orientale dov’ero di stanza, chiesi il trasferimento in Libia, nel ’38, prima della guerra. E son passato in Libia in forza alla Terza Compagnia Autoblindo del Battaglione Romolo Gessi, che era a protezione delle truppe italiane, alle spalle delle truppe a tutela degli attacchi degli arabi o anche dei commandos inglesi durante la guerra. Perché prima della guerra si pattugliava lo stesso, ma era più che altro un’operazione anti—contrabbando, se non che con lo scoppio della guerra è diventata un’operazione di guerra vera e la parte culminante del nostro intervento è stata nel settembre del ’42 quando un famoso comandante partigiano, guerrigliero chiamiamolo, inglese veniva ad attaccare le nostre forze nelle retrovie. Era riuscito a penetrare fino a Barce, dall’Egitto e ha attaccato il nostro aeroporto di Barce e distruggendo tutti gli apparecchi. Noi eravamo a riposo e abbiamo percepito che c’era qualche cosa che non andava perché eravamo in periferia, siamo andati a vedere di che si trattava e abbiamo trovato questo reparto di commandos inglesi con dei mezzi cingolati che avevano compiuto quella operazione e si avvicinavano alla città per attaccare il castello, che era poi il quartiere generale del Generale Dal Pozzo Della Cisterna. Ci siamo scontrati con loro e questo scontro è stato importante, perché chi ci attaccava, era un famoso capitano inglese di Commandos. La documentazione di questa operazione io poi l’ho trovata su un libro di memorie inglesi. Ci siamo scontrati a Barce nei primi di settembre del ’42 con l’esercito privato di Porkscy, una figura leggendaria per gli inglesi, infatti c’è un libro scritto sulle sue avventure e una delle pagine parla dello scontro che ha avuto a Barce con noi, vantandosi perché lo scopo lo ha raggiunto. Ha distrutto di sorpresa tutto il campo di aviazione che era enorme, ma protetto all’italiana, con superficialità, perché eravamo lontani dal fronte che allora era già El Alamein. Quando lui ha tentato l’attacco al castello ha incontrato noi. Incontrando noi, che avevamo percepito che non erano dei nostri perché viaggiavano con le luci abbaglianti perché non conoscevano la zona, quindi ci siamo scontrati, gli abbiamo dato i colpi di avvertimento e poi ci siamo scontrati. Lo scontro è stato favorevole a noi perché l’abbiamo messo in fuga, lui comunque si è salvato, questo egregio signore, perché nel disordine, era un uomo abilissimo, e stato ferito però lo dice anche lui ma comunque è riuscito a dileguarsi. Non l’abbiamo potuto inseguire nella nottata perché eravamo senza benzina, come al solito.. Normalmente eravamo senza benzina, si partiva con la benzina giusta per andare e per tornare.. si poteva andare per esempio dalla Cirenaica fino alle oasi. A Biregobi
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siamo rimasti fermi e poi ci hanno raggiunto con la benzina, perché a Biregobi era avvenuto uno scontro con gli inglesi e nel bel mezzo siamo rimasti senza benzina, ci hanno salvato venendo con i rinforzi e ci hanno rifornito di benzina perché le nostre autoblinde erano le più moderne che c’erano a quel tempo, erano le Spa 40, armate bene avevano una 20 millimetri di torretta, una I3 millimetri di torretta e una 8 millimetri a battente zero per la fanteria, pesavano 95 quintali. Erano mezzi potenti e c’erano 4 persone di equipaggio e son venuti a salvarci, eravamo 6 della nostra compagnia. E lo scontro che abbiamo avuto e che mi induce a considerarmi combattente, è questo.. questo l’ha riportato la tribù in entrata nel settembre ’42 prima del disastro che è incominciato a ottobre e poi a El Alamein. A comandare questa autoblinda ero io,. ecco perché mi sono fatto il vanto di scrivermi perché dal foglio matricolare mio risulta l’operazione, purtroppo la proposta al valore non ha avuto seguito perché poi è successo quello ad El Alamein, s’e perso tutto perché io ero vivo, ero contento di essere vivo. Comunque noi, questa compagnia abbiamo lasciato ritirare l’esercito a piedi e poi alle spalle ancora e siamo venuti via, noi ci siamo salvati fino in Tunisia, siamo ancora arrivati a partecipare ad operazioni in Tunisia, ad Hammamet dove c’è stata la più grossa battaglia, non nostra, la battaglia dell’esercito, noi eravamo di qua contro gli arabi perché mettevano le mine che gli davano gli inglesi, anti-uomo, alle spalle delle truppe, quando si ritiravano saltavano in aria e quando andavano avanti lo stesso, il nostro compito era di polizia, la considero una polizia di guerra, vale la pena che mi sia iscritto fra gli ex combattenti. Poi noi siamo stati sciolti e quegli che si sono salvati della PAI sono venuti a Roma al Ministero e Roma città aperta era presidiata dalla PAI, dagli ultimi rimasti perché i Carabinieri gli avevano portati via i tedeschi.. purtroppo i carabinieri hanno avuto vicende più gravi delle nostre, mentre noi siamo stati accettati per la difesa della popolazione, poi il corpo é stato sciolto.. noi siamo transitati nella pubblica sicurezza. Io mi sono salvato dalla Tunisia, mi sono salvato su una zattera insieme ad altri, comunque per la zattera dobbiamo ringraziare un siciliano che ci ha detto, eravamo sei o sette: “Io non voglio cadere sotto nessuno, io vado a Trapani” Era un pescatore siciliano: “Se volete venire con me mi fate compagnia”. Siamo saliti e ci siamo salvati, tutto lì.. e siamo transitati tutti noi della PAI, tutti prigionieri sono rimasti, pochi ci siamo salvati e siamo transitati nella Pubblica Sicurezza normale.. e ho finito la carriera Maresciallo Maggiore qui in Italia. Al momento della liberazione di Roma io non ho accettato di nuovo la prigionia e mi son dato latitante, non ho mai fatto prigionia in poche parole però per onestà mi son dato latitante ma non ho lottato né per l’uno né per l’altro..
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Dopo la guerra mi sono ripresentato ufficialmente e mi hanno inquadrato nella Pubblica Sicurezza. Il mio piacere di avere la tessera da ex combattente è dovuto al fatto che un’operazione vera.. E anche importante.. Perché le altre sono scaramucce del deserto, dicevamo sempre noi, perché erano carovane insomma l’unico scontro veramente... altre volte con gli inglesi ci siamo trovati in pieno deserto perché facevamo delle battute da 40 giorni nel deserto, ci siamo trovati.. noi al di qua di una duna e loro al di là della duna, ci siamo visti ma non ci siamo scontrati, loro sono passati di là e noi dall’altra parte, cioè non abbiamo ritenuto opportuno spararci a 300 chilometri dalla costa del deserto perché qualunque ferito era mortale. Quindi avevamo il buon senso di non scontrarci, se poi la possono considerare umiltà è lo stesso. Tra l’altro c’è da dire una cosa io la mia 20 millimetri l’ho provata per vedere che efficacia aveva di sparare contro un cingolato loro non bucavo niente. L'armi che abbiamo preso a loro, perché in quel caso gli abbiamo preso dei cingolati: ci sono stati dei morti, anzi ho avuto un caso particolare che poi qui non é documentato perché nella mischia ho visto una figura che veniva verso di me perché c’erano dei mezzi incendiati che facevano luce.. e ho visto che veniva verso di me e ho avuto l'impressione che avesse avuto un'arma e io ho fatto fuoco prima, successivamente quando li abbiamo portati all’ospedale e abbiamo ripulito la zona, sono andato all’ospedale e un Capitano che ho identificato era Sudafricano Inglese, dal letto d’ospedale mi ha puntato il dito contro e mi ha detto "sei stato te!" m’aveva riconosciuto. E sono andato a fargli gli auguri di guarigione. Poi ci siamo persi di vista, ho conservato di lui la matricola che ci hanno.. come ricordo personale.
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Fornello in uniforme. Fotografia scattata in uno studio fotografico.
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Fornello insieme a due membri della Polizia Africana Italiana.
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Lavoravo in tipografia fino a quando sono partito nel gennaio del 1943 a 19 anni e ½. Dapprincipio sono stato militare in provincia di Salerno a Pontecagnano, in fanteria. Poi da lì dopo 5 o 6 mesi partenza per Rodi, cioè siamo andati in Grecia e poi a Rodi. Mi ricordo di un particolare, quando eravamo in tradotta in Grecia incontravamo le tradotte tedesche che viaggiavano in senso contrario e ci gridavano “Mussolini! Mussolini!”, perché era caduto Mussolini, perciò era la fine del luglio del 1943. Poi ci imbarcarono e arrivammo a Rodi poco prima dell’8 agosto. Successero le cose più strane e per fortuna uniche, perché se si pensa ai marinai di Stampalia, se si pensa a tutti quelli che erano in quelle isole e li hanno massacrati come fossero animali, noi siamo stati fortunatissimi. C’era l’Ammiraglio o Generale Campioni che poi è stato fucilato dai fascisti. Per due giorni abbiamo guerreggiato, poi cessarono i combattimenti, pare che ci fosse un accordo tra le alte gerarchie. E dopo lì, è roba da ridere, noi siamo stati ancora un mesetto con le armi in mano, senza sparare. I Tedeschi da una parte e gli Italiani da un’altra, perché i tedeschi erano la decima parte di quello che eravamo noi. E’ vero che avevano i carri armati ed anche il campo di aviazione, però come numero non c’era nulla da fare, se si fosse fatto una battaglia la peggio l’avevano loro. E poi piano piano ci hanno disarmati, hanno trovato volontari fascisti nell’esercito e ci hanno riuniti varie volte in qua e là per sentire chi voleva andare con loro. Vicino a noi c’era un reparto della IV Legione della Milizia di Firenze, tutta gente anziana, e di loro non c’è stato nessuno che è andato volontario, non uno. Per regola dovevano essere loro i primi, neanche uno. Qualcuno dell’esercito, pochi, invece c’è andato. Quelli che siamo rimasti, piano piano ci hanno disarmato tutti. Addirittura tra ufficiali italiani e tedeschi ci fu una specie di accordo, in questo senso: non si fa la guerra e allora facciamo loro far qualcosa e allora ci facevano spalare la terra, potare gli ulivi, cose così. Però man mano che si andava avanti la cosa peggiorava, perché diventavano sempre più esigenti. Finché hanno deciso di portarci via e ci hanno caricato sulle navi carboniere, che per scendere giù dal boccaporto ci si calava giù con una fune, molti cascavano giù, qualcuno s’è fatto anche male. Quando era troppo pieno tiravano secchi d’acqua, facevano il posto e giù degli altri. Proprio, proprio quando non c’entravano più, qualcuno lo misero in coperta. E lì siamo stati quattro giorni in giro per quelle isole fino al Pireo. I Tedeschi, giovani marinai, ci buttavano le croste del pane. In quelle carboniere è incredibile raccontare i fatti, dovevamo fare lì i nostri bisogni e senza mangiare e senza bere, quando si scese eravamo finiti, si dormiva uno sopra all’altro, perché anche se in piedi c’era posto, distesi non c’entravamo. Pare che una di
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queste carboniere, pare, voce di popolo, che l’abbiano affondata gli Inglesi1 . E poi in Grecia, una marcia dal Pireo ad una zona di Atene, mi pare che fossero baraccamenti dell’aviazione, una fame incredibile, quelli sono stati i peggiori giorni. Poi da Atene ci hanno caricati in treno. In treno ci siamo stati una decina di giorni perché s’andava a passo di lumaca. Si fece un pezzo di Grecia, e poi su su, ad un certo punto un ufficiale ci disse: “Questa è la puzsta”, allora si disse. “Siamo in Ungheria, chissà da dove ci hanno fatto passare”, perché non si vedeva nulla. Fino al campo di concentramento, vicino a Brema, era un paesino piccolo. Lì a lavorare all’aperto a fare costruzioni, perché doveva nascere un piccolo stabilimento prefabbricato in cemento, però era tutto da fare, addirittura si trattava di spianare un poggiolo per riempire una buca che costeggiava la ferrovia, per fare il piano dove doveva nascere questa fabbrica. Sei di noi, nell’aprile 1945, ci mandarono sul fiume Weser a scaricare un battello carico di rena mescolata a scarti di altoforno, perché facevano le placche per coprire. Ma s’era proprio agli sgoccioli; gli Inglesi, noi fummo liberati da loro, avanzavano giorno dopo giorno, e allora si fece la fuga. Eravamo guardati da un nazista, non un militare: aveva una fascia al braccio; noi sei si dormiva in un vagone e lui aveva uno spazio tutto suo e dormiva lì. Era armato, ma chi scappava, dove si andava, non c’era verso; però quando ci fu un bombardamento piuttosto forte, bombardavano questo porticciolo, si disse: “Se si sta qui si fa una fine brutta, cosa si fa?”. Eravamo tre per andare via e tre per rimanere, perché non si sapeva quello che succedeva. Però a mezzanotte s’andò via tutti, si chiese per andare verso gli Alleati e ci fu detto: “Risalite il fiume controcorrente, non c’è modo sbagliare, andate in bocca agli Alleati”. Si partì di notte, era un buio!… e quando cominciò ad albeggiare si vide un fienile e si stette lì per altre due notti. Il giorno due ebbero il coraggio di affacciarsi per vedere: c’erano delle russe che lavoravano nei campi. Poi la mattina del secondo giorno, cannonate, con quei proiettili trancianti. Erano gli Inglesi. Noi si sortì, c’erano certe file di carri armati! Poi, finita la guerra, siamo rientrati passando dall’Austria. Quando arrivai in Germania in campo di concentramento trovai un aretino, era pelle e ossa, che mi disse: “Voi farete presto parte di un trasporto (cioè sarete smistati), cercate di evitare le fabbriche, perché in fabbrica ci rimanete, è il peggior lavoro, vi fanno lavorare 11 ore al giorno e poi non è che la fabbrica sia vicina al campo, vi tocca sorbirvi 7 o 8 chilometri ad andare la sera e 7 o 8 chilometri a tornare la mattina, e i bombardamenti, e il mangiare scarsissimo”. Invece lì dove eravamo noi, qualcosa si trovava, io ho mangiato baccelli e piselli, ho trovato patate, e devo dire la verità, la gente del posto, anche perché contadini, qualcosa ci dava. Addirittura i prigionieri francesi in quella zona erano liberi, forse il padrone doveva rispondere se mancavano
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per un giorno. Una volta venne un belga con un carro a chiedere al comando militare se uno di noi gli poteva dare una mano: ero lì e mandarono me. Anche lì stetti bene, non lavorai tanto, lui mi diede una parte del suo mangiare. Poi un’altra volta un contadino, era arrabbiato come una bestia, aveva il figliolo in Italia, era sempre a brontolare del nazismo. Lo diceva a me senza farsi sentire. Poi ci hanno rimpatriato. Mio fratello ha avuto una sorte peggiore. Lui da principio era al Distretto a Firenze, era un mezzo imboscato. Poi come succede, presero tutto il reparto e li mandarono in Russia. Mio fratello non era nemmeno un uomo da Russia. Era giovane, aveva quattro anni più di me, del 1919. Poi, grazie alla testimonianza di uno che era insieme a lui, abbiamo saputo che era stato fatto prigioniero e messo in un campo medico, una specie di ospedale all’aperto, pare avesse dei congelamenti, ma i Russi non avevano mezzi per curarlo, quindi c’è morto. Poi fu la volta del mio babbo. I fascisti, per rappresaglia a qualcosa che era successo, io non lo so perché non c’ero, ne presero 400. Ne sono ritornati una decina. Il mio babbo è morto nel castello di Harthaiem2, dove facevano gli esperimenti, li facevano a pezzi. Ce l’ha detto uno che è ritornato, non da Harthaiem, si chiama Franchi come me, l’avevano mandato lì destinato come tutti alla morte. Noi si stava in vicolo 29 Agosto, vicino a dove c’è il Cinema Borsi: fu bombardato e ci cascò una bomba proprio sulla casa e il mio babbo era disperato, aveva una bambina e allora disse: “Bisogna darsi da fare” e andò a lavorare; mia mamma gli disse: “Non andare, sono momentacci”, ma lui volle andare lo stesso per vedere se guadagnava qualcosa per fare delle riparazioni. Li presero tutti fabbrica: erano una ventina e non sono più tornati. Li presero i repubblichini italiani, non i Tedeschi.
1) Più probabilmente la nave affondò a causa di una mina: vedi le testimonianze di Loris Pacini e Giorgio Orlandi. 2) Si tratta del castello di Hartheim, presso Linz, in Austria, centro di sterminio.
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GIUSEPPE MARANGON È NATO IN UNA FAMIGLIA DI CONTADINI BENESTANTI Possedevamo una cascina con terreni, bestiame e prodotti vari, che ci hanno sempre assicurato il pane. Fui richiamato alle armi nel mese di marzo del 1940 e assegnato come musicista all’orchestra dell’esercito a Bolzano, Comp. Com. 232° Rgt. Frt. HA PARTECIPATO CON DETTO REPARTO ALLE SEGUENTI OPERAZIONI DI GUERRA: - DALL'11 AL 21 GIUGNO 1940 SUL FRONTE ALPINO OCCIDENTALE (PASSO DEL MONCENISIO). - DAL 26 DICEMBRE 1940 AL 24 APRILE 1941 SUL FRONTE GRECO-ALBANESE. - DAL 18 NOVEMBRE 1942 ALL’ OTTO SETTEMBRE 1943 SUL FRONTE DEL MEDITERRANEO CENTRALE, (PIÙ PRECISAMENTE DALL’11 OTTOBRE 1942 NELL’ ISOLA DI RODI FINO AL 7/9/1945)1 . Io sono sempre rimasto nell’orchestra dell’esercito, suonavo musica operistica, concerti, marce funebri e altro. Poi con l’entrata in guerra dell’Italia, furono diminuiti gli orchestrali e io fui mandato in Grecia, dove mi ammalai di otite e perciò trasferito a Rodi, sempre come musicista nell’orchestra dell’esercito. In questo periodo abbiamo tenuto un concerto anche a Cefalonia, in un teatro dell’isola per i soldati italiani. Fino al 1943, il nostro maestro d’orchestra era italiano e le musiche presentate o trasmesse erano di autori italiani. Invece dopo l’armistizio di Badoglio abbiamo avuto un maestro tedesco e abbiamo eseguito musica tedesca, per i tedeschi, ma continuando a suonare nei teatri, nelle piazze e in tutte le manifestazioni che lo richiedevano, anche marce funebri. L’orchestra di cui facevo parte era denominata “Radio Tre” e trasmetteva musica anche via radio fino al 1943, dopo un aereo tedesco volando a bassa quota distrusse l’antenna, impedendo le trasmissioni e isolandoci dal resto del mondo, e non solo per la musica. Con l’arrivo dei tedeschi le cose cambiarono parecchio per noi italiani. Ai soldati presenti a Rodi veniva detto che se volevano tornare in Italia potevano farlo, infatti i tedeschi avevano già messo a disposizione una nave che in poco tempo si riempì di soldati italiani desiderosi di tornare. Però le condizioni vistosamente precarie del mezzo e la mancanza a bordo di militari tedeschi, faceva pensare a qualche tranello, e i tedeschi erano bravissimi in questo. Io per esempio non ci sono salito perché non mi fidavo. Quelle navi infatti vennero bombardate e affondate. Ma sull’isola anche dopo questo primo incidente, i tedeschi buttarono dagli aerei una pioggia di volantini, nei
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quali si diceva che i soldati italiani non erano colpevoli di niente, chi voleva poteva ancora tornare in Italia con un’altra nave. Ma non era così, perché anche quella nave venne affondata. Io lo so perché alcuni commilitoni mi avevano dato l’incarico di scrivere alle famiglie della loro partenza, e nessuno di quelli è mai tornato a casa. Dopo l’otto settembre 1943, nel porto di Rodi c’era un rimorchiatore che traghettava i prigionieri in Turchia, distante una decina di chilometri. Ho visto quel rimorchiatore carico, stracolmo di soldati italiani, gli uni sugli altri, perfino aggrappati alla fune che lo teneva ancorato al molo. Lo spettacolo mi è rimasto fisso negli occhi e non potrò mai dimenticarlo. Ormai l’isola era in balia della guerra, noi eravamo prigionieri e nemici, sottoposti ad inganni, atrocità e ritorsioni di ogni genere, ma furono anche tanti, tra i nostri, gli episodi di resistenza eroica e di grande umanità. Dopo i bombardamenti, i tedeschi mandavano i prigionieri italiani a disinnescare le bombe inesplose, molti morivano perché non erano addestrati. A Rodi ci fu un periodo di fame nera, non si trovava più niente, le persone morivano per la strada. Noi prigionieri si mangiava l’erba dei campi, ma era poca anche quella in quel pietraio, e poi una specie di patatine selvatiche, i tuberi dell’”asfodelo”, pianta molto numerosa in quelle zone, che avevamo il compito di raccogliere se volevamo sopravvivere. I prigionieri italiani sull’isola dovevano lavorare per i tedeschi, di giorno lavoravano per loro, ma di notte, non visti, costruivano degli zatteroni con tronchi o vecchie tavole, che legavano insieme, alla meno peggio, con filo di ferro, e usavano per fuggire in Turchia. Purtroppo non tutti ebbero la fortuna di arrivare, perché il continuo movimento delle onde scioglieva o strappava le legature delle zattere. GIUSEPPE MARANGON TRASCORRE TUTTA LA PRIGIONIA A RODI, TORNÒ IN ITALIA ALLA FINE DELLA GUERRA, LUGLIO DEL 1945, SBARCANDO A TARANTO. GIUSEPPE RACCONTA CHE ALL’ ARRIVO I SOLDATI FURONO ACCOLTI E CONCENTRATI IN UN CAMPO DI ACCOGLIENZA, DOVE RIMASERO PER QUARANTA GIORNI IN OSSERVAZIONE, CONTROLLATI DAI MEDICI E SOTTOPOSTI A CURE E VITTO SPECIALE PER RIABITUARSI A VIVERE IN MODO NORMALE. Rilasciandoci per tornare alle nostre case, ci hanno detto che da quel momento potevamo mangiare quanto volevamo e di tutto. Arrivato a casa, io sentivo dentro ancora tanta fame, che trovando pronto un bidoncino di “pastone” per i maiali, me lo sono mangiato tutto. PIÙ TARDI I REDUCI DI QUELLE TRAGEDIE, COSTITUIRONO UNA ASSOCIAZIONE NAZIONALE INTITOLATA: “REDUCI DELL’EGEO” CON SEDE A MILANO. GIUSEPPE NE HA FATTO PARTE, NE SONO TESTIMONIANZA LA TESSERA DI SOCIO, ALCUNE RIVISTE E DUE LIBRI, L A
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RODI E DELL’EGEO DI D. EDOARDO F INO , E I PRIGIO ERI DELL'ISOLA DI RICCARDO S ANTE MINA2. NEL PRIMO ALCUNI REDUCI RACCONTANO LE LORO ESPERIENZE IN MODO ESAUSTIVO, IN UNA VISIONE STORICO- GEOGRAFICA AMPIA E QUANTO MAI UTILE E NECESSARIA DA RICORDARE, IN UN CONTESTO PERSONALE DI MICROSTORIA E S TORIA DI FATTI DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE, IN UN PRECISO SPAZIO GEOGRAFICO. UN VOLUME PREZIOSO, VIBRANTE DI VITA VISSUTA, RICCO DI IMMAGINI SIGNIFICATIVE DEI LUOGHI, DEL PAESAGGIO, DEGLI AVVENIMENTI E DEI PROTAGONISTI. L’ ALTRO LIBRO CONTIENE IL RACCONTO AUTOBIOGRAFICO DEI FATTI: TESTIMONIANZA E OMAGGIO A QUANTI, AMICI, MILITARI E CIVILI SOFFRIRONO E PERIRONO. TRAGEDIA DI DIME TICATA
L’ASSOCIAZIONE “REDUCI DELL’EGEO”, SI È ORMAI SCIOLTA, IN QUANTO, ESSENDO I SOSTENITORI TUTTI IN ETÀ AVANZATA HANNO DATO LE DIMISSIONI. L’ INCASSO CHE ERA RIMASTO È STATO DEVOLUTO ALLE FAMIGLIE BISOGNOSE.
1) Nota rilasciata dal tenente di Fanteria in congedo, già Comandante la Comp. Comando del 232° Rgt. Ftr. della Divisione Brennero Francesco Scotti (Milano 3 febbraio1987), dal 19 marzo del 1940. 2) D. Edoardo Fino La tragedia di Rodi e dell'Egeo Assegeo, Milano 1963; Riccardo Sante Mina I prigionieri dell'isola dimenticata. Rodi 1942 – 1945 Todariana Editrice, Milano 1985.
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Fotografia di Giuseppe Marangon con un amico a Rodi, scattata in data 6/10/1940, XVIII dell’era fascista
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La banda militare di cui faceva parte Giuseppe Marangon a Rodi.
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Altra fotografia della banda di cui faceva parte Marangon. La fotografia reca l'indicazione dei nomi dei militari e la data dello scatto: Isola di Rodi 1943
Un piccolo gruppo di appartenenti alle Bande regg. li del 213째 e 232째 Ftr. "Brennero". Fotografia scattata in occasione delle gare di atleltica della divisione, Atene 7/12/1941.
(Aprile ???).
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Foglio di congedo di Giuseppe Marangon
Le fotografie della pagina predente sono state gentilmente inviate dalla sig. ra Francesca Neri, figlia di Duilio Neri, compagno di Marangon nella banda musicale. Si ringrazia la sig. ra Francesca eri per averne concesso l'utilizzazione.
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Durante la mia gioventù, da ragazzo dopo le scuole elementari, sono andato a lavorare nelle Puglie: si segava il grano a mano ed io insieme al mio babbo si raccoglieva in covoni. Dagli Abruzzi c’è un fiume che divide dal Molise e ci sono 6 giorni di cammino per arrivare fin lì a fare la mietitura, che durava 10-15 giorni. Andavamo laggiù perché il grano maturava prima e poi si faceva da noi. Mio padre, come pure io, era giornaliero di campagna, ho sofferto tanto da giovane fino a 20 anni. Si viveva sotto quel regime e io non conoscevo altro. Era un paese di 1.500 abitanti, non c’era un gabinetto pubblico, non c’era neanche per le case, andavamo chi alla stalla, chi fuori, insomma quando pioveva non si poteva camminare per le strade da quanta merda c’era per lì. Insomma da 11 anni mano a mano che crescevo lavoravo in campagna e facevo altri lavori con mio padre per arrangiarci così, per vivere, ma come soldi non ce ne era mai nessuno. Quando ebbi 16 anni, mio padre andò come lavoratore in Africa, rimasi io come capofamiglia. E insieme ad altri 70 o 80 andammo a segare il grano, perché lì si guadagnava qualche soldo. Quando il padrone ci ha pagato ci toccava 117 lire e ½ per uno. Lui non aveva spiccioli, così ci ha dato 115 lire per uno e le altre 5 da dividerci in due. Così abbiamo fatto il viaggio di ritorno, tutta la notte a camminare, s’arriva al paese e con l’altro che viveva con i genitori in campagna ci si mise d’accordo che scambiavo io le 5 lire e lui sarebbe venuto la sera a prendere la sua parte. Io sono andato a casa che faceva giorno, mi sono addormentato tutto il giorno e mia mamma a chiamarmi per mangiare, ma io non ce la facevo ad alzarmi. Tanto è vero che quando tornò questo mio compagno di lavoro, che aveva qualche anno in meno di me, io avevo 16 anni e lui ne poteva avere 15, mi svegliò e mi chiese se avevo scambiato e io che vedevo scuro gli dissi: “Aspetta che si fa giorno”. “Ma è sera”, mi fa lui, “Non hai neanche mangiato”. “Va bene”, gli dico io, “va a cambiare in bottega”. Mi sono cambiato e sono uscito, ma non c’erano bar, c’erano solo cantine dove giocavano a carte, ed il dopolavoro, vicino al Comune. S’arriva su nel salone grande del dopolavoro, che io non c’ero mai stato prima, perché ci andavano solo gli adulti fascisti: era il ritrovo loro. Si va lì, ho aperto la porta al primo piano, “Buonasera”, e sono andato verso il banconiere, c’era un banconiere, giocavano… Allora il segretario politico del Fascio, aveva 26 anni, era il capozona, già che a noi non ci poteva vedere da piccini, perché non c’erano altri giochi e si giocava a nascondino tra di noi e diceva che facevamo schiamazzi notturni; noi quando arrivava si doveva scappare, perché se lui riferiva le buscavo anche da mio padre. Allora “Buonasera” e siamo entrati io e l’altro e il banconiere arrabbiato: “Qui non potete venire, qui si consuma”. Il segretario aveva visto questo scambio di parole e
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vedeva che io insistevo: “Allora dammi quattro soldi di caramelle”. Il segretario si avvicina, mi guarda e dice: “Esci fuori”; io ero ancora tra il sonno e “Buonasera” gli dissi e lui mi spingeva. “Piano a spingermi, io non ho fatto mica nulla!” e nel frattempo che mi spingeva mi tira uno schiaffo; non ci ho visto più e con un cazzotto quel bussolotto che aveva in testa gliel’ho fatto volare per l’aria. Lui si è rialzato per tirarmi una pedata, ma non mi ha trovato e giù con la schiena in terra. Io potevo scappare, ma mi sono fermato al portone e sono arrivati altri fascisti. “Non t’avvicinare, che ti mangio vivo” gli dissi. Il giorno dopo con due militi della milizia mi hanno portato dal brigadiere dei Carabinieri. Ci volevano due ore di cammino e con uno per parte sono andato per raccontargli il fatto e tornare a casa. Gli ho fatto la relazione e quello chiama un carabiniere e mi mette in cella. C’era un tavolaccio. Quando ho visto la porta chiudersi mi sono messo a piangere: ero un ragazzino. Dopodiché la sera pensavo: “Mi impaurisce e mi manda a casa”; invece mi manda al carcere e ho fatto 21 giorni di carcerato in attesa di giudizio e io invece dovevo andare a giornata per prendere qualche lira. Dopo mi manda a chiamare il Procuratore del re e mi dice, dopo che ha letto la relazione, “Sei contento che ti mando a casa stasera?”. “Porca miseria”. “Però, mi devi promettere che a quell’uomo, se ti riesce, cerca di stargli lontano e se non ti riesce girati dall’altra parte e fingi di non averlo visto”. Insomma una lezione. “Perché tu hai davanti a te un avvenire e non te lo devi rovinare”. Dall’indomani andai a lavorare a fare una casa a L’Aquila e guadagnai 100 lire, 80 se ne andarono per l’avvocato al processo, con il giudice e la giuria. Mi ricordo l’avvocato della difesa: “Signori ho da difendere un ragazzo, un ragazzino tornato dal lavoro si reca in un locale dove non era stato mai visto. Il segretario politico abusa dell’età, 16 anni, e abusa dell’autorità e si scaglia a pugni e calci contro il ragazzo buttandolo fuori. Il ragazzo si è difeso, chiedo l’asso1uzione per non aver commesso il reato” e chiuse. Poi insomma arrivai a 20 anni. Io ero del 4° quadrimestre del ’19, il 2° quadrimestre è partito con il ’18 e io sono rimasto in attesa di chiamata. La chiamata direttamente in Albania l’8/11/39 a Durazzo. Poi sono stato nella zona di presidio finché non è scoppiata la guerra con la Grecia e siamo stati i primi ad entrare, per poco, perché poi ci hanno mandato indietro. C’era di già una divisione in linea e poi noi siamo andati a piedi fino al lago di Ocrida e poi c’erano le autocarrette. Io ero alla reggimentale, radiotelegrafista, poi passato di grado, ero responsabile di tutti i collegamenti, telefonisti, segnalatori, apparati ottici, allarmi tricolori, con gli apparecchi. Poi c’era il
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maresciallo ed io sotto di lui. Sono rimasto ferito nella guerra con la Grecia, il 26/11/40, sul lago di Ocrida. Eravamo sul confine, c’era ancora il trincerato del 1° conflitto mondiale. Sono stato operato alla scheggia interna che era rimasta dentro all’anca, ho preso la pensione. Ci fu il raduno a Pistoia e il cappellano militare mi domandò quanto prendevo di pensione “Nulla!” “Ma come! Ti fo la domanda io”. Mi mandarono in licenza, un mese, da Durazzo con la nave ospedaliera, a Bari, sempre con il treno ospedaliero, poi dopo, un mese di convalescenza. Zoppicando ancora, m’hanno fatto idoneo e rimandato in Albania, a marzo. Il 7/4/42 finì la guerra e mi misero come sergente di smistamento. Eravamo ai confini della Grecia in attesa di andare nel Peloponneso, a riposo; invece ci fu la rivoluzione in Montenegro e con i mezzi di fortuna ci hanno portato lì a fare la controrivoluzione e siamo rimasti di presidio fino al ’43 e abbiamo combattuto i partigiani di Tito. Io andavo a Podgoriza a prelevare il materiale perché eravamo a Berani. Poi nel ’43 dopo l’8/9 siamo stati in attesa, . . .“verranno gli americani, verranno i russi...a liberarci” e non ci venne nessuno. Eravamo in 20.000, c’erano Carabinieri, c’erano Finanzieri tutti aggregati alla divisione "Venezia", all’83°, il mio reggimento. Una notte buia si sentiva: “Non sparate, siamo fratelli”. I Tedeschi ci garantivano vitto e alloggio. Ci si spostava in qua e là, una volta s’era a Berani, una volta a Bieropolie... ma la maggior parte della divisione con i generali prese contatto con i partigiani. I partigiani ci hanno trattato bene, nel senso che non ci hanno ammazzato, perché il male che gli avevano fatto gli Italiani, noi forse un po’ meno, io per niente, però ho visto bruciare le case. Siamo rimasti lì a Bieropolie, mentre a Berani è andato l’84° fanteria. Io dapprima non volevo combattere con nessuno e rimasi lì nel battaglione dei lavoratori. Poi fu formata la terza brigata Garibaldi e fummo destinati ad andare in Bosnia, dal Montenegro a piedi in Bosnia, eravamo circa 1.300. Io ho mandato questa lettera con la mia storia ad un compagno partigiano per farmi riconoscere anche a me la qualifica di partigiano: «Le trasmetto tutti i miei dati di guerra, come d’accordo, per scrivere la lettera al Presidente Pertini. Nel 1939 assegnato all’83° fanteria Venezia in Albania e rimasto con il reggimento presidiario. Il 28/10/1940 sempre con l’83° fanteria ho partecipato alla guerra sul fronte greco—albanese ed il 26/11/1940 nella zona di Zagorician rimasi ferito da una scheggia di mortaio 81, all’anca sinistra. Dopo alcuni mesi, tra ospedali e convalescenza il 12/5/41 mi rimandarono di nuovo in Albania per raggiungere il mio reggimento 83° fanteria. Il 26/7/1941 sempre con l’83° fanteria mobilitato in zona di operazioni nel Montenegro da Cettigne, da Berani, Bielopolie ecc. e da questa data fino all’8/9/43 sono rimasto di presidio sempre con lo stesso reggimento sino al giorno dell’armistizio. Dal 1943 al 1945 ho combattuto con la terza Brigata Garibaldi, contro i
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Tedeschi nella zona del Montenegro e precisamente Colascin, Berani, Bielopolie, Plevia, Andrevizza, ecc. ed altre zone del Montenegro. Detta brigata, composta da circa 1300 partigiani misti: Fanteria, Alpini, Guardie di Finanza, Carabinieri ed altri corpi, fu trasferita in Bosnia per raggiungere il 3° corpus, 6° Armata Jugoslava e durante il percorso fummo attaccati dagli Ustascia croati e ci fu un combattimento dove si ebbe molte perdite. Il comandante di brigata Maggiore Rainieri morì con degli alpini. Prese il comando il Capitano Berté della Guardia di Finanza e si arrivò a destinazione cioè 3° corpus, 6° Armata Jugoslava poco più della metà, e dopo formarono un battaglione, ed in seguito a combattimenti rimase solo il nome di una compagnia». In questo tempo io fui richiesto al comando del 30° corpus Jugoslavo in qualità di radiotelegrafista, perché nell’esercito ero sergente maggiore, istruttore marconista e tramite il comandante della mia ex compagnia reggimentale Tenente Giovanni Giovannetti, mi fece accettare detto posto. Appena accettato feci servizio come marconista al comando del 3° corpus Iugoslavo, e poi dopo un po’ di tempo costituirono una nuova divisione partigiana jugoslava ed io fui assegnato sempre come radiotelegrafista al comando di questa 38° divisione con la quale ero sempre in collegamento col comando del 3° Corpus ed altre brigate jugoslave. Da questo tempo persi il contatto con i resti della mia brigata. Così i resti della Brigata partigiana (io non ho saputo più nulla — io sapevo già la loro lingua tenevo una ragazza lì — lo parlavo proprio bene e lo parlo ancora se mi capita qualcuno — sono stato sei anni laggiù) tornarono il mese di aprile o maggio mentre di me non sapevano più nulla (tanto è vero che mi avevano dato disperso — la guerra era finita ma continuava la ricerca dei fascisti Ustascia — sono stato alla liberazione di Sarajevo — anche perché hanno visto che io non ero fascista), che da ultimo mi fece questo trasferimento. Sono tornato il 5/8/45 (disse Pertini ad una commemorazione che di 20.000 solo 4.000 sono tornati). Praticamente la brigata fu disfatta in seguito a combattimenti e morti anche dal tifo petecchiale ed altre malattie. Questo è il mio racconto della guerra partigiana e quell’altra, ora voglio raccontare dopo il 1945. Mi trovo a casa con i miei genitori, avendo mio fratello disperso in Russia: (era morto c’è la piantina dove è sepolto, ma non si possono recuperare i resti perché è in una fossa comune); sono senza lavoro: (mi avevano dato qualche soldo a Bari, ma li detti in casa — sono stato costretto ad andare a lavorare al frantoio che schiaccia i sassi, per fare la ghiaia, al frantoio per fare l’olio, a fare i mattoni, a scegliere l’argilla, e lì mi sono procurato i soldi per sposarmi, ché mia moglie aveva la casa). Nel 1946 ero come avventizio all’ufficio postale del mio paese (perché la signorina titolare ha visto che ero bravo al telegrafo e mi ha detto “Stai qua che dopo regolarizziamo l’assunzione”) di nome Tufillo, provincia di Chieti, 1500 abitanti, e
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dopo alcuni mesi di lavoro (un anno o poco più) e di speranza per avere un posto effettivo, mi buttarono fuori, con una lettera anonima (non so cosa hanno scritto — perché in quel posto ci volevano un figlio di qualche proprietario di quelli che erano fascisti prima e democristiani poi), senza un motivo. Mi allontanai e feci domanda all’ltalcable a Roma. Mi chiamarono e mi fecero fare gli esami su che tipo di radio conoscevo. Tutto bene, così ero in attesa di chiamata, mentre dopo qualche tempo fui bocciato, senza una specificazione (avevano però chiesto informazioni al paese con una lettera). Allora nel 1947 mi sposai e, durante un certo periodo, il lavoro non c’era ed io partecipai ad uno sciopero per creare un lavoro almeno per un po’(una strada per collegarci con Vasto al mare evitando un giro di 40 Km), perché disoccupati eravamo tanti e maggiormente i reduci e come partigiano ero l’unico. Mentre si svolgeva questa manifestazione, uniti ad un altro paesino vicino chiamato Lentella, intervennero i carabinieri con le armi ed ammazzarono due lavoratori capi famiglia. Insomma ce ne sarebbe tanto da dire, ma lei mi capisce al paese mio è cambiata la musica, ma i suonatori sono rimasti gli stessi, prima erano i fascisti e dopo i democristiani. Tant’è vero che quando si votò per la Repubblica eravamo 27 su trecento e più votanti, tutti per il re. Tanto è vero che lo zio di mia moglie ha saputo che io votavo per la Repubblica: aveva una botteguccia, accomodava gli orologi, un po’ di merceria; gli risposi io: “Io voto per la Repubblica, e se poi non va, ho girato il mondo… ho conosciuto tanto…”. Poi mi sposai con lei: è morta a gennaio. Nel 1970 ci morì un figliolo in motorino su un ponte: quello che lo investì non era neanche assicurato; durante la causa civile l’avvocato mi disse di lasciare perdere perché non aveva nulla e io l’ho perdonato. Ho patito tanto nella mia vita. Dal 1947 fino al 1955 ho subito tante ingiustizie sempre perché io avevo fatto parte delle file partigiane. Nel 1951 venni cercare del lavoro da solo a Prato. Poi tornai sempre da solo nel 1955 e il lavoro c’era: io faccio il muratore, e allora portai su anche la famiglia. Avevo tre figli e due mi sono nati qui. Sono partito senza nulla; mia moglie aveva la casa, ma non s’è venduto niente, solo un ciuchino, presi 45.000 lire per il viaggio e quello che ci voleva; ci siamo rifugiati a casa di mia mamma, che aveva comprato con un regalo di uno zio d’America, suo fratello. Di lì ho comprato un po’ di terra dove sto ora io a Tobbiana, 30 metri per 9 e ci feci una baiadera ad avanza tempo: l’ho scavata tutta a pala e piccone. Per la terra feci una cambiale, e così per tutto quello che ci è servito; per costruire, sempre cambiali. Ci ho un cassetto sempre pieno ed un altro l’ho bruciato, dopo aver pagato ogni cosa, che un giorno voglio fare una festa, con
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nipoti, figlioli, tutti quanti, e si bruceranno tutte le cambiali, ché loro hanno lavorato come me. Laggiù sono tornato ogni tanto, ho mandato mia moglie all’hotel al mare, poi ho comprato una casa al mare a Vasto, una casa vecchia che ho rimodernato, e ci va una volta l’anno mia figlia: gliel’ho data a lei. Insomma dalle 45.000 lire comprai la terra, costruii la casa, poi feci i piani di sopra; fino al 1965 ho lavorato sottocosto, poi mi sono messo nell’artigianato e ho avuto anche qualche operaio, a volte uno, a volte due; ho avuto paura ad ingrandirmi, ma ho fatto anche troppo. Sicché dopo i due piani, ad un figlio piaceva la tessitura ed ho fatto un magazzino, poi dietro un altro magazzino. A Prato mi sono trovato bene. Nel 1970 mi morì un figliolo di 14 anni. Mi vennero a chiamare per restaurare una casa vecchia a Casale, che il Comune aveva puntellata: io ci mandai due operai a levare i calcinacci e quando andai a vedere cosa facevano ci trovai il geometra a fare una perizia con il proprietario e gli disse che la poteva vendere. Il geometra mi fece fare un’offerta di 400.000 lire e mi diede 100.000 lire per fare il compromesso e la presi. Fu una fortuna: l’ho data alla figliola. Una casa per uno gli ho fatto, tutte ad avanza tempo. Quando tornai a casa e dissi che avevo comprato una casa, non l’avessi mai detto!, perché mia moglie aveva tanta paura; ma insomma ad avanza tempo la misi a posto, ci ho messo due anni a lavorare il sabato. Intanto avevo fatto altri due piani alla baiadera, e ho dato una casa per uno, per non far pagare l’affitto, ai figlioli; ora quando si sarebbe sposato l’ultimo io sarei dovuto andare via, ma nel 1991 mia moglie si sentì male al cuore e da allora è stata sempre male. Intanto la moglie di mio figlio aveva avuto male ad un rene ed aveva dovuto abbandonare i telai ed uno dei magazzini era rimasto vuoto e allora ci ho fatto il quartiere per me, senza spendere neanche un soldo. Tuttora sono lì e posso ringraziare il Comune di Prato e tutti quelli che mi hanno dato il lavoro e mi hanno aiutato.
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Fotografia di Vincenzo Marino scattata quando era marconista in Montenegro (1941/1943). Marino è il primo a destra.
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Certificato medico relativo alla ferita riportata da Marino sul fronte Greco - Albanese.
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Diploma d'onore rilasciato a Marino per avere militato nella Divisione partigiana Garibaldi.
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Sono Menici Serafino, nato a Prato il 4/9/17. Sono partito nel ’40, in marzo, come guardia di frontiera. E poi da Treviso siamo andati sul Montello a fare un mese di esercitazione. E poi siamo andati in Carnia, il sedicesimo settore B. Sul confine con l’Austria ero in fureria e al nostro reparto, ogni poco arrivavano dei militari nuovi. Facevano dei plotoni, delle compagnie, e poi li mandavano fuori, in Albania, in Iugoslavia, in Russia. Ne sono morti nel nostro reparto!. Io sempre lì sono stato fino all’8 settembre del ’43. Poi l’8 settembre del ’43, a dieci mesi dalla fine della guerra, a piedi venni, perché non si poteva andare a Udine in quanto avevano sfondata la linea; ma al Tarvisio i Tedeschi erano andati giù, sicché noi s’era in provincia di Udine. Io andai a piedi; si fecero una sessantina di chilometri a piedi, poi iniziò il trenino e così si arrivò fino a Padova e da Padova con un carro bestiame arrivai a casa. Si, in fureria … ma s’era pochini, a volte s’era 200, a volte s’era 50… sicché venivano da dei reparti di leva, c’era il Genio, la Fanteria; l’Artiglieria non c’era, l’Artiglieria era da pochi e del nostro campo in ogni reparto facevano qualche battaglione e li aggregavano agli altri e li mandavano sui fronti. E dopo l’8 settembre sono tornato a casa. E sono rimasto lì: insomma ci s’aveva i Tedeschi in casa a Grignano. Lì si stava nascosti e perché quelli di leva venivano da noi, erano amici, parenti un po’ amici. Si doveva fare così, perché anche noi s’era a rischio di essere richiamati. Non ho fatto niente di che... anche perché vivere era la cosa più importante, e l’armistizio: noi con l’armistizio s’era già andati fuori, s’era lassù in vetta e i Tedeschi erano lì a Padova. LA PARTE CONCLUSIVA DELLA TESTIMONIANZA NON È CHIARA. C’era i’ mi suocero gli ha due congedi, il congedo del ’19 e quello del ’40 fu richiamato … e gli ha fatto tutte e due le guerre, in Italia e 2 anni in Albania… Nella seconda guerra mondiale .. congedo.. E’ la croce al merito di guerra sempre del ’19.. questa è una medaglia……..questa è di quelli che hanno fatto queste due guerre ce sono pochi ma pochi pochi.. Sì era del ’99 lo chiamarono in Albania..
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Venivo da una famiglia contadina di 21 persone, in un podere a Montecarelli. Era un podere della Fattoria Erbaria, di proprietà del Gerini, che era un deputato. Sono partito per la leva militare nel gennaio del 1943, ero stato assegnato alla caserma "Lamarmora" a Milano, nel corpo dei Bersaglieri. In seguito mi hanno trasferito in una caserma a Varese sul Lago Maggiore. Dopo qualche mese ci hanno riportato a Milano vicino a una stazione ferroviaria. Eravamo destinati a partire per la Russia, ma ci fu la tragica ritirata. Dopo un po’ di tempo arrivò la notizia che erano sbarcati gli americani in Sicilia, venne dato l’ordine di tenersi pronti a partire per il sud. In quel reparto c’erano quattro Compagnie, io ero alla 4. Il 13 agosto del 1943, durante la notte fummo bombardati. Nella scuola dove eravamo accampati cadde una bomba. Tutti i soldati furono salvi perché ci eravamo recati nel rifugio al primo allarme aereo. Dopo qualche giorno, precisamente l’8 settembre del 1943, il nostro comandante ci riunì e comunicò che lui andava via, dicendoci che anche noi dovevamo andarcene, non tutti insieme ma alla “spicciolata” . Io andai in un’altra compagnia a cercare un mio amico, per andare via insieme. Ci ritrovammo in cinque, il mio amico Corti Brunero, rifiutò di scappare con noi perché aveva paura. Noi eravamo due di Lastra a Signa, uno di Borgo San Lorenzo, uno di Firenze e io di Barberino del Mugello. Arrivammo ai ponti sul Po in piena notte e non potevamo attraversare perché erano pattugliati dai tedeschi, ci avrebbero certamente catturato. Decidemmo così di cercare di salire su qualche treno. Eravamo vestiti in borghese, perché durante la fuga, le famiglie che avevamo incontrato ci avevano aiutato e dato abiti civili. Tutti e cinque riuscimmo a salire su un treno. Attraversammo il Po ad una stazione di un paese vicino a Tortona. Il treno fu fermato e i tedeschi bloccarono i vagoni. Ci fecero scendere uno alla volta, frugarono tutti i passeggeri, dopo risalimmo tutti sul treno che ripartì. Avevamo avuto tanta paura, ma non ci presero niente e non sapemmo mai perché eravamo stati fermati e perquisiti. Proseguimmo il viaggio per Genova, dove il treno si fermò perché non poteva proseguire in quanto la ferrovia Genova-Livorno-Firenze era stata bombardata. Alla stazione di Genova scendemmo dal treno e cercando di evitare tedeschi e fascisti, chiedemmo informazioni. Un vecchietto ci informò che su una vecchia linea, nell’interno, faceva servizio un treno per Firenze. Eravamo sempre tutti e cinque e riuscimmo a prendere quel treno. Arrivammo a Firenze stanchi e affamati, in tutti e cinque avevamo cinque centesimi. Il biglietto del treno non l’avevamo pagato, i controllori capivano che eravamo soldati in fuga e non controllavano. Da Firenze finito
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il coprifuoco, con l’amico di Borgo San Lorenzo, finalmente, prendemmo il treno per far ritorno a casa. Io scesi alla stazione di San Piero a Sieve, a piedi mi diressi verso casa. Avevo tanta fame, fortunatamente nei campi l’uva era matura e con qualche altra frutta, come fichi e mele, così mi sfamai. A casa stavano tutti bene, erano otto mesi che non avevano mie notizie, fu una gioia indescrivibile ritrovarsi. La mia casa era ubicata vicino alla chiesa del paese, Montecarelli. Il sacerdote, don Remo aveva un cognato partigiano e un suo fratello era morto in guerra. Sul passo della Futa i tedeschi avevano una postazione con radio trasmittente. Da Firenze avevano mandato una Compagnia di Bersaglieri (soldati italiani), per non far attivare questa radio. Praticamente dovevano sabotare la postazione. Ma i soldati italiani si impaurirono quando videro come erano armati i soldati tedeschi, avevano anche i carri armati e bombe a mano. Loro avevano solo dei fucili. A quel punto i Bersaglieri italiani gettarono le armi nel bosco le coprirono con delle frasche e fuggirono. Un guardia caccia le raccolse e le sotterrò e coprì la buca con delle fascine. Don Remo e io venimmo a conoscenza di questo fatto dal guardia caccia. Con grande pericolo di essere visti dai tedeschi, (erano a circa cento metri dal luogo dove erano state sotterrate le armi, don Remo con il suo cognato partigiano, il sottoscritto, le dissotterrammo, le portammo di notte a Londa nel Mugello e le consegnammo ai partigiani che erano ad aspettarci. Mentre si dissotterrava le armi facevamo a turno, compreso il prete, la guardia, ben decisi a sparare se qualche tedesco si fisse avvicinato, si stava nascosti dietro una grossa quercia a turno. La mia famiglia e tutto il paese di Montecarelli fu fatto evacuare perché si trovava sulla Linea Gotica. Con la mia famiglia siamo sfollati a Firenze, nel palazzo del deputato Gerini, proprietario della fattoria, dove si rifugiarono anche tutte le famiglie del paese, erano 40 stanze tutte occupate dagli sfollati. Qui siamo rimasti per quattro mesi. Mi ricordo che in piazza della Signoria (dopo che Firenze era stata liberata) un annunciatore saliva su uno sgabello e a voce alta ci informava di come proseguiva l’avanzata, i paesi e le città che erano stati liberate. Un giorno annunciò che Barberino del Mugello era stata liberata. Io e don Remo, la mattina successiva partimmo a piedi per il nostro paese e rendersi conto delle nostre case. Trovammo una gran desolazione. Alla mia famiglia avevano portato via, otto bestie, 40 pecore, e la roba che prima di scappare avevamo murato in una stanza. Siamo rimasti con solo i vestiti che avevamo addosso. Anche don Remo trovò la chiesa saccheggiata, tutte le famiglie erano nelle nostre condizioni. Ho fatto il contadino fino al 1957, in seguito sono venuto a Montemurlo, mi sono fatto la casa e formato la famiglia, di lavoro sono stato in Comune come assistente tecnico ai lavori.
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Fotografia di Leonello Mordini scattata dopo la vestizione.
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Da noi la guerra partigiana incominciò all’inizio della primavera del ‘44, erano i nostri soldati, che erano tornati. Arrivò mio fratello dall’Iugoslavia, un altro cugino dalla Russia, insomma … altri due fratelli li avevo uno carabiniere in Africa e un altro portato in Germania carabiniere. E incominciammo in primavera verso aprile—maggio, cominciammo a fare i rastrellamenti di tedeschi, veniva ammazzato qualcuno di noi, non guardavamo in faccia a nessuno. Io avevo il fratello e il cugino ed altri amici portavo loro da mangiare perché erano nascosti su, nascosti. Gli portavo da mangiare e via via arrivò l’estate del ‘44 e si formò la repubblica partigiana a Montefiorino. Poi di là furono dispersi, sparpagliati, scapparono e vennero verso il Monte Cimone, nelle zone alte di Fanano. E io lì facevo la spola ogni due o tre giorni, un giorno sì e uno no gli portavo da mangiare, insieme ai miei cugini. Arrivò settembre, poi ottobre e passarono il fronte, in mezzo alle pecore. I partigiani di cima scapparono, attraversarono la linea gotica e vennero in Toscana. Durante l’inverno non si stette lì e io ero lassù, a Monte Mezzano, eravamo scappati dal paese, era la vecchia casa di mio nonno. C’era un gruppetto di case sotto il cucuzzolo e sopra c’era la casa in mezzo a dei campi. E io mio padre e mia madre si stava lì. Vennero i tedeschi, stavano 15 giorni poi facevano il cambio, insomma arrivò aprile che era già 3 mesi che questi qui non gli avevano dato il cambio. Mio padre, vecchio combattente dice “Mah, io non lo so, questi qui non gli danno mai il cambio. Non gli danno mai il cambio, che si fa? Cosa non si fa?” Poi si vedeva sempre bombardare, di fronte c’era sul Monte Pratignano una delle postazioni, alla mattina alle 9 e la sera alle 17 alé... Bombardavano dove c’erano le postazioni, mitragliatrici, mortai. Una bella mattina, la mattina del 18 aprile vedo arrivare lì degli apparecchi verso le 9/9.30, degli apparecchi per bombardare lì il gruppetto di case, passava il monte e andava di là alla stazione e buttavano giù. Madonna tremava, poi vedevi le fumate che saltavano fuori dal Monte. Dico “Papà che succede?” dice “Mah, che facciamo…” Dopo pochino, verso mezzogiorno e mezzo, l’una si sentì una bomba nell’aia, davanti a casa. Mio padre disse “Andiamo, andiamo in cantina!” Lui era anche un po’ mezzo zoppo, mentre che lui era lì, che la finestra dava verso il monte, io attraversai una raffica di mitraglia, scoppiavano da tutte le parti. S’andò giù in cantina, si stette lì e dopo un pochino e si sentì parlare, erano i partigiani che ci venivano lì a occupare. Sentii dire “Ei di casa!” prima parlavano in americano, non lo so insomma dice “Ei di casa!!” Allora mio padre disse “Siamo qui!” allora lo chiamo per nome Giovanni! “Sono Arturo” insomma uno che conosceva. Si venne su dice “Si va giù, dice, vi accompagno io! Proprio di sopra,
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hanno fatto una postazione con le mitragliatrici, e vi accompagno lì!” Andammo giù con tre partigiani, andammo lì, lì “Basta che lì `buttate una bomba dentro e quelli son finiti.” Allora buttammo la bomba poveretti, ma la bomba non arrivò, scoppiò per l’aria. Ma a uno dei partigiani gli partì un braccio e lo portarono lì in casa mia. In casa mia dice “Come si fa, bisogna andare a chiamare i rinforzi”. Allora mia mamma dice “No, vado io!” mio padre dice “No, no” dissi “vado io!” Partii di volata su e sopra erano chiamati i Pianacci, si erano accampati li, ce ne sarà stati una quarantina. Mentre che andavo su, c’era una strada, quelle di montagna tortuose, e poi aveva i muretti, i cigli di qua e di là, raffiche di mitragliatrice sentivo le pallottole sulla testa. Quando arrivai lassù e gli dissi “Guarda e successo laggiù così e così”, gli dissi “Andate laggiù è successo questo uno è anche ferito ad un braccio”. Partirono, vennero giù una brancata, vennero giù. Allora disse mio padre “Prendiamo un accordo, io vi accompagno lì e vi insegno dov’e la postazione”. “Papà gli dissi, io li accompagno di sotto che c’è un’altra postazione!”. E infatti altri 5 o 6 partigiani vennero con me, s’andò giù per un fosso, dei campi, si girò per una stradetta e si venne di sotto e gli dissi "Lì c’è una mitragliatrice.” Quando arrivammo lì loro andarono avanti e mandarono via me “\/ai via te ragazzo, vai via te!”. E lì c’era questo tedesco che andava avanti con le braccia alzate. Il gruppetto fece una sparatoria quando io ero già giù. Ci fu una sparatoria che di 8 ne tirarono fuori vivi tre. Fu una sparatoria bestiale, ora non mi ricordo neanche chi, e altri due che furono feriti ma la sparatoria. Insomma di 8, 5 morti. E li portarono su nell’aia e il giorno dopo i partigiani tornarono su e con mio padre, e un cugino mio e si fece una buca in un prato, si seppellirono lì, cosa si doveva fare? Poi lì a Fanano ogni anno i ristoranti fanno la festa per i partigiani, gli offrono il pranzo. Quell’anno toccava al ristorante di mio cugino, che poi quel cugino mio lì è il figlio, che a quell’epoca lì aveva quasi l’età di mio padre e quando si seppellirono quei 5, era il cugino più vecchio. E durante questa festa il comandante dei partigiani chiese “Ma quel ragazzo che ci fece prendere lassù a Monte Mezzano quegli 8 tedeschi …” E gli disse “E’ cugino mio, e carabiniere a Firenze”. E così saltò fuori tutta la storia, che io manco lo sapevo, manco ci pensavo, e quindi mi richiamarono e dovetti spiegare al mio comando come era successo, dovevo spiegare che mi avevano fotografato, ed in seguito a questa foto mi arrivò dal comandante dei partigiani degli interalleati e un diploma di merito. E il comandante partigiano, che poi era il sindaco di San Marcello, m’ha fatto anche la targhetta onoraria del combattente..
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Avevo 15 anni, infatti io.. sembra una favola la mia..
Dichiarazione dell'Associazione azionale Partigiani che attesta l'attivitĂ di lotta partigiana svolta da Orsini.
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LA
TESTIMONIANZE CHE SEGUE È STATA SCRITTA DA S ERGIO P AOLIERI STESSO ED È PRECEDUTA DA UNA NOTA IN CUI ILLUSTRA LE CIRCOSTANZE IN CUI L’ HA SCRITTA. AL MOMENTO DI INSERIRLA IN QUESTO VOLUME, ABBIAMO DECISO DI CORREGGERE SOLTANTO GLI ERRORI GRAMMATICALI, LASCIANDO INALTERATO IL RESTO.
Queste mie memorie sono state scritte a penna nel 1948,le avevo dimenticate, casualmente ritrovate nel 2001 e trascritte senza fare correzioni di impostazione, grammatica ecc. Mi chiamo Paolieri Sergio nato a Prato il 03.06.1926 era Fascista, ho frequentato la scuola Materna "Asilo Caritas" in via del Ceppo Vecchio a sei anni alla scuola Convenevole fino alla quinta elementare, la scuola di allora aveva impronta di regime e nazionalismo, per brevità dirò che sono stato educato con forte impronta legata alla Guerra 15/18,Monte Grappa tu sei la mia Patria, Vittorio Veneto,Stirpe Italica guerriera, Mare Nostrum ecc. ecc. onestamente credo che malgrado tutte le esperienze negative vissute con la seconda Guerra Mondiale, qualcosa di questa educazione sciovinista mi sia rimasta nel pensiero. MI ACCINGO A NARRARE: Nella mia famiglia come si viveva, le prime esperienze rivelatrici di quanto deleteria sia stata l'educazione ricevuta fuori della famiglia, come appresi le prime nozioni Antifasciste. Mio Padre si chiamava Italo classe 1892, aveva combattuto nella prima Guerra, era stato prigioniero dal 19.Marzo 1916 fino alla fine della Guerra, fu congedato nel 1920 con onore, Mia Madre si chiamava Orlandi Norma classe 1894, eravamo tre fratelli maschi, il maggiore sono io classe 1926, Silvano classe 1928, Renzo classe 1931, mio Padre era Muratore, mia Madre aiutava lavorando in casa di cucito, vivevamo con dignità la nostra miseria, iniziai a lavorare a sette anni, ero in seconda elementare, come doposcuola nel pomeriggio in officina riparazioni Biciclette, il principale si chiamava Santini Fosco in via Mazzini vicino alla nostra abitazione. Mentre pulivo le bici sentivo spesso discorsi fra adulti sul regime che erano diversi da ciò che mi veniva insegnato a scuola, parlavano di antifascismo, avevo difficoltà a capire questa parola nel suo significato. Di fronte alla officina c’era il FORNO CORSI vi lavorava soltanto il Giovedì un dipendente che si chiamava CIULLI, un giorno li sorpresi che parlavano di Guardie Rosse, quando mi videro si azzittirono nel mio cervello rimase impresso quel colore rosso, mentre andavo a scuola le guardie erano
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vestite di nero, decisi di farmi spiegare che cosa erano le guardie rosse e la differenza con le guardie nere, mi portarono nel retrobottega, dal quel momento inizio la educazione antifascista, non era facile convincermi in quanto la scuola aveva molto ascendente su di me. I miei maestri ebbero molta pazienza,non era facile discutere con un bambino che già conosceva la loro esistenza antifascista,dovevano trovare argomenti adatti alla mia capacità di comprendere, non dovevano spingere troppo in quanto stimolando la mia curiosità, che era tanta, ci poteva essere il pericolo che ponessi domande su l'argomento ad altre persone, riuscii a frenare la mia voglia di sapere perché ero vincolato dalla promessa fatta di non parlare con altri, avevo capito la pericolosità degli argomenti. La posizione politica dei miei maestri, il Corsi repubblicano Mazziniano, Ciulli Anarchico. Il loro allievo, figlio della lupa, Balilla moschettiere, Avanguardista, con il 25 Luglio 1943 finisce la mia carriera di giovanissimo Fascista. Avevo nel 1936 dieci anni, inizia il periodo delle guerre l'impero Etiopico, la Spagna, il 10 Giugno 1940 inizia la seconda Guerra Mondiale, avevo 14 anni,fu subito chiaro che la guerra non andava verso la Vittoria ma verso la sconfitta, poveri nostri soldati male armati, abbigliamento non adatto, impreparazione, comandati da incapaci, i fatti legati agli avvenimenti della resa 8 Settembre 1943 dimostrarono la disonestà e la codardia di quanti fuggirono, lasciando l'Esercito senza ordini in balia dei Tedeschi. Per nostra fortuna i soldati Italiani riscattarono l'oltraggio subito con la resistenza attiva con le armi e passiva nei campi nazisti respingendo allettanti proposte di libertà se avessero collaborato, molti di loro pagarono con la vita il loro rifiuto. Siamo stati fortunati, non abbiamo avuto perdite in famiglia, nel Settembre del 1943 mentre tornavo da Milano con pacchi di stoffa per camicie per conto del commerciante Nesti Antonio incocciai in un terribile bombardamento nella stazione di Bologna, mi rifugiai nel sottopassaggio, un sacerdote mi diede due chicchi d'uva mi fece il segno della croce non compresi quello che diceva ma sono convinto che quei chicchi d'uva sostituirono l'ostia, prosegui verso il suo destino alle 11,10 un grande scoppio rimasi sotto le macerie, per mia fortuna le bombe avevano chiuso il sottopassaggio d'avanti e dietro lasciandoci lo spazio per sopravvivere, avevo una bottiglia d'acqua, fu determinante per la mia vita, dormivo sonnachiavo, ero inebetito, la sotto terribile fu il buio, calcolai parlando con i liberatori di essere stato fra le macerie circa 36 ore, mi guadagnai la tachicardia, i medici mi garantirono la non pericolosità, speriamo, alla visita di leva non mi fu riconosciuta, presentai in ritardo la certificazione che avevo prestato servizio trasporto munizioni sulla linea gotica con la 5° armata Americana fino alla liberazione di Bologna, partii l'otto settembre 1947 per Cuneo caserma Battisti, dopo circa 40 giorni fui inviato a Roma Cecchignola feci un
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corso di 6 mesi Motorista, fui congedato nel 1948 dal Corpo Automobilistico." AUTIERE". Comunque avevo 14 anni, inizio la Guerra che la finì nel' Aprile 1945 erano passati quasi cinque anni, la prima parte della mia gioventù trascorse fra pericoli e tanta fame, ricordo che nel palazzo dove abitavo cera un fornaio che si chiamava Corsi Duilio, ( non era parente del Corsi Antifascista, erano due panifici che per puro caso avevano lo stesso cognome) la sera nel laboratorio si preparava il lievito, furtivamente nel mastello che conteneva la pasta arraffavo un poco di pasta andavo a cuocerla nel capannotto che avevano nell’orticello, adoperavo per la bisogna uno scaldino in terracotta ( veggio in Pratese). Venni a conoscenza nel dopo Guerra che il Corsi era a conoscenza di questi piccoli furti, ci lasciavo impronta della mano, domandai perche non mi aveva fermato la risposta “mi piangeva il cuore” quando mi vedeva mi facilitava cercando di non guardare, quanta bontà aveva, ho mangiato di tutto quello che mi capitava, il mio stomaco subì traumi , quei disturbi li avrò sicuramente per tutta la vita. DIALOGHI IN FAMIGLIA, di che cosa si parlava, certamente non di Antifascismo, comunque mi resi conto da alcune frequenti affermazioni che mio Padre non aveva simpatia per il Duce, infatti questa figura la abbinava a tutte le ingiustizie e cattiverie, credo che la sua ritrosia nel parlare sia dovuta per la protezione della Famiglia. La sera in casa mia che era la più calda d'inverno in quanto una parete confinava con il forno Corsi, c’era l'usanza della veglia, in certi giorni dell'anno le donne dicevano il Rosario, gli uomini raccontavano le proprie esperienze, mio padre raccontava della Guerra, particolarmente di quando lo fecero prigioniero il giorno di S.Giuseppe nel 1916 nella Conca di Plezzo durante una battaglia all'arma bianca, si considerava un miracolato perché di solito in quel tipo di lotta quasi sempre non si fanno prigionieri, ha sempre festeggiato detta ricorrenza. Raccontava di quanto a dovuto lottare per sopravvivere nel campo di concentramento di Matausen, per non morire di fame era sempre in fuga, la fine della Guerra lo trovò in Bosnia Ezegovina, tornò a casa nel 1920 erano passati nove anni. (Dal foglio matricolare. Rientrato in Italia nel 1919 fu inviato nella penisola Istriana congedato nel 1920) Mi insegnò molte cose sui comportamenti in guerra particolarmente quando ci sono i Tedeschi, “rammentati che i Tedeschi amano le decimazioni, valgono molto come soldati quando sono inquadrati, singolarmente siamo migliori noi, di solito nella decimazione contano fino a 10 estraggono il malcapitato, devi essere più veloce di loro, se ai il dubbio di essere vicino al 10 fai casino prenderai qualche botta con il calcio del fucile, ma sarai salvo, questa è la dura legge della sopravivenza. Non avere mai fiducia
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di loro, o si spara o si scappa, mai farsi catturare mai leggerezze tieni presente che hanno un cervello da Guerra”. Questi insegnamenti mi sono stati utili a partire dall'otto Settembre 1943, queste esperienze mi sono state utili in varie occasioni, non ho mai avuto leggerezze i Tedeschi erano a Nord io sicuramente ero a Sud, ma il 7 Marzo 1943 non potei scansagli. A 14 anni fui assunto nella filatura del lanificio Foresto Bardazzi in via Bologna e fino al 1945 il tratto più significativo era sempre la fame, il periodo fra il 25 Luglio e l’8 Settembre vennero fuori tutte le porcherie perpetrate da quei felloni, io avevo le idee molto più chiare dei miei coetanei l'insegnamento di Corsi e Ciulli dava i suoi frutti, tutto si avverò come mi era stato insegnato, ricordo quando ci fu la Battaglia di VALIBONA fra le prime formazioni Partigiane e i Repubblichini, da via Bologna passavano le Ambulanze, avevo la speranza che il con battimento fosse favorevole alle forze Partigiane, purtroppo il loro comandante Ballerini Lanciotto cadde. Il 14 Febbraio del 43 in un terribile bombardamento fu colpita la Fabbrica dove lavoravo, rimasi disoccupato ( Credo che la Città di Prato abbia subito circa 60 bombardamenti) Tornai a riparare biciclette dal vecchio principale Santini Fosco sul Cantaccio, ricordo che molti Fascisti andavano a mangiare dal ristorante Pelagatti ubicato in angolo sempre al Cantaccio, subì un attentato, morì la moglie del gestore, si mormorava che la bomba sia stata collocata da gruppi fascisti per gelosia. SI ARRIVA AL TRAGICO GIORNO 7 MARZO 1944. Fu il periodo dei grandi scioperi contro la Guerra, in Prato fu stabilito per i giorni 7 e 8 Marzo 44, io non ero a conoscenza dello sciopero, sicuramente fu dovuto alla non più permanenza in Fabbrica, nel pomeriggio verso le 16 allarme e distruttivo bombardamento del Centro Cittadino, prima di andarmene al rifugio presso Porta Leone, adagiai il Santini sotto il banco di lavoro in quanto era ubriaco, aveva il vizio della bevuta facile. Dopo il terribile bombardamento rientrai in officina, ma con molta difficoltà perché la zona del Cantaccio era tutta in macerie, mi rallegrai quando vidi che il portone della officina era al suo posto, appena aperto mi apparve una scena agghiacciante,dietro la officina era stato distrutto tutto un quartiere, da via dei Tintori si vedeva Piazza Mercatale e le mura medievali in direzione dove oggi si trova la Camera Del Lavoro. Il Santini era dove l’avevo messo, non sentì niente e non ebbe nemmeno un graffio, io pensai che il buon Dio abbia protetto l'ubriacone, lo svegliai e ci mettemmo al lavoro per salvare il salvabile,verso le 16.30 una donna mi invitò ad andarmene immediatamente perchè era in corso un grande rastrellamento da parte dei Tedeschi, Fascisti e Carabinieri, inforcai la Bici, mi accorsi che in Piazza Mercatale non era possibile passare troppe bombe e spezzoni inesplosi, mi diressi verso Piazza S. Marco, notai che vi era un blocco condotto dai fascisti e Carabinieri, avevano già
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fermato un gruppo di cittadini, cercai di farmi aprire nel palazzo dove abitavo (in quel periodo eravamo sfollati a Vergaio ospitati da zia Zaira sorella di mia Madre) ma sapevo che non avrebbero aperto, in caso di pericolo il portone veniva rinforzato con un trave trasversale l'accordo era di non aprire per nessun motivo, da via Mazzini mi portai in via S. Giovanni, trovai un uomo più anziano di me, si chiama Innocenti è ancora in vita che scrutava non visto la ripa della Fortezza perche erano seduti 2 fascistelli che avevano la mia età, ci consultammo, dichiarai che io non mi sarei fatto prendere, lui convenne, facemmo accordo di comportamento, visto che i fascistelli erano seduti ed avevano il moschetto a spalla, ci avviciniamo, avevamo calcolato che erano intenzionati a fermarci noi dovevamo avvicinarsi lentamente per non provocare e far capire anticipatamente le nostre intenzioni, non scendere dalla bici per nessuna ragione, sicuramente avremmo avuto tempo di scattare in quanto i giovani fascisti avevano da prendere una decisione, erano a circa 50 metri distanti, con fucile a spalla sicuramente avrebbero perso secondi preziosi che andavano a nostro favore. Tutto andò come previsto, mentre entravamo in via Pallacorda vidi con la coda dell'occhio un gruppetto di rastrellati sull'angolo della Chiesa di S. Anna nel viale Piave, sentii un colpo di fucile, finì tutto bene per me e Innocenti, arrivai a Vergaio dove trovai molta apprensione, si parlava del grande rastrellamento. Mi resi conto della grave situazione, la mattina Otto marzo sarà peggio per i lavoratori che avevano fatto lo sciopero. Appresi che erano stati presi tre compagni di scuola come me del 1926 Bettazzi Giancarlo, Abati Settimo Edo, Linberti Giancarlo, avremmo saputo della loro sorte dai superstiti nel 1945, essi sono in tombe anonime in Austria. Mi torna alla mente quanto mi è stato insegnato: “Aiutati che Dio ti aiuta”, mia Mamma diceva sempre che il male voluto non è mai troppo. Finalmente arrivò il 25 Aprile 1945. Un giorno, non ricordo la data precisa, ma sicuramente al mio ritorno dal servizio Militare di Leva nel 1948, conversando in via Mazzini presso la sede del P.C.I. un caro amico che si chiama Genesio lamentava un dolore alla coscia particolarmente quando cambiava tempo, domandai il motivo del dolore, mi rispose che nel Marzo del ‘44 mentre due fuggivano ci fu uno sparo e rimasi colpito, immaginate i casi della vita, ci salvammo dalla deportazione nei campi di sterminio KZ, lui fu ricoverato all'ospedale, noi ci salvammo con la fuga. Siamo rimasti io e Innocenti, Genesio se ne andato, sono tanti coloro ci hanno lasciato, del gruppo numeroso della Fortezza siamo rimasti in sei, io, Vannini Sergio, Ferrari Mario e Corsi Walter tutti nati nel 1926, Giovannini Mauro, Ramalli Silvano del 1927. Siamo stati liberati il 6 Settembre 1944, arrivarono nel pomeriggio all'altezza di via
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della Liberazione, sentimmo un paio di colpi di cannone Tedeschi, gli Americani se ne andarono, tornarono 8 Settembre evidentemente non vollero rischiare, comunque fu un giorno gioioso, ma non potei scacciare la tristezza di quante vittime innocenti la Guerra e la barbarie si erano portate via, la mia Città era per più del 70 x 100 distrutta dai bombardamenti o dai Tedeschi in ritirata, Prato ha pagato un contributo di sangue altissimo, con i Caduti e civili si raggiunge la cifra di circa 1000. In ottobre entrai al servizio degli Alleati, con compiti di verifica e trasporto munizioni al fronte della linea Gotica, altra brutta esperienza, tanti morti, ancora odore di carne bruciata mi è talmente nelle narici che non apprezzo la carne cotta alla griglia, il servizio fini nel 1945 con la liberazione di Bologna. Fui chiamato per il servizio di leva l'otto Settembre 1947 fu mia negligenza, tornai a maneggiare le armi questa volta in tempo di pace. Noi sopravissuti siamo stati dei fortunati, siamo stati bravi nella ricostruzione delle Città delle Fabbriche, Scuole ecc, credo che siamo stati meno bravi nella ricostituzione delle coscienze troppi ancora non condannano i responsabili della tragedia che è stata la guerra. Ricordo coloro che mi insegnarono i valori veri della vita, i loro insegnamenti sono ancora attuali, credo che mi saranno di guida nella vita, Il fornaio Corsi e Ciulli, il Santini Fosco che nella sua officina vi capitavano antifascisti che quando arrivano personaggi altolocati venivano arrestati fino alla andata via del personaggio Queste mie memorie sono state scritte nel 1948 oggi 14.12.2001 ritrovate e trascritte con la macchina da scrivere. Sergio Paolieri
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S EGUE UN’ ALTRA NOTA DI PAOLIERI.
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Ho 83 anni sono passati 64 anni dalla fine della guerra, con malinconia ripenso a quei giorni, alla mia gioventù che oggi non c'è più, a tanti compagni alcuni di scuola che la guerra si è portato via, mi rivedo ragazzino che nel doposcuola garzone da un artigiano, operaio filatore, la guerra, funzionario della C.G.I.L., artigiano carburatori sta per 40 anni, pensionato dal 31/12/1999, mi viene spontanea la domanda, cosa avrebbero fatto, che vita avrebbero avuta i miei amici, non gli è stato concesso. Abati Edo Settimo (detto il Tintolo) 1926/1944 Limberti Giancarlo 1926/1944 Bettazzi Giancarlo 1926/1945 Ciabatti Maggiorano 1927/1944 Cherubini Bruno 1926/1944 Maranghi Ezio 1926/1945 Vannucchi Valesco 1927/1945 Lido mori giovanissimo di bombardamento da caccia bombardieri in piazza S. Francesco. sento vergogna di non ricordare il cognome. Prato 03/01/2010
Chiesa di Santo Stefano, duomo di Prato
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Preghiera del combattente.
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Fotografia di Paolieri quando era militare di leva 1947/48 presso il Corpo Automobilistico "Autieri". Caserma Cesare Battisti di Cuneo, 11° Specialisti Cecchignola Roma. Fu congedato con la specialità motorista. Reca la scritta: Sergio mio babbo.
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Fotografia scattata lungo la Linea Gotica, quando Paolieri era volontario in servizio con gli Alleati con compiti di verifica e traspoto munizioni al fronte.
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A ICETO CIABATTI nato a Prato il 23/05/1889 morto a Hartheim il 04/10/1944
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MAGGIORA O CIABATTI nato a Prato il 01/05/1927 morto a Hartheim il 10/10/1944
Abbiamo messo qui sopra le immagini di Aniceto e Maggiorano Ciabatti, morti per aver partecipato allo sciopero di cui scrive Paolieri nella sua testimonianza. I due abitavano in via Mazzini a Prato, dove ancora abitano i familiari. La loro vicenda è raccontata da M. di Sabato nel libro Il sacrario di Prato sull'Ara del terzo Reich, pp. 190-2, da cui traiamo la seguente notizia: Il 7 Marzo 1944 parteciparono allo sciopero contro la guerra e per la pace, erano dipendenti del lanificio Guido Lucchesi. La mattina dell'8 Marzo si presentarono in fabbrica per notizie sul proseguimento dello sciopero, furono razziati con l'inganno. Essi si presentarono in P. dei Macelli nel reparto tintoria, furono chiamati nella sede di via Carradori. Il giovane Maggiorano si rese conto dell'inganno, propose al padre di scappare saltando la Gora, Aniceto era troppo anziano, pregò il figlio di salvarsi, Maggiorano non volle lasciare il padre. Con Aniceto e Maggiorano la follia criminale raggiunse l'apice del sadismo, morirono a distanza di 6 giorni l'uno dall'altro fra atroci sofferenze.
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Sono partito militare il 21 gennaio del ’41, per l’8° Genio, Roma, destinato agli autieri. Però poi, siccome io avevo fatto il premilitare ai pompieri a Firenze dal 26/5/41, seconda sezione antiincendio, e s’era ancora in Italia, dunque, poi lì da Roma sono andato a Brindisi, in zona operazione , da Brindisi a Castelvetrano in Sicilia. Poi con l’aereo l’8/4/42 a Tripoli, da Tripoli dopo due mesi a Tobruck per 10 mesi il 6/9/42 in aereo a 100 metri sopra il livello del mare, sopra c’era la volta di protezione, a 100 metri, con il Savoia Marchetti 68 tutto equipaggiato, io avevo anche la pistola, era un corpo specializzato il nostro. Il nostro compito era spengere le case e anche incendiare. eravamo dei pompieri un po’ particolari! Spengere il fuoco ma anche darlo. Allora sono stato 10 mesi a Tobruck, bombardamenti tutte le sere, c’erano i B52, le fortezze volanti. Tutte le sere ne abbattevano due o tre, quando entravano nella fotoelettrica c’erano gli 88 tedeschi. Io avevo anche 2 paracaduti presi a quelli caduti; purtroppo vedi, noi s’era nella valle del Timo (?) a 4km da Tobruck, perché nella valle del Timo, quando pioveva, nasceva questo Timo. Noi s’era in queste grotte, nelle grotte lasciate dagli inglesi che si erano ritirati; lì c’era i pidocchi, c’erano le pulci australiane. Questo per 10 mesi lì; però purtroppo il 2 novembre del ’42, un’incursione aerea a Tobruck. . . e 10 colleghi ci persero la vita sul porto. Perché il nostro compito era spengere gli incendi durante i bombardamenti...Il 2 novembre proprio il giorno dei morti. ll 3 novembre del ’43 si comincia invece la ritirata. La ritirata fino a Tunisi, a 8 km da Tunisi. Ho perso altri due amici a Tripoli, in ritirata. Naturalmente ogni tanto ci si fermava. In ritirata ad esempio c’era il mitragliamento, il caccia; mi ricordo che a Adelaia, noi ci si riforniva di benzina, di vettovagliamenti, bevande; io mi salvai perché c’era morettina (?), mi salvai? Per 20 millimetri, mi ricordo il mio collega. Ad ogni modo a Tripoli, anche a Tripoli ci si fermò perché durante la ritirata, durante la notte si dormiva all’aperto, il giorno si dormiva nei pagliai, però c’erano, per esempio, alcuni Inglesi che erano così romantici, dicevano: “allontanatevi!”; allora noi ci si buttava nel deserto, ma c’era qualcuno per esempio che gli interessava ... siccome era la litoranea, gli interessava bruciare i mezzi. I mitragliamenti, i bombardamenti non lo so mica quanti sono stati, era questione di fortuna, gli interessava bruciare i mezzi a loro. Gli Inglesi venivano quasi tutti i giorni Mamma mia!, tutte le notti. Io mi sono salvato perché avevo fatto una buca e mi infilai dentro, bisognava che la bomba cascasse lì, perché se la bomba cascava in terra… le bombe facevano così; s’era diventati tanto esperti che quando si guardavano gli aerei si diceva “sono lì, cascano lì”; quindi essendo pratici. .. Fino a Tunisi. Poi l’8 maggio del ’43 fui fatto prigioniero. Naturalmente avevo la
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pistola e il giaccone di pelle; e mi presero, ci furono gli Inglesi. C’era la mitraglia ma io ero magazziniere e avevo l’autopullman pieno di vettovagliamenti e15 giubboni di pelle; mi chiamò il capitano e disse: “Ragazzo tu interrerai i 15 giubboni di pelle”. Il primo giorno feci 50 km a piedi da Mediez- Valley a Costantina, da Costantina a Casablanca, da Casablanca poi in America sono stato in tre o quattro stati. Sono stato prigioniero dall’ 8/5/43 al l6/2/46, e infine sono sbarcato a Napoli. Eh.. sono stato nell’Indiana, a Indianapolis, poi di lì, siccome c’era un po’ di confusione, c’erano giovani fascisti, quelli erano dei maiali. Allora ci divisero. lo e un altro pratese ci mandarono in Ohio, a spalare la neve; nell’Indiana si andava a raccogliere le mele, a pulire le palestre e poi nell’Ohio ci stetti un mese a spalare la neve. Dall’Ohio poi s’andò nel Mississippi , nel campo Wing-Army, campo in un bosco, venivano certi serpenti, lì! S’andava a raccogliere il cotone, a raccogliere le patate, i fagioli,e lì rimasi diverso tempo; poi di lì andai nel Colorado, dove ci s’aveva una mensa, s’aveva due turni: in 100 metri si faceva tutto, mangiare, si serviva: questi erano convalescenziari, poi di lì, dal Colorado ci mandarono in attesa in California. Allora per tornare abbiamo fatto tutto il Pacifico, 22 giorni. 22 giorni giù nella stiva! Sì sempre in America. Quando ci portarono da Costantina a Casablanca, cinque notti in vagone bestiame. Stetti 2 mesi a Casablanca; poi da Casablanca ci imbarcarono e ci portarono in America. Disinfestazione, pidocchi e compagnia bella. In Africa un quartino d’acqua quando ci veniva sonno. Con una bombola s’andava a pigliare l’acqua nel mare, tre o quattro volte la bombola per tirarci il sale: si beveva quell’acqua lì, con la bombola. Con la bombola, cioè una tanica pressappoco, si buttava l’acqua del mare con il fuoco. Naturalmente l’acqua essendo salata diminuiva la salinità, diventava quasi bevibile; ecco perché quando non arrivava, s’andava a prendere così l’acqua e la tenevamo sul fuoco. Poi una volta domato quasi tutto il sale, si beveva (perché gli va via il sale a bollirla). Meno male s’era vicini: s’andava al porto, si prendeva l’acqua … se c’era il limone ci si salvava, ma il limone non arrivava sempre dall’Italia. Io non fumavo ma avevo mille pacchetti di sigarette; anche i miei amici non fumavano; avevo una scatola piena: me le portai dietro, ma ci fecero prigionieri, s’era in ritirata, si persero tanti mezzi in ritirata, non se ne parla nemmeno. Loro venivano anda e rianda a volo radente, noi ci si buttava nel deserto, a loro non interessava che ci si buttasse nel deserto, a loro interessava bruciare i mezzi non guardavano i soldati, ma c’erano anche quelli malvagi che ci tiravano addosso. E in America? Belini questi! Prison-roulotte, perché poi io non ho collaborato, sono stato nella prison-roulotte, perché non sapevo come andava a finire; sai, molti hanno
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collaborato e li hanno mandati anche in Giappone!
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Un caporale quando ci si spostava di notte si orientava con due stelle, invece i nostri comandanti non si raccapezzavano, anche se avevano le bussole. Tutte le mattine a Gedabia si faceva assistenza ai soldati quando c’era la ritirata, ma c’erano sempre 100-150 morti. Il mangiare e il bere non era buono perché, acqua veniva distillata dal mare e cibo c’era molto poco. Da lì mi spostai per andare a Bengasi, ma si sbagliò la rotta e si andò più in giù. Il camionista che guidava la cisterna dell’acqua partì con i tedeschi, perché si eravamo divisi, avanti i tedeschi e dietro gli italiani. I tedeschi arrivarono due giorni prima di noi. Noi non avevamo acqua … Il giorno dopo quando il camionista tornò in giù per vedere dove eravamo disse ai tedeschi che stavamo andando in giù, verso il centro dell’Africa. I tedeschi mandarono 4 apparecchi per cercarci. Uno degli apparecchi ci vide e ci segnalò con delle segnaletiche luminose la strada da percorrere. Arrivammo poi a Bengasi. Da lì si partì per andare in Tunisia, tutto per costa con camion non adatti e malandati. In Tunisia c’erano carri armati che cannonavano sempre e, noi camminavamo sotto le cannonate. Una sera ci circondarono in 30.000 mila unità nemiche Inglesi, ma non ci si accorse di niente. La mattina c’era una formazione Inglese che marciò verso di noi e ci presero come prigionieri e ci mandarono a Tobruk. Arrivati a Tobruk ci portarono in Egitto a Armeria, in un campo di concentramento, eravamo in tutto 35.000 tra tedeschi e italiani. In Egitto rimasi 4 anni nel campo di concentramento. Dopo ci trasferirono a Israele, Maisdel vicino Tel Aviv. Gli ebrei erano contro gli Inglesi, ma non so perché. Ogni due settimane nel campo di concentramento chiedevo quando potevo tornare a casa, e loro rispondevano sempre: “Un mese, due mesi, tre mesi”. Molte volte ci facevano preparare le valige e poi non si partiva. Un giorno dissero che si poteva andare, presi tutta la roba e andai al Canale di Suez con i miei compagni, lì c’era l’incrociatore Garibaldi, e due incrociatori africani, che ci portarono in Italia. Quasi arrivati a Taranto venne una grande burrasca (forza 12), le due navi africane affondarono e il Garibaldi ebbe difficoltà a tenere la rotta. Si sbarcò a Taranto, in primavera (in febbraio) del 1947. Quando scesi dalla nave chiesi come si faceva ad andare al Castiglione e ci rispose un contadino: “Con un carro del bestiame”. Si prese un carro e si andò verso Castiglione dei Pepoli, arrivato non riconoscevo più nessuno. Le stazioni erano tutte distrutte, le rotaie quasi non c’erano più, strade sconnesse, ecc., non riconoscevo neanche i miei famigliari.
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Partii nel 1940 e tornai nel 1947; Mussolini questa la chiamava “Guerra Lampo”. IL CAMPO DI CO CE TRAME TO ERA FATTO COSI’: Si dormiva nelle tende, eravamo in 8 persone e, in ogni gabbia conteneva circa 50 tende. Il campo era come una città come grandezza e come luminosità; era sempre sorvegliato da sentinelle Inglesi e ufficiali che camminavano al lato per vedere se qualcuno aveva fatto qualche buco o qualche galleria per scappare. Le pareti esterne al campo erano piene di fili ad alta tensione e filo spinato arrotolato alto anche fino a l0 m da terra, e circa 15 torri ai lati esterni dove c’erano gli Inglesi con mitragliatrici. Le luci erano molto forti ed erano molte in tutto il campo, di notte sembrava che fosse giorno. I prigionieri uscivano dalle tende andavano a lavarsi, poi passando per un cancello molto grande si passava nel “reparto giorno”; si stava tutto il giorno, poi la sera si tornava nelle tende. Alcuni giorni si andava a fare il bagno nel Golfo Esmaelia vicino al canale di Suez. La conta si faceva due volte al giorno e dicevano: “Santi Gino, 374961”. Dicevano prima il nome poi il numero di matricola. Quella fu un’esperienza molto brutta.
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IN FONDO AVIERE.
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ALLA TESTIMONIANZA, INSIEME AI DATI ANAGRAFICI INDICA LA CATEGORIA:
Quattro anni a Dusseldorf, a scavare buche per un po’ di pane e margarina Questo è il racconto di un pratese che lavorò nei campi nazisti: Partii per la leva militare il 20 novembre 1941 con destinazione Orvieto, ma fui immediatamente trasferito a San Severo (Foggia) dove svolsi l’addestramento, al termine del quale, il 29 dicembre 1941 fui trasferito all’aeroporto Capodichino di Napoli e da qui imbarcato sulla nave – scuola aviosiluranti Alice, comandata dal capitano Longo (fratello del generale Longo). Tutti i giorni ci portavano al largo per le esercitazioni, nelle quali fungevamo da bersaglio per gli attacchi simulati dei siluri allo scopo di verificarne la precisione. Ai primi del ‘43, a causa dei bombardamenti continui a cui era sottoposta Napoli, che di fatto impedivano qualsiasi forma di esercitazione, fummo trasferiti in Francia in un porto vicino a Marsiglia, ritenuto più sicuro per la nostra attività. Qui l’8 settembre 1943, fummo fatti prigionieri dai tedeschi, come tutti i soldati italiani in zona, e radunati in un grande capannone. Eravamo circa 700 fra soldati, sottufficiali e ufficiali e lì ascoltammo via radio i discorsi di Badoglio e Graziani al termine dei quali fummo invitati dai tedeschi a continuare la guerra a loro fianco, ma nessuno accettò. Ci portarono allora alla stazione di Montpellier, caricati su vagoni di bestiame e, chiusi lì dentro ci deportarono in Germania. Insieme a tanti altri fui scaricato a Dusseldorf e internato in un campo di concentramento. Tutti i giorni, appena alzati, venivamo inquadrati, forniti di pala e piccone e dal campo portati al municipio, dove alcuni capi responsabili ci prelevavano per portarci a lavorare; il nostro lavoro consisteva nello scavare buche nelle strade per trovare le condutture del gas e chiuderle, per evitare i pericoli d’incendi, e lo stesso lavoro lo facevamo all’interno delle case bombardate. Il lavoro si protraeva tutti i giorni per oltre 10 ore e a fronte di tanta fatica, il pasto consisteva sempre in una misera zuppa, mentre la sera, quando si rientrava al campo, ci veniva dato un filone di pane da dividere in otto parti con un po’ di margarina o formaggio. Tutto questo durò per oltre un anno, un anno pieno di umiliazioni, violenze, e minacce di morte. Alla fine del 1944 la situazione addirittura peggiorò perché il lavoro divenne sempre più pesante: dovevamo riparare le ferrovie e costruire fortificazioni ed
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eravamo costretti a spostamenti continui e faticosi. Quando la guerra finì e fummo liberati dagli inglesi, ci trasferirono in una caserma nella valle del Reno vicino a Wuppertal, insieme a noi italiani c’erano anche polacchi e russi e in breve tempo la situazione interna degenerò, per le continue risse (con i russi c’erano anche delle donne) e soprattutto perché nella caserma cominciarono a insorgere focolai di diverse malattie che portarono anche a numerosi decessi. In questa caserma conobbi quattro soldati di Prato e Firenze e insieme tutte le sere ascoltavamo, attraverso una piccola radio che c’eravamo procurati, le notizie dall’Italia, ma nessuno mai faceva cenno al rimpatrio dei prigionieri. Decidemmo allora di tornare in patria da soli. Vendemmo quelle poche cose che avevamo e ci procurammo una carta geografica, alcuni viveri, oltre a un piccolo macinino che mi ero costruito e che sarebbe servito a schiacciare il grano per fare delle piccole focacce. Percorremmo gran parte del tragitto del ritorno a piedi, utilizzando qualche volta, quasi sempre di notte, alcuni mezzi di fortuna, attraversando una Germania distrutta e dove i pericoli e le trappole erano dietro ad ogni angolo. In 8 giorni giungemmo ad Innsbruck. Qui fummo fermati, trattenuti per due giorni dalle autorità militari e poi rimpatriati con un treno merci che ci portò a Verona. Anche qui dovemmo rimanere fermi 2 giorni, bloccati dagli alleati americani, che poi con un camion ci portarono fino a Bologna da dove, attraverso un altro treno merci, arrivai finalmente alla tanto sognata casa. Era la metà di luglio del ‘45 e avevamo impiegato circa 15 giorni a tornare dalla Germania. Potei così riabbracciare la mia famiglia, della quale non avevo avuto nessuna notizia dall’inizio della mia prigionia.
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Fotografia di Vittorio Toccafondi in divisa.
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GIULIO VITALI, NATO A MONTALE NEL PODERE DI CICIGNANO, VENT’ ANNI AVEVA GIÀ FATTO CINQUE MESI DI SERVIZIO MILITARE:
RACCONTA CHE A
Sono stato richiamato l’11 gennaio del 1941. Fui assegnato al Forte di Osoppo, nell’artiglieria di guardia alla frontiera, al campo Rosso di Tolmezzo, al confine con l’Austria. So solo io quanto freddo ho patito a fare la guardia alla polveriera. In seguito sono stato inviato in Albania, con le truppe di occupazione, dove sono rimasto due anni. Gli albanesi erano cattivi e vagabondi, eravamo in un paesino di pastori, Zebrak, ci tagliavano i fili del telefono e ci sparavano quando eravamo di pattuglia. Ci furono anche dei morti. Una volta spararono a una sentinella, colpirono il suo berretto, lui rimase incolume, fu veramente fortunato. Dopo l’8 settembre, ci volevano rimpatriare, si partì a piedi, ma ci portarono in Grecia e fummo disarmati. I tedeschi ci tennero 4 giorni senza mangiare. Avevamo pochissimo da mangiare, a volte la notte ci portarono una sbioscia scura, cattiva, si mangiava perché avevamo tanta fame. Si sentiva la contraerea sparare, ma non si sapeva dove. Siamo ripartiti e siamo stati 12 giorni in treno, Vienna, Dresda, Riesa1 . Quando bombardarono Norimberga (per una notte intera) noi eravamo vicino, gli americani persero 90 aerei. Noi prigionieri ci misero in un cinematografo. Dovevamo fare la domanda per tornare in Italia e andare a combattere a Cassino per contrastare l’avanzata degli Alleati. Tutti d’accordo avevamo detto di no. Però il capitano fu bravo, perché ci disse: “Quando siete in Italia avete la possibilità di scappare”. Infatti ci rimpatriarono, in due tradotte. Quando arrivammo in Alta Italia, aspettammo la sera e quando fu buio in tre riuscimmo a scappare. Arrivammo a Bologna e tre fascisti ci catturarono. A forza di raccomandarsi ci lasciarono andare. Finalmente feci ritorno a casa, dove rimasi nascosto. Un giorno arrivarono dei tedeschi, volevano prendere le bestie, le presero e presero anche noi uomini. Le bestie avanti e noi dietro; così riuscimmo a scappare, spararono ma non ci colpirono. Tornarono alla casa e alla mamma dicevano: “ Uno (dei morti) era vostro figlio, vi somigliava”. La mamma allora fece vedere una mia lettera, con il timbro delle SS, che veniva dalla Germania e così lasciarono in pace i miei. Senza quella lettera forse li avrebbero fucilati.
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1) Il nome di questa città , non rinvenibile nella geografia della Germania, potrebbe corrispondere a quello di Rieka (it. Fiume) in Croazia, e quindi l’ordine potrebbe essere: Rieka, Vienna, Dresda.
Fotografia di Giulio Vitali.