Molti Combattenti caddero sui fronti di guerra di Africa Orientale, Francia, Balcani, Grecia, Russia, Africa del Nord, Italia, in prigionia, nei Lager nazisti, Molti non hanno neppure una croce che indichi la loro sepoltura. Dal loro sacrificio nasce la Costituzione della Repubblica Italiana. Nel suo dettato riposa lo spirito e l’anima di coloro Che diedero tanto senza nulla chiedere.
Ultime Voci Memorie dei combattenti della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti a cura di Luca Squillante
Volume terzo Prato 2010
Redazione a cura di Luca Squillante con la collaborazione di Francesco Venuti. Impaginazione e grafica a cura di Luca Squillante. Luca Bencivenni ha realizzato le interviste a Ugo Becagli, Vinicio Becchi, Raffaello Bencivenni. Michele Di Sabato ha realizzato le interviste a Giovanni Bicciato, Jacopo Gavazzi. Silvana Santi Montini ha realizzato le interviste a William Pancaldi e Mario Pini. L’episodio di Figline è stato pubblicato nell’opuscolo Come si muore per l’Italia libera. I martiri di Figline di Prato, pubblicato a cura del Comune di Prato nel 1945. La fotografia di copertina ritrae i sopravissuti della Divisione Acqui di stanza a Cefalonia incolonnati per la deportazione. Il volume è stato pubblicato grazie al contributo delle Associazioni d’Arme di Prato: Autieri, Alpini, Avieri, Artiglieri, Bersaglieri, Carabinieri, Finanzieri, Genio, Nastro Azzurro, Marinai, Polizia, Paracadutisti. Associazione Nazionale Combattenti e Reduci –Federazione di Prato
Piazza San Marco 29 – 59100 Prato Telefono e fax 0574/21352 Email ancr.po@gmail.com
Presentazione
2011 Anniversario dell’unità italiana, anniversario pieno di incognite di crisi economica e morale con un forte movimento scissionista dimentico di quanto sangue è costata ai combattenti provenienti da tutte le regioni, nessuna esclusa. Si dimentica quanti morirono soldati e civili e quanti sacrifici furono sopportati durante la guerra voluta dal fascismo e approvata dalla monarchia, una guerra condotta senza una adeguata preparazione militare, diretta generalmente da comandanti incapaci, che avevano la necessità di un migliaio di morti per sedere al tavolo della eventuale vittoria della Germania.
Si dimenticano i caduti, i reduci, gli invalidi, i prigionieri che sopportarono dolore, umiliazioni, fame nei campi alleati. L’8 Settembre la resa senza condizioni: i tedeschi iniziano l’invasione dell’Italia, il Re con gli alti comandi fugge, l’esercito è senza notizie certe, non ci sono ordini è il disordine è completo. Il 9 settembre 1943 inizia la Resistenza, non si consegnano le armi, si combatte a S. Paolo in Roma, Cefalonia, Rodi, nei Balcani, in mare, con l’affondamento della corazzata Roma, “ EX LITTORIO” e in altre migliaia di località italiane e all’estero. Con la nascita della Repubblica sociale, la Resistenza avvolge la nazione tutta. Soldati e civili combattono uniti in montagna, nelle città, il nuovo esercito italiano risale combattendo la penisola con grandi sacrifici, a Venezia la divisione CREMONA viene fermata dagli inglesi: poteva liberare Trieste in 24 ore perché i tedeschi erano in fuga, si diede invece la possibilità alle truppe di Tito di entrare in Trieste creando quel terribile periodo nefasto che provocò la fuoruscita degli italiani, foibe, sequestri, si applicò la vendetta sugli innocenti.
Molti soldati sbandati combatterono nelle formazioni partigiane, altri furono deportati nei lager tedeschi, non aderirono alla prosecuzione della guerra fascista, espressero tutta la loro dignità di soldati, il loro rifiuto lo pagarono con oltre 45.000 morti: la “ RESISTENZA SENZA ARMI”. Storia ignorata volutamente dei partigiani con le stellette. “Decideste di non cedere le armi,preferiste combattere e morire per la patria... decideste,così, consapevolmente, il vostro destino. Dimostraste che la patria non era morta. Anzi con la vostra decisione, ne riaffermaste l’esistenza. Su queste fondamenta risorse l’Italia.” Carlo Azeglio Ciampi Comm. Sergio Paolieri Presidente della Federazione Provinciale di Prato dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci Prato, 4 Novembre 2010
Nota del curatore Questo
terzo volume della collana
spetto ai volumi precedenti.
Il
Ultime Voci
presenta continuità e differenze ri-
primo aspetto è rappresentato dalla natura eterogenea del materiale: chi legge
si troverà davanti testimonianze di diverso tipo, alcune scritte in prima persona dai
protagonisti, altre raccontate in forma di intervista. Inoltre, viene riproposto un opuscolo che già aveva avuto una certa diffusione e che speriamo che con l’inserimento
Ultime Voci possa essere letto da più persone. Ci riferiamo alla testimonianza di Mario Tronci, presente nella pubblicazione Come si muore per l’Italia libera. I martiri di Figline di Prato, pubblicato nel 1945 dall’Amministrazione del Comune di Prato. nelle
La differenza principale di questo terzo volume è l’introduzione biografica che apre le testimonianze. In un impegno di continuo miglioramento, abbiamo pensato di far precedere il racconto dai dati biografici del protagonista, sia per venire incontro al lettore e facilitarlo nell’inquadrare correttamente le vicende, sia per meglio delineare la figura stessa del testimone. L’obiettivo delle Ultime Voci è infatti quello di preservare la memoria dei soldati e far comprendere come essi stessi abbiano scritto la storia
Paese, con un contributo che si è espresso sui campi di battaglia e successivamente nelle attività della vita quotidiana. del
Ringraziamenti Questo volume si è avvalso della partecipazione di più persone. Un grazie particolare va a coloro che hanno contribuito a raccogliere le testimonianze o che hanno ritenuto che la nostra pubblicazione fosse il luogo più adatto per diffondere il risultato del loro lavoro.
Ringraziamo Luca Bencivenni, che ha curato le interviste a Ugo Becagli, Vinicio Becchi e Raffaello Bencivenni, Michele di Sabato che ha curato l’intervista a Giovanni Bicciato e Jacopo Gavazzi, Silvana Santi Montini ha curato le interviste a William Pancaldi e Mario Pini. Inoltre
un ringraziamento particolare va a chi ha promosso il progetto e collabora
alla sua realizzazione:
Comm. Sergio Paolieri, Luana Cecchi, Giorgio Lavorini, Silvana Santi Montini, Francesco Venuti.
Indice delle testimonianze Ugo Becagli................................................................. 15 Vinicio Becchi.............................................................. 17 Raffaello Bencivenni.................................................... 21 Giovanni Bicciato......................................................... 23 Giorgio Bigagli............................................................. 27 Mario Castellani........................................................... 29 Giuseppe Conti............................................................ 33 Gino Coppini............................................................... 37 Arrigo Ferri................................................................. 43 Florido Fiaschi............................................................. 46 Martino Gacci.............................................................. 50 Jacopo Gavazzi............................................................ 55 Italicus ...................................................................... 67 Armando Lapi.............................................................. 90 Alvaro Lisi................................................................... 97 William Pancaldi........................................................ 116 Giordano Pini............................................................ 119 Mario Pini................................................................. 124
Volume terzo Ugo Becagli
Ugo Becagli è nato a Campi Bisenzio (Firenze) il 2 ottobre 1912. Fu chiamato alle armi il 14 gennaio 1941 ed arruolato nel 127° Fanteria di Pistoia. Ebbe l’incarico di magazziniere alla vestizione. Il suo compito era arruolare giovani per l’esercito.
Il 4 gennaio 1941 fui chiamato alle armi nel 127° Fanteria a Pistoia. Quasi subito ci spostarono nella caserma di via Bicchierai dove rimanemmo circa due mesi, quando i più anziani partirono per la Jugoslavia. Mi fu data la mansione di magazziniere alla vestizione e iniziammo a muoverci nel circondario per procedere all’arruolamento dei giovani. Iniziammo da Montecatini e di volta in volta alloggiavamo in luoghi pubblici, alberghi, teatri. Il materiale si spostava con i muli e il treno Nel 1941 si fece il campo di addestramento estivo a Poppi, poi si tornò a Pistoia. Successivamente ci spostarono alla villa Imbarcati a Montale e nel 1942 il campo di addestramento estivo fu fatto a Montepiano, alloggiavamo nella Badia. Al ritorno ci stabilimmo nella fortezza di Pistoia e subito dopo fummo trasferiti nella villa Bastogi di Montale dove il magazzino fu collocato nella torre. Addestrammo i ragazzi della classe 1922 e quando furono inviati in guerra arrivarono gli “allegrotti”, gli italiani provenienti da Trieste e dall’Istria. Disertarono quasi tutti e allora furono richiamati uomini più anziani che non avevano fatto il militare. Ci trasferirono all’albergo Impero di San Piero ad Agliana e l’8 settembre 1943 con la firma dell’armistizio, i soldati scapparono tutti. Io andai a casa lasciando da solo il maggiore che piangeva e tutta la roba del magazzino, che era fornitissimo. Dopo qualche tempo tornai a vedere ma non c’era più niente e nessuno. Non fui più ricercato. La mia famiglia abitava a Prato, a Coiano in via Bologna 15
Ultime Voci e quando iniziarono a scendere le colonne di truppe tedesche che stavano occupando l’Italia, davanti a casa passavano continuamente carri armati. Io mi nascondevo in soffitta e quando c’erano gli allarmi per i bombardamenti aerei andavamo nel rifugio scavato nella roccia nella cava del Fossino, alle Sacca. Questo rifugio aveva due ingressi e nel centro della galleria, al livello del pavimento, c’era una piccola apertura attraverso la quale si entrava in una piccola grotta laterale. Un giorno arrivarono i soldati tedeschi che stavano facendo un rastrellamento e cercavano gli uomini, avevano avuto indicazioni da un “grullo”, un ragazzo che aveva problemi psichici. Entrarono nel rifugio tra donne e bambini battendo con il calcio del fucile tutte le pareti. Eravamo in molti pigiati nella grotta e quasi soffocavamo, fortunatamente non riuscirono ad individuare l’ingresso e quindi ci salvammo dalla deportazione. Poi sfollai con la famiglia alle scuole di Iolo, in una classe. Quando arrivavano tedeschi e repubblichini a cercare gli uomini, mi nascondevo nella soffitta dove avevo tolto dei cantoni da un muro divisorio, in modo che potevo passare in un sottotetto e poi li ricollocavo al loro posto chiudendo l’apertura. Una volta non feci in tempo a scappare, allora mi misi nel letto e le mie figlie mi coprirono coi loro corpi, fortunatamente l’ispezione non fu molto attenta. Tornammo poi a casa e un giorno ero in Prato, i tedeschi avevano trovato un filo del telefono tranciato, allora mi fermarono con molte altre persone, quando capirono che il filo era stato strappato da un loro camion, io fui rilasciato perché avevo ancora la carta di identità di Campi Bisenzio. In quei giorni il fronte si stava avvicinando, i carri armati tedeschi, ad un anno di distanza, passavano continuamente davanti casa, ma adesso diretti verso nord. Finalmente stava per avere fine il cruento delirio imperialista del nazifascismo. Testimonianza raccolta il 29/12/2009 da Bencivenni Luca.
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Volume terzo Vinicio Becchi
Vinicio Becchi è nato a Figline (Prato) il 13 ottobre 1922. Fu chiamato alle armi nel gennaio 1942 ed arruolato nel 9° Reggimento Lancieri di Firenze, di stanza a Ferrara.
Sono nato a Figline di Prato in una famiglia antifascista, mio padre e mio zio furono fortemente perseguitati dal regime. Quando avevo quattro anni ho vissuto un’esperienza terribile, l’irruzione in casa dei fascisti che, minacciando mia madre con un coltello alla gola, intimavano la consegna della “bandiera rossa” che in realtà non c’era. Nel gennaio 1942 fui chiamato al servizio militare nel 9° Reggimento Lancieri di Firenze di stanza a Ferrara. Sono stato di servizio anche in altre caserme del nord e una volta abbiamo portato dei cavalli a Bari dove furono imbarcati per il fronte albanese. Il 6 settembre 1943 ci avevano spostati in quella che chiamavamo “la caserma nuova di Ferrara” e fummo schierati sulla strada, fuori dall’edificio, protetti da semplici balle di paglia e armati di moschetti leggeri. In direzione di Bologna si sentivano colpi di armi pesanti sparati dalle truppe tedesche che stavano procedendo verso Ferrara. Rendendomi ben conto della nostra ridicola postazione, già abbandonati dagli ufficiali, decisi di fuggire. Chiesi al mio amico Renzo di seguirmi ma lui volle rimanere. Entrai nella caserma, saltai il muro di cinta e poi mi recai presso una famiglia dove avevo lasciato degli abiti civili, mi cambiai e nel frattempo mi raggiunse anche Renzo che era di Francolino, lì vicino, e andammo a casa sua dove rimanemmo nascosti per due settimane. Mio fratello era gravemente ammalato e quindi volli tornare a casa, presi il treno ed arrivai a Prato. Già fermamente convinto di non voler più sottostare al giogo nazifascista, il richiamo 17
Ultime Voci alle armi del Bando Graziani e le deportazioni per gli scioperi del marzo 1944 mi dettero la spinta finale a salire sui Faggi di Iavello ed aggregarmi alla formazione partigiana Orlando Storai. Poco tempo dopo dal CLN di Prato ricevemmo l’ordine di trasferirci sul monte Falterona. Io fui incaricato di andare alla Pubblica Assistenza procurare delle armi da portare poi alle Croci di Calenzano, ma l’operazione fallì e mentre la formazione si spostò nel Mugello io rimasi a Prato mantenendo una certa operatività col CLN. All’inizio di giugno fu costituita la brigata Bogardo Buricchi, sempre sui Faggi di Iavello. Per un periodo fui distaccato in Calvana per proteggere i contadini dalle scorrerie dei repubblichini. Avevamo l’ordine di ucciderli, ma ci limitavamo a dare loro una lezione in modo che si allontanassero senza tornare. Spesso anche gli stessi contadini non capivano questo nostro atteggiamento, ma se li avessimo uccisi poi sarebbero scattate delle sanguinose rappresaglie, invece così si raggiungeva l’obiettivo di liberare il territorio senza conseguenze. Fortunatamente in molte occasioni ho seguito il mio buon senso, pensando più ad evitare funeste conseguenze che a rispettare alla lettera gli ordini ricevuti. La popolazione si sentiva protetta dalla presenza dei partigiani, infatti tedeschi e fascisti avevano paura e agivano con minore libertà. Dovevamo anche procacciare i rifornimenti per la formazione, principalmente ci rivolgevamo alle fattorie e solo alcune volte dovemmo ricorrere alle minacce, infatti generalmente ricevevamo spontaneamente il sostegno e l’aiuto materiale della popolazione. Era naturale che così fosse, perché non dobbiamo considerare l’organizzazione partigiana un movimento autonomo, ma un corpo armato costituito da volontari del popolo, una sorta di autodifesa messa in atto dalla popolazione, ormai esasperata dalla drammatica situazione venuta a crearsi con l’occupazione tedesca e la guerra in generale. Il 5 settembre 1944 eravamo sui Faggi ed arrivò l’ordine di calare a Prato per partecipare alla liberazione della città, infatti dovevamo bonificarla dai franchi tiratori. Scendemmo alla Collina, non trovammo la staffetta ad attenderci, ma fu deciso di proseguire lo stesso verso Prato. Quando arrivammo in Pacchiana presso il cancello della villa Mercatanti, fummo attaccati. Io fui ferito ad una gamba, cercai di fermare il sangue con un fazzoletto e assieme ad un compagno risalii la collina sovrastante attraverso il bosco, scendendo poi verso le Lastre. Ero stremato, perciò ci fermammo in una capanna, presso la villa in costruzione e lì trovammo alcuni compagni sfuggiti all’agguato. Mi dissero che avevano l’intenzione di aspettare la mattina per farsi aiutare dal 18
Volume terzo contadino. Cercai di convincerli a spostarsi perché i tedeschi avrebbero fatto sicuramente un rastrellamento e sarebbero stati trovati. Non vollero ascoltarmi ed infatti l’epilogo fu la strage dei 29 Martiri. Io cercai invece di avvicinarmi alle case, ma arrivato dentro la macchia caddi svenuto. Mi ripresi scosso dalle detonazioni delle granate sparate dalle forze alleate che stavano avanzando, fui visto da tre donne che mi nascosero in casa, mi tolsero i vestiti mimetici e poi fui portato con un barroccio, nascosto sotto un telo, con grande rischio, fino all’ospedale di Prato, attraversando con molta difficoltà tutte le macerie che invadevano le strade. Dopo il passaggio del fronte esisteva una illegalità diffusa. All’epoca, trascinato da quel clima rovente, anche io avrei voluto vendicare tutti i soprusi subiti da mio padre, ma lui stesso, uomo di grande forza morale, mi dissuase. Quindi incominciai a pensare al futuro del nostro paese e, tramite il governo provvisorio, partecipai alla riorganizzazione della vita sociale ed al ripristino della legalità. Per tutta la vita ho poi proseguito con il volontariato e mi sono impegnato anche politicamente. Negli anni della guerra ho vissuto momenti difficili, affrontati sì con intelligenza ed intuito, ma mi rendo conto che un ruolo determinante nel salvarmi la vita è stato giocato dalla fortuna, in quanto tante decisioni prese non ho avuto nemmeno il tempo di ponderarle. Imponderabilità ed approssimazione hanno segnato anche la storia della nostra formazione partigiana, portando a commettere tanti errori: la posizione delle nostre postazioni ed i nostri spostamenti erano il segreto di Pulcinella, c’era un via vai continuo di uomini che entravano e uscivano dalla formazione; per sfuggire all’arresto perché renitenti alla leva, arrivarono i ragazzi delle classi ’24 e ‘25 che non avevano nessuna preparazione e alcuni non si rendevano nemmeno conto di essere in guerra; anche i comandanti non avevano una preparazione militare sufficiente, inoltre si erano aggregati individui che in autonomia fecero azioni discutibili e censurabili. Tutto questo portò spesso a mettere a repentaglio, oltre alla vita dei partigiani, soprattutto quella dei civili che incredibilmente rischiarono molto di più perché, inermi, furono esposti alle rappresaglie dei soldati tedeschi, pagando così il più alto tributo in soprusi e vite umane. Quanto ho detto non deve sminuire la lotta partigiana, combattuta in buona fede e con il massimo impegno possibile, ma sottolineare ulteriormente la difficoltà di quei momenti e il carico di responsabilità che dovevamo sostenere. L’obiettivo della resistenza era quello di portare la democrazia nel nostro paese, un sincero e nobile intento che sgorgava direttamente dai nostri cuori, perciò ritengo che questo possa com19
Ultime Voci pensare ampiamente gli inevitabili errori commessi in quei concitati momenti. Spero che le generazioni future sappiano salvaguardare quello che è stato conquistato con i duri sacrifici di allora. Testimonianza raccolta il 30/12/2009 da Bencivenni Luca.
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Volume terzo Raffaello Bencivenni
Raffaello Bencivenni è nato a Rignano sull’Arno, Firenze, il 20 dicembre 1924. Dopo due anni di premilitare, il 13 agosto 1943 fu arruolato nel Reggimento Lancieri a cavallo di Firenze, che era di stanza a Ferrara. Negli anni 1942-1943 dovetti frequentare il pre-militare, prima a San Casciano e poi a Borgo San Lorenzo. Dovevo essere arruolato nella Guardia di Finanza, ma a causa dell’altezza fortunatamente fui scartato. Quel corpo partì per la Russia e probabilmente nessuno è tornato. Il 13 agosto 1943 fui inviato a Ferrara, al Reggimento Lancieri a cavallo di Firenze. Mi assegnarono un cavallo requisito chissà dove, non domato, bizzoso, al quale non ci si poteva nemmeno avvicinare e tanto meno si faceva montare. Eravamo un’armata brancaleone, senza scarpe e vestiti adatti, chi aveva una bomba a mano, chi un fucile senza munizioni, chi niente. Eravamo destinati al fronte russo, pura follia, in quelle condizioni non avremmo potuto sopravvivere nemmeno al viaggio. L’addestramento si svolgeva all’interno della caserma, che era grandissima, e consisteva nell’abituarci a resistere alla fatica ed alle privazioni, infatti marciavamo e correvamo continuamente. Tutte le notti suonava l’allarme e cessava solo dopo che avevamo trasferito tutte le balle di paglia da un capannone ad un altro. Cera un capitano che era una carogna, anche se si trovava dall’altra parte della immensa piazza d’armi, praticamente irriconoscibile a causa della distanza, dovevamo metterci sugli attenti altrimenti iniziava a colpirci con il frustino. Dopo l’armistizio 8 settembre 1943 ci fu lo sbandamento dell’esercito italiano. I nostri ufficiali, che avevano preso accordi per consegnarci ai tedeschi, ci chiusero dentro la caserma e scapparono. Era rimasto con noi un maresciallo, una bravissima persona, che ci radunò e ci mise al corrente di quanto stava accadendo, ci disse che presto sarebbero
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Ultime Voci arrivati a prenderci i soldati tedeschi per riempire le tradotte in partenza per la Germania, consigliandoci di scappare. Riuscimmo ad aprire il portone che dava sul cortile e con mezzi di fortuna scavalcammo il muro di cinta, alto oltre tre metri. Io e il mio vicino di branda ci trovammo in un giardino privato. I proprietari ci aprirono la casa, come facevano quasi tutte le famiglie con i soldati fuggiaschi, ma il mio amico mi propose di seguirlo fino a casa di suo fratello. Io ero titubante perché si trattava di mettersi nelle mani di un fascista e collaborazionista dei tedeschi. Invece ci accolse amorevolmente nascondendoci in cantina, poi, cessati i rastrellamenti, ci rivestì alla meno peggio, ci accompagnò alla stazione facendoci salire su di un vagone merci con destinazione Arezzo. A casa iniziò subito la lotta “gatto-topo” da una parte con i repubblichini che volevano arruolarci per mandarci al fronte a combattere contro gli alleati, che invece per noi rappresentavano la liberazione, dall’altra con i tedeschi che volevano inserirci nelle squadre di lavoro della Todt per riparare strade e ferrovie danneggiate dai bombardamenti. Lavorai per la Todt sulla ferrovia Firenze – Arezzo, ma saputo che gli alleati erano già a nord di Roma, mi scorticai un ginocchio con la carta vetrata applicandoci poi dell’insalata per non farlo guarire, in modo da ottenere un certificato medico. Da quel momento insieme ad altri coetanei presi la strada della clandestinità, passando di nascondiglio in nascondiglio tutte le volte che pensavamo di essere stati individuati. I tedeschi avevano occupato sia la villa padronale che la nostra casa, quindi la mia famiglia si era trasferita in un rifugio della zona. Un repubblichino mi aveva notato e sapendo che ero renitente alla leva mi stava cercando, perciò ci dovemmo spostare molto più lontano. Qualche giorno dopo arrivarono dei soldati tedeschi che ritennero il nostro nuovo rifugio adattissimo come postazione per una mitragliatrice, ci fecero sloggiare e fummo accolti da alcune famiglie che avevano scavato un rifugio molto più grande nel bosco. Stava passando il fronte, le esplosioni erano continue e anche la postazione di mitragliatrice tedesca fu colpita in pieno. Mio padre fu ferito ad una gamba e mio zio preso prigioniero e portato in Germania. Quando arrivarono gli inglesi fu finalmente la fine di un incubo, tornammo a casa che era in condizioni disastrose, recuperammo le nostre cose che erano state murate nella stanza sotto il forno e che fortunatamente i tedeschi non avevano scoperto, poi pur con mille difficoltà riprendemmo la vita dei campi iniziando con la mietitura del grano. Dal marzo 1946 all’aprile 1947 completai poi il servizio di leva nel Genio, presso vari corpi e caserme del Nord Italia. 22
Volume terzo Giovanni Bicciato
Giovanni Bicciato è nato il 10 dicembre 1921 a Padova. A causa della malaria che aveva contratto sul fronte albanese, l’8 settembre si trovava a Verona, dove fu prelevato dai tedeschi e deportato in Germania. Fu internato nei campi di prigionia di Dachau e Mauthausen.
Reduce dell’Albania, dove aveva contratto la malaria che gli aveva fatto trascorrere tre mesi all’ospedale, l’8 settembre Giovanni Bicciato si trovava a Verona in attesa di essere trasferito altrove, ma cercava con i tradizionali artifici del tabacco di mantenere alterato il proprio stato di salute per allontanare il più possibile quella data. I tedeschi fecero irruzione nella caserma in cui si trovava l’11 settembre 1943, lo prelevarono con gli altri militari, credendo di insultarli con l’appellativo di antifascisti e traditori, e li portarono direttamente alla stazione. Il treno che li trasportò in Germania fece due o tre fermate, sostando fra l’altro a Bolzano, dove tutti cercarono di buttare il solito biglietto per i familiari e alcuni compagni del Bicciato morirono stritolati dalle ruote del convoglio nel tentativo di salvarsi mediante un’apertura che avevano ottenuto staccando una grata e uscendo dalla quale erano stati colpiti dai respingenti del carro. A Dachau li portarono in un baraccone di fronte al quale ce n’era un altro che ospitava “preti, ufficiali e gente aristocratica” che riusciva a ricevere pacchi con alimenti, e di conseguenza tanto male non se la doveva passare se, guardinga per non essere scoperta dalle occhiute SS, talvolta facevano arrivare qualcosa anche a loro. 23
Ultime Voci Da Dachau, in data non precisata dal documento informativo della Croce Rossa che lo riguarda, Bicciato fu trasferito al sottocampo di Allach, dove era in allestimento un’officina per la produzione degli aerei Messerschmitt e dove egli avrebbe potuto lavorare come meccanico, secondo la richiesta fatta quando era stata prospettata loro quella possibilità. Sennonché, in attesa che quegli impianti fossero completati, i deportati vennero impiegati come manovali e in altri lavori ausiliari, durante uno dei quali, per scaricare delle traversine dai vagoni, Bocciato s’infortunò rimanendo impigliato con una mano in una catena, e poi, una settimana prima dell’entrata in funzione, il complesso industriale a cui era destinato, fu distrutto da un furioso bombardamento. Il 17 o il 18 agosto, così, egli fu trasferito a Mauthausen ed ebbe un secondo numero di matricola, 88917, e il 29 settembre fu assegnato al sottocampo di Gusen 1°, dove lavorò fino alla liberazione nei sotterranei attrezzati sempre per la Messerschmitt, addetto ad una pressa, responsabile del funzionamento delle macchine e della riparazione di eventuali guasti. Sotto l’aspetto lavorativo non aveva particolari problemi; aveva come capo “un brav’uomo”, dice, che spesso con le dovute cautele gli portava del pane , e con i soldati della Wehrmacht che li vigilavano intercorrevano rapporti amichevoli, fatte salve le misure precauzionali nei confronti delle SS. In collaborazione con un orefice incisore russo, con gli scarti della lavorazione fabbricava accendini ed altri ninnoli per i tedeschi, riuscendo a conquistare un modo di vita più tollerabile, e tuttavia, dice, “le bastonate che ho preso non le sa neanche il Padreterno”. Ricorda di aver visto far stendere un deportato a terra, mettergli sul collo un manico di granata e su questo montare con i piedi una SS, che s’accese una sigaretta e vi rimase finché la vittima sfortunata non morì strozzata. Era troppo facile morire nel lager: la morte stava nascosta ad ogni angolo; bastava avere la sciolta, dice Bicciato, fermarsi un istante mentre si tornava o andava al lavoro, che comunque un kapo o una SS ne avesse voglia, che una pallottola o qualcos’altro stroncava la vita che a stento sosteneva ancora i corpi debilitati di quell’esercito di uomini ridotto ad un’esistenza inumana. Finché un giorno egli vide le SS gettare le armi e allontanarsi, sentì le esplosioni nei dintorni, capì che stavano per essere liberati, vide i compagni che come una marea travolgevano il filo spinato e si allontanavano dal campo, e non si mosse. Attese con qualche compagno che si calmasse “l’ondata” e il giorno dopo s’avviò con altri due deportati 24
Volume terzo verso Linz per raggiungere gli americani. A Linz rimase per più di un mese, poi arrivò il momento del rimpatrio anche per lui. Da Linz a Bolzano andò in treno, a Bolzano gli dettero degli indumenti e la possibilità di disfarsi di quelli che aveva, panni delle SS da lui tinti con le bacche di sambuco. Da Bolzano, ignaro degli sconvolgimenti avvenuti in Italia, partì per Verona, dove aveva un cugino carabiniere, ma non lo trovò; a piedi raggiunse Verona e con un camion arrivò finalmente a Padova, dove i suoi familiari avevano ricevuto dai tedeschi tre telegrammi con l’annuncio della sua morte. Arrivato a casa, gli morì il padre, e nell’impossibilità di trovare un lavoro si trasferì a Prato. A vedere i campi di concentramento non è mai tornato. Gli parrebbe, dice, di rivedere il grande massacro che i nazisti hanno fatto, e non se la sente. Testimonianza registrata da Michele Di Sabato il 22/9/1982.
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Ultime Voci
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Volume terzo Giorgio Bigagli
Giorgio Bigagli fu richiamato il 13 maggio del 1943 e mandato in Sicilia. Dopo lo sbarco degli alleati fu fatto prigioniero e portato in Tunisia. Alla fine del 1944 fu portato in Algeria per essere imbarcato per l’Inghilterra. Sbarcato a Liverpool, fu portato a Swindon. Tornò a casa, in piazza del Duomo, il 6 maggio del 1946.
Dei combattimenti in Sicilia dopo lo sbarco degli Alleati, che hai qualche episodio particolare da raccontare? Oppure se vuoi dare un tuo giudizio sulle condizioni in cui combattevate? A me al Distretto non dettero né gavetta né borraccia e ci dettero una pannocchia e una scatoletta in quattro. Mentre si risciacquava la gavetta si vide un aereo, un bimotore tedesco, che tutto ad un tratto andò in terra. Si corse per cercare di soccorrere e portare i feriti, l’apparecchio rimase distrutto e qualcuno si salvò per miracolo. Poi dopo ci fu un combattimento forte, cannoni, mortai, non ci si faceva a stare riparati, perché il mortaio il proiettile come tocca falcia, non va su come la bomba. La bomba esplode, va su e si spande, invece il mortaio ti falcia. Allora aveste parecchie perdite? Ti ricordi amici che hai visto morire? C’era il furiere che aveva la spina spezzata, aveva una tana che sarà stata 40 cm., poveretto, mi salutò e poi ci portarono via. Era un disastro, non s’ebbe nemmeno il tempo di 27
Ultime Voci prendere il fucile in mano. Si cercava di ripararsi, poi dopo arrivarono le truppe e ci si buttò di sotto senza resistere e allora ci presero. Ho visto che dal tuo richiamo all’andata in Sicilia la cosa fu abbastanza veloce. Con molta probabilità sei arrivato in zona di combattimento senza essere stato ben preparato. No, non s’ebbe il tempo. Si pensò a ripararci dalle bombe che ci cascavano vicino. Cosa si doveva fare? Quando finì il bombardamento si videro delle persone avanzare e per non farci prendere sul posto, s’era quattro o cinque, ci si buttò dalla scarpata di 10 mt.
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Volume terzo Mario Castellani
Mario Castellani è nato il 22 maggio del 1921 a Prato. Fu chiamato alle armi il 20 gennaio 1941, ed arruolato nell’ 11° Reggimento Fanteria, 2 ° Battaglione, Compagnia Comando Divisione Casale. Di stanza in Grecia, dopo l’8 settembre fu catturato dai tedeschi e portato nel campo di Hemer. Fu liberato nel maggio del 1945 e tornò in Italia nel settembre dello stesso anno. Lo stesso Mario Castellani ha dato alla propria testimonianza il titolo di Diario del socio Mario Castellani. Il tempo del militare Soldato di leva “classe 1921”. Fui chiamato alle armi il 20 gennaio 1941. Giunto a Forlì, fui assegnato all’11° Reggimento Fanteria, 2° Battaglione, Compagnia Comando Divisione Casale. Dopo pochi mesi di addestramento, fui trasferito a Brindisi e imbarcato sulla nave Galileo per la Grecia. Sbarcato a Patrasso (Grecia), in territorio dichiarato in stato di guerra, vi rimasi, presidiando in ricognizione, fino al fatidico 8 settembre del 1943. Catturato, poi, dalle Forze Tedesche e fatto prigioniero, fui portato in Germania, al campo di Hemer, dove ho lavorato come cavatore di carbone in miniera nella zona della Ruhr, nel campo 152 I con il numero di matricola 62043 VI F. In miniera lavoravo sempre nei turni di notte, con pasti insufficienti e di pessima qualità. Sono stato liberato nel mese di maggio del 1945 dalle truppe americane e inglesi. Di nuovo fui rimesso in un campo di concentramento dai soldati inglesi. Poi ci furono accordi con gli Americani e io ed altri fummo lasciati liberi. Nel mese di agosto iniziò il rimpatrio: a tanti di noi toccò nel mese di settembre. Infatti sono tornato in Italia nel settembre 29
Ultime Voci 1945. Arrivato a Prato insieme ad altri commilitoni andammo in Comune a prendere il congedo. L’Associazione dei Combattenti Subito ho aderito all’Associazione dei Combattenti che raccoglieva i reduci della guerra del 1915/18 e che aveva la sede sotto le logge del Comune. In seguito noi della seconda guerra decidemmo di formare la nostra associazione. La nuova associazione, formata dai soldati del ’40, all’inizio prese il nome di Combattenti. Fu eletto un presidente e lo scopo principale dell’Associazione fu quello di collocare i soci nelle fabbriche di Prato. Ricordo di averne collocati tanti: uno di questi era Giannotti che entrò a lavorare dal Mazzini. In seguito diversi di noi fecero domanda per entrare nelle “guardie”. Quando il Comune ci diede il terreno alla Passerella si costruì la Capannina dove si andava a ballare. Un’altra attività a cui ho partecipato in prima persona fu quando il Comune ottenne una stanza alla Stazione Centrale di Prato che serviva come punto di accoglienza e di rinfresco per i reduci che tornavano a casa. Un’altra opera fu quella di andare nelle fabbriche a chiedere la stoffa per i reduci più bisognosi. Tralascio altre opere che sono state fatte. Vengo ora a parlare degli anni in cui fu presidente il Saccenti, che ottenne dal Comune il terreno posto in piazza San Marco. Su quel terreno, con l’aiuto degli architetti, furono gettate le fondamenta di quella che diventerà la Casa dei Combattenti e Reduci. L’Associazione allora dipendeva da Roma, ma era sotto il diretto controllo di quella di Firenze. All’epoca era Presidente Nazionale l’avvocato Renato Zavattaro. In quegli anni l’Associazione ottenne dal Comune la gestione di tutti i posteggi di Prato, attività che rendeva abbastanza. Quando fu finita la Casa dei Combattenti e Reduci ci fu l’inaugurazione e la piazza San Marco era piena di gente. Nell’edificio che ospitava l’associazione c’era anche un bar e una sala di lettura che all’inizio fu frequentata dai soci. In seguito, quando fu poco frequentata, una parte della sede fu data in affitto alla stamperia che vi si trova ancora. Sotto la presidenza del Saccenti l’Associazione ebbe un periodo fiorente anche se molti soci se ne andarono per motivi politici. Io sono rimasto perché ho sempre guardato all’onestà delle persone e non al “partito” a cui appartengono! 30
Volume terzo Quando entrai in associazione ero un semplice socio, poi mi fu proposto di far parte del consiglio dei Probiviri e accettai. Dopo un anno mi proposero di diventare uno dei Revisori dei Conti: io ci pensai un po’ e dopo accettai l’incarico. Eravamo in tre. Ero giovane e la mia situazione familiare mi permetteva di partecipare alle iniziative che venivano decise. Svolgevo alcuni incarichi, tra i quali quello delle gite. Allora si facevano molte gite, anche all’estero. Fra le persone di quel tempo ricordo il Bellini1, che era impiegato e ha tenuto per tanto tempo l’amministrazione. Ricordo le manifestazioni che si facevano, a Firenze, in piazza della Signoria con Zavattaro, a causa della Legge 3362 che assegnava ai combattenti statali e parastatali sette anni di scivolo per andare in pensione e agli altri non dava nessun contributo. A forza di protestare e grazie all’interessamento dell’avvocato Zavattaro, decisero di dare un contributo di 500 £ al giorno anche a noi che non eravamo statali o parastatali. Ora ci danno 1.000 £, ma sono sempre poche rispetto a quelle che hanno avuto gli statali. Dopo qualche anno Saccenti, con il suo vicepresidente dott. Carlesi, mi chiesero di entrare nel Consiglio. Decisi allora di far parte anche del Consiglio e ci sono rimasto quasi trenta anni. Quando fu eletto presidente il compianto Tassi io volevo restare nel Consiglio, ma mia moglie, a cui avevo promesso di non farmi rieleggere, mi convinse. Telefonai al Tassi, dicendo che per la mia situazione familiare non me la sentivo di entrare di nuovo nel Consiglio. Mi propose di fare il Revisore dei Conti, ma, all’età di ottantuno anni, non me la sono sentita di accettare, anche se a lui è dispiaciuto. Questo è il breve diario della mia storia di socio ex-combattente. Saluto con affetto tutti gli amici dell’Associazione “Combattenti e Reduci”. Mario Castellani
1 La testimonianza di Ilario Bellini è contenuta nel secondo volume di questa collana: Ultime Voci volume 2 pag. 32. 2 Si tratta della legge 24 maggio 1970 n.336 Norme a favore dei dipendenti civili dello Stato ed Enti pubblici ex combattenti ed assimilati.
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Ultime Voci
La fotografia fu scattata da Giacomo Cimarelli
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Volume terzo Giuseppe Conti
Giuseppe Conti è nato a Mercatale di Vernio, Vernio, l’8 agosto del 1906. Fu richiamato il 6 agosto del 1943. Dopo l’8 settembre fu preso prigioniero di guerra e trasferito nel campo di Marburg. Lavorò in una fabbrica di polvere da sparo fino al 6 aprile 1945, quando fu liberato. Tornò a Firenze il 6 giugno dello stesso anno.
Fui richiamato il 6 agosto del ’43 e andai a Firenze, da Firenze a Pistoia e poi di nuovo a Firenze. L’8 settembre ero in carcere perché ero venuto due giorni avanti a casa, e non ci avevano ancora vestiti. Tornai e mi misero in prigione, al 19° Artiglieria. Ci armarono e ci dissero che bisognava resistere ai tedeschi, sennonché ci portarono via tutto. Ci inquadrarono armati nel cortile e il colonnello (Guerriero, Guerrini n.d.R) disse: “I tedeschi hanno i carri armati”, ci fece disarmare e ci fece rientrare tutti dentro, così ci fece prendere disarmati e ci portarono al 19° Artiglieria a Firenze. Quando ci presero, a Firenze, molti erano già scappati dal tetto, ma poi molti li presero fuori e li portarono in caserma. Non ci avevano neppure vestiti, da quando ci avevano richiamati. Dopo una decina di giorni ci portarono al Campo di Marte, la sera; ci misero 40 per vagone, chiusi a lucchetto di fuori, e ci riaprirono oltre Innsbruck. Si ripartì, dopo oltre una quindicina di chilometri si discese e ci fecero la disinfezione, in un campo di concentramento in un prato, e vennero tutti i contadini. Chi ne pigliava 5, chi 10, per la raccolta delle patate. Il contadino dove andai io ne prese 5 e si lavorò 19 giorni, dopo di che ci
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Ultime Voci riportò al campo di concentramento. Dopo 15 giorni arrivò una richiesta di 400 per un commando di lavoro e ci mandarono a Renause1 a lavorare in una fabbrica di polvere da guerra. Dopo un anno che si lavorava in questa polveriera mi riportarono al campo di concentramento di Morburgo2 a operarmi di una “renite” sotto un braccio e ci stetti due mesi, poi la guardia mi riportò giù alla fabbrica. Il 6 aprile il fronte degli americani si trovava vicino, la mattina ci fecero un foglio nel caso ci trovasse la polizia. Quando facemmo un chilometro questa fabbrica venne bombardata da un pezzo: la presero in una cantonata, era 4 chilometri quadrati. Quando si era nella fabbrica volevano che si firmasse per diventare civili, ma non si volle firmare, si era militari. Dicevano: “Ordine del Duce, bisogna passare civili”, ma non si firmò. Comunque cominciarono a pagarci a marchi buoni. Noi si partì il 6 d’aprile e s’arrivò il 6 giugno. Si fece a piedi fino a Innsbruck, poi di là ci portarono gli americani con i camion fino a Verona, dove ci s’attaccò ad un camion, eravamo 5 o 6, e ci portò a Firenze. Durante il viaggio a piedi s’andava a bussare ai contadini e ci mettevano nella stalla, ci davano da mangiare, non volevano nulla. Il 6 aprile 1945 ci lasciarono liberi, con un foglio per viaggiare. Si partì a piedi, si era 6 che si veniva a Firenze. In polveriera ci lavoravano anche due deportate. La vita durante la prigionia Noi si lavorava, ma dov’ero io non hanno mai picchiato nessuno. Da me c’era il capo mi portava anche il pane da mangiare da casa. Dov’ero io eravamo in 400, non ci furono maltrattamenti. Si dormiva in castelli a tre piani, uno per piano, pagliericcio di paglia, due coperte. Vestiti con la nostra divisa. Ci davano 200 grammi di pane, 20 di margarina, the la mattina, a desinare un ramaiolo di rape, verdura e tre patate, la sera un’altra mestolata… la birra la portava un tedesco, un barilotto… Per un anno ci pagarono a marchi da campo, due marchi, per comprare la birra. Per un anno non si poteva mica uscire, invece dopo un anno ci fecero passare civili, ci dettero marchi buoni. Si poteva circolare per 5 chilometri. Dove s’era noi era tutta pianura, c’erano solo contadini. Ci facevano lavorare 8-9 ore. Io uscivo con un altro e andavo 1 Probabilmente è la città di Reinhausen, in Baviera, ancora oggi importante città industriale. 2 Probabilmente questa è la città Marburg, nell’Assia.
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Volume terzo dai contadini, ci davano latte, uova, carne, e non volevano nulla. Se quello che s’era fatto noi ce l’avessero fatto loro… Molti invece avevano inciampato male. Poi un giorno si capitò in un’aia, c’era un militare arrivato allora, aveva ancora lo zaino buttato lì, e noi si chiese il pane, per pagarlo, s’aveva i marchi buoni, si parlava un po’ il tedesco. Ci fece entrare, aveva la carne di maiale, in questa cucina grande, ci dette un vassoio di quella carne, pane bianco e birra, e quando si uscì aveva un pane nero, ci dette anche quello: questo sarà successo verso marzo-aprile 1945. Dice sua moglie: “Andò secco, tornò grasso”. Noi andavamo, due alla volta, a prendere il mangiare alla cucina. Avevamo tre bidoni, e andavamo due per mattina, sicché si faceva il terreno. S’andava ad aiutare, si faceva la vista di pigiare questo carrello… Ora nel tempo che questi due andavano a prendere le razioni c’era uno sportello che s’apriva e s’andava giù in cantina, dove tutti i giorni vuotavano camion di patate, sicché ci s’infilava dentro e ci si riempiva le tasche di patate. Erano due mesi che si faceva quel lavoro lì, due la mattina e due la sera. Avevo sognato che m’avevano trovato a rubare della roba in fabbrica, e la sera, toccava a me e ad uno di Prato, e dissi a quei ragazzi che avevo sognato che avevo rubato e mi volevano ammazzare. Ma ci andai. Ci s’era riempite già tutte le tasche quando si vide accendere la luce. Era il capo della cucina, un tedesco. Cominciò a vociare, ci portò fuori, ma a me ormai erano rimaste tre patate in tasca. La mattina gli avevano portato via tutti i porri e credeva si fosse gli stessi, a me dette uno schiaffo e ci portò alla guardia. E non ci fecero andare più. Per due mesi avremo portato via 15 chili di patate al giorno. Chi le cuoceva sulla stufa, chi sotto la cenere, chi aveva un bussolotto. Poi, vicino alla fabbrica, c’era una baracca di cavolfiori, e tutte le sere chi ne pigliava uno, chi ne pigliava due. Poi c’era vicino a dove lavoravo io l’ufficio dove andavano a mangiare gli impiegati, e gli avanzi c’era un bidone fuori e dalla cucina li buttavano tutti lì, sicché si vide una volta quando li buttavano, tutti quei minestroni sodi, si va a vedere e uno di Pisa ne piglia un pugno e lo mette in bocca. Ora la cuoca s’affacciò alla finestra e quando vide a quella maniera, che lo si prendeva a pugni, senza dir nulla gli avanzi li mise nella pentola sulla finestra. Un giorno s’era a scavare delle fosse. Faceva un freddo, un vento, e vicino c’era dove portavano, quando puliscono i cavoli, l’insalata, e s’andava in quei bidoni a vedere che 35
Ultime Voci c’era, e una donna che ci vide buttò giù due filoni di pane e mele. Lì s’era 5 o 6, si prese un pezzo per uno e si mangiò. In polverificio io lavoravo alla miscelazione, sicché quella polvere veniva su e io non facevo altro che tossire.
Deportati “gli schiavi di Hitler” in attesa di essere assegnati ad un campo di lavoro.
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Volume terzo Gino Coppini
Gino Coppini è nato a Prato il 14 settembre 1921. Fu arruolato come aviere scelto in Aeronautica ed inviato sul fronte russo, dove oltre che come pilota fu impiegato anche come autista della sussistenza. Al rientro dalla Russia fu assegnato di stanza nella caserma di Pisa, da dove fuggì prima dell’armistizio.
Mi chiamo Coppini Gino, nato a Prato il 14/9/1921, sono stato aviere scelto in Aeronautica. Aviere di leva, mi hanno mandato a vestirmi a Castiglion del Lago, dopo di che mi hanno mandato a fare il reclutamento nella leva avia a San Severo di Foggia, per fare anche un corso di automobilista su motore a benzina. Finito questo, ci hanno mandato al 150° Deposito di Bari, che era alla Fiera del Levante, a fare un corso sui motori diesel. Terminato questo ci hanno mandati in Russia. Allora Coppini raccontaci un po’ le tue esperienze di quella tremenda guerra in Russia.. La tremenda guerra. Noi eravamo all’aeroporto di Voroscilovgrad e s’incominciò a vedere i nostri apparecchi che s’alzavano in volo e ghiacciavano le bombe subito, sicché ci si incominciò a preoccupare; dopo qualche giorno s’incominciò a vedere i nostri reparti che ritornavano indietro, dopo qualche giorno ancora s’incominciò a vederli scalzi e ignudi, senza né armi né nulla, con i piedi rinvoltati nei cenci, chi urlava da una parte e chi da
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Ultime Voci un’altra. Dopo qualche giorno di servizio lì a Voroscilovgrad hanno chiesto all’Aeronautica un autista dell’esercito, perché mancava un autista nella sussistenza e sono andato io con un autocarro 126 diesel e mi sono messo a servizio della sussistenza. E lì si stava bene, si mangiava e si beveva bene. Ho fatto tutti viaggi sul fronte del Don, fino a che non siamo arrivati alle feste di Natale della ritirata. Arrivati al tragico Natale del fronte russo, che tutti sanno, alla vigilia ci hanno mandato tutti in linea, perché avevano promesso un attacco i partigiani ai nostri apparecchi, volevano dare fuoco agli apparecchi. Una spia aveva fatto il suo dovere e ci hanno armati tutti e mandati di notte, ne freddo, a 35°/40° sottozero a guardare gli aerei, che non si poteva star fuori più d’un quarto d’ora e invece siamo stati delle mezze ore e si sono avuti diversi congelamenti. Quando i Russi hanno sfondato, noi ci siamo trovati nel mezzo, ci hanno sorpassato, ma avanti a loro c’erano tutte le nostre ex-divisioni, la Pasubio, la Celere, la Tridentina, gli alpini cui eravamo rimasti insieme. Insomma eravamo tutti in ritirata, tutti scappavano, ma era molto difficile trovare le strade. Ci furono questi due, che per me furono dei geni, due persone che riuscirono a portarci verso Odessa. Si riuscì a trovare un varco. Io sono stato tutta una notte a rimorchiare camion, perché non avevano catene, su una salita, sotto le bombe e in una bufera di neve. Si rimorchiavano su per proseguire la ritirata. E si è patito tanto, tanto freddo; ci sono stati tanti morti, io ne ho visti tanti rimasti per la terra stecchiti come baccalà. Purtroppo. Queste sono le conquiste che fece il regime fascista. Avevamo un angelo con noi, era il nostro cappellano, si chiamava Ottorino Marcolini, era di Brescia, sottotenente dell’Aeronautica. Un eroe, medaglia d’argento sul Fronte Russo. Ci ha sempre incoraggiato, aiutato, veniva a mangiare il rancio con noi la sera. Noi s’era riusciti ad organizzare una piccola cucina in un locale russo e noi si vedeva ogni tanto arrivare e diceva: “Ragazzi, sto con voi”. Ora, mi dispiace, è morto, l’avevamo rintracciato ed è morto. Quando eravamo lì si frequentava i locali di Odessa, ma i nostri alleati non volevano che si andasse tanto e c’è stato discussioni, dispute e botte anche. Tant’è vero che una sera eravamo rimasti accerchiati, ad Odessa, e insieme ai marinai del Mas, perché avevano mandato i Mas ad Odessa, fu fatta una piccola battaglietta in cui ci furono due morti. Allora il Comando tedesco organizzò delle battute, venivano da noi a chiedere chi era stato e il nostro comandante: “Zitti! Non lo dite!”. Dopo questo fatto ci comunicarono 38
Volume terzo che ci avrebbero rimpatriati; in un primo tempo ci volevano rimandare sul fronte, ma non s’aveva più nulla, cosicché ci dissero che ci avrebbero rimpatriati. Allora fu fatto un gran urlo di gioia. A Pisa ho preso il bombardamento, ci furono tanti morti a Pisa… Poi ho saputo di un piccolo bombardamento a Prato; siccome abitavo alla stazione, non ho preso neanche una licenza, né un permesso e sono scappato di contrabbando e sono venuto a Prato. A Prato venne l’armistizio e tutto quello che successe ed io non mi sono più ripresentato.
Gino Coppini a Bologna. 39
Ultime Voci
Gino Coppini ad Odessa.
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Volume terzo
Gino Coppini e Rolando Risaliti
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Ultime Voci
Fotografia di un cimitero tedesco in Russia. Sono visibili due soldati italiani ed un autocarro Fiat 66.
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Volume terzo Arrigo Ferri
Arrigo Ferri fu arruolato in fanteria. Di stanza a Dubrovik, dopo l’8 settembre fu catturato e portato prigioniero in Germania. Fu liberato dai Russi nell’aprile del 1945. Non si sa la data in cui rientrò in Italia.
Ero in fanteria. L’8 settembre ero a Ragusa1, dalla radio ascoltai le notizie sull’armistizio e ci dissero di scappare perché era stato fatto l’armistizio, e si scappò. Io avevo la motocicletta e si scappò verso Ragusa, al porto. Si diceva che c’era una nave che ci portava in Italia, ad Ancona, invece finimmo in un campo di concentramento, in 30 mila, 5 giorni senza mangiare, poi ci fecero ammazzare tutti i cavalli che s’aveva, per mangiare, sempre in Croazia, a Ragusa, e di lì ci caricarono su un treno, 5 mila per volta. Era tutto aperto, si poteva scendere, si poteva fare quello che si voleva, si poteva evadere, ma ci dicevano che ci avrebbero portati in Italia. A Linz però ci chiusero e di lì ci portarono al campo di smistamento a Bistendorf2, di lì ci mandarono ad uno zuccherificio, ma il nome di quel paesino non me lo ricordo, poi lì insomma si stette due mesi, in questo zuccherificio. Di là ci portarono ad un campo di concentramento, nella zona est, ora. E lì feci la vita. Ci facevano lavorare dalla mattina alle tre fino alle sette, e ci facevano stare fino alle tre nel piazzale a mettere la testa a terra e rialzarsi, e di mangiare: zuppa di rape e un etto di margarina. Io facevo le alette per gli aeroplani, sotto la dirigenza di altri. Nel campo s’era un cinquemila, tutti prigionieri di guerra. Ognuno aveva il suo numero. Da questo momento, ci 1 La città è la città croata Dubrovnik, conosciuta in italiano anche come Ragusa di Dalmazia. 2 Probabilmente intende la città di Bissendorf nella Bassa Sassonia.
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Ultime Voci dissero, non siete più persone, siete un numero. Il mio numero non me lo ricordo bene: mi pare 374… Di documenti ho solo una cartolina spedita dal campo. Andai avanti con questo lavoro fino alla liberazione. Tante volte alle sette o l’otto la sera ci invitavano dicendoci che c’era un supplemento di rancio e invece ci mettevano in fila e con una gomma così ci bastonavano da capo a piedi, poi ci mandavano a lavorare. La mattina alle sei bisognava buttarsi di sotto e via. Poi c’era l’appello la sera, poi se c’era bel tempo ci mandavano a letto, se pioveva o nevicava ci mandavano fino alle otto per il campo, e botte quando capitava. Mangiare mezzo litro di rape, un etto di margarina e un etto di pane. Alla liberazione io ero al 140, c’era un ingegnere, disse: “Ruski”. Voleva dire i russi avanzano. Gli dissi: “Dove sono?”. “Scappare, scappare”, disse. Mi fece scappare, mi fece passare sulla ferrovia, arrivai al campo di concentramento e c’era la ferrovia dove portavano il materiale della fabbrica,e agli amici glielo dissi. Chi venne e chi non venne: quelli che non vennero si ritrovarono tutti impiccati nei gabinetti, e noi si stette 76 ore in un bosco senza mangiare, senza bere e senza nulla. Quando arrivarono i russi ci dettero otto giorni di permesso per fare quello che ci pareva di fare, e allora si cominciò ad andare a pigliare bestie, a pigliar cavalli, maiali, cioccolata, e c’era anche chi andava nelle case a pigliare orologi, anelli… Poi di lì si passò sotto gli inglesi, e quando si venne via si passò dal territorio occupato dagli americani, che, col treno, ci rimpatriarono. Dai russi si andò noi. Io non avevo il coraggio di andare a vedere, ci si mandò uno, si vedeva che ormai le cannonate erano bell’e finite, perché il paese si vedeva così, sicché questo ragazzo ci chiamò, disse: “Venite giù che qui è finita ogni cosa”. Lui era già tutto ubriaco… erano tre anni che non si beveva una goccia di vino. Si tornò, ci si mise nella baracca, ognuno dov’era a dormire, e si stette lì, la sera alle nove, alle dieci bisognava essere a letto, bisognava riguardarsi, non praticare le donne… I russi da noi arrivarono il 19 aprile 1945, di lì ci portarono via. Si stette un bel pezzo coi russi, poi ci passarono agli inglesi, ma io la data non me la ricordo, poi per rimpatriarci, su quel fiume meraviglioso che è in Germania… Vede, era il Vede3 e lì si stette un paio di (mesi?) o tre, poi di lì ci misero sul treno e ci portarono a Norimberga, dove ci tennero tre giorni, poi ci lasciarono su un binario morto tre o quattro giorni… insomma mangiare 3 Probabilmente il fiume Weser, che scorre nella Bassa Sassonia.
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Volume terzo ce ne davano. Quando s’arrivò al Brennero ci consegnarono alle autorità italiane, a Pescantina, da dove a scaglioni, dopo due o tre giorni, toccò a me. Si dormiva fuori, fra i campi.
Cimitero di guerra italiano
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Ultime Voci Florido Fiaschi
Florido Fiaschi è nato a Carmignano. Era arruolato nella 87° squadriglia aerea con la mansione di marconista.
Quello che segue è un episodio vissuto da Florido Fiaschi, raccontato come un racconto. Lo stesso Fiaschi lo intitola: La storia di un paio di guanti.
AEROPORTO DI BARI 23 gennaio 1941 Era circa la mezzanotte del 23 gennaio 1941 quando venni svegliato dal sottufficiale di servizio. Scosse la branda nella quale dormivo nel camerone dove alloggiava l’87° squadriglia aerea alla quale appartenevo come marconista. “Sei tu Fiaschi?”. “Sì”, risposi. “Domattina alle ore sei devi trovarti pronto per partire; sono stati avvistati sommergibili inglesi nell’Adriatico”. “Va bene”, risposi, e mi girai dall’altra parte, ma non riuscii più a dormire. “Maremma ladra”, pensai fra me, “proprio ora che sono ritornato dalla licenza”. La mia mente mi riportò indietro di pochi giorni a Poggio a Caiano, il mio paese: si svolgeva la fiera di Sant’Antonio. A quei tempi era una bella festa: tutto il paese vi partecipava. Mi ricordo che si svolgeva principalmente in via degli Angeli, oggi Lorenzo il Magnifico. Sotto la facciata del Landrone troneggiava la giostra piena di lustrini e bianchi cavalli; a fianco stavano alcune baracche di tiro a segno e tante ceste con tanti maiali 46
Volume terzo di tutte le dimensioni; lungo tutta la via erano predisposte bancarelle e ognuna esponeva la sua merce. In una di queste mi colpì la bellezza di un paio di guanti in pelle. Il venditore, visto che ero interessato a quei guanti, si mise a descrivermi tutti i loro pregi, assicurandomi che era l’ultima novità assoluta. Fui conquistato e li comprai anche se costavano cari, ma a quei giorni i soldi erano l’unica cosa che non mi mancasse: essendo specialista in un reparto di volo in zona di guerra avevo un buon mensile. A casa tutti elogiarono il mio acquisto. Ricordo che quando tornavo a casa per la licenza ero accolto come Babbo Natale (in quei giorni che tutto era razionato la gente soffriva la fame), perché portavo sempre le valige piene principalmente di pasta e olio, che in Puglia si trovavano, e avevo la possibilità di approvvigionarmi alla mensa di noi specialisti. Mi venne in mente anche la pasta che comprai quel giorno alla bottega di Fiordaliso: era bella e invitante a vederla, la mangiai ma per tutto il giorno non riuscii a digerirla: chissà quali intrugli aveva adoperato. La mattina alle ore sei era ancora buio; l’alba tardava a presentarsi, i motoristi avevano messo in moto i motori dell’aereo e stavano controllando le strumentazioni. Era freddo e dei brividi mi percorsero tutta la persona: “Forse è anche un po’ di paura”, pensai. I motoristi scesero dall’aereo e ci dissero che tutto era a posto. Guardammo tutti l’orizzonte: grosse nuvole coprivano il cielo sul mare; erano cumuli nembi alti e percorsi internamente da correnti invettive; sono pericolose specialmente se dobbiamo attraversarle, la strumentazione di bordo non dice più la verità; oggi i nuovi aerei sono più perfetti e sicuri. Montammo sull’aereo; il pilota, che era un maresciallo, si allacciò le cinture al seggiolino ed anche l’ufficiale osservatore fece altrettanto. Io mi aggiustai dietro di loro pronto per tirare al decollo la “leva del più cento”, che avrebbe dato più forza ai motori; poi sarei andato alla mia postazione radio. Dalla cabina di pilotaggio detti ancora uno sguardo a quelle enormi nuvole che sembravano farsi beffa di noi. Intanto il pilota fece cenno agli avieri di togliere i fermi alle ruote: tutto era pronto per partire. In quell’istante il comandante della nostra squadriglia fece cenno di fermarsi, aprì lo sportello e disse: “Fiaschi, tu scendi: prende il tuo posto il Vannini (anche lui marconista). Fai il prossimo volo quando tornano loro”. Il Vannini Augusto era di Parma: un simpatico ragazzo della mia età, sempre pronto 47
Ultime Voci allo scherzo e col sorriso sulle labbra; sembrava rifletter sul suo volto la voglia di vivere di un ventenne. Era comunicativo e accattivante, sapeva conquistare l’affetto di tutti. Mentre scendevo dall’aereo, mi vide i guanti che portavo alle mani e mi chiese di prestarglieli. Mi seccava darglieli, perché me li avrebbe senz’altro sporcati e glielo dissi. Lui sempre sorridente e scherzoso mi rispose che se non stavo zitto me li avrebbe buttati in mare. Partirono. Noi ci rifugiammo in baracca vicino alla stufa in attesa del loro ritorno. Il tempo passava inesorabile, il comandante chiedeva notizie alla stazione radio: nessuna. Ora le nuvole che erano all’orizzonte si avvicinarono minacciose anche sul nostro aeroporto; il comandante dava segni di inquietudine, tutti guardavano silenziosi l’orologio. Erano già passate tre ore e mezza, l’aereo avrebbe dovuto essere già di ritorno, ancora mezz’ora e il carburante sarebbe finito. Tutti ci guardavamo negli occhi ed il nostro sguardo diceva più delle parole. Spesso uscivamo dalla baracca per sentire qualche rumore di aereo. Nulla! Passò anche la mezzora, mi accorsi che sulle mie guance stavano scendendo lentamente delle lacrime. Pensai: lassù qualcuno ci ama! Eravamo entrambi orfani di madre fin dall’infanzia, forse lui in quel momento stava abbracciando con quel suo sorriso radioso sua madre, con i miei guanti nelle mani.
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Volume terzo
Florido Fiaschi è il primo a sinistra.
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Ultime Voci Martino Gacci
Martino Gacci è nato a Prato il 24 giugno 1916. Arruolato nella Finanza, era di stanza in Grecia. Dopo l’8 settembre si rifugiò in montagna per continuare a combattere, venne successivamente catturato e spedito in Germania. Internato in più campi di concentramento, riuscì a sopravvivere e a tornare in Italia il 24 giugno del 1945.
In Grecia faceva servizio di controllo ai porti per le armi, per il mercato della popolazione greca. Era finanziere. L’8 settembre ci fu lo sfasciamento. Arrivò un piroscafo di tedeschi, i quali chiesero chi voleva andare con loro a combattere, ma lui andò in montagna con tanti altri. Erano in 9 e furono catturati dopo tre mesi, ma lui riuscì a scappare un’altra volta, riuscendo a star solo per altri quattro mesi, poi ci fu il bando che chi sapeva di un italiano e non ne dava notizia incorreva in dure rappresaglie, i greci lo avvertirono, col segretario di una località, e lui invece di scappare si fece prendere dagli stessi greci, che lo portarono al comando tedesco. Li portarono in aereo ad Atene, lì li rinchiusero nelle tradotte, 24 per tradotta, il 17 marzo 1944. In 24 giorni li portarono a Meppen, in una miniera di torba ai confini dell’Olanda. Da Meppen lo mandarono a lavorare a Carieppe, dove facevano la V1. C’erano 10-12 bombardamenti al giorno e non si poteva scappare, allontanarsi. Pieni di fame e pieni di pidocchi, in bocca ai tedeschi si sentiva solo “Badoglio”, e un bel giorno si ribellò allo chef e lo bastonarono a morte. Lo rinchiusero in un bunker con un russo, dove stettero 8 giorni senza mangiare col cane lupo alla porta. Li portarono all’ufficio della Gestapo e li interrogarono, denunciandoli per sabotaggio del lavoro. Li tennero per 8/10 giorni a
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Volume terzo dormire in un bunker con uomini e donna polacchi, russi, francesi. La notte non si poteva dormire per il vapore acqueo: bisognava coprirsi la faccia con gli stracci dei vestiti che erano rimasti, tra lo sterco e l’urina. Poi li rinchiusero nei cellulari per portarli alle carceri per disfare zaini e smistare il materiale. In una piccola cella erano 4 italiani, uno dei quali lavoratore civile, tre militari e due polacchi. C’era soltanto una rete per dormire, senza materasso; la rete il secondino l’aveva data a Gacci, però gli altri l’avevano riempito di botte e l’avevano costretto a dormire per terra. Erano una razzaccia, i polacchi. Dopo di che ripassarono i cellulari e li portarono al campo di concentramento di Belsen, e lì tutte le domeniche mattina c’erano le impiccagioni di quelli che durante la settimana avevano commesso qualcosa. A loro facevano la striscia in mezzo ai capelli, a quelli che andavano impiccati facevano le strisce lasciando la cresta in mezzo. Gacci trovò un toscano che gli disse: “Sei toscano?, io sono di Livorno. Senti, domattina m’impiccano, prendi la mia zuppa”. Egli non ebbe quel coraggio, ma andò vicino alla baracca anche per la curiosità di vedere quelli che impiccavano, e trovò le SS che lo fecero a pezzi, perché non si poteva girare intorno ai condannati a morte. Da lì facevano grandi trasporti: 500, 1.000 uomini per andare a lavorare o nelle miniere o sui fronti, e lui partì con un trasporto sul fronte russo. La partecipazione non era volontaria: chiamavano per numero. Lavoravano sulla ferrovia, la località non la ricorda. Quando cominciò erano 10, 12 bombardamenti al giorno, perché i russi avanzavano. Presero tutti quelli come lui, che pensavano fossero alla fine della vita perché non rendevano più sul lavoro, erano sfiniti, fecero tre vagoni di circa una settantina di persone e le mandarono a Buchenwald. Buchenwald si è presentato con un bello chalet davanti all’ingresso. Uscirono due bellissime in vestaglia da notte, fecero il loro giro e spiegarono in tedesco e in altre lingue che chi si comportava bene in quel campo avrebbe avuto la possibilità di andare anche a donne. “Ma passando il cancello ci siamo trovati nelle camere a gas per il bagno e la disinfezione. Ci lasciarono nudi, e durante la notte mandarono una strizzata di gas e una di acqua. Io vedevo cascare le persone, altre passarci sopra finché non cascavano anche loro. Io ho tenuto abbastanza forte, poiché c’era una sentinella vecchia, sopra ai 50 anni, che aveva un pezzo di pane nel tascapane e che i russi giravano per prenderglielo, perché lui era in 51
Ultime Voci mezzo a noi, a farci da sentinella, e cascava come dal sonno, e io sono stato il più energico di tutti, gli ho preso il pezzo di pane e me lo sono infilato in bocca. Me l’ hanno levato, me l’ hanno strappato. Poi di fronte c’era la porta del gabinetto, sono entrato nel gabinetto e l’ ho mangiato mezzo, ma mezzo me l’ hanno strappato di bocca. Quando sono rientrato nella camera dove c’era la doccia e la disinfezione ce n’erano sempre più per terra, moribondi, proprio morti no. Io così per istinto non potevo passare di sopra, forse quelli che passavano di sopra non ce la facevano più, non erano in grado di capire, e allora io li trascinavo sulle pareti per non passargli di sopra. Intanto è venuto giorno. Eravamo rimasti di una settantina 5 o 6. C’erano molti russi, la maggioranza polacchi e olandesi, belgi, francesi, di tutte le nazioni. Di italiani c’era un sergente di marina di Altopascio. Tutta la notte nudi in questa sala che doveva essere la doccia. Poi ci hanno mandati in una baracca, ci hanno dato gli zoccoli, i pantaloni rigati, e ci hanno mandati in una baracca. Verso le 8 è arrivato il the, verso le 8 e mezzo ci hanno chiamati a parte per i “lois”, che sarebbero stati i pidocchi. Non so se agli altri li trovarono, a me no, e mi rilasciarono. E ci portarono a lavorare per il campo, perché ormai anche a Buchenwald gli americani erano vicini. Sono ritornato dal fronte russo forse nel febbraio 1945, e ci facevano fare tutti i lavori che c’erano da fare: caricare i vagoni, perché poi c’era anche la stazione ferroviaria che veniva nel campo, e i concimi chimici che facevano con la carne umana, venivano i vagoni e li portavano via. Ci facevano scaricare legname, ferro, perché c’erano le officine, in quei giorni s’era 4 o 500 mila. Poi un bel giorno vennero a dirci di andare tutti fuori, avevano messo delle (fasce?), non lo so, perché ero allo stremo. E io non andai fuori, cercavo di nascondermi sotto i tavolacci, la sera al buio mi buttavo nella massa dei morti… di giorno mi buttavo tra la massa dei morti, poi tra il lusco e il brusco cercavo di scappare perché veniva il carrozzone e li portava ai forni. Così un bel giorno vidi una sentinella sopra una garitta alata forse 18, 20 metri, vidi che si buttò su un pino, che c’erano i piani a Buchenwald, si buttò su un pino e andò, così rimasi un po’ stordito. Buttò le armi, buttò via ogni cosa, benché ci vedessi poco, comunque, rimasi un po’ stordito, e poi nel termine di due o tre ore vidi qualche soldato americano… S’andava tutti dietro ai soldati americani, a chiedere le caramelle, la cioccolata. Ci smistarono nazione per nazione. Noi avevamo una stanza, e finché uno non era in grado di tirarsi su con le braccia non lo facevano partire. Quando poi era in grado di far52
Volume terzo lo partiva con i mezzi di fortuna che c’erano nel circondario. Poi a Monaco di Baviera c’erano le tradotte che ci portavano fino a Bolzano, e di là i prigionieri tedeschi ci portavano con i camion fino a Modena, di là ognuno s’arrangiava per conto suo, con qualche camion. Io arrivai così a Bologna, di là presi il treno per Prato. Arrivai a casa il 24 giugno, quindi dopo un mese e mezzo. Sono stato liberato l’11 aprile, però si dice che questo io lo ignoro, si liberarono da sé i prigionieri a Buchenwald, ma io no… io ricordo benissimo che passavano di tutte le nazioni e dicevano “Che stai con noi?”. Sì… però io non sono mai stato… forse non mi hanno cercato perché non mi reggevo in piedi. I primi giorni gli americani non ci hanno assistito, perché c’era il fronte, sicché ci s’arrangiò da noi, e molta gente è morta. Io ho trovato un secchio di patate, in campagna, le ho bollite e le ho mangiate prima che finissero di cuocere. Mi sono buttato dietro una baracca, con la pancia gonfia di queste patate, e un ebreo fiorentino mi disse di muovermi, altrimenti non mi sarei rialzato più. Poi uscivo e portavo paperi, tacchini, pezzi di pecora, capre, che mi davano alle fattorie con le sigarette americane. I paperi e i tacchini li rubavo, e questo Nedo Piano veniva a mangiare questa roba, che davo anche a quelli che non si reggevano in piedi. Però questo Nedo mangiava lì, non voleva che me lo facessi pagare dagli altri. Poi l’ho ritrovato a Prato. Gli è morta tutta la famiglia, è rimasto solo, lui. Gli americani passavano la mattina e ci davano una specie di cognac, una specialità che ci metteva forza tutto il giorno”. I familiari avevano avuto notizia della sua liberazione. Da Meppen mandò una lettera. Gli dissero, i familiari, che l’avevano ricevuta e che avevano spedito anche dei pacchi. Il triangolo una volta glielo dettero nero, un’altra verde, un’altra rosso: ogni campo un triangolo diverso. “Gli ultimi giorni nel campo la caccia era agli ebrei. Venivano: – “Giuda, raus|”. E io dicevo: “No, io Badoglio” – e allora mi davano una botta e andavano da quello accanto. A casa avevo una sfilacciatura, a Montale, e quando tornai anche per gli operai che dicevano “Che si fa, si lavora o non si lavora?”… Io avevo detto: “Quando torno a casa non mi iscrivo neanche all’Anagrafe. Voglio mangiare erba come un eremita e andare randagio”. Quando tornai a casa io ero ingrassato 40 chili, ma ero demoralizzato; poi ho 53
Ultime Voci ripreso l’attività ed ho lavorato, non facendo dei progressi”. Quando erano in montagna. In Grecia, erano tutti italiani. “Quando sono scappato sono uscito dalla finestra del gabinetto. C’era un plotone di austriaci, guardavano un po’ meno”. Vivevano di tartarughe, arance acerbe, limoni acerbi, radicchio, erba, qualche gabbiano, con la pentola dietro.
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Volume terzo Jacopo Gavazzi
Jacopo Gavazzi è nato alle Piastre, Casa Marconi, in provincia di Pistoia il 16 gennaio del 1919. Fu chiamato alle armi i primi di maggio del 1939 ed arruolato nel 7° Autieri di Firenze. Successivamente assegnato alla 53° compagnia artieri partecipò alla campagna di Albania. Dopo l’8 settembre fu preso prigioniero in Germania, da dove tornò il 17 luglio del 1945.
Prigioniero di guerra n. 50021. Jacopo Gavazzi risiede a Prato dal dopoguerra, ma la sua vicenda di prigioniero cosiddetto internato merita di essere trascritta tutta per delineare l’altra faccia dei campi di concentramento nazisti, di quelli cioè riservati ai prigionieri trasferiti nei luoghi di produzione tedeschi per fronteggiare la grave carenza di manodopera, che si andava sempre più accentuando. Racconta dunque Gavazzi: Sono stato chiamato alle armi i primi di maggio del 1939 e fui arruolato al 7° Autieri di Firenze. Di là poi nel ’40 mi hanno assegnato alla 53° compagnia Autieri e fui spedito nei Balcani. Ci imbarcarono a Bari, sbarcammo a Durazzo e di lì andammo alla zona che ci avevano assegnata, da Librasc1 al Passo Sciafted. Abbiamo combattuto sul lago di Struga, che poi si finì a Dibra2, lì abbiamo passato l’invernata con il freddo fino a 35 gradi sottozero. Dopo la fine della guerra, che fu abbastanza veloce, eravamo rimasti come truppa 1 Si tratta della città albanese di Librazhd. Non è stato possibile individuare il successivo Passo Sciafted. 2 L’attuale distretto amministrativo di Dibër in Albania.
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Ultime Voci d’occupazione, però io da lì fui mandato a Tirana per fare un corso di specializzazione motorista. Dopo il corso fui assegnato al 26° Genio con sede a Tirana. Il mio lavoro era di specializzazione in officina, finché l’8 settembre non ci fu l’armistizio. Dopo alcuni giorni arrivarono i tedeschi, c’era veramente una baraonda. Fu emanata una circolare dal nostro generale, con raccomandazione di stare calmi, perché i tedeschi ci avrebbero presi e portati in Italia via terra. Alcuni non ci credettero e fecero anche fuoco, spararono anche a tappeto, però la maggior parte aderì alle direttive della circolare, e quindi dopo alcuni giorni ci fecero preparare per andare a Bitol3, in Bulgaria, a prendere il treno. La prima marcia che facemmo io ebbi in consegna un automezzo (ricordo bene che era un Lancia trirota per il trasporto degli zaini) mentre tutti gli altri dovettero partire a piedi. Da Tirana si partì il 21 settembre. Anzi vorrei aprire una parentesi sulla confusione di quei giorni dall’1 al 21 settembre trascorsi a Tirana: era veramente il caos, con furti e rapine. Il 21 settembre si parte, verso le 4 del mattino, si trattava di 21.000 soldati. Per ogni compagnia avevano assegnato due macchine per il trasporto degli zaini, tutti gli altri a piedi. Sennonché, dopo un po’ che eravamo partiti a piedi ci attaccarono i ribelli e molte colonne furono decimate, al Passo fra Tirana e Ebbasen4. Una volta viste queste difficoltà, fu deciso che il trasporto doveva avvenire non più a piedi ma con gli automezzi. Conclusione: con 5 tappe si arrivò a Bitol, in Bulgaria; qui ci chiamarono i tedeschi e ci fecero la morale: ci dissero che chi voleva stare con loro se aveva un grado lo poteva conservare, e chi no andava ai lavori forzati nei campi di concentramento in Germania. La maggioranza furono disarmati; ci fecero buttare tutte le armi su un prato, io e tutti gli altri che avevamo fatto da autisti ci portarono alla stazione e ci fecero consegnare gli automezzi ai tedeschi. Ci fecero dormire sotto una tenda, e il giorno successivo ci caricarono tutti su un treno di circa 80 vagoni scoperti, meno tre; dopo 17 giorni di treno arrivammo in Germania. Il nostro treno era diretto a Belgrado, ma poiché i ribelli avevano fatto saltare la ferrovia, ci fecero tornare a Sofia, Bulgaria, Ungheria (?)… siamo passati perfino sul Gernavola, il ponte che se non erro è circa 10 chilometri e 70 dal Mar Nero. Dopo 21 giorni di viaggio, 17 in treno e 5 in macchina, arrivammo al IX campo 3 E’ la città di Bitola in Macedonia. Negli anni di cui parla Gavazzi era sotto il controllo prima della Germania e poi della Bulgaria. 4 Il nome corretto è Elbasan.
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Volume terzo di concentramento in Germania. Di nuovo chiamarono tutti; anzi vorrei dire che lungo il tragitto abbiamo avuto perfino dei morti, perché con la tradotta così lunga e scoperta ogni tanto qualcuno moriva. In conclusione una volta arrivati ci chiamarono tutti in un grande prato, ci fecero ancora un discorso per dirci che per noi iniziava un momento difficile: o collaborare o andare a lavorare nei campi di concentramento ai lavori forzati. Ma su circa 3.000 arrivati sui vagoni, alcuni dei quali si erano rotti e le persone erano state trasferite sugli altri, perfino 100 su un vagone, sembra che aderirono una quindicina, perché sembrava che quelli che aderivano sarebbero stati mandati sul fronte italiano e quindi c’era la speranza di potersela svignare. Se ci riuscirono non lo so. Quelli che non aderirono furono assegnati ai campi di concentramento. Io ed altre 50 persone, delle quali ne conoscevo soltanto tre, fummo mandati ad un distaccamento, il IX C, dislocato a Kloster Allendorf, di Bad Salzungen, in Turingia. Di questi 51 lavoravamo in tre fabbriche, cioè in due fabbriche, più una parte al servizio della città. La mia squadra era di 14 persone, lavorava in una fabbrica di macchine utensili, mentre un’altra squadra di circa una quindicina lavorava in una fabbrica di munizioni, sempre nella cittadella di Bad Salzungen, il rimanente, manovalanza, era al servizio della città, alla corvè. Il nostro lavoro era di 72 ore e mezzo settimanali, quando non si faceva lo straordinario, perché lo straordinario era quasi inevitabile. Se per caso passava una squadriglia aerea al di fuori del normale, che lì tutti i giorni annuvolava, per gli aerei, ci mandavano fuori, e se si perdeva mezz’ora per l’allarme bisognava recuperarla. Non solo, perché queste 72 ore e mezzo per settimana le lavoravamo nei 6 giorni, e se per caso la domenica, che doveva essere di riposo, arrivava un vagone di munizioni o qualcosa d’importante in stazione venivano a Kloster Allendorf e prendevano una squadra di noi per i lavori da fare. Purtroppo non potevamo rifiutarci. Cosa succedeva: c’era da fare… Nei primi quattro giorni di prigionia, benché venivo dal fronte, ho perso 17 chili di peso solo per il mangiare, e potrei dimostrare che uno dei nostri compagni mi diceva tutte le sere: “Io non ce la faccio, con questo mangiare non ce la faccio”. Appena arrivava alla prigione, dove ci distribuivano certi viveri come il mangiare che era la sostanza principale del giorno, ci davano un pane in 7, che era un mattone, di 2 chili, circa 300 grammi a testa. Lui in quattro e quattr’otto mangiava tutta la razione. La mattina ci davano un gavettino di caffè, che era una cicoria, e a mezzogiorno ci davano una mezza gavetta di rape, che loro chiamavano Rube, che sarebbe una specie delle nostre barbabietole da 57
Ultime Voci zucchero. Il 90% della mezza gavetta era quello, ma molte volte non c’era nemmeno il segno di queste barbabietole, il resto poteva contenere qualche patata o qualche pasta. Devo precisare che di pasta ci davano 100 grammi al mese a testa, che cuocevamo tutta una volta almeno per sentire l’odore. A questo punto vorrei fare un salto in avanti: quando arrivarono gli americani, il 15 aprile 1945, vennero da noi e videro un pentolone dove c’erano le rape e ci chiesero che cosa c’era: “Avete anche i maiali voialtri?”. Il bello è stato la mattina che siamo arrivati lì. Ci hanno portati in questa prigione, che era una vecchia fabbrica trasformata in prigione, con le doppie finestre in ferro e le porte in ferro anch’esse, e di fronte, sotto le finestre, c’era il fiume, la Verra5. Noi più di una volta si pensava di togliere le finestre per buttarci di sotto, ma che cosa avremmo fatto? Ci poteva essere la possibilità anche in fabbrica di andar via, ma dove?, con la scritta KG alla schiena, alle ginocchia e al petto? Tutti ci avrebbero riconosciuti come prigionieri. Vorrei precisare che questo mio collega di Padova, di cui non ricordo il nome, quello che diceva di non farcela per il mangiare, una sera non venne come sempre da me. La sera, dopo il lavoro, ci inquadrarono, ma lui non c’era. Lo cercarono per tutta la notte e lo trovarono verso le tre di mattina in fabbrica sotto i trucioli. Gli fecero una bella ramanzina e lo portarono in prigione. Con me si confidava molto, e la mattina gli chiesi cos’aveva fatto. Disse:”Ieri sera sono andato deciso a buttarmi sotto il treno, ma ho aspettato fino all’una e non è passato più un treno. Mi era venuto un gran freddo e ho cercato dove passare la nottata per aspettare il primo turno della mattina”. Fatto sta che era potuto rientrare in fabbrica saltando il cancello, perché di notte la sorveglianza era relativa. La mattina lo riportarono a lavorare con noi, verso le otto non c’era più. Verso le undici seppi che si era buttato sotto il treno ed era morto. Io potrei trovare la tomba dov’è seppellito. Con la nostra grande fame, chi poteva avere 10 marchi e un pacchetto di sigarette poteva rimediare due chili di pane. Grazie ai soldi qualcosa s’aveva, perché in Albania ci pagavano e tutte le volte i soldi non c’era possibilità di spenderli. Quando ci fecero prigionieri i soldi i tedeschi non ce li presero; come sottufficiale guadagnavo circa 800 lecchi6, e arrivai in Germania con dei soldi, qualcosa avevo. Ce li ritirarono dicendoci che 5 Werra. 6 La moneta albanese è il lek.
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Volume terzo ce li mandavano a casa, cosa che naturalmente non fecero, però qualcheduno s’era cercato di nasconderli. Allora io conobbi un francese che si era fidanzato con la figlia di un panettiere tedesco, al quale qualche pane poteva sempre avanzare, e bastava che gli dessi o dieci marchi o un pacchetto di sigarette che lui mi arrivava col filone di pane. Dopo sei mesi però questo francese fu mandato a Buchenwald e non l’ ho più rivisto. Un giorno sono riuscito ad avere un filone per tutta la mia squadra. Naturalmente quando si rientrava era un problema portare il filone, ma d’inverno, specialmente con il cappotto e la pancia che non c’era più riuscivamo a nasconderlo sulla pancia. Non solo facevamo il contrabbando col francese: quando era possibile nella nostra fabbrica di macchine utensili cercavamo di fare le macchinette accendisigari, o il pettine di alluminio o qualche temperino. Con l’accendisigari si rimediavano due chili di pane. Chi comprava? In genere i tedeschi. Perché gli altri no. Magari un tedesco che lavorava accanto a noi: allora succedeva che l’accendisigari veniva visto da qualcuno e veniva chiesto chi l’aveva fatto, e un giorno venne il comando di fabbrica a fare una perquisizione, trovando degli accendisigari e pettini in costruzione. Emersero tre responsabili: uno si chiamava Menchi Alcide, di Modena, che è stato fino ad ora caporeparto della FIAT; un altro si chiama Bergamaschi Mario, di Milano, che io per grandissima fortuna ho incontrato in una via di Winthertur, in Svizzera, sembra strano, nel 1948. Faceva il tornitore. Ed un certo Ferrari che non ricordo bene dove abita. Io fui chiamato dal comando di fabbrica, perché a me fra l’altro avevano affidato mansioni d’interprete, perché fra 51 che eravamo non c’era un italiano che parlasse straniero. Io per fortuna mi difendevo bene in francese, ed ogni volta che c’era qualcosa chiamavano me. Anche quella volta mi chiamarono. Cosa potevo fare? Non avevamo altre possibilità per sopravvivere: anch’io avevo le macchinette in costruzione, che non mi avevano trovato. Passarono alcuni giorni, sembrava che la cosa fosse finita lì, e una mattina ci chiamarono nella sala delle riunioni, in una quarantina. I tre dovevano subire una pena spaventosa… eccoti il principale che fa un discorso agli italiani, che ogni volta che ci ripenso mi accappona la pelle. Dice in tedesco che con la legge marziale non c’era che la pena di morte; questo la fa in tedesco. Era il 18 o il 19 gennaio 1945. Prima il principale fa il discorso in tedesco, che io avevo in sostanza compreso, poi lo fa l’amministratore in francese per farmi capire meglio. Dopo aver spiegato la condanna ai miei compagni chiesi se potevo replicare, e con 59
Ultime Voci coraggio chiesi se avevano mai provato a lavorare 72 ore e mezzo alla settimana mangiando quello che mangiavamo noi. Se avessero dei motivi da dirmi se queste macchinette accendisigari erano state cambiate con pistole, prosciutti, salami o qualcosa del genere anziché col pane. Visto la mia reazione notai che erano rimasti colpiti. Inoltre dissi che se quella era la loro destinazione, desideravo che fosse anche la mia. ... e con questo feci una proposta diversa. Dissi: “Se credete che questo sia stato nocivo…” (vorrei precisare che quando uno di noi, questo Menchi il fresatore, Bergamaschi, tornitore, che lavoravano di notte e potevano bene fare anche qualcosa di extra, non c’era la sorveglianza come di giorno, e quindi non avevano neanche la possibilità di dire si fa un pezzo in meno… però la loro capacità tecnica era tale che gli permetteva di fare una cosa e l’altra). Pertanto feci la proposta di una punizione diversa, che fu accettata. Dettero a Menchi e a Bergamaschi 50 ore da recuperare e 5 marchi da pagare. Siccome ci davano 53 centesimi l’ora dopo il 24 agosto 1944, quando ci obbligarono a dichiararci liberi lavoratori, (che poi non eravamo liberi lavoratori ma eravamo peggio di prima, perché da prigionieri veri e propri ci accompagnava la guardia la mattina a lavorare, e se s’arrivava tardi era colpa sua, mentre una volta dichiarati liberi lavoratori se s’arrivava un minuto più tardi si saltava il pane…). Perciò avevamo un po’ più di libertà la notte, perché a questo punto potrei raccontare un particolare. Una sera non mi trovarono all’appello perché ero rientrato un po’ più tardi, ero andato al cinema, però il giorno dopo mi mandarono a scaricare un vagone di carbone in stazione. La pena di morte fu trasformata in ore di lavoro straordinarie e marchi da pagare. Il terzo fu condannato al pagamento di 20 marchi e 20 ore perché ritenuto meno colpevole degli altri. A noi davano due sigarette e mezza al giorno, prima, poi due. Erano quelle che ci permettevano, se si aveva la forza di smettere di fumare, di rimediare qualche chilo di pane. La cosa è che ormai la maggioranza aveva smesso completamente di fumare, e bisogna dire di un caso strano, di cosa riesce a fare un uomo: vedere che la sera, quando uscivamo di fabbrica, a me che ormai mi consideravano un capo perché lì erano tre sottufficiali, ma nessuno si sentiva di fare qualcosa per tirare avanti la barca, perché se non ci si organizzava un po’ per noi era un manicomio, tanto è vero che nei primi giorni era una confusione spietata. Cazzottate per la buccia di patata, per un torsolo di mela. I tedeschi arrivavano lì e se c’era un po’ di disordine dicevano che se non c’era ordine e pulizia non 60
Volume terzo distribuivano da mangiare a nessuno. Fui costretto a fare più che un padre di famiglia. Dovetti fare una lista perfino per la pulizia e dire “oggi io e un altro facciamo le pulizie e ci rendiamo responsabili per la distribuzione del mangiare, domani tocca ad altri, e così via”; perché bisogna dire che loro esigevano la pulizia veramente: bastava che su una finestra ci fosse un po’ di polvere che non ci davano da mangiare… Una volta montati sui vagoni a Bitol ci davano mezzo chilo di pane a testa e una scatoletta per 24 ore; però, durante il tragitto nei Balcani a tutte le stazioni, sembrava strano, venivano bulgari, rumeni, a tutte le stazioni veniva gente col pane, con un fazzoletto ci davano un chilo di pane, anche due. C’erano quelli che arrivavano in Germania solo con quello che avevano addosso, perché in quegli 8-10 giorni che restammo a Tirana molti avevano cercato di rimediare uno zaino un po’ decente, dato che la roba restava lì ai tedeschi, e lo zaino qualcosa in più dell’indispensabile l’aveva. Il mercato nero cominciò appena montammo sul treno, a Bitol, fino a quando non s’arrivò in Germania. Perché precisamente noi si partì il 21 da Tirana e si arrivò al IX campo in Germania il 10 ottobre. In città la corvè consisteva in questo. Se arrivava l’ordine di scaricare un vagone in stazione quelli andavano. Se c’era da pulire dei giardini o delle strade ogni mattina andavano a fare il lavoro che c’era da fare, a volte andavano a scaricare le mele, perché lì c’era una fabbrica di marmellata, così per loro mezzo qualche volta entravano in prigione dei torsoli di mela. Purtroppo c’era chi sbucciava le mele e chi mangiava il torsolo, perché loro che tutto il giorno avevano scaricato mele succedeva che la sera qualcheduno poteva avere anche un torsolo, per esempio. Sino al 24 agosto 1944 noi eravamo assolutamente prigionieri e ci davano moneta stampata su carta comune che potrei mostrarti, denaro che potevamo spendere in luoghi stabiliti. Però si vede che il mercato nero esisteva, perché io con 10 marchi di questa carta da quel francese finito a Buchenwald riuscivo ad avere due chili di pane, per cui si vede che c’era la possibilità di spenderli altrove. Ci davano 18 marchi al mese. Dopo il 24 agosto ci pagavano con denaro corrente e a quelli ritenuti bravi (qualificati) davano 53 centesimi l’ora. Io facevo l’aggiustatore-montatore e avevo 53 centesimi l’ora, come i tornitori e i fresatori, dicevano che era la paga che davano ai lavoratori tedeschi. In tutti i campi generalmente cercavano uno che si assumesse le responsabilità verso i compagni. Per esempio: arrivavano le sigarette e non erano i tedeschi a distribuirle… e cercavano una persona che si rendesse anche responsabile. Era indispensabile che uno 61
Ultime Voci se le assumesse le responsabilità. Nel mio campo eravamo tre sottufficiali, ma nessuno voleva farlo. Ora, siccome di me avevano bisogno perché ero l’unico che poteva svolgere anche la funzione d’interprete, e c’era il bisogno perché come ho detto prima se non c’era disciplina non ci davano da mangiare, le responsabilità me le assunsi io. Avevo soltanto le responsabilità, privilegi niente. Continuai a lavorare come gli altri, senza alcuna funzione di comando… Quando arrivammo al comando del IX C, dal quale dipendevano centinaia di italiani, ci fecero fare il bagno, consistente nel farci spogliare in una sala, farci passare in un’altra, dove un tedesco con pennello da imbianchino lo tuffava in un liquido e ci spennellava fra le gambe e sotto le braccia, facendoci saltare per aria per il bruciore; dall’altra parte ci ridavano i nostri panni disinfettati, raggrinziti che sembravano cotti. Si rimase con la divisa militare. Però io arrivai lì che avevo due paia di scarpe e uno me lo presero; avevo altra roba e me la presero; di due coperte me ne presero una e quando si finivano ci davano gli zoccoli che cercavamo in qualche modo di chiodare, perché quando erano finiti era molto difficile averne altri. Ogni volta che uno era tutto sbrindellato, ci davano qualcos’altro, molta roba francese, divise militari francesi, qualcheduno ha finito la prigionia con qualcosa d’italiano, ma la maggioranza, quando sono arrivati gli alleati al nostro campo, aveva poca roba italiana. A noi non fecero la riga in testa. Il primo giorno, quando siamo arrivati in fabbrica e mi hanno dato la tuta, è venuto un pittore con un cartello e ci ha scritto KG sei volte: al petto, alle ginocchia, alla schiena, in modo che quando ci si spostava tutti avrebbero visto un Kriegsgefangenen (prigioniero di guerra), per cui era assolutamente proibito conversare con gli altri, tant’è vero che io per avere uno scambio di pane col francese dovevamo farci una strizzata d’occhio a 5 metri di distanza, ed essere così intelligenti da capire che uno andava al gabinetto con un filone di pane e io andavo e lo trasferivo dalla pancia sua alla mia per portarlo in ripostiglio, affinché la sera potesse essere portato a destinazione. Nel mio campo soltanto uno è stato picchiato. L’ingegnere che era in fabbrica… siccome quello che si uccise diceva che non ce la faceva più e non poteva lavorare così… una sera fu chiamato e seriamente schiaffeggiato dall’ingegnere, che dopo la guerra, quando la mattina andammo in fabbrica e lo trovammo in cima ad una scala, i miei compagni volevano farlo precipitare giù, e io ho dovuto adoperarmi per farlo scendere salvo. La nostra fabbrica produceva macchine utensili per la produzione di munizioni; non 62
Volume terzo c’era una volta che una macchina finita restasse lì due ore. Era distante 500 metri dalla stazione, che la vigilia di Pasqua 1945 fu colpita dagli aerei che fecero esplodere tre vagoni di munizioni. Noi in quel momento eravamo in prigione, e in fabbrica, a circa 500 metri di distanza, le gru caddero nei reparti. Vicino c’era un cimitero, tutte le tombe furono ribaltate, anche il cimitero dov’era stato seppellito il padovano. Noi eravamo affidati al comando dei militari prima del 20 agosto del ’44 e dopo al comando civile di Bad Salzungen. Veniva la polizia la sera e sorvegliava se c’eravamo, se mancava qualcuno. SS non se ne vedevano, che dicessero di essere delle SS. Anche quando venivano i civili chissà chi erano… noi portavamo KG, loro non portavano SS. Come quando furono pronunciate le tre condanne a morte, le disposizioni erano delle SS, perché chi commetteva delle infrazioni, come quel francese che faceva il contrabbando, perché loro erano praticamente liberi, veramente internati, lui fu mandato a Buchenwald. Sul vestito avevamo KG, senza triangolo; avevamo il numero, ma senza triangolo. I documenti sono delle lettere che mandavano a me dal comando perché qualsiasi cosa che succedeva reclamavano con me, e io potevo protestare presso un recapito indicato. Avevo chiesto di avere qualche ora libera per sbrigare quelle incombenze, perché lavorare 72 ore e mezzo alla settimana e dedicarsi ad altri problemi era oltremodo gravoso. .. io alla liberazione questi documenti ce li avevo e me li sono portati dietro. Ho qui anche l’indirizzo di una quarantina di miei colleghi. Fui liberato il 5 aprile; pochi giorni prima c’era stata la Pasqua. Alcuni giorni prima di Pasqua la nostra fabbrica fu bombardata, non direttamente la fabbrica: tre vagoni di munizioni alla vicina stazione e la fabbrica fu danneggiata. La nostra prigione era a circa tre chilometri dalla fabbrica, e noi in quei giorni non si poteva lavorare, si era rimasti senza corrente. Fatto sta che i cannoni si sentivano notte e giorno, e dalla mia prigione passavano in continuazione delle colonne di prigionieri di tutte le nazionalità, perché i tedeschi si ritiravano e portavano dietro i prigionieri. A noi faceva paura, perché aspettavamo che qualcuno delle SS venisse per portare via anche noi, perché dicevano che andavano tutti verso Berlino. Io avevo organizzato una certa difesa: perché li portavano uno avanti e uno in coda per i sentieri e mi sembrava che bastasse un po’ di decisione per fuggire, acciuffando ad un cenno quello davanti e quello di dietro per farli prigionieri. Quando il 5 aprile del ’45 arrivarono gli americani e vennero alla nostra prigione 63
Ultime Voci c’erano quelli che parlavano benissimo l’italiano, simpatizzarono subito con i prigionieri e nel vedere sul fuoco un pentolone con le rape ci chiesero se si avesse i maiali. Quando seppero che le rape erano per noi ci portarono in una villetta dove s’erano acquartierati, ci portarono in una cantina, dove c’erano 20, 30 quintali di patate e ci autorizzarono a prenderle subito. Per noi fu il giorno del matrimonio, si può dire. Prima che arrivassero gli americani un bombardamento.. lungo la strada avevano fatto ogni 50-100 metri una serie di garitte dove si sarebbe potuto sistemare un soldato tedesco con un “panzer faust” (un lanciarazzi), col compito ognuno di tirare ad un carro armato; ma io avevo conosciuto anche qualcuno che aveva minato il ponte sulla Werra e un giorno quasi scherzando gli dissi: “ma se ora fate saltare questo ponte, forse dovete riattraversare il fiume chissà quante volte a nuoto, poi”. Lo dissi scherzando, ma la fifa ormai ce l’avevano anche perché arrivavano nugoli di aerei che li facevano diventare con la faccia bianca. Il 5 aprile arrivarono gli americani, dopo cominciarono a darci un po’ di mangiare, dopo si cominciò a cercare da noi. Alla fabbrica c’era rimasto un barroccino da poterci caricare 10 quintali di roba… Quando arrivammo in Germania c’erano due sottufficiali e un soldato: si tirava la cinghia a tutto andare e loro ci dicevano: “Bisogna diminuire la razione perché a Natale si vuol fare un mangiare un po’ meglio”, e ci avevano anche un po’ ringalluzziti perché perlomeno si aspettava tutti il giorno di Natale per riempire la pancia, perché si pensava che quel giorno… Sennonché due o tre giorni prima di Natale fecero un bombardamento sulla città di Kessel, dove sembra che siano decedute 90.000 persone in un quarto d’ora, tra le quali anche i genitori del nostro sottufficiale, cosicché per Natale ci rimase solo il soldato e guarda caso questo soldato aveva la famiglia a 500 metri. Noi si chiamava Austen, perché tutte le mattine era lui che ci veniva a dare la sveglia e ci diceva “Austen”. Allora arriva il giorno di Natale, il sottufficiale non c’era, il mangiare fu forse peggio degli altri giorni. I miei colleghi allora sì che rimasero avvelenati, di un veleno che penso a quelli ancora vivi non sia ancora passato. Allora, finita la guerra un gruppo di noi dice: “Questa mattina si va a trovare Austen”. “Ragazzi, non ci andiamo”, dissi. “Tu devi venire, devi fare l’interprete”, e mi portarono. Si va dove stava Austen e si trova la moglie, che si mette a girare e non trova il marito. Parte un sardo e va a vedere se lo trova, perché era venuto il momento che avevano paura 64
Volume terzo di noi, lo trova dietro una porta e lo porta fuori per la manica della camicia. Dice: “Noi si vuole la margarina, che ci hai rubato per il Natale del ‘43”, ma a quello per poco non gli prese un infarto, nel vederci lì. “Via”, dicevo a questi ragazzi, “lasciatelo stare”, ma non c’era verso. Corse tutto il paese, perfino il sindaco, e noi si diceva che ci mancava da mangiare. Il sindaco ci rimediò 5-10 quintali di patate e noi si partì talmente soddisfatti che ci sembrava una festa. Però le patate a 50 persone bastarono poco, e ogni tanto il comune ci mandava qualcosa di più da mangiare. Era ancora molto poco, così quando finimmo le patate s’andava in quei paesetti di campagna e si chiedevano le patate. A chi ci diceva di no si diceva: “Se ce le avete ve le paghiamo, se non ce le volete dare ve le prendiamo”. Quando ci vedevano un po’ decisi in quattro e quattr’otto trovavano le patate e molti non volevano neanche soldi, purché non si tornasse. Così abbiamo tirato avanti qualche mese, finché un giorno non venne il Comando Alleato con l’intento di concentrare tutti a Meiningen. Vengono con i camion, ci caricano e ci portano a Meiningen. Dovrei precisare che a questo punto c’era uno che aveva la ragazza, un amico milanese, perché vicino a noi c’era un campo con 28 russe deportate, presso una scuola. Ci concentrarono in una fabbrica, uomini e donne, a Meiningen, in attesa del rimpatrio, e lì si faceva anche un po’ di baldoria. Si ballava, dopo ci portarono in un altro posto, ad Eisenach, in una caserma con una quindicina di padiglioni di cinque o sei paini, dove potevano ospitare 10-20.000 persone. Dopo 7-8 giorni gli americani si ritirarono a 14 chilometri, e arrivarono i russi, che ordinarono di trasferirci nella zona americana. Dovevamo trasferirci a piedi, ma quelli che avevano famiglia potevano andare col treno, che doveva trasportare 300 tubercolotici da un ospedale. Ora, un Giaggioli di San Mommè, che aveva la famiglia, disse: “Io ho la moglie e la figliola, se ci trovassero dici che sei il marito di mia figlia, così vieni in treno”. E così feci. Al confine con gli americani ci fermarono. Quelli venuti a piedi non avevano dove andare. Avevano piantato dei teli nei campi di grano, con dei baracchini perché pioveva a dirotto. Il treno stette fermo un giorno: arrivava sempre altra gente. Si diceva che cercavano altre vetture per farci proseguire. Dopo tre o quattro giorni arrivò un treno, ci toccò allora trasbordare, anche fuori, sul treno, dove abbiamo avuto dei morti. Io ci ho messo 12 giorni per arrivare a Prato, fino alla stazione di Mitenval7, mi sembra in Austria, con 7 Probabilmente Mittenwald, città della Baviera.
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Ultime Voci quel treno, qui la ferrovia era saltata tutta e ci hanno fatto il trasbordo sui camion, poi proseguimmo col treno fino a Bolzano, quindi a Verona e poi alle proprie destinazioni. Io sono arrivato a Bologna una sera con l’ultimo treno il 16 luglio 1945. La mattina sono potuto ripartire col primo treno che veniva detto espresso; da Bologna a Prato ci mise 12 ore, da Prato a Pistoia mezz’ora- tre quarti d’ora. A casa sono arrivato la sera alle 20 del 17 luglio. Dei miei compagni di prigionia soltanto due finirono all’ospedale, ma non ho avuto loro notizie. Se non erro quando sono arrivati gli americani eravamo 48. Non ci ammalavamo, perché eravamo denutriti, ma perché c’era pulizia. Eravamo sani, c’era il Bergamaschi Mario che soffriva di stomaco, il quale si è poi operato nel’48 a Winthertur. Coi tedeschi ci ho vissuto, oltre alla prigionia, altri 20 anni a Zurigo. Presi singolarmente non sono duri come in collettività. Perché la loro forza… Ognuno di loro fa veramente come gli viene detto, non come in Italia… Noi anche in guerra si vogliono gli ordini. Il tedesco, se viene messo a guardare un pollo, lo guarda, perché l’ordine è quello. Noi gli ordini si vogliono. A volte avremo ragione, ma a volte anche torto, perché alla carlona un capo non dovrebbe mai essere scelto. Non li trovo più intelligenti, ma più pignoli.
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Volume terzo Italicus La testimonianza che segue è stata pubblicata per la prima volta nel fascicolo Come si muore per l’Italia libera. I martiri di Figline di Prato a cura del Comune di Prato nel 1945. Alla sua uscita il fascicolo ebbe una certa diffusione; tuttavia con il passare del tempo la sua circolazione è andata diminuendo e adesso è reperibile solo in biblioteca. Per questa ragione, il Presidente dell’Associazione Combattenti e Reduci di Prato Comm. Paolieri ha voluto inserirlo nella pubblicazione, così che molti possano conoscere le vicende di Tronci. Per
la pubblicazione si ringraziano il Comm. Sergio Paolieri, il Presidente onorario dell’ANFIM di Firenze Prof. Ugo Jona e la signora Silvana Santi Montini, che ha suggerito la pubblicazione dell’opuscolo, come è spiegato nelle successive note.
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Ultime Voci Così si presenta la copertina di questo prezioso giornaletto, del quale mi è stata inviata copia fotostatica dal presidente onorario dell'A.N.F.I.M. Toscana di Firenze, Cav. Prof. Ugo Jona, in seguito alla lettura del mio libro “Scultura memoria al tempo” Pentalinea Prato 2008. Nel libro, a pagina 96, si fa riferimento a tale opuscolo stampato nel 1945 a cura dell'Amministrazione del Comune di Prato. La nota ha richiamato l'attenzione del Prof. ricordandogli un modesto fascicolo trovato e acquistato intorno al 1955 su una bancarella e conservato nella sua biblioteca. Così dopo averlo ricercato, molto gentilmente me ne ha spedita la copia fotostatica. Il presidente dell'Associazione Combattenti e Reduci e Della Casa delle Memorie di Guerra per la Pace, Comm. Sergio Paolieri, considerata l'importanza della testimonianza, me ne ha richiesta copia per la biblioteca. In seguito ha proposto al Comitato di ristampare nella collana Ultime Voci, l'intera opera, sia per maggiore chiarezza dei caratteri e soprattutto per diffonderne la conoscenza. Il progetto è stato approvato all'unanimità. Si ringrazia, pertanto, per la gentilezza e la sensibilità il Presidente Onorario dell'ANFIM di Firenze, Cav. Prof. Ugo Jona e Silvana Santi Montini. Prato 28 ottobre 2009
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Volume terzo TESTIMONIANZA di Mauro Montini sull’opuscolo In questo opuscolo ritrovato, ho potuto leggere la testimonianza di Santino Grassi, scampato all’impiccagione di Figline, 6 settembre 1944. Santino era rimasto tra gli ultimi a dover essere impiccato, riuscì a fuggire nel trambusto di un’improvvisa scarica di cannonate degli alleati. Mauro Montini, mio marito, mi aveva sempre parlato di quel fatto, raccontandomelo con le parole ora ritrovate scritte nell’opuscolo, affermando che proprio lui, Santino glielo aveva raccontato più volte. Mauro abitava con la famiglia in via Dei Tintori, dove abitava anche la famiglia di Santino. Le due abitazioni erano distanti l’una dall’altra pochi metri, divise da una tintoria di tessuti, che usufruiva dell’acqua di una gora, protetta da un muretto, ma ancora scoperta e visibile, negli anni prima e dopo la seconda guerra mondiale. Mauro e Santino erano coetanei e molto amici, vivevano insieme i divertimenti e il tempo libero. Durante l’estate andavano spesso a Viareggio, al mare o per una girata. Mauro mi ha sempre detto di aver sentito da Santino la storia di quella sua fuga rocambolesca e per tanti versi fortunata, ma non avevo mai trovato riscontri certi da nessuno, e anche la lettura di alcuni libri, che riportavano i fatti, restava confusa e da verificare. Ritrovando la conferma scritta, alle parole di Mauro, nell’opuscolo inviatomi dall’amico, professor Ugo Jona, presidente dell’A.N.F.I.M. Toscana di Firenze, ritengo importante renderne testimonianza. Il professore in seguito alla lettura del mio libro, “Scultura memoria al tempo” Pentalinea-Prato 2008, dove a pagina 96, si fa riferimento a Italicus e si accenna all’episodio di Figline. La nota ha richiamato la sua attenzione, ricordandogli un modesto fascicolo trovato intorno al 1955, su una bancarella e conservato nella sua biblioteca, così dopo averlo ritrovato, molto gentilmente, mi ha spedito la fotocopia. Mauro Montini ha di nuovo raccontato quel fatto, confermato, su mia richiesta, anche dall’amico Rolando Baroncelli, abitante in via Firenze N° 63, Prato. La conoscenza e l’amicizia tra Santino Grassi, Mauro Montini, e Rolando Baroncelli è testimoniata dalle fotografie insieme e con dedica, qui accluse. Santino Grassi muore ancora giovane, in un incidente stradale vicino a Viareggio. Silvana Santi Montini dona alla biblioteca della “Casa delle memorie di guerra per la pace” copia dell’opuscolo Italicus: Così si muore per l’Italia libera, Edizione 1945, su 69
Ultime Voci richiesta del Direttore Comm. Sergio Paolieri. Silvana Santi Montini
Prato 5 gennaio 2009
Fotografia scattata il 16 agosto 1941 a Viareggio. Ritrae i tre amici Mauro Montini, Rolando Baroncelli e Santino Grassi.
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Volume terzo Premessa
“dei patiboli infami ti sovvenga o Prato, o Italia, e dell’infame corda, cui la tedesca rabbia ancor recinse i figli tuoi più franchi…”
Il 6 settembre 1944, quando l’alba della libertà sfiorò il verde declivio di Prato proletaria, adagiata mollemente all’ombra del Monteferrato e l’Aretaia, 29 vite venivano troncate dall’infame - sempre absburgico – capestro, nel ridente sobborgo di Figline; 21 di quelle giovani vite eran pratesi che per la libertà di Prato e d’Italia avevano combattuto nelle libere formazioni partigiane ed erano morti al grido fatidico di “VIVA L’ITALIA LIBERA”. Se fra i lettori vi è qualche italiano a capo coperto, si scopra subito dinanzi alla Maestà della Morte, perché in questo episodio c’è tutta la poesia della bellezza, della fierezza e dell’eroismo di coloro che nulla chiedendo, né ricompense né onori, affrontarono la morte per la Giustizia e per la Libertà!
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Ultime Voci IL DIARIO DI UNO CHE E’ LA STORIA DI TUTTI (MARIO TRONCI) Giovane e ardito, venti anni, cuore nobile, lavoratore instancabile, amato dal principale e dai compagni. Mario Tronci era un ribelle alle imposizioni del “regime”. Non aveva mai voluto essere “balilla”, aveva disertato il “premilitare”, non voleva servire neppure nell’esercito repubblichino: disertò e si dette alla montagna. Ecco, per meglio illustrare la sua fulgida figura, il suo diario; l’aveva redatto di suo pugno su un taccuino tascabile, lo lasciò il 1° settembre ai suoi genitori, a casa, quasi sapesse la sorte che l’aspettava. Ero perseguitato dai fascisti repubblichini, non volevo andare nelle loro mani, non mi ero neppure mai presentato al premilitare, la mia famiglia aveva per questo avuto sempre delle noie. Era il 25 novembre 1943. Mio padre Alfredo era tornato stanco da una gita d’affari da Trieste e – dopo consumato un modesto pasto – se ne era andato a letto. Dopo poco venne svegliato da qualcuno che bussava alla porta. Io, subodorando il pericolo, mi alzai in fretta e scappai da una finestra che dà sul tetto. Mio padre si affacciò alla finestra e vide alla porta tre fascisti, fra i quali Cecco Lombardi e il Tonini detto “Palle”, l’altro non lo conobbe. Mio padre venne intimato di aprire e siccome ritardava i fascisti incominciarono a martellare la porta col calcio del fucile. La porta venne aperta! Appena in casa domandarono di me: mio padre rispose che ero fuori di Prato. Non ci cedettero e vollero insistere. Ma ai rifiuti di mio padre, lo agguantarono e lo trascinarono in Fortezza: lo rinchiusero in una lurida cella, avvertendolo che non lo avrebbero lasciato libero finché io non mi fossi presentato. Saputo ciò io soffersi molto per il mio povero babbo che tanto amo e, dopo aver riflettuto tutta la notte, pensai: mi presenterò, lo salverò e poi cercherò di scappare dalle loro grinfie. Infatti il 26 novembre mi presentai. Venni trattenuto un po’ di tempo, poi venne condotto presso di me anche mio padre. – Attendiamo il comandante – disse uno di quegli sbirri. Arrivò il comandante, Duilio Sanesi, che si rivolse a mio padre:
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Volume terzo Caro Alfredo, è tuo figlio Tronci Mario? Si – rispose mio padre – perché mi domanda questo? Tuo figlio è un “comunista” di vecchia data – e rivolgendosi a me: - Vuoi passare nelle file repubblicane? No – risposi – mi sono presentato per salvare mio padre e se devo fare il militare lo farò, ma con le stellette. Mio padre venne rilasciato. Mi baciò e mi salutò. Io restai. Il giorno dopo – 27 novembre – fui trasferito a Firenze al Distretto militare e il 30, stesso mese, si partì per Roma e dopo tre giorni fummo mandati a Cassino, vicino alla prima linea, disarmati, a scavar trincee sotto il tiro del cannone. Io ed altri compagni decidemmo di tentare la fuga non appena ci fosse stato possibile. Lì la nostra vita era in pericolo e poi non volevamo lavorare per i tedeschi! Una notte feci un sogno: sognai che la mia nonna moriva. Mi svegliai di soprassalto, svegliai i miei compagni e – deciso – dissi – Ragazzi: io me ne vo; chi mi vuol bene mi segua! Tutti si alzarono. Prendemmo tutto quello che ci era possibile e – eludendo la scarsa vigilanza – prendemmo il volo! Di collina in collina, di montagna in montagna, giungemmo nei pressi di Roma. In città non si poteva entrare perché occorreva il lasciapassare firmato dal Comando germanico. Mentre stavamo a consultarci passò un camion carico di casse vuote che era diretto alla volta di Roma. La fortuna ci aiutò. Il camionista – un vero padre di famiglia – ci nascose tra le casse e ci introdusse entro la città. Ivi giunti, dopo aver gironzolato un po’, incontrammo un sergente dei bersaglieri che ci intimò il “fermo”. Ci domandò da dove venivamo e dove andavamo. Io lo avvicinai e dissi lui: - Vi confesso la verità se ci giurate di non farci del male. – Il sergente giurò sulla sua famiglia che non ci avrebbe traditi ed allora io risposi: - Siamo scappati da Cassino perché quando gli apparecchi bombardavano i tedeschi si nascondevano in posti sicuri e prendevano a calci noi poveri italiani per non farci entrare nei ricoveri. Per questo abbiamo tentato la fuga, per tornare alle nostre case. – Il sergente, commosso, ci accompagnò alla stazione, dove ci fecero i biglietti per il primo treno che capitava per Firenze. Nell’attesa del treno ci recammo in una casa vicina per cambiare i nostri abiti militari con abiti civili che, generosamente, il 73
Ultime Voci casigliano ci procurò. Tornammo alla stazione e arrivato il treno, partimmo per la nostra destinazione. Io salii per primo sul treno, fui seguito dagli altri; ci riunimmo in un compartimento di terza classe. I miei compagni, che si credevano già al sicuro, incominciarono a narrare la nostra avventura; un signore, seduto vicino a noi, li interruppe: - Ragazzi cari, fate male a parlare liberamente così. Ci potrebbe essere qualcuno che potrebbe rovinarvi. I miei compagni tacquero, impressionati. Io ero stato zitto, restai nel mio silenzio, ma prestai molta attenzione. Il signore ci fece cenno di avvicinarsi a lui e soggiunse: - Io sono un agente della polizia segreta e vi potrei fare arrestare e ricondurre là da dove siete fuggiti. Rimanemmo esterrefatti e ringraziammo il signore suddetto, pensando: - Bravo signore, tu sei un italiano sul serio! - Continuammo poi a parlare del più e del meno e la conversazione con l’agente segreto ci fu gradevole ed avemmo luogo di capire dal suo paterno linguaggio che anche là, dove nessuno l’avrebbe creduto, pulsavano cuori italiani. Così giungemmo a Firenze. Là giunti il signore ci disse: - Seguitemi, finché siete con me nulla avrete da temere. – Ci accompagnò ad un latro treno e salitovi con noi aggiunse: - Ora siete al sicuro, ma per sincerarmi che nulla vi accada, vi accompagnerò fino a Prato. – Venne con noi fino a Prato, ci accompagnò fino al piazzale della stazione e, salutandoci con una paterna stretta di mano, ci disse: - Ora siete a casa vostra. – A noi pareva di sognare! Io avevo le lacrime agli occhi e non potetti fare a meno di dirgli: - Non dimenticheremo mai ciò che avete fatto per noi. E se ne andò guardandoci; e lo guardammo anche noi finché non scomparì nell’ingresso della stazione. Io salutai gli amici ed ognuno ci incamminammo per le nostre case. Giunto a casa non potetti trattenere un grido: - Mamma! – Appena essa mi vide dette in un dirotto pianto e mi abbracciò. Altre braccia mi strinsero; era mio padre e anche la mia nonnina cara venne e mi abbracciò tanto. Era sempre viva… il mio sogno non era stato altro che un incubo. – Sono tornato fra voi e non vi lascerò più, dissi; e nella riconquistata felicità passarono altri tre giorni. Non mi mossi di casa e non pensai che a godere la felicità dei miei cari. Ma non potevo sempre stare rinchiuso in casa. Riflettei un po’ e poi decisi di arruolarmi nelle file partigiane. Era meglio così: mi sarei reso utile alla Patria ed all’idea e, se avessi dovuto morire, non sarei morto fucilato dagli sgherri e dalle spie nazifasciste! 74
Volume terzo Giunsi così a Montemurlo e mi recai dal compagno Balli Bruno, fuggiasco pure lui. Esso mi indirizzò dal sig. Gacci Nicodemo, il quale mi accolse come un figlio, e lì trascorsi alcuni giorni lieti e sereni, risentendo però la mancanza dei miei cari. Pensai di trovare una casa per loro, per farli sfollare da Prato ed averli ancora vicini. Trovai due stanze nel vicinato, feci avvertire il babbo e la cosa fu fatta: passai circa due mesi con i miei genitori, però fra la felicità e il desiderio di rendermi utile alla Patria. Stando a casa non avrei potuto dare il mio contributo all’idea. Il 5 marzo mi diedi alle formazioni partigiane e fui accolto fraternamente dal capo della formazione compagno Ferri Carlo e da tutti gli altri patrioti che combattevano per la salvezza e la libertà della Patria. Passai con loro circa un mese. La vita non era certo bella, ma a me piaceva. E’ sempre stato il mio sogno sacrificarsi per un’idea! Mi ammalai; venni inviato a casa, fatto accompagnare dal mio compagno Quinto Martini. Dopo pochi giorni di letto me la cavai. Mi recai allora al Partito Comunista per chiedere di essere nuovamente arruolato. Mi fu detto che avevano invece bisogno di me a Prato e che stessi a loro disposizione, in attesa di ordini. Anche il Martini era rimasto. Venne infatti a trovarmi e mi disse che eravamo stati incaricati della diffusione di manifestini comunisti ed antifascisti in una zona di campagna. Aderii con entusiasmo e per due mesi lavorammo ininterrottamente. Ma la sbirraglia nazista ed i continui rastrellamenti dei tedeschi che operavano nella nostra zona, uccidendo persone, incendiando case, catturando uomini per deportarli in Germania, non ci permisero più di continuare la nostra missione. Decisi allora di tornare un po’ a Prato. Era sempre pericoloso ma bisognava informare il Partito della nostra cessazione del lavoro assegnatoci. Io e Balli Bruno ci incamminammo alla volta di Prato e traversammo il poggiolino dove i tedeschi avevano fatto delle fortificazioni. I tedeschi ci spararono addosso con i fucili mitragliatori, ma non ci colpirono e – per buona fortuna – arrivammo a Prato sani e salvi. Per tredici giorni fui nascosto nella casa di persona amica poiché, uscendo, si rischiava di essere catturati, ma non potevo resistere ed il 18 luglio, uscito per “sgranchirmi un po’ le gambe”, fui acciuffato dai tedeschi. Ma mi riuscì scappare saltando giù dal camion. Mi ridetti alla montagna. Giunto a Fognano, ove io e i compagni passammo ancora giorni di ansie e di pericoli, riprendemmo la nostra missione. Il 2 agosto un tedesco venne ferito. I nazisti incendiarono tutto il villaggio di Strignanella e uccisero cinque innocenti. 75
Ultime Voci Vagando da un punto all’altro ci trovammo a Maliseti. Ivi ritrovai il compagno Martini Quinto e seppi che si attendeva ordini. Ci dividemmo. In caso di pericolo la parola d’ordine da passarci era “CHITA”. Io ritornai a Prato, con tutte le cautele possibili. Mi rimisi in collegamento con i compagni e specie con quelli del Collegio Cicognini. Il 17 agosto fui di nuovo catturato. In via S. Trinita, un camion tedesco che operava rastrellamenti veniva verso di me. Avrei potuto entrare in un portone e cercare di nascondermi, ma per non attirare l’attenzione verso di me e verso tutte le persone che si erano ivi nascoste pensai di andare avanti tentando di farla franca. Mi presero lo stesso. In un momento che io restai solo sul camion fermo, guardato da un maresciallo, poiché i soldati erano scesi per rastrellare uomini, il graduato mi domandò: - Quanti anni avere? – Risposi: - Diciassette anni, sono orfano di ambo i genitori e vivo con una vecchia zia. – Quel graduato ci credette e, mosso a compassione, mi disse: - Andare casa tua… - e mi fe’ gesto di scendere. Capii che – rischio per rischio – era meglio lavorare in “formazione” e ritornai a Fognano. Era il 20 agosto. Volli prima preparare i miei al nuovo distacco, dato che il loro grande affetto per me li aveva messi in condizione di frenare i miei impulsi. Finalmente il 1° settembre mi lasciarono partire. Riordinate queste note in un quadernetto , le lasciai al babbo dicendogli: - Babbo, parto per compiere il mio dovere di italiano. Qualunque cosa succeda tu devi essere orgoglioso di tuo figlio. – E partii per i “Faggi”. Fin qui il “diario” del giovane martire, che il destino riservava per l’olocausto a pochi giorni di distanza.
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Volume terzo 6 SETTEMBRE 1944 I MARTIRI DI FIGLINE DI PRATO BENINCASA GUIDO BIANCHI GUIDO BINI FIORELLO CIALDINI BRUNO CIAMPI NATALE DANESI ELIO DELFINI GUSTAVO GIRALDI GIOVANNI LIPPINI LEONELLO MARTINI QUINTO MOGGI FERRUCCIO PEGLI ROLANDO PANCONI MARCELLO MAURO PASQUINELLI MANFREDO RAPEZZI FERNANDO RIDOLFI UMBERTO RISALITI LORENZO SPANO ATTILIO TOCCAFONDI ADOLFO TRONCI MARIO VANNONI SANDRINO VENTURI BENITO VENTURI DOMENICO ANTONIO ZUCCA BRUNO Cinque partigiani di altra nazionalità
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Ultime Voci O giovani vite troncate dal capestro tedesco, o giovani vite troncate dal pugnale nazista, o Martiri eroici che per la Patria e per la Libertà deste la vita, innalziamo a voi un monumento. No, un monumento, ché la lingua accademica di questa età è gonfia e vuota; diciamo pure: segniamo su una pietra che resti i vostri puri nomi. Voi avete gettata la vostra vita per l’Italia, per noi. Dei patiboli infami ti sovvenga o Prato, o Italia, e dell’infame corda, cui la “tedesca rabbia” ancor recinse i figli tuoi più franchi. E dell’infamia cui si macchiò degenerata gente che d’Italia n’avea natal bastardo, libidine di fasto e di potere ! Ma l’italico sangue ancor gentile l’onta lavò pugnando e trovò morte e gloria sulle Forche e nelle valli e forre verdeggianti e nelle strade delle città dolenti e rovinate. Nemesi sia l’ombra degli Impiccati, per la degenerata e vil genìa vendutasi al Tiranno, nordico pazzo ! E al criminal nostrano che ambito sogno di grandezza e imperio fe’ sì che Italia, tragicamente prona, perisse ne suo sangue, nel dolore. Risorgerà però l’Italia bella: nel sangue generoso, fiori e fiori germoglieranno per le Tombe Sante e la maledizione, 78
Volume terzo d’un popolo di Martiri e d’Eroi, raggiungerà li traditori infami, sbirraglia delle Forche, di tedesca invenzione. Maledetti ! Ed ecco il nostro pegno: l’Italia agli Italiani nella democratica libertà, per l’avvenire d’un popolo più volte tradito e straziato dai “tiranni di fuori e dai vigliacchi di dentro”, per il bene d’un popolo che col suo generoso sangue ha acquisito il diritto alla grande conquista della Democrazia. Dalla gleba deserta che copre le ossa infrante dei giovani martiri, sorga una voce che gridi agli Italiani: “Serbate inviolato il principio sul quale si fonda la vostra esistenza come Nazione. Chi fra voi lo rinnega, fornicando coi poteri che edificarono il loro impero sulle spoglie delle Patrie e dei Popoli, quegli attenta alle fonti della vostra vita e vi prepara, con ignominia, impotenza e servitù. “Le vostre alleanze sieno con i liberi e con quelli che aspirano, soffrendo e lottando, a libertà: NON CON GLI OPPRESSORI E CON I PREDONI DELLE NAZIONI. “Voi non avrete dato sicurtà alla TERRA – che è vostra – né potere a voi stessi di adempiere la vostra missione civile fra le genti europee, sino a che la bandiera d’Italia non sorga, incontaminata, sull’ultima cresta delle Alpi nostre, ad annunziare ai popoli l’era della REDENZIONE COMUNE E DELL’AFFRATELLAMENTO DELLE PATRIE REDENTE, restituite al compito dei mutui uffici ne’ loro giusti confini, sotto gli auspici della COMUNE LIBERTA’ “. Così scrisse Aurelio Saffi dopo l’impiccagione di Guglielmo Oberdan – il Martire triestino impiccato dall’Absburgo di Vienna – così ripetiamo noi dopo l’impiccagione dei Martiri di Figline di Prato, immolati sulle forche da un altro viennese: dal criminale folle dello Sprea che – complice un demone sognatore di imperi – ha distrutto l’Italia nostra. Ma sul sangue gentile dei nostri Martiri e dei nostri Eroi italiani ricostruiremo la Patria. “E’ questo l’obbligo nostro; per questo si riaccenda nell’animo degli Italiani la fiamma dell’antica virtù”. 79
Ultime Voci Per meglio illustrare lo storico episodio - tragico e grandioso – e per meglio rendere in luce il “crimine tedesco” affinché gli Italiani (e i pratesi) ricordino trascriveremo qui ciò che ha scritto un testimone oculare – attore forzato della dolorosa tragedia: - Bailonni Argillano di Prato, che – con cosciente amor di patria – ha vergato, su un quadernetto modesto, la cronaca delle tragiche ore da esso vissute in faccia alla morte ed alla distruzione.
IL RACCONTO DI UN TESTIMONE OCULARE (BAILONNI ARGILLANO) 5 Settembre 1944. Mi trovavo da poche settimane sfollato a Figline di Prato. Durante la giornata circolavano nel villaggio le voci che i tedeschi se ne sarebbero andati. Giunta la sera ci coricammo, io e mia moglie, sul nostro giaciglio improvvisato in casa Capindi, di fronte alla Bardena, sulla strada che porta a Migliana. Ci eravamo da poco addormentati quando il rumore di truppe ci fece trasalire. Giova ricordare che Figline , alle falde del monte Javello, è sulla strada mulattiera che porta a Migliana e cioè sulle creste dell’Appennino Toscano. Ascoltammo in silenzio. Io ebbi l’impressione che i tedeschi, di passaggio, veramente se ne andassero. Dopo, silenzio per una buona mezz’ora. Quindi ancora una volta, truppa tedesca che passa. Saranno stati un centinaio di uomini e pochi muli che transitavano sotto casa e che se andavano su per la mulattiera. Io mi sentii felice: finalmente se ne andavano! Ma non erano passati che pochi istanti che il crepitio intenso di spari ci fece trasalire: si combatteva con i nostri patrioti che presidiavano le colline adiacenti. Pensai allora a tanti bravi ragazzi che avevo conosciuti; pensai che forse alcuni non li avrei più rivisti. Ed ebbi per loro un pensiero ed invocai per loro la Provvidenza e la salvezza. Il crepitio di mitraglie, di moschetti, di pistole, il sordo rombo di ordigni di guerra, durò fino all’alba. Al mattino, in paese, pochi erano gli uomini che si azzardavano ad uscire di casa; io pure vi rimasi chiuso. Mia moglie era andata al fosso per la pulizia di alcuni nostri indu80
Volume terzo menti ed anche per rendersi conto un po’ della situazione. Era il 6 settembre. Saranno state le ore 9 quando avemmo la notizia che soldataglia tedesca si aggirava per il villaggio, entrava nelle case ed asportava tavoli, sedie e corde. Non erano trascorsi neanche cinque minuti che la porta a vetri di casa nostra venne scossa con violenza e la finestra venne spalancata dal di fuori. Due tedeschi, armati di fucile mitragliatore, fecero irruzione in casa e – gettatimisi addosso – mi trascinarono fuori e mi condussero alla presenza di un loro ufficiale, credo un Maggiore. Questi mi squadrò da capo ai piedi, direi quasi con una certa soddisfazione: pareva godere nel vedermi terrorizzato. Mi apostrofò con frasi in lingua tedesca. Un soldato che – pare – funzionava da interprete, tradusse: Tu niente paura, stare accanto Comandante, vedere ciò che noi fare. Uno spettacolo terrificante mi si parò dinanzi agli occhi: una fila di giovani con le mani incrociate dietro la nuca erano schierati al muro del fosso Bardena. Al centro della fila vi era un carretto a mano: un giovane ferito vi era adagiato, un altro era agonizzante. Li fissai ad uno ad uno per vedere se vi fosse stato qualche viso a me noto, forse qualcuno ne conoscevo ma, ancora preso dal terrore e dallo strazio, non ravvisai volti noti. Li contai: erano ventuno! Altri già morti erano su carretti al lato opposto della strada. In quel momento un altro uomo anziano venne trascinato al cospetto del Comandante. Era Alceste Marchi di Figline. Il Comandante si avvicinò a noi e rivolgendosi – in special modo a me – parlò in tedesco. L’interprete ripeté: Voi vedere nostro lavoro, poi – quando noi andati via – chiamare tutti uomini paese e portare a vedere, niente far vedere a bimbi piccoli. Poi – ore sedici – fare grande buca: niente cimitero: un posto qualunque. Buttare tutti dentro. E tu (rivolto in particolare direttamente a me) fare eseguire. Capito? Capire? Noi tornare dopo. Capito? Un terzo testimone, certo Caverni, fu catturato e portato a nostro fianco. Da tutte le parti eravamo circondati da tedeschi armati di fucile mitragliatore: al lato superiore della strada era installata una mitragliatrice, un’altra al lato opposto. A colpo d’occhio mi pare che i nostri sgherri non fossero più di una venticinquina, ma fu detto che erano molti di più. Infatti dopo venni a sapere che molti erano appostati nelle vicinanze. L’ufficiale tedesco prese alcune fotografie di tutto l’insieme, quindi – con flemma schifosa – accese una sigaretta e passò in rivista i “condannati”. Alcune massaie passarono di lì con delle brocche d’acqua. Quasi tutti i giovani chie81
Ultime Voci sero da bere! Si sentivano ardere la gola: era dalla sera prima che non avevano bevuto ed avevano lottato, si erano battuti, avevano corso e faticato. L’acqua fu proibito porgerla, ai disgraziati, con cinico sorriso. Io, fattomi animo, mi permisi chiedere grazia per loro, le donne invocarono, il Maggiore disse: troppo tardi. E gettata via la sigaretta che aveva in bocca, si irrigidì, lanciò alcuni ordini che io non capii e, a voce altissima, sempre in tedesco e quasi gridando, parlò per circa due minuti; poi tacque! Pareva volesse uccidere con la voce e con i gesti. L’interprete tradusse: Voi essere stati mandati da inglesi per uccidere soldati tedeschi. Al che i patrioti risposero: No, noi siamo venuti per combattere. Si, si – replicò il tedesco – Voi siete stati mandati da inglesi per uccidere soldati tedeschi. E con questa parodia di “processo” venne decretata la pena di morte. Feci domandare al maggiore se questi fosse stato sicuro che tutti fossero colpevoli. Questi si avvicinò a noi e, frugatosi in tasca, ne trasse delle cartucce e ce le mostrò con atto di scherno: Comunisti.. Russi… Firenze…, niente! Niente ! Accompagnò ogni parola con un suono gutturale della voce che parve un ruggito, poi fe’ un cenno con la mano come per dire che erano affluiti un po’ dappertutto e che quindi non meritavano grazia. Mi fece pure capire che tre tedeschi erano stati uccisi ed un altro ferito. Sempre facendo guardare la straziante scena dai mitra dei suoi sbirri, il Comandante e l’interprete si scostarono da noi. Uno dei patrioti mi rivolse la parola: Bailonni, non mi riconosce? Sono Quinto Martini, ho lavorato nella tipografia Bessi di Prato, la prego, vada a trovare la mia famiglia e racconti loro tutto e racconti anche agli altri, come ci hanno trattati questi delinquenti! Poi mi parlò il Tronci. Mi disse, con voce commossa: Vada da mio padre e gli faccia coraggio. Il Risaliti, ed anche gli altri, mi dissero il loro nome. Uno mi disse di essere di Firenze; tutti mi dicevano cose strazianti, ma tutti fieri e forti, quei giovani martiri. Io avrei voluto ricordare di tutti i loro nomi, ma il mio cervello, il mio stato d’animo, erano tali che mi sembrava dover cadere per terra da un minuto all’altro. Non sapevo più quello che accadeva intorno a me; udii una voce, era Santino Grassi: Ragazzi, scappiamo; tentiamo la fuga, tutti non moriremo… ; un altro disse: Ragazzi, si va all’assalto? – Con che cosa? – disse uno. Erano sfiniti ed esauriti nelle loro forze, che parlar di ribellione non poteva essere che un sogno. 82
Volume terzo Intanto il Comandante e il suo interprete si erano riavvicinati. Dall’angolo di via Maggio si udì una sparatoria. Si trattava di una dimostrazione dei tedeschi per terrorizzare ancora. Intanto i primi due condannati vennero acciuffati e condotti all’imbocco di via Maggio. Dal posto ove mi trovavo non potevo vedere. Il Comandante, che aveva condannato anche me ad assistere all’orrendo spettacolo quale ostaggio responsabile dell’ordine pubblico… , mi venne dappresso e - presomi per un braccio – mi condusse a due metri da detta via, gridandomi: Vedere. Sotto l’arco di ingresso di questa stradicciola del villaggio i due primi Martiri eran già appesi ai capestri. Delle travi eran state collocate – da finestra a finestra – in questa piccola via e le corde pendevano in attesa. Altri due giovani vennero trascinati là, fatti salire su due tavoli e sulla sedia che ogni tavolo portava sopra. La corda penzolava sul loro capo. Non appena i “boia” ebbero attorniato al collo dei generosi il “cappio infame”, tavolo e sedia vennero strappati via con modo brusco e le due vittime restarono penzoloni al laccio della morte. Io mi sentivo svenire! A due a due vennero condotti altri condannati. Prima di far loro salire il patibolo, venne loro comandato di scaricare dai carretti i loro compagni già morti ed esporli, allineati per terra, nella via. Non ricordo se al terzo o al quarto gruppo di giustiziati, ad uno di essi si spezzò la corda. Era il Tronci! Esso gridò: fortuna! Questa parola fu detta dal Martire che conosceva il codice di guerra. Se ad un impiccato si strappa la corda può essere concessa lui la grazia. Il giovane restò in piedi, a terra, e parve attendere, indeciso. Ma il Comandante fe’ cenno agli sgherri di prenderlo e – togliendosi ancora la sigaretta di bocca – dié ordine di riportarlo sul patibolo. A tale ordine, inteso chiaro dal giovane Eroe, questi con atto di sprezzo della vita, rimontò sul tavolo, si accertò che la sedia no traballasse, vi montò sopra e – presa la rotta fune – rifece da se stesso il laccio e, infilatoci il collo, guardando con atto di sfida i carnefici, gridò forte:”Così fanno i partigiani; viva l’Italia libera”. Dette con sdegno una pedata alla sedia che volò a distanza ed il suo corpo penzolò dalla corda assassina. Io piangevo! Molti, fra i patrioti, seguirono l’esempio di Tronci; altri furono che, prima di morire, gridarono: “Viva l’Italia libera!”. Tutti grandi nella morte, come lo furono grandi nella loro breve vita di lotta e di affanni. 83
Ultime Voci Il comandante volle sapere cosa avevano gridato. Gli fu detto. Esso – cinicamente – si provò a ripeterlo con una risatina di scherno. Un russo gridò: “Viva Stalin!”. Prima che fosse appeso alla corda venne malmenato dagli sbirri. Un altro si ribellò e sferrò un calcio nello stomaco di un tedesco: a me sembrò che quel calcio lo avesse fatto traballare. Tanta era la rabbia tedesca con la quale i poveretti venivano trascinati alla morte, che tanto era il crescente mio sbigottimento e lo stato d’animo in cui venivo a trovarmi, che mi restava ben difficile riconoscere i patrioti per poterne descrivere meglio le loro gesta. Ad ogni gruppo di due, che il comandante faceva salire sui patiboli improvvisati, faceva seguire alcuni minuti di pausa. Sembrava che godesse dello spettacolo e volesse prolungarlo. Giunse dal lato del villaggio, verso Prato, un carretto trascinato da tre o quattro individui. Sul carretto erano due cadaveri. Il carretto venne fatto lasciare all’imbocco della via Maggio e i conducenti, meno uno, vennero licenziati. Quel povero uomo trattenuto era lacero e senza scarpe. Anche ai patrioti erano state derubate le scarpe. Uno dei conducenti il carretto, forse mi conosceva e mi salutò con una mossa del capo. Al Comandante non sfuggì quella mossa e, rivoltosi a me, disse: Tu conoscere tutti. Io volli spiegare all’interprete che non ero io che conoscevo tutti, ma erano tutti che conoscevano me perché proprietario di una cartoleria e negozio di articoli fotografici in città. Non ne abbi il tempo: ancora quattro condannati restavano da martirizzare quando vidi il comandante gettarsi a terra. Udii un sibilo: era una cannonata alleata in arrivo… Oh! Sante cannonate! Potevate esser giunte anche qualche ora prima! Vidi allora i carnefici avventarsi sui patrioti che ancora rimanevano da impiccare, alzai lo sguardo verso i morti che dondolavano in modo spaventoso per lo spostamento d’aria derivato dalla granata esplosa e fuggii dietro ad un muro. Anche alcuni tedeschi fuggirono e si rifugiarono dietro quel muro. Intanto altre cannonate giungevano. Due tedeschi mi rintracciarono e mi obbligarono a raggiungere il comandante portandomi presso la rivendita di tabacchi ove il Maggiore si era rifugiato. Le cannonate seguitavano a fioccare! Io scappai di nuovo: due tedeschi mi seguirono e mi ricondussero presso il comandante in un negozio di fronte al cancello del giardino di casa mia. In casa vi erano donne e bambini spaventati e piangenti. I tedeschi chiedevano vino. Mia moglie – allo scopo di calmare le loro ire – portò una bottiglia di liquore che venne bevuto, dai tedeschi, in pochi istanti. 84
Volume terzo La pioggia dei proiettili non tendeva a cessare. Io, presa per mano una piccola bimba, mi rivolsi al comandante chiedendo il permesso di condurre i piccoli e le donne al vicino rifugio. Egli mi guardò esitando, poi disse di sì. Dopo una mezz’ora di cannoneggiamento il fuoco cessò. Io e mia moglie uscimmo dal rifugio. Se non avessi eseguito gli ordini del comandante avrei pagato anch’io con la vita. Il paese era deserto. Io parevo uno spettro che si aggirava nella “città dei morti”. Stavo cercando aiuti per rimuovere i cadaveri e dar pace, ormai, ai poveri giovani. Nessuno si affacciava. Tutte le case erano chiuse. Il primo essere umano che incontrai fu il dottor Bettini, che – ignaro di quanto era successo in Figline – transitava casualmente di là. Informatolo di tutto esso si unì a me per la dolorosa bisogna. Ci recammo alla Parrocchia. Incontrammo lì un certo Raoul ed un altro che risponde al nome di Nigro. Ci demmo tutti briga di cercare uomini ed aiuti e ne trovammo alfine. Il tedesco tiranno aveva ordinato di mostrare al popolo il triste spettacolo, come fare? Nessuno si sarebbe sentito di invitare la povera gente terrorizzata a vedere tanto orrore. Noi, non per obbedire al tedesco, ma per compiere una pietosa missione eravamo là, fuori, ed avevamo dinanzi a noi la tragica scena, ma noi ormai eravamo attori del pietoso dramma! Quando giungemmo presso i cadaveri c’erano solo quattro tedeschi che – disarmati – tentavano forse depredare le vittime. Appena videro noi scapparono. Ma dalle prospicienti alture gli osservatori ci guardavano col binocolo. E rividi il triste “ghigno” del comandante che seguiva le mie mosse! Seppi che un giovane condannato, profittando dello scompiglio causato dalle granate alleate che scoppiavano e dal panico cui erano stati invasi i tedeschi, era riuscito a fuggire. Era Santino Grassi. I condannati erano trenta: ne vennero impiccati ventinove e, fra questi, alcuni già morti in precedenza perché colpiti da piombo o da pugnale tedesco! Incominciava a piovere. Noi nel fango e sotto l’acqua continuammo la nostra missione. Intanto gli uomini occorrenti erano affluiti. Vennero formate due squadre. I più coraggiosi ebbero l’incarico di staccare i cadaveri degli impiccati dalle corde: i più adatti, a fare la fossa presso il cimitero del villaggio. Il dott. Bettini ed il Nigro si presero l’incarico di identificare i cadaveri e raccogliere i pochi oggetti personali atti a identificare i possessori. Io facevo la spola tra gli affossatori e il luogo del supplizio fino a che fu necessaria la mia presenza, poi, - bagnato fino alle calcagna – mi ritirai in casa anche per far coraggio 85
Ultime Voci alle donne. I giorni che seguirono furono per me tristi. Per tre giorni e tre notti non ebbi pace. Ombre e spettri di cadaveri si paravano dinanzi al mio sguardo in tragica visione. Ero talmente scosso di nervi che i miei temevano per la mia salute. I tedeschi ormai se ne erano andati, ma la loro presenza era nel mio spirito e dappertutto rivedevo anche i truci loro sguardi. Seppi che in città erano giunti gli Alleati: Prato era stata alfine liberata! Avrei voluto partecipare alla rimozione delle salme che da Figline vennero trasportate a più degna sepoltura nel Cimitero Comunale, ma il mio stato psicologico non me lo permise. Ero esaurito. Il destino aveva voluto riserbare a me questo triste sprazzo di vita, ironia del caso, proprio a me che mai volli piegarmi al credo fascista. ——— Prima di chiudere queste cronache, abbiamo avuto il piacere di parlare con il giovane scampato, patriota della squadra d’azione che operava a Montemurlo. Giovane alto, magro, bruno, dagli occhi espressivi, di anni 22, ex caporale di artiglieria, pratese e fervente mazziniano, che aveva sentito, in tutto il suo impulso giovanile, il grido di dolore della Patria ed era corso a battersi per lei nelle file partigiane. Protetto dal destino, è l’unico dei trenta Eroi che scampò alla morte, non senza però soffrire l’atroce supplizio del condannato ed avere assistito allo scempio dei suoi fratelli nella fede, in quel tragico giorno che vide in Figline di Prato, elevarsi le forche su quella terra toscana e gentile, ove un altare alla gloria e all’eroismo sarà eretto perché i posteri ricordino.
IL RACCONTO DELLO SCAMPATO Venni catturato in “Razzineta” verso le ore 8,30, la mattina del 6 settembre, in seguito ad un attacco sferrato contro di noi dai tedeschi fin dalle ore 4 del mattino, mentre scendevamo alla volta di Prato per la liberazione della nostra città. Calavamo, chiatti,
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Volume terzo chiatti, col moschetto e le bombe a mano, pronte per il lancio, quando fummo avvistati dal nemico. Noi iniziammo il contrattacco e cercammo di portarci al coperto nelle gole del poggio, onde opporre una più sicura resistenza all’attacco in forze fatto dai teutonici contro di noi. Dopo un’ora di battaglia pareva che il pericolo fosse scongiurato. Una ventina di noi, riunitisi, dopo un po’ di sbandamento, risalimmo la collina per tentare, con una manovra di aggiramento, di calare verso Prato da altra parte. Trovammo però anche lassù una pattuglia tedesca che ci intimò l’alt! A tale intimazione noi rispondemmo con una scarica dei nostri moschetti. Riuscimmo così a rientrare ai nostri posti sulla collina e pensammo che, per il momento, non era il caso di ritentare la discesa, poiché ci accorgemmo di essere accerchiati. Occorreva attendere la notte successiva per tentare di rompere l’accerchiamento. Era ormai l’alba del 6 settembre ed era prudente sezionarci e nasconderci nei macchioni o nelle forre per poi ricongiungerci nella notte per ritentare l’azione combinata. Io ero già privo di munizioni. Mi rimaneva solo la pistola con pochi colpi. Mi ritrovai in un macchione con un compagno e insieme decidemmo di attendere l’oscurità e cercare di riunirci al grosso della squadra. Alle ore 8,30 tre tedeschi, che operavano il rastrellamento dal declivio della collina, ci scoprirono e ci catturarono conducendoci, con modi brutali, presso la casa di un colono ove dovevamo attendere il loro tenente. Quattro soldati restavano a guardia di noi. Nella casa suddetta trovai due compagni russi. Eravamo ormai prigionieri e nelle nostre menti si formava un piano di fuga, quando arrivò il tenente tedesco con altri quattro soldati armati di fucile mitragliatore. Esso dette un ordine. Noi venimmo raggruppati e – dopo impostoci di portare le mani dietro la nuca – ci fu ordinato di andare avanti circondati dagli sbirri col loro fucile puntato. Dopo avere camminato giù per il poggio, venimmo condotti alla villa Nocchi, ove trovammo un capitano tedesco ed altri patrioti prigionieri. La nostra sorte era ormai segnata? Cosa avrebbero fatto di noi? Ci avrebbero portati in Germania prigionieri o ci avrebbero trattati da “franchi tiratori”? Dopo qualche minuto ci riunirono di nuovo e ci condussero ad un’altra villa posta dalla parte opposta della vallata. Qui trovammo tutto il restante dei patrioti catturati, nonché sei dei nostri compagni dei quali quattro morti e due feriti in combattimento. In questa villa era già pronto un cartello stampato. Il cartello portava presso a poco questa scritta: “Così finiscono tutti coloro che tentano di intralciare la gloriosa marcia dell’esercito tedesco”. Era evidente che quel cartello doveva servire a qualche cosa, forse 87
Ultime Voci doveva essere esposto in luogo di supplizio, perché tutti vedessero ed avessero un esempio: queste le leggi germaniche di guerra. Noi – ormai – avemmo chiara la visione della tragica scena della quale, purtroppo, dovevamo essere gli attori. Non ci scoraggiammo, però, decisi di affrontare qualunque cosa per il nostro grande ideale di Patria. Pensammo spesso: “Così si muore per l’Italia libera!”. Poco dopo venimmo incolonnati. I morti e i feriti, messi sopra barelle improvvisate con scale a piuoli, prese ai contadini, dovemmo portarli noi a spalla. Il mesto e triste corteo procedette verso il villaggio di Figline ove giungemmo già abbastanza abbattuti, sia dalle fatiche, sia dalla fame e dalla sete, sia dal dolore dei compagni scomparsi, sia dall’incubo tremendo di una atroce sorte che ci attendeva. Vissi anche io le ore atroci di Figline in attesa del supplizio, ormai rassegnato, pensando spesso al nostro precursore Guglielmo Oberdan che morì sulla forca tedesca per la redenzione della Patria. E se vi fu allora una madre che soffrì per l’olocausto del figlio, “morto santamente per la Patria” , e ne fu orgogliosa, anche le nostre mamme sarebbero, nel loro grande dolore, state orgogliose dei propri figli! Vissute le ore tragiche dell’attesa, senza sapere se ci avrebbero fucilati o impiccati, vedemmo a un certo punto alcuni tedeschi che portavano dei travoni e delle corde. Non vi era più dubbio: saremmo stati impiccati! La triste tragedia aveva così inizio. A due a due venivamo prelevati dalla “fila” e condotti al patibolo, là in quella via Maggio ove forche improvvisate all’arco della via e travoni collocati da finestra a finestra erano pronti per il nostro olocausto. A un certo punto, eravamo restati in pochi, quattro di noi fummo prelevati dalla “fila” e ci fu ordinato di impiccare, con le nostre mani, i nostri compagni morti in combattimento. Mentre noi procedevamo al trasporto dei morti, dal luogo ove erano stati lasciati, al posto del supplizio, usando una certa lentezza per temporeggiare (preferivamo morire prima di dover – per forza – compiere la macabra funzione), i tedeschi avevano già compiuto l’opera di impiccagione degli altri nostri compagni. Due, di noi quattro, vennero acciuffati e condotti a morte. Quando questi poveri nostri fratelli esalavano l’ultimo respiro, due granate alleate caddero nelle vicinanze. Dopo un breve istante di smarrimento io e l’altro scampato tentammo la fuga. Fummo raggiunti e riacciuffati. Il mio povero compagno venne subito portato sul patibolo e giustiziato, io ero rimasto a terra guardato da quattro tedeschi. 88
Volume terzo Mentre il carnefice stava facendo il cappio alla corda a me destinata, altre granate alleate arrivarono gettando il panico e lo scompiglio fra i soldati tedeschi che si gettarono a terra. Approfittando di tale momento di disordine potetti prendere la fuga, non senza essere seguito a colpi di fucile dai soldati tedeschi, a me di guardia, che si misero subito alle mie calcagna. Come Dio volle, mi nascosi in una casa. I tedeschi non videro la mia mossa e – passando di striscio – continuarono ad inseguirmi là dove non ero. La caccia continuò. Io me ne stetti ben nascosto e dopo, uscito da quella casa, raggiunsi l’abitazione di una famiglia di parenti colà sfollati, ove attesi che il pericolo fosse scongiurato per poter così tornare fra i miei compagni di lotta. ——— Alla fedele cronistoria, documentata dai racconti di due uomini di fede, l’uno il forzato attore di questa pagina di storia, l’altro il giovane patriota mazziniano che scampò alla morte quando alla vita esso stesso aveva dato addio nel nome della Patria martoriata, nulla resta da aggiungere a noi che abbiamo assunto il compito di rievocare il glorioso episodio. Solo ci rincresce di non aver potuto far risaltare in primo piano tutti e trenta i giovani, della maggioranza dei quali ci mancano le notizie particolari. Ma la vita di cospiratori prima, di guerriglieri garibaldini dopo, di martiri eroici infine fu di tutti uguale, e tutti i ventinove patrioti, impiccati, morirono per la libertà; anche gli stranieri della formazione morirono per la libertà delle loro Patrie, come sono morti e muoiono i loro compagni di Russia, d’Jugoslavia, di Grecia e di tutte e altre nazioni oppresse dal barbaro nazista. Le gesta dei Mille, con alla testa “l’Esule smorto tutto fronte e sguardo,che evocò un popolo da un branco di schiavi, brancolanti nei sepolcri, e sollevò una bandiera dalle infamie e dal fango, dai patimenti e dai tormenti, per farne un segnacolo di fede”, sono state rinnovate. Il Generale Repubblicano e Plebeo gli ha dato il timbro della sua voce virile: gli eroi del nuovo martirologio italiano hanno ripetuto, con lui, a distanza di quasi un secolo: “Qui si fa l’Italia, o si muore!”. E sono morti, sulla tedesca forca, per fare l’Italia. O italiani non dimenticate! 89
Ultime Voci Armando Lapi
Armando Lapi è nato l’8 maggio del 1910 a Cetica, nel Comune di Castel San Niccolò in provincia di Arezzo. Fu arruolato nei Carabinieri dal 2 luglio 1929; CC di Firenze. Il 19 luglio 1941 partì con la 65° Sezione Carabinieri della Divisione di Fanteria Cacciatori delle Alpi per il fronte dei Balcani. Tornato in Italia dopo l’8 settembre si unì alla brigata partigiana Lanciotto Ballerini. Nel 1944 fu catturato dai tedeschi ed inviato in Germania, da dove tornò il 20 agosto del 1945.
La biografia Lapi Armando è nato l’8 maggio 1910 a Cetica, località sulle pendici del Pratomagno lato Casentino ad oltre 700 m. slm., in Comune di Castel San Niccolò (AR). Arruolatosi nei Carabinieri dal 2 luglio 1929, venne assegnato dapprima alla Legione Allievi di Roma e poi, dal 7 novembre 1939, alla Legione CC di Firenze: il 28 ottobre 1939 infatti si era sposato nella Chiesa della Torre (un’altra frazione di Castel San Niccolò) con Durazzi Emilia ed era tornato ad abitare a Strada, il capoluogo del Comune. Dopo la guerra si trasferì a Prato, dove sono nati i due figli, Lorenzo e Liliana, ed i suoi sei nipoti, e dove è morto il 20 dicembre del 2006. La vita durante la guerra Armando Lapi partecipò dal 19/7/1941 all’8 settembre 1943 alle operazioni di guerra nei Balcani con la 65° Sezione Carabinieri nella Divisione di Fanteria Cacciatori delle Alpi. Partì per il fronte a luglio lasciando a Strada la moglie che aspettava il primo figlio, nato nell’ottobre 1941.
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Volume terzo L’8 settembre 1943 i militari italiani furono abbandonati dai loro ufficiali e si dispersero. Affamati, molti senza scarpe, che erano state tolte loro insieme alle armi dai partigiani, ricercati dai Tedeschi, dopo infinite peripezie e pericoli, viaggiando a piedi di notte e nascondendosi nei boschi di giorno, cercarono di tornare a casa. Solo i più fortunati ci riuscirono, fra questi Armando, che fece ritorno in famiglia il 18 ottobre 1943. Riprese servizio alla Legione Carabinieri di Firenze, ma c’era un grande sbandamento con i Tedeschi che di fatto comandavano; per cui, non intendendo aderire al fascismo, nell’inverno si rifugiò a Cetica nella casa paterna di Campareccia, ove lo raggiunsero moglie e figlio. I Tedeschi e i fascisti cercavano gli uomini per farli arruolare, promettendo ricompense e minacciando rappresaglie ai familiari. Anche ad Armando furono mandati messaggi di aderire alla R.S.I., ai quali non rispose. Sul Pratomagno c’erano i partigiani della brigata Lanciotto Ballerini guidati da Aligi Barducci, detto “Potente”. Fra questi c’era un maresciallo, suo vecchio amico, che riuscì a convincerlo ad andare con loro nella cosiddetta “Repubblica partigiana del Pratomagno”. Venne soprannominato “Quaranta” perché era un camminatore instancabile. Il 27 giugno 1944 in un’abetina nei pressi di Cetica venne fucilato Farina, maresciallo della milizia fascista di Strada. La notte successiva i fascisti di Strada, accompagnati da soldati tedeschi, partirono con motomezzi per andare, così dissero, a vendicare Farina bruciando gli abitanti di Cetica e le loro case. I partigiani, saputolo in tempo, riuscirono a bloccare la carreggiata con grossi tronchi di albero: la sorpresa mancò ed i motomezzi dovettero fare marcia indietro. La mattina dopo, il 29 giugno 1944, il giorno della festa dei santi Pietro e Paolo, i fascisti ci riprovarono, affiancati questa volta da un grosso contingente dell’esercito tedesco, risalendo a piedi verso Cetica, su per il fiume Solano, affluente destro dell’Arno. Solo da poco tempo, consultando i documenti ufficiali delle Forze Armate tedesche, si è scoperto che l’azione di Cetica del 29 giugno 1944 in effetti era stata programmata da tempo. Infatti fu contemporanea a quelle di Civitella della Chiana e di Cornia San Pancrazio (ove furono uccisi 223 civili), effettuate da reparti speciali della Wehrmacht. Il 26 giugno un battaglione del 3° Brandeburg era infatti in marcia verso Strada per rinforzare il Koruck 594 che avrebbe dovuto attaccare, proprio il 29 giugno, i partigiani a Cetica, distruggerli e poi proseguire per il Pratomagno e sbaragliare la brigata Lanciotto Balleri91
Ultime Voci ni, che rendeva insicure le vie di comunicazione tedesche tra il Casentino e il Valdarno. Pertanto, il 29 giugno 1944 i Tedeschi avrebbero comunque attaccato Cetica a prescindere dall’azione punitiva per la fucilazione di Farina. L’attacco massiccio venne condotto da oltre 200 uomini della Wehrmacht ben armati. Le forze partigiane che erano ancora a Cetica resistettero e contrattaccarono. I Tedeschi, avendo armi più potenti, avanzavano sparando e dando fuoco alle case con granate incendiarie, per cui vennero bruciate o gravemente danneggiate oltre 180 case. Da parte italiana vi furono tanti feriti, 15 morti fra i civili e 14 fra i partigiani. Tuttavia a causa della forte resistenza incontrata i Tedeschi, che nell’operazione avevano perso molti uomini, non riuscirono a oltrepassare Cetica e raggiungere il Pratomagno, ove si sarebbero dovuti congiungere con le forze provenienti dal Valdarno superiore, per cui rientrarono nelle loro basi. Armando rimase in paese per aiutare la famiglia, dal momento che la vecchia casa dei nonni di Camorello era stata completamente distrutta, mentre quella di Campareccia era stata solo danneggiata, in quanto, per un caso fortuito, solo una delle granate gettatevi era esplosa. Prigioniero in Germania Si sperò che i Tedeschi a Cetica non si sarebbero fatti più vivi: invece, alle prime luci dell’alba del 4 agosto effettuarono un grande rastrellamento, catturando tutti gli uomini validi che trovarono. Dissero che li conducevano a lavorare sul Falterona per costruire la linea di difesa militare e che li avrebbero rimandati presto per darsi il cambio con altri. Gli uomini catturati furono un centinaio, fra essi Armando e suo fratello Artemio. Furono portati in località Pagliericcio. Li chiusero in alcuni fondi. La notte alcuni riuscirono a scappare da una finestrella che dava sul fiume Solano. Armando ne ebbe la possibilità ma non se la sentì di lasciare il fratello rinchiuso in una stanza senza finestre. Domenica 6 agosto 1944, incolonnati a piedi, furono portati in Romagna e da Forlì in treno, in vagoni sigillati, spediti in Germania. Essendo stati catturati in campagna, i Tedeschi pensarono fossero agricoltori, per cui la maggior parte venne destinata al lavoro coatto in fattorie della zona della Saar; gli altri assegnati a fabbriche. Nella fattoria in cui fu inviato Armando c’erano solo anziani, donne e bambini, in quanto i figli grandi erano sul fronte russo. C’era molto da fare, perché
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Volume terzo l’azienda era grande e c’era tanto bestiame. Lo trattavano bene: la sera gli permettevano di allontanarsi per portare cibo e, d’inverno, coperte ai prigionieri italiani che lavoravano nelle vicine fabbriche, i quali, oltre al rischio dei bombardamenti, pativano il freddo e la fame. In altre fattorie i proprietari erano nazisti e trattavano male i prigionieri, specie quelli italiani, che disprezzavano, chiamandoli traditori. C’era poi l’incubo quotidiano dei bombardamenti. Dopo le incursioni aeree, i prigionieri venivano portati nei paesi e nelle città (in particolare a Wiesbaden e a Francoforte sul Meno) per togliere le macerie, riaprire le strade, cercare i feriti, togliere i morti, scavare grandi fosse e seppellirli o riseppellirli quando le bombe scoperchiavano le fosse. Per l’intero periodo della prigionia non riuscirono a fare avere notizie alle famiglie in Italia, che restarono sempre in grande angoscia. Dell’Italia ebbero notizie una volta che furono radunati per ascoltare ufficiali della Repubblica di Salò che li invitavano ad aderirvi con la promessa di essere rimandati in patria. Nessuno del loro gruppo accolse l’invito. La guerra stava per finire. Furono liberati nell’agosto 1945, da parte delle Forze alleate (Francesi ed Americani) ed il 15 dello stesso mese Armando ed Artemio furono rispediti in Italia. Appena liberati gli internati italiani uscirono per le strade cantando e incontrando tanti altri prigionieri, uomini e donne di tutti i Paesi d’Europa, lavoratori coatti per mandare avanti la macchina bellica tedesca, malgrado i divieti della Convenzione di Ginevra. Vi furono tentativi di vendetta nei confronti di quei tedeschi che si erano comportati in modo peggiore nei confronti dei prigionieri. Alcune fattorie vennero bruciate. Armando con alcuni amici riuscì a scacciare un gruppo di sbandati che volevano saccheggiare la fattoria ove lavorava non sapendo che quei proprietari non erano stati nazisti, anzi avevano permesso che venisse portato cibo e coperte a deportati più sfortunati. Armando ricordava il dispiacere dei vecchi e dei loro nipotini quando partì per tornare a casa. Gli si erano affezionati, lo consideravano uno della famiglia, odiavano la guerra che aveva loro portato via entrambi i figli maschi, dispersi in Russia. Il ritorno in Italia. Partito il 15 agosto 1945, Armando arrivò a Milano il 18 dello stesso mese. Fu preso in
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Ultime Voci carico dall’Arma dei Carabinieri, inviato in treno a Firenze ed il 20 agosto 1945, dopo un anno di lontananza, poté riabbracciare i suoi cari. Rimase nell’Arma sino al pensionamento avvenuto presso la Compagnia CC di Prato, il 1° novembre 1956. Dopo la morte della moglie e le nozze dei figli, tornò stabilmente a Cetica nella casa di Camorello, quella bruciata dai Tedeschi, che aveva ricostruito; lì passò la vecchiaia fino alla morte avvenuta il 20 dicembre 2006 a Prato, nella casa del figlio, a novantasei anni d’età. Le onorificenze Con nota 19 giugno 1984 il Ministro della Difesa gli inviò il diploma d’onore di combattente per la libertà d’Italia, concessogli dal Presidente della Repubblica, in ordine alla Legge 16 marzo 1983 n° 75. Il 30 maggio 1992 il Ministro della Difesa gli partecipò, ai sensi della Legge 6/11/1990 n° 323, che con Decreto Ministeriale n° 000007/GE/323 gli era stato conferito – a titolo onorifico – il grado superiore di vice brigadiere. Il 27 settembre 2007 il figlio Lorenzo, per onorarne la memoria, richiese alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la concessione della medaglia d’onore, ai sensi dell’art. 1, comma 1272 della Legge 27 dicembre 2006 n° 296. La medaglia è stata concessa nel 2008.
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Volume terzo
Roma 1929 Armando allievo Carabiniere
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Ultime Voci
Montenegro 1941 Armando al fronte.
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Volume terzo Alvaro Lisi
Alvaro Lisi nato a Colle Val d’Elsa il 2 aprile 1921. Residente a Prato.
Prefazione Questo memoriale non è stato scritto né da uno scrittore né da un intellettuale, ma da chi ha vissuto realmente per quasi due anni la vita da prigioniero. Tanti particolari non sono stati citati, ad esempio gli zoccoli tipo olandese, a pianta piana, in modo che il piede non avesse la possibilità di piegarsi per poter fare i passi regolari, il dorso del piede si contraeva sopra lo zoccolo causando delle dolorose lesioni. Tanti altri particolari non sono stati descritti, come ad esempio il fatto che eravamo meccanici: diversi compagni andavano dove facevano colazione i nostri capi e si comportavano nell’uguale modo come fanno i cani di fronte al padrone, aspettando che gli venisse gettato un pezzetto di pane, gli facevo presente se avessero ancora un po’ di dignità, ma purtroppo la fame non conosceva dignità e per questo provavo un senso di vergogna verso di loro. Alvaro Lisi
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Ultime Voci E venne il nove settembre 1943 Il sottoscritto Lisi Alvaro faceva parte del Corpo della Guardia di Finanza: nell’anno 1942 fui assegnato alla Commissione di Armistizio con la Francia (C.I.A.F.) e nel mese di dicembre dello stesso anno da Firenze si partì con altri colleghi per raggiungere il territorio francese, destinazione Cannes. Alloggiammo all’hotel Geneve et Angleterre, bellissimo e comodo con adeguata servitù. Ci comandava il sottotenente attualmente oggi colonnello e generale. Verso la fine di gennaio, io e un mio collega fummo trasferiti in Alta Savoia e, dopo due giorni di viaggio da Annemasse insieme ad altri dieci colleghi, arrivammo ad un paesetto chiamato Machilly. Alloggiammo all’hotel Savoia, non lontano dal confine svizzero, e formammo il primo posto di controllo. La popolazione locale mostrò inizialmente diffidenza nei nostri confronti, ma il nostro comportamento corretto fece che ben presto quella gente familiarizzasse con noi, tanto che fummo addirittura invitati a qualche festicciola familiare e ricevemmo spesso le visite delle ragazze che ci raggiungevano di nascosto per trascorrere qualche ora assieme a noi. Chi comandava il posto di controllo era un vice brigadiere richiamato, che con il suo modo di agire verso gli abitanti del paese ci avrebbe creato un certo imbarazzo data la presenza di gruppi partigiani. Per evitare il peggio si fece trasferire altrove. Venne a comandare il posto di controllo un brigadiere che si dimostrò essere un sottufficiale che sapeva veramente svolgere il suo servizio. Regolarmente andavamo di servizio notte e giorno sempre a turno lungo la linea di confine svizzero e di fronte a noi ammiravamo una bellissima montagna nominata “Dent du Midi”: questa montagna la sera cambiava colore ogni ora fino a raggiungere la sfumatura del nero. In seguito venni trasferito ad Annemasse e aggregato ad altra squadra a stendere i reticolati lungo la linea di confine franco-svizzero. Dopo qualche mese, causa una mancanza disciplinare, fui trasferito in alta montagna, in un paesetto chiamato Chatel, dove avevamo un posto di controllo, distante circa due chilometri dal confine con la Svizzera. Alloggiavamo in uno chalet chiamato Mondesir, una piccola frazione di villeggiatura. Arrivai con una lettera d’accompagnamento, di cui non ho mai conosciuto il vero contenuto, ma di cui sospettai in seguito all’atteggiamento dei miei colleghi: ero completamente isolato da tutti; passai circa una quindicina di giorni evitato da tutti i colleghi, con la speranza che un giorno 98
Volume terzo questa situazione avesse una fine. Con il passare dei giorni un collega mi chiese se avessi avuto intenzione di espatriare in Svizzera, gli risposi che non mi era mai passato per la mente anche sapendo quello che mi sarebbe potuto accadere in seguito. Dopo qualche giorno quell’indifferenza e quell’isolamento nei miei confronti cessò e tutti i miei colleghi cominciarono a darmi confidenza e a dimostrarmi la loro amicizia. Dopo un po’ di giorni i partigiani francesi assalirono il nostro posto di controllo in una località chiamata Novelle, ci furono anche dei morti e trafugarono armi e munizioni. Se ci avessero attaccato dove eravamo alloggiati avrebbero fatto una carneficina perché quello chalet era costruito in legno, in maggior parte in tavolato. In seguito a quell’attacco partigiano al posto di controllo di Novelle venne il comandante della compagnia di Samuens a controllare come eravamo sistemati e non trovando idonea la nostra sistemazione fece requisire un hotel chiamato Fleur de Neige costruito in muratura, nel quale sarebbe stato possibile difendersi da un eventuale attacco. In quel periodo venne trasferito un brigadiere ottimo sottufficiale. Tutto proseguiva normalmente fino al giorno (?) luglio, quando, tramite la trasmissione della radio, apprendiamo che il regime fascista era (de)caduto e che Mussolini era stato arrestato; si ascoltò anche il proclama del generale Badoglio che fu nominato capo del governo, il quale dichiarava che la guerra continuava, ignorando chi fosse l’eventuale nemico. In seguito agli eventi bellici la C.I.A.F. ebbe la sua fine e fu costituto il battaglione “Annemasse”. Ormai era sicuro che la dittatura fascista non esisteva più e questo segnale lasciava intuire che la guerra sarebbe potuta terminare presto. Al nostro posto di controllo continuavamo a prestare il nostro servizio. I doganieri svizzeri ci fecero sapere che Mussolini era tenuto prigioniero in un hotel sul Gran Sasso: di fronte a questa rivelazione restammo interamente increduli, col passare dei giorni ci rendevamo conto della realtà dei fatti che ci avevano riferito i doganieri svizzeri, i quali ci comunicarono anche che gli americani erano sbarcati in Sicilia. Il mese di agosto trascorse senza clamori, si sapeva soltanto che gli americani avanzavano. Poi venne il mese di settembre. Il giorno 7 feci il turno dalle ore 0 alle ore 6 del mattino del giorno 8, alla sera feci il turno dalle ore 18 alle ore 24. Arrivati sul posto della linea di confine i doganieri svizzeri ci invitarono ad espatriare perché l’Italia aveva chiesto l’armistizio e il confine italo-francese era bloccato dalle truppe tedesche che impedivano il rimpatrio alle truppe italiane dislocate in territorio francese, facendole 99
Ultime Voci prigioniere. Eravamo indecisi, quando verso le ore 21 ci raggiunse una pattuglia, armata come non mai, che ci fece smontare dal servizio comunicandoci che saremmo rientrati in Italia. Quando arrivammo, nell’hotel dove alloggiavamo trovammo una gran confusione perché tutti i colleghi erano indaffarati a fare le valigie, a prendere coperte, sacchi a pelo e tutto quello che potevano prendere. Molto materiale fu lasciato nell’hotel. Quando tutti fummo pronti il brigadiere si recò all’abitazione dell’autista che con la corriera faceva servizio Chatel – Thonon-Bains. All’autista fu dato un compenso perché venisse con l’autobus all’hotel, dove caricammo tutti i bagagli e partimmo. Si seppe poi dal comandante della compagnia di Samuens di raggiungere lui per proseguire per l’Italia o di espatriare in Svizzera. Il comandante della compagnia di Thonon, nel frattempo, diventò prigioniero dei tedeschi e disarmato; dettero la possibilità di telefonare a tutti i posti di controllo e avrebbe potuto benissimo avvertirci della situazione in cui si trovava e suggerirci di andare in Svizzera dato che parlava il dialetto siciliano, ma non lo fece. L’autista dell’autobus, prima di partire, ci avvertì di non avere legna sufficiente per sviluppare il gassogeno per arrivare a Samuens (le macchine a quei tempi andavano a gassogeno), quindi dovemmo andare per forza a Thonon a fare il rifornimento di legna al suo magazzino. A circa sette chilometri da Thonon-les-Bains incontrammo una motocicletta sidecar con una pattuglia di soldati tedeschi i quali si fermarono un attimo e poi, per fortuna, tornarono indietro. A due chilometri dall’arrivo forammo una gomma, proseguimmo fino al magazzino per il rifornimento della legna; prima di partire da Chatel facemmo salire sul tetto della macchina due finanzieri con un fucile mitragliatore per ogni eventualità. Arrivati senza alcun inconveniente al magazzino per il rifornimento, nel momento in cui cambiavamo la ruota forata e mentre facevo luce all’autista che stringeva l’ultimo bullone della ruota, mi sentii strappare il moschetto che tenevo sulla spalla e in un attimo fummo tutti disarmati. I due finanzieri che erano sopra la macchina non fecero in tempo a sparare perché in un attimo furono scaraventati a terra. Fu una fortuna non aprire il fuoco perché all’alba vedemmo davanti a noi un cannoncino anticarro, che avrebbe fatto fuoco al minimo cenno di resistenza. E così ebbe inizio il 9 settembre 1943. In meno di 10 minuti si introdussero nel magazzino della legna e iniziarono la prima perquisizione portandoci via gli oggetti migliori, compreso il denaro. Riuscimmo a nascondere qualche piccola cosa, ma in minima quantità. A giorno fatto ci condussero all’hotel dove aveva100
Volume terzo mo il comando di compagnia comandato dal capitano X . Questo hotel distanziava circa 30 metri dalla riva del lago di Ginevra. I tedeschi che ci facevano la guardia dormivano in piedi dalla stanchezza, ma nessun superiore ci suggerì di tentare la fuga nonostante ci fosse la possibilità di attraversare il lago su una delle barche a remi ancorate di fronte all’hotel. Il giorno 13 o il 14 sempre di settembre fui preso da una crisi di sconforto e mi vennero i nervi a fior di pelle, perché ripensavo alla facoltà che i tedeschi avevano dato al capitano di avvertirci della situazione, dato che era già prigioniero e disarmato della pistola d’ordinanza. In tal modo avrebbe dato a noi la possibilità di espatriare con tutta tranquillità, anche perché i doganieri svizzeri ci avrebbero dato il permesso di entrare. Vidi il capitano seduto tranquillamente su di una poltroncina a leggere un giornale, in quel momento fui preso dalla disperazione e feci l’atto di sputargli in faccia. Presente al fatto era il sottotenente Z che riferì questo gesto al capitano, il quale si alzò immediatamente, mi venne incontro, mi fece alzare le braccia e mi ordinò di mettermi di spalle ad un palo che si trovava nel giardino, poi fece chiamare i tedeschi. Ne vennero due armati di fucile, mi fecero salire su di una scalinata, ma arrivati a metà scala mi fecero tornare indietro e mi condussero nel sottosuolo dell’hotel. Diversi miei colleghi si accorsero dell’atteggiamento ostile nei miei confronti e temettero il peggio. Si recarono immediatamente dal capitano per una delucidazione, ma questi disse soltanto che non aveva dato nessun ordine di fucilarmi, poi non so dove si rifugiò perché lo rividi solo dopo qualche giorno. Quando giunsi nel sottosuolo mi fecero sedere su di una sedia con la faccia al muro, i due tedeschi con il moschetto puntato mi tennero inchiodato su quella sedia per ore, senza potermi muovere perché ad un qualsiasi movimento avevano l’ordine di spararmi. Seppi che era una punizione tedesca. In quel momento non mi rendevo più conto di nulla perché ormai credevo che fosse finita per sempre. Questo episodio mi ha lasciato un brutto ricordo, perché alla distanza di tantissimi anni spesse volte nelle notti lo rivivo, è un trauma che non supererò mai più. Dopo tre ore i tedeschi mi rilasciarono e quando i miei colleghi mi rividero comparire fra di loro ci fu un’esplosione d’affetto che non avrei mai immaginato. Rividi il capitano dopo qualche giorno, e intorno al 18 settembre ci fece radunare nel piccolo piazzale per parlarci della situazione in cui ci trovavamo, fece presente che eravamo sempre alleati con i tedeschi e che avevamo il dovere di collaborare, riprendere quindi le armi e tornare a combattere al loro fianco. Quando ebbe finito ci chiese chi ade101
Ultime Voci riva alla sua richiesta: dovevamo alzare un braccio. Chi aderì alla sua richiesta fu soltanto il suo fedele autista. Ecco perché non ci comunicò di espatriare, essendo informato della situazione italiana il suo scopo era quello di riorganizzare la compagnia collaborando poi con i tedeschi, al cui fianco ci avrebbe mandato a combattere. Vedendo questo atteggiamento ci disse che non sarebbe stato più il nostro comandante e che ci avrebbe abbandonato al nostro destino. Non l’ho mai più rivisto. Sul comportamento di questo capitano, che comandava a Civitavecchia, il Comando Generale della Guardia di Finanza chiese informazioni circa l’atteggiamento da lui tenuto durante il periodo bellico, ma al sottoscritto non fu chiesto niente, non ebbi alcuna opportunità per dichiarare quello che ci fece subire. Seppi poi che lo promossero al grado superiore, mi meravigliai che non avesse ricevuto anche una onorificenza. A Thonon Les Bains ci incolonnarono e sottoscorta, fra le minacce e gli insulti della popolazione francese, piano piano lasciavamo l’Alta Savoia ed i bellissimi ricordi. Si giunse alla città di Annecy, ci fecero entrare in un grandissimo piazzale con delle caserme che forse una volta erano alloggiamenti dei militari francesi. Ogni tanto sentivamo dei colpi di mortaio, vivevamo con l’illusione che i partigiani francesi ci venissero a liberare, ma purtroppo fu proprio un’illusione, perché il giorno seguente ci misero nuovamente su un convoglio bestiame a bordo del quale raggiungemmo Grenoble, dove ci fecero sostare poco tempo alla stazione radiofonica in un grande giardino. Durante la sosta incontrai un collega che faceva parte anch’egli della Commissione di Armistizio, mi fece presente che aveva tentato di fuggire per due volte e lo avevano sempre ripreso nonostante vestisse l’abito civile. Una mattina, mentre ci dirigevamo verso la stazione ferroviaria di Grenoble, lungo il percorso questo mio collega uscì dalla colonna, prese per mano una signora che passeggiava con il figlio, come se fosse stato suo marito. La signora restò sorpresa ma intuì di cosa si trattava e si dileguarono tra i passanti. Arrivati allo scalo merci, a spintoni ci fecero entrare nei vagoni bestiame e ci chiusero con i lucchetti fino alla stazione di Lione. Qui ci fecero scendere dai vagoni e ci incolonnarono ostentandoci lungo una via del centro. Al nostro passaggio dalle finestre ci venne gettato addosso ogni tipo d’immondizia oltre agli insulti. Giunti a destinazione ci introdussero in un grande maneggio da cavalli: c’erano circa 20 centimetri di terra che durante il maneggio era diventata una polvere finissima che ci penetrava attraverso le divise procuran102
Volume terzo doci un prurito insopportabile. In questo maneggio ci fecero sostare per tre giorni senza mangiare, senza potersi lavare e fra la polvere e la mancanza di spazio facevamo fatica a respirare. Finalmente ci portarono ad uno scalo merci ferroviario di Lione e saliti sui vagoni bestiame si ripartì. I vagoni furono lasciati aperti e quando il treno rallentava in aperta campagna qualche militare si gettava dal vagone per fuggire, ma subito sentivamo sparare i tedeschi che erano di guardia sopra i vagoni, non so che fine fecero i diversi fuggitivi. Dopo quel massacrante viaggio giungemmo ai confini del Belgio e precisamente a Metz. Nel vagone assieme a me c’era un collega il quale mi disse che avrebbe tentato la fuga. Al fianco della nostra tradotta c’era un convoglio con carrozze; questo mio collega scese dal vagone senza essere notato dalle guardie e salì su di una carrozza. Lo incontrai dopo la prigionia, nella caserma della Guardia di Finanza di Siena e mi raccontò che alla fuga da Metz su quel convoglio, dopo un lungo viaggio, direttamente si ritrovò a Milano. Quanto a noi scendemmo dai vagoni incolonnati e a forza di percosse e spintoni raggiungemmo la località di Forbac e infine ci fecero salire su di un’altura, sempre nei dintorni di un campo di smistamento che confinava con un altro campo di prigionieri russi, i quali scambiavano segretamente un po’ di vestiario che i tedeschi ci avevano lasciato con un po’ di farina miscelata, che si cuoceva a seconda delle possibilità cercando di eludere la vigilanza dei tedeschi. Questa farina miscelata con erba qualsiasi ci sembrava una delizia. La sera del terzo giorno ci diedero un rumaiolo di zuppa composto da semi di panìco, rape e crauti farciti e qualche pezzetto di cavolo, quello era il vitto che passavano a noi prigionieri. Il sesto giorno di permanenza in questo campo eseguirono ancora delle perquisizioni. Nonostante tutto un collega riuscì a nascondere non so dove una macchinetta fotografica, con questa poi mi fece una foto che conservo ancora. Ci fotografarono con impresso il numero di matricola: a me assegnarono il numero 03929 Stalag 12 F. Da quel momento non avevamo più un nome e un cognome ma soltanto un numero. Dopo che ci ebbero schedati tutti incolonnati per 5 ci incamminarono verso la definitiva assegnazione e precisamente al bacino carbonifero di Merlenbach (Alsazia e Lorena), enorme complesso minerario da cui in tempi normali venivano estratti [impiegati] circa 20.000 unità fra minatori, meccanici, ingegneri e altro personale. Quando si partì dal campo di smistamento un collega, mio carissimo amico, con la promessa di ritrovarsi alla fine della guerra (sic). Da Forbac a Merlenbach fu un tragitto di qualche chilometro, durante il quale guardiani che ci avevano preso in consegna non lesinarono percosse, spintoni, dandoci 103
Ultime Voci l’esatto senso della prigionia. Giunti finalmente a destinazione, entrammo in un recinto con rotoli di filo spinato fra i due reticolati della recinzione in modo che non ci fosse la minima possibilità di fuga. Questo recinto era a forma di quadrato e ad ogni angolo c’era una torretta dotata di un faro e di una mitragliatrice per ciascun militare che montava la guardia notte e giorno. Con questo trattamento non credevamo più di essere militari internati, bensì prigionieri di guerra a tutti gli effetti. L’immobile che ci ospitava era costituito da un sottosuolo con gabinetti e lavandini per la pulizia personale, una cucina e dei dormitori con pagliericci a castello, con materassi di juta, ripieni di truciolame in legno. Eravamo in tutti 800. Nei dormitori passavano 5 tubi della larghezza di 10 cm. In cui nel periodo invernale passava il vapore per il riscaldamento: quello era il solo comfort. La maggior parte di noi prigionieri fu mandata in miniera, altri adibiti ad accumulare carbone su cui stendere i binari per il passaggio del treno carico di carbone che poi veniva smistato secondo la richiesta. Questo bacino carbonifero aveva una organizzazione ineccepibile, con officine, infermerie, piazzali riforniti al massimo di legname per le armature sotterranee, avanzamenti dove veniva estratto il carbone, ingegneri, geometri e specialisti adibiti al controllo delle gallerie. Io fui spedito subito in miniera ad una profondità di 800 metri. Della miniera ne avevo soltanto sentito parlare e non mi rendevo conto della realtà. Il lavoro veniva svolto in tre turni, dalle ore 24 alle ore 6 e dalle ore 6 cambiava alle ore 16 e dalle ore 16 alle ore 24. Per essere pronti ci mettevano in fila 2 ore prima. La sveglia era alle ore 4 del mattino, con la tessera alla mano andavamo a prendere un po’ d’acqua nera che chiamavano the insieme alla razione di pane con un po’ di margarina e un po’ di salame (così lo chiamavano i tedeschi). Inquadrati per 5 ci scortavano al deposito delle lampade che ci venivano distribuite per fare lume durante il cammino per raggiungere l’avanzamento: queste pesavano circa 3 Kg. E avevano un’autonomia di circa 72 ore. Si entrava in ascensore e in un attimo si arrivava alla profondità di 800 metri, ci incamminavamo lungo la galleria principale e la fila dei prigionieri con tutte quelle piccole luci sembrava una processione religiosa. Al centro della galleria c’erano collocati due binari per lo scorrimento dei carrelli vuoti da una parte, quelli pieni di materiale dall’altra, fino a raggiungere gli ascensori, la elevazione e lo scarico in superficie. La galleria centrale aveva diverse diramazioni e si raggiungeva la profondità di 1.000 metri. I carrelli pieni venivano trasportati da cavalli che raggiungevano il posto delle catene girevoli, provviste di ganci: esse prendevano i carrelli e li portavano ai binari centrali. I carrelli arrivati 104
Volume terzo in superficie venivano nuovamente agganciati sui binari, venivano smistati per andare ad essere scaricati nelle svariate tramogge e il materiale veniva poi scelto da personale femminile. Durante il mio primo turno fui assegnato all’avanzamento per l’estrazione del materiale carbonifero, eravamo una squadra composta da 6 prigionieri compreso il capo operaio, avevamo in dotazione un trapano adibito alla perforazione, ad aria compressa con una punta di circa 3 metri che per la perforazione della roccia veniva raffreddata con acqua. Questi fori venivano fatti alla distanza di 40 centimetri in tutto l’arco della galleria; completati questi fori veniva l’artificiere con candelotti di dinamite che venivano introdotti dentro i fori e fatti brillare. Era un lavoro massacrante, l’esplosione causava un gran polverone che però non durava molto perché dalla superficie inviavano una ventilazione continuativa. A quel punto cominciavamo a caricare i carrelli di tutto il materiale che poi veniva trasportato a mezzo di cavalli portati agli elevatori per avviarli all’esterno. Finito il turno ci incamminavamo verso l’ascensore e, risalendo, andavamo a fare il bagno. A coloro che lavoravano in miniera venivano dati ogni 10 giorni 50 grammi di sapone, per coloro che lavoravano in superficie la distribuzione diventava mensile. La sera quando rientravamo alle ore 23 ci veniva somministrato un romaiolo di zuppa composta di rape e cavolo fermentato, qualche raro pezzo di patata e miglio con relativo guscio. Il lager era composto da un capo campo di Collesalvetti e un interprete di Napoli. La sera verso le ore 17, inquadrati per 5, incominciavano i controlli e il conteggio: per contare 800 prigionieri impiegavano anche 3 ore e quando avevano espletato le loro lungaggini dovevamo rientrare subito nelle camerate perché gli aguzzini scioglievano due cani e se non eravamo svelti ad entrare ci mordevano, perché aizzati dagli stessi. Qui i mesi furono tremendi da passare perché nel lager i soldati non ci davano pace, ogni giorno ci sottoponevano a perquisizioni, e rovistavano dove si dormiva e quel poco che avevamo lo portavano via; avevamo un po’ di pace solo nella miniera, nonostante si dovesse lavorare molto, perché eravamo obbligati ad estrarre e riempire 20 carrelli di materiale carbonifero ogni turno di lavoro; era una vita impossibile, anche perché con il passare del tempo incominciavamo a riempirci di pidocchi e cimici, data l’impossibilità di disinfettarci e tenerci puliti. Nel mese di novembre la mano d’opera specializzata incominciò a mancare, in particolare gli aggiustatori. Una sera durante l’appello chiesero se fra noi c’erano dei meccanici aggiustatori. Ci presentammo in 8 e ci qualificarono come tali. Un sottufficiale ci prese 105
Ultime Voci i numeri di matricola e sempre l’interprete disse che la mattina seguente non saremmo scesi in miniera perché ci avrebbero assegnato ad altro lavoro di meccanici. La mattina seguente ci portarono in una grande officina dotata di tutti i macchinari e ognuno di noi fu sottoposto a una prova di attitudine che superammo. Divisi in quattro gruppi con un capo operaio ad un reparto chiamato Faladum, ci fecero presente che in quel vasto reparto eravamo liberi e che per ragioni di lavoro potevamo recarci in qualsiasi reparto, promettendo di non tentare nessuna fuga perché tutto sarebbe cambiato. Si venne a sapere che un prigioniero italiano che lavorava in fondo alla miniera, a circa 1.000 metri di profondità, era riuscito a fuggire e ad arrivare in superficie fino ad un convoglio carico di carbone ed attendere la partenza, arrivando poi allo scalo merci di Parigi, dove fu fermato da un gendarme della polizia di Petain al quale raccontò della fuga dalla miniera di Merlenbach e di essere stato prigioniero dei tedeschi, e lo pregò quindi di aiutarlo continuare la sua fuga. Il gendarme francese lo portò nella sua abitazione promettendogli di aiutarlo, lo rifocillò e gli disse di attenderlo perché in qualche modo avrebbe provveduto. Dopo circa 30 minuti di attesa si vide arrivare due tedeschi armati che lo presero ed in 48 ore lo ricondussero nuovamente in miniera dove fu contrassegnato con una vernice in modo da essere tenuto sotto controllo e la ritorsione seguente gli tolse la tentazione di ritentare la fuga. Noi meccanici continuavamo il nostro lavoro che i nostri capi ammiravano ed erano fiduciosi che non saremmo fuggiti: ci davano quindi sempre più libertà in tutto il bacino carbonifero. Il turno giornaliero consisteva nel collegare dei contenitori a catene in modo che, nel tempo in cui la miniera era ferma, potevamo sostituire quelli deteriorati. Durante i turni di notte il lavoro consisteva nell’accomodare le macchine che erano ferme; il capo operaio ci assegnava il lavoro, si trattava di cambiare le lamiere deteriorate su cui scorreva il carbone, il cambio dei cuscinetti ai motori oppure il cambio totale del motore. Il lavoro assegnatoci doveva essere portato a termine entro le ore 6 del mattino, momento in cui entrava il personale al lavoro. Io ero al reparto dove veniva scelto il carbone che veniva direttamente dal sottosuolo e questo lavoro era svolto soltanto dal personale femminile, il cui turno di lavoro si svolgeva dalle ore 6 alle ore 14 e dalle 14 alle ore 22. Era nelle ore notturne che facevamo i lavori di manutenzione generica. In quel periodo di tempo non mi potevo lamentare in quanto, sia la mattina che la sera, ci veniva dato nascostamente sempre qualcosa da mangiare dalle operaie. Durante ogni turno venivano 106
Volume terzo portate in superficie centinaia di tonnellate di materiale carbonifero mischiato con pietre, pezzi di legno ed altro, che veniva selezionato nel reparto a cui ero stato assegnato. I carrelli carichi di materiale giungevano in superficie, uscivano dall’ascensore, imboccavano i binari e scorrevano come se fosse una ferrovia normale e venivano scaricati nelle moltissime tramogge che terminavano nei trasportatori; qui la mano d’opera femminile lo sceglieva e andava a riempire i vagoni che sostavano al piano terra e infine convogliato allo scarico dove centinaia di tonnellate di carbone erano state ammassate in attesa di essere trasportate nei paesi richiedenti. A Natale del 1943 noi meccanici fummo costretti a lavorare: ricevemmo 500 grammi di pane di compenso e la mattina alle ore 5, scortati, ci portarono allo stabilimento. Quando si arrivò sul posto di lavoro trovammo gli ingegneri e il direttore della miniera in camice bianco che in tedesco dava gli ordini a tutto il personale. Si trattava di sostituire un grossissimo elevatore che trasportava carbone dal reparto dove veniva selezionato. Fu una giornata tremenda , ma verso le ore 16 finimmo il lavoro e ci riportarono al campo lager. Ci misero da una parte e vedemmo tutti i prigionieri che non avevano lavorato in fila per 5; si seppe poi che in tutto il giorno non avevano avuto un minuto di tranquillità, perché fra perquisizioni e controlli nelle camerate i soldati avevano disfatto tutti i letti a castello dove dormivamo e alla sera tutti in fila incominciarono il conteggio. Quando a loro piacimento ci ebbero contato, alla prima, alla prima fila fecero togliere la camicia, alla seconda la maglia, alla terza i pantaloni, alla quarta le scarpe e all’ultima li fecero restare nudi. Davanti al reticolato c’era un viale, che i civili transitavano notando quello che veniva fatto a noi prigionieri. Nel controllo trovarono un prigioniero poco pulito, lo presero, lo misero nudo su di un piano rialzato e un tedesco con acqua e spazzolone incominciò a frizionarlo, mentre le persone che passavano si facevano il segno della croce nel vedere il comportamento dei tedeschi. Finì il 1943 e si venne a sapere che Mussolini era stato liberato dai tedeschi e che a Salò aveva ricostituito la nuova repubblica sociale italiana, al lager inviarono diversi propagandisti a proporci l’adesione alla nuova Repubblica e di indossare nuovamente l’uniforme e tornare a combattere a fianco dei tedeschi, ma nessuno aderì: nonostante le belle promesse avevamo perso ogni fiducia pensando al trattamento inumano che subivamo. Nel mese di marzo qualcosa cambiò, gli aguzzini che ci facevano la guardia furono sostituiti con altri militari più umani nei nostri confronti, fu migliorato il vitto che diven107
Ultime Voci ne quasi commestibile, le perquisizioni cessarono in parte, nel lager eravamo lasciati più in pace, anche dal di fuori del reticolato le guardie permettevano ai civili di gettarci del tabacco e del pane. In complesso era diventata una prigionia sopportabile. Un giorno si venne a sapere che avevano attentato alla vita di Hitler, ma che tale tentativo era stato vano. Se tutto fosse andato come avevamo sperato, la guerra avrebbe avuto la sua fine, ma purtroppo avevamo ancora da soffrire. Dopo qualche tempo ci informarono che gli americani erano sbarcati in Normandia e che tutto il fronte tedesco era in ritirata. Dal lager dove eravamo vedevamo centinaia di aerei americani da bombardamento che andavano a bombardare le città tedesche: ci dicevano che Berlino era completamente distrutta. Poco distante da Merlenbach c’è una città chiamata Saarbrucken che anch’essa finì distrutta e centinaia furono i morti; sentivamo i bombardamenti sempre più vicini. Gli americani in poco tempo arrivarono ai confini del Belgio e si fermarono vicini a Metz. Dal lager di Merlenbach ci portarono via e formarono una colonna di circa 1.000 prigionieri; ricordo che nel mese di settembre ci misero in cammino per tutta la notte. Durante il tragitto, al chiaro di luna, vedemmo migliaia di prigionieri incolonnati che si dirigevano verso l’interno della Germania; quando venne l’alba era rimasta solamente la nostra colonna e ci fecero sostare in una zona siderurgica che si chiama Folcklingen. Lì incontrai un amico del mio paese, che da civile era stato mio collega di lavoro. Dopo due giorni di cammino arrivammo in un paese, Schweibricken, dove l’omonima caserma doveva essere stata molto grande dato che in essa alloggiammo tutti. Dopo 5 giorni senza mangiare fu composta una commissione per sapere dai tedeschi cosa avessero intenzione di fare di noi: non seppero dirci niente e al sesto giorno ci dettero 50 grammi di pane e 3 Kg. di carbone e così si tirò avanti. Il giorno seguente, mentre ero nel piazzale, un tedesco mi fece cenno di seguirlo; pensai subito al peggio, perché da loro non c’era niente da sperare, ma sinceramente mi sbagliai. Mi fece cenno di seguirlo e mi portò in un magazzino ricolmo di patate, mi fece capire di prenderne cinque, ringraziai tantissimo e mi fece uscire dal magazzino: in quel momento mi sentivo un gran signore perché possedere cinque patate significava vivere un giorno di più. Ripartimmo da Schweibricken e dopo diversi giorni di viaggio, sempre incolonnati e scortati da aguzzini, arrivammo in una località di cui ho sempre ignorato la denominazione. Ricordo che c’erano due grandi caserme separate l’una dall’altra e circondate da abbondanti reticolati. Nel piazzale ci divisero in due colonne, una per caserma. Da questo 108
Volume terzo posto incominciò la via crucis della colonna che fu battezzata “la colonna della morte”. La mattina, tutti incolonnati, ci portarono davanti ad un cumulo di pale e picconi ed ognuno di noi dovette prendere un attrezzo. A comandare questa colonna c’era un ufficiale della Wermacht, dall’apparenza abbastanza umana che era paragonato ad un padre, ma dopo il primo giorno ci accorgemmo che la sua brutalità non aveva limiti, ai suoi aguzzini era permesso di tutto: dal picchiarci a colpirci con il calcio del fucile che spesso rompevano sulle nostre spalle. Una sera mentre rientravamo a scavare i fossati per i camminamenti, in fila per cinque, in una strada fiancheggiata da una infinità di piante di melo, un nostro compagno disperato dalla fame ebbe il coraggio di uscire dalla file per prendere una mela, ma non fece in tempo, perché un tedesco imbracciò un moschetto e lo colpì in pieno, il poveretto morì all’istante. La mattina seguente il corpo nudo disteso su di una tavola fu portato in mezzo al piazzale e in fila per uno ce lo fecero vedere. Questo ufficiale, prima di ritornare al lavoro, ci fece presente che nessun italiano sarebbe rientrato in Italia, e quasi arrivò a realizzare il suo proposito, perché qualche compagno morì dalle percosse, poi il suo metodo si basò nel farci stare denutriti lavorando senza sosta e picchiandoci a volontà così ci portò ad un deperimento fisico e morale tale che perfino noi amici non ci si riconosceva più. Dopo diversi giorni ci trasferirono alla città di Sarghemund, alla periferia, ci fecero accampare in un piazzale per tutta la notte. Verso mezzanotte incominciò a piovere. La mattina eravamo tutti bagnati e dopo che ci ebbero incolonnati con pale e picconi ci fecero incamminare su di una collina a fare i camminamenti. Alla sera quando rientrammo ci fecero alloggiare in un capannone dove ci dettero un po’ di zuppa confezionata con miglio in chicchi senza essere spogliato e cavolo fermentato. In quel capannone eravamo così stretti da non potersi muovere e eravamo nella impossibilità di uscire per andare a fare i nostri bisogni fisiologici. La mattina verso le ore 5 a suon di fischio veniva fatta la sveglia, entravano i tedeschi in penombra con un bastone facendolo roteare e erano guai; allora di corsa andavamo verso la porta e all’uscita tre tedeschi ci versavano un po’ d’acqua macchiata l’altro un pezzetto di pane, il terzo aguzzino, davanti al quale eravamo obbligati a passare con uno spintone ci faceva cadere il pane o il the e non davano la possibilità di raccoglierlo. Una mattina ci portarono in una zona pianeggiante e ci fecero fare delle buche larghe 4 metri e profonde 3, poi riunendole davano origine a dei grandi fossati anticarro in modo da im109
Ultime Voci pedire l’avanzata americana: questa era la mentalità tedesca. Il lavoro, le bastonate, il pochissimo cibo e la dissenteria ci sterminavano; quando eravamo incolonnati e avevamo la necessità di fare qualsiasi bisogno dovevamo fare come le bestie da soma perché non era permesso soffermarsi e uscire di fila perché rischiavamo di essere presi a fucilate. Una mattina ci portarono su una collina in cima alla quale ci ordinarono di fare dei fossati perché dovevano servire da camminamenti. Fra i militari della Wermacht erano aggregati quelli della Todt composti da giovinastri e signorine in completa divisa, che avranno avuto fra i 15 e i 16 anni e che erano soltanto dei giovani criminali perché una mattina, mentre facevamo i camminamenti, presero ad insultare un nostro compagno senza alcun motivo, incominciarono ad inveire e a picchiarlo fino a ridurlo in fin di vita, poi lo portarono via non si sa dove e non lo rivedemmo mai più. Fra i militari che ci facevano la guardia c’era uno che era stato ferito a Cassino; quella ferita lo aveva reso mutilato ad un braccio e lascio quindi immaginare l’odio che aveva verso di noi italiani. Lo avevano battezzato “La gelida manina”. I giorni passavano e il nostro fisico era quasi allo stremo, perché oltre alla denutrizione, i pidocchi non ci davano pace, mentre sempre incolonnati per 5 andavamo a fare fossi anticarro e camminamenti. Una mattina verso le ore 6, prima di metterci in cammino, ci dettero 500 grammi di pane ogni 5 persone; il primo della fila lo doveva dividere e toccò al sottoscritto. Per dividere il pane dovetti consegnare momentaneamente la gavetta al compagno di fila, ma fatta la divisione del pane mi accorsi che il compagno a cui avevo lasciato in consegna la mia gavetta era sparito, così restai privo di qualsiasi recipiente per metterci quella poca zuppa che ci davano la sera. Nelle condizioni in cui mi trovavo la gavetta e il cucchiaio erano indispensabili perché significavano la salvezza di un prigioniero. Ero disperato perché dovevo rimanere senza mangiare, mi era rimasto il coltello che avevo costruito a Merlenbach e un cucchiaio. Quella sera saltai la zuppa, quando un compagno, vedendomi disperato mi chiese che cosa era successo. Gli spiegai il motivo della mia disperazione, ed egli mi chiese se avessi avuto qualcosa da offrirgli in cambio di una gavetta; io gli risposi che avevo una saponetta e uno spazzolino da denti e questi se ne andò senza dire una parola. Poco dopo lo rividi comparire con una gavetta da alpini, con relativo coperchio, che mi dette in cambio di quello che gli avevo promesso. Non so descrivere la gioia che provai avendo nuovamente una gavetta in cui poter mangiare. Non ho mai saputo il suo nome, so solo che era di Napoli e che non lo rividi mai più. 110
Volume terzo Eravamo nel mese di luglio e sapevamo che le truppe americane avanzavano su tutti i fronti e che le truppe tedesche in Russia erano in ritirata mentre interi battaglioni nazisti erano rimasti rinchiusi nelle sacche e che i russi avevano fatto migliaia di soldati prigionieri. Noi sentivamo in lontananza colpi di cannone e vedevamo volare ad alta quota centinaia di aerei americani che andavano a bombardare le città tedesche. Tutti questi aerei che vedevamo passare ci davano la speranza che presto sarebbe finita la guerra, ma purtroppo per noi c’era ancora tanto tempo da attendere e come sempre tutti i giorni gli aguzzini ci conducevano a fare camminamenti e fossi anticarro. La loro crudeltà non aveva limiti tanto che questa colonna maledetta si assottigliava sempre di più. Un giorno, mentre facevamo i fossi anticarro in una vallata di Sarghemund1 (?) vedemmo comparire i caccia americani che ci sorvolavano a bassa quota, forse intuendo che eravamo prigionieri e dopo averci sorvolato se ne andarono. Vicino al luogo dove lavoravamo c’era una strada transitata in quel momento da un carro trainato da quattro grossi cavalli, un apparecchio si gettò in picchiata e con una raffica di mitragliatrice uccise i quattro cavalli compreso il conducente. Eravamo giunti agli ultimi giorni del mese di luglio quando dovetti chiedere di essere sottoposto a visita medica; la mia richiesta fu accolta e dopo la visita medica fui ricoverato nell’ospedale destinato soltanto ai prigionieri. Restai ricoverato per circa un mese, poi fui dimesso assieme ad altri prigionieri. Ci portarono alla stazione ferroviaria, ci fecero salire su un treno e dopo poco ci fecero scendere per cambiare convoglio. Ricordo che sulla pensilina c’erano in sosta dei carrelli carichi di svariati pacchi e qualcuno di noi, approfittando della distrazione delle guardie, ne fece sparire tre; in uno c’erano biscotti, salame e altra roba da mangiare, in un altro c’erano delle carote e l’ultimo era pieno di carte topografiche che in un batter d’occhio sparirono. Si arrivò alla fine del viaggio in un paesetto di cui non ho mai saputo il nome. Ci fecero entrare in un grande edificio, eravamo solo pochi italiani, per terra erano sistemati dei trucioli di legno sui quali avremmo dovuto dormire, ma si vedeva che prima di noi altri prigionieri avevano soggiornato lì. Dopo qualche giorno incominciarono ad arrivare prigionieri e deportati russi e polacchi, in poco tempo questo grande edificio si riempì, mentre i pidocchi facevano la loro parte e del mangiare non se ne parlava, però si capiva che quanto prima avrebbero rico1 Probabilmente si tratta della città francese di Sarreguemines, vicina alla frontiera tedesca: il nome tedesco della città è infatti Saargemünd.
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Ultime Voci stituito un’altra colonna per riportarci a lavorare chissà dove. Fra di noi c’era un dottore francese anch’egli prigioniero, gli chiesi di essere sottoposto a visita medica, e dato le mie precarie condizioni di salute fui ricoverato assieme ad altri compagni. La mattina ci scortarono alla stazione, prendemmo il treno e la notte del giorno dopo arrivammo in un paese chiamato Lambeshein2, in cui si trovava un lazzaretto formato da tutti gli italiani reduci da quella famosa colonna, perfino il dottore era italiano. Arrivammo la mattina , dopo aver viaggiato tutta la notte, attendemmo il medico che quando arrivò ci fece spogliare, poi ci visitò e si rese subito conto delle precarie condizioni di salute in cui versavamo. Ci assegnò il posto per dormire praticamente distesi per terra, io avevo una coperta e un cappotto malandato, e fra i mesi di settembre e di novembre faceva già freddo, perciò dormivamo spalla a spalla per riscaldarci. Il medico ordinò ai due infermieri che erano di servizio di sorvegliarmi continuamente, dato le pessime condizioni di salute: ero scheletrito al punto da non avere la forza di alzarmi in piedi per qualsiasi bisogno. In quanto al cibo anche nel lazzaretto c’era ben poco, ci davano una zuppa e 50 grammi di pane con un po’ di margarina; le medicine che ci venivano elargite erano semplicemente bismuto e carbone per la dissenteria, altro non c’era. I pidocchi facevano il loro lavoro e prima di dormire ci facevamo un po’ di pulizia come potevamo. Ogni settimana purtroppo veniva a mancare sempre qualcuno; sapemmo che prima di dar loro sepoltura i tedeschi aspettavano che ci fossero almeno tre cadaveri che venivano portati in soffitta, fino a che non raggiungevano il numero, venivano portati al cimitero dove in un’unica fossa erano inserite le bare, una sopra l’altra. Fra quei defunti riposa un mio amico di Sesto Fiorentino; quando morì sarà pesato 25 Kg., era divenuto uno scheletro. Prima di morire mi fece vedere delle monete d’argento, chiedendomi di consegnarla alla sua famiglia nel caso in cui fosse morto; purtroppo alla sua morte non feci in tempo a recuperarle perché qualcuno arrivò prima di me, dato che io mi trovavo a piano terra e il defunto si trovava al piano superiore. In questo lazzaretto c’era un abate francese, anch’egli prigioniero, proveniente da Marsiglia e di nobili origini che si dimostrò di essere un religioso esemplare. Quando riceveva la sua abbondante razione di pane, margarina e altro domandava a noi quanta razione ci avevano dato, poi divideva la sua razione e la distribuiva ai malati più gravi, almeno 2 Lambsheim nello stato federato della Renania - Palatinato, vicino alla località di Kaiserlauten ricordata successivamente.
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Volume terzo fra quelli che erano in grado di mangiare. Parlava molte lingue, mi chiamava toscanino e conosceva la Toscana, in particolare Firenze, ci assisteva moralmente e cristianamente. Quando suonava l’allarme andavamo a cercarlo e lo trovavamo all’ultimo piano in ginocchio a pregare. Con l’avvicinarsi del fronte portarono via i ricoverati che stavano un po’ meglio, ma non si sa dove andarono a finire, il resto di noi fu abbandonato al proprio destino perché le nostre condizioni non ci permettevano nemmeno di camminare. Ci lasciarono qualche militare a farci la guardia cui chiedevamo di porre il segnale della croce rossa sul tetto per segnalare la presenza di un lazzaretto, affliggendo anche il segno con la dicitura P.O.W. (prigionieri di guerra). Per tre giorni e due notti in continuazione il contingente corazzato tedesco fu in ritirata e nel frattempo non si videro più militari che avevano ricevuto l’ordine di sorvegliarci. Il giorno 21 Marzo del 1945 alle ore 12 vedemmo arrivare la prima camionetta americana, non è possibile descrivere la gioia che provammo, fummo finalmente liberati. Dopo poco tempo incominciarono ad arrivare alcuni camion che si fermarono dove eravamo, vedendoci in quelle condizioni gli americani ci dettero dei viveri in scatola, poi iniziarono a rifornirci i scatolame, pane e tanti altri generi alimentari. Da allora la fame scomparì e piano piano ci tornarono le forze, purtroppo però diversi nostri compagni non ce la fecero perché nelle condizioni in cui si trovavano non avevano le forze di mangiare nemmeno quel minimo indispensabile che era loro necessario per tirare avanti. Assieme a me c’era un carabiniere, che con la forza di volontà cercò in tutti i modi di sopravvivere, infatti riuscì a rimpatriare, ma a distanza di qualche mese dal suo ritorno ricevetti una lettera dai suoi genitori, i quali mi informarono che il loro figlio era deceduto. Mentre attendevamo il rimpatrio, l’abate, che era sempre assieme a noi, la domenica celebrava la Santa Messa e la chiesa si affollava di persone riunite per la funzione poiché il rito veniva celebrato in tutte le lingue. Poi venne il giorno in cui ci separammo. Giunse un camion americano che ci condusse in un campo di raduno, era costituito da un’infinità di caserme e c’era un grandissimo piazzale capace di ospitare 14.000 persone. Eravamo nella città di Kaiserlautern. Giornalmente arrivavano dei camion carichi di italiani che venivano prelevati ovunque. In questo campo c’erano degli ex prigionieri che per farsi benvolere dalle guardie tedesche e per avere qualche agevolazione, (?) senza pensare che un giorno forse avrebbero 113
Ultime Voci dovuto renderne conto e così fu, perché alla sera quando arrivavano i camion di italiani che venivano fatti scendere, ad attenderli c’erano sempre alcuni che avevano subito delle ingiustizie e, per gli italiani che venivano riconosciuti quella era la fine, perché arrivati in mezzo al campo venivano immediatamente linciati. Ho visto almeno quattro linciaggi ed era una cosa orrenda, perché quegli italiani venivano ridotti in un ammasso di carne tanto da diventare irriconoscibili. Quando io scesi dal camion, come se ci fossimo dati appuntamento, incontrai il mio collega dal quale mi ero separato a Forbach, dopo esserci scambiati la promessa di ritrovarci a fine guerra. Dopo venti giorni venne il mio turno per il rimpatrio e dopo un lungo viaggio arrivammo a Bolzano e già sentimmo l’aria della nostra terra. Da qui, a bordo di un camion, ci portarono a Modena, dove sostammo all’accademia. Il giorno dopo raggiungemmo Bologna, e un amico ed io facemmo in tempo a prendere una tradotta che ci permise di raggiungere Firenze a sera già inoltrata. Eravamo stanchi del lungo viaggio e non sapevamo dove andare a dormire; giunti in piazza d’Azeglio, vedemmo due panchine libere sulle quali distendemmo una coperta e la mattina seguente fummo risvegliati dal canto di un uccelletto. Fu un risveglio sereno, come se tutte quelle traversie non fossero mai esistite, ma quell’orrore non riusciremo mai a dimenticarlo. Questo amico era di Empoli ed andò a prendere il treno; io andai in piazza della Scala dove partiva un autobus per Siena, spiegai la mia situazione al conducente e da dove provenivo; egli mi fece salire, ma arrivati a metà percorso lo stesso autista mi chiese il biglietto e, purtroppo io ero sprovvisto di soldi, e questi mi invitò a scendere alla fermata successiva, rifiutandosi di ascoltare le mie ragioni. Accanto a me sedeva una suora che si alzò e chiese agli altri viaggiatori un’ offerta per poter pagare il mio biglietto. Provai una sensazione di umiliazione mista a vergogna e rabbia, perché non era giusto dopo quello che avevo passato dover chiedere l’elemosina. Fu pagato il biglietto, mi avanzò qualche soldo e quando arrivai a destinazione andai in chiesa e con i soldi avanzati accesi una candela alla Madonna. Arrivato a Poggibonsi feci in modo di avvertire i miei genitori e a piedi mi incamminai verso Colle Val d’Elsa. A metà strada incontrai finalmente mio padre e infine potei riabbracciare mia madre. Non credo che ci sia una cosa più bella di poter riabbracciare i genitori dopo due lunghi anni di prigionia, visto come i tedeschi trattavano i prigionieri italiani. Dal comando della Guardia di Finanza mi furono concessi e al termine mi presentai al 114
Volume terzo Comando di Legione di Firenze. Eravamo circa 10 reduci ed il colonnello comandante: ad ognuno di noi fu chiesto da dove venivamo; quando questa domanda fu rivolta a me gli risposi che ero stato in campo di concentramento in Germania, prigioniero dei tedeschi, in un bacino carbonifero di Merlenbach, in Alsazia e Lorena. Mi chiese il colonnello dove avrei preferito riprendere servizio, risposi che avrei preferito un reparto vicino a casa perché avevo i genitori anziani ed ero figlio unico, perciò chiesi di andare al reparto volante di Volterra, ma egli mi propose un trasferimento a Portoferraio (Isola d’Elba), che io rifiutai. Da quel momento non mi fu difficile immaginare le ide politiche del mio superiore, dato che fui trattato come se fossi rientrato da una villeggiatura. Non mi sarei meravigliato se mi avesse proposto di andare trasferito a Portolongone (Livorno), ma lì non esistevano reparti della Guardia di Finanza. Mi domando se sarà mai possibile rintracciare quei criminali che decimarono la cosiddetta “Colonna della morte”, così come è stato possibile rintracciare quegli aguzzini che operarono nei campi di sterminio. Purtroppo sono cosciente dell’impossibilità di vedere realizzato questo mio desiderio. Dell’intera colonna di prigionieri ben pochi ne sono rimasti ancora in vita. Io vorrei conoscere il nome dell’ufficiale che la comandava e quello di tutti i militari incaricati di sorvegliarci, perché essi hanno veramente agito da criminali di guerra. Questa colonna di prigionieri fu osservata attraverso il recinto da tanti abitanti di Sarchemund, ma nessuno di essi ha mai avuto il coraggio di denunciare il feroce comportamento dei suddetti aguzzini. Ancora oggi inorridisco al solo ricordo degli eventi, la collera mi assale ogni volta che ripenso alle umiliazioni subite da me e dai miei compagni di prigionia e non solo non avrò mai il piacere di vedere trionfare la giustizia, ma non potrò neppure sapere che fine abbiano fatto i miei carcerieri.
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Ultime Voci William Pancaldi
William Pancaldi è nato a Bologna il 6 luglio 1924, dove ancora risiede.
William Pancaldi ha raccontato la sua testimonianza al concorso Prato un tessuto di Cultura tenutosi il 9 maggio 2009, ricevendo il Premio speciale; dietro richiesta del membro della giuria Silvana Santi Montini, Pancaldi ha gentilmente concesso la trascrizione della testimonianza, di cui lo ringraziamo. 1942: Processo per diserzione. Eravamo in tempo di guerra. Per molti era crudele di sofferenze. Per molti altri era atroce di ferite e di morte. A noi giovani e giovanissimi, s’apprestava un buio futuro. Ma ancora non lo sapevamo. Ogni sabato dovevamo andare all’”adunata” in un parco per marciare avanti e indietro un paio d’ore. Inutilità di esercizi che costavano noia e intemperie. L’organizzazione era così improvvisata che accadevano episodi di ogni specie. Capitava di veder arrivare un ragazzetto accompagnato dalla mamma che reggeva l’ombrello per riparare il figlio dalla pioggia. A lei, che voleva riportarselo a casa perché aveva avuta la bronchite, l’ufficialetto della G.I.L. opponeva, disperato per la poca marzialità della situazione, che in assenza del “comandante” non poteva concedere la licenza. Quando finalmente il colonnello della milizia arrivava, noi eravamo ben inzuppati di pioggia. Siccome gli impianti al coperto erano indisponibili, ci mandava tutti a casa ad asciugarci. Altre volte, a causa della contraddittorietà degli ordini, capitava che una metà della 116
Volume terzo compagnia andasse ad adunarsi in una palestra e l’altra metà in un parco dalla parte opposta. Allora, correndo da un posto all’altro, riempivamo tutto il tempo dell’esercitazione. Alla fine non avevamo concluso alcunché. In quell’anno 1942, l’ultimo mese di scuola si trascinava lentamente. Noi studenti cercavamo d’infittire la preparazione per lo scrutinio finale. Ma era anche tempo di competizioni sportive. Quindi gli incontri fra le squadre delle diverse scuole si susseguivano quasi ininterrotti. Un venerdì accadde che il professore di ginnastica chiamasse tutti noi della squadra d’atletica e comunicasse l’ordine superiore di gareggiare, il giorno dopo, nel “percorso di guerra”, alla caserma dei bersaglieri. Gli facemmo notare che noi, al sabato, dovevamo andare all’adunata. Rispose che avrebbe pensato lui a tutto. Andammo perciò a fare il percorso di guerra senza sapere tuttavia di che cosa si trattasse. Il cortile della caserma era in terra battuta, pressata dagli scarponi chiodati dei soldati. Noi, in scarpette di tela e gomma, fummo allineati davanti a una serie di ostacoli che occupavano uno spazio di circa duecento metri. Dovevamo iniziare la gara correndo su uno stretto asse inclinato dalla cui sommità ci si doveva lasciare cadere a terra. Seguiva una fila di tubi di cemento nei quali dovevamo avanzare carponi o strisciare per poi superare, presa la rincorsa, un muro di mattoni alto un paio di metri. Al di là v’erano file di pali verticali e orizzontali, un profondo fossato e, alla fine, una serie di staccionate. Vestiti “da ginnastica”, con i calzoncini di tela e la maglietta di cotone ci saremmo scorticati ben bene. La realtà fu peggiore delle previsioni. Chi cadeva dall’asse perché le suole di gomma liscia non avevano presa sul legno viscido per l’umidità. Chi si spiaccicava la faccia contro il muro, ignaro della tecnica idonea allo scavalcamento. Chi infine, cadendo oltre la staccionata, precipitava con delle sottili suole su pietre aguzze. Per tutta la domenica e la settimana successiva ci leccammo le ammaccature e cercammo di dimenticare la triste impresa. Passarono così una quindicina di giorni. Un sabato, mentre ero all’adunata, venni convocato al comando dove fui condotto sotto la scorta di due “giovani fascisti” armati di moschetto. Dicevano di non conoscere il motivo della convocazione e mi introdussero nell’anticamera del colonnello ove l’attesa fu piuttosto lunga. La mia apprensione però arrivò al colmo quando dalla sala, giunse un richiamo: “Introducete il prigioniero!”. Tra uno sbatacchiar di tacchi ed uno svolazzar di braccia levate nel “saluto romano”, fui condotto al cospetto del comandante. In tal modo incominciò la tragicommedia. “Sei 117
Ultime Voci il disonore del reparto!-tuonò il personaggio- ma non la passerai liscia! Voglio dare un esempio a tutti! Ti deferirò alla corte marziale”! E continuò per un bel pezzo ad arringare la platea che annuiva con cenni del capo. Io, sull’attenti, sogguardavo intorno a me per vedere se quello diceva proprio a me. Finalmente non potendone più, e benché inorridito dalla mia audacia, sbottai: “Ma di che cavolo mi accusate, signor colonnello?”. Sbiancato in volto per l’ira, ma padroneggiando l’atteggiamento con stiracchiamenti della giacca dell’uniforme, il colonnello afferrò il foglio e lesse: “Il giorno tal dei tali, il premilitare Da Vitale, presente all’adunata, rispondeva all’appello delle ore 15, ma non a quello delle 18, come risulta dal ruolino della IV squadra, III compagnia, ecc, ecc”. Di colpo mi rammentai di quell’infausto sabato del percorso di guerra. Delle cicatrici ai ginocchi e delle piaghe ai piedi. Nel silenzio della sala, come in un sogno, mormorai: “Ma se io non c’ero neppure all’adunata quel giorno! Come posso aver risposto all’appello?”. Il colonnello, rimasto di sasso, dopo un po’ di raschiamenti alla gola riuscì a dire: “Come, come”? Allora raccontai tutto. Così saltò fuori la lettera del professore di ginnastica e il caposquadra, tutto impappinato, dopo molte ricerche, dovette ammettere che la “P” della presenza messa vicina a “Da Vitale” per errore, doveva essere messa vicino a “Sarti” che però s’era già buscato un rabbuffo. Un pasticcio ben organizzato! Mi mandarono in un canto della sala e gli ufficiali confabularono a lungo. Ogni tanto il colonnello, rosso in viso, sparava un pugno sul tavolo. Dopo che fra di loro ebbero detto varie volte: “Va bene, va bene!” mi annunciarono burbanzosi: “Per ora rientra pure nei ranghi. Poi … ti faremo sapere!”. Qualche volta, dopo la guerra, ho incontrato il colonnello della milizia. Un poco sbilenco, il passo strascicato e l’occhio stanco del vecchio intristito dalla sua inutilità. Una figura del tutto patetica. Così non mi sono mai azzardato a dirgli: “Allora colonnello, mi fate sapere o no?”.
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Volume terzo Giordano Pini
Giordano Pini è nato a Cantagallo, Prato, nel 1923. Nel 1943partì per svolgere l’addestramento IN COSA? a VillaFranca, presso Verona. Al momento dell’armistizio si unì alla formazione partigiana “Orlando Storai”. Fu catturato e mandato in Germania, da dove tornò presto perché accettò di combattere per la Repubblica di Salò, con l’intenzione di fuggire e di tornare a combattere con i partigiani. Fu catturato dagli Americani che lo presero per un fascista disertore e lo imprigionarono in un campo ad Aversa. Sono partito nel 1943 con destinazione Verona, più precisamente Villafranca, dove ho svolto i tre mesi di addestramento. Terminato questo periodo sono stato trasferito in Lunigiana dove ho passato tutto il periodo della guerra fino all’armistizio dell’8 settembre 1943. Al momento dell’armistizio noi rimanemmo in caserma per alcuni giorni, poi il 12 o il 13 di settembre arrivarono dei Tedeschi, pochi, che ci fecero prigionieri, ma continuammo a rimanere lì in caserma. Io, con alcuni compagni, riuscii subito a fuggire e presi un treno per Pisa e da lì, sempre in treno, tornai a casa. Qui mi dovetti dare alla macchia per sfuggire al Bando Graziani. Presi contatto con i primi nuclei della Resistenza della Val di Bisenzio. Dall’inizio del 1944 andai con la formazione partigiana “Orlando Storai”, che si era formata ai Faggi di Javello. Ricevemmo ordine di portarci verso il monte Falterona per ricongiungersi ad altre formazioni che agivano in quella zona. Scendemmo a valle e dopo aver attraversato il Bisenzio risalimmo la Calvana, da lì ci spostammo sul monte Morello per poi raggiungere sempre movendoci sui monti il Falterona. Qui, non appena arrivati, fummo coinvolti in una grande battaglia contro i nazifascismi dalla quale riuscimmo a fatica a sganciarci e rientrammo in Val di Bisenzio facendo tutta la strada a ritroso. Io mi nascosi vicino casa, ma, forse per una spiata, dopo poco venni catturato dai 119
Ultime Voci fascisti che mi mandarono a Firenze dal tristemente famoso Carità, a Villa Triste. Dopo essere stato torturato, ma non parlai, fui mandato alle Murate dove restai 20 giorni. Dalle Murate fui direttamente deportato in Germania. Ma ci rimasi poco, perché dichiarai la mia volontà di combattere per la Repubblica Sociale e fui quasi subito rimandato in Italia. Lo feci perché volevo tornare al più presto in Italia e tornare a casa e quella mi sembrava una buona occasione. La mia intenzione era di fuggire appena possibile. Ma nel frattempo il fronte si era spostato sulla Linea Gotica e io fui destinato a Fornivo, in Val di Taro. Riuscii a scappare dalla caserma nel dicembre 1944 e andai verso il fronte, con l’intenzione di attraversarlo. Quindi verso Bercelo, sempre sull’Appennino di Parma e da lì al Monte Forato, dove entrai in contatto con una formazione partigiana che mi aiutò a passare le linee. Passai le linee da solo e fui catturato dagli Americani. Essi non credevano che fossi un antifascista, ma pensavano che fossi un disertore fascista. Per questo motivo venni trasportato ad Aversa, vicino Napoli, dove c’era un campo di concentramento per repubblichini. Qui rimasi prigioniero per 5 mesi. Venni liberato solo perché, appena nella nostra zona si seppe della mia situazione, ci fu un gran darsi da fare dei miei compagni partigiani ed in particolare di Carlo Ferri, presso i comandi alleati per arrivare al mio rilascio.
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Volume terzo
Articolo de Il Proletario, bollettino del PCI – zona di Prato, n. 15, 15 settembre 1945 121
Ultime Voci
Dichiarazione del C.L.N. che attesta la partecipazione di Giordano Pini alla Resistenza 122
Volume terzo
Attestato dell’ANPI
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Ultime Voci Mario Pini
Mario Pini è nato ad Usella di Cantagallo, Prato, il 17 settembre 1920. Nel 1940 fu arruolato nel 15° Reggimento Artiglieria da Campagna come autista. Durante la guerra opera prima nell’Alta Savoia, quindi viene inviato sul fronte russo dove è ferito ad una gamba. A causa della ferita rientrò in Italia per essere ricoverato in un ospedale militare, dove l’8 settembre venne a sapere dell’armistizio. In seguito ha lavorato come giardiniere alla Villa Guicciardini di Usella.
Mario Pini è nato il 17 settembre 1920 a Usella di Cantagallo provincia di Firenze. Ventenne nel 1940, viene chiamato alle armi, affidato al 15° Reggimento Artiglieria da Campagna con qualifica di autista: destinazione Pietra Ligure. Con l’entrata dell’Italia in guerra, alleata della Germania, viene mandato sui confini con la Francia nell’Alta Savoia dove rimane per due mesi. Da lì viene trasferito e accampato per circa tre mesi nel veronese. “Poi, dice Mario, mi spediscono sul fronte russo dove rimango per più di dieci mesi. Qui, nel mese di giugno del 1943 vengo ferito ad una gamba”. Succede una notte, quando lui con altri commilitoni approfittando del buio, andavano con i camion a fare rifornimento d’acqua al fiume Don. Quella notte i nemici Russi se ne accorsero e aprirono il fuoco. Nella sparatoria Mario rimase ferito. Furono momenti terribili, ma la fortuna fu dalla sua parte. Infatti fu prontamente soccorso, messo sul camion e allontanato dalla zona, viene curato in un ospedale da campo. Ma visto che l’andamento della ferita non si risolveva, tramite la Croce Rossa, Mario fu messo su un treno e inviato in Italia, a Milano. L’otto settembre 1943, Mario si trovava in convalescenza, e sempre sotto il comando militare era accampato nei pressi di Mestre. L’armistizio di Badoglio, 8 124
Volume terzo settembre 1943, determinò lo sbando completo dell’esercito italiano, non esisteva più un vero comando, per cui anche Mario Pini, cercò scampo e si adoperò per tornare a casa. Ma ce ne volle e solo dopo varie peripezie, poté fare ritorno a San Giusto. Era la primavera del 1944
Pini Mario di San Giusto militare a Pietra Ligure con i compagni (primo a sinistra in piedi) nel 1942
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Ultime Voci Le pagine che seguono sono dedicate a fotografie di alcuni teatri di guerra dove combatterono i soldati italiani.
CEFALONIA: Febbraio 1951 - Passo Kolumi. I miseri resti dissepolti de gloriosi soldati della “Acqui� fucilati dai tedeschi.
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Volume terzo
Autieri Pratesi del 127.mo autoreparto in Russia. Fila superiore da sinistra: Gori, Mengoni, Rolli, Innocenti, Faccendi, Lenzi. Fila inferiore da sinistra: Accallai, Rindi, Pacini, Allori, Tei, Ranfagni, Martini, Bettarini. Con la morte di Tei Sergio, avvenuta il 16/06/2000, sono tutti scomparsi.
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Ultime Voci
Quota 33 con lapide ricordo: L’ultimo anelito del 52° gruppo cannoni da 152/37 raccolse questa altura - 10.7.1942. Quiuna voce si leva possente ed ammonisce a mai disperare i destini d’Italia. Nella foto il Gen. Dante Pigliapoco Presidente Nazionale Autieri e il Cav. Uff. Sergio Paolieri Presidente della Sez. di Prato, in delegazione italiana del 1996 per le onoranze funebri ai caduti di El Alamein.
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