BUBBLE'S ITALIA MAGAZINE N°8

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Estratto dall’Asino, 1903 Oreste Azzeccagarbugli

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Il fotografo Giacomo Artale

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Tenuta Angoris Stefano Cosma

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Giordano Bruno Guerri Marco Ongaro Italian Good Living: Orvieto Paola Cerana

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Luca D’Attoma, l’enologo Claudio Mollo Acciughe o stelle cadute dal cielo Andrea Zanfi

Antonella Clerici Giordana Talamona

Villa Canestrari Marco Ongaro

Beppe Convertini Simona Cangelosi Cantina Costaripa Chiara D’Ippolito

Il Silene di Roberto Rossi Massimo Viti

Wine Research Team Sissi Baratella

Brandimarte Emanuele Pellucci

Cantine del Gavi Giampietro Comolli

Remo Buti Paolo Rizzoli

Pisa Tower Plaza Hotel di Allegroitalia Hotel & Condo

Mondodelvino S.p.A. Piergiuseppe Bernardi

Sella & Mosca Riccardo Margheri

Azienda Agricola Giacomelli Claudio Mollo

Corte Bianca Clementina Palese L’uomo che colleziona castelli Monica Di Pillo

Davide Paolini il Gastronauta

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Il commercio mondiale… dopo Trump Giulio Somma Diana Bracco Lamberto Gancia

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Blues and Wine Soul Festival

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Kettmeir Chiara D’Ippolito

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Sommelier Paola Cerana

Ristorante Al Bersagliere Marco Ongaro

Un incontro casuale con Capezzana Giovanna Moldenhauer Di fronte all’alba del vino Marcello Masi

Hotel Ristorante Valli di Lanzo Piergiuseppe Bernardi

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Sigfrido Ranucci Simona Cangelosi

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Matìas Duarte Bernardo Cigliano

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Centopassi - Libera Terra Chiara D’Ippolito Azienda Agricola Uccelliera Andrea Zanfi

Il vino al tempo del 4.0 Vitaliano Fiorillo

Viniassaggi Il nuovo ritmo di Parma Giampietro Comolli La Ribolla Attilio Scienza

Vino e neuroscienze Vincenzo Russo

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La bellezza... delle parole

indice

editoriale

Giampietro Comolli

Dal 23 al 26 gennaio 2020 saremo a Pescara per la seconda edizione Spumantitalia. Un 2020 che si preannuncia non solo scaramantico, idealmente ricco e intrigante, ma che vede anche il vino italiano, insieme all’olio extra vergine d’oliva – mi piace tanto chiamarlo “olioevo” –, fuori dalla blacklist di Trump. Salvi anche il pecorino sardo, visto che in Usa non esiste un “pecorsan” clonato, il Parma, il San Daniele e la coppa Piacenza. Meno male! Colpiti invece, purtroppo, il grana padano, il parmigiano reggiano, il limoncello, la mortadella. La questione dazi non deve tuttavia essere vista soltanto come un danno economico, ma va trasformata in un’opportunità per un governo Ue, chiamato a impegnarsi più a fondo nel riconoscimento delle dop e delle igp. L’anno prossimo Parma, con Piacenza e Reggio Emilia, sarà capitale della cultura italiana. Ne scriviamo perché l’Emilia occidentale lega, da sempre, la cultura e l’arte con l’enogastronomia, il paesaggio, l’ambiente, la sostenibilità. La nostra attenzione va anche a un agguerrito poker di ristoranti, che ci sembrano rappresentativi di quella qualità che per noi rappresenta la vera stella polare e che, al di là dei suggestivi piatti proposti, ci sono parsi particolarmente in linea con la nostra filosofia. Bubble’s #8 svela anche alcuni segreti di personaggi di punta del mondo enogastronomico e non: Antonella Clerici, Beppe Convertini, Davide Paolini e il saggista e spregiudicato presidente del Vittoriale, Giordano Bruno Guerri. E poi l’incontro con Luca D’Attoma, ex giovane enotecnico conosciuto quando ero direttore in Franciacorta e oggi affermato winemaker toscano, oltreché consulente dalla Sicilia alla Spagna. La città su cui in questo numero abbiamo voluto soffermarci è Orvieto, dove la vivibilità non solo è a misura d’uomo, ma si radica anche in una gastronomia strettamente connessa al suo vino bianco per eccellenza. E poi, dopo le acciughe di Andrea Zanfi raccontate con la magia dei pescatori siciliani che, per il loro luccichio, immaginavano fossero stelle cadute in mare, ecco alzarsi il sipario sulla gradevolezza del vino spiegata dalle neuroscienze. Senza dimenticare l’innovativo percorso proposto nel cuore delle Langhe da Mondodelvino per far comprendere a grandi e piccini il segreto di un calice fermo o effervescente. E i calici di vino di grandi produttori non mancano certo in Bubble’s #8. Si inizia con una new entry, un’imprenditrice donna di primissimo livello come Diana Bracco, che si lancia in Piemonte nell’universo del vino, apportando idee fresche insieme a un innovatore straordinario come Pier Giorgio Scrimaglio. E si continua, in questo numero prenatalizio, con accurati consigli per chi vuol stupire qualche amico con vini e bollicine: ecco allora tratteggiati il Vermentino di Boboli e della Lunigiana, il Carmignano ottenuto con l“uva francesca” così amato dai Medici, un super Amarone d’Illasi, la Durella dei Monti Lessini e, appena sull’altra sponda del lago, il Cremant e il Rosè della Valtenesi. E se da Alghero arrivano le bolle di Torbato, all’imbocco delle Alpi Atesine incontriamo con Joseph Romen l’anniversario datato 1919. Per concludere e prepararsi infine al brindisi di capodanno, perché non approfittare della Selection-TopTen di bollicine italiane, nella quale 10 chicche non mancheranno di lasciare di stucco anche molti addetti ai lavori? Provare per credere, pronti a sostenere le nostre scelte al di fuori dei contesti guidaioli e commerciali. Cà-va-sans-dire!


La bellezza... delle parole

E poi quando finalmente il vino era pronto, ogni volta che stappava una bottiglia e sentiva sul tappo l’aroma, era come se quel profumo lo riscattasse da tutto quello che aveva tribolato, gli brillavino gli occhi, guardava la mi mamma, alzava il calice e diceva: ‘Brindo alla nostra Terè!’”.

L’Ernestina e le viti

L’Ernestina viveva sola, una disgrazia le aveva portato via i suoi prima del tempo e lei, figlia unica, aveva deciso di tirare avanti da se. Tutti avevano insistito perché andasse a stare da qualche parente, vendesse, o se aveva simpatia per un giovanotto, che si sposasse, ma non ne volle sapere: certo che si sarebbe sposata, la sua povera mamma le aveva già preparato il corredo, ma quando sarebbe arrivato l’amore, altro che simpatia. Così cominciò ad occuparsi della vigna, stava tutto il giorno tra i filari, fatica, sudore, ma ci stava volentieri, e se è vero che con l’amorevolezza ogni cosa viene meglio, forse quelle viti, oltre dalla luce e dalla terra, presero il gusto anche dalla sua voce perché ci parlava e per rispetto gli dava del voi. “Lo sapete, per me un sete piante e basta, tra questi filari ciò tutti i ricordi del mì babbo. Lù diceva che dalle viti s’impara tante cose: la pazienza, il valore del il tempo, anche a stare insieme. Basta guardarvi state tutte abbracciate una all’altra, vi fate compagnia, vi sorreggete, poi un vi vergognate di dovervi appoggià alle pertiche per sta su...sete umili.

Breve monologo per il vino

di Elisabetta Salvatori

Il babbo era convinto che fare il vino un è un lavoro come gli altri è un lavoro che ti cambia. Tra i filari si fatica, è vero, ma è vero anche che la natura poi è più forte dei pensieri, è più forte dei dispiaceri che a volte uno si porta dentro e a stare tra i filari dalla mattina alla sera, insieme alle viti si rifiorisce anche noi: la fatica diventa speranza, diventa bellezza. Le viti cambiano la vita.

“O Ernestina, che c’entra la Madonna col vino?” “E se c’entra! Vi ricordate qual è stato il primo miracolo di Gesù Cristo? Trasformò l’acqua in vino a una festa di sposi. E ve lo ricordate chi glielo disse di farllo? La su mamma, la Madonna! Ora se tra tutti i miracoli che la Madonna poteva chiedere, anche quelli grossi, fa finì le guerre, guarì la gente, Lei gli chiese di trasformà l’acqua in vino, vuol dire che ci teneva che quella gente seguitasse a bere insieme, che quella festa andasse avanti, perché la Madonna non l’avrebbe mai chiesto un miracolo da poco. E io l’ho messa tra i filari perché ci pensi Lei al mì vino”. Non ci furono commenti, ma nel giro di pochi giorni tutto il paese vide spuntare Madonne tra i filari e sotto le pergole. Prega e aspetta arrivò la primavera. Il sole, sempre più caldo, gonfiava i grappoli. L’attesa, la paura dei temporali e della grandine. Le sue mani da ragazza divennero mani da contadina, aveva sulla pelle e tra i capelli l’odore dello zolfo e del verde rame, che la rendevano seducente come quella stagione. Una sera, mentre erano sull’aia, venne Cesare con l’organetto. Faceva il marinaio, s’imbarcava spesso, era il suo lavoro e gli piaceva la musica. Si videro per la prima volta, non si parlarono neanche, si guardarono e quello sguardo bastò perché si sentissero impegnati. La vendemmia fu una festa. Gli uomini nel filare con le bigonce, le donne a ripulire i grappoli, i bimbi a raccogliere i chicchi per terra. Le mani viola, appiccicate dallo zucchero, le canzoni, gli stornelli. Poi la tavolinata coi maccheroni il vino rovesciato sulla tovaglia che porta bene. Alla fine l’Ernestina s’alzò in piedi e disse che a Natale si sarebbe sposata con Cesare. Quell’anno il vino fu buono, lei lo sciambrottò in bocca, aveva preso un gusto speciale sapeva del suo Cesarì. Dopo pochi mesi dopo il matrimonio Cesare s’imbarcò. La notte prima di partire misero via una bottiglia per quando sarebbe tornato. Ma lo stappò prima, da sola, appena s’accorse d’aspettare un bimbo, andò sulla riva con la bottiglia e due bicchieri, uno lo riempì di vino e l’altro con l’acqua di mare, poi si accarezzò il ventre, alzò il calice e disse: “Brindo alla nostra Cesarì!”

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L’Ernestina non era uguale alle altre, lei nelle cose ci metteva passione. Stava a due passi dal mare. Davanti a casa c’era l’aia con le galline a razzolare e di fianco la vigna. Il paese allora era come un unica grande famiglia, si davano una mano tutti, e la sera la gente s’incontrava a casa di questo o di quell’altro per stare in compagnia. La televisione non c’era ed era normale trovarsi dopo cena, le donne si portavano dietro il fagotto coi rammendi, una sposa che allattava, un goccio di vino, sciambrottato in bocca per sentire il sapore, e tra storie di guerra e di amori, s’aspettava che arrivasse l’ora di andare a letto.

Venne l’inverno e l’Ernestina si mise a potare, concimò la terra, la rovesciò, e la vegliò come si veglia sul sonno di un bimbo, perché d’inverno la terra sembra proprio che dorma. La sera poi, con la gente del posto, si incontravano nelle case, intorno al fuoco, per parlare del più e del meno. Tutti volevano sapere come mai aveva messo un santino con la Madonna tra i filari.


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Belli, stanchi e disorientati Prendendo un foglio bianco per scrivere questo pezzo mi sono chiesto: “E adesso cosa scrivo?”. I temi di cui parlare nel mondo delle bollicine e del vino sono molti e diversi ma riuscire a ricondurli a fattor comune non è facile, serve una strategia, una visione. Esatto! Il tema è ancora questo, quale strategia e quale visione ha il comparto vitivinicolo italiano per i prossimi 8/10 anni? Un sistema economico che sembra aver perso, se mai li ha avuti, i propri riferimenti. A sentire i più, la grande forza espressa dal vino italiano dalla seconda metà degli anni novanta fino alla crisi post 2008, è stata generata, paradossalmente, dal grande scandalo del metanolo degli anni ottanta. Ma oggi, ribadite le potenzialità enologiche dei nostri territori, da nord a sud, con performance molto più omogenee che in qualsiasi altro settore economico del nostro bel paese, il mondo dell’imprenditoria vitivinicola italiana, sia essa di estrazione agricola che agroindustriale, si guarda smarrita, magari attendendo, quando non anche auspicando, l’arrivo di qualche fondo straniero capace di “togliere le castagne dal fuoco”. Di chi la colpa? Di nessuno, evidentemente! In un paese che non ama la storia, se non per i tratti più gloriosi della Roma antica e del Rinascimento, che non ama analizzare i torti e le ragioni del passato, rimaniamo “abbarbicati”, come direbbe il premier Conte, su vecchie posizioni di retroguardia, tese più a mantenere lo status quo, piuttosto che delineare i contorni di un futuro possibile. Così ciascuno lavora per sè, non per un interesse condiviso, ma per una difesa a oltranza delle proprie rendite di posizione che, come testimoniano numerose famiglie di nobili decaduti, sono, presto o tardi, destinate a sciogliersi come neve al sole. Lo scenario negativo di un uomo vecchio e stanco? Sì, lo ammetto, sono vecchio, ho da tempo i capelli bianchi e conosco bene il marciapiede dove “batto” da anni e, forse, giovane non lo son mai stato, ma stanco no, avrei mille idee per la testa, non tutte geniali, forse nemmeno tutte giuste ma pronte per un confronto sereno con gente libera da interessi di parte, capace di misurarsi sulle idee, non sulle convenienze contingenti, di questa o di quella fazione. Credo che quello che manchi sia un tavolo! A dire il vero di tavoli ce ne sono anche troppi e troppo spesso, scusatemi la facile battuta, sembrano fatti più per far mangiare chi ci si siede attorno, che per esprimere le posizioni di chi li ha indicati a rappresentarli. E allora vai di think tank, di hackathon e chi più ne ha, più ne metta e se non capisci nemmeno cosa vuol dire ciò che si dice, meglio ancora! Chi sa che qualcuno, cercando di interpretare, non abbia un’illuminazione e con essa una soluzione per un settore che è ancora alla ricerca di riferimenti. Ma in definitiva, riferimenti per cosa? Per scrivere bandi che siano funzionali alla crescita dei destinatari di quelle risorse, non a far fatturare a questa o quella asso-

ciazione di categoria i compensi per la predisposizione delle domande di partecipazione agli stessi bandi. Per scrivere bene norme che consentano di attribuire le autorizzazioni agli impianti nelle regioni in cui si ritiene ci sia l’effettiva necessità o in quelle dove si ritiene che, strategicamente, sia opportuno diversificare il patrimonio viticolo. Per fare in modo che il pensiero espresso dagli “enti preposti” non rappresenti l’idea del funzionario o del dirigente ma costituisca la sintesi di ciò che il sistema paese ritiene coerente con una visione di quella che sarà la vitivinicoltura nel prossimo futuro. Il sistema paese… espressione interessante. Ho sempre pensato che la rappresentazione ideale di un sistema possa essere costituito dal corpo umano. Avete mai visto un organo che combatte con un altro organo? Se sì, questo vuol dire che almeno uno dei due organi soffre di una condizione patologica, o quanto meno anomala. Ecco, il nostro sistema sembra vivere ormai da anni in una sorta di continua malattia, privo di quelle difese immunitarie capaci di risolvere la situazione, senza un medico capace di fare una diagnosi corretta e di prescrivere la cura conseguente. E così vaghiamo, privi di riferimenti concreti, senza poter contare quella strategia e quella visione che dovrebbero costituire la stella polare dell’intero nostro sistema. La soluzione non ce l’ho, non ho questa pretesa, ma conto che, con queste poche righe, qualcuno rifletta e si convinca di avere un paio di idee da condividere, non da imporre, ma da offrire a un più ampio dibattito e confronto dal quale cento idee, opportunamente “rivedute e corrette”, possano far emergere un paio di soluzioni alle quali affidare il futuro di questo bello, inimitabile, quanto disorientato, paese.

Oreste Azzeccagarbugli

What strategy and vision does the Italian wine sector have for the next 8/10 years? It’s an economic system that seems to have lost its point of reference, if it ever had one. Many have said the great strength of Italian wine from the second half of the Nineties until the crisis after 2008 was, paradoxically, generated by the great Eighties methyl alcohol scandal. Today, however, while reaffirming the oenological potential of this country and while noting much more homogeneous performances from north to south than in any other economic sector of the country, the world of Italian wine-growing entrepreneurship, be it agricultural or agro-industrial extraction, seems to have lost its way, perhaps waiting, or maybe even hoping, for the arrival of foreign investment capable of “pulling the chestnuts out of the fire”.

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fotografie di Š Giacomo Artale

FOTOGRAFIA CHE CAMBI LO SGUARDO

I’m one of the old guard; one of those who has always tried to go beyond the limits that have kept photography at a distance from the world of art; a world which recognises the important economic role that photography plays in the art system, but which has always considered it inferior.

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UNA


Sono uno della vecchia guardia; uno di quelli che hanno provato a superare la soglia che tiene la fotografia distante dal mondo dell’arte; mondo che pur riconoscendo ad essa un ruolo economico importante del sistema-arte l’ha sempre considerata come minore. Sono passati quasi 150 anni e anche dopo tutto questo tempo, per l’accademia delle arti, la fotografia non è ancora considerata un puntello fondamentale a cui riconoscere valore e studi. Il mondo della cultura e della critica ha sempre mal digerito perfino la “foto d’autore”, inquadrando quei personaggi rappresentativi in un elenco ordinato, dividendoli per scuole di pensiero e di tendenze. Ma il resto?

il valore dell’attimo


‌abbinare la bellezza al suo valore


passione e sensibilit

La fotografia scientifica, quella naturalistica, di guerra, politica, medica, quella pornografica, quella privata e amatoriale, quella commerciale, cos come tutte le fotografie che “sono declinazioni meravigliosamente divergenti di quel magico sistema dei segni”, dove le mettiamo? Non si sa, del resto sono sempre state considerate un riflusso fastidioso per l’arte, inquadrando come un sistema sub-culturale a cui è bene non dare valore. Invece non è così! Secondo il professore Italo Zannier la fotografia “non ha cambiato solo l’arte, ha cambiato lo sguardo dell’uomo, ha cambiato il mondo”.


Ed è vero! Anche George Kubler, storico dell’arte e teorico dell’estetica, già in precedenza affermava che la storia dell’arte è la storia delle cose e “delle forme visive, intendendosi in questo termine sia i manufatti sia le opere d’arte, le repliche e gli esemplari unici, gli arnesi e le espressioni”, perché solo “da tutte queste cose insieme emerge una forma del tempo, si delinea un ritratto visibile dell’identità collettiva, sia essa tribù, classe o nazione”. Io sono nato in Sicilia nel 1950 e, dopo aver frequentato l’Università di Architettura a Firenze, dal 1990 mi sono trasferito a Milano, dove collaboro con agenzie pubblicitarie e riviste.

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Nel mio lavoro ho cercato di coniugare passione e sensibilit emotiva abbinando l’uomo alle cose, la bellezza al suo valore. Dando un’importanza estrema alla tecnica e alla conoscenza dell’arte della luce e della composizione, mi sono costruito negli anni delle linee guida che contraddistinguono la mia fotografia, che tiene conto del senso di armonia delle forme, dell’eleganza, dell’equilibrio fra le cose, dell’essenzialità e della sintesi. Con gli anni ho approfondito la sensibilità nell’osservare, impegnandomi a mettere in luce ogni piccolo dettaglio che potesse migliorare la costruzione dell’immagine e perseverando su questa strada fino a quando l’immagine che volevo bloccare non risultasse perfetta.

Alla fine ho compreso quale sia il valore dell’attimo, che non altro se non quella frazione temporale che soddisfa l’emotivit di chi scatta o di chi guarda una foto”.

…la fotografia ha cambiato lo sguardo dell’uomo…


I.P.

di Stefano Cosma

Il vino, i cavalieri, la villa e gli eroi

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Stefano Cosma, author of Langoris. Storie di vini e di cavalieri (Langoris. Tales of wine and knights), talks about the idea, the sources, and the rich documentation consulted to write his novel. The long saga about the Locatelli family, entwining European history and wine production, is set in the splendid surroundings of the Angoris Estate.

“Di ben in meglio”. È questo il motto che campeggia sotto l’incisione che ritrae il colonnello Locatelli, realizzata nel 1649. Trascorsi 370 anni, non è cambiata la vis che anima Angoris, né il temperamento dei Locatelli che, seppur di un altro ramo, hanno in comune con i primi l’innata capacità imprenditoriale e la vocazione a migliorare ciò che amministrano.

Alcuni anni fa, quando Marta Locatelli mi ha chiesto di scrivere la storia della tenuta, ero pronto a fare un saggio. Poi, a sorpresa, mi disse “hai presente I promessi sposi? Mi piacerebbe un libro così”.

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TENUTA ANGORIS


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Pur consapevole di non essere Manzoni, non senza un certo imbarazzo, ho accettato la sfida. Da quel momento sono tornato indietro di una trentina d’anni, quando avevo avuto per la prima volta fra le mani la corrispondenza dell’eroe della guerra dei trent’anni, ma anche i diari e gli epistolari di altri personaggi del passato imparentati con i baroni Locatelli. Queste frequentazioni virtuali si sono approfondite, dopo aver trovato la succitata stampa, poi il ritratto seicentesco del fratello Francesco e le foto di alcuni di loro. Così la mia immaginazione è stata aiutata dai loro volti, finalmente noti, mentre alimentavo la fantasia con flute di Modolet e calici di Chardonnay Spìule. Quindi ho cominciato a ricercare altre fonti: atti notarili, testamenti olografi, inventari, pagamenti, rendite agrarie e diari scritti durante la Grande guerra, rotocalchi del Novecento, immagini suggestive ma anche tristi del periodo bellico, autobiografie, quotidiani dell’Ottocento e tanto, tanto altro. Come unire, però, narrazioni così lontane tra loro? Girando per i saloni della villa, salendo fino in soffitta, camminando nel portico, avventurandomi negli edifici rurali or-

mai dismessi, nelle scuderie e nell’amenità del parco, ho avuto un’idea. Per amalgamare fonti così difformi ho inventato un personaggio: Carlotta, una giovane crocerossina di Rovigo, capitata a villa Locatelli - Langoris – Ospedale da campo n. 230. Questo mi ha permesso di collegare fatti accaduti in momenti distanti, in luoghi diversi, grazie alla ricca biblioteca e all’archivio in cui Carlotta trova affascinanti memorie del passato, cronache puntuali, oppure oggetti misteriosi nelle stanze e nel sottotetto della grande casa.

Flash back e ritorni al futuro, per parlare anche del presente. Un presente che è intriso di vino: bianco e rosso, fermo e mosso. Langoris – questo è il titolo del libro appena apparso in libreria – è anche uno sguardo attento sul mondo del vino e dell’agricoltura, considerato che qui si narra della tenuta di Angoris, da ancor prima che nascesse, giacché i Locatelli avevano vigneti a Cormons, nella pianura goriziana e nel Collio, a Novali, già a inizio Seicento. Nel Settecento avevano vigneti in quella parte che oggi è Slovenia (il Brda), ma anche nei dintorni di Gorizia, verso il Carso e la valle del Vipacco. Il Picolit, ad esempio, che è stato il perno attorno al quale è ruotato il confronto fra vini passiti di tutto il mondo nel maggio 2018, è risultato con sorpresa un vino già prodotto e apprezzato.

Prove ne sono l’etichetta di fine Ottocento e “un eccellente Piccolit, che il Barone ottiene dai suoi vigneti” citato in un articolo del 1868, in occasione di una festa canora tenutasi ad Angoris. Altrettanto soddisfacente è stato scoprire che l’azienda collezionava medaglie e riconoscimenti alle fiere di Trieste del 1871 e del 1888, per i suoi vini rossi. Come quelli oggi valorizzati nella riserva Giulio Locatelli e nel Pinot nero Albertina. Su “Bubble’s” non si possono trascurare le bollicine, e gli spumanti metodo classico che Angoris produce fin dai primi anni settanta. Da un cassetto della scrivania nella biblioteca sono sbucate, infatti, lettere di acquisto di Champagne francesi da parte di Aldo Locatelli. Forse erano sperimentazioni e (piacevoli) assaggi con l’enologo di allora che hanno portato, nel 1973, alla produzione dello spumante Modolet. Nel 1984 i coniugi Wasserman parlano degli spumanti di Angoris su “Sparkling wine”. “Questa azienda produce dalle 15.000 alle 16.000 bottiglie all’anno di un brut d’annata. Le uve utilizzate sono lo Chardonnay e il Pinot bianco proveniente dai vigneti della doc Isonzo. (…) producono anche un vintage-dated Nature con il metodo classico (...)”. Dal 2006 ha ripreso la produzione del metodo classico (interrotta nel 1996), de-


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nominato 16 48, a ricordo dell’anno di fondazione della tenuta. Storie di vini e di cavalieri, recita il sottotitolo del libro. Non poteva passare, infatti, in secondo piano l’alone cavalleresco che accompagna questa storia, talvolta quasi leggendaria. A partire dal Cavaliere del lavoro Giulio Locatelli, grande imprenditore pordenonese, nonno di Marta, che ha acquistato la tenuta nel 1968. Erano anni in cui possedeva anche l’industria dociaria Delser e una torrefazione, cavalcando l’onda del successo. Poi ci sono i cavalli da corsa dei conti Miani, che ad Angoris erano allevati per correre nei più famosi ippodromi. L’abile cavallerizzo Pirro de Hagenauer, aveva sposato una nipote di Cecilia Locatelli che era convolata a nozze con Alexander Ritter von Clarisini, ovvero cavaliere de Claricini, tanto utile per averci lasciato molti manoscritti. Infine, i cavalìrs, che in friulano sono i bachi da seta, così importanti per l’economia agraria del Sette o Ottocento. Il risultato è la storia del territorio, cormonese e goriziano, ma non solo, anche di tutta la regione e di alcuni fatti importanti a livello internazionale. Angoris va vista come fucina di idee, luogo di sperimentazioni, passaggio a nord-est di sovrani, attori, scrittori, condottieri, assieme alle loro consorti, a dive del calibro di Jennifer Jones, a semplici suore infermiere, che furono di prezioso conforto ai ben 14.000 soldati ricoverati. Se il Pinot grigio Angoris all’olfatto ricorda aromi fruttati di pesca, non va dimenticato che proprio lì, dal 1946 al 1959, fu direttore dell’azienda Pietro Martinis. Il padre della peschicoltura friulana, che creò le varietà Flavia, Fior di Monaco e Cormonese, tutte dalla polpa color giallo, la prima con maturazione medio tardiva, le altre due precoce; e la Iris Rosso e la Bayer, precoci ma con la polpa bianca. Dunque, non resta che compiere un viaggio nel tempo, per poi recarsi veramente ad Angoris, nel comune di Cormons, per completare il percorso sensoriale. L’azienda dispone di un punto vendita, di una sala degustazione e di un Restaurant wine bar.


In one stage of the Festival della Bellezza (Festival of Beauty) that enlivens the Veronese scene in June and beyond, the unconventional essayist, journalist and

academic Giordano Bruno Guerri, president of the Vittoriale, offered us a portrayal of Gabriele d’Annunzio, free from clichés and ideological stigmatisation.

In una tappa del Festival della bellezza che a giugno illumina la scena veronese e non solo – quest’anno oltre al Teatro romano e al Giardino Giusti, la rassegna ha spaziato in altre prestigiose location quali il Teatro olimpico di Vicenza, il Bibiena di Mantova e l’auditorium del Vittoriale degli italiani a Gardone Riviera – il saggista, giornalista e accademico spregiudicato Giordano Bruno Guerri, che del Vittoriale è presidente, ci ha donato un ritratto di Gabriele D’Annunzio scevro da luoghi comuni e stigmatizzazioni ideologiche. Guerri attacca il suo discorso descrivendo l’Italietta piccina piccina, fresca di unità, piena di timidezze e complessi, borghese e fondamentalmente provinciale su cui si affaccia la personalità del giovanissimo D’Annunzio, e gli rivendica la prima dichiarazione rivoluzionaria di una lunga serie: “A questa Italia, e al mondo, D’Annunzio dice:

‘Non chi più soffre ma chi più gode, conosce’. Questa frase così semplice” – prosegue il saggista – “va contro tutta la nostra cultura cattolica, basata sulla sofferenza, sulla penitenza, sul dolore, sulla rinuncia. Infatti noi abbiamo un’idea del poeta molto triste. Il poeta nel nostro immaginario deve essere infelice, possibilmente un po’ gobbo, morire giovane. Senza ovviamente mancare di rispetto al grandissimo Leopardi, la figura del poeta che abbiamo nel nostro immaginario è un uomo dolente. O come Pascoli: una vita condivisa con la sorella Mariù, che gli impediva di ricevere donne in casa, per cui era costretto ad andare al casino una volta al mese… il vino rosso alla sera per consolarsi. No, D’Annunzio è il contrario. È l’uomo dello splendore, della sfida, della conquista”.

Giordano Bruno Guerri

Non è un’eco nietzschiana ad animare il giovinetto nato a Pescara nel 1863, è piuttosto una sensibilità contemporana, una correlazione casuale e spontanea che è originalità di pensiero contrapposta al magma convenzionale delle istanze conservatrici. “Pescara aveva tremila abitanti, allora. Era un paesino, è stato lui a farla diventare una grande città”, puntualizza lo storico. Sostenuto dal padre, mediocre borghese proprietario terriero, il ragazzino studia a Prato nel miglior liceo della nazione. Snob tra i nobili, sviluppa un talento che lo porterà a essere l’italiano più famoso d’Europa, ben prima di Mussolini, il quale gli sarà ipocritamente ostile per il suo mancato asservimento al fascismo, coprendolo d’oro nel tentativo di tenere sotto controllo l’incontrollabile. Lo sostiene Giordano Bruno Guerri, paragonando la figura di D’Annunzio per la cultura europea a ciò che avrebbe rappresentato in seguito un intellettuale del calibro di Pier Paolo Pasolini. Dalla regia investitura con il titolo di “principe” alla lisergica avventura di Fiume, passando per la Beffa di Buccari e il volo con lancio di volantini su Vienna, il grande creatore di neologismi attualmente in uso nella nostra lingua ha testimoniato ai posteri l’importanza di avere sogni e realizzarli tutti, uno per uno, ci ricorda Guerri, con creativa spregiudicatezza. Un esempio?

“A sedici anni pubblica il primo libro di poesie, Carducci lo elogia: un trionfo. L’anno successivo è pronto il secondo volume di poesie. D’Annunzio sa bene che il secondo volume non viene mai accolto con la stessa benevolenza del primo: arriveranno le critiche, la distrazione, il non ascolto. E allora che inventa? A diciassette anni diffonde la voce di essere morto e questo dà già la misura del personaggio. ‘Il giovane poeta Gabriele D’Annunzio, grande promessa della nostra poesia, cavalcando nelle campagne toscane è caduto ed è scomparso’. Tutti dicono: ‘Che disgrazia, che perdita, che lutto, chissà che meraviglie avrebbe dato alla nostra letteratura’. Lo incensano in ogni modo e a quel punto Gabriele risorge. ‘Non sono morto, eccomi qua’. Lo scopo è raggiunto”.

Abile stratega sociale, d’Annunzio si qualifica smascheratore della critica accreditata nell’istante in cui si burla delle convenzioni a proprio vantaggio. “Aveva perso i capelli prestissimo. Raccontava che durante un duello aveva preso un colpo di sciabola e che il medico gli aveva versato dell’acido in testa che l’aveva reso calvo. Probabilmente se l’era inventato, non era vero. Ma la cosa certamente vera è la sua frase: ‘La bellezza del futuro sarà calva’”. Ci si guarda intorno tra il pubblico del festival e si nota come la profezia dannunziana si sia più che avverata. Questo è solo uno scampolo della sua immaginazione visionaria da regista del marketing, che gli valse la conquista di Roma, Parigi, delle antologie scolastiche del Novecento, di un posto di rispetto nella memoria di “uno storico liberale, liberista, libertario, ex libertino” quale si definisce Giordano Bruno Guerri.

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di Marco Ongaro fotografie di © Leonardo Ferri

la bellezza del futuro sarà calva


Paola Cerana

Orvieto is an Umbrian gem, a city proud of its Etruscan past. Its ancient fortresses covered in greenery, and the flat rocks on which the town rests are tempered by soft greens, creating a tapestry of contrasts, adorned with the threads of history and coloured by nature’s brush. You fall in love at first sight, and like a flower that you want to discover petal by petal, you gently delve into its very essence. Under this “sasso che si erge verso le nubi al cielo” (rock that rises towards the clouds in the sky) lies a history thousands of years old, with its architectural treasures are the greatest testament to this.

Vincenzo Cecci, Presidente del Consorzio Tutela Vini Orvieto

UN RICAMO DI TUFO SCOLPITO NEL TEMPO Una gemma incastonata in un sasso Verde, morbida, romantica. E insieme cinerea, tenace, solenne. L’Umbria, con le sue cittadine in pietra adagiate sulle colline, è la sola regione del centro Italia a non essere bagnata dal mare: più raccolta, più intima, più mistica rispetto ad altre fette d’Italia, parimenti belle ma meno isolate. Così, imbevute di storia sospesa tra i cieli azzurri e il verdeggiante brulicare di vigne e ulivi, le cittadine umbre, con umile grandiosità, impongono una garbata contemplazione. Orvieto è una di queste gemme.

ORVIETO DI VINO


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Un’architettura che riflette la storia Quello con la chiesa è per la città un fil rouge che, se da un lato ha scatenato effervescenti contrasti sociali, dall’altro è stato stimolo di crescita per il piccolo borgo destinato a trasformarsi in moderna città-stato. Questa trasformazione è attestata da uno dei simboli di Orvieto, il Palazzo del popolo, eretto attorno al XIV quale dimora del Capitano del popolo. E se il ruolo istituzionale del Palazzo si è

sciolto via via nella quotidianità, fondendosi con le voci, i colori, gli odori e i sapori del mercato, ancora oggi anima la sua piazza, costituendosi come il vero cuore pulsante della città. Divenuta a partire dal 1350 nido dei papi fuggiti da Roma sotto la pressione dei Lanzichenecchi, la città umbra grazie a questo ruolo viene proiettata in un vortice di sviluppo, fiorendo come un’opera d’arte in continuo divenire. Il divorzio con il papato le lascia dunque in eredità quell’identità architettonica che fa di Orvieto un gioiello a cielo aperto e, nell’immaginario collettivo, un luogo dove i trascorsi storici del nostro intero paese sembrano essere magicamente riassunti.

La leggenda di un pozzo senza fondo A metà tra storia e leggenda, il Pozzo di San Patrizio è un capitolo imperdibile del romanzo di Orvieto. Commissionato dall’allora Pontefice Clemente VII rifugiatosi qui dopo il sacco di Roma – si parla del 1527 –, il Pozzo doveva approvvigionare Orvieto d’acqua in caso d’assedio. Nell’ottocento però, questo capolavoro si vestì di fiaba, evocando le leggenda di un santo irlandese, Patrizio, custode di una grotta senza fondo, attraversando la quale, dopo aver affrontato le pene dell’inferno, si sarebbe potuto accedere al purgatorio, e persino sfiorare il paradiso. In effetti percorrere il saliscendi elicoidale del Pozzo dà la sensazione di immergersi nelle viscere della terra per riaffiorare finalmente alla luce della vita. La scala di discesa e quella di salita non s’in-

anima etrusca

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La sua anima etrusca esprime in pieno il carattere di una città fiera del suo passato, con la vegetazione che s’aggrappa caparbiamente alle roccaforti. Le sfumature ocra del plateau di tufo su cui poggia il borgo si stemperano in quelle soffici dei verdi, così da creare un arazzo di contrasti, ricamato dai fili della storia e colorato dalla natura. Sotto quel “sasso che si erge verso le nubi al cielo” – come un poeta orvietano cantò nel duecento – scorre, infatti, una storia millenaria che ha visto affastellarsi le dominazioni gote, bizantine e longobarde, avvicendarsi le glorie e i dolori delle epoche romana e medievale, fino all’assoggettamento al papato.


quello di una città segreta che precipita sottoterra in un dedalo di grotte, cunicoli, pozzi e cisterne. Tutte testimonianze della vita che fu. Un groviglio di oltre 1200 anfratti, ricamato dall’uomo in quasi tre millenni di storia, dove il tempo pare cristallizzato.

trecciano mai, così come il male e il bene: un’ideale catarsi spirituale che si snoda lungo 200 gradini di pietra da calpestare con meditata lentezza. Immancabile, all’uscita, il gesto rituale di lanciare una monetina esprimendo un desiderio, come suggerisce la scritta dell’ingresso: quod natura munimento inviderat industria adiecit, ovvero “ciò che la natura non aveva dato per difendersi, lo procurò l’operosità”.

Il fascino di Orvieto trascende però i tesori architettonici, ma si riverbera anche nell’ordinarietà del contesto urbano. Stradine e vicoli si snodano fondendo le contrade medievali con i negozi di prodotti locali, le botteghe artigianali con i famosi merletti orvietani, le ceramiche, le sculture in legno e, naturalmente, i tanti deliziosi ristorantini dove poter stemperare l’ammirazione per l’arte con il piacere del palato. Re nella cucina locale è, ovviamente, il vino che della città porta il nome, a sottolineare il legame indissolubile tra territorio e prodotto. Orvieto, infatti, odora di vigna al sole, come già gli Etruschi avevano intuito sfruttando le docili colline per coltivare la vite e le grotte di tufo come cantine.

Dal vino dell’Impero romano e dei papi originano i vini doc della zona, oggi noti in tutto il mondo: l’Orvieto, l’Orvieto classico e l’Orvieto Rosso doc. Altrettanto eccellenti sono il Cervaro de La Sala, il Fobiano de La Carraia e il Febeo di Cardeto. Spicca poi il Muffato de La Sala, vino dai riflessi blu le cui uve sono lasciate maturare più a lungo per sviluppare una muffa nobile che lo rende unico. Vere e proprie chicche infine sono lo Svinnere, un liquore a base di visciole selvatiche, prodotto fedelmente da un’antica ricetta locale, e l’Orvietan, un composto dolce dalle supposte proprietà curative divenuto famosissimo per aver “guarito”, con un sorso di vino, niente meno che Luigi XIV, “le roi soleil”.

Nelle viscere del Giglio d’oro Il vero re di Orvieto – il Giglio d’oro delle cattedrali – è il Duomo di Santa Maria Assunta in Cielo che, senza nulla togliere alle altre maestose chiese della città, resta uno dei massimi capolavori dell’architettura gotica. Lo slancio della facciata, i bassorilievi decorativi, le geometrie prospettiche del portone e gli ori del rosone che ammiccano al cielo ipnotizzano lo sguardo. La bicromia dei marmi accentua la suggestione ipnotica e, una volta entrati, ci si sente parte viva di uno scrigno d’arte, solenne e grandioso, che culmina nella Cappella di San Brizio con il Giudizio Universale di Signorelli. Accanto all’arte e all’architettura degli edifici sacri, imponenti fortezze, torri, castelli e ville emanano ancora l’eco del prestigio del borgo. Tuttavia c’è un altro volto della città che ancor più attrae e seduce: è quello invisibile dei labirinti e delle necropoli,

un’ideale catarsi spir ituale

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Sorseggiando Orvieto


di Claudio Mollo

Con la vigna bisogna “parlarci”

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It wasn’t just the good fortune of being born in an area well-suited to wine that led the young Luca into this beautiful and variegated world, but his clear affinity with the countryside, with the earth. The signs were unmistakable even in those early years; the years of sharecropping, when he ran through the fields, orchards, olive groves and vineyards, enjoying the wine harvest and the racking.

Originario del Mugello, dove allora di vino non se ne parlava proprio, se non di quello frutto di qualche vite maritata con tanta uva di Trebbiano, Malvasia e Sangiovese, dalla quale veniva fuori il classico vino di casa. Non è stata quindi la fortuna di nascere in una zona vocata al vino la spinta che ha portato Luca, bambino, ad avvicinarsi a questo bellissimo e variegato mondo, ma la sua spiccata affinità con la campagna, con la terra. Erano gli anni della mezzadria durante i quali lui scorrazzava tra campi, orti, oliveti e vigneti: gli piacevano già le vendemmie e le svinature ed erano segnali inequivocabili. Dopo soli due anni di scuola superiore la decisione di abbandonare la Toscana e andare a stu-

diare a Conegliano, all’istituto di viticoltura ed enologia. E così, dopo gli studi e il rientro in Toscana, i primi ingaggi, come dipendente, le prime esperienze che cedono presto il passo alla libera professione, all’inizio degli anni novanta, in aziende vinicole familiari, come Le Macchiole a Bolgheri, o ancora, Tua Rita a Suvereto, tanto per citare nomi, oggi considerati leader indiscussi nella produzione di grandi vini toscani. La Costa Toscana il suo trampolino, la passione nei confronti della viticoltura un motore potente che spinge al massimo e che lo porta a investire la maggior parte dei suoi guadagni, in viaggi in Francia, in Italia, a cercare contatti con quelle che allora veni-

vano viste come le filosofie più astratte sul vino. L’inarrestabile sete di notizie, novità, di conoscere tanti vini, in compagnia di chi li produce, di chi li pensa, con una particolare affezione per la mentalità produttiva e di comunicazione della Francia poi riscoperta con piacere nel tempo anche in tanti produttori italiani hanno fatto da apripista a quello che oggi è un settore in pieno e proficuo progresso. “Un lavoro di apprendimento e conoscenza, che continuo a portare avanti anche adesso – dice Luca D’Attoma – perché con il vino non ci si può mai fermare: scoprire nuovi metodi, nuove tecniche, prefiggersi nuovi obbiettivi da raggiungere, sempre più importanti (e parlo soprattutto dell’a-

2000 di Cabernet Franc, Merlot e Syrah. Mentre Bagnoli a Castellina Marittima, dove c’è la cantina, ci sono altri 4,5 vitati nel 2014 a Cabernet Franc e una piccola superficie di Syrah. I nomi dei nostri vini sono spontanei li abbiamo creati noi, a cominciare dal SI che sta per Syrah, un bellissimo e particolare rosato affinato in anfore. Il CiFRA è un Cabernet Franc, il nostro vino rosso d’ingresso rappresentativo del nostro territorio, un vino puro, profumato, saporito e croccante, affinato tutto in cemento fino alla primavera successiva alla vendemmia. Poi, Suisassi, un Syrah, cavallo di

battaglia della nostra produzione, insieme al Duemani, Cabernet Franc, entrambi realizzati in purezza, da parcelle selezionate, fermentati in tino di rovere e affinati in barrique per oltre 20 mesi. E chiudiamo con Altrovino, unico prodotto frutto di un accurato blend di Merlot e Cabernet Franc in parti uguali, fermentato in tino di cemento e affinato in tino di rovere e orci di terracotta”. Principi, filosofie produttive, intenti, passione e amore nei confronti dell’agricoltura e della vite hanno portato Luca D’Attoma, a essere considerato uno dei principali artefici dei grandi vini nazionali e non solo, visto che le sue consulenze spaziano in Italia, Francia e Spagna. Il suo modo di essere, amabile ma non troppo, determinato e caparbio gli ha permesso di imporre in tante occasioni il suo modo di concepire il vino, con i risultati che tutti conosciamo.

credo molto nel risultato finale fatto dall’incastro di tanti pezzi

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Luca D’Attoma

spetto professionale, più che economico, per arrivare al traguardo finale, quello bello e emozionante, di riuscire a produrre un buon vino o un grande vino. Non nego che il lavoro di un enologo è fatto tanto anche di stile e interpretazione personale e per me interpretare, vuol dire capire l’uva in un determinato terreno e viceversa per mettere a punto il prodotto finale in virtù del territorio nel quale si trova. Nella libera professione sei sempre in gara con te stesso e con gli altri, ogni giorno è un nuovo esame, una grande prova. Se fai un buon vino sei bravo se sbagli qualcosa vali meno, una lotta serrata, soprattutto se non sei in grado di importi con i tuoi principi, le tue convinzioni, le tue esperienze. E poi, credo molto nel risultato finale fatto dall’incastro di tanti pezzi, dalla proprietà, all’enologo, ai tecnici in vigna a chi raccoglie le uve a chi guida un trattore tra le vigne. Sono tante le figure che devono svolgere il loro compito con devozione e non va mai dimenticato che la cantina ‘eredita i grappoli’”. A un certo punto Luca ha avvertito forte il desiderio di un vino tutto suo e la racconta così: “Duemani nasce da un’idea non solo mia, visto che le mani sono due: l’altra è quella di Elena Celli. A me la parte tecnica e a lei la gestione finanziaria e la commercializzazione di Duemani, anche se non mancano confronti diretti tra noi, su assaggi e altre considerazioni tecnico-gustative dei vini. In questo progetto ho impegnato tutte le mie competenze e la mia passione in fatto di biodinamica, supportato dal carisma di François Bouchet. L’azienda si trova in un’area di Costa Toscana, sulle colline che si affacciano sul Tirreno, definita da molti poco adatta alla viticoltura, ma quando io ed Elena abbiamo fatto la nostra scelta abbiamo capito che era un luogo “speciale”, con un terreno estremo e non facile da coltivare, idoneo alla coltivazione biodinamica e alla realizzazione del nostro grande sogno. Duemani si divide in due parti: Ortacavoli a Riparbella con 7,5 ettari di vigneti impiantanti nel


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Quannu nesci u triali, addisia a tratta a mari. Così cantavano i vecchi pescatori andando a pescare le acciughe riferendosi al triale, la cintura di Orione con le tre stelle Aminta (Alnitak), Mintaca (Mintaka) e Anelca (Alnilam). Certamente pensando anche alla leggenda secondo cui le acciughe, che una volta, erano stelle, ancora oggi ogni sera emergono per vedere le loro tre sorelle in cielo. “Quannu nesci u triali addisia a tratta a mari”. Quando ciò accade il pescatore deve essere pronto; deve avere la rete a portata di mano per circondare le acciughe risalite in superficie. Magicamente si formano due cinti, quello di Orione nel cielo e quello della rete nel mare, che uniscono il destino di queste

o stelle cadut stelle. Così nel meraviglioso gesto d’amore delle acciughe, che salgono in superficie per trovare le sorelle si manifesta una lode al creatore. Piccole, tante, lucenti, blu come il mare dove guizzano in banchi enormi al fine di soddisfare la fame di uomini e pesci che raminghi girano nel mare. Cacciate sin da quando sono uova o solo muccu, tracciano la storia del mare e quella dell’uomo ancor più di quanto fatto dal tonno, il loro grande predatore. Così eccole prese e fermentate nei garum, essiccate in taricos o ricoperte di sale in salsamentus come pesci da “sardare” con barche armate da dodici remi e mosse dal sudore, se il vento avaro svuota la vela. Pesci tramortiti dai pescatori monchi, che forti del frastuono dalla loro “saponetta” le stordiscono e le spingono verso la superficie come un cocciu di anciovaredda strammuliata,

divenendo prede facili dei grandi ciancioli, mossi solo dalle braccia di uomini forti in grado di adoperarli. Pesci lunatici, ma sfuggenti alle “chinte” di luna, catturati un tempo anche sulle spiagge da improvvisati pescatori contadini, comandati dalle urla dei capibarca. Uomini di terra, prestati al mare, che, al termine di quella miracolosa raccolta, se ne tornavano stanchi nelle vigne e fra gli olivi, felici del regalo che avevano avuto dalla natura; un regalo che allontanava il ricordo di quanto la terra e il mare divengono avari e a loro restava solo di leccare, con il pane, la sarda appesa al chiodo dal capofamiglia. Sono tante e poi tante. Tante da concimarci i campi, da farne farina per altri pesci e olio con cui bagnare la pietra di tufo perché il tempo e la salsedine non la sgretolino. Acciughe catturate una ad una con la magghia di menaidi così

Sardines and anchovies, fluctuating, seasonal, hysterical, sensitive to the climate, studied and re-studied by a thousand scientists who disagree about everything, so much that they are periodically forgotten only to be rediscovered as if they were something new, like dishes prepared by nouvelle cuisine chefs, a long way from any tradition. Sardines and anchovies are part of the heritage of Italian coasts, following the paths of the lives lived by so many fishermen in all the seaside villages. But they’re also archives of oral tradition, written in the waves and then silently buried in the sand.

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di Andrea Zanfi

e h Acciuge dal cielo?

d’essere uccise per dissanguamento e per questo preferite, ur se sgangate, nell’essere smagliate rispetto a quelle di cianciolo. Ma anche integre e per questo abbagnate nel ghiaccio o nel sale e poi sdraiate nei barili e spedite al nord, verso quel mondo che si cibava di carne per debellare il contrabbando del sale. Pesci preparati a beccafico, emuli di quei ricchi uccelletti che arricchivano le tavole di una nobiltà oggi scomparsa, preparate alla palina, u strato di pomodoro, con pinoli e finocchietto, marinate e allinguate. Grasse d’estate e magre d’inverno, impastate per farne polpette o incannate o masculini friti e cucinate secondo gli usi e costumi di ogni famiglia siciliana e combinate, in mille modi, per costruirne i numerosi sapori che identificano i rintocchi dei tanti campanili che si specchiano sul mare. Pesci poveri dei poveri che girano sui carretti e per la lapa, mangiate salate dai cantanti per schiarirsi la voce, o per combattere il mal di mare degli ammaragiati, o per regalare proteine ai naviganti. Sardine e acciughe ch’erano tante e poi tante quando lo erano, ma che oggi son poche. Fluttuanti, stagionali, isteriche, sensibili al clima, studiate e ristudiate da mille scienziati discordi su tutto, tanto da essere ciclicamente dimenticate e riscoperte come se fossero qualche cosa di nuovo, preparazioni da chef di quella nouvelle cuisine follemente lontana da qualsiasi tradizione. Sardine e acciughe che compongono la memoria delle coste italiane, che tracciano le linee delle vite vissute da tanti pescatori di tutti i borghi marinari. Ma anche archivi della tradizione orale e scritta nelle onde e poi sepolta, silenziosa, sotto la sabbia. Sardine e acciughe raccontate nella fucina dei sapori che si perdono nel tempo e nel mito di voci modeste e mani sapienti, dipinte e illustrate nell’iconografia antica, nella fotografia e nella pittura, ricordandoci che non sono pesci, ma stelle cadute dal cielo per sfamare gli uomini come ci hanno insegnato i vecchi pescatori quelli che amavano la musica, la poesia e l’immagine del mare:


quelli che tornavano all’alba, con il cuore sotto la prua, gli occhi affossati e la bocca secca, la fronte segnata dalla salsedine, con i pantaloni arrotolati scendevano dalle barche e invasavano la rete e sulla bilancia pesavano insieme il pesce, il sonno, il lavoro e la stanchezza, forse non avevano scuola ma conoscevano il mare, e del tempo e dei venti erano maestri riparavano le reti insieme ai loro pensieri, avevano rispetto per il mare, per un pezzo di pane andavano lontano, con qualche lenza, una rete, tanta speranza, e due remi per andare incontro al loro destino. (traduzione dell’autore)

Alice, iteropara, della famiglia degli engraulidi Alla famiglia degli engraulidi appartengono circa 100 specie di pesci, diffusi nei mari tropicali e temperati e talvolta anche in acque dolci. La specie più famosa per il commercio internazionale è l’acciuga europea, detta anche alice (Engraulis encrasicholus). La distribuzione geografica di questa specie comprende soprattutto il Mediterraneo, il Mar Nero, le coste atlantiche dell’Europa e dell’Africa fino al golfo di Guinea. Da aprile a settembre l’acciuga vive nelle acque costiere dove si nutre di plancton e si riproduce. Ogni femmina depone fino a 40.000 uova. Durante i mesi invernali, invece, si ritira in profondità, fino a 150 metri sotto la superficie del mare. Gli occhi particolarmente grandi rivelano le sue capacità di adattamento ad acque profonde, dove la luce è scarsissima. La grande bocca dell’acciuga e di altre specie di engraulidi, essendo rivolta verso il basso, indica un comportamento alimentare diverso rispetto a quello dei clupeidi, che si nutrono in prossimi-

tà della superficie. Infatti, le acciughe, almeno nei mesi autunnali e invernali, mangiano piccoli crostacei, uova di pesci e detriti che trovano sul fondale. Le alici sono una specie ovipara a fecondazione esterna e iteropara, cioè in grado di deporre le uova più volte nell’arco della vita e all’interno di una stagione riproduttiva che risulta ciclica, che va da aprile a ottobre e avviene in prossimità della costa, durante la quale si modifica l’ovario che cambia radicalmente aspetto e dimensioni. Depone uova pelagiche di forma ellissoidale, che flottano nei primi 100 metri di profondità e schiudono nell’arco di 2436 ore. La posizione delle aree di ripro-

duzione e di nursery è determinata dal sistema di corrente prevalente nell’area geografica in cui è distribuita la popolazione e tende a rimanere stabile nel tempo. L’inizio della stagione riproduttiva dell’acciuga europea è temperatura-dipendente, sebbene non si ritenga che questa sincronia sia legata al raggiungimento di una soglia di temperatura sotto la quale la riproduzione delle acciughe non possa avvenire. I sessi sono separati e la maturità sessuale è raggiunta al termine del primo anno di vita (9 cm). Mediamente l’acciuga vive circa 4 anni.

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chiddi chi turnavunu allalba cu cori sutta a prua locchi affussati a vucca sicca e a frunti signata da salimi chi causi arrunzati scinnivunu di varchi nvasavunu la rizza e supra la statia pisavunu assemi lu pisci, lu sonnu, lu travagghiu e la stanchizza forsi non aviuno scoli, ma cunuscivunu lu mari e du lu tempu e di li venti erunu maistri sarcivunu li magghi insemi a li so pinseri avevanu rispettu di lu mari pun pezzu i pani annaunu luntanu, cu cacchi lenza na riti, tanta spiranza e du rimi pigghiri incontru a lu distinu


This lady of Italian television is genuine, and she knows how to create the welcoming atmosphere of a small living room in her entertainment programs, where one can sit comfortably at ease, without needing to dress up.

di Giordana Talamona Se c’è una cosa che distingue Antonella Clerici è la sincerità. Lo capisco subito quando, scusandosi per un piccolo ritardo, mi racconta di aver avuto la famiglia a pranzo nella sua nuova casa di Arquata Scrivia, che condivide da circa un anno con il suo compagno, Vittorio Garrone. È trasparente la signora della televisione italiana, che ha saputo creare, nei suoi programmi d’intrattenimento, l’accoglienza di un piccolo salotto, dove ci si mette comodi e a proprio agio, senza dover per forza indossare il vestito della festa. È così che per diciotto anni, d’altra parte, gli italiani l’hanno accolta all’ora di pranzo, assieme ai figli che tornavano da scuola. Quando partiva la sigla di La prova del cuoco su Rai 1, oltre sei milioni di telespettatori si dividevano per tifare, alla Coppi e Bartali, la squadra del Pomodoro rosso o del Peperone verde.

“Nessuno ci credeva in quella trasmissione, che certi radical chic della Rai ritenevano troppo popolare. E invece il pubblico mi ha dato ragione. Devo molto alla Prova del cuoco, ma anche quegli chef e i vari Cracco, Cannavacciuolo e Barbieri delle trasmissioni arrivate dopo, devono molto a me. Credo che tutti siano un po’ figli di quel programma”. Sanguigna e diretta, Antonella è stata precorritrice di una serie di tendenze, come quella delle giornaliste sportive, dei programmi di cucina, sino a un Sanremo popolare, che sapeva troppo di “sugo”, secondo qualcuno. Un aroma che, contrariamente a quanto auspicato dai suoi detrattori, è piaciuto a 12.462.000 di italiani, che nell’ultima puntata, col 53,21 per cento di share, hanno visto Antonella incoronare vincitore Valerio Scanu. Come un fiume in piena, e fresca come l’acqua cristallina, Antonella si toglie qualche sassolino dalla scarpa, mentre imperversa la polemica sui prossimi palinsesti Rai, che non la vedrebbero presente con nessuna trasmissione. “Sono sempre stata amata più dai telespettatori che dall’intellighenzia Rai, forse perché non sono una ossequiosa o che va alle feste che contano. Non vanto amici tra i colleghi, o se li ho è un puro caso che lavorino in televisione”. Tra questi Fabrizio Frizzi. “Era una persona generosissima, forse troppo. Una persona vera, anche lui apprezzato più dal pubblico che dai dirigenti Rai”.

Ha fatto la gavetta Antonella, o “Antonellina” come ama chiamarla il suo pubblico, iniziando giovanissima nelle reti private. “Tutto è cominciato per puro caso, quando il sabato, ancora studentessa, andavo all’ospizio a fare un po’ di compagnia agli anziani. Ho sempre amato sentire le loro storie, portare il gelato e fermarmi a fare due chiacchiere. Una mia amica, che lavorava per una tv locale, mi coinvolse in un documentario sulla terza età, per il quale realizzai una serie di interviste ai miei vecchietti. Da lì è cominciato tutto”. Sguardo sveglio, ottima dialettica, Antonella comincia a lavorare a Telereporter a soli 19 anni. La carriera è folgorante, tanto che a 23 anni ha la sua prima trasmissione su Rai 3, Semaforo Giallo, un programma per l’estate che conduce con David Riondino. “Si testavano i nuovi volti della televisione sui programmi estivi. Quella per me fu una fortuna, perché piacqui subito al pubblico e da quella prima esperienza mi affidarono altri programmi”. È l’unica giornalista sportiva dell’epoca a fare due Olimpiadi come inviata, Barcellona e Atlanta. “Ricordo con grande affetto Barcellona ’92, la sua rinascita come città olimpica. Quando uscivo dalle dirette erano i colleghi stranieri a intervistarmi: una donna che si occupasse di sport era una vera rarità”. Le chiedo se si augura che la sua Maelle, dieci anni appena, intraprenda la sua stessa carriera nello spettacolo. E qui la sincerità di Antonella Clerici mi stupisce: “No, la osservo e non trovo in lei particolari doti legate al mondo dello spettacolo. Non mi pare portata per la danza, il canto o per la conduzione. E poi voglio saperla felice, senza obbligarla a stare all’ombra di una madre ingombrante, che fa il suo stesso lavoro. Molto meglio che si trovi una professione che la appassioni, come è successo a me, senza dover seguire per forza le mie orme”. Con la figlia e Vittorio, che ha avuto per lei un vero colpo di fulmine, vive ora ad Arquata Scrivia, una sorta di ritorno alle origini, molto simile alla sua Legnano, paesino alle porte di Milano, dove è nata e cresciuta. “Trovo che la provincia sia molto formativa, perché in un piccolo centro riesci a coltivare dei rapporti autentici e genuini. Qui ad Arquata ho tutto a portata di mano, con un’umanità e una disponibilità che la grande metropoli non riesce a darti. Riesco a contattare il mio veterinario anche di sera, o a fare la spesa in una manciata di metri, dal macellaio al panettiere”. Al futuro, tantomeno quello lavorativo, Antonella ora non pensa, coltiva le sue passioni: i viaggi, la lettura e soprattutto la cucina, dove si cimenta con alcune ricette della sua amata mamma, persa da giovanissima. In ultima battuta, le chiedo il suo peggior difetto: “Che se mi ‘girano’ non so nasconderlo. Il mio pubblico della Prova del cuoco mi scriveva, quando mi vedeva di malumore. Sono trasparente, non so fingere e di questo il pubblico se ne accorge”. Più che un difetto, questo è il suo marchio di fabbrica: ciò che la rende tanto amata.

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Antonella Clerici

“il mio peggior difetto? quando mi ‘girano’ non so nasconderlo


I.P.

Villa

Adriana Franchi welcomes you with elegance, refinement and an open smile. But behind that smile it’s easy to see a determination equally divided between affability and intelligence. Quick to brush aside personal compliments, she is intent on securing the merits her company deserves, calmly expressing the purposefulness of a woman who has grown up among grape rows and cellars. She is the link between two families and historic wineries east of Verona, Franchi and Bonuzzi, which came together in the ‘90s under the one name of Villa Canestrari.

Canestrari

Degustare la storia

di Marco Ongaro

“Un Museo del vino è il museo di una memoria naturale racchiusa in una bottiglia e liberata in un calice”. Questo è divenuto il motto di Villa Canestrari, azienda agricola che produce vini Valpolicella e Soave, con sede operativa a Colognola ai Colli e sede rappresentativa presso il Museo del vino, che a Illasi è anche fattoria didattica e cantina di elevazione dell’Amarone in barrique. Chi viene nella sede produttiva a Colognola trova un ambiente rilassante, un giardino curato, gli uffici ricavati in un porticato che, come la casa di abitazione, risale ai primi del Settecento.


Adriana Franchi ti accoglie con eleganza, signorilità e

ne e l’imbottigliamento dei vini, alcuni datati fine Ottocento, accatastati nelle soffitte appartenute un tempo alle due aziende. A questo patrimonio ha unito l’ufficio degli anni venti del secolo scorso, ricolmo di documenti, libri mastri, macchine da scrivere d’epoca, un torchietto da stampa per copiare fatture e corrispondenze in volumi di archivio, strumenti da laboratorio enologico come un ebulliometro Salleron, un piccolo distillatore Bosia, altri apparecchi perfettamente conservati e alcune etichette risalenti agli inizi del Novecento, nonché lo storico quaderno scolastico datato 1885 appartenente all’avo

Francesco Bonuzzi

, diplomato enologo nel 1888 presso la Regia scuola di Conegliano Veneto. La virtù storica di questo particolare reperto costituisce la punta di diamante della collezione. Più di una terracotta o un arnese di ferro, un quaderno scolastico annotato con precisione come quello di Carlo Bonuzzi informa sui sistemi d’insegnamento e sull’istruzione del periodo, sulle nozioni allora in possesso degli esperti, sullo stato di un’area geografica – il bacino mediterraneo – quasi un secolo e mezzo fa, offrendo un quadro del progresso e pure del regresso cui si è dovuto far fronte per ampliare le capacità produttive. Non sarà dunque per nulla strano che uno tra i vini di Villa

un sorriso aperto, dietro al quale è facile individuare una determinazione equamente suddivisa tra affabilità e intelligenza. Pronta al ridimensionamento delle lodi ma altrettanto decisa a ottenere per l’azienda i meriti che le spettano, esprime pacatamente la risoluta volontà di una donna cresciuta tra filari e cantine, essendo lei l’anello di congiunzione tra due famiglie e aziende vinicole storiche dell’est veronese, i Franchi e i Bonuzzi, accorpate negli anni novanta sotto l’unica intestazione di Villa Canestrari. Aspetto dinamico, statura slanciata e immediata empatia co-

, municativa connotano il figlio a fianco della madre nel reggere un’azienda che dedica la stessa attenzione alla semplicità e alla raffinatezza del prodotto avvalendosi del capitale culturale di cui la tradizione l’ha privilegiata in ben più di un secolo di attività. È Francesco il punto focale di un’esperienza di quattro generazioni, portata avanti con l’orgoglio e la passione trasmessa dai genitori. “Lavoro per far crescere il nome dell’azienda ” – afferma con positività contagiosa – “guardando al futuro del mercato del vino, in continua trasformazione. So che solo salvaguardando il valore del nostro territorio, la qualità dei nostri vini continuerà a essere riconosciuta”. Con lo stesso entusiasmo ha abbracciato l’idea di sua madre

Museo del vino di Illasi

, consanel creare il pevole che il vino assume in sé e trasmette a chi lo sa gustare la storia della terra che lo ha generato, dei suoi mutamenti geologici, delle sue avventure climatiche, delle cure artigianali, delle conoscenze e della passione di chi lo lavora. Adriana Franchi ha fatto tesoro dei piccoli macchinari per la produzio-

Carlo Bonuzzi

Amarone della Valpolicella docg riserva “1888”, di cui madre Franchi e figlio Bonuzzi vanno leCanestrari più premiati a livello internazionale, l’

gittimamente fieri, si fregi quale elemento irrinunciabile della propria etichetta proprio della data del diploma in enologia del loro avo.


Beppe Convertini

Beppe Convertini has had a great season. After the excellent run of La vita in diretta estate, he is now hosting the new edition of Linea Verde, together with Ingrid Muccitelli, once again airing on Italy’s main public broadcasting channel.

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a tu per tu con il nuovo conduttore di linea verde di Simona Cangelosi

Una grande stagione per Beppe Convertini che, dopo gli ottimi ascolti di La vita in diretta estate, sempre sulla rete ammiraglia della tv di Stato è adesso alla conduzione della nuova edizione di Linea Verde, in coppia con Ingrid Muccitelli. Sei al timone di Linea Verde da questa stagione,

cosa apprezzi di più del programma? Amo viaggiare e conoscere nuovi borghi del nostro paese, ma soprattutto scoprire usi, tradizioni, costumi, cucina e bellezze paesaggistiche, oltre che artistiche e storiche. È un bel viaggio che attraversa le tradizioni italiane, il mondo dell’agricoltura e dei prodotti tipici: è un gran privilegio raccontare ai nostri telespettatori, che ci seguono anche nel resto del mondo, le eccellenze italiane. Sei molto legato alla tua terra di origine, la Puglia? Quando non ho impegni di lavoro cerco sempre di ritagliarmi un weekend per tornare dalla mia famiglia a Martina Franca e poter riabbracciare mia madre Grazia (di nome e di fatto), le mie sorelle e miei nipoti, a cui sono molto legato.

Raccontaci la tua infanzia Sono cresciuto in una famiglia modesta e piena d’amore e di valori veri che nel corso degli anni non ho mai trascurato e dimenticato. Quando avevo 17 anni mio padre si è ammalato di un tumore. Ricordo di aver rotto il salvadanaio per pagare le bollette. Poi, dopo il diploma, vinsi una borsa di studio e partii per Torino dove studiavo all’Università. Mi mancavano pochi esami alla laurea, che non ho conseguito per un soffio! In quegli anni inizia la tua vera carriera da attore e conduttore Ho fatto un sacco di lavori: cameriere, garzone ai mercati, modello a Milano e ho vinto anche il concorso del più bel-

lo d’Italia. Mi sono affacciato al mondo dello spettacolo quasi per caso, ho recitato in più di venti film al fianco di attori della caratura di Nino Manfredi, Giancarlo Giannini, Alessandro Benvenuti, Michele Placido… e oggi eccomi qua. Sei molto impegnato nella solidarietà e in progetti benefici, a cosa ti stai dedicando ora? Al mio ultimo libro I bambini di Nessuno edito da Admaiora e tratto dalla mia ultima missione in Myanmar con Terre Des Hommes nei campi profughi siriani ad Aarsal, al confine siriano. libanese e giordano, a Zarqa e nelle baraccopoli del Myanmar. Il ricavato della vendita andrà interamente in beneficenza per i bambini siriani, birmani e giordani.

Consigliaci una ricetta pugliese Inizierei con le friselle: quelle più tradizionali, preparate con semola di grano duro, farina integrale o orzo, condite con abbondante olio, aglio, sale e tanto, tanto pomodoro fresco, sono l’antipasto ideale per dare inizio a un pranzo o una cena made in Puglia. Poi, come primo, le orecchiette con cime di rapa condite con un po’ di acciughine in soffritto, oppure la tiella di riso con patate e cozze, che unisce i sapori della terra a quelli del mare. Per i vegetariani, invece, non c’è niente di meglio di un secondo a base di burrata fresca, un formaggio tipico della zona di Andria. Il tutto accompagnato da un buon bicchiere di Primitivo di Manduria.


I.P.

Mattia Vezzola e Costaripa: se il Garda guarda alla Champagne di Chiara D’Ippolito

Leffervescenza è sempre stata considerata una futilità nel mondo dellenologia, al contrario io la considero una cosa molto seria, complessa e affascinante . Quando parli con Mattia Vezzola, enologo di rango e patron di Costaripa, capisci subito che il suo modo di raccontare – un modo pacato e risoluto, che si nutre di una sagacia fatta di metafore e riferimenti letterari – riflette anche la sua storia di enologo e di produttore di vini. In lui, l’effervescenza arricchisce l’animo, apre e nobilita gli orizzonti, aumenta la sensibilità nell’approccio tecnico alla vinificazione. E la bollicina diventa filosofia di vita, la stessa che l’ha portato a essere uno dei principali artefici dell’evoluzione di vini spumanti in Italia. Tutto inizia da ragazzo, quando Mattia desidera fare il veterinario nell’azienda agricola di famiglia mentre suo padre, invece, gli dice che ha bisogno di un enologo. Così, nel 1973, dopo essersi diplomato, si ritrova in Champagne. Un viaggio illuminante, che lo mette di fronte a una sorpresa che all’inizio lo sconcerta, gli crea dubbi, ma che, poi, lo guiderà negli anni a venire: se in Italia la tecnologia ha già iniziato ad acquisire significato e a rappresentare il pilastro di nuove certezze lontane dall’empirismo, in Francia si ricorre ancora alla fermentazione in botte. “Nelle degustazioni scoprii che quei vini mantenevano invariato il loro profilo sensoriale anche a un giorno di distanza dall’apertura della bottiglia; ovviamente le bollicine si perdevano, ma i profu-

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Il rosè trasformato in eccellenza

Speaking with Mattia Vezzola, head winemaker and patron at Costaripa, you immediately understand that his way of storytelling also reflects his history as an enologist and wine producer. In him, effervescence enriches the soul, opens and ennobles horizons, and amplifies sensitivity in the technical approach to winemaking. And the “bollicina” becomes a philosophy of life, the same one that has led him to be instrumental in the evolution of sparkling wines in Italy.


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Vini che esprimono eleganza e anticonformismo

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mi erano integri, profondi, belli. Un traguardo impossibile da raggiungere per i nostri vini che solo dopo venti minuti nel bicchiere iniziavano a cambiare e svanire”. Vezzola capisce che quella vinificazione, apparentemente arcaica, dà stabilità ai vini e, da quel momento, comincia un percorso in cui la fermezza diventerà la caratteristica della sua produzione. Vini dai profumi di frutta matura, strettamente legati alla qualità della vendemmia, connessi a salubrità e longevità. E, soprattutto, dichiaratamente italiani. Perché la vocazione di un territorio conferisce valore alla materia prima, mentre la qualità nasce dalla selezione. “Dobbiamo alimentare la convinzione che il buon Dio ci ha fatti nascere in un paese magico, irripetibile nella sua diversità, la cui forza è di non assomigliare a nessuno”. Proprio la convinzione che si debba sempre cercare, con costanza, di fare un grande vino, assecondando le inclinazioni del territorio e operando per una qualità assoluta capace di confrontarsi con i migliori del mondo, ha spinto Vezzola a lasciare il suo “amore enologico”, quella Franciacorta in cui ha fatto la fortuna del Bellavista, e lo ha riportato a Moniga. Sarà qui che, prendendo in mano le redini dell’azienda paterna nata nel 1936 su quella “sponda dannunziana” del lago di Garda dove il vitigno

principe è il Groppello, di fatto la rifonderà, imprimendole un obiettivo ambizioso: far rivivere e tornare grande il vino più nobile e rappresentativo, il Valtènesi Rosé, che da lui verrà reso unico e contemporaneo. Rompendo pregiudizi radicati nel tempo e valorizzando le potenzialità di un’area geografica che fin dall’Ottocento ha prodotto vini con le tecnologie della regione provenzale vocata al rosé, Vezzola restituirà la produzione vitivinicola di questa terra alla sua identità originaria: il rosé, appunto. Così, nei vigneti che circondando l’azienda agricola di Vezzola, nutriti dal microclima unico di una terra baciata da tremila ore di sole all’anno e rinfrescata da brezze mattutine e serali che mantengono in equilibrio gli elementi naturali, nascono i Rosè Costaripa. Vini che esprimono eleganza e anticonformismo, dai profumi esotici e di violetta, dai sapori suadenti, setosi e di grande garbo, con una persistenza dalla sapidità rara: il RosaMara, “il vino di una notte” che nasce poche ore dopo la pigiatura e con una vinificazione “a lacrima”; il Molmenti, dedicato

all’ideatore del primo Chiaretto, quel vino che, “inventato” nel 1896, è arrivato, alla fine degli anni sessanta, a riscuotere uno straordinario successo nel nord Europa e a essere bevuto persino negli Stati Uniti; il PalmArgentina, vino da uve stramature rese più armonico mediante una piccola integrazione di Moscato Rosa. E, ancora, le bollicine, realizzate secondo una progettualità precisa: il Brut, da uve Chardonnay 100 per cento; il Brut Rosé, da uve Chardonnay 80 per cento; Pinot Nero 20 per cento; il Crèmant, dai vitigni Chardonnay 100 per cento rivolti al sorgere del sole. Infine, il Grande Annata Rosé, vino con vendemmia dalla climatologia fredda, leggermente posticipata, e il Grande Annata Brut, nato dall’idea di esprimere il meglio di Costaripa con le più sottili bollicine che, attraverso i sensi, arrivano al cuore e al piacere di condividere il brindisi. Un brindisi che ci parla di un enologo colto, umile e sempre stupito dalla gioia che un calice di bollicine riesce a procurargli. Ed è anche grazie a lui che ad attendere gli spumanti italiani sarà un futuro luminoso.


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...un microclima

unico...


ROBERTO ROSSI

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di Massimo Viti

il sacerdote del gusto

With a passionate love, Roberto has transformed “The Silene” into a very particular example of restaurant and “relais diffuso”, boasting a Michelin Star since 2014: just a few rooms, green spaces and open lawns, a large vegetable garden, a wine tasting corner, a heliport and a place to recharge Tesla electric cars.

Roberto mi serve il suo tortello di ricotta e spinaci al tartufo e mi sussurra all’orecchio:

“Sollevalo con la lingua come un’ostia e premi dolcemente verso il palato”. Chiudo gli occhi, e mi commuovo. C’è infatti un punto della bocca, il palato, dove il cibo sosta durante la masticazione, mentre la lingua si insinua e indaga per scovare ogni tipo di suggestione e memoria olfattiva, che sia il dolce in punta, l’acido nei lati o l’amaro in fondo. È il palato ad essere così diventato il recettore principale, il sismografo emozionale della cucina di livello. Così, chi sa accarezzare questo nuovo punto G, chi conosce i suoi segreti, riceve l’attenzione del mondo dell’alta cucina. Così è successo a Roberto Rossi. Stella Michelin dal 2014 per un ristorante situa-

to nell’alta Maremma, al fondo di una stretta strada di montagna, che si snoda tra faggi e castagni disposti in uno spazio tanto incontaminato da sembrare dimenticato. È al termine di questa strada, animata dall’ombra delle felci ricoperte di morbida neve in inverno o resa riarsa dal sole sassoso dei ruscelli secchi in estate, che ci si trova a Pescina: un piccolo borgo di case, in cui da tempo trova posto l’osteria della stazione di posta, quella che in un passato più o meno remoto fungeva da ristoro ai viandanti che, in carrozza, si addentravano in questa parte del Monte Amiata. Qui è nato e cresciuto Roberto Rossi. Qui è nata la sua passione per la natura, ben percepibile nella sua cucina. Qui ha saputo affermarsi come giovane chef, tra i più promettenti del momento. E proprio scegliendo un luogo non di moda né di passaggio, ha saputo valorizzare questo stupendo territorio di cui, nel mettervi radici, è divenuto parte integrante, senza più poterne fare a meno. Questi luoghi sono suoi: conosce ogni pietra e

pianta, persona e storia del suo territorio e ne protegge il valore con una professionalità inconsueta. Ama i suoi alberi, i frutti del suo orto, le nuvole e i semplici fiori di campo, da cui trae energia e senso, per crescere ed esprimere la sua creativa vocazione. È con questo suo amore appassionato che Roberto ha saputo trasformare il Silene, valorizzando il suo essere immerso nel rimo solenne di albe e tramonti montani, in un particolarissimo esempio di ristorante e relais diffuso: poche camere, spazi verdi e prati all’aperto, un grande orto-garden, un angolo wine tester, un eliporto e uno spazio dedicato alla ricarica elettrica di auto Tesla. Ed è in questo magico contesto che, attraverso un progetto in crescita consapevole e con l’aiuto di Lella, l’antico sapere della buona tavola è riuscito a dar vita a un’accattivante cucina capace di coniugare l’energia vitale della modernità e la forza della tradizione. Riconoscendo il momento di massima grazia e fragranza dei doni dell’orto, Roberto tratta con delicata ele-

ganza ogni alimento: funghi, tartufi, pesce e, tra tutti il suo preferito, il piccione. Così il suo menù, seguendo il ritmo delle stagioni, riesce a proporre e reinterpretare coraggiosamente anche i piatti nei quali la tradizione toscana e di altre regioni italiane ha saputo dare il meglio di sé.

A prendere forma, in un contesto nel quale la pasta viene ancora rigorosamente fatta a mano in casa, sarà così una cucina del saper fare e dell’esperienza, in grado di mettere in risalto la storia che nel tempo ha saputo imprimere al Silene la forma attuale.


La prima regola, per Roberto, è il non utilizzo di troppi ingredienti, in modo che ogni sapore sia sempre riconducibile alla materia prima di cui è composto. Il profumo del grano che avvolge il pane appena sfornato, esaltandone la fragranza, ricorda gli antichi riti e gesti che si ripetono ancora oggi al Silene. Il pane non è semplice accompagnamento al piatto, ma creato ad hoc per ogni ricetta, per il menù del giorno. Nobile elemento connotato da una biodiversità microbica, il lievito madre a lievitazione naturale dona al pane un sapore e un profumo incredibili, resi ancora più straordinari dal filo di olio extravergine d’oliva, denocciolato di olivastra di Seggiano, prodotto con cura dal Silene stesso.

A dare un tono particolarissimo alla cucina di Roberto Rossi sono poi le cotture lente – come ad esempio quelle del piccione e del cinghiale – studiate sulle caratteristiche specifiche di questi prodotti. Perché tuttavia queste cotture possano dare i risultati auspicati, Roberto non si serve di pentole qualsiasi. Le ha volute, come “quelle di una volta”, fatte a mano e su misura per lui in un materiale prezioso: il rame battuto, in grado di garantire cotture uniformi e preservare le proprietà nutrizionali e organolettiche degli ingredienti di volta in volta usati per creare i suoi straordinari piatti. “Il vino vecchio” – dice poi parlando della sua cantina – “non è solo piacere per il palato, ma anche per la mente. Il solo pensiero che un vino se ne sia stato lì ad aspettare per decenni, mentre la vita scorreva, è qualcosa che va oltre gli stessi aromi che saprà sprigionare. È uno dei grandi poteri del vino: talvolta può contribuire a rendere più viva la vita stessa dell’uomo”.

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È a Roberto e a Marinella, suo braccio destro e insostituibile interprete di ogni ricetta, che ripenso ogni volta che per un tempo sempre troppo lungo non ho occasione di stare nelle magiche sale del Silene. Il semplice ricordo di quel tortello di ricotta e spinaci al tartufo, servito mentre Roberto mi sussurra: “sollevalo con la lingua come un’ostia e premi dolcemente verso il palato”, è sufficiente a farmi capire che quella che si vive qui è un’esperienza che va ben al di là del nutrirsi, dell’assaporare dei piatti, del gustare del cibo. L’amore, la passione, la dedizione e la cura di cui la cucina di Roberto è impregnata hanno qualcosa di antico e di arcaico, forse quasi di sacro.


I.P.

wine research team

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38 aziende del team cotarella sperimentano la viticoltura e l’enologia del futuro A diverse group of 38 companies, of differing sizes and turnover, covering a wide operational spectrum that also includes cooperatives, have joined forces to address and solve the problems facing the future of the wine industry. Encompassing small, medium and large businesses, from the north to the south of Italy, with varied origins and histories, these companies have begun to create the groundwork for a complete rethinking of the future of Italian viticulture and oenology, using methods that are able to make them trailblazers of scientific research directly on the field.

di Sissi Baratella

WRT: ricerca e sviluppo per un approccio alla produzione del vino consapevole con un occhio al passato e uno al futuro. Un progetto internazionale nuovo ad opera di aziende vitivinicole private che sanno fare squadra.


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Questo audace passo nel campo della ricerca e della sperimentazione non poteva che scaturire da una mente lungimirante e intuitiva qual è quella di Riccardo Cotarella, enologo di fama internazionale. Nata l’idea, presto l’entusiasmo è diventato contagioso tra produttori e ricercatori tanto da riuscire a dar vita, nel 2012, al Wine Research Team: “Una squadra che unisce tecnica e pratica in campo viticolo ed enologico come mai era successo prima.” Un gruppo di 38 aziende, per lo più italiane, rappresentative di un ampio spettro operativo, diverse per dimensioni e fatturato, comprendente anche delle cooperative: tutte però interessate, oltre ogni misura, alla risoluzione di problematiche che interesseranno il vino futuro. Dal nord al sud Italia, partendo da origini e storie diverse, esse hanno saputo iniziare a creare i presupposti per un ripensamento completo di quella che sarà la viticoltura e l’enologia italiana di domani. Testimonianza pioneristica di un processo operativo che fa da apripista alla ricerca

scientifica direttamente sul campo e molto lontano da quel “pensare da sé” che accompagna il sistema viticolo italiano. WRT punta sulla valorizzazione della scienza e della ricerca in funzione di una trasformazione concreta del tessuto vitivinicolo ed enologico. Perché questo accada è tuttavia essenziale che, a monte, ci siano personalità di spicco sia del mondo accademico sia dell’analisi e sperimentazione agraria. I nomi di Attilio Scienza, Fabio Mencarelli, Luca Toninato sono al riguardo una garanzia, così come lo è quello di Vincenzo Tassinari, chiamato a ricoprire la carica di presidente del WRT e affiancato, nel coordinamento della squadra, dall’enologo Nicola Biasi. Diversi temi, legati al comparto agronomico e enologico, vengono trattati e studiati con l’obiettivo di aumentare nei produttori e nei consumatori la consapevolezza che preservare la sostenibilità, principio ormai imprescindibile, non è un’utopia. Come mostra del resto l’impegno dedicato dal WRT all’individuazione di tecniche di vinificazione in gra-


concentrazioni di calcare nel suolo, sono ormai costantemente monitorati in vigneti sperimentali. I primi risultati si sono avuti, dopo solo due anni dalla messa a dimora in campo (soprattutto nel 2017 che è stata riconosciuta un’annata bizzarra su tutto il territorio nazionale), rivelando come quelle piante siano più resistenti delle altre alla siccità e siano in grado di contrastare con successo questa condizione ostile. Quello proposto da WRT è, nei confronti della viticoltura e della produzione di vino, un approccio diverso che punta tutto sulla consapevolezza e sostenibilità, trasformate da parole chiave in criterio operativo. Non si tratta cioè di una questione meramente lessicale, ma piuttosto sostanziale, e dunque in grando di presentare risvolti etici di cui WRT si sente protagonista e interprete mediante una strategia il cui obiettivo primario è rappresentato dall’innalzamento della qualità dei prodotti ottenuto attraverso la certificazione della filiera, dal campo alla bottiglia, e la promozione di una diversa attenzione alla salvaguardia della tipicità e originalità dei vini. Un fine ambizioso, ma realistico nella sua complessità e nell’impegno che esso, basato su un progetto in costante evoluzione, richiede. A stupire è soprattutto il risvolto concreto di questa stra-

tegia del WRT, il cui tratto di alta ricerca si traduce poi in tecniche che finiscono col riguardare molto da vicino tutti i consumatori, che godono indirettamente degli enormi benefici che un approccio innovativo come questo appare in grado di produrre in termini di salubrità e piacere. L’impegno del WRT e il suo pensare fuori dagli schemi consente così ai consumatori di poter contare su prodotti per i quali il concetto di qualità non rimane affatto un termine astruso, connotandosi invece in una prospettiva tanto realistica da diventare tangibile e misurabile. Il gruppo di lavoro del WRT ha le sue basi nella profonda convinzione che solo partendo da conoscenze tecnico-scientifiche si può generare un futuro diverso. A fungere da stella polare dell’azione di questo lavoro sarà dunque la tecnica, da intendersi nel senso della τέχνη degli antichi greci, e dunque come abilità/intelligenza nel saper fare. Il gruppo, ad oggi costituito da 16 membri1 e supportato da 38 aziende italiane e 2 straniere2, nasce dal convergere di tante realtà impegnate in un’unica missione, nata semplicemente dall’aver compreso che da soli è possibile fare molto poco, mentre insieme si diviene in grado di fare così tanto da soprenderci e sorprendere quanti dubitano il valore del NOI.

1. Riccardo Cotarella, Attilio Scienza, Fabio Mencarelli, Riccardo Valentini, Nicola Biasi, Cesare Catelli, Pierpaolo Chiasso, Maurizio Ciani, Maurilio Chioccia, Giuliano d’Ignazi, Franco Fierli, Marco Giulioli, Marco Mascellani, Raffaele Pistucchia, Nicola Tantini, Alberto Palliotti. 2. Cantine Monrubio (Umbria), Cantina Mito (Campania), Cantina Riccio (Campania), Colombo Antonio e Figli – Cascina Pastori (Piemonte), Carvinea (Puglia), Castello di Cigognola (Lombardia), Chateau de Frausseilles (Francia), Comunità San Patrignano (Emilia Romagna), Coppo (Piemonte), Di Majo Norante (Molise), Donnachiara (Campania), Falesco (Lazio-Umbria), Futura 14 (Puglia), Genagricola (Friuli, Veneto, Piemonte, Emilia), Guado al Melo (Toscana), Igreco - Fattorie Greco (Calabria), Kamel Farm (Giappone), La Guardiense (Campania), La Madaleine (Umbria), La Murola (Marche), Leone De Castris (Puglia), Montezovo (Veneto), Nuova Tenuta Paradiso (Umbria), Pucciarella (Umbria), Tenuta Coppadoro (Puglia), Tenute del Cerro (Toscana), S. Isidoro (Lazio), San Salvatore (Campania), Terre Cortesi Moncaro (Marche), Terre De La Custodia (Umbria), Trequanda (Toscana), Vallepicciola (Toscana), Valle d’Assisi (Umbria), Villa Matilde (Campania), Villa Sandi (Veneto).

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genetica della vite 64

do di produrre vini privi di solfiti aggiunti, tecniche divenute prassi per molte cantine ormai incamminatesi su questa via virtuosa. Importanti studi sono anche stati condotti sulla riduzione e gestione controllata dei trattamenti chimici in campo, con il positivo esito di portare questi ultimi a un’ottimizzazione dai risultati inaspettati. A essere in corso sono anche la sperimentazione sull’utilizzo di lieviti indigeni e quella sulla messa a punto di una viticoltura di precisione per ridurre sprechi, sforzi e risorse attraverso la gestione e il monitoraggio remoto del vigneto realizzato con specifiche App. Un ulteriore campo operativo, avviato dal WRT a partire dal 2016, è quello della genetica della vite, vero e propria tema “caldo” della viticoltura e dell’enologia. Sotto la guida di Attilio Scienza si è avviato lo studio del genoma, individuando cloni di vite e portinnesti che, particolarmente resistenti alla siccità e ad alte


L’eco del Cellini in un cesello fiorentino esclusivo

di Emanuele Pellucci

Non sono numerosissimi i marchi fiorentini della moda che, nell’ultimo mezzo secolo, hanno contribuito a far conoscere il made in Italy nel mondo. E i loro nomi sono diventati dei veri e propri must: da Ferragamo a Gucci, da Coveri a Cavalli fino a Daelli-Scervino. A questo ristretto gruppo, nel solco di una tradizione argentiera fiorentina in cui risuona ancora l’eco della creatività di

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Founded in 1955 by Brandimarte Guscelli at the Parco delle Cascine, in a site on the banks of the Arno, his products immediately made a name for themselves for two innovative aspects in silver workmanship. The first aspect, of a technical nature, consisted of “hammering” the metal, as he had seen the gypsies do with copper; the second was to encourage the use of silver in everyday household life, using it for commonplace tasks and thus breaking the tradition of silver as a luxury item only to be put on display.

Brandimarte


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tornare vecchi e nuovi clienti. E anche le richieste dall’estero ripartono alla grande”. Oggi nel ricco catalogo, oltre alla ricercatissima Collezione vino, figurano anche bracciali, anelli, collane, pendenti e medaglie raffiguranti alcuni storici personaggi fiorentini (Lorenzo de’ Medici, Machiavelli, Galileo, Dante, Leonardo, e ovviamente Brandimarte). Progetti futuri? “Poiché stiamo lavorando molto bene con gli Stati Uniti” – conclude Bianca – “vorrei aprire lì un concept store per far diventare il bere nell’argento una moda e, contemporaneamente, Brandimarte un marchio sempre più riconoscibile. D’altra parte, oggi se non sei un brand non sei nessuno. E siccome noi partiamo da un’idea geniale, dove c’è poca concorrenza nel settore, mi auguro che questo rilancio possa avere successo”.

Benvenuto Cellini, appartiene anche il brand Brandimarte. Fondato nel 1955 da Brandimarte Guscelli al Parco delle Cascine, in un fondo in riva all’Arno, fin da subito i suoi prodotti si affermarono per due aspetti innovativi nella lavorazione dell’argento. Il primo, di carattere tecnico, consisteva nel “martellare” il metallo, come Brandimarte aveva visto fare agli zingari col rame; il secondo nel proporre gli oggetti d’argento nella quotidianità della casa, usandoli comunemente e rompendo così la consuetudine dell’articolo d’argento come pezzo di lusso da esibire. “All’inizio” – ci dice la nipote Bianca, trent’anni e grande dinamicità, oggi alla guida dello storico marchio – “il suo lavoro fu perfino criticato. La gente dovette ben presto ricredersi perché la martellatura della lastra d’argento come la facevano lui e i suoi artigiani creava un effetto luminoso particolare”. Alla sua morte, avvenuta nel 1994, i figli Stefano e Giada ampliarono ulteriormente la gamma dei prodotti attraverso nuove linee: una di queste fu la Collezione vino nella quale, seguendo il trend di successo del settore vinicolo, trovarono posto decanter e bicchieri da degustazione in argento 925. “Nessuna invenzione in questo caso” –spiega Bianca – “perché in passato il materiale veniva usato regolarmente per i bicchieri; l’argento infatti, in quanto antibatterico, antibiotico, conduttore di calore ed esaltatore di aromi, è il metallo ideale per il consumo di cibi e bevande”. Proprio la Collezione vino permise alla famiglia Guscelli – Brandimarte era il nome di battesimo dato dai suoi genitori appassionati dell’Orlando Furioso – di ampliare ulteriormente i mercati. “La collezione nacque da un’idea di mio padre Stefano e di Klaus Riedel, grande acquirente dei nostri bicchieri d’argento, da lui utilizzati in modo esclusivo per bere vino. Da lì la creazione del nostro calice da degustazione, destinato ad avere un successo strepitoso. È ovvio che questo calice non intende sostituire un’icona qual è quella del bicchiere di cristallo, ma piuttosto consentire al vino di qualità di poter contare – oltre al cristallo – su un ulteriore e straordinario: quello dell’argento”. Se l’argenteria ha riscosso notevole successo fino al 2000 come articolo da regalo, nel decennio successivo l’aumento del costo della materia prima e il crollo nelle tendenze e nei gusti, specie dei giovani, ha provocato la crisi generale del settore. Oltre a questi fattori sono risultati determinanti anche la concorrenza estera e le sanzioni alla Russia, uno dei nostri migliori mercati. Tutto ciò ha portato Stefano Guscelli, nel 2016, a decidere la “morte” del glorioso marchio Brandimarte. Una grande perdita per l’artigianato fiorentino di qualità. Stefano però non aveva fatto i conti con la giovane figlia Bianca, che fin da quando aveva 6 anni frequentava il laboratorio, toccava il metallo, guardava e ascoltava, pur senza poter rivolgere domande. E una volta cresciuta, forte di quanto appreso dai viaggi col padre in giro per il mondo e di un’esperienza di lavoro da Chanel, proprio Bianca ha avviato una strategia per rilanciare il marchio Brandimarte. “Dopo pochi mesi” – ci dice entusiasta nel suo nuovo negozio nel centro storico fiorentino – “ecco che riesco a rientrare in possesso del marchio, a ricontattare gli artigiani che avevano lavorato con noi e a riprendere l’attività. La notizia della rinascita di Brandimarte, rilanciata da giornali e televisioni, fa


I love both Alberto’s certainty and courteous manner; he’s an authentic host, a wine afficionado, and lover of risotto, the preparation of which requires both knowledge and art, since “the real talent of the risotto master - and restaurateur of course - is demonstrated when 200 servings of perfect risotto can be created without even one mistake”. It is certainly one of the more difficult dishes for a chef to prepare, not only for Alberto Rocchi, but also for many other great chefs.

CANTINE DEL GAVI

Il fascino di una cucina tra Piemonte e Liguria

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di Giampietro Comolli


sidero sublime e punto di riferimento di un splendido territorio che per immagine non ha niente da invidiare ad aree vitivinicole italiane molto più blasonate. Del resto l’Italia è questa. Ogni pur piccolo e remoto territorio della nostra penisola racchiude una bellezza paesaggistica, una ricchezza enogastronomica e una capacità operativa delle genti che danno valore a entrambi. L’incontro con Alberto Rocchi, patron dal 2003 del ristorante Cantine del Gavi, a Gavi, lungi dall’essere casuale, è piuttosto il completamento di un percorso iniziato da chi ha il piacere di percorrere queste strade una volta lasciata l’autostrada A7 a Serravalle Scrivia, fra Genova e Milano, per arrivare al borgo antico di Gavi. Queste sono le terre

dove si rifugiava Giorgio Soldati, terre che rappresentavano una meta obbligata per i gourmand del tempo. Scendendo da via Mameli si incontra l’antico palazzo settecentesco, un tempo di proprietà di un facoltoso mercante genovese, in cui ha sede oggi il ristorante. Ambiente elegante con soffitti affrescati. I colori tenui danno sobrietà al tutto, così come lo storico arredo in legno e la saletta interna in cui è conservato l’altare della ex cappella di famiglia che guarda proprio il giardino-cortile esterno dal fascino antico. Si scende qualche gradino per arrivare nella cantina e alla vecchia ghiacciaia a volta in mattone, dove si trova “l’infernotto” con il tavolo per quelle degustazioni riservate ed esclusive di grandi vini

piemontesi che Alberto organizza per la sua clientela Mi piace la sicurezza e amabilità di Alberto, oste concreto, grande appassionato di vino e amante del risotto la cui preparazione richiede sapienza e arte poiché “la vera mano del “risottaro” – e del ristoratore, ovviamente – si vede quando crei 200 piatti di risotto perfetti, senza sbagliarne uno”. Certo è una delle preparazioni più difficili per uno chef e non solo per Alberto Rocchi, ma anche per molti altri grandi cuochi. È cosi da 40 anni, da quando Alberto Rocchi, con le figlie Roberta ed Elisa in cucina e Luca Maria Ivaldi da sempre maestro di cantina, conducono questa “nobile trattoria italiana”. Locali come questi,

di cui Cantine del Gavi costituisce un’alta espressione, dovrebbero essere riconosciuti come patrimonio immateriale dell’umanità, in quanto coi loro piatti danno lustro alla gastronomia nazionale, continuando a proporre ai loro ospiti esperienze gustative ormai quasi in via di estinzioni, E qui non si sbaglia, perché la cucina esalta ai massimi livelli profumi, sapori e gusti tipici di quel labile confine che esiste fra il Piemonte e la Liguria. Dai ravioli del tocco (uno diverso dall’altro) alla battuta di bue, dal fassone in griglia allo zabaione finale, solo per citare alcuni piatti, ci si trova sempre di fronte a preparazioni “vere”, realizzate con prodotti del territorio forniti da grossisti e piccoli produttori storici o da contadini selezio-

nati con cura. Ricette “di sempre”, rivisitate però con quella sagacia che solo il tempo plasma. In questi piatti traspare evidente l’importanza di essere, più che chef, cuochi e scalchi allo stesso tempo. Ad essere fondamentale è la ricchezza dei dettagli e la padronanza della materia prima, così come fondamentale è la ricerca dei prodotti dop e igp e il rapporto diretto che si crea con i loro produttori. Cantine del Gavi è un biglietto da visita e un punto di riferimento per il territorio. Non potete sbagliare e, anche se siete di passaggio, non esitate a fare una sosta per degustare un calice di vino Gavi di Gavi. E non potrete sbagliarvi, visto che il nome del vino, del borgo e del ristorante è lo stesso.

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Gigi Rizzi nel 1978 mi raccontava che aveva conquistato la bellissima Brigitte Bardòt grazie a una freschissima bottiglia di Gavi di Gavi etichetta nera. Non un caso, dato che viene da pensare che la bellezza richiede bellezza. Ed è così! Come potrebbe essere diverso del resto, se si nomina una delle donne più belle del mondo e il vino bianco piemontese per eccellenza? Vino che inspiegabilmente è decaduto in un anonimo limbo per essere ultimamente riesumato agli onori della critica enologica per merito della qualità e dell’eleganza gustativa del vitigno principe il Corte che caratterizza la produzione enologica dei 40 piccoli produttori associati al consorzio tutela Terre del Gavi docg. Vino che in certe sue interpretazione con-


REMO BUTI lottare per essere un architetto qualunque

his apprenticeship which would also nurture his love of painting. These were the years when he experimented with the techniques of glazing and colouring, of bright paints and stoneware that allowed him to perfect his very first objects such as earrings and body accessories and later on, plates, trays and vases.

Fin dai suoi primi anni di vita, Remo Buti inizia a giocare e fantasticare con l’argilla e la ceramica, sempre presenti in casa dato che il padre, come il nonno, lavora alla Richard Ginori di Sesto Fiorentino. Lasciati gli studi di geometra inizia a lavorare nello studio di Lucio Fontana come svuotatore dei pezzi. Gli incontri di questo periodo segneranno fortemente la sua formazione e il suo apprendistato che si nutrirà anche dell’amore per la pittura. Sono gli anni in cui sperimenta le tecniche dello smalto e del colore, delle vernici brillanti e dei gres che gli consentono di mettere a punto i primissimi oggetti come orecchini e accessori per il corpo, e in seguito, piatti, vassoi e vasi. Interrompendo ancora gli studi universitari di architettura, comincia a lavorare per la Bitossi di Montelupo, presso la quale conosce e frequenta due grandi maestri della ceramica come Aldo Londi e Bruno Bagnoli, e anche grazie all’incontro con Ettore Sottsass jr potrà spingersi verso altri territori di indagine alla ricerca di volumi semplici ed elementari.

Il suo avvicinamento all’architettura, rallentato da questa attività lavorativa, giunge alle prime ipotesi di progetto architettonico quando con Savioli, nel 1964, elabora la proposta di una Città lineare, un progetto megastrutturale che cerca di contrastare l’incapacità pianificatoria e il degrado politico, testimonianza della fiducia che il progetto possa ancora agire positivamente sul cambiamento e sullo sviluppo della città moderna. Dopo la laurea diventa assistente di disegno e rilievo dello stesso Savioli, poi passa a insegnare Arredamento e architettura degli interni, ma l’incontro con i Radicals fiorentini genera propositi diversi.

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From a young age Remo Buti began playing with and daydreaming about clay and ceramics. Leaving his studies as a surveyor, he began working in Lucio Fontana’s studio removing the fired pieces from the kilns OPPURE removing the pieces. The people he met in this period were to strongly influence his development and

di Paolo Rizzoli


ponendosi come soggetto neutro

plici compagni dello scorrere del tempo. In risposta a quell’eccesso di progetto che sembra permeare la comunità architettonica del periodo, si pone sul fronte opposto, con una richiesta, discreta ma forte, di sospensione e di riflessione. Sottrarre, levare, una lunga lotta per essere un architetto qualunque, superfluo, diventerà una linea guida, in una visione ascetica del progetto. La riduzione al minimo, l’interesse verso la soluzione più semplice ed efficace, scarnificata nella sua essenza, anche economica, l’azzeramento completo del problema progettuale, senza ansie storicistiche e ambizioni artistiche, lo conducono verso l’idea di uno spazio neutro. La messa in pratica di questa idea si materializza verso la metà degli anni settanta, progettando la ristrutturazione di casa propria, dove si spinge a formulare uno spazio asegnico, omogeneo, con le superfici trattate nello stesso modo e con lo stesso colore ‘grigio’, privo di sottolineature e contrasti. Questo volume uniforme si riempie e anima di persone, luci, colori, fiori, e pochi mobili. Dopo qualche anno riparte con il corso di arredamento, una piattaforma che favorirà la partecipazione insieme ad altri designer, con Mendini e Studio Alchimia direttori d’orchestra, alla mostra di Prato Conseguenze impreviste. Arte Moda Design, pietra miliare del nuovo corso del design italiano. Una mostra che con la collezione O.N. Oggetto Naturale annunciava “un’ipotesi per il prossimo futuro”, a testimonianza del cambiamento di statuto dell’oggetto industriale, non più meccanico, ma telematico e digitale. Sarà un design che non immagina attrezzi e corpi ingombranti, ma oggetti “leggeri, discreti, psichici, antimeccanicisti, quasi evanescenti e senza forma, da usare e comandare a voce o con un soffio”. Fra i vari concorsi cui partecipa, quello per la Stazione di Bologna, per Ca’ Venier e per il Ponte dell’Accademia alla terza Biennale di architettura nel 1986, sono il risultato di un lavoro collettivo portato avanti con i collaboratori del suo insegnamento e rappresentano anche diversi stadi di una ricerca dinamica e attiva. Il modello per il Ponte dell’Accademia in acciaio, se lo pensiamo in un’altra scala, è simile a un gioiello o, più tardi, a una maniglia, quella per il mobile Tabù della serie I Mirabili, ultima avventura di Sergio Cammilli con Poltronova.

Dal suo corso di arredamento, sono passati ogni anno centinaia e centinaia di studenti, per seguire argomenti sempre nuovi; da “Stanze pubbliche e private” a “La casa tonda”, “La casa a torre”, “La casa in linea”, “La casa verticale”, a “Soffitti luminosi” e “Discoteca”, sempre con l’obiettivo finale di realizzare un modello. Severo e intransigente, lucido osservatore della realtà progettuale, molto spesso il suo progetto è stato “a levare”, come per le borse disegnate per Nino Bossi: a che cosa serve infatti un manico alla borsa se posso portarla come un bracciale al polso? E così nascono questi gioielli della lavorazione artigianale in cuoio con diverse forme e colori. Eliminare l’eccesso, ripulire il più possibile, togliere ciò che è superfluo, fino al limite quasi di annullarsi come progettista e autore, come succederà con la sedia “S.M. numerata”, la famosa sedia di Mallet Stevens della fine degli anni venti, che fra varianti di seduta, imitazioni e differenti versioni è fra le più imitate e copiate per decenni ed è giunta fino ai giorni nostri. Remo Buti ne propone una versione numerata con la serie progressiva punzonata, rovesciando completamente il problema del produrre e del progetto. Sembra dirci: serve davvero un’altra nuova sedia? Se sì, eccola, esiste già, perché pensarne una nuova. E inoltre: esiste un autore? Ha proprio così importanza l’autore, è proprio necessario un ‘protagonista’? Un progetto, quindi, non di prodotto ma di concetto, che sposta le coordinate della riflessione. Questa severa passione civile per una corretta azione del progetto alla base dei suoi corsi, e la sua convinzione per cui “Non si va alla facoltà di architettura per sapere come si fa uno scanna fosso, ma per cercare di capire perché e per chi si fa un progetto”, hanno fatto di lui un maestro, riservato e asciutto, critico verso un protagonismo del design italiano, una voce fuori dal coro. Non insegnando un linguaggio o una tecnica da riproporre, ma ponendosi come soggetto neutro capace di accompagnare ognuno nella sua propria crescita progettuale, ha denunciato le zone d’ombra del progetto e del mestiere, con i suoi inganni e compromessi. Mettere in luce questo lavoro progettuale e didattico sarà la sfida che verrà affrontata con una mostra in fase di preparazione presso la facoltà di architettura di Firenze.

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Insofferente al ridondante e al non necessario, indisponibile ad accettare le rigide regole di metodologie e tipologie, capaci solo di dare luogo a un sistema di produzione progettuale seriale, reagisce – al concorso Trigon ‘71 dal tema Intermedia urbana – con un manifesto, firmato con Letizia Galli, Mario Preti, Franco Raggi e Giovanni Sani, da affiggere alle porte delle case della cittadina di Graz, che chiede di interrompere “alle 11.00 ogni attività per un minuto. Tutti sono pregati di seguire in silenzio la notifica”. Un punto e a capo che non gli impedisce di disegnare gioielli per Faraone Settepassi, Dunhill, Uno a Erre, accessori per il corpo, orecchini in ceramica, anche se la sua ricerca ormai segue un nuovo corso. “Recupero poetico dell’oggetto, superamento del funzionalismo che porta all’aridità dei processi creativi sottomessi a criteri produttivi, al semplicismo spirituale. Liberazione della fantasia, dell’esperienza esistenziale contro l’impostazione massificata di sistemi produttivi asettici e analitici e contro la tirannide del sistema economico competitivo” è il suo proposito. Così, lasciate le ipotesi megastrutturali, Remo Buti arriva allo spazio, vissuto ordinariamente, nel quale figurano pochi oggetti quotidiani: il piatto, il bicchiere, il vaso, la sedia, il tavolo, oggetti per il corpo, utili ma non appariscenti, muti come sem-


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Camera con vista… sulla torre pendente

La Torre di Pisa, “che pende, che pende e mai non vien giù”, è certamente una delle costruzioni più conosciute e famose al mondo. Il fascino di questo monumento, implementato anche dal marcato sbilanciamento che lo connota, va tuttavia ben oltre questa sua particolarità, legandosi allo stesso spazio in cui esso trova posto: quel Prato dei Miracoli che – così lo chiamò Gabriele D’Annunzio, per la sua sfavillante e armonica bellezza – si costituisce come un autentico ed esclusivo gioiello nella cui realizzazione l’italica creatività artistica ha saputo dare una delle più brillanti e stupefacenti prove di sé. Il fascino di questo spazio architettonico infatti, legato a costruzioni messe a punto in epoche diverse e solo nel corso del XIX secolo ripensato nella forma in cui si presenta oggi, nasce proprio dall’interazione che viene quasi magicamente a crearsi tra torre, duomo, battistero e camposanto. Col risultato di offrire un colpo d’occhio non solo unico al mondo, ma anche capace di catturare l’attenzione di chiunque, proiettandola senza difficoltà in un orizzonte in cui l’estetico e lo stupefacente trovano un equilibrio praticamente perfetto. Questo magico “prato”, oltre ad apprezzarlo mentre lo visiterete, potrà diventare l’imperdibile scenario del vostro soggiorno a Pisa se, nel corso di quest’ultimo, sceglierete come punto di partenza della vostra visita della città toscana il Pisa Tower Plaza Hotel di Allegroitalia Hotel & Condo. La Torre di Pisa, che entra a far parte del nome dell’Hotel come richiamo evocativo, sarà chiamata in questa struttura ricettiva a giocare però un ruolo ben più importante. Dalle finestre di un numero considerevole delle 122 camere dell’hotel sarà infatti possibile vedere questo straordinario monumento, usufruendo così di una vera e propria “camera con vista” sulla piazza dei Miracoli. Prenotare qui una stanza significa dunque non solo poter

pisa tower plaza hotel di allegroitalia hotel & condo

“The current tourism market” explains Vincenzo Natale, director of the Pisa Tower Plaza Hotel “requires that a fivestar hotel offers its clients additional services that are in keeping with the level of the establishment, together with extremely comfortable rooms and a gourmet restaurant geared towards excellence. For this reason, our hotel, in addition to being equipped with a conference centre and several meeting rooms fully equipped on a multimedia level, also boasts a pool in garden surrounds and a fitness area of over 100m2. Further, there is the opportunity, at a reasonable price, to visit the city and surrounding areas using fast and environmentally friendly e-bikes or, why not, a legendary Vespa 125, allowing guests to enjoy the Tuscan territory from a completely Italian perspective”.

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dalla bellezza della luminosa sala, resa unica dallo sguardo che la dischiude a una delle viste più suggestive offerte dall’arte italiana. Capace di ospitare fino a 250 persone, essa ha però il suo punto di forza nell’eccellenza della cucina guidata da Claudio Biondo. Chef giovane e brillante, forte di un’esperienza velocemente maturata su importanti tavole nazionali e internazionali, vi proporrà gustosissimi piatti legati alla tradizione toscana. Non senza però mancare di stupirvi per audacia e creatività con ricette originali e divertenti, ma sempre connotate da una raffinatezza in grado di valorizzare al meglio le materie prime su cui il ristorante punta e che gli consente di raccogliere il consenso non solo degli ospiti dell’hotel, ma anche di una clientela locale che ne apprezza le ricercate proposte. “L’attuale mercato del turismo”, spiega Vincenzo Natale, direttore del Pisa Tower Plaza Hotel, “richiede a un cinque stelle di offrire alla propria clientela, oltre a stanze estremamente confortevoli e un ristorante gourmet orientato all’eccellenza, anche servizi che siano in linea con il livello della struttura. Ecco perché il nostro hotel, oltre a essere dotato di un centro congressi e di

alcune sale riunioni completamente attrezzate sul piano multimediale, può contare su una piscina immersa nel verde e su una fitness zone di oltre 100 mq in grado di consentire a chi lo desideri, attraverso specifiche macchine, di tenersi in forma. Così come permette, a prezzi contenuti, di visitare la città o i dintorni servendosi di veloci ed eco-friendly e-bike o, perché no?, della mitica Vespa 125, in grado di far vivere il territorio toscano in una prospettiva tutta italiana. Non mancano poi interessanti convenzioni, che consentono ai nostri ospiti di giocare a golf o a tennis, di impegnarsi in adrenaliniche attività come l’arrampicata o il volo in parapendio o, infine, di immergersi nella pace della magnifica tenuta di San Rossore. Ciò che infine costituisce uno dei più apprezzati punti di forza del nostro hotel è la possibilità di usufruire dell’English Happy Campus: un vero e proprio campus in hotel dove i più piccoli possono imparare l’inglese divertendosi. E proprio ai bambini, dai 3 ai 9 anni, è riservato il Miniclub, mentre ai ragazzi, dai 10 ai 14 anni, è dedicato lo Junior club. Ovviamente con animazioni e intrattenimento adatti alle due tipologie di età”.

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piazza dei Miracoli e la Torre pendente. Tra queste suite poi, due si distinguono per la loro unicità e particolarità: la Suite spa che, dotata di zona living con affaccio sulla piscina, oltre a mettere a disposizione di chi la utilizza un letto matrimoniale king size e una grande terrazza contornata da eleganti fioriere, offre anche la possibilità di poter contare su un hammam interno e su un’intera area dedicata alle docce emozionali, perfetta per godere momenti di assoluto relax; la Suite amore che, arredata con un seducente divano rosso porpora valorizzato da un’ambiente di legni chiari, può contare, oltre che su un bagno a doppio accesso per l’ampia doccia, anche su un sistema di specchi collocati attorno al circolare letto girevole, in grado di far apprezzare, al meglio e in ogni momento, la splendida vista che si ha sulla parte più stupefacente di Pisa”. Ovviamente una struttura di livello come il Pisa Tower Plaza Hotel non potrà che contare su un ristorante gourmet di qualità elevatissima: il Ristorante Terrazza Pisa. La scelta di qualità del ristorante messo a disposizione della clientela dalla struttura recettiva pisana sarà già visibile

contare su spazi accoglienti e servizi di altissimo livello, ma anche immergersi nella città praticamente a tempo pieno, ponendo così le condizioni per poterne cogliere anche quelle minimali sfumature che solo la giusta distanza dalle cose, anche quando si tratta di opere d’arte del livello di quelle che una città come Pisa offre, consente di ammirare e apprezzare. Il primo punto di forza del Pisa Tower Plaza Hotel – ovviamente un cinque stelle – sono innanzitutto le camere, connotate in una prospettiva di moderna funzionalità da un’estetica accattivante in grado però di offrire un comfort estremamente elevato. Queste camere di diverse dimensioni, sono capaci anche di rispondere alle esigenze delle famiglie, sia quelle più piccole sia quelle più numerose, ospitando tranquillamente fino a quattro persone e consentendo

di poter contare su un ampio spazio anche per un quinto bimbo in culla. Non mancano inoltre alcune lounge suite, veri e propri appartamenti che rappresentano la soluzione ideale per chiunque desideri un soggiorno confortevole legato però a un periodo più lungo e quindi con l’esigenza di poter contare su spazi più ampi e accoglienti. Queste particolari stanze, anch’esse arredate in stile moderno e in linea con la contemporaneità, non solo dispongono di ampio soggiorno e di un angolo cottura, ma offrono anche patio privato o terrazza di cui fruire specie nelle stagioni meno fredde. “Il vero e proprio fiore all’occhiello del Pisa Tower Plaza Hotel”, spiega Piergiorgio Mangialardi, presidente e fondatore di Allegroitalia Hotel & Condo. “è rappresentato dalle nostre suite, tutte ovviamente con vista su quei gioielli artistici che sono la

o i ar n e c s e l i b i imperd


le suggestioni del vino in un viaggio 2.0 di Piergiuseppe Bernardi

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If you think of a museum, at least in the traditional sense of the word, you’d be on the wrong track. What awaits you in Priocca, in the part of the Roero separated from the Langa del Barbaresco by the wide valley carved out by the waters of the Tanaro River over thousands of years, is a decidedly innovative experience: a kind of unprecedented 2.0 journey in the complex world of wine.

ondodelvino S.p.A

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L’avvio di questo viaggio rappresentato da un suggestivo excursus, realizzato nella forma di un breve filmato e proiettato su un megaschermo. Il tema è quello della dimensione simbolica con cui fin dall’antichità venne rivestito quello che, almeno ad un primo sguardo, potrebbe essere considerata come una semplice bevanda o alternativamente come una sorta di corroborante alimento aggiuntivo. Questa serie di rapidi fotogrammi, che trova nel cromatismo dorato dei corpi e dei volti umani un file rouge capace di imprimere loro una profonda unità, risulta decisamente efficace. Chi lo guarda, lasciandosene coinvolgere, si ritrova proiettato in una storia del vino in grado di esplicitarsi come storia della cultura umana stessa: quella in cui le radici del nostro stesso presente sono venute consolidandosi nel corso dei secoli in una prospettiva che, articolando creatività e rigore, ha saputo dar vita a saperi e tecniche che hanno coinvolto ogni aspetto della vita umana. Non senza peraltro trovare proprio nel vino un elemento capace di fare da sfondo a questo sempre più vorticoso sviluppo. A narrare questa avvincente storia è una voce d’eccezione: quella immaginaria di Ulisse. Protagonista senza tempo di ogni possibile viaggio, sarà lui a tratteggiare un conciso percorso del ruolo giocato dalla vite e dal vino nel succedersi e nell’integrarsi delle culture cui l’Europa deve il suo lento prender forma. Ecco allora materializzarsi visivamente i grappoli perennemente maturi delle vigne che rendevano unico il giardino di Alcinoo e la ciotola di nero vino offerta da Odisseo a Polifemo con l’intento di ubriacarlo e sfuggire alla sua prigionia; ecco ancora il

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Se pensate ad un museo, perlomeno nel senso tradizionale del termine, siete decisamente fuori strada. Quella che vi aspetta a Priocca, nella parte del Roero separata dalla Langa del Barbaresco solo dall’ampia valle scavata nei millenni dalle acque del fiume Tanaro, è un’esperienza decisamente innovativa: quella di una sorta di inedito viaggio 2.0 nel complesso mondo del vino. Un viaggio proposto – forse non a caso – da Mondodelvino S.p.A., gruppo vitivinicolo ed enologico che ha scelto di trasformare quella che avrebbe potuto essere una più o meno efficace degustazione in una vera e propria wine experience. Un momento cioè in cui non limitarsi semplicemente a degustare, a seconda dei propri gusti, un calice di bianco o di rosso, di frizzante o di corposo; ma in cui invece abbandonarsi a quella che è stata immaginata come un’autentica full immersion nell’universo del vino. Proprio quel vino che oggi è divenuto tanto apprezzato da richiamare l’attenzione di un numero sempre crescente di estimatori, in una situazione tuttavia in cui troppo spesso questo apprezzamento non appare supportato da un’adeguata conoscenza al riguardo.

la suggestione del viaggio…

prender forma dell’ebbrezza da cui Mosè è assalito dopo aver abusato del frutto della vite e del miracoloso trasformarsi dell’acqua in vino alle nozze di Cana; ecco infine il profilarsi dello sforzo dei monaci medievali nel dar vita a quella che sarebbe successivamente divenuta la viticoltura e dell’esplosività del suo moderno trasformarsi in un vero e proprio must sociale. Il tutto in una prospettiva estetica perfettamente in linea con l’idea di Alfeo Martini, fondatore di Mondodelvino S.p.A., di inserire tra i pilastri della strategia aziendale del gruppo la bellezza a tutto campo. Ben presto la suggestione del viaggio storico sfumerà in una serie di giochi interattivi cui sarete chiamati a partecipare, mettendovi magari in competizione con chi sta vivendo con voi questa inedita wine experience. Il primo di questi giochi, beninteso serissimi oltre che multimediali, comincerà a mettere alla prova la vostra conoscenza di quattro territori del vino, quelli in cui con le sue realtà aziendali è presente il gruppo Mondodelvino S.p.A.: il Piemonte, l’Emilia Romagna, la Puglia e la Sicilia.

Ovviamente, anche in questo caso, legando la storia del vino alla cultura, all’arte e all’innovazione che caratterizzano nello specifico queste diverse regioni. Sar invece sui vitigni che si concentrer il gioco successivo:


e scoprirete quanto sia arduo, pur avendo magari una certa esperienza di vino, individuare anche soltanto la grandezza dei loro acini o le loro zone di dislocazione.

E non mancher nemmeno, almeno per i bambini, la possibilit di sperimentare in diretta l’emozione ormai remota di un’insolita pigiatura virtuale a piedi nudi, quella che in versione naturale per i nostri nonni rappresentava qualcosa di assolutamente ordinario. senza essere intervallati da spazi finalizzati ad approfondire sia le metodologie attraverso le quali l’uva si trasforma in vino sia la rilevanza che sta sempre più acquisendo in questi processi la dimensione della sostenibilità ambientale. Sarà così il momento di cominciare a scoprire i vini servendosi di naso e palato per identificare il diverso presentarsi, nel loro evolvere attraverso le varie fasi di una degustazione, di profumi ed aromi. O di impegnarsi a coniugare fantasia ed esperienza per azzardare più o meno azzeccati abbinamenti sui piatti, purtroppo tutti virtuali, che si materializzeranno sui touch display che avrete davanti. Dimostrando ovviamente a voi stessi o a chi vi accompagnerà le effettive capacità che, acquisite e divertendovi durante il percorso, potrete infine utilizzare concretamente, questa volta davvero sul campo, nel corso della degustazione guidata che vi verrà proposta e che sarà incentrata su alcune etichette del il gruppo Mondodelvino S.p.A. “Il progetto cui abbiamo voluto dar vita – sottolinea Enrico Gobino, marketing manager di Mondodelvino S.p.A. – è stato quello di creare, all’interno di una cantina, un percorso volto a far conoscere il vino nel suo complesso. Certo le aziende del gruppo sono state valorizzate, inserendole come esempio all’interno del percorso stesso, senza tuttavia mai dimenticare l’obiettivo principale: fornire a chi viene a fare una degustazione da noi una sorta di piacevole introduzione a un universo, quello del vino, oggi divenuto persino di moda, e tuttavia non così conosciuto come si potrebbe credere a prima vista. Proprio per questa ragione abbiamo scelto non solo di adottare un registro comunicativo molto facile, ma anche di connotarlo in una prospettiva di gioco, in modo da renderlo leggero e fruibile da chiunque decida di vivere questa specifica wine experience. Il tutto ovviamente contestualizzato in un territorio, quello del Roero e delle Langhe, nel quale il viaggio 2.0 che offriamo rappresenta non solo qualcosa di estremamente innovativo, ma anche un’opportunità inedita per un’area nella quale il vino riveste un ruolo del tutto centrale”.

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I giochi, che vedranno il loro tratto multimediale implementato in una prospettiva questa volta multisensoriale, saranno destinati a continuare. Non


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As I drive through the neat Sella & Mosca vineyards, with the majestic Alghero still in mind, I think how much its name has meant for Sardinia’s oenology: the extensive presence of a name deeply connected to the island; an indefatigable

consistency on all its labels, at every level. The value of this heritage is too great to simply be attributed exclusively to tradition, it is a secular story of foresight and work that is revived in innovation.

La bellezza della Sardegna in un grappolo

di Riccardo Margheri Con ancora la maestà di Alghero nella mente, mentre attraverso in auto gli ordinati vigneti di Sella & Mosca, penso a quanto questo nome ha significato e significa per l’enologia della Sardegna: la presenza capillare di un nome riconducibile all’isola; una consistenza qualitativa indefettibile su tutte le etichette, ad ogni livello. È un’eredità il cui valore sarebbe troppo semplice

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Sella & Mosca

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Vittorio Moretti e Francesca Moretti, padre e figlia ricondurre esclusivamente alla tradizione, che non deve essere né pietrificata né fine a se stessa: una storia secolare di lungimiranza e lavoro si vivifica nel rinnovamento. È esattamente questa l’impressione che ritengo quando attraverso il cancello della tenuta di Alghero: la più grande del gruppo e una delle più estese d’Europa. Alle pareti della sede aziendale, mentre nella foresteria fervono i lavori di ristrutturazione, oltre i ritratti dei fondatori, trovano posto anche le foto d’epoca di un lavoro pluridecennale per la regimazione idrica. A fronte però di un’affascinante cantina storica per l’affinamento, quella che oggi si visita è invece una struttura moderna ed efficiente, frutto di importanti investimenti in tecnologia fatti in tempi non sospetti. Concetti innovatori come la vinificazione parcellare furono qui adottati con convinzione ante litteram. Così come la struttura per l’innesto delle barbatelle, che ha preservato l’inarrivabile patrimonio di vitigni autoctoni dell’intera Sardegna, quando l’idea della valorizzazione territoriale era ancora quasi sconosciuta. La nuova proprietà, ovvero il gruppo Terra Moretti, ha abbracciato pienamente questa filosofia, sintesi virtuosa tra storia e tradizione da un lato e attenzione agli ultimi sviluppi della viticoltura e dell’enologia dall’altro, al fine di produrre vini espressivi del vitigno e del comprensorio da cui provengono, nella prospettiva di una superiore eleganza.

Frutto di questo estremo rigore risuonerà con forza nei vini. Degli spumanti, innanzitutto: il Torbato, vitigno di spiccata acidità e delicati profumi floreali che ben si adatta alla spumantizzazione metodo Charmat; l’Oscarì, per adesso affinato per 12 mesi sui lieviti, col risultato di far trasparire finezza del perlage, volume al palato, saporosità e persistenza; Terre Bianche Cuvée 161 infine, espressione nobile del Torbato stesso affinato sui lieviti e in legno per una parte della massa, in grado di sviluppare un’avvolgenza salina che evoca immediatamente la macchia mediterranea. Classica espressione dei vitigni e della loro espressione territoriale è il Tanca Farrà, riuscito blend tra il nerbo strutturale del Cabernet Sauvignon e le sfumature aromatiche dei vitigni locali. Capace, per profondità gustativa e facilità, di superare tutti gli stereotipi sulla pesantezza dei vini isolani, è contraddistinto da una nettezza di frutto che si esprime all’olfatto per poi ritornare intonsa al palato, prolungandosi in un’inattesa persistenza. Un esempio lampante di come da parte di Sella & Mosca le varietà internazionali vengano brillantemente reinterpretate in funzione del loro potenziale e portate ad esprimere al meglio le caratteristiche del territorio, se non addirittura della vigna, di riferimento. Un ruolo di primo piano, tra i grandi Cabernet Sauvignon italiani, viene giocato poi dal nobile Marchese di Villamarina, nato in un momento nel quale i Supertuscans attiravano l’attenzione della critica internazionale sul Bel Paese, e in cui l’aspirazione di tutta l’Italia enoica era creare un Bordeaux di casa nostra, ovvero un fuoriclasse che migliorasse con il tempo. Le emozioni suscitate da questo vino, nel corso di una degustazione verticale di vecchie annate spinta fino agli anni novanta, ha saputo regalare emozioni straordinarie: la sua fisionomia ci è sembrata rispecchiare quella di un vino del Nord per freschezza, presenza in filigrana dei tannini, compiutezza di equilibrio. ricercata evoluzione dei profumi. Non “una virgola fuori posto” per questo pellegrino d’Oltralpe trasferitosi felicemente in terra sarda a declinarne il genius loci: nella fattispecie un terroir variegato, ove la possanza conferita dalle argille ferrose sfuma in una seducente.

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Non è un caso che tutte le pur numerose etichette aziendali escano come prodotti a denominazione di origine, senza cedere alle lusinghe di una indicazione geografica tipica meno caratterizzante e meno restrittiva nelle sue regole.


...una storia secolare di

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Il legame di Sella & Mosca con l’anima più profonda dell’isola è sottolineato anche dalla recente uscita di una nuova linea di prodotti con le etichette disegnate dall’artista contemporaneo Antonio Marras. Quattro vini, ognuno dedicato a un personaggio immaginario che rappresenta un aspetto dell’anima della Sardegna in generale, e di Alghero in particolare: il già citato spumante Oscarì, nel quale a rispecchiarsi è l’emigrante ricco che ha fatto fortuna e giustamente si compiace della sua eleganza; il Vermentino Ambat, dedicato a due gemelli marinai che conoscono il mare e le tempeste; il Torbato Catore, proveniente da un paese di collina battuto dai venti e il cui nome evoca un pugile sardo (Ca-tore da Ca-ssius Clay e dal campione sardo Tore Burruni); il Cannonau Mustazzo infine, che richiama “lo sguardo che sa incantare” di un bandito impenitente di Mamoiada con un vino rifinito, balsamico, saporito, profondo, dalla beva irresistibile, figlio di una zona nella quale, non fosse altro per la quota dei vigneti, questa varietà si esprime con caratteri irripetibili altrove. Anche gli altri classici sardi, Vermentino e Carignano, sono interpretati da Sella & Mosca in maniera non scontata, ma non per

questo meno autentica. Ad esempio, il summenzionato Ambat integra deliziosamente il legno usato nell’affinamento (tutt’altro che consueto nel Vermentino), stupisce all’olfatto per note agrumate e moltiplica la lunghezza del sorso con la propria salinità, con richiami finali di erbe aromatiche. Il Carignano Terre Rare, dal sabbioso Sulcis, smentisce la scontrosità troppo superficialmente associata a questo vitigno con la finitezza del tannino e l’opulenza del frutto, cui si abbinano riconoscimenti di fiori appassiti. C’è un denominatore comune in tutta questa cornucopia di vini e sensazioni: un’identità aromatica e gustativa, fine ed elegante, che è figlia di un’esperienza costantemente coniugata all’innovazione. Il monumento a questa storia, vivificata dal proprio rinnovamento, è il monumentale Anghelu Ruju: questo Cannonau passito e fortificato, risposta nostrana ai vins doux naturel francesi, si fa beffe del tempo come dimostra uno splendido 1979 dalla complessità infinita. È come la Sardegna: da più di 2.000 anni, dall’epoca dei nuraghi, non smette di affascinarci, e oggi arricchisce le nostre emozioni. A Sella & Mosca lo sanno bene: nei vini è l’anima di una terra che ci parla.

lungimiranza e lavoro


di Claudio Mollo

Con l’aiuto delle Apuane

di Roberto, che, nel lontano 1915, la fonda per produrre vino, olio e ortaggi: una tipica attività familiare ligure. Nel 1993 Roberto, affascinato dall’agricoltura sin da quando era bambino, prende in mano il timone e concentra tutti gli sforzi e gli impegni sulla viticoltura e la produzione di quel vino che sui Colli di Luni stava iniziando

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Sono ormai due decenni che Roberto Petacchi, titolare dell’Azienda agricola Giacomelli, lavora nei Colli di Luni per affermare con vigore una scelta produttiva orientata su vini sempre più caratterizzati e originali, con un preciso denominatore che coniuga finezza ed eleganza. L’azienda Giacomelli nasce e prende il nome dal nonno

a fare i primi passi verso la notorietà e la qualità. Con pazienza, ha gradualmente selezionato, acquistato e reimpiantato dieci ettari di vigneto, principalmente con cloni di vermentino, ma sono presenti anche uve di malvasia, sangiovese e canaiolo, in posizioni anche paesaggisticamente invidiabili, intorno a Castelnuovo Magra e Ortonovo. Condizioni di terreno così diverse rendono unici i vari vini prodotti oggi dall’azienda, una prerogativa degli impervi terrazzamenti presenti che contribuisce alla qualità dei risultati finali. L’impegno messo in questa bellissima avventura viene sancito nel 2015 da un importante premio, ricevuto dall’allo-

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Azienda Agricola Giacomelli: l’eccellenza del Vermentino sui Colli di Luni

The Giacomelli company was founded in 1915 by Roberto’s grandfather (from where it also takes its name) to produce wine, oil and vegetables: a typical Ligurian family activity. In 1993 Roberto, fascinated by agriculture since he was a child, took the helm and since then has focused his efforts entirely on viticulture and the production of the very wine that was beginning to take its first steps towards reputation and quality.


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“Il rispetto della natura e delle tradizioni” – racconta Roberto Petacchi – “significa per noi la tutela di un patrimonio, adottare i migliori metodi di lavoro disponibili per ottenere prodotti di alta qualità col minor impatto ambientale, senza chiuderci però in gabbie ideologiche. Abbiamo una caldaia a biomassa che ci permette di riscaldare l’intera azienda e le abitazioni con il recupero degli scarti della potatura della vite e dell’olivo, e con il guscio dei pinoli delle pinete costiere. Nel vigneto cerchiamo di mantenere un equilibrio affinché gli interventi dell’uomo siano minimi

e poco invasivi, con attrezzature all’avanguardia, ma senza l’uso di diserbanti: la lotta integrata è una pratica di difesa delle colture che prevede una drastica riduzione dell’uso di fitofarmaci”. I vigneti con nomi blasonati, come Boboli, ricovero naturale di uno dei cru aziendali, godono di posizioni privilegiate, o come il Giardino dei Vescovi, che dà il nome al vigneto e al cru

più pregiato, ed è incastonato proprio a fianco di Castelnuovo Magra, con una vista mozzafiato. Vini e terreni felici in grado di offrire grandi prodotti, con le Apuane a fianco, pronte a temperare i periodi più caldi e i venti marini che salgono su per i pendii, pronte a fare la loro parte, regalando finezza ed eleganza ai vini dei pochi fortunati che producono sui Colli di Luni.

Colli di Luni

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ra ministro dell’agricoltura per la sua dedizione alla viticoltura, e attribuito ogni anno durante la fiera del Vinitaly a un solo viticoltore per regione italiana.


Corte Bianca

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The small organic farm in Provaglio di Iseo, part of a project supported by the Franciacorta Consortium, is the ideal setting where the fruit ripens on the vines between hedges and thickets, in a quiet and largely undisturbed atmosphere. This ideal theatrical ambience has inspired its owners Marina Tonsi and Mauro Franzoni to experiment, both in the vineyard and in the cellar, with techniques aimed at improving both the environment and the quality of their sparkling wine.

biodiversitĂ funzionale

di Clementina Palese


la salvaguardia di ambiente e salute da una parte e la qualit dei prodotti dall’altra.

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Da sinistra: Marina Tonsi, Pierluigi Donna, Enrico Marchesini e Mauro Franzoni

A Corte Bianca, in Franciacorta, si sperimenta la “biodiversità funzionale”: lo studio e il monitoraggio di ciò che accade nel vigneto dopo la semina di piante erbacee in grado, con il loro nettare, di attrarre insetti utili e di contribuire a migliorare sia l’ecosistema sia la qualità delle uve e del vino. La piccola azienda biologica di Provaglio di Iseo, nell’ambito del progetto promosso dal Consorzio Franciacorta, si costituisce come una sorta di

teatro ideale dove i vigneti maturano i loro frutti tra siepi e boschetti, oltre che in un ambiente silenzioso e poco disturbato.

Ed è in questo teatro che ha trovato concretezza la propensione della proprietà – Marina Tonsi e Mauro Franzoni – a sperimentare in vigneto e in cantina tecniche volte migliorare, contemporaneamente, l’ambiente e la qualità dei proprie bollicine. “Siamo più che convinti – chiarisce Marina Tonsi - che i risultati della ricerca possano davvero migliorare ciò che noi produttori facciamo. Così, se abbiamo investito fin da subito sul biologico, è perché riteniamo fondamentale ridurre l’impatto sull’ambiente e tutelare la salute, a partire da quella di chi, come noi, vive in azienda. E, se abbiamo aderito a queste prove di biodiversità funzionale che porteranno il biologico oltre le prescrizioni dei disciplinari, è perché pensiamo che ci sia ancora molto da conoscere e da migliorare Certo non è facile destreggiarsi tra le informazioni vere e false che circolano in rete, senza filtro, anche sul ‘fare bio’. Per questo è più che mai necessario che fare uno sforzo per trasferire agli appassionati informazioni, concetti e nuove prospettive, come nel nostro piccolo cerchiamo di fare organizzando a Corte Bianca, durante il Festival del Franciacorta, un momento culturale, nell’edizione appena conclusa dedicato appunto alla biodiversità funzionale”. “Al bio – precisa Pierluigi Donna di Sata Studio Agronomico – viene spesso rimproverato di non poter sfamare il mondo. Nel caso però del vino le priorità sono altre:

Il futuro dovrà dunque camminare sulla strada della conoscenza e della comprensione delle alternative alla chimica. La biodiversità è un elemento cardine di questo corso. Laddove essa è maggiormente elevata il vigneto risulterà più equilibrato e produrrà vini migliori: un caso che, secondo i nostri dati raccolti in oltre 100 vigne dal Nord al Sud Italia, si verifica nei cru da cui si producono le riserve”. A un anno dall’inizio della prova a Corte Bianca, non ci sono ancora risultati evidenti. I tempi, nella biologia, sono lunghi. “Siamo certi” – sottolinea Mauro Franzoni – “che il nostro impegno avrà un esito positivo, consentendoci di migliorare ancora. Le 12.000 bottiglie che produciamo, in decisa controtendenza con quanto avviene in molte realtà vitivinicole, sono destinate a diminuire, per consentire alla qualità di crescere e di tradursi in vini sempre più selezionati.

Così, se le tipologie extra brut, satèn e rosé appaiono nelle nostre etichette solo come millesimati o, nelle annate particolari, come riserve capaci di enfatizzare la longevità dei nostri Franciacorta, non abbiamo mancato di piantare, negli appezzamenti più adatti, del Pinot nero. E il nostro primo blanc de noir sta già riposando sui lieviti”.


Franco Spaggiari, a steel industry entrepreneur from Emilia, wants to make the world a more beautiful place, restoring historic and artistic dignity to some of the most important castles of the Grand Duchy of Parma and Piacenza: Saint Peter’s Castle in Cerro, home to authorised copies of the terracotta warriors of Xi’an as well as the MiM, a temple of contemporary art; and Montonaro Castle.

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Va dritto al sodo Franco Spaggiari, imprenditore siderurgico di Piacenza, quando parla di quelli che considera i suoi “figliocci”: i castelli. Lui, che di figlie ne ha due, Francesca e Costanza, ha trasformato la sua innata passione per l’antiquariato in un hobby alternativo caratterizzato da una forte componente sociale: collezionare castelli, meglio ancora se da restaurare, per restituire alle strutture fascino, dignità storica ed artistica da condividere, naturalmente, con i visitatori.

L’uomo che colleziona castelli

di Monica Di Pillo

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“È lui che ti chiede come essere restaurato, basta osservarlo e ascoltarlo”.


innamorato del progetto e lo ha sposato in pieno, curando una serie di mostre, sponsorizzate dalla mia azienda, che nel corso degli anni mi hanno portato a collezionare oltre 1500 opere d’arte contemporanea.

E poi c’è una sorpresa ispirata alla Cina nel castello?

Come è iniziata questa insolita forma di collezionismo?

Ho sempre avuto un grande amore verso gli oggetti antichi. Quando ero molto giovane, e le mie finanze non mi consentivano grossi slanci versi i mobili antichi, facevo il giro dei rigattieri e compravo gli oggetti con lo scopo di ridare loro una seconda vita. Avevo 24 anni quando ho acquistato una casa in campagna e l’ho arredata con pezzi presi qua e là, scovati nelle botteghe di mezza Emilia. Pezzi testimoni della tradizione contadina della mia terra. E così, via via, ho iniziato a mettere in pratica quel sentimento di amore e rispetto verso l’antico, che è patrimonio del mio Dna. Quando le mie finanze me lo hanno consentito ho acquistato pezzi di antiquariato, mobili e oggetti d’arte, con lo scopo di ammirarli e farli ammirare. Certo, in una casa privata, sono familiari e amici i principali fruitori. Volevo fare di più, per la mia regione.

Quando ha acquistato il suo primo castello?

Era il 1992, un giorno come tanti, quando vengo a sapere che uno dei più bei castelli del granducato di Parma e Piacenza, il castello di San Pietro in Cerro, appartenuto per 500 anni alla famiglia dei Barattieri, era

in vendita. Il castello, di origini medievali probabilmente avamposto piacentino contro le incursioni dei cremonesi, era rimasto per secoli muto testimone delle vicende di un territorio di cui mi sento parte Così non ho resistito al fascino di questo maniero e della sua storia. A prevalere è stasto il mio amore per l’antiquariato, che mi ha indotto, nel 1993, ad acquistarlo. I Barattieri usavano il castello solo nei mesi estivi, ma la maestosità della struttura imponeva comunque una grande manutenzione e un’opera di restauro.

Ha pensato fin dall’inizio di trasferirsi a vivere lì?

Certo che no. Un castello di 33 stanze non era proprio l’abitazione che cercavo. Il mio obiettivo era piuttosto restituirlo al suo antico splendore, farlo ammirare e renderlo fruibile a tutti. Per farlo, però, era necessario un restauro della struttura. Un restauro conservativo durato 15 anni, di cui i primi 4 o 5 sono trascorsi nell’ottenere permessi e autorizzazioni. Dopo alcuni lavori tuttavia ne abbiamo abbiamo già aperto una parte al pubblico, affascinato da questa imponente struttura, nascosta per secoli agli occhi dei visitatori. È il castello che ti chiede come essere restaurato e conservato, basta ascoltarlo e osservarlo. Ed è cosi che ho fat-

La la sua collezione di castelli però non si ferma a San Pietro

in Cerro, perché di recente ne ha acquistato un altro?

Sì. Non ho resistito al grido di aiuto di uno dei più grandi e bei castelli del ducato di Parma e Piacenza: il Castello di Montanaro, che vanta 75 stanze e il parco intorno, nel comune di San Giorgio piacentino, vicino a Carpaneto. Un castello, a pianta rettangolare, con mura possenti e robuste torri squadrate agli angoli. Così quando nel 2008 la struttura è andata all’asta e per un paio di volte nessuno ha presentato delle offerte di acquisto, ho chiamato a raccolta un paio di amici per compralo e ristrutturarlo. In realtà è andata a finire che all’asta ho partecipato da solo e il Castello di Montanaro l’ho comprato io. Ottenuti i permessi necessari, a breve dovrei iniziare i lavori di restauro, per poter aprirlo al più presto ai visitatori.

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Sì. Nella penombra dei sotterranei è allestita la mostra permanente di quaranta statue a grandezza naturale dei Guerrieri di Xi’an, riproduzioni certificate dal governo cinese, dichiarate patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Le statue di terracotta le ho iniziate a comprare durante un mio viaggio in Cina, in occasione di una fiera a Canton, un mio amico cinese mi ha portato a visitare uno stabilimento di un produttore di calchi di dinastie autorizzate del governo cinese. Riproduzioni realizzate grazie a

una licenza ottenuta direttamente dall’ultimo Imperatore, tramandata di generazione in generazione fino al 1993, quando il governo cinese ha vietato la riproduzione di calchi. Ho deciso di acquistare alcune di queste statue, fedeli riproduzioni dei Guerrieri di Xi’an, realizzate prima del 1993 e commissionate dal governo cinese per esporle in giro per il mondo al posto degli originali. Ne ho comprate prima alcune e poi le ho comprate tutte. Sono 40 e sono schierate in processione proprio come lo erano nel III secolo a.C., quando furono poste a guardia del sepolcro monumentale di Qin Shi Huang, il primo imperatore che unificò la Cina sotto il suo unico e incontrastato potere.

to, ho rispettato fedelmente le sue origini. Nel 2016 il castello, con mia grande soddisfazione, ha vinto il Premio “Piero Gazzola” per il miglior restauro del patrimonio monumentale piacentino. Ora il castello è aperto al pubblico per visite guidate tutte le domeniche, da marzo a novembre, oppure su prenotazione per gruppi tutto l’anno.

Lei però è anche un collezionista d’arte contemporanea. Come ha messo insieme la passione per l’antico e quella per il contemporaneo?

Da sempre amo l’arte contemporanea, ma anche in questo caso, la mia collezione è iniziata per la voglia di far emergere i giovani talenti artistici. È accaduto che a Castell’Arquato, gioiellino del piacentino, negli anni novanta le aule dell’ex tribunale fossero state trasformate in una pinacoteca per esporre le opere di giovani talentuosi artisti. Con la mia azienda ho sponsorizzato questo ciclo di esposizioni e, per puro mecenatismo, ho voluto che a curare la collezione fosse uno dei critici d’arte più famosi al mondo: Pierre Restany. Un giorno ho contatto la sua segretaria e le ho parlato del progetto di un ciclo di mostre all’ex tribunale di Castell’Arquato. Restany, che aveva curato la collezione del Getty Museum si è

…un grande amore verso gli oggetti antichi…


gastronauta

Paolini has become a reference point for thousands of taste hunters for whom food is transformed into an instrument of knowledge, of discovering histories, traditions, places, people and landscapes. “For me the raw material counts, not as an end itself, but in the way it is tied to history and culture and to the people that revolve around it. For this reason, the thing I love most is talking with those who produce those goods rather than a great chef that transforms them”.

Davide Paolini, giornalista e critico enogastronomico, è un uomo che ha avuto più di una vita. Lo si capisce parlando con lui, sentendo le mille storie e gli aneddoti che come matrioske si dischiudono l’una dentro l’altra, a volte fugaci e rapide, altre volte dense e ricche di colore. “Ricordo quando portai Umberto Agnelli in Champagne per un tour, nel quale gli feci scoprire il territorio e alcuni produttori. Per sdebitarsi mi regalò un Petrus del ’64, che conservo ancora in cantina”. I ricordi di Paolini attraversano un tratto di storia enogastronomica del nostro paese, tanto da immaginarcelo, ancora universitario, andare a bere un calice di vino con Sergio Manetti all’enoteca Pinchiorri, “quando era una semplice enoteca, ben lontana dalle tre stelle Michelin e dall’attuale fama, e quando Sergio era già un industriale di successo, ma non aveva ancora iniziato a produrre il Montevertine, anche se era un grande appassionato. Nessuno di noi sapeva ancora che ci saremmo occupati di vino, anche se in ambiti diversi”. Un uomo dalle passioni forti: il cibo, il vino, il Milan, del quale non si è mai perso una Coppa dei Campioni allo stadio, in compagnia degli amici di sempre. “Ricordo le partite di Champions League con Maurizio Zanella di Ca’ del Bosco, Antonio Santini di Al Pescatore e Giacomo Bologna che, pur essendo juventino, pur di andare a mangiar fuori insieme nel dopopartita non esitava ad accompagnarci”. Delle molte vite vissute da Paolini, la prima è legata a una famiglia che sin da bambino gli ha lasciato un imprinting gustativo legato ai sapori forti. Per questo le animelle, la trippa e il cervello gli risultano di gran lunga più seducenti del filetto, e le lasagne verdi col ragù classico della nonna rappresentano per lui una sorta di madeleine. Una memoria gustativa destinata a diventare una sorta di irresistibile canto di una sirena che lo ammalierà senza tregua, condizionando anche ampiamente la sua seconda vita, quella da giornalista professionista, vissuta dapprima alla Nazione di Firenze e poi al settimanale Il Mondo. La terza vita, quella fatta di aerei presi e di valigie sempre pronte, Paolini la comincia nei primi anni ottanta al Gruppo Benetton, dove è direttore relazioni esterne e fonda il progetto Benetton Formula 1. “Sono gli anni più intensi e frenetici della mia carriera nel Gruppo, dove ho potuto vedere luoghi da sogno e provare i migliori ristoranti del mondo”. Un globetrotter, Paolini, che mantiene in quegli anni sempre salda la passione per l’enogastronomia e il giornalismo, tanto che dall’83 firma la rubrica “A me mi piace” del Sole 24 Ore, in edicola a tutt’oggi con l’inserto della domenica, per il quale scrive oltre 2000 articoli in venticinque anni. Il cambio di rotta

avviene nel 90, quando esce dal gruppo Benetton per fondare una sua agenzia di comunicazione. Il richiamo della sirena, quell’imprinting legato al piacere del cibo e del vino che canta in lui da sempre, diviene sempre più irresistibile. A prendere forma è così un’altra vita, quella del Gastronauta, che l’ha portato a scrivere migliaia di articoli e innumerevoli libri su cibo e vino. Un neologismo, questo gastronauta, ormai entrato nel linguaggio comune, nato per rispondere a una delle domande più docili e insidiose che una figlia possa rivolgere a un genitore: “Papà, mi spieghi che lavoro fai?”. Il Gastronauta!

In questo modo Paolini diventa il punto di riferimento di migliaia di cacciatori del gusto, per i quali il cibo si trasforma in strumento di sapere, di conoscenza di storie, tradizioni, luoghi, uomini e paesaggi. “Per me conta la materia prima, non fine a sé stessa, ma legata alla storia e alla cultura di quel prodotto, e all’umanità che ci ruota intorno. Per questo amo di più parlare con chi realizza quel prodotto, piuttosto che con un grande chef che la trasforma”. Idee chiare e grande professionalità, Paolini non le manda a dire, anche sulla cucina creativa degli stellati che, secondo lui, è finita o sta per finire: “Le persone si sono stancate di assistere allo spettacolo degli chef, vogliono tornare all’essenza della cucina, alla materia prima, per certi versi alla semplicità”. Del resto Paolini, non credendo nella critica scevra dal proprio gusto, si schiera, diventa partigiano in un mondo in cui – lui stesso lo dice – le guide sono morte e sepolte, proprio perché non hanno avuto il coraggio di essere oneste intellettualmente. L’ultima battuta riguarda una passione, che stupisce: “Amo le spille di murrina, che cerco nei mercatini di mezz’Italia, e non manco mai di appuntarmi sulla giacca”. Sarà perché, in fondo, quelle spille rappresentano la sua critica enogastronomica più di quanto se ne renda conto lui stesso: eleganti, ma capaci di pungere, se serve.

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le molte vite del


vino

Il commercio mondiale dopo… Trump

The narrow escape from the economic export penalties that would have seriously damaged the great Italian wine-making war machine is only half-hearted, because when you enter into the spiral of protectionism, the development of trade can transform itself from a simple race into an obstacle course.

C’è una notizia, certamente enfatizzata dalle modalità con cui è stata annunciata e ripresa, destinata comunque a condizionare pesantemente il mercato vinicolo internazionale nei prossimi mesi: l’esito della minaccia daziaria americana che, colpendo l’agroalimentare europeo, ha rischiato di toccare anche il vino italiano. Un moloch nelle dinamiche globali degli scambi commerciali che – notizia freschissima – ha, almeno per ora, graziato il nostro vino . Lo scampato pericolo di una penalizzazione economica delle esportazioni che avrebbe seriamente danneggiato la gioiosa macchina da guerra enoica italiana è però una lieta novella solo a metà perché, quando si entra nella spirale dei protezionismi, lo sviluppo del commercio rischia di trasformarsi da gara di fondo in una corsa a ostacoli. E infatti, nemmeno tirato il sospiro di sollievo per quello che è successo sull’altra sponda atlantica, ecco prendere corpo, in modo sempre più minaccioso dalla parte nostra dell’oceano, un altro serio pericolo: la cosiddetta Brexit, che potrebbe coinvolgere uno dei primi tre mercati del nostro export. Forse il 31 ottobre sapremo qualcosa di più sul futuro della Gran Bretagna e dei commerci Ue verso questo paese (il condizionale è d’obbligo), ma non si può non tener conto del fatto che si tratti di una vicenda politica dalla quale potrebbero scaturire conseguenze profonde e strutturali sulle nostre esportazioni. E questo andando a incidere in maniera definitiva, a differenza dei dazi Usa che avranno una durata di nove mesi, sul futuro stesso delle dinamiche commerciali verso il Regno Unito.

Nonostante i venti del protezionismo, comunque, incassiamo un primo semestre 2019 nel quale le esportazioni italiane di vino, per la prima volta nella storia, superano i 3 miliardi di euro, marcando una crescita del 3,2 per cento rispetto al primo semestre 2018 (2,9 miliardi di euro) con aumento in volumi (altro dato molto importante) dell’8,8 per cento.

Al di là degli andamenti contingenti del semestre – segno positivo per i due principali mercati di destinazione: Usa (+1,9 per cento, per un valore di oltre 736 milioni di euro) e Germania (+3,7 per cento per 514 milioni di euro), mentre mostrano un calo i due successivi, Regno Unito (-1,9 per cento, 342 milioni di euro) e Svizzera (-0,8 per cento, 186 milioni di euro) – guardando i dati assoluti continua a saltare agli occhi il forte sbilanciamento del nostro export verso le prime tre destinazioni. Tra Usa (24,4 per cento), Germania (17,15) e Regno Unito (11,4 per cento) – ben oltre la metà del nostro commercio vinicolo internazionale rimane concentrato in 3 paesi. Una esposizione che diventa preoccupante laddove due su tre di essi hanno imboccato la pericolosa strada del protezionismo diventando, pertanto, estremamente vulnerabili a dinamiche geopolitiche estranee alle logiche del commercio.

Motivi storici (legati anche a un certo conservatorismo) sono alla base di una strategia che oggi deve cambiare verso: avviando un serio percorso di diversificazione, che può partire indirizzando in maniera diversa i fondi messi

a disposizione dalla Ue per la promozione verso i paesi terzi e utilizzando meglio le opportunità che stanno aprendo con gli accordi di libero scambio. È questa la parola chiave del futuro della geopolitica commerciale del vino: i free-trade-agreement, la riposta politica ai neo protezionismi che la nuova Unione europea dovrà continuare a sviluppare portando a conclusione le diverse trattative ancora in corso. Al riguardo occorre considerare con attenzione i risultati che questi accordi significano in termini numerici per l’export anche del vino: il Ceta, che ha favorito la crescita del 10 per cento dell’export vinicolo Ue nel 2018; l’accordo col Giappone, che superando i 91 milioni di euro nel primo semestre di quest’anno segna +15,0 per cento ha ricuperato lo stallo del 2018; a quello con il piccolo Vietnam. ancora leggero in termini assoluti ma con performance di crescita da non sottovalutare. Anche perché, mentre noi rischiavamo i dazi di Trump, gli Usa chiudevano a fine settembre un Fta con il Giappone destinato ad aprire le porte del mercato nipponico a 7 miliardi di dollari di prodotti agricoli statunitensi (tra cui il vino). Segno che anche in geopolitica prima della coerenza arriva la convenienza.

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di Giulio Somma


Diana Bracco

Se l’innovazione italiana ha come protagonista

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The life, the satisfaction and the recognition of Diana Bracco, an illustrious entrepreneur in the pharmaceutical sector, Milan Expo organiser, and producer of high-quality wines in Monferrato, a place she came to know and love thanks to her husband, Roberto De Silva.

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una donna

di Lamberto Gancia


Diana, presidente di Expo 2015 e commissario per il Padiglione Italia, è anche una produttrice di vino di alta qualità. Una passione nata grazie al marito, Roberto De Silva. Originario del Monferrato, è stato lui a coinvolgerla nella sua piccola attività vitivinicola, conosciuta come Il Botolo. Un’azienda agricola di 13 ettari di vigneti, sulle colline di Nizza Monferrato, che nasce proprio dall’amore di Diana e Roberto per la storia, la cultura e la bellezza di quei paesaggi, dove la produzione si fonde con la qualità poetica dei luoghi. Sarà però solo dopo la morte del marito che Diana comincerà a seguire in prima persona Il Botolo, producendo Moscato d’Asti docg, Chardonnay doc, Barbera d’Asti docg, Superiore e infine il Nizza docg, vera perla del Monferrato in un territorio patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Diana Bracco è anche una grande estimatrice delle bollicine Italiane e, da laureata in chimica e per i suoi rapporti col mondo della medicina, non ha mai mancato di promuovere il bere responsabile, insistendo soprattutto sull’abbinamento tra buon vino e buon cibo. Una ricetta che la intriga in modo particolare è quella degli spaghetti freddi al caviale, scoperta grazie al Maestro Gualtiero Marchesi. Diana, sul lavoro come nella vita, è una donna estremamente esigente, soprattutto con sé stessa. Cresciuta in una famiglia di formazione asburgica, ha un for-

Bracco

tissimo senso del dovere: crede nel rigore del lavoro e nella costante attenzione alla qualità e all’innovazione, senza per questo mancare di coltivare con cura il valore della bellezza, che, con la complicità di suo padre Fulvio, ha imparato a conoscere e amare:

...rigore del lavoro

“Non bisogna mai dimenticare”, mi dice “di essere una persona completa, mantenendo viva la curiosità e la passione per la cultura: un libro, un concerto, una mostra. Sin da piccolissima ho avuto un forte senso della responsabilità, trasmessomi dalla mamma. Una responsabilità che oggi, come imprenditrice, esercito verso i dipendenti, i consumatori, l’ambiente e le comunità dove hanno sede le mie fabbriche e, soprattutto, verso le nuove generazioni. È a loro che abbiamo il dovere di lasciare una società migliore”.

È in questa prospettiva che, nel 2010, Diana ha creato la Fondazione Bracco con l’obiettivo di custodire e trasmettere i suoi valori alle nuove generazioni della famiglia e alla grande comunità dei suoi collaboratori. Tra le sfide più belle ricorda l’acquisizione, a metà degli anni novanta, della divisione diagnostica di un colosso statunitense come la Bristol-Myers Squibb. Una bella soddisfazione per un’azienda familiare italiana! Non è un caso dunque che sia stata lei, nel 2005, a essere eletta – prima donna nella storia dell’Associazione – Presidente di Assolombarda. Un consenso dovuto soprattutto alla sua capacità di non smettere mai di innovare. Il Gruppo Bracco, infatti, da sempre investe una cospicua parte del suo fatturato nel settore ricerca, divenuto ormai il cuore pulsante stesso delle imprese che del Gruppo fanno parte. A procurare a Diana la sua più grande soddisfazione è però stata l’Expo, che ha rilanciato Milano e l’Italia intera. “L’Expo è stata la cosa” – continua Diana con un tono di voce che tradisce un’evidente emozione – “più difficile che abbia mai fatto. Abbiamo dimostrato al mondo di saper fare grandi cose. Il nostro compito, come Padiglione Italia, è stato di rappresentare l’intero sistema Italia, potendo contare sulla esperienza e sulla creatività dei migliori talenti italiani che ho avuto a fianco. Una responsabilità enorme perché, in qualità di paese ospitante, il nostro Padiglione non solo occupava un quinto dell’intero sito espositivo, ma era anche il cuore stesso della visitor experience vissuta dagli oltre 21 milioni di persone che hanno affollato l’Expo. Ricordo ancora i grandi capi di Stato stupiti di fronte allo spettacolo dell’Albero della vita o le migliaia di ragazzi provenienti da tutta Italia appassionarsi ai temi della sostenibilità e della nutrizione. Così Milano ha raggiunto obiettivi importanti: una moltitudine di visitatori soddisfatti ed entusiasti, un grande rilancio d’immagine del paese, una straordinaria ricchezza di contenuti, la condivisione planetaria di temi cruciali, e tantissime opportunità offerte alle imprese e ai giovani, senza dimenticare l’enorme contributo che questo evento sta continuando a dare al turismo, all’export, all’economia in generale. L’Expo ci ha lasciato una città più sostenibile, più aperta, più internazionale, più solidale. E gli effetti positivi si vedono ancora oggi, con Milano prima in Italia per qualità della vita, in corsa per le Olimpiadi del 2026, e con le stesse aree del sito Expo ora destinate a ospitare Mind, l’Innovation District dove sorgerà lo Human Technopole, il grande progetto scientifico che renderà Milano la capitale europea delle scienze della vita”. Diana, imprenditrice che crede nel futuro del suo paese, è convinta che l’Italia abbia le capacità e le risorse per continuare a recitare un ruolo da protagonista nell’economia internazionale, proprio puntando su ricerca e innovazione. Ed è anche giustamente orgogliosa della sua azienda che, di generazione in generazione, è diventata una realtà internazionale che coi suoi prodotti contribuisce alla salute e alla qualità della vita delle persone, dando peraltro lavoro anche a migliaia e migliaia di famiglie.

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Diana Bracco, cavaliere del lavoro, medaglia d’oro del comune di Milano e cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, è una donna di assoluto primo piano nel panorama imprenditoriale italiano. Basti pensare che è a capo dell’omonima multinazionale della salute che fattura oltre 1.4 miliardi di euro l’anno, operando in 100 paesi potendo contare su oltre 3400 dipendenti in tutto il mondo. Il suo ruolo di imprenditrice le ha consentito di trasformarsi anche in grande mecenate attiva sul fronte culturale, sociale e civile: un impegno portato avanti prima su un piano aziendale e, dal 2010, attraverso la Fondazione Bracco.


I.P.

This summer saw the seventeenth edition of the Blues & Wine Soul Festival, the largest Wine Music Festival in the world. An amazing achievement for an event that was among the first in Italy to combine music and wine, and which has since been emulated by many.

Blues & Wine 2019 storia di un ennesimo

successo... Sono state quest’anno ben diciassette le edizioni del più grande Wine Music Festival del mondo, qual è il Blues & Wine Soul Festival. E già questo rappresenta un vero e proprio miracolo, per un evento che è stato tra i primi in Italia per l’abbinamento musica e vino, poi copiato da tantissimi.

Blues & Wine Soul Festival

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Quando il vino e la musica si incontrano nei luoghi più incantati della Sicilia e dell’Italia tutta…


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aziende del vino doc, nella fattispecie la dinamica e promettente Gaglio Vignaioli, incastonata nella splendida baia di Oliveri (Messina), che guarda il famoso Santuario di Tindari. Queste sono state altre sedi di tappe memorabili del 2019. È stato un giro ancora una volta entusiasmante quello del Blues & Wine, dove il pubblico locale in ogni serata si è spettacolarmente fuso con un ricchissimo pubblico internazionale (americani, canadesi, francesi, cinesi, scandinavi e tanti altri), per dar vita come sempre a delle grandissime feste, dove il migliore vino italiano e il buon cibo facevano da grandi ambasciatori alle emozioni poi completate dalla grande musica. La grande Super Band ufficiale, dell’Art Director Joe Castellano, insignito quest’anno anche di un Grammy Award per il Blues & Soul italiano ed europeo, ha fatto come sempre da team trascinante di quasi tutte le serate, con a bordo il meglio del vocalismo black statunitense. Pubblico ogni sera in delirio, che spesso raggiungeva la band la sera dopo, anche a distanza di 300 km, pur di rivivere in altra sede le emozioni della serata precedente, o che bloccava le vie dove si affacciavano gli splendidi hotel ospitanti di serata in serata la manifestazione, per condividere quanto stes-

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Come sempre grande successo, grande classe ed eventi del tutto unici quelli del Blues & Wine, in hotel, resort e locations semplicemente emozionanti dell’isola della luce. Omero scriveva che “La Sicilia è quel posto dove tutto cresce senza mai essere stato seminato”. Nessuno ha mai seminato il blues o la black music in Sicilia, ma in quell’isola da sempre il tutto ha attecchito, come se le bacche fossero state portate dal vento dell’Atlantico e avessero sorvolato l’Oceano. Non a caso tantissime star del Jazz made in Usa sono tutte di origine siciliana, a partire dal leggendario “The Voice”, Frank Sinatra. Vini eccezionali e musica, degustati al tramonto e di notte, da incredibili terrazze a strapiombo sul mare… Come ancora una volta è successo all’Hotel Metropole di Taormina (per due serate), o al rinnovato e altrettanto lussuoso Club Med di Cefalù, dove domina la lingua francese . Dalla famosa marna bianca della Scala dei turchi di Realmonte, agli esempi premiati dalla Biennale di Venezia per la riconversione urbana, come il gradevolissimo “Quid Vicolo Luna” di Favara, entrambi nella zona di Agrigento. E poi ancora i Monti Sicani con i loro splendidi formaggi, le spiagge di Siracusa, le rinnovate

se accadendo all’interno delle stesse strutture. Tra le aziende del vino, invece hanno innalzato i calici nelle serate, quelle di: Planeta, Carlo Hauner, Banfi, Maeli, Bisol, Cantine Fina, Feudo Disisa, Alessandro di Camporeale, Feudo Principe di Corleone, Gaglio Vignaioli, Arunda Vivaldi, Quadra Franciacorta, Luna Sicana e altri maestri delle bollicine italiane proposti da Bubble’s. Ancora una volta un circuito della “bellezza” e dei grandi sapori, dove i più grandi artisti della musica mondiale, hanno condiviso la scena con i migliori vini made in Italy. Gli appuntamenti del Blues & Wine sono ormai riconosciuti universalmente come un condensato di emozioni, sensazioni e profumi, dove le sette note degli artisti più importanti a livello internazionale, guidano fans e appassionati del buon gusto alla scoperta delle realtà più importanti del nostro turismo o alla riscoperta di piazze e vicoli storici, dove spesso è nata la migliore enogastronomia italiana. Ricetta unica e insostituibile, quella di grande musica e grandi suggestioni, nelle varie e diverse serate del Blues & Wine Soul Festival, con

ancora una volta media partner Bubble’s Italia, come fin dal primo numero del magazine . Tra pochi giorni inizieranno le cene tematiche invernali del Festival, nei migliori ristoranti siciliani e italiani in generale. E il 7 dicembre, come ogni anno, sarà il momento della grande cena per la XIII edizione dei “Blues & Wine Awards”, il premio dedicato anche alle migliori etichette che, pubblico e giuria del Festival, hanno selezionato durante le degustazioni nelle tappe e durante le cene speciali. I vini trionfatori saranno diffusi nei migliori hotel, resort, ristoranti e strutture convenzionate col Festival e avranno uno speciale canale di comunicazione e commercializzazione, con partner della manifestazione di rilievo internazionale. Ovviamente l’organizzazione è già al lavoro per la XVIII edizione del Blues & Wine, che abbraccerà sempre di più l’Italia del vino, della musica e del buon gusto e che allargherà sempre più il palco di uno degli eventi pionieri del turismo enogastronomico italiano, battezzato dal grande Gino Veronelli già nel 2003. Per info, scrivere a: info@bluesandwine.com.


ovvero tradizione, sperimentazione, valorizzazione

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The northernmost wine region of Italy, a Central European agriculture, the might of the Dolomites and the slow and cordial attitude that comes from the Mediterranean: Kettmeir wines are a combination of these elements and a challenge initiated in 1919 by Giuseppe Kettmeir with the creation of the winery that still bears his name today. In 1964 the venture into sparkling

wines began, expertly blending tradition and experimentation, from harvest to harvest. Today, with the new generations and an instrumental partnership with the Santa Margherita wine group, Kettmeir has reached heights of excellence, with prestigious and well-deserved awards, and a project that is more fervent than ever 100 years on.

La via altoatesina alle bollicine

di Chiara D’Ippolito

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Kettmeir


trano l’avanguardia architettonica, imprenditoriale e culturale. Grazie a questa inclinazione quasi naturale per uno sguardo che nasce dalla propria terra e si rivolge al mercato locale e nazionale, nel 1964 Giuseppe Kettmeir dà avvio a quella che diventerà la “via altoatesina” alle bollicine, iniziando a produrre spumanti di pregio con il Metodo Martinotti/Charmat e contribuendo al rilancio della tradizione spumantistica locale. Quella tradizione, quasi dimenticata dopo i fasti della belle époque, che dopo appena un anno sarà pronta a tornare a vivere con la presentazione alla Fiera del vino di Bolzano del primo spumante sudtirolese del dopoguerra: la “Grande Cuvée” di Pinot Bianco, uno Charmat lungo tuttora in produzione. E se la parola “tradizione” ricorre con costanza nella storia di Kettmeir, in questo racconto ce ne sono altre due, ugualmente protagoniste e piene di significati. La prima – “sperimentazione” – parla di nuove sfide, rese possibili grazie alla partnership col gruppo vinicolo Santa Margherita, in cui, nel 1986, Franco Kettmeir, nipote di Giuseppe, trova l’erede ideale per l’impresa di famiglia e il giusto alleato nel cammino della rinascita del vino sudtirolese. Un percorso sulla via dell’eccellenza durante il quale, vendemmia dopo vendemmia, l’azienda altoatesina raggiunge traguardi importanti: nel 1992, con l’inizio della spumantizzazione con il metodo classico e la nascita dell’Athesis Brut; nel 2000, con il metodo classico Rosé e l’introduzione nella gamma aziendale del raffinato Athesis Brut Rosé; nel 2011, con l’arrivo del metodo classico riserva e la nascita del “1919” Riserva Extrabrut, vera punta di diamante della cantina Kettmeir. La seconda parola – “valorizzazione” – racconta invece del lavoro, lungo generazioni, compiuto insieme alle famiglie di agricoltori locali, per creare solidi accordi di filiera, avviare strategie di sostenibilità ambientale, mantenere viva una vitivinicultura di alta collina e montagna che, altrimenti, sarebbe andata perduta a causa dell’industrializzazione. Una scelta fruttuosa, che ha trovato nel processo di zonazione l’opportunità di individuare i siti migliori per ciascun specifico vitigno e di valorizzare i “masi”, veri cru

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Una cantina che ha fatto del proprio territorio il protagonista assoluto di una storia lunga un secolo. Una storia cominciata nel 1919 con un giovane enologo e commerciante di vini, Giuseppe Kettmeir, che dopo aver studiato ingegneria agraria a Vienna decide di dare vita alla cantina che ancora oggi porta il suo nome. Una storia che, attraverso cento anni di vini, racconta l’Alto Adige, terra di contrasti, custode della tradizione e audace sperimentatrice della contemporaneità. Perché, per Kettmeir, queste caratteristiche sono sempre state una vocazione. L’ispirazione per creare vini che parlino della regione vinicola più a nord d’Italia, votata all’agricoltura ma dal respiro mitteleuropeo, in cui la natura mescola la forza delle Dolomiti con l’attitudine lenta e cordiale che risale dal Mediterraneo. E dove i saperi artigianali antichi e il rigore alpino della gente di montagna incon-

della tradizione agricola della montagna sudtirolese: il Maso Reiner che, situato sulla sinistra-Adige a Pochi di Salorno e connotato da un terreno calcareo, risulta ideale per la coltivazione di Pinot Nero e Chardonnay; il Maso Ebnicher, affacciato sul massiccio del Catinaccio a dominare la città di Bolzano, la cui elevata pendenza collinare e il cui terreno sabbioso, vede cresce il miglior Müller Thurgau. Due “masi” che oggi rappresentano la spina dorsale per la linea delle “Grandi Selezioni” di Kettmeir. Proprio a partire dall’eccellenza di questi vini e dalla volontà far crescere nella Tenuta di Caldaro i semi ugualmente fertili della tradizione e della novità, Kettmeir si proietta oggi nel futuro. Un futuro che trova una sua anticipata espressione nella Limited Edition Riserva 1919 Extra Brut, bottiglia celebrativa di quell’inimitabile blend di Chardonnay e Pinot Nero – che ha ottenuto i “Tre Bicchieri” del Gambero Rosso per il secondo anno consecutivo, una review da 91/100 da parte della rivista inglese Decanter e, infine, la “Corona” della Guida Vini Buoni d’Italia 2019 del Touring Club – a cui una sosta sui lieviti di oltre 60 mesi regalerà un perlage stuzzicante e un carattere ancora più intrigante. Il tutto grazie ai nuovi progetti per la cantina, resi possibili dagli investimenti del gruppo vinicolo Santa Margherita: 242 milioni di euro nel periodo 2005-2019, utilizzati per acquistare nuovi terreni, migliorare l’efficienza tecnologica, rafforzare le competenze professionali, ampliare il mosaico enologico del gruppo. Investimenti che, dopo aver dato a Caldaro un nuovo assetto e all’area dedicata all’accoglienza una nuova architettura, sempre nel corso di quest’anno renderanno le strutture di Kettmeir ancora più performanti dal punto di vista produttivo e ancora più sostenibili da quello ambientale. In linea con quel segno dell’infinito, racchiuso da due leoni rampanti e sormontato da una corona, intorno a cui è costruito il logo celebrativo del centenario di Kettmeir.


Sommelier Il portavoce Is being a sommelier an art? Certainly, it is the common thread that unites those who produce wine and those who drink it. If it is an art, it should be exercised with talented intuition and meticulous practice, because pronouncing a judgment against a product always represents a great responsibility and therefore calls for critical objectivity. The sommelier, therefore, must know, interpret and serve in the right manner, establishing an understanding of trust with the customer.

La sommellerie è un’arte? Certamente è un buon fil rouge che congiunge chi produce il vino e chi lo beve. Ma, se mai fosse arte, esigerebbe d’essere esercitata con talentuoso intuito e meticolosa pratica, perché sentenziare un giudizio, positivo o negativo, nei confronti di un prodotto tanto amato rappresenta sempre una grande responsabilità e pertanto chiede una competenza critica. È un po’ come parlare di un libro: attraverso una recensione un romanzo può rinascere a nuova vita oppure finire sepolto. Il sommelier, perciò, deve conoscere, interpretare, consigliare e servire nel modo adeguato, trasmettendo al fruitore tutto ciò che con la sua esperienza ha assorbito. I suoi gesti apparentemente rituali cui tutti siamo ormai abituati a osservare nei ristoranti o durante le degustazioni nascondono conoscenze e sensibilità profonde che danno il giusto valore alla sommellerie. Il termine stesso “sommelier” ne rivela l’attuale importanza: è preso in prestito dal francese provenzale saumalier, a indicare letteralmente il “conducente di bestie da soma”, significato successivamente traslato in “addetto ai viveri” e poi in “cantiniere”. Un’evoluzione, dunque, un upgrade in prestigio nei confronti di una figura professionale oggi essenziale nel teatro enogastronomico, della ristorazione e dell’hotellerie, figura che si fa portavoce della cultura del vino. Se la passione è fondamentale, come in tutte le professioni, occorrono anche studio e pratica che esercitino il sistema sensoriale affinandolo e mantenendolo aggiornato al costante divenire del mondo vino e degli abbinamenti con il cibo. Il sapere del sommelier spazia, dunque, dalle caratteristiche organolettiche e sensoriali alla gestione della cantina, fino alla cura del cliente al tavolo. Il contatto umano con chi gusta il vino proposto è fondamentale perché non sempre l’ospite ha una sensibilità all’altezza del sommelier, quindi da parte di chi offre occorre l’intuito di cogliere i gusti dell’interlocutore. Interlocutore che si affida ai consigli del professionista. Questo rapporto di fiducia a volte nasce da una pura suggestione, dalla temporanea seduzione da parte del sommelier

del vino

nei confronti del suo ospite, e lì finisce insieme al dessert. Tuttavia spesso si traduce in un positivo contagio e chi assaggia per la prima volta un vino “raccontato” dal sommelier può imparare ad “ascoltare” un ventaglio di sensazioni tanto effimere quanto profonde. Molti stimoli, infatti, sono subdoli, evanescenti, soprattutto quelli legati all’olfatto, senso che anticipa il gusto. Eppure quando si annusa un vino si innesca un meccanismo chimico straordinario. Le molecole odorose affrontano un percorso turbolento, fortemente vascolarizzato, e approdano direttamente al cervello dopo aver impregnato l’epitelio olfattivo di migliaia di timbriche odorose diverse. L’epitelio è una spugna porosa composta di un’infinità di recettori specifici per ogni odore e il suo compito è di convertire i segnali chimici in messaggi elettrici che poi i neuroni saranno in grado di interpretare. L’intricato universo sinaptico s’infittisce ancor di più quando le molecole odorose si mescolano a quelle saporose, quelle che traducono il vino in parole, rendendolo comprensibile a chi lo beve. Il tutto in una manciata di secondi. In fondo cos’è che “sentiamo” quando beviamo? Armonico, abboccato, allappante … fruttato, maturo, austero … etereo, fragrante, vinoso. Tanti sono gli aggettivi per descrivere un bicchiere di vino o un calice di bollicine e spesso è imbarazzante scegliere quelli che meglio ne colgono l’anima. Oltretutto, tra l’esperienza sensoriale del sommelier e quella del cliente non è detto ci sia sempre una perfetta identità. Proprio per questo è necessario un glossario comune, forse volutamente ambiguo e senz’altro fantasioso, che raccolga tutte le note sensoriali più o meno intense e persistenti scatenate dal sorseggiare. Basti pensare che dal linguaggio dei greci e degli haustores (degustatori) dell’antica Roma a oggi gli aggettivi per descrivere il vino sono arrivati a un migliaio. Per tutte queste ragioni il sommelier è un punto di riferimento essenziale per dar voce al vino, soprattutto quando bevendolo, per sua bontà, lascia … senza parole.

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di Paola Cerana


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passione, studio, pratica per affinare il sistema sensoriale


Pietro Leopoldo Ramponi

Dal sapore al gusto Se l’insieme dei racconti delle origini è il “mito”, la selezione di ricette della tradizione e dei sapori messi in tavola e su carta da Pietro Leopoldo Ramponi può ascriversi alla categoria estetica del “gusto”. Non per niente il presidente dei ristoratori di Verona, che, alla trattoria Al Bersagliere in centro città, accoglie da trent’anni concittadini e turisti da tutto il mondo, ha intitolato il suo libro Il gusto della memoria (sottotitolo La cucina dei veronesi, Cierre Grafica, 2017). Quando il sapore diventa gusto, la cucina ne celebra il mito.

Ristoratore alla quarta generazione, Pietro Leopoldo Ramponi conosce bene il valore delle origini, e questa oggi è la vera originalità. Conosce e padroneggia la schiettezza dei prodotti locali e strettamente stagionali, la semplicità di piatti storici che sorprendono il palato – “i cibi meno li si tocca e meglio è” –, l’indovinato ventaglio dei vini con cui portare sfumature dalle papille gustative alla memoria, evocando universi culturali lodevolmente salvaguardati.

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di Marco Ongaro

If a collection of tales of origins is “myth”, then the selection of recipes of tradition and flavours put on the table and on paper by Pietro Leopold Ramponi, could be assigned to the aesthetic category of “taste”. The president of the Veronese restaurateurs has been welcoming fellow citizens and tourists from all over the world to the trattoria Al Bersagliere in the centre for thirty years, and it’s not for nothing that he has called his book Il gusto della memoria (The taste of memory). When the flavour becomes taste, the cuisine honours its myth.


“Quando entri nella mia trattoria, c’è il mondo”, afferma fiero. Ed è vero, le foto alle pareti sono di personalità e artisti che hanno voluto siglare con un ricordo il loro passaggio, immagini anche conviviali a testimoniare momenti euforici condivisi con il titolare. I tavoli ospitali, la cucina vivace, la cantina del 1300, visitabile. Il mondo è lì dentro, dalla strada del centro storico su cui si affaccia il locale ai cioccolatini di Giulietta e Romeo, creazione dello chef, in ingresso. “Sono l’amante del buon mangiare, i prodotti devono essere particolarmente buoni e del territorio, cose tipiche. Mi sono battuto per questo, fondando nel 2012 insieme all’assessore al commercio la denominazione di ‘Trattoria tipica veronese’. Nel 2018 siamo in 20 ristoranti ad averla meritata”. E nella tipicità il posto d’onore spetta al vino: “Il bere: già nel 1980 proponevo ai veronesi il Durello, che è il nostro spumante. Sono uno degli ambasciatori del nostro vino nel mondo. Con la Camera di commercio di Verona sono andato in giro a presentare il vino del territorio veronese, facevo da mangiare per meglio accompagnare Soave e

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Custoza, Durello e Valpolicella, Ripasso, Amarone, Recioto. In questa campagna divul “Quando entri nella mia trattoria, c’è il mondo”, afferma fiero. Ed è vero, le foto alle pareti sono di personalità e artisti che hanno voluto siglare con un ricordo il loro passaggio, immagini anche conviviali a testimoniare momenti euforici condivisi con il titolare. I tavoli ospitali, la cucina vivace, la cantina del 1300, visitabile. Il mondo è lì dentro, dalla strada del centro storico su cui si affaccia il locale ai cioccolatini di Giulietta e Romeo, creazione dello chef, in ingresso. “Sono l’amante del buon mangiare, i prodotti devono essere particolarmente buoni e del territorio, cose tipiche. Mi sono battuto per questo, fondando nel 2012 insieme all’assessore al commercio la denominazione di ‘Trattoria tipica veronese’. Nel 2018 siamo in 20 ristoranti ad averla meritata”. E nella tipicità il posto d’onore spetta al vino: “Il bere: già nel 1980 proponevo ai veronesi il Durello, che è il nostro spumante. Sono uno degli ambasciatori del nostro vino nel mondo. Con la Camera di commercio di Verona sono andato in giro a presentare il vino del territorio veronese, facevo da mangiare per meglio accompagnare Soave e Custoza, Durello e Valpolicella, Ripasso, Amarone, Recioto. In questa campagna divulgativa tutti i nostri

piatti tipici sono stati apprezzati, da Tokyo a Berlino e a Londra, in tutta l’Europa e anche a New York”. Un ribaltamento di prospettiva del piatto che accompagna il vino e non viceversa. “Lo chef stellato dello Sheraton di Stoccolma a Natale propone, da allora, il nostro diplomatico. È il nostro dolce, nato nel 1952 all’Hotel Accademia per recuperare le brioches. La storia della cucina mondiale è anche storia di soluzioni contro lo spreco. Gli

chef allora facevano le brioches e con quelle rimaste approntavano un insieme unito a crème caramel e cotto a bagnomaria”. L’orgoglio è vivissimo anche quando parla dell’aria famigliare che si respira in cucina: Al Bersagliere, oltre alla moglie Marina, c’è il loro figlio Alessandro che lavora come chef: “Con lui, se continua così, saremo alla quinta generazione. Sta andando avanti molto bene, rivede anche un po’ i piatti della tradizione, perché i giovani sono così: vogliono sempre dare un tocco moderno ai piatti storici, anche se quelli tipici rimangono tali, come la pasta e fagioli, il baccalà – che è il mio piatto forte – la pastissada, i gnocchi di malga. Se vuole creare piatti diversi va benissimo. Basta conoscere e usare bene i nostri prodotti. Abbiamo eccellenze straordinarie, il segreto è lavorare valorizzandole nel modo meno artefatto possibile”. Da qui la responsabilità del ristoratore: “Siamo custodi del tempo e del terreno, della conservazione del pianeta. I prodotti per i nostri piatti ne sono l’espressione. Il valore storico dei sapori e delle ricette è legato alla conservazione dell’ambiente in cui viviamo”. E conclude con saggezza: “Noi diamo da mangiare alla gente”.


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Capezzana is one of Italy’s most ancient wine companies and has produced wine in the Carmignano area for more than 1,200 years. In the Florence State Archives there is a rental contract that dates back to 804 AD which refers to the cultivation of oil and vines on their hills. And if we talk about Carmignano in the fourteenth century, it was with the Medici that Capezzana would rise to fame.

UN INCONTRO CASUALE CON

CAPEZZANA

di Giovanna Moldenhauer

Capezzana è una delle più antiche aziende vinicole d’Italia e produce vino nella zona di Carmignano da più di 1200 anni. Già nell’Archivio di Stato di Firenze si trova un contratto di affitto risalente all’804 in cui si parla di coltivazione di olio e vite sulle loro colline. E se si risente parlare di Carmignano nel XIV secolo,

è con i Medici che Capezzana salirà agli onori della cronaca. Analogamente il Carmignano risulterà poi essere una delle quattro più antiche appellazioni legate al mondo del vino: quando il nel 1716 il granduca di Toscana emetterà un decreto volto a identificare i confini delle 4 zone del granducato di Toscana vocate alla produzione del vino, una di queste avrà come protagonista proprio

il Carmignano. Anche la storia recente del resto è all’altezza di quella passata: è dal 1920 infatti che tenuta Capezzana diviene di proprietà della famiglia Contini Bonacossi ed è al 1925 che risale il primo anno di produzione del Villa di Capezzana. A rendere unica la tenuta dei Contini Bonaccossi, che si estende per trentanove chilometri quadrati, è il particolarissimo microclima, la cui

escursione termica non solo consente di produrre vini totalmente diversi da quelli delle altre zone viticole toscane, ma anche contribuisce a rendere questi ultimi estremamente longevi. E per assaggiare questi vini e ascoltare la loro specialissima storia veniamo invitati dai Contini Bonaccossi al Deus Cycleworks, un locale dai tratti moderni sito nel centro di Milano.


ESPRIMERE IL TERRITORIO parte restante a boschivo e seminativo. Il tutto ovviamente e rispettivamente completato da una cantina di produzione, da un frantoio, da un Bed&Breakfast e da un Wine Bar. Ed è questo sistema nel suo complesso che, per salvaguardare la biodiversità unica della zona, ha scelto di percorrere nuove strade: “Insieme a mia sorella Serena e ai miei fratelli Filippo e Gaddo, quest’ultimo responsabile della campagna, continua Benedetta, abbiamo deciso di adottare a Tenuta Capezzana la coltivazione agricola biologica, ottenendo nel 2015 la certificazione bio. Una scelta questa che, ad appena 12 chilometri da Firenze, consente di poter contare su vini salubri, in grado di esprimere il territorio e rispettosi dell’ambiente che rende possibile la loro produzione”. La conferma della positività di questa scelta ci viene dai vini che accompagnano una Tagliata di controfiletto dry aged con misticanza dell’orto e la Selezione di parmigiano 12 / 24 / 36 mesi con pere e miele: il Trefiano Riserva 2015 Carmignano, dalle note fragranti di fiori rossi impreziositi da un tocco balsamico, e l’Ugo Contini Bonacossi, al cui fruttato sentore di ciliegia e mora corrisponde quello, perfettamente armonico, del caffè e del cuoio. E per concludere ecco il Vinsanto: di cui basterà dire che nel mese di luglio 2019, col millesimo 2011, ha vinto il Champion Wine Award nella categoria vini da dessert all’International Wine Challenge (IWC) di Londra.

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Nell’attesa di ordinare, assaggiamo il loro Trebbiano 2017: i suoi profumi di mandorla, fiori gialli e vaniglia trovano in bocca un’armonia elegante ed equilibrata e i suoi delicati tannini si sposano perfettamente coi due antipasti che ci vengono prontamente serviti: un Patè di fegatini al tartufo su crostone di pane integrale e uno sfizioso Midollo di manzo con lardo di colonnata, rosmarino e miele. La conversazione sui vini, come non di rado accade, diventa l’occasione per rievocare la storia di famiglia: Benedetta, responsabile della produzione enologica della Tenuta Capezzana, racconta con mal celata emozione di come sia stato il fratello Vittorio, scomparso di recente, ad aver giocato un ruolo di primo piano nella creazione del bio-distretto del Montalbano, con lo specifico obiettivo di valorizzare e tutelare queste affascinanti colline, il loro variegato ecosistema, la loro lunga storia e il loro paesaggio unico: “Le nostre vigne – aveva scritto Vittorio – sono tutte di esposizione diverse e di terreni con una conformazione piuttosto eterogenea. È stupefacente osservare il caos da cui tutto trae origine (…) Se qualcuno volesse trovare la formula alchemica del vino di Capezzana, la troverebbe proprio nell’estrema disomogeneità della terra e dell’esposizione dei vigneti. È esattamente da questa ‘caoticità’ che scaturisce la grande complessità dei nostri vini, inimitabili esattamente perché è impossibile ripetere la stessa ricetta in altre regioni o terreni anche non lontani dal Carmignano”. In abbinamento alla Pappardella al ragù di cinghiale e cacao a essere servito è il Villa di Capezzana 2016 Carmignano docg, vino storico dell’azienda, di cui la famiglia conserva ancora bottiglie della prima annata. A spiccare sono innanzitutto delle note fruttate, nelle quali a prevalere sembra essere l’amarena, la cui morbidezza quasi trova forza nei sapori del timo e rosmarino, oltre che in leggeri sentori speziati. L’assaggio è avvolgente, con tannini morbidi e buon corpo, ben sostenuto dall’acidità che bilancia la ricchezza tannica e che dà vita a un finale lungo, con un retrogusto che tende alla liquirizia dolce. Ed è l’evoluzione di questa complessità quella che ritroviamo nel calice di Villa di Capezzana “10 anni” 2009 Carmignano docg. Il suo affinamento per oltre un anno in tonneaux, per sedici mesi in botte grande e infine per un anno in bottiglia, lascia affiorare profumi di lampone e amarena, ben presto destinati però a sfumare in quelli ben più potenti di cacao e caffè. E la persistenza finale, forse proprio perché insorta dal caos cui alludeva Vittorio, evidenzia una complessità capace di reggere perfettamente l’invecchiamento e dando il meglio di sé solo col tempo. È forse per questa ragione che, a partire dal 2006, Tenuta Capezzana ha iniziato un progetto volto a tenere in cantina 3000 bottiglie l’anno di questo vino, riproponendole al mercato solo a invecchiamento avvenuto. Tenuta Capezzana, come racconta Benedetta, è però ormai un sistema produttivo complesso di cui certo il vino è il cuore, non senza che però abbiano assunto una lo portata specifica anche altri segmenti dell’attività aziendale. Su 650 ettari di terra in cui trovano posto due ville, 78 di essi sono coltivati a vigneto, 140 a oliveto, mentre la


Sardegna

Di fronte all’alba

We are at the Cagliari Archaeological Museum with the objective of discovering the ancient roots of this land. We are greeted by the statuette of the Mater Matuta, better known as la Bona Dea (the good goddess), goddess of fertility and abundance, testimony to the fact

that here there is a sacred vision of agriculture. You don’t need to look for a wine museum in Sardinia, however. The whole of Sardinia itself is a living wine museum, well beyond the individual realities fundamental to oenology.

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di Marcello Masi


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L’idea di camminare nei luoghi dove migliaia di anni fa si è prodotto il primo vino nel Mediterraneo mi emoziona. E come ci si potrebbe sottrarre all’emozione nell’isola in cui è stato trovato, a Monastir, il torchio più vecchio della storia? E, se il torchio non bastasse, ci sono anche i vinaccioli di Malvasia e Vernaccia risalenti a oltre tremila anni fa rinvenuti nel torchio stesso. Non posso che pensare a chi in quell’epoca abitava queste terre: vignaioli in grado di utilizzare tecniche raffinate, peraltro non così diverse da quelle che oggi si continuano a utilizzare qui, e ancora alle prese con gli stessi cloni che su quest’isola continuano a essere di casa. Non occorre però cercare, in Sardegna, un museo del vino.

È la Sardegna stessa ad essere, nel suo insieme e ben al di là delle singole realtà inerenti l’enologia, un vero e proprio museo del vino. Per rendersene conto è sufficiente visitare la cantina a cielo aperto nei pressi di Bosa, oppure incantarsi di fronte al presunto tastevin ante litteram di epoca arcaica ritrovato a Urulu, vicino Orgosolo, o anche solo limitarsi a uno sguardo sul suggestivo paesaggio creato dalle vigne sullo sfondo del monumentale quartiere di Villanova, a Cagliari. Il fatto più straordinario, giustificato e favorito dal trovarsi su un’isola, è però il riemergere di antichi cloni. Come quelli del cannonau, ritrovati nella valle di Oddoene, nei pressi di Dorgali. Qui anziani contadini, oggi divenuti memorie storiche del luogo, non solo lo ricordano, ma ancora lo utilizzano per reinnestare ceppi non più produttivi.

È però a Monastir che l’emozione, per chiunque ami il vino e il suo mondo, assume tratti esplosivi. E qui infatti che, si racconta, i sardi sembrano essersi saputi distinguere come i più antichi vignaioli e cantinieri del Mediterraneo, non solo creando vino ma anche dando vita a forme collettive di produzione e gestione del frutto della vite. Non è strano dunque che qui ad essere protagonista della viticoltura contemporanea sia una cantina sociale: la Cantina Santadi. Antonello Pilloni, presidente sia di questa realtà sia del Consorzio Carignano del Sulcis, è l’uomo che innanzitutto ha fatto grande questo vino, scoprendo come la sua forza gli derivi da un’impronta di territorio legata a due fattori precisi: la luce e il salmatro. Ma è anche l’uomo che ha saputo trasformare questa cantina sociale, i cui tratti sono forse troppo spesso legati all’idea di una qualità sacrificata alla quantità, in un brand internazionale tanto eccellente da diventare un modello vitivinicolo ed enologico per tutto il mondo. Nel momento in cui Antonello Pilloni prende in mano la Cantina Santadi, quest’ultima è sull’orlo del fallimento. Il rilancio di Pilloni prende il via con la scelta di intraprendere la carta della qualità. Nel 1980 incontra Antinori e, dopo aver deciso di abbandonare lo sfuso e puntare sull’imbottigliamento, chiede all’enologo Giacomo Tachis di lavorare con lui per fare del vino sardo un’eccellenza. E sarà proprio Tachis, nel 1984, a produrre per la Cantina Santadi la prima bottiglia di Terre Brune, consacrando a modello il Carignano del Sulcis e facendone il volano di un rilancio complessivo della viticoltura e dell’enologia dell’isola. E sarà ancora Tachis, mosso dalla volontà di restituire a quello specifico vino la sua identità storica, a sostenere la necessità di tornare alla coltivazione ad alberello. Un percorso che per Pilloni sarà la conferma delle potenzialità del vino sardo, su cui rilancia ulteriormente portando nel Sulcis il Vermentino e dando così vita a un bianco straordinario: il Villa Solais. È così che Cantina Santadi, con le sue raccolte manuali, con le sue vigne ad alberello, con i suoi affinamenti lunghi in barrique, con le sue estenuanti macerazioni e con le sue rese per ettaro molto basse, è divenuta uno dei volti dell’haute couture del vino.

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Siamo al Museo archeologico di Cagliari, con l’obiettivo di scoprire le radici antiche di queste terre. Ad accoglierci la statuetta della Mater Matuta, meglio conosciuta come la Bona Dea, divinità della fertilità e dell’abbondanza che testimonia come qui vi sia una visione sacrale dell’agricoltura.


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La luminosità paglierina del Villa Solais, pur spettacolare, è tuttavia solo una delle declinazioni del Vermentino, che in Sardegna gioca un ruolo di primo piano nella creazione di prodotti enologici d’eccezione. E i riflessi del Vermentino, che nel Sulcis di Cantina Santadi vedono prevalere il verdolino sul dorato, nella Gallura del Capichera sembrano rovesciarsi, lasciando che sia il dorato ad assorbire armonicamente il tenue balenare del verdolino. Certo una questione di terroir, ma anche del tratto specifico che Fabrizio Ragnedda, “l’uomo che sussurra

alla vigne”, ha voluto imprimere a quello che è stato il vino che ha lanciato l’azienda. Rigorosamente gestita come realtà familiare, Capichera trova il giusto passo verso un successo internazionale nei primi anni settanta. È allora che Fabrizio, insieme al fratello Mario, radicandosi in una tradizione che vede la loro famiglia presente in Gallura dall’Ottocento, decidono di incrementare la produzione di uva piantando nuove vigne proprio di Vermentino, da sempre il vitigno autoctono più celebrato del gallurese.

cantinieri del Mediterraneo La prima bottiglia con etichetta Capichera apparirà solo nel 1981 e, da allora, l’azienda non smetterà più di crescere, raggiungendo oggi un’estensione di 40 di ettari. Sarà in questo contesto che il Vermentino della famiglia Regnedda, vinificato in purezza, sarebbe riuscito a esprimere al meglio quel tratto esclusivo fin da subito intuito da chi, col tempo, sarebbe riuscito a trasformarlo in uno dei prodotti di punta della Gallura e della Sardegna. È sulla base di questa intuizione originaria che Fabrizio e Mario, vinificandolo in purezza, riusciranno a spingere il frutto di

questo vitigno verso la sua più elevata espressività. Sono i primi anni che li vedono impegnati a procedere in un percorso tutto tutto incentrato sulla qualità e sulla valorizzazione di questo vitigno. Stabiliti nuovi modelli qualitativi, sia nella cura dei vigneti che della cantina, possono dedicare tutte le loro risorse ed energie alla creazione di un vino che è divenuto sempre più capace di distinguersi per identità e unicità, facendo da traino col suo successo anche ai grandi rossi di Capichera, come il sirah in purezza o in uvaggio con cannonau.

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...i più antichi vignaioli e


The search for ancient and essential flavors, linked to the rural tradition of a valley in Turin that has become much too uncommon is the secret of the cuisine proposed by Francesco Eblovi and Samuele Riva in the bright rooms of the Valli di Lanzo Hotel Restaurant. And an unexpected dandelion salad or a jellied chicken, rarely found these days, perhaps duly enhanced by a glass of sparkling wine, are enough to remind us of a world of tastes now in danger of extinction.

LA MATERIA PRIMA COME ASSOLUTO E LE BOLLICINE COME RELIGIONE di Piergiuseppe Bernardi Foto di Davide Dutto © Forse faticherete a credere che le bollicine, in un ristorante di montagna, possano giocare un ruolo di primo piano e trasformarsi nell’efficace abbinamento con piatti tutti puntati sull’essenzialità di una materia prima di qualità. Eppure a Ceres, quasi al fondo di questa valle torinese trasformatasi negli anni da località di villeggiatura d’èlite in paese che combatte contro un crescente spopolamento, non solo scoprirete una cucina d’eccezione, ma anche una cantina in cui a essere protagonista è proprio l’effervescenza. E non importa se francese o italiana, visto che queste terre alte sono da sempre sul confine di questi due territori e la stessa lingua che qui si continua a parlare, come capirete immediatamente dalla insegna stessa del locale, è il franco-provenzale. Sì. Proprio quello utilizzato alla fine dell’XI secolo dai “trovatori” per comporre canzoni d’amore successivamente destinate a essere considerate in ogni tempo veri e propri capolavori della letteratura mondiale. Sono profumi e sapori antichi, essenziali e declinati evidenziandone l’unicità, a poter essere scoperti o ritrovati nell’accogliente salone dell’Hotel Ristorante Valli di Lanzo: quello incantevolmente sobrio dell’insalata di tarassaco, raccolto ai duemila metri del vicino Pian della Mussa, o quello elegantemente potente della supa di Ceres, nella quale a valorizzare le verdure è la toma della valle di Lanzo; quello perfettamente amalgamato dei grissini e degli amaretti che fungono da ripieno delle cipolle di tradizione o quello suadentemente av-

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HOTEL RISTORANTE VALLI DI LANZO


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volgente del tonno, acciughe e capperi che guarniscono i peperoni del giorno di festa; quello coraggioso e deciso dei fegatini di coniglio al Moscato passito o quello infine, autentico ricordo dell’antica cucina piemontese, dell’ormai quasi scomparsa gallina in gelatina. Senza dimenticarsi, nei mesi estivi, di concedersi un assaggio di persi pin, vera reminiscenza di un mondo senza tempo. La mano che guida senza incertezze la cucina di questo ristorante è quella di Francesco Eblovi. E l’imprinting è di quelli d’eccezione: “Mia madre e mia nonna – ci racconta sorseggiando un calice di Besserat di Bellefon – gestivano un’osteria nel Canavese, potendo contare sulle materie prime direttamente coltivate in cascina dal nonno. Mio padre lavorava però nel settore della meccanica e quasi naturalmente mi sono avviato a seguirne le orme. Così, pur continuando a cucinare per gli amici, ho cominciato ad occuparmi di motori, scoprendo in officina l’importanza della qualità. Poi, dopo il servizio militare, la svolta che mi avrebbe cambiato la vita. Decido, sebbene i miei genitori siano fortemente perplessi per la mia scelta, di aprire poco lontano da qui, a Mezzenile, un locale tutto mio. E il mio sogno, grazie a una sperimentazione a tutto campo in grado di richiamare ben presto l’attenzione di gourmet e guide di settore, comincia a prendere forma”. L’osteria di Mezzenile rappresenterà però solo l’inizio di quest’avventura, destinata a continuare per quasi vent’anni in un ristorante aperto in seguito a Ciriè: il Nuovo Carretto. Sarà qui che la cucina di Francesco, sfuggendo alle mode di volta in volta in voga, troverà la sua identità. Un’identità, netta e senza incertezze, per un verso guidata dai gusti d’antan che hanno segnato in profondità la

sua infanzia in cascina e per l’altro animata dalla passione per una sperimentazione in grado di riproporre quegli antichi sapori in forme apprezzabili anche da una clientela ormai lontana anni luce da quel mondo. Dal connubio tra queste due istanze verrà così materializzandosi una cucina che avrà nella materia prima il suo assoluto, rispettato nella sua stagionalità e valorizzato nella sua peculiarità. E sarà proprio questo a consentire ai piatti di Francesco, grazie alla loro capacità di esaltare prodotti per larga parte legati alle valli di Lanzo, di essere davvero unici. Sempre al Nuovo Carretto viene profilandosi anche la messa a punto di una carta dei vini che ben presto riscuote un notevole successo: “L’attenzione al vino – precisa Francesco – in quello specifico periodo diventa un fenomeno sociale. Per uno come me, appassionato di vino fin da epoche insospettabili, questa situazione rappresenta non solo un momento magico, ma anche un’opportunità straordinaria, da cavalcare senza esitazioni. Il vino così, divenuto col tempo forte di una carta di 1200 etichette, assume un ruolo chiave nella mia cucina, trasformandosi sempre più in un elemento essenziale di essa grazie ad abbinamenti che la clientela, fattasi via via più esigente, richiede e apprezza. E in questo contesto l’amore per lo champagne e per le bollicine italiane può esprimersi al meglio, consentendomi di contare su proposte sempre più prestigiose e rappresentative di una tipologia di vino che non smetterà mai di affascinarmi”. La vita di Francesco Eblovi però è fatta di svolte. E la nuova svolta lo riporta in montagna: quella da cui proviene e che, di fatto, non ha mai abbandonato: “La decisione di tornare a Ceres per far rinascere dalle sue stesse ceneri l’Hotel Ristorante Valli di Lanzo, lasciando l’ormai consolidata esperienza del Nuovo Carretto, è stata ritenuta da amici e clienti quasi un azzardo. Per me invece è stato non solo un ritorno a casa, ma anche una scelta di vita, capace di cambiare in concreto le mie giornate. Qui ci sono tutte le condizioni perché la mia cucina, di cui i gusti della mia infanzia sono il termometro e i paletti insuperabili, possa crescere e avere nuovi stimoli. Dove trovo ancora, in pianura, i conigli e le galline allevati in cascina, i pesci di fiume, le spugnole e i funghi raccolti nei boschi circostanti, gli asparagi selvatici e il tarassaco di montagna? E tutto è stato men che un azzardo, visto che in questi primi tre anni la clientela non ha fatto altro che crescere”. Proprio all’Hotel Ristorante Valli di Lanzo i piatti di Francesco hanno così finito con l’acquisire un tratto ancora più inedito. Certo esso è in parte dovuto anche alle nuove tonalità loro impresse dalla creatività di Samuele Riva, da ben diciassette anni a fianco di quello che giustamente reputa il suo “maestro”, e all’indubbia professionalità con cui Mara riesce a seguire con cortese eleganza i diversi tavoli. E tuttavia il segreto profondo di questa straordinaria cucina resta l’unicità della materia prima che qui si utilizza e la capacità di valorizzarla proprio nella sua essenzialità. Un’essenzialità che, se vi lascerete guidare nella scelta delle bollicine e dei vini, riscontrerete anche in ciò che berrete. Stupendovi, non appena sarete usciti, dall’insopprimibile voglia di tornare che vi assalirà e non vi abbandonerà più.


DNA da rompiscatole Sigfrido Ranucci is the well-known presenter of the Italian investigative TV series, Report, which airs on Rai 3 every Monday at 9.20pm. He was born on August 24th, 1961 in the Garbatella district of Rome, made famous thanks to the Cesaroni’s bar, protagonists of the television

drama series of the same name, as well as home to the headquarters of the Rome soccer club. Needless to say, he’s a Rome supporter, and last spring Francesco Totti gave him the number 10 jersey, not bearing the captain’s name, but instead that of Report’s host.

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di Simona Cangelosi Sigfrido Ranucci è il noto conduttore di Report, programma di inchiesta in onda su Rai 3 ogni lunedì alle 21,20. Nasce il 24 agosto del 1961 nel quartiere romano della Garbatella e diventa noto al grande pubblico grazie al bar dei Cesaroni protagonista della omonima fiction, nonché sede del Roma calcio club della borgata. Ranucci è tifoso romanista, neanche a dirlo, la scorsa primavera Francesco Totti gli ha donato la maglia numero 10, ma non con il nome del capitano, bensì con quello del conduttore di Report.

Una grande emozione ricevere un dono di stima e affetto da un grande campione?

Con Totti ho condiviso la grande passione per la Roma, le emozioni, le gioie le delusioni. Francesco non lo sa, ma è uno di famiglia, lo adorava mio padre, l’ho adorato io e lo adorano ancora oggi i miei figli. Spero che la maglia mi porti fortuna, Totti è un giocatore che nella sua straordinaria carriera ha incarnato perfettamente lo spirito di

Il suo nome di battesimo non è certo così diffuso. Si narra che John Turturro in un’intervista lo ripeté ben 23 volte. È vero che le fu dato in onore di suo nonno?

Il nome – ereditato da un nonno partigiano e orgoglioso – è da eroe wagneriano. Sigfrido senior, mentre passeggiava nella piazza di Stimigliano con quella che sarebbe diventata la futura moglie, fu fermato da una squadraccia che volle umiliarlo costringendolo a bere un bicchiere di olio di ricino. Bevve tutto d’un fiato, poi, in segno di sfida, chiese di poterne bere un altro. Orgoglio e amore per le sfide sono anche nel dna di Sigfrido junior.

Sua madre insegnante, suo padre finanziere, quanto ha influito il rigore morale nella formazione del suo carattere?

Mia madre Teresa è stata un’insegnante, a 89 anni è ancora indipendente, una forza della natura. Mio padre Bruno – che è morto pochi mesi prima della mia conduzione di Report – era nella Guardia di finanza. Lui mi ha insegnato a mantenere la schiena dritta nella vita.

Arriva in Rai nel 1989, 30 anni fa, per una strana coincidenza del destino che la vedeva barcamenarsi tra testi filosofici e tornei di tennis. Alla fine il servizio vincente è stato in un altro set: quello televisivo…

Dopo la laurea in lettere ho insegnato italiano e storia, con un passaggio anche alla carta stampata: poi sono approdato in Rai, grazie a una partita a tennis, in cui venni a sapere dal mio avversario di una selezione per la ricerca di personale. Il mio grande maestro e padre professionale è stato Roberto Morrione. Un immenso punto di riferimento per il giornalismo d’inchiesta. Mi ha insegnato la lealtà nei confronti dell’intervistato, e soprattutto a considerare il pubblico l’unico editore di riferimento.

Nel 2001 ha trovato e trasmesso l’ultima intervista, rimasta a lungo inedita, del giudice Paolo Borsellino. Oggi che sono trascorsi ventisette anni dalle stragi in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino, com’è cambiato secondo lei il sistema mafioso?

“Oggi capire cosa è la mafia è difficile perché si è inabissata, infiltrata e diventata invisibile anche perché non uccide più, e questo rende più impercettibili agli occhi della gente comune gli accordi con la politica, l’imprenditoria e la pubblica amministrazione. Rimane percettibile un senso di soffocamento.

Nel 2006 diventa coautore di Report con Milena Gabanelli, con cui ha realizzato il libro Ecofollie. Ci racconti com’è avvenuto il primo incontro...

Avevo appena realizzato uno scoop internazionale: l’uso dell’agente chimico fosforo bianco da parte dei militari statunitensi in Iraq a Fallujah. Milena mi telefonò mentre ero in bagno. Me lo ricordo come fosse ieri. Mi chiese di diventare suo coautore. Ero l’unico giornalista in Rai che girava con la telecamerina, nello stile di Report. Non ci pensai un secondo. Quella donna, simbolo del giornalismo d’inchiesta, mi ha colpito per la sua concretezza e dedizione al lavoro.

Nel 2010 un’altra sua inchiesta fece molto scalpore: il ritrovamento della pinacoteca di Calisto Tanzi, che fino a quel momento il patron della Parmalat aveva nascosto

agli inquirenti, grazie a un tassista particolarmente attento...

Scoprii che il tassista che mi stava portando in stazione a Parma era stato la guardia del corpo di Tanzi. Mi portò sulle tracce dei quadri che aveva nascosto prima in Svizzera, poi in città prima del crack: cento milioni di euro di capolavori, realizzati da Manet, Picasso e Van Gogh che furono sottratti ad azionisti e risparmiatori”.

Dalla primavera 2017, diventa il nuovo conduttore di Report al posto di Milena Gabanelli. Da lei eredita l’insonnia e una grossa responsabilità. Com’è cambiata la sua vita in questi ultimi due anni?

Report è una maratona psicofisica e passare dalle inchieste alla conduzione è stato imparare un nuovo mestiere. La mia vita è fatta di nottate in bianco e sveglie all’alba per controllare le informazioni e i contenuti che verranno mandati in onda. Un controllo quasi maniacale perché Report, fiore all’occhiello del servizio pubblico, negli anni ha fatto della credibilità il suo marchio.

Ama coltivare le rose e dedicarsi al bricolage nel suo rifugio di Rocca Massima, paesino di collina in provincia di Latina. Come si vede fra 10 anni? Sarà già un pensionato e un nonno felice?

Continuerò a essere un dolce rompiscatole, è nel mio dna. C’è una frase di Zygmunt Bauman che dice: “Nel mondo liquido, la vita di un essere dotato di volontà e libertà di scelta, non può non essere un’opera d’arte”.

Se lei avesse la possibilità di scegliere, cosa le piacerebbe fare, ancora?

Poter lavorare senza passare la maggior parte del tempo a difendermi dal mio lavoro. Sembra un ossimoro, ma è solo la tentazione di poter sfuggire alle decine di querele che arrivano ogni anno. Noi cerchiamo di fare il nostro lavoro nei limiti della verità, della continenza, e soprattutto dell’interesse pubblico. Negli anni abbiamo accumulato più di 200 milioni di euro di richieste di risarcimento. Personalmente più di 85 e 65 milioni tra cause civili e penali. Per ora, incrociamo le dita, sono andate bene, ma non è un bel vivere passare la metà della propria vita a difenderti dal lavoro che fai nell’altra metà. Ho il terrore quando suona il postino. La nostra casella postale è un po’ lo sfogatoio d’Italia. Riceviamo mail che i mittenti indirizzano contemporaneamente alla Procura della Repubblica e a noi. Un segnale di fiducia, ma anche una stortura di un paese che chiede giustizia a un organo di informazione. Siamo un po’ meno amati sicuramente da coloro a cui chiediamo spiegazioni, ma anche da quelli che, dopo anni, invocano il diritto all’oblio, chiedendo che non rimanga traccia di quanto hanno fatto o detto. Noi invece custodiamo un archivio con le sbobinature di tutte le nostre inchieste. È una memoria vivente delle storture di un paese che, servirebbe per evitare errori nel futuro. Perché cancellarlo?

Ci consiglia una pietanza romana che ama particolarmente?

Adoro la pasta, in particolare i bucatini all’amatriciana: un primo piatto tradizionale romano molto saporito e semplice da preparare tradizione vuole che il nome amatriciana derivi da Amatrice, balzata agli onori della cronaca per il terremoto che l’ha colpita tre anni fa. Mi hanno raccontato che i pastori uscivano con le greggi portandosi come pranzo dei semplici ingredienti per preparare un pasto con cacio e pepe al quale, quando ne avevano la possibilità, aggiungevano il guanciale: nasce così la gricia, che poi si evolve in amatriciana con l’aggiunta del pomodoro. Come vino consiglio un rosso dei colli etruschi viterbesi.

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SIGFRIDO RANUCCI:

Report: coraggio, passione, fantasia, originalità. Soprattutto fedeltà alle origini: ha indossato una sola maglia e non l’ha mai tolta, esattamente come chi entra a far parte della squadra di Report.


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Matías Duarte, a Chilean computer interface designer, is currently the vice president of Design at Google. When he arrived in Mountain View no one imagined what he would convey through his slides and his clear and simple narrative: it was not just a new design language, but a revolutionary way of thinking.

MATÍAS DUARTE quando il design si radica nel mondo classico

di Bernardo Cigliano

Fuori pioveva. Era un caldo e umido pomeriggio di ottobre, una di quelle giornate in cui non ti aspetti che un incontro possa cambiare tutto. Ci incontrammo, un semplice scambio di convenevoli. Col tempo imparai a conoscere la sottigliezza e la profondità del suo pensiero. Mi accolse aspro, consapevole della distanza che ci divideva, ma rimase arguto e veggente. Mi disse, dopo poco, che per lui sarei stato l’Etrusco. Senza appello. Etrusco, forse per la mia attitudine alla schiettezza, dura e aspra, proveniente da una terra ancora da bonificare. L’Etrusco, con la “E” maiuscola. Mi avvicinò al suo pensiero, alla sua corretta costruzione: “Tutti pensiamo attraverso figure, cui diamo forma e contenuto”. Matías Duarte, designer cileno di interfacce informatiche, è attualmente il vicepresidente del design di Google. Quando giunse a Mountain View nessuno immaginava ciò che avrebbe trasmesso attraverso le sue slide e la sua narrazione semplice e chiara: non si trattava solo di un nuovo linguaggio di design, ma di un metodo di pensiero rivoluzionario. Oggi viviamo braccati dall’approssimazione e, per resistere, non ci resta che barricarci nel fortino dell’esperienza. A volte, però, qualcuno riesce a scavalcare il muro del superfluo, del banale, e a cercare la forza della “figura”. Attraverso di essa prendono corpo le “forme” che solo componendosi tra di loro danno vita alla figurazione e al senso delle cose. A Matías feci domande che andavano oltre il colore, le ombre e le superfici, direttamente all’essenza delle forme delle figure. “Etrusco! Scrivi: Inventio. Dispositio. Elocutio”.

Alla base del suo pensiero innovativo c’è la più classica delle arti, la retorica e, con essa, i suoi pilastri: Inventio, Dispositio, Elocutio, riscoperte in relazione al digitale, al 4.0, alle intelligenze artificiali o al machine learning. “Ecco, Etrusco, le vedi le Forme? Sono loro”. Inizio a comprendere: le forme vivono, generate da figure. Il flusso sintattico è costruito sui genomi della retorica, un metodo antico che risale ad Aristotele e Cicerone. Il canone classico era pratico, efficace e diretto, e consentiva di costruire un ragionamento convincente e risolutivo. Oggi, però, c’è il digitale. Non molto tempo fa era una semplice interfaccia con un sistema virtuale che aveva esili necessità e dal quale ci si attendeva labili risultati. C’era un bottone, tu capivi, toccavi, lui eseguiva. Poi è successo qualcosa di inatteso, si è costruito un nuovo linguaggio nato attraverso milioni di click in ogni secondo di qualsiasi giornata trascorsa nell’ultimo ventennio. La cosiddetta “innovazione”, infatti, insieme a tecnologie sempre più portatili e accessibili, ha trascinato generazioni verso un mondo complicato e di difficile comprensione. Solo ritrovando la chiarezza umanistica incentrata sull’uomo potremo intravedere una via d’uscita e salvarci dal baratro della confusione mentale. Oggi è dunque possibile riscoprire la retorica, l’arte del ragionare, nella sua trasposizione digitale. La stessa me-

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Alla ricerca della forza della “figura”


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todologia propria dell’antichità classica, del medioevo e dell’età umanistica, riemerge inaspettatamente in un piccolissimo elemento di interfaccia grafica a portata di click. E si tratta di tematiche metodologiche relative al pensiero, in particolare al pensiero progettuale (Design Thinking), non al linguaggio. Tradizionalmente i percorsi metodologici innovativi che riguardano il pensiero progettuale si articolano su fasi distinte, sebbene non necessariamente sequenziali: empatia, definizione, ideazione, prototipìa, testing. A prima vista sembrerebbe un approccio distaccato dal metodo classico dell’Ars retorica, ma a ben vedere non è così. L’empatia individua i tasselli che compongono il pensiero progettuale: è questa l’Inventio, una scoperta che al contempo è un ri-trovare gli elementi del progetto pensato all’interno della nostra vita vissuta o sognata. Una volta determinate le basi del pensiero progettuale dobbiamo metterle in ordine, organizzarle, al fine di chiarire e semplificare l’esposizione dei contenuti e dei dati acquisiti: la Dispositio. La definizione degli elementi emersi nella fase di empatia è dunque il secondo step nel processo di Design Thinking. Trovati gli elementi (Inventio), organizzati e definiti, (Dispositio), vengono attivati i processi di ideazione del percorso logico alla base del pensiero progettuale, quello che nella fase di Elocutio dell’Ars retorica si attribuiva alla “forma delle idee” ai fini dell’efficacia del discorso, individuando (Electio) con prototipi e test l’ordine corretto per la soluzione (Compositio). “Etrusco! Come rileggi il canone ciceroniano e la retorica aristotelica oggi? Come la contestualizzi in ambito digitale?” Come potremmo schematizzare un percorso di pensiero progettuale che vada oltre il Design Thinking (Beyond Design Thinking)? Inventio. Nel mondo del web sembra semplice individuare dove e come ritrovare gli oggetti del pensiero digitale ai fini della costruzione della relazione empatica. È la stessa tecnologia dei motori di ricerca che, se utilizzata a supporto, aiuta nella scoperta, nel ri-trovamento. La chiamiamo fase Google. Dispositio. Ora che Google è corso in nostro aiuto e gli elementi sono lì, a nostra disposizione, abbiamo un ventaglio smisurato di possibilità di organizzazione degli oggetti digitali ri-trovati. Siti web, blog, social esistono proprio allo scopo di organizzare i contenuti e gli elementi trovati in storie, racconti, presentazioni, in maniera semplice ed efficace. La chiamo fase Social. Elocutio. Le metodologie di elaborazione digitale offrono numerose possibilità di dare forma agli elementi ri-trovati e organizzati. È questa la fase App, che è resa sempre più efficace da release aggiornate e attente all’intero processo. Il percorso tracciato sin qui ci ha traghettato dal pensiero classico dell’Ars Retorica fino al moderno Design Thinking e ci ha consentito di affrontare la complessità e, utilizzando antichi strumenti, di riprogettare la semplicità. Siamo approdati al Beyond Design Thinking e il solo processo di semplificazione che può salvarci dall’annientamento nella complessità è quello che riporta l’uomo al centro del sistema di pensiero, in un design dell’interazione che considera macchine e tecnologia a uso precipuo dell’utilizzatore. Human Centered Design saranno le assi solide su cui costruire il ponte per il grande balzo (Giant Leap) verso il futuro dei processi di pensiero progettuale. Uscii dopo ore di scambi, ore che furono minuti, trascorse a sondare la tenacia e la profondità delle sue argomentazioni. Solo col tempo compresi appieno la potenza di quello strumento metodologico per comporre il pensiero. Negli anni ne smussai gli spigoli e cercai nuove proiezioni e ancora oggi ne utilizzo gli schemi.

The history of Centopassi (One Hundred Steps), the winegrowing soul of the Libera Terra cooperatives, is all in the labels of its “cru”, the nine wines produced by individual vineyards that represent the most ambitious project of the winer. On each label: the locality encompassed in the name, the name of the vineyard, the soil matrix, and an exquisite picture that depicts the extraordinary and uncontaminated nature of the Upper Belice Corleonese region where the 65 hectares of vineyards managed by Centopassi are distributed

La qualità di

Centopassi

Vitigni spruzzati sull’Alto Belice di Chiara D’Ippolito La storia di Centopassi, anima vitivinicola delle cooperative Libera Terra, è tutta nelle etichette dei suoi “cru”, i nove vini prodotti da singoli vigneti che rappresentano il progetto più ambizioso della cantina. Su ognuna, il nome del vino racchiude la località, il nome della vigna, la matrice del suolo, e un raffinatissimo disegno apre una finestra sulla natura straordinaria e incontaminata dell’Alto Belice Corleonese dove sono distribuiti i 65 ettari di vigne gestiti da Centopassi. Come se ogni etichetta, mostrando i tramonti rossi e struggenti, i terreni argillosi e il bianco dei picchi calcarei di un territorio che arriva a sfiorare i mille metri sopra il livello del mare, fosse quasi la mappa semiotica dei vini che veste. Produrre vini di qualità in grado di leggere ed esprimere il territorio è, infatti, il principio che ha guidato la nascita delle tre cooperative sociali – la Placido Rizzotto, la Pio La Torre e la Rosario Livatino – che


modello imprenditoriale virtuoso. Seguire una logica d’impresa cooperativa è stato infatti il presupposto imprescindibile per le cooperative di Centopassi, come per le altre sei che dal 2001, sotto l’egida di Libera Terra, coltivano i territori confiscati alla mafia in Sicilia, Campania, Puglia e Calabria. Secondo Ascione, “affrontare il mercato in maniera assolutamente ‘normale’, è l’unico modo per creare delle aziende autosufficienti capaci di stare sul mercato nel lungo periodo, e per fare sì che i figli delle persone che lavorano per noi desiderino continuare a farlo”.

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i t t o d o r p i n i v nove i t e n g i v i l o g n i s a d

nel 2005 si sono riunite sotto il marchio Centopassi e che, oggi, producono mezzo milione di bottiglie all’anno tra cru, selezioni doc e blend Igt. Una vera e propria filosofia che, anno dopo anno, si è tradotta – come ci ha raccontato Giovanni Ascione, appassionato e vulcanico “condottiero” di Centopassi – in un costante lavoro di conoscenza e di ricerca sulle vigne e in un’attenzione maniacale per l’incrocio vitigno-territorio. A questo impegno per la qualità si è accompagnata fin dall’inizio anche la precisa volontà di creare un


in condizione di totale impossibilità di utilizzo, hanno dovuto essere reimpiantate; le strade tra i diversi appezzamenti non solo sono poche, ma anche così fragili che ogni inverno ne va perduta una. Grazie a un patrimonio naturale incredibile per la sua diversità, che lo rende un luogo ideale per la crescita della vite, l’Alto Belice ha permesso di inseguire la promessa di un prodotto di altissima qualità. Lontano dagli stereotipi del vino siciliano degli anni novanta, e caratterizzato, quindi, da uno stile ben preciso, fatto di eleganza, verticalità, mineralità, e straordinaria leggerezza. Una promessa mantenuta, che trova la sua migliore espressione nel vitigno di Portella della Ginestra: una sella, a 950 metri d’altezza, fatta tutta di pietraie e caratterizzata da un calcare spesso molto puro. Su questo terroir Centopassi ha vinto un’importante scommessa: produrre un vino rosso, il Pietre a Purtedda da Ginestra, 70 per cento Mascalese e 30 per cento Nocera, in un sito dove la scelta più facile e immediata sarebbe stata quella di produrre un bianco.

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LIBERA TERRA

Una scelta consapevole e vincente, che ha permesso di far rivivere le terre dell’Alto Belice creando sviluppo in modo etico ed evitando la narrazione della sofferenza e dell’eroismo per abbracciare quella della qualità: “il peggior acquisto possibile” – continua Ascione – “è quello che parte al contrario, dal fatto di ‘aiutare’. Devi comprare il nostro vino perché è buono, e perché il prezzo ripaga abbondantemente quello che hai preso”. È la scelta della qualità, infatti, la sola in grado di dare fino in fondo senso alle dediche alle vittime della mafia che accompagnano i vini: quelle a Pio La Torre o a Peppino Impastato, ma anche “ai contadini che, subendo l’arroganza e la violenza mafiosa, hanno trovato il coraggio di reagire e alzare la testa restituendo dignità e speranza alla propria terra”. Una terra, quella dell’Alto Belice, che per Centopassi ha significato duro lavoro e tempi lunghi: i vitigni non sono distribuiti, ma “spruzzati” in un territorio che costringe un trattore a percorrere anche tre ore di strada da una vigna all’altra; le vigne, spesso “ereditate” dai mafiosi


I.P.

La pazienza del buon vigneron: Andrea Cortonesi e le vigne dell’Uccelliera

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di Andrea Zanfi

To observe a vigneron (winegrower) amongst his rows during the grape harvest is a way to to get closer to the magic that surrounds this celebration. In fact, these are the crucial days that mark the culmination of a year’s work and the future of Brunello. Discretely observed and described by a friend, Andrea Cortonesi, absorbed and silent in Uccelliera, his vineyard in Montalcino.


dici profonde in queste zolle montalcinesi quanto e più delle viti che coltiva. Andrea è un uomo di poche parole che trova difficoltà persino a parlare del suo vino perché, come sostiene, se è fatto bene non ha bisogno di tanti discorsi. E il suo, di vino, si racconta da solo e nel degustarlo sa descrivere meglio di qualsiasi persona dove nasce e quale sia il distinguo che lo caratterizza; con eleganza sa affascinare e trasmettere il valore del lavoro svolto intorno a quelle viti da cui ha origine. Torno sui miei passi. Aspetto che arrivi l’ora di cena, che gli operai sparsi per tutto il giorno nel giardino delle vigne se ne siano andati, che i macchinari in cantina si siano fermati e la famiglia si raduni attorno alla tavola per la cena. Solo ora lo saluto e lo abbraccio come sa fare un buon amico.

Artigiani del vino stessa pazienza con la quale Andrea ha imparato, prima di predicare, ad ascoltare. Un insegnamento utile, acquisito dalla cultura contadina in cui è cresciuto, apprendendo il rispetto e l’umiltà nei confronti della terra cui si deve obbedire. Lo cerco fra i filari, ma quando lo vedo mi fermo, tenendomi a distanza, in silenzio: chino su ogni vite è assorto nei suoi pensieri. Sono le persone come lui che, da queste parti, rendono grande il Sangio-

vese. Perché fare vino è la loro vita e quell’uva rappresenta il loro patrimonio anche ideale. Andrea fa parte di quella stirpe di vigneron che puzza ancora di contadino: gente genuina, schietta, vera, che non distingue la domenica dal venerdì, non si tira indietro davanti al lavoro e non si preoccupa di bagnarsi di sudore la fronte o la camicia. Pensavo di conoscerlo, ma solo dopo anni ho scoperto quale sia realmente la sua più grande virtù: quella di avere ra-

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Passo a trovarlo poche volte in un anno, ma una di queste è quando vendemmia. Lo so che non dovrei, perché è un momento delicato, importantissimo, ma è più forte di me. Pur comprendendo che per lui la vendemmia è un rito sacro, che preferisce svolgere nella massima solitudine, non riesco a rinunciare a questa visita. Non so se questo mio perseverare dipende dall’odore del mosto che impregna la cantina, dall’idea stessa che la vendemmia sia un momento di festa e, per questo, meriti d’essere celebrato con chi è capace di renderlo magico. Oppure se siano le stupende tagliatelle all’aglione e ai piccioni arrosto che mi prepara ogni volta sua moglie. Sta di fatto però che, anche quest’anno, sono qui a Montalcino, all’Uccelliera, a casa di Andrea Cortonesi. Arrivo a metà del pomeriggio ed è chiaro che lui sia in vigna: è questo il suo momento. I chicchi d’uva che assaggia fra i filari per lui sono i precursori gustativi di come si stia evolvendo la vendemmia, capaci di determinare le tempistiche e la logistica operativa della vigna e della cantina. Spesso osserva il cielo, decidendo come e quando intervenire nei filari e quali uve raccogliere nella giornata. Da queste parti è risaputo che non c’è una sola vendemmia, ma tante vendemmie quante sono le giornate che occorrono per portare in cantina tutta l’uva matura al punto giusto. Scrupoloso com’è cerca di cogliere l’attimo per fare ciò che deve essere fatto senza esitazioni, tentennamenti o ritardi, scoprendo come ogni vendemmia sia diversa da quella dell’anno precedente. In questi giorni tutto il resto è superfluo. E come potrebbe essere diverso, se questo momento capita solo una volta l’anno e in esso si concretizza, in poche giornate, non solo il lavoro fatto nei precedenti undici mesi, ma anche il futuro del Brunello. Un vino che non ha fretta. Devi attenderlo con pazienza, quella


Il VINO al tempo del

4.0

Agriculture is changing to adapt to a changing climate, a volatile market, an overcrowded planet and an increasingly fickle and informed consumer. How it is changing still needs to be understood. The only thing we can say with certainty is that technology will play a fundamental role.

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di Vitaliano Fiorillo direttore di AGRILab, SDA Bocconi School of Management


04.

Se queste domande sono legittime, la risposta a esse non può prescindere da una loro riprecisazione. Il pericolo di perdere valore non risiede tanto nella tecnologia, ma semmai nella ratio che guida l’applicazione tecnologica: certamente, se sarà la volontà cieca di tagliare i costi a indirizzare la tecnologia in vigna e in cantina, a poco a poco il vino italiano tornerà a essere un “alimento” e nulla più. Se la tecnologia invece verrà impiegata per migliorare la

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L’agricoltura sta cambiando per adattarsi a un clima mutevole, un mercato volatile, un pianeta sovraffollato e un consumatore sempre più informato e volubile. Come stia cambiando è ancora tutto da capire. L’unica cosa che possiamo affermare con certezza è che la tecnologia giocherà un ruolo fondamentale. Agricoltura 4.0 è ormai una parola di uso comune ma vale la pena approfondire prima di tutto di cosa si tratti e, successivamente, quali siano le implicazioni per il mondo della viticoltura. L’agricoltura 4.0 è tutto l’insieme di strumenti e strategie che consentono all’azienda agricola di conservare le risorse e aumentare l’output, di ridurre i costi e velocizzare le lavorazioni, di aumentare la qualità. Nella viticoltura 4.0, per mezzo della tecnologia si mira a sfruttare appieno il potenziale enologico della vigna, identificando le condizioni di salute della pianta, la vigoria e le necessità fisiologiche, metro per metro. Per fare tutto questo serve la combinazione di molte tecnologie che vanno dai satelliti ai droni, dai sensori per la raccolta dei dati all’intelligenza artificiale in grado di interpretarli, dalle macchine in grado di assimilarli e operare autonomamente ai protocolli di digitalizzazione, sicurezza e trasmissione lungo la filiera. Gli esempi di utilizzo di queste tecnologia, anche in Italia, sono molti e evidenziano alterni risultati: indiscutibili dal punto di vista operativo, ancora da verificare in termini di impatto sul bilancio. C’è però un fatto, a un tempo molto più sottile e non misurabile, che merita di essere considerato: è storicamente assodato che la tecnologia spaventa. Ma chi è a esserne spaventato? Non l’agricoltore o, almeno, non più di tanto: quest’ultimo infatti, negli ultimi settant’anni, si è gradualmente abituato ad accogliere di buon grado ogni innovazione tecnologica che possa garantire minori costi, minor fatica, maggiori volumi o maggiore qualità. A essere spaventato dalla tecnologia è invece, soprattutto, il consumatore: è lui a vedere nel suo utilizzo un passo verso la standardizzazione dei prodotti e verso la perdita di quel know-how tradizionale che contraddistingue il nostro paese. Se si parla di vino poi, si mette in discussione una vera e propria arte che porta con se valori, fascino collettivo e patrimonio nazionale. Non a caso, le aziende italiane che utilizzano tecnologie d’avanguardia, tendono a non comunicarlo troppo verso l’esterno, per non minare alla radice l’immagine bucolica e “naturale” dei vini prodotti dalle loro cantine. La paura del consumatore, d’altro canto, si radica in domande del tutto legittime: quale elemento valoriale della produzione rischieremmo di perdere utilizzando un’immagine satellitare che ci consente di uniformare la qualità e correggere meno in cantina? Quale pezzo di storia potremmo perdere in un utilizzo più razionale dei concimi o degli agrofarmaci dispensati con macchinari a guida autonoma?

qualità organolettica, la sostenibilità e la trasparenza, allora i vantaggi diventeranno palesi: gli stessi valori in cui si radicano i grandi vini italiani, anziché venire snaturati, risulteranno rafforzati anche nell’immagine che i mercati ne avranno. Non senza, parallelamente, cominciare finalmente a sedurre anche le nuove generazioni, che da una cantina, oltre all’heritage, pretendono anche attenzione e cura verso le risorse naturali.


Chiarli Quinto Passo Pas Dosè VSQ 2015, tradizionale classico

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Cleto Chiarli Tenute Agricole via Belvedere 4, 41014 Castelvetro di Modena (MO) www.chiarli.it L’Emilia è spumeggiante per natura. Il vino premiato è ottenuto da un 80 per cento di uve Chardonnay e da un 20 per cento di uve in purezza del Lambrusco di Sorbara, uvaggio che miscela da un lato la matrice fresco delicata del Sorbara prodotto nella tenuta a Sozzigalli e dall’altra la ricchezza aromatica floreale dello Chardonnay prodotto a Santa Croce Valsamoggia. Questo mix conferisce delle caratteristiche idonee alla produzione spumantistica, sia metodo italiano che metodo tradizionale classico. Le uve sono raccolte a mano in cassette e subiscono una immediata pressature soffice per ottenere mosto ricco in acidità e salinità. Viene stabilizzato in tini di acciaio a temperatura controllata. Segue il tiraggio in bottiglia di vetro con aggiunta di sciroppo e la prolungata rifermentazione per circa 24 mesi sui lieviti prima della sboccatura. La sboccatura successiva avviene con un altro sciroppo a base di mosto dello stesso vino lasciato fermentare in botticelle di rovere. Il vino, così ottenuto con il metodo tradizionale, presenta un 12,40 per cento di titolo alcol svolto,

un ph di 3,20 e una acidità volatile di 0,09 grammi per litro, una acidità marcante di 7,50 gr/l con minimi residui zuccherini di 1,5 grammi/litro. Solo 60 mg/litro di anidride solforosa complessiva. Vestigia giallo oro solcata da catenelle fini e persistenti dai bagliori smeraldini sormontata da una corona intensa. Spettro aromatico di fiori bianchi di pesco e di trifoglio e di propoli. Sorso impattante per freschezza e acidità con un grande equilibrio armonico titolo-acido-tannico regolato da una effervescenza consistente, stuzzicante e suadente. Presenta anche un buon corpo, di anima elegante, con finale lungo piacevole energico e appagante con un minimale tono di terra che lo personalizza ancor più.

Giribaldi Brut Alta Langa Docg 2013, tradizionale classico Azienda Agricola Mario Giribaldi loc. della fontana, 12050 Rodello d’Alba (CN) www.vinigiribaldi.com Un vino spumeggiante di un giovane produttore, azienda vitivinicola in terra di Barolo, esattamente a in quel di Rodello, terreni calcareo-argillosi e marnosi posti fra 500-550 mslm, esposizione regolare verso il levar del sole. Conduzione biologica delle vigne, Matteo Giribaldi dal 2011 punta sullo spumante lta langa docg.

Si parte da un mix di uve Pinot Nero per il 60 per cento e il 40 per cento restante di Chardonnay. Raccolta manuale, oramai anticipata ad agosto, delle uve che sono sottoposte a una pressatura soffice per utilizzare solo il mosto fiore, cioè quello primario. La prima fermentazione avviene in tini di acciaio per circa 30 giorni a una temperatura fissa, tendenzialmente bassa, di 13-14°C. Il vino resta per alcuni mesi nelle botti e regolarmente e con continuità settimanale avviene il rimescolamento per favorire la protezione dei tannini e dare più corpo. A primavera successiva si effettua il tiraggio con il primo sciroppo per la rifermentazione in bottiglia che dura da 30 a 36 mesi. Quindi le bottiglie, poste nelle ogive dei cavalletti di legno quasi orizzontali, subiscono il particolare leggero scuotimento manuale non meccanico con sempre maggiore inclinazione verticale. Il tutto avviene sottoterra. Dopo c’è la sboccatura con l’aggiunta del secondo sciroppo che dona la caratteristica di sapore brut, quindi con poco zucchero. Effervescenza limpida di minute e continue bollicine stese nel calice su un abito dorato brillante. Piatto olfattivo ampio ed elegante, dal fiore secco di gladiolo a quello bianco fresco di biancospino. In bocca molto fresco minerale con toni di propoli e buon lievito, bilanciata morbida-acidità con note di cedro, appagante corposità e finale di mandorla armellina fresca.

Agostinetto Bruno Azienda Agricola Via Piander,7 - 31049 Saccol di Valdobbiadene – Altamarca Treviso www.agostinetto.com Da secoli Valdobbiadene produce vini, sempre effervescenti e vivaci. Da tempo immemore era in uso la scaraffatura a mano, al posto della sboccatura. Gli Agostinetto da 4 generazioni sono a Saccol, in casale di famiglia, in mezzo alle vigne verso il Cartizze, con diverse viti centenarie anche di Verdiso e Bianchetta, oltre che Prosecco, e una delle cantine di fine Ottocento, totalmente originaria oggi attrezzata con moderne tecniche pur mantenendo saldamente intatta la tradizione. Le vigne, su un terreno morenico che trasferisce salinità nei ceppi più vecchi, sono ai piedi di Mondeserto, ultima bastia degli Ezzelino nella guerra con i Veneziani, collina ripida terrazzata, eroica viticoltura… si direbbe… dove la manualità è insostituibile. Produce solo centomila bottiglie di spumante, tutto metodo italiano. Il vigneto che produce Vigna del Baffo vendemmia 2017, ottenuto da uve Glera in purezza, ha più di 80 anni, filari a spalliera, erba fra i filari, nessun uso di diserbanti, lotta integrata. La vinificazione avviene in bianco con un terzo delle uve in macerazione a freddo, fermentazione in tini di acciaio piccoli con aggiunta di lieviti naturali dell’uva stessa, affinamento solo in acciaio per un anno dalla vendemmia a temperatura controllata medio-bassa. Nessun aggiustamento e integrazione all’imbottigliamento e affinamento ancora per 4-5 mesi in cantina. Il titolo alcolometrico è di 11,5 per cento vol. e l’acidità totale di 6,5 gr/litro. Colore paglierino giallo, catenelle piccole risalenti sinuose, corona laterale persistente. Profumi di geranio e ranuncolo giallo. Al gusto è setoso, pieno; verticale di platicarpa

(pesca-albicocca) gialla matura in equilibrata acidità-morbidezza e finale leggermente salmastro e agrumato.

finale ha una equilibrata ed evoluta acidità con sensazione minerale e una piacevole pennellata finale di nespola appena matura.

Giannitessari 120 Monti Lessini Doc extra brut, tradizionale classico

Produttori St PaulsAppiano, Praeclarus Alto Adige Doc brut, tradizionale classico

E.I.B. GianniTessariWine via Prandi 10, 37030 Roncà (VR) www.giannitessari.wine La storia viticola della Lessinia è strettamente intrecciata con la “Durasena”, l’uva antenata della Durella, già nota nel 1292. I Monti Lessini e la Val d’Alpone conoscono la vitis vinifera dalla preistoria per un ecosistema ideale. I dolci declivi di matrice vulcanica godono di diverse escursioni termiche, con terreni ricchi di sostanze minerali. La giannitessari coltiva 55 ettari di vigneti in tre territori diversi, produce 350.000 bottiglie soprattutto Soave, ma anche Tai, Cabernet, Merlot e quattro versioni di Lessini Durello doc. Il 120, cioè 120 mesi sui lieviti a maturare, spumante con il metodo tradizionale classico, è ottenuto dai vigneti coltivati a spalliera Guyot di 7000 ceppi per ettaro, la vendemmia è manuale in cassette piccole, la pressatura soffice delle uve Durella in purezza, molto curata, consente di avere massimo 80 ettolitri di vino base per ettaro. La prima fermentazione avviene a temperatura controllata di 14-16 gradi fino a completare tutta la malolattica, a seguire taglio per la seconda fermentazione e sosta sui lieviti all’incirca interi 9 anni nei locali sotterranei della cantina. Il 120 mesi si presenta all’occhio con un vestito di un giallo paglia luminoso, spumeggio misurato lento e sinuoso di minute bolle che si aprono a ventaglio continuo in una corona cremosa spessa. Il bouquet è intenso dai sentori di fiori di achillea, albizia e nocciole tostate. Il sorso dà immediatamente un senso di pienezza e complessità, per cui si sente una struttura piena del vino, un gradito ritorno di lievito nitido e buon miele caldo accompagnano; il

Produttori San Paolo via Castel Guardia 21, 39057 S. Paolo Appiano (BZ) www.stpauls.wine Luogo di vigne e di grandi vini, siamo sulla strada del vino , dove sorge la cantina di san paolo appiano, una cantina con tanti conferitori associati. 175 ettari di vigna, con terreni assai diversi, calcarei e morenici, e misti formati nell’ultima era glaciale, sui pendii attorno a San Paolo. Già nel 1979 pochi produttori si cimentarono nella produzione di una etichetta di bollicine, il Praeclarus. In vigna, nella nuova e altamente tecnica cantina e con i soci, tutto avviene secondo regole di sostenibilità globale, inteso come equilibrio non forzato fra vigna e cantina, fra salute e futuro. Il Praeclarus, spumante metodo tradizionale classico, nella tipologia di sapore brut, si ottiene solo da uve Chardonnay, da tre vigneti selezionati nelle valli centrali di San Paolo con terreni profondi di origine e struttura morenica con quota calcarea, posti fra 450 e 550 mslm in un habitat ideale, ottima escursione termica, viti di almeno 40 anni. Raccolta manuale in giornate fresche, uve ben mature, resa contenuta. Le uve fermentano in serbatoi d’acciaio a temperatura controllata, poi maturano in grandi botti di rovere. Il Praeclarus dopo l’imbottigliamento del vino base, ottenuto da una equilibrata cuvèe di vini, viene posto a rifermentare all’interno del vecchio bunker militare di San Paolo dove tutte le migliaia di bottiglie, stipate nelle diverse camere-celle della casamatta a due piani, maturano per almeno 48 mesi su lieviti sele-

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Viniassaggi

Agostinetto Vigna del Baffo, Valdobbiadene Docg Superiore extra dry 2017, metodo italiano


Vezzoli Giuseppe Franciacorta Saten, tradizionale classico

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Azienda Agricola Vezzoli di Giuseppe Vezzoli via Costa Sopra 22, 25035 Erbusco (BS) www.vezzolivini.it Franciacorta…e basta! Si diceva. Una realtà vitivinicola di vertice per le bollicine tricolori, ben forgiata negli ultimi 30 anni, a sud del lago di Iseo. Vezzoli, in Erbusco capitale, è azienda dinamica, alla ricerca di una naturalità completa dell’uva-vino-terra, con diverse etichette e tipologie. Il Franciacorta Saten, espressione della docg, presenta elementi fondanti della creazione di questo nome-prodotto esclusivo dal 1994 per la Franciacorta: risposta italiana al crémant. Il Saten Vezzoli è prodotto solo con uve Chardonnay, fenolicamente mature e non anticipate, senza zuccheri esogeni (di canna) per liberare integrità e caratteristiche del frutto. La prima fermentazione del vino base, avviene inizialmente in acciaio e a seguire, per un periodo regolare di 6-7 mesi in piccole botti di rovere fino al tiraggio, cioè all’imbottigliamento con la prima tappatura provvisoria. Segue un periodo minimo di 24 mesi di affinamento e scuotimento delle bottiglie sui cavalletti, una bottiglia per volta, tutto a mano. Alla sboccatura

non avviene aggiunta di sciroppo di dosaggio in modo di mantenere il più possibile la originalità varietale e territoriale. Il Saten Vezzoli si presenta con una gradazione reale e sensitiva di 12 per cento volumetrici non pesante, una acidità totale di 6,9 gr litri, un estratto di 23,70, una pressione delicata, giusta e più bassa, di 4,60 atm alla apertura, con residui zuccherini minimali di 3,8 gr litro, quindi tendente a un brut asciutto ideale a tutto pasto. Perline finissime e continue formano una corona nel calice, non esuberanti ma persistenti, su un abito giallo oro brillante. Naso vivido di frutto uva e fiori di pescanoce bianchi. In bocca è rigoglioso e croccante, la pienezza della cremosità esalta corposità, equilibrio frutto-acido, armonici toni di ananas e stelo di vaniglia, mandorla fresca, finale sapido e iodato.

Mirizzi Verdicchio dei Castelli di Jesi Doc, extra brut, tradizionale classico Mirizzi Montecappone sarl via Colle Olivo 2, 60035 Jesi (AN) www.montecappone.com L’azienda coltiva 6 ettari di vigne e 3 di olivi. I terreni vitati, posti sul pendio verso la strada Aguzzana, riva destra del torrente Esimo, in comune di Monte Roberto, a una altitudine di circa 300 metri, derivano dai sedimenti appenninici e dallo svuotamento del bacino marino, lasciando un suolo marnoso con presenza di sabbiosità fine e arenaria miocenica gialla (detta di Borello). Questo vino prende origine dalle uve del vitigno Verdicchio di Jesi, in parte nuovi e in parte vecchi cloni, allevati a spalliera con potatura a guyot rada secondo criteri di agricoltura biologica, 4500 ceppi per ettaro, una resa tenuta sotto controllo di massimo 2,8 kg per pianta. Le uve sono raccolte a maturazione avanzata senza perdita di acidità. In cantina si pratica una vinificazione tradizionale in bianco a temperatura controllata. Terminata la

prima fermentazione alcolica, dopo 10 mesi di affinamento sulle proprie fecce accompagnati da una delicata agitazione per portarle in sospensione, si procede alla presa di spuma in bottiglia, con la prima tappatura provvisoria. Dopo si effettua la sboccatura, ovvero la eliminazione veloce dei lieviti che hanno lavorato per minimo 24 mesi in bottiglia. Dalla ritappatura con tappo di sughero, senza alcuna aggiunta di sciroppo, la bottiglia resta in affinamento in cantina per almeno1-2 mesi. Si presenta con un titolo alcolico buono, ricco ma non invasivo, ci sta, fra 12,5 e 13 di per cento volumetrico. Spumeggio pieno e cremoso su un corpo paglierino carico con lampi verdolini chiude con fitta corona continua. Ventaglio olfattivo legato ai fiori di tiglio e ginestra gialla oltre ad un tono iodato. Palato sapido salmastro, fragrante, delicato equilibrio cremoso con piacevoli note di pesca e prugnolo maturo con finale raffinato di mallo di noce.

Nino Franco Vigneto delle Rive di San Floriano, Valdobbiadene docg Prosecco Superiore brut, metodo italiano Nino Franco Spumanti via Garibaldi 147, 31049 Valdobbiadene-Altamarca (TV) www.ninofranco.it Le colline del Prosecco, in Altamarca, hanno ricevuto il riconoscimento Unesco. In 20 anni il Prosecco spumante è cambiato totalmente. Con la tecnologia migliore curata e delicata, oggi, ci sono grandi vini a Valdobbiadene. L’azienda di Primo e Silvia Franco, oggi produce oltre un milione di bottiglie, ha vigne in proprietà e in affido da amici e confinanti viticoltori, alcune al limitare delle case del paese fino al Cartizze, in terreni magri, calcarei, poco profondi che poggiano sulla roccia viva, suoli antichi molto diversi, differenti da quelli di pianura e di fondovalle. Questo spumante, dal-

le caratteristiche particolari, si ottiene dalle uve prodotte lungo una “riva” terrazzata naturale, sul pendio di ponente del monte Cesen, fra la chiesa di san Floriano che domina Valdobbiadene e il Ron. Filari di vigne ancora con pali in legno, sesto di impianto largo, tra i filari inerbimento e rispetto dell’ecosistema secolare che governa una viticoltura con tempi lenti, uve lasciate ben dorare sulla pianta, raccolta obbligata a mano, pressature controllate dei grappoli di Glera, per mantenere soprattutto sentori varietali e primari. Vinificazione e fermentazione tutta in botti in acciaio, massima sanità dell’uva e ambiente di cantina per esaltare, all’imbottigliamento quasi un anno dopo la vendemmia, la freschezza fruttata che porta con se le sfumature asciutte di un mosto morbido per natura e del terreno scarno. Il Valdobbiadene Rive di San Floriano è uno spumante ottenuto con il metodo italiano della fermentazione e pressione controllata, seguita passo passo, di mesi in botti di acciaio grandi con agitazione meccanica in modo da estrarre fin all’ultimo la fragranza fruttata. Le uve utilizzate sono di Glera al 100 per cento, la gradazione alcolica finale sfiora il 12 per cento del volume. All’assaggio in vino presenta un abito di colore paglierino carico brillante sormontato da una vivace continua e intensa produzione di bollicine fini. Il naso sembra che si riempia di frutta gialla e verde mista con un sentore preminente di biancospino e fior d’arancio. Il sorso è pieno e appagante, raffinato e fresco, con un nuovo ventaglio di mela, pesca e lime che termina piacevolmente con un mix di acidità agrumata rotonda.

Toblino Cantina Antares Trento Doc millesimato brut, tradizionale classico Cantina Toblino via Longa 1, loc Sarche, 38072 Calavino (TN) www.toblino.it

Siamo nelle zone collinari della valle dei Laghi del Trentino sud-occidentale, la valle del Sarca, dove 560 viticoltori coltivano vigne per circa 850 ettari fra la sponda nord del lago di Toblino, località Pergolese, conferitori delle uve alla cantina. Piana di origine glaciale, terreni magri e ghiaiosi, sponde brulle con pendii forti, presenza delle famose Marocche, collegate da più laghi che conferiscono un clima che d’inverno non ghiaccia mai, oltre ad essere una valle sempre ventilata. Il vino Antares nasce qui, dalle migliori uve Chardonnay raccolte annualmente secondo le regole di un regime biologico controllato e seguito passo per passo. Le uve Chardonnay, raccolte a mano in cassette, provengono da vigne diverse, un mix che esalta le diverse unità di pedopaesaggio, ma che uniforma la tipologia, selezionando sempre il miglior rapporto acidità, zuccheri e sostanza secca per intervenire il meno possibile durante il processo produttivo. Bassa resa, pressatura soffice, vinificazione tradizionale sotto controllo e lenta. Imbottigliamento e tiraggio, tipico del metodo classico e del Trento doc, con uno sciroppo delicato, scuotimento regolare molto lento, almeno 3 anni di affinamento sui lieviti in cantina. A seguire la definitiva sboccatura e il dosaggio non invasivo per mantenere la massima freschezza anche dopo un invecchiamento prolungato. Al consumo presenta 12,5 per cento vol di titolazione, un ph di 3,36 gr/litro, estratto totale 24,4 gr/lt, acidità totale 5,59 gr/litro e zucchero residuo di 2,84 gr/ litro. All’assaggio, l’Antares brut si presenta con un abito oro paglierino scarico e venature smeraldine, una carbonica vivace e spessa, alimentando una persistente coroncina che segna il calice. Un profumo saldo ed evidente di lievito e pan brioche ben amalgamato con quello della mela verde e fiori bianchi di felce e kalicantus. Gusto fresco e bilanciato, invogliante alla beva sottolineata da una piacevole nota salata, acido rotondo, fragrante, con gradevole nota di pompelmo.

Sergio Mottura Millesimè brut vsq, tradizionale classico Sergio Mottura Località Poggio della Costa 1, 01020 Civitella D’Agliano (VT) www.sergiomottura.com Famiglia storica appassionata della terra e del vino. Una impronta qualificante per tutta la vitivinicoltura laziale con il recupero dei vitigni migliori indigeni. Tenute di 130 ettari, sulle colline e fra calanchi argillosi di Civitella d’Agliano, segnate dal Tevere, di cui 36 a vigna. Per questo metodo tradizionale classico le uve di Chardonnay, in purezza, provengono dal vigneto san Martino di 40 anni, di levante, in terreno di medio impasto argilloso, allevato a cordone speronato e coltivato secondo le regole biologiche. Vendemmia manuale selezionata, anticipata in base al titolo acido e sotto controllo termico, spremitura molto soffice del grappolo intero, decantazione dei mosti e prima fermentazione a temperatura media bassa. Presa la spuma, matura almeno 5 anni sulle proprie fecce e lieviti nelle grotte di tufo a temperatura ambiente che non supera mai i 12°C. Dopo la sboccatura si riposa per almeno due mesi, ma può durare anche di più se conservato molto bene. Questo spumante metodo tradizionale classico si presenta con 12,5 gradi percentuali volumetrici di alcool, una acidità totale di 6,50 gr litro e un estratto secco intorno ai 20 gr litro. Buona premessa per un assaggio che merita. Vestaglia di un bel colore oro brillante tenue con alcuni lampi smeraldini sormonta una bella corona di spuma intensa che riempie il calice. Profumi varietali variegati che ricordano fiori bianchi di frutta e di ortaggi su intenso aroma di lievito fresco. Il palato risponde alle aspettative in modo equilibrato e armonico, non invadente, tendenzialmente asciutto, sorso pieno, fragrante ed elegante, finale particolarmente sapido con tono pietroso e agrumato.

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zionati, a temperatura media e fissa di 12 gradi naturali. A seguire il tradizionale scuotimento sui cavalletti e la sboccatura con aggiunta di minimo rabbocco con sciroppo. Calice di vino si presenta pieno di elegante effervescenza continua minuta formante una larga regolare spessa corona. Il corredo aromatico variegato di fiori gialli di campo e di cornetto caldo. In bocca si è colpiti da toni di percocca bianca e clementina su spessa cremosità; ottimo equilibrio acido-titolo-sapidità, struttura cremosa, finale fresco speziato.


Parma Il nuovo ritmo di

di Giampietro Comolli

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Here you can breathe the history of the early Renaissance that renders this city unique, made elegant and gallant by those noble palaces that were cultural forges, and by their open doors which, over time, have become a model of hospitality always open to “bien vivre” (good living).

Fra le 10 finaliste del premio capitale della cultura italiana 2020 ben tre erano emiliane, Piacenza, Parma e Reggio Emilia. La giuria ministeriale ha decretato vincitrice Parma, dando di fatto valore a quella filiera che corre sulla parte nord della via Emilia un po’ diversa dall’altra modenese-bolognese.

Qui si respira la storia del primo Rinascimento che rende questa città unica resa elegante e galante da quei palazzi nobiliari che erano fucine culturali e dai loro portoni aperti, divenuti nel tempo l’effige di una ospitalità sempre disponibile al “bien vivre”. Fra il 1450 e il 1690, passano i migliori scalchi e cuochi dell’epoca, che lasciano un’impronta culinaria e tangibi-

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Capitale italiana della cultura 2020

Il patrimonio culturale della cittadina emiliana batte il tempo e corre verso il futuro Un dialogo di aggregazione con Piacenza e Reggio Emilia sta dando vita a uno dei più importanti sistemi sinergici degli ultimi anni, esempio utile al paese


partecipazione compatta, unanime e di impegno economico di tutte le realtà imprenditoriali e sociali. Sono 300 i soggetti-attori attivi, che hanno già aderito a questa performance, dando vita a un vero sistema strategico e di prospettiva che vede questa parte dell’Emila unita. Da una parte Piacenza, che ha voluto quasi rifondare e ampliare il mitico Ducato tanto ambito da imperatori di tutta Europa, da re e dai papi, essendo stata crocevia e passaggio obbligato di quelle vie secolari di viandanti e pellegrini, che seguendo il fiume Po scendevano verso Roma e il sud Italia. Dall’altra Reggio Emilia che offre un’ampia scelta museale e una ricettività turistica a misura di persona e famiglia e di un modello formativo e universitario, che insieme a quello delle altre due città, da visibilità all’importanza del legame che unisce la cultura al territorio.

Un’erudizione sociale che vive in una ottica strategica, di sistema, di solidità imprenditoriale aperta. Per questo credo importante, da parte di tutti, condividere il progetto Parma moltiplicando gli sforzi per ampliare le opportunità. Città che si uniscono, esperienze che si confrontano e fanno squadra e non solo a parole. Ciò che ne scaturisce è Parma ha saputo costruire un polo di iniziative la consapevolezza di una legate ai “tempi” della vita urbana puntando vitalità operativa forte all’inclusione di altre realtà che hanno voluto sui territori e attorno alla dare forza al riconoscimento che l’Unesco ha dato come città creativa della gastronomia. Una enogastronomia.

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Creative Commons Attribuzione 3.0 Unported

La cultura è benessere

sperdere, anzi, una risorsa capace di dare reddito e rendita.

le del loro transito: da qui anche la creatività di piatti e ricette, uniche. Mecenati, potenti famiglie, regnanti come i Farnese, Gonzaga, Pallavicino, Sforza Fogliani, Lupi, Este, d’Aragona, Rossi, Sanvitale, Rangoni … ebbero al proprio servizio i migliori “maestri di cucina e artisti dell’allestimento a tavola” come il Messisbugo che pur non essendo emiliano ne divenne scalco, Antonio Frugoli, Giacomo Grana, Domenico Romoli, Vincenzo Cervio, uno dei primi maestri macellai, Sante Lancerio che fu il primo dispensiere Vaticano. Come non elencare anche Orazio Vecchi, inventore del convivio musicale, Bartolomeo Scappi, grande maestro di cucina posto al seguito di diversi cardinali, e poi Andrea Bacci che fu il primo a creare gli itinerari enogastronomici sugli appennini? Un popolo di grandi personaggi che animarono le cucine di quei palazzi innescando una contaminazione culturale gastronomica di grandissimo valore. Scambi di esperienze, ricerca e sperimentazione che da sempre sono diventati la base della tradizione di queste terre, così come quella di tante altre aree della nostra splendida nazione che ha dato lustro alla cucina italiana, in quei tempi la prima al mondo. La buona tavola da sempre ha un richiamo forte così, in questo lembo emiliano, artisti come Leonardo da Vinci, Benvenuto Cellini, Pellipario da Capodimonte, Giorgio Ballarin da Murano e Giovanni Fuga da Torcello

crearono e lasciarono calici, ceramiche, vettovaglie di pregio e il primo uso di posaterie d’argento. Questa è Parma e con essa tutta l’Emilia occidentale; qui nasce la cura della tavola, l’idea del cuoco galante, del galateo di Della Casa che trovò un humus fertile dove attecchire creando un ambiente riservato e misurato che ha fatto della tavola e del buon mangiare la sua fortuna. Un percorso iniziato secoli addietro che ancora non si è concluso, ma che intanto ha consentito a Parma di essere, per un anno, il simbolo nazionale di un patrimonio immenso, con la partecipazione di Piacenza e Reggio Emilia. “La cultura è benessere, veicolo di sviluppo sociale e di crescita individuale e territoriale…” questo l’incipit che ha sottolineato l’amministrazione cittadina di Parma per voce del sindaco di Parma Federico Pizzarotti. Un 2020 ricco di tanti eventi e incontri, finalizzati a consolidare non la supremazia di uno stemma cittadino su un altro, ma l’idea che ciò che è stato fatto in passato ripaga ed è un investimento duraturo e performante, capace di assistere e indicare la strada del futuro a una comunità. La cultura è un meccanismo che necessita d’integrazione, sostenibilità e diversificazione da parte di quella collettività composita di individui che ha ben chiaro quale sia il suo valore e la considera un patrimonio da non di-

Parma


Il diverso declinarsi di un unico vitigno

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di Attilio Scienza

Ribolla is undoubtedly the iconic grape of Friuli winegrowing and, even if it’s cultivated in Slovenia or in Greece, the territorial congruity between Friulian Collio and Slovenian Brda, it leaves no doubt about its identity. In fact, a first analysis using 25 microsatellite loci conducted on 19 areas producing the Ribolla Gialla, Rebula and Robola and other varieties to assess their genetic identity, revealed that the Ribolla Gialla cultivated in Friuli is genetically identical to the Rebula variety cultivated in Slovenia. On the other hand, further investigation is needed to explain the reason that the Ribolla (or Robola) is also found in Greece, albeit limited to the island of Kefalonia.

parentela consentono di affermare che la Ribolla gialla/Rebula condividono con la Robola greca entrambi i genitori e quindi sono a tutti gli effetti dei vitigni fratelli. Allargando le analisi molecolari a un gruppo abbastanza nutrito di vitigni locali e altri provenienti dall’Europa balcanica, i riscontri relativi alla vicinanza genetica delle varietà slovene e italiane, indicano che l’antenato comune vada rintracciato tra le varietà dell’Europa centro-orientale. L’origine tuttavia è ben lontana dall’essere chiarita e una visione più completa forse non si potrà mai avere, essendo impossibile ultimare il mosaico del pedigree della Ribolla a causa di un’erosione genetica che ha visto ormai andare perdute alcune tessere fondamentali. Ciò che più conta, però, è la sicura appartenenza della Ribolla gialla alle grandi dinastie della nobiltà viticola europea. L’Heunisch o Gouais, e la Schiava sono vitigni che possono essere considerati, alla luce dei progressi ottenuti con l’analisi del DNA, il paradigma dell’introgressione dei vitigni orientali nel germoplasma occidentale. È nella Pannonia quindi che si radicherà la storia vitivinicola del Friuli, visti i rapporti tra le due aree che risalgono ai romani con l’antica Forum Julii e ai Longobardi. Le testimonianze più eclatanti della notorietà della Ribolla, considerato un vino di grande qualità da destinarsi a personaggi importanti, risalgono al medioevo e si contrappongono ai riscontri più recenti che lo vedono invece un vino frizzante e dolce da consumarsi nelle feste di paese. I documenti del XII e XIV sec. parlano della Ribolla associandola ad altri vitigni allora “di moda”: i Moscati, le Malvasie e le Pignole. Le Ribolle però, già allora, rivestivano un ruolo particolare ed esclusivo nella vita delle comunità di Udine e Gorizia, in quanto ritenute l’omaggio più prezioso e ambito nelle fasce alte della popolazione del Friuli. La fama di questo vino avrebbe però superato i confini della regione alla fine del Trecento, quando il “Rainfald” – come era chiamata la Ribolla nel mondo tedesco – cominciò non solo ad essere elogiato dai poeti di quest’area e molto apprezzato nel salisburghese, in Carniola e in Carinzia, ma addirittura a essere utilizzato, verso la metà del Quattrocento, per il pagamento delle tasse. La consuetudine di produrre un vino dolce con il nome di Ribolla, utilizzando molti vitigni, prende piede nella prima metà dell’Ottocento come affermava il Perusini: “Quando la coltivazione della Ribolla era ancora abbastanza estesa, il vino venduto con quel nome era prodotto con una decina di varietà: ‘ribuele zale, ribuele verde, ribuelat gran rap (detto anche paje debits), agadene (agadele), pogruize, cividin, cividin garp, prossecco, coneute glere, gruesse glere secie’”. Per produrre un vino dolce da vendere poco dopo la vendemmia, anche negli anni cinquanta-sessanta di quello stesso secolo, la Ribolla veniva raccolta molto tardi, raggiungendo così elevate concentrazioni

zuccherine che ne rallentavano la fermentazione ottenendo un vino amabile e pronto per esser bevuto in occasione della festa dei Santi. Il successo fu tale che questi vini divennero di moda e con il nome di Ribolla si identificarono tutti i vini un po’ dolci e torbidi che si vendevano nelle osterie e che molto spesso non contenevano neppure un grappolo di Ribolla. Contro questa moda nel 1865 la Città di Udine, promulgò il divieto di commercio di questi vini ma solo con la nascita dell’ampelografia che si sarebbe finalmente preso coscienza che la Ribolla del passato era un vino prodotto con molte varietà e che il vitigno aveva una precisa entità genetica le cui elevate potenzialità qualitative rendevano possibile diffondere e valorizzare. Nel 1823, nel Catalogo delle varietà delle viti del Regno Veneto, i vitigni coltivati allora nel Friuli sono ricondotti a due tipologie: le Ribuele (o Rabuele) e le Ribuele zale. Analogamente l’Acerbi, nel 1825, cita fra le varietà coltivate “nei contorni di Udine” una “Ribolla verde” e una “Ribolla gialla”. E sebbene il consiglio all’epoca fosse quello di coltivare la Ribolla nei terreni collinari e di vinificarla con altre varietà di uve bianche, la storia ha però dato risposte diverse. Questo vitigno infatti, coltivato in pianura nei terreni morenici e alluvionali della zona attigua a quella collinare, avrebbe dimostrato di poter anticipare le fasi fenologiche e i conseguenti processi di accumulo di zucchero nelle bacche. I vigneti di Ruttars, Giasbana e Russiz sarebbero risultati tra i più precoci e con la maggiore capacità di accumulo di zuccheri, mentre per contro quelli di S. Floriano, Mossa, Zeglio e delle pianure dell’Isonzo, sarebbero apparsi più tardivi. In genere la Ribolla sembra trarre un maggior vantaggio con decorsi termici più freschi nel corso della maturazione e con una buona disponibilità di riserva idrica. I profili sensoriali dei vini di Ribolla prodotti in questi vigneti rispecchiano le condizioni pedoclimatiche dei vigneti dove sono prodotte le uve. L’unità vocazionale UV 1 (Scriò, Russiz, Ruttars, Subida, Farra, Plessiva, Giasbana), a partire da vigneti posti su terreni flysch e su sedimenti alluvionali evidenzia fenomeni di maturazione del vitigno molto simili, assumendo un profilo sensoriale non molto ampio, con un colore dei vini abbastanza intenso, una modesta struttura e con note floreali e speziate non molto evidenti. I vini dell’unità vocazionale UV 2 (Cormons, di S. Floriano, Mossa e Zegio) presentano invece un profilo sensoriale molto ricco, con note olfattive marcate, un’elevata struttura e una bassa acidità. Certamente una Ribolla d’eccellenza, molto diversa da quella dell’unità vocazionale precedente e della UV 3 (zone alluvionali dell’Isonzo) che, a causa di una più rallentata maturazione dell’uva, presenta invece un colore con riflessi verdolini, risultando in bocca ampio, fresco, vegetale, un po’ amaro e con note salate.

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LA RIBOLLA

La Ribolla è indubbiamente il vitigno iconico della viticoltura friulana e, anche se è coltivato in Slovenia o in Grecia, la contiguità territoriale tra Collio friulano e Brda slovena, non lascia dubbi sulla sua identità. Una prima analisi di 35 loci microsatellite, condotta su 19 accessioni delle varietà Ribolla gialla, Rebula e Robola e altre varietà affini per valutare la loro identità genetica, ha rivelato che la Ribolla gialla coltivata in Friuli è geneticamente identica alla varietà Rebula coltivata in Slovenia. È necessario invece un approfondimento per spiegare il motivo per il quale la Ribolla (o Robola) si trovi anche in Grecia, seppur limitatamente all’isola di Cefalonia. Per la Robola greca le risultanze storiche e molecolari aprono a nuove ipotesi. Va innanzitutto ricordato che con questo nome in Grecia si denominano vitigni a bacca bianca e rossa e tra questi ultimi sono compresi il Goustolidi a bacche più chiare e il Theiako mavro con bacche di colore più scuro. La variante a bacca bianca è coltivata nelle isole ionie e nella Grecia occidentale. L’ipotesi che la Robola sia una varietà portata dai Veneziani a Cefalonia nel XIII sec. sostenuta in passato da molti autori, pur essendo stata recentemente contestata in quanto il suo profilo genetico risulterebbe molto vicino ai succitati vitigni Goustolidi e Theiako mavro, è ritenuta attendibile in quanto la percentuale di zone di DNA condivise tra la Ribolla gialla e Robola greca, è attorno all’81 per cento. Questo esclude l’identità tra i due vitigni ma evidenzia anche una vicinanza genetica che dimostra una origine comune. Infatti le analisi di


la gradevolezza del vino spiegata dalle neuroscienze

il gusto del vino? può dipendere dal bicchiere

Not a week goes by that there isn’t an event dedicated to wine, to its tasting, to discovering its origins and its evocative, sensorial and narrative potential. Many people try, taste, discuss and muse about its quality, but we ask if the taste of a wine can be modified by aspects that have nothing to do with the product itself? That is, can the perceived quality of a wine be modified by external elements, such as the colour of its label, the shape of the bottle, the background music or the contact with a coaster: rough (made of black sandpaper), or soft (made of white plush)?

Non passa settimana che non ci sia un evento dedicato al vino, alla sua degustazione, alla scoperta delle sue origini e del suo potenziale evocativo, sensoriale e narrativo. Molti provano, degustano, discutono, sentenziano sulla sua qualità, ma possiamo chiederci se il sapore di un vino può essere modificato da aspetti che nulla hanno a che fare con il prodotto stesso? Ovvero la qualità percepita di un vino può essere modificata da elementi esterni al prodotto, come per esempio il colore della sua etichetta, la forma della bottiglia la musica di sottofondo o il contatto con un sottobicchiere ruvido (di carta vetrata nera) o morbido (di peluche bianco)? In realtà alcuni noti neurobiologi evidenziano come il gusto di una molecola o di una miscela di più molecole si costruisca di fatto nel cervello di un assaggiatore. Il sapore del vino risulterà così influenzato da aspettative e condizionamenti che nulla hanno a che fare con le nostre papille gustative. A contribuire alla percezione del suo sapore saranno dunque elementi inattesi: dall’effetto dei colori di un vino alle luci del luogo in cui si degusta, dalla musica di sottofondo in fase di assaggio alla forma o consistenza del bicchiere. Al tal proposito ricordo

quando, durante una splendida degustazione di vini rossi presso la Cantina del Baglio del Cristo di Campobello, il proprietario ci fece degustare il medesimo vino in due bicchieri: uno di vetro normale e uno di nobilissimo cristallo. La nostra percezione fu completamente diversa. Il vino assaggiato nel bicchiere di cristallo fu percepito come di migliore qualità, sebbene a nostra insaputa si trattasse dello stesso vino. Probabilmente avrà avuto un effetto il modo con cui i sentori del vino vennero sprigionandosi dai due bicchieri. Certamente ebbe un ruolo importante la leggerezza e l’eleganza al tatto del bicchiere di cristallo.

Ciò che risulta così evidente è che questi elementi esterni al prodotto, come la forma del bicchiere o il colore di un’etichetta, pur nel loro apparire secondari nell’esperienza sensoriale, in realtà possono intervenire nel modificare le sensazioni gustative.

Fig. 1 Un packaging con chiari riferimenti al limone fa sì che una birra al sapore di limone venga percepita più ricca di limone e di qualità superiore rispetto ad un packaging di altro colore.

Usando, per esempio, un’etichetta con colori tendenti al gialloverde per una bottiglia di birra al limone (Fig. 1) la percezione della birra risulta più “limonosa” dello stesso prodotto offerto in una bottiglia con etichetta tendente al marrone e rosso. Allo stesso modo, una mousse al cioccolato offerta su un piatto bianco viene percepita un poco più dolce della stessa mousse presentata su un piatto nero; o, ancora, uno yogurt mangiato con un cucchiaino bianco viene percepito con una dolcezza più intensa dello stesso yogurt servito su cucchiaino nero; o, infine, un caffè e latte bevuto in una tazza di ceramica bianca viene percepito più intenso dello stesso prodotto bevuto da una tazza di vetro trasparente. Sono questi alcuni esempi di gastrofisica ovvero della scienza che studia come i sapori possano essere condizionati da elementi esterni al processo sensoriale gustativo. La neurogastrofisica è invece lo studio di tali effetti con metodi neuroscientifici in grado di analizzare la reazione emozionale provocata da questi stessi stimoli esterni con strumenti in grado di misurare l’attivazione psicofisiologica dei consumatori di fronte ad essi. Non stupiamoci, quindi, se il colore di un’etichetta o di un prodotto può contribuire a creare aspettative in grado di alterare il gusto di un vino o il suo profumo. Si tratta di meccanismi incontrollati e inconsapevoli in grado di influenzare anche i degustatori più esperti. A determinare questa interferenza di percezione visiva, olfattiva e gustativa è la corteccia visiva primaria. Attraverso l’immagine rilevata con la Pet (Risonanza con Emissione di Positroni) si evince, infatti, che la corteccia visiva abbia un effetto di condizionamento sulla sensazione olfattiva e gustativa, poiché la vista è un senso dominante. D’altra parte, sappiamo che il 50 per cento delle cellule del nostro cervello sono dedicate alla vista e solo l’1 per cento al gusto. Non si tratta però solo dell’effetto della vista. Facendo assaggiare un liquido a un gruppo di persone e segnalando loro il suo essere “molto amaro”, attraverso la risonanza magnetica si rileva l’attivazione immediata dell’insula, ghiandole deputata al disgusto e capace di attivarsi in modo inconsapevole. Facendo però assaggiare lo stesso liquido alle stesse persone e presentandolo invece come “meno amaro del precedente”, il grado di attivazione dell’insula risulterà minore e le

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di Vincenzo Russo

Fig. 2 Attivazione dell’insula, ghiandola legata al disgusto, in relazione alle aspettative del soggetto e solo parzialmente in relazione al sapore di un prodotto.

persone lo percepiranno come meno amaro, sebbene il liquido sia lo stesso. Oggi grazie alle tecniche neuroscientifiche possiamo valutare anche l’impatto emotivo provocato dalla tratto cromatico di un prodotto, della sua etichetta o del suo packaging. Lo studio di questi processi rientra in un nuovo ambito di ricerca denominato neurogastrofisica che, da una parte raccoglie i risultati di numerose ricerche di grande interesse per la ristorazione e per il mondo del vino e, dall’altro, apre nuovi campi di studio, connessi al neuromarketing. Un approccio innovativo che contribuisce a misurare, attraverso tecnologie molto avanzate, l’effetto emozionale e inconsapevole di questi elementi apparentemente secondari. Il sistema olfattivo, infatti, risulta strettamente legato ai processi emozionali e mnemonici, anche inconsapevoli. Le molecole odorose provenienti dal naso e dalla bocca vengono tradotte in vere e proprie “immagini dell’odore” e processate in una prima area, definita “bulbo olfattivo”. Questo ha la funzione di una sorta di filtro, finalizzato a lasciar passare solo gli odori più intensi e forti.


Solo dopo, viene attivata la “corteccia olfattiva” (Fig. 3) che, benché si chiami corteccia, non ha nulla di consapevole. Si tratta, infatti, di un’area del cervello deputata al riconoscimento dei profumi già sentiti e memorizzati. È qui che riconosciamo i profumi dell’infanzia o delle esperienze passate, siano esse gradevoli o sgradevoli. Si tratta di un’area molto

prossima al sistema limbico, dove l’informazione viene valutata sulla base dell’emozioni che lo stimolo olfattivo è in grado di richiamare. Infine, l’informazione giunge alla “corteccia orbito-frontale”, ovvero quell’area del lobo prefrontale deputata all’elaborazione consapevole delle stimolazioni olfattive.

Da una recente ricerca si evince che quest’area si attiva con una maggior intensità in soggetti esperti che tentano di riconoscere sentori e profumi (Fig. 4), e assai meno in soggetti non esperti, destinati così a lasciarsi influenzare più facilmente dalla dimensione emozionale dello stimolo (Fig. 3). Ciò dimostra l’importante ruolo che le emozioni hanno nel processo di percezione olfattiva in questi soggetti e quanto sia importante per loro che, da qualche parte, qualcuno o qualcosa possa dare le giuste informazioni sul tipo di aroma e sui “sentori” dei vini o dei cibi che andranno ad assaggiare.

Fig. 3 gruppo di non esperti

Fig. 4 Gruppo di esperti

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In soggetti esperti si rileva un’alta attivazione della corteccia orbito frontale deputata all’integrazione tra gusto ed olfatto (sinistra dell’insula), l’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale dedicata all’integrazione tra memoria e scelte di acquisto. I soggetti non esperti hanno una maggiore attivazione dell’area deputata alle emozioni

A un gruppo di consumatori, cui sono fatti assaggiare due bicchieri di vino, viene chiesto di valutare la loro gradevolezza, chiedendo di indicarne la preferenza e la qualità percepita. Il vino in realtà è identico, ma ai consumatori viene comunicato che quello del primo bicchiere viene proposto al prezzo di 5$, mentre quello dell’altro a 45$. Il dato interessante è che il vino proposto a 45$ viene percepito come più buono rispetto allo stesso vino proposto a 5$. Se il dato in sé non stupisce, in quanto frutto della semplificazioni decisionale secondo cui un prodotto dal maggior costo sarà anche migliore, l’aspetto più innovativo della ricerca è la misurazione attraverso la risonanza magnetica di quanto accade nel cervello di dei consumatori partecipanti alla ricerca. Benché cioè la stimolazione sensoriale sia la stessa, l’attivazione cerebrale nella fase di assaggio mette in evidenza una diversa reazione dell’area del cervello deputata alla gradevolezza e al piacere sensoriale (corteccia orbito-frontale e corteccia prefrontale ventromediale). Quando dunque i consumatori sono convinti di assaggiare un vino poco costoso, a essere registrata è una mediocre attivazione di queste aree. Laddove invece a essere assaggiato è un vino più costoso, l’attivazione delle due aree risulta nettamente più alta.

La comunicazione del prezzo e l’emozione a essa correlata creano così delle aspettative in grado di fare percepire in maniera del tutto diversa, ed effettiva, lo stesso stimolo gustativo. Nella pagina precedente: L’effetto del prezzo sull’attivazione della Corteccia OrbitoFrontale deputata alla gradevolezza dei sapori. L’attivazione cambia in base all’aspettative. In verde l’attivazione determinata dall’aspettativa di gusto di vini percepiti più car - Plassmann et al. (2008)

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Una recente ricerca infine aiuta a comprendere quale effetto possano avere le aspettative determinate dalla comunicazione inerente alla percezione dei sapori.


Anno III · numero 8 Novembre 2019 Periodico quadrimestrale

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