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Bubble’s, stile di vita
Bubble’s è un grande libro sui vini con le bollicine italiane, qualcuno direbbe vini spumeggianti, a puntate, proprio per sottolineare differenze, origini, produzioni, ambienti, produttori, etichette. Vuole essere una vetrina da sfogliare per accompagnare il lettore a vivere con leggerezza e gioia, buon gusto e buon senso, e con intensità alla scoperta di un patrimonio culturale e produttivo, turistico e artistico. Testimone di momenti magici, incontri speciali, feste uniche, eventi irripetibili... un calice di bollicine tricolori diventa il filo conduttore e principale di un mondo di cose belle e buone e di momenti ricchi di patos. L’ebbrezza di un sorso, l’inconfondibile forma geometrica del tappo e il percorso unico delle perle della spuma, sono solo inizio sempre di un momento fuori dal comune, anche se quotidiano, di festa, attesa e di vissuto, ma anche di luoghi magici insieme a personaggi inavvicinabili. Bubble’s accompagna nel seducente mondo dell’eccezionalità, esclusività, unicità con eleganza e con garbo per fare in modo che ogni lettore sia attore o attrice di quella storia, di un mito sportivo, di una legenda dello spettacolo, di una opera d’arte, della vita di un artista di oggi o di ieri. Ogni storia e ogni cristallo spumeggiante ci conduce ai bordi di un lago o fra le migliori stelle dell’ospitalità, in un desco familiare o in una cucina di un geniale vero cuoco, su un veliero mitico o su un green impossibile, alla festa più esclusiva o in casa di un designer o di un architetto. “…di Bolle” vogliamo scrivere, di sorrisi e bellezza della vita, di momenti felici, insieme o da soli, a guardare un tramonto o una alba mano nella mano. Bubble’s è la vita che vola come un tappo, che fa parte di un disegno, di una opera, ma è anche meditazione, riflessione, guardare dentro e lontano. Si condivide e si stappa una bottiglia effervescente per il piacere e il gusto di farlo, per farsi trasportare, per volare felici, per dimenticare o per ricordare. Con Bubble’s c’è amicizia, si alzano e si svuotano i calici, si parla con gli occhi di un amore e la nostra curiosità è appagata, appagante perché il vino fa parte di noi, testimone dell’istante da ricordare. InBubble’s parliamo di vite riservate e vissute, di uomini e donne, di scelte di vita, professionalità, carriere, attrazione, autorevolezza, spirito e coscienza. Tutto diventa glamour e tutto asseconda il senso della vita. Alziamo un calice in segno di vittoria sul ponte di una barca, per un grande anniversario, una gara di formula, per la nascita di un erede, un birdie a golf, fatto un goal e ricevuto una promozione... ma anche per un esame superato, un bacio al lume di candela, una semplice serata fra amici. Bubble’s è Vita. Bubble’s è un giornale e nasce per offrire un palcoscenico agli amanti di bollicine, abbinare l’arte culinaria all’estetica, il designer alla qualità e al valore di uno stile italiano da vivere... quel filo con cui si annodano eventi, ricorrenze e momenti cult, luoghi autentici, il senso filosofico della bellezza per il culto… dell’arte, del saper fare, della sagacia e del rispetto. Giampietro Comolli
BUBBLE’S MAGAZINE il meglio dello stile italiano visto dai migliori vini tricolori con le bollicine
www.bubblesmagazine.eu Tutto il bello il buono il gusto lo stile del made in Italy (NB: nessun tema al di fuori dei prodotti tricolori) “bubble’s” è stile di vita, scelte di buongusto, buonvivere, benessere e tempo libero Editore Andrea Zanfi Editore, info@andreazanfieditore.com – info@andreazanfi.it Segretaria di Redazione Claudia Gasparri – azeditore@gmail.com – 3927761678 Grafica Claudia Aversa – aversastudio@gmail.com Fotografia – Alessio Cech, Paolo Spiga, Giò Martorana, Francesco Orini PATRIZIA NOVELLO, esterni&interni di miti e luoghi sconosciuti MARA CAPPELLETTI, oggetti di lusso FIORELLA DE SEPTIS D’IPPOLITO, sfide e imprese ROBERTA CANDUS, golf, icone, tennis, glamour e gusto sul green FRANCESCA PAOLA COMOLLI, arte contemporanea GIULIO BIASION, personaggi e luoghi top dei cibo e vino MAURO GENTILE, tutto quello che fa motori, brividi, velocità MAURIZIO ZULIANI, dal polo ai miti delle vacanze GIAN PAOLO GALLONI, cuochi, scalchi, ricette, arte antica GIAMPIETRO COMOLLI, cultura e civiltà a tavola e bollicine top CLAUDIO MOLLO RICCARDO MARGHERI
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Giampietro Comolli
Agronomo, economista, enologo, giornalista, accademico della vite e del vino, benemerito dei Georgofili, docente a contratto, consulente di imprese, consorzi di tutela e distretti turistici. Dirigente in Coldiretti e Terranostra, estensore leggi agriturismo e strade dei vini, disciplinari Dop e Igp, ricercatore viticolo. Direttore dei consorzi di tutela Colli Piacentini, Franciacorta, Terre del Gavi, Bolgheri. Researcher visit Università Cattolica, Bocconi, Unioncamere e Cnel, Assocameraestero, Ministero Politiche Agricole. Fonda l’Osservatorio Economico Vini Ovse-Ceves e rifonda la Federdoc. Direttore generale strategico del gruppo Ferrari-Lunelli e poi in Guido Berlucchi spa. Sceglie i vini per pranzi ufficiali del G8 Napoli, Genova, L’Aquila. Fonda il Forum Spumanti d’Italia e crea la DMC Altamarca-Colline del Prosecco. Conduce per 4 anni la rubrica vino in Mediaset Rete 4; Technical advisor della Commissione Agricoltura UE (2010-14). Crea progetti di incoming turistico UnPOxExPO per ExpoMilano 2015. Componente del comitato scientifico accademico di Aikal (Venezia), dei Parchi Eccellenze made in Italy e di Fondazione IESLab. Ha pubblicato 3.000 articoli; ha scritto 15.000 recensioni di vini e cibi; relatore a convegni; vendangeur, gourmet e gourmand.
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vini sono!
Il metodo di presa della spuma nasce in Enotria Tellus oltre 2200 anni fa. La vera storia, cronica e non legenda, della produzione e consumo di vini spumanti in Italia La storia del vino o mosto vino fermentato e rifermentato in recipienti, fra i più strani, prende forma come metodo produttivo nel bacino del mare Nostrum. Sicuramente già prima alcune bevande ottenute da vegetali rifermentati con aggiunta di zucchero o alcol erano presenti lungo il Danubio e attorno al mar Caspio. Il vino spumeggiante, rifermentato in bottiglia, come lo consideriamo noi oggi, trova le sue più remote radici nei vini spontaneamente frizzanti o spumosi degli antichi i quali conoscevano la funzione della formazione o meno dell'anidride carbonica in recipienti chiusi o aperti. L’ermeticità dell’otre o anfora o botte, di terra cotta o ceramica, di legno o di vetro fu un elemento determinante la qualità della spuma, oltre al suo mixage di vari prodotti. Per secoli i vini fermentati, fra vino vecchio e mosto giovane, furono la bevanda aristocratica, solennizzava cerimonie esclusive. La più ancestrale citazione “...alza una coppa ove spumeggia un vin...” si trova nella Sacra Bibbia, nel libro dei Salmi, nr 75, vs 8-9 quando è sostenuta dalle mani dell’Altissimo, da Javhè, cioè nel periodo monarchico intorno a 1000 anni prima di Cristo. I vini spumeggianti diventano ancora primattori nel I° secolo a.C. nella Eneide quando Virgilio cita il brindisi della regina Didone con i nobili del regno e l’instancabile consumo di vini spumeggianti del condottiero Bezia: “...et ille impiger hausit, spumantem pateram et pleno se produit auro, post alii proceres…ovvero “..e egli s’inondò la gola di un nappo d’oro stracolmo di vino spumeggiante...”. Gli agronomi e medici romani studiarono e conobbero molto bene i vini spumanti, arricchiti anche da esperienze di altri popoli come gli Etruschi, al punto di descrivere metodi di produzione in base alla quantità di zucchero o miele o altri frutti aggiunti, all’uso della alta e bassa temperatura per poco o molto tempo, ai contenitori grandi o piccoli! Duemila anni fa, come oggi, si potrebbe dire (box aigleucos e protropum ovvero il mosto naturale prima della pigiatura veniva tenuto da parte e fatto poi rifermentare in recipienti piccoli)! In una grande villa nobiliare di Pompei fu trovata una cella vinaria con anfore di argilla allineate in un cunicolo di terra cotta nel quale scorreva in continuo dell'acqua fredda. È questa, sicura-
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mente, la prima cantina sotterranea per la produzione dei vini frizzanti. Le anfore erano ermetiche, chiuse con sughero, cenere e pece. Venivano trasportate all’ultimo momento sul luogo di consumo, esposte ai fumi caldi dei forni e fuochi di cucina, quindi portate a tavola in vasi più piccoli con manico e bocca grande. Plinio ricorda che quando i romani arrivarono nella zona di Narbonne, scoprirono che si producevano gli stessi vini con le stesse tecniche. Columella stesso scrisse molte pagine a favore della produzione dei vini spumeggianti, partendo però sempre da un mostovino dolce naturale giovane, posto in anfore piccole nuovissime da 10 a 20 litri, chiuse con pece e stracci, lasciate in vasche di acqua fredda per lungo tempo. Il Falerno, vino rosso tranquillo per eccellenza, è stato per due secoli il re delle bollicine del Mediterraneo, spesso mescolato con unguenti ed altri vini cretesi, fenici ed egiziani. Giovenale, un grande poeta satirico, scrive che le donne romane di pochi costumi ne abusavano “...Quum perfusa mero spumant unguenta Falerno” (Satira VI v.303). Addirittura alla cena regale del primo incontro fra Cleopatra e Cesare, allo schietto vino Falerno proveniente da Roma fu mescolato mosto di uve passe della varietà Maroe, originaria dell’Etiopia: ”..falerno, spument et aurato mollius in calice...”. È in questo periodo che nasce, cresce e si diffonde la mania dello “spumantem” citato da Virgilio (Aen. I, 738-40) e, nella versione più popolare, del “spumet” citato da Properzio (II, 33, 39-40). In coincidenza con i tempi bui della storia, invasioni e migrazioni belliche, anche le vigne e vini persero vita e valore, soppiantati da altre bevande alcoliche più forti. Solo la mensa imperiale, come ricorda il celebre ministro Magno Aurelio Cassiodoro (V°VI°), brindava in grandi occasioni con un vino acinatico eccessivamente spumeggiante, chiamato “freddo giovane sangue delle uve”, ottenuto da continue fermentazioni e rifermentazioni di mix di uve molto zuccherine appassite scaldate e raffreddate, in modo che fosse sempre appena spremuto. Per tutto il Medioevo fino al Rinascimento si continuarono a produrre questi vini spumeggianti in tutta Italia (anche nel Narbonese e nel territorio Retico) che assunsero nomi e terminologie locali ad identificare tipo-luogo come un nome proprio, come “saliens” o “titillans” di forma latina, oppure di lingua celtica o nordica come “mordax”, “picante”, “raspato o raspante”, “razzente” o “racente”. A riprova, il Regimen Sanitatis Salernitanis nel XII° sec, già affronta il tema del buon vino per una buona salute. La scuola medica ante litteram, oggi ristudiata e ripresa da molti, così descrive come doveva essere il vino più salubre:“...claris, vetus, subtile, maturum ac bene linfato, saliens, moderamine sumptum” ovvero ...sia vecchio il vino e limpido, spumante ma temprato, e misuratamente usato. Verso la metà del Trecento riprende l’attenzione verso i vini spumeggianti, grazie al modello del governo toscano del vino, in cui l’impiego di vino ottenuto da uva dei graticci, impone al vino una rifermentazione e quindi scioglimento di nuova anidride carbonica nel vino. Il governo toscano inciderà per alcuni secoli, troverà diversi sperimentatori fuori dalla “regula”, verrà anche esportato nelle abbazie al sud della Francia perché reputato un metodo per avere sempre vino giovane e meno alcolico. La toscana diventa la patria dei vini frizzanti, fra Montecarlo e Pescia, sia dolci che secchi. Ecco la prima presenza di vini frizzanti secchi. Siamo nel 1402, esattamente l’11 aprile, data della lettera del fattore Barzalone di Spedaliere con cui informa il mercante Datini di Prato della ottima qualità del vino dell’annata, in particolare un “trebiano mordente...brusco e non morbido, di questi luoghi”. Gli alti e bassi dei vini spumeggianti italiani, forme arcaiche di assemblaggi e di pratiche empiriche, riprendono un nuovo posto nella letteratura con i primi decenni del XVI° sec, grazie soprattutto al mondo ecclesiastico e medicosanitario.
Il Rinascimento italiano brinda con i vini spumanti
Il celebre medico pontificio veronese Girolamo Fracastoro (1479-1553), nel suo libro su “sifilide, sive de morbo gallico”, così cita i più noti vini: “Non spumosa mero spumantia pocula Bacchus Qualia Cynaie colles, campique Falerni et Pucinus ager mittunt; aut qualia nostris Thetica dat parvo de collibus uva racemo” ovvero “ Non schietto vino le fumanti coppe ricche di spuma, quale vien mandato dai corsi colli, dai pugliese campi e da Falerno, o quello che nei nostri campi si estrae da piccoletto grappo della Retica vite...”. È in questi albori che i vini spumeggianti sono chiamati nelle diverse canoniche latine “bell’aria di padre Bacco”, in Francia il termine
comune in voga nel basso Rodano è “fermoùst”. La voglia di vino frizzante o “picante” come piace denominarlo, dilaga, almeno fra i letterati, poeti e scrittori. Il vicentino Gian Giorgio Trissino (1478-1550) si dileggia in descrizione di un vino piccante-dolce: “…poi ch'ella (la fame) fu sciolta o rintuzzata empier le tazze d'un liquor di Bacco piccante e dolce...”. Paolo Giovio (1483-1550), umanista, storico e medico comasco, pose in evidenza un vin di “Marseglia piccante e rubinevole”. Annibal Caro (1507-1566), ritiratosi nelle vicinanze di Frascati, si dedicò alla traduzione dell'Eneide e riportò, in una sua composizione poetica, che un certo vino del luogo era “…tondo e frizzante insieme m'è ito fin su le punte de' piedi”. Girolamo Bargagli (1537-1586), senese, aveva all’epoca idee molto chiare di come doveva essere il miglior vino sulla tavola: “…al gusto...amabile, maturo, piccante e che lassi le labbra asciutte...”. Il poeta bernesco fiorentino, Matteo Franzesi, a Roma alle dipendenze di Clemente VII e Paolo III, cantava di un vino primeggiante in tavola: “vince l'aureo tuo nuovo colore, l'ispumante e brillante entro un bel vetro, dell'aurora e del sol l'alto splendore...”. Non solo poeti e letterati erano ammagliati dalla spuma del vino, ma anche scrittori didascalici, dispensieri, abati, canonici. Giovanvettorio Soderini (1526-1597), autore di un trattato sul frutto della vite, entrò in quei primi dettagli tecnico produttivi che per 200 anni impegnarono diversi ricercatori e sperimentatori: “...per fare i vini piccanti saporiti e dolci, aiuta assai... pestare con stanghe o con mazzapicchi rotondi che abbiano la caperozzola piana...”. Un altro trattatista-viticoltore, Bernardo Davanzati (1529-1606), scrisse che “per aver vin dolce vermiglio poni vigne non pancate. E per dargli il frizzaente, senza cui non ha garbo, ammosta (e) imbotta più vergine, si che bolla parecchi dì nella botte”. Sinonimi di spumante, in questo secolo, sono i termini picante, racente, frizzaente e mordente. Sante Lancerio, il bottigliere di Papa Paolo III Farnese, confida che i vini preferiti dal pontefice, erano mordenti: dal Greco d'Ischia, corretto con trucioli di legno di nocciolo, era “dolce e mordente con sapore di cotognino” al vino Monterano “per la sua vendetta dolce, con mordente tanto soave che fa lacrimare d'allegrezza, bevendolo” prodotto attorno al lago di Bracciano, un territorio allora capitale italiana nella produzione di vino “titillante e appetitoso”, come lo definì Lancerio perché “amabile, di bel colore e mordente” che veniva conservato in estate nelle grotte del lago; Dal vino Coda di Cavallo di Nola, nel Regno di Napoli, “…piucchè mordente e dolce” al vino Sucano di Orvieto o al Lagrima di Somma, già noto ai tempi per essere “…mordente, odorifero e polputo”. Sempre il dispensiere papale cita altri vini preferiti da Papa Farnese, già molto noti nella seconda metà del XVI° sec., i vini di Bagnaia in Viterbo, l’Albano Rosso dei colli e un Monterosso “mordente e polputo” proveniente dai territori farnesiani sui colli piacentini, in zona Veleja Romana, altra zona elettiva di produzione dei vini spumeggianti. Domenico Romoli detto il Panunto, nel suo trattato scritto nel 1560, consigliava che “con gli arrosti è bene servire vini rossi mordenti”, una anticipazione di quello che sarà una tradizione emiliana.
I primi veri capostipiti dei vini spumeggianti sono italiani
Nel 1570 viene dato alle stampe quel libro, corposo per l’epoca e per il tema trattato, che per primo cerca di mettere ordine nella produzione e elaborazione tecnica dei vini spumeggianti e frizzanti, il Libellus de vini mordaci. Siamo a Brescia, l’autore è il medico Gerolamo Conforto che mise in rilievo anche come le classi sociali più abbienti bevevano e diffondevano un largo consumo dei vini spumeggianti. Conforto studiò anche il diffondersi della peste e del morbo gallico, i presentimenti delle persone e la delimitazione canonica delle stagioni climatiche. L'autore li descrive dal “sapore piccante o mordace che non seccavano il palato, come i vini acerbi ed austeri, e che non rendevano la lingua molle come i vini dolci. Alcuni di loro provocavano il singhiozzo e facevano giungere la loro azione al cervello ed agli occhi i quali (a causa del frizzante) spesso lacrimavano...”. L'origine della spuma e del piccante venne giustamente individuata, dal Conforto nell'ebollizione del mosto, cioè nella fermentazione. Infatti, secondo l'autore, coloro che attendono alla preparazione di questi vini sono preoccupati di frenare la loro ebollizione affinché la “scoria gassosa, leggera e pungente” (l'anidride carbonica), non si disperda. Quale chiaro esempio della sua asserzione il medico bresciano segnalò l'usanza di diversi produttori italiani e stranieri
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di produrre vini mordacissimi, cioè veri e propri spumanti, “chiudendo i mosti nelle botti”. Secondo questo medico-enologo i vini diventavano più spumeggianti durante i mesi invernali, mentre nei mesi estivi si smorzavano e deperivano perdendo tutto il loro sapore piccante. Purtuttavia aggiungendo degli acini d'uva ai vini che avevano perso il frizzante, questi potevano riacquistarlo perché in essi si scioglievano le “secrezioni gassose, piccanti, emesse dagli stessi acini...”. Tali secrezioni però, secondo il medico bresciano, non portavano alcun giovamento alla nutrizione del sangue. Da buon medico e curatore della saluta umana, Conforto consigliava un parco consumo alimentare dei vini, ancor più, considerava i vini spumeggianti, seppur ricercati e celebri, troppo voluttuosi, stuzzicanti l’organismo, apportatori di ebbrezza incontrollata... quindi da consumare ogni tanto. Tutta l’Italia aristocratica e ecclesiale è pervasa da una voglia e dalle simpatie per i vini spumeggianti. Il XVII° sec vede alla luce il libro più importante sulla salubrità e produzione dei principali vini, fra cui un dotto capitolo sui vini piccanti spumeggianti, opera data alle stampe nel 1622, da un medico e abate di Fabriano, tal Francesco Scacchi. Certamente il primo testo ampio e completo che riprende gli stessi concetti di Gerolamo Conforto la cui opera fu sicuramente nota al medico marchigiano. Due opere, distanti come stampa circa mezzo secolo, ma molto simili, sicuramente le prime così complete: dalla produzione agli effetti del consumo, dell’abuso anche. Scacchi, nel suo libro ‘De salubri potu dissertatio’, riteneva i “vini piccanti” poco utili alla salute perché, soprattutto, venivano consumati schietti senza alcuna diluizione ed “unicamente per dilettare il gusto”. Interessanti sono le note tecniche sulla produzione: innanzitutto privilegiava le uve a bacca nera delle varietà con grandi contenuti zuccherini, facili all’appassimento e non alla muffa, con buccia spessa piuttosto che le uve bianche, cui aggiungere acqua al mosto o al vino; scrive: “Al tempo della vendemmia oppure mentre i vini sono alquanto giovani si preparano vini frizzanti aggiungendo e agitando a lungo, nella botte, due parti di vino dolce ed una di acqua bollente. Ma si possono anche preparare con altri vini leggeri sia amari (secchi), sia dolci che intermedi, soprattutto se sono stati mitigati con acqua, com'è consuetudine a Bologna”. Secondo lo Scacchi le uve dolci naturali, davano vini con un tocco più soave e gradevole. In particolare l’autore si sofferma in dettagli interessanti e anticipatori sulla chiusura ermetica e sulla dimensione dei recipienti di fermentazione: “...il ‘gas rigonfiante’ viene trattenuto e se vengono prelevati dalle botti, vini di questo tipo, si vedono sprizzare con grande forza, specialmente quando si versano in un vaso di vetro. Allora, infatti, come se fossero spalancate le porte, quei gas rigonfianti, che prima erano costretti a riposare, fanno pressione e immediatamente salgono in alto, ed in quel veemente movimento, sulla superficie del vino pullula una certa spuma”. Ed ancora: “...i vini che sono prodotti da uva selvatica chiamata ‘lambrusca’, se la fermentazione viene interrotta, sprizzano enormemente... in quanto abbondano di umore acquoso e acerbo e producono una maggior quantità di gas rigonfianti!.”
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I DUE METODI PRODUTTIVI ROMANI
. Aigleucos. Termine usato dai romani per indicare i vini spumanti prodotti partendo dal mosto, la cui fermentazione, creatrice delle bollicine, veniva impedita o meglio ritardata immergendo le grandi anfore di terracotta in acque fredde, al fine di avere una spuma per più lungo tempo, cui veniva aggiunto uno sciroppo di miele e propoli che riprendeva a dare vitalità e a prolungare la fermentazione alcolica che dava molta produzione di anidride carbonica che restava imprigionata nel mosto-vino, così durava fino al consumo finale e dava un senso di fresco. È l’antenato del “metodo tradizionale” . A Pompei è stata scoperta una cantina avente un cunicolo attraversato in continuazione da acqua fredda, nella quale venivano posti i dolium con il mosto da spumantizzare lentamente. Altri termini usati dai romani per vini effervescenti: “bullulae”, “spumans”, “spumescens” “saliens”, “titillans”. Acinatico. Altro termine usato dai romani per indicare un vino spumoso effervescente ottenuto partendo da un mosto poco pressato di uve lasciate passire dopo la vendemmia e mescolato con vino vecchio anche molto vecchio che veniva così ringiovanito da nuova ebollizione. Era un vino conservato in dolium enormi in terracotta, posti sotto terra a forti profondità, anche immersi in canali d’acqua gelida, che fermentavano molto lentamente e che veniva prelevato in piccole quantità al momento del consumo finale con aggiunta di altro mosto. Potrebbe essere l’antenato del metodo italiano.
STRANE COINCIDENZE.
In Francia viene citata la legenda di un frate domenicano di nome Perignon, nato e deceduto gli stessi anni del Luigi XIV° Re Sole(1638-1715), che studia i vitigni più idonei per le terre al nord, quali uve bianche o nere maturano meglio e come rendere bevibili vini acetosi e acerbi già prodotti, detti vini sibaritici e diabolici, resi bevibili solo se zuccherati, ma non duraturi. Alla fine del XVII° sec la viticoltura delle Ardenne era in grave crisi e i vini venduti a bassissimo prezzo. Dom Perignon, di dubbiosa e leggendaria esistenza, forse scambiato con il vero domenicano Grossard che lasciò memoria di sue ricerche viticole in Abbazia, in ogni caso vive ben 100 anni dopo la pubblicazione di Conforto e 50 anni dopo quella di Scacchi, sicuramente nel Settecento già presenti nelle biblioteche abbaziali.
L’ORIGINE LATINO-ROMANA
. Virgilio (70-19 a.C.)”Et ille impiger hausit, spumantem pateram et pleno se produit auro; post alii proceres” (Aen., I, 738-40). (Ed egli si presentò con una coppa d’oro colma e senza indugiare un istante vuotò il calice spumeggiante; poi bevvero gli altri nobili). È il primo uso del termine spumante, che continua. “Spumat plenis vindemia labris”. Properzio (47-15 a.C.) “Largius effuso madead tibi mensa Falerno, spumet et aurato mollius in calice” (El. II, 33, 39-40). (La tua mensa sia bagnata più abbondantemente e spumeggi più dolcemente col Falerno versato in un calice d’oro). Il Falerno è la più antica denominazione di origine dell’epoca romana. Lucano (39-65 d.C.): “Indomitum Meroe cogens spumare Falernum” (Phars. X, 63). (L’indomito Falerno si spumantizzava mescolandolo con la Meroe). Lo spumante di Il Falerno era rifermentato con mosto di uve appassite della varietà Meroe Etiopica e fu servito all’incontro fra Cesare e Cleopatra. Plinio (N.H., 77 d.C.): “Qui c’è un vino che è veramente eccellente, l’Aigleucos, naturalmente dolce con effervescenza persistente... le anfore venivano immerse in acqua fredda dei torrenti”. Fu autore della delimitazione della zona di produzione del Falerno. Columella (I sec. d.C.): Descrive la produzione del “defrutum” e della “sapa”, mosti molto concentrati ottenuti con l’ebollizione (per evaporazione dell’acqua), aggiunti al mosto vino in fermentazione durante la vendemmia per aumentare l’ebollizione fermentativa e ottenere un vino con spuma.
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dopo tante parole un soffio di leggerezza
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La prima cantina dEL Franciacorta
ranco Ziliani più volte cita le parole del poeta Antonio Porta “Il vino, come la poesia, nasce da un progetto, non è figlio di un destino insondabile, è il frutto di una scelta, la conseguenza di un’osservazione, di un’occasione, che una mente più vigile di un’altra ha saputo rilevare e cogliere”. Ziliani è il patron della Guido Berlucchi, la prima azienda vitivinicola della Franciacorta che ha prodotto vini spumeggianti con il metodo tradizionale. Tutto nasce intorno alla metà degli anni cinquanta. Nel cassetto, nel cuore, nella mente, nella coscienza cova già la passione per le bollicine, nata per caso con un brindisi a Natale in famiglia Ziliani. La scuola enologica di Alba diventa una destinazione già decisa, scontata. Così ricorda Ziliani l’incontro con Guido Berlucchi:
“Il mag giordomo mi scortò nel salotto di Palazzo Lana Berlucchi. Le note di Georgia On My Mind vibravano nell’aria. Guido Berlucchi era al pianoforte. Rimasi incantato dall’eleganza della figura, dalla maestria con cui le mani accarezzavano i tasti. Volsi lo sguardo ai muri secolari, ai ritratti di famiglia; notai gli arredi preziosi. Tutto emanava raffinatezza non ostentata. Il conte richiuse il piano, mi salutò con calore e iniziò a interrogare me, giovane enologo, sugli accorgimenti per migliorare quel suo vino bianco poco stabile. Risposi senza esitazione alle sue domande, e nel salutarlo osai: “E se facessimo anche uno spumante alla maniera dei francesi?”. A Palazzo Lana Berlucchi, sul colle di Borgonato, Ziliani trova il supporto necessario, la voglia di fare di Guido abbinata alla sua tenacia. Le cantine antiche sono architettonicamente perfette, sebbene con attrezzature limitate. Ma il luogo attrae Ziliani. Guido Berlucchi, discendente di una antica nobile famiglia, produce il suo vino bianco secco, il Pinot del Castello, ottenute dai filari di viti che circondavano il maniero, forse di Pinot. Difficile a dirsi a quei tempi, difficile avere tecnici abili
nel riconoscere le barbatelle di Pinot bianco da Chardonnay o dall’uva di bordò magher, come dicevano i contadini. è su questo vino che Ziliani inizia a lavorare fondando nel 1961 la Guido Berlucchi & C, proprio con Guido e l’amico Giorgio Lanciani. Il lavoro principale era provare, sperimentare, rifare, ripiantare, assaggiare, imbottigliare... Con la vendemmia 1961 si sigillano le prime 3000 bottiglie di metodo tradizionale con le uve di proprietà. Sono anni di continue ricerche, di piccole e grandi delusioni: buona acidità, scarsi profumi. Iniziano i viaggi all’estero, evidentemente nella capitale delle bollicine francesi, per avere risposte, imparare ed eliminare ogni ostacolo. Sono momenti giovanili di grande impulso, forza e determinazione. Sono anni di continua ricerca della qualità: l’idea base è quella di creare un vino di alto valore, di costo contenuto per fare in modo che più italiani possibile potessero godere di una bollicina tricolore. Un obiettivo chiaro con grande lavoro in vigna e il cantina. Il vino comincia a piacere. Dirà: arrivavano in cantina da Monza per acquistarlo. Il metodo tradizionale è un modo di fare il vino con calma, senza fretta, da vivere lentamente. Intanto viene acquistata la Antica Fratta, sempre sulle colline franciacortine, in zona Monticelli Brusati, soprattutto per le meravigliose cantine dove poter fare riposare e maturare per anni le bottiglie. Gallerie fantastiche, una storia da riproporre. La Guido Berlucchi cresce e punta sul marchio-impresa già alla fine degli anni settanta. Poi c’è il boom degli anni novanta e duemila. Franco Ziliani ha da poco spento le 85 candeline e accanto a lui oggi ci sono i figli Cristina, Arturo, Paolo.
La Guido Berlucchi fra proprietà e in collaborazione diretta ha 520 ettari vitati in Franciacorta, produce (e vende) 4 milioni di bottiglie per la quasi totalità in Italia. 80 persone, fra tecnici esperti e collaboratori, compongono uno staff aziendale unito, ricco di esperienze, in continua ricerca. In questi ultimi anni la Guido Berlucchi vive una rinnovata ricerca moderna per un mercato giovane, una continua sperimentazione in mano al figlio Arturo, enologo. Paolo ha le redini dell’export. Cristina è la curatrice dei luoghi, dei beni, dell’immagine e del valore intellettuale che la comunicazione permette di far conoscere. Franco Ziliani non pago si butta in altre importanti imprese.
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Convinto che i vini di alta qualità sono un mix di luogo, terra, vocazione acquista, per produrre vini rossi tranquilli, un podere a Castagneto Carducci, Caccia al Piano Bolgheri. Per la Franciacorta la Guido Berlucchi ha rappresentato un punto di riferimento, un apripista intelligente e Ziliani un primo docente, il fautore di una idea-progetto difficile che ha trovato terreno fertile e oggi rappresenta un punto fermo di tutta la enologia italiana: il Franciacorta in primis e la Franciacorta. Uomo del fare, molto operativo, indagatore e sperimentatore, amante del rischio, non facile alla piaggeria e alle gratuite affermazioni, amante della schiettezza, pronto a mettersi in gioco sempre, dinamico. Qualcuno potrebbe banalmente dire “bresciano”, non è sufficiente, non è corretto. Chi è Franco Ziliani: l’eccellenza del tecnico, dell’enologo ma, ancor più, la tenace volontà dell’imprenditore che, colta l’occasione, dà forma alla visione, pianificandone lo sviluppo.
Ni.Co.
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EDIZIONI amore senza fine
Mauro Gentile, classe 1961, giornalista professionista dal 1991,
ha lavorato in RCS Periodici nella rivista “AutoCapital” dal 1989 al 1994, collaborando con il settimanale “Il Mondo” in relazione a temi economici dell’automotive e con “L’Europeo” su temi di attualità. Dal 1994 al 1996 ha lavorato per un service editoriale realizzando il mensile cartaceo legato alla trasmissione televisiva Linea Blu e da 19 anni è direttore PR Press office di Porsche Italia spa. Nel 1999 ha ottenuto da Porsche Ag il Worlwide PR Manager Award. Si diletta nella scrittura di “corti”. Ha esperienza anche nel campo televisivo come commentatore live dalla griglia di partenza del Campionato Italiano riservato alle Porsche GT 3 Cup. Esperto utilizzatore dei nuovi media.
Di Mauro Gentile, foto di Alex Galli
116 anni e la Targa Florio trasuda passione, vita e storia. Sicilia e competizione automobilistica hanno un legame fortissimo, in particolare con Porsche. Ancora se ne parla e se ne scrive. C’è chi ha avuto il coraggio di organizzare un evento epico, tra le mille difficoltà tipiche di una Sicilia che desidera cambiare passo, ma poi rimane ferma. Sì, la Targa Florio numero 100 è stata pensata, voluta e ha avuto il suo corso.
Chissà che ora non si fermi e che, ritrovata, tra mille incertezze una nuova espressione, ritorni ad essere uno dei vanti italiani. Non importa se in chiave storica o moderna. È essenziale che ci sia. Per la storia del mondo delle competizioni sportive, per tutelare, grazie al fatto di essere patrimonio condiviso con il mondo, le bellissime strade delle Madonie. La Targa Florio e i suoi 116 anni di vita e le sue 100 volte di corsa, con qualche sosta qua e là per delle noiose guerre ha lasciato in eredità tre percorsi mozzafiato, il corto, il lungo e il medio. Quasi il titolo di un film western all’italiana. Invece erano tre percorsi belli, tecnici, caldi. Non per il clima, ma per l’amore della gente per “a Cursa”. LA CORSA a caratteri cubitali, incisi senza anestesia sul cuore dei siciliani e che sovrastano ogni tatuaggio sull’epidermide della passione. No, non è retorica. È magia. Qui, sulle strade della Targa Florio, il tempo si è fermato, per sempre. Vincenzo Florio è ancora lì, con i suoi tamburini, ad informare la gente che a riecheggiare tra le Madonie saranno solo le note dei motori spinti nelle forme del futurismo più autentico. Un invito alla sosta e all’ammirazione, magari davanti l’uscio di casa o sul tornante che porta al paese.
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“a Cursa” Appena il tempo di scrivere col pennello un W Targa, W Nino (Nino Vaccarella, il preside volante) sui muri (se pensate, erano il post in bacheca di quegli anni) e poi via farsi sfiorare da quei matti con la Sasha, con le Mercedes, con le Ferrari, con le Alfa e con le Porsche. Sì, le Porsche. Le tedesche sono a casa loro, qui, in Sicilia. Il primato di 11 vittorie assolute alla Targa è un patrimonio. Una ricchezza condivisa e tramandata che si nutre di fotografie, aneddoti, quadri, cimeli che da Collesano a Floriopoli, da Cerda a Cefalù e Santa Lucia rendono viva la Targa e la sua storia come se la corsa vera non fosse mai sospesa. E quelle vittorie, quell’audacia dei piloti, si ripetono all’infinito. E Porsche merita un encomio particolare. Per aver sempre cercato di supportare questa grande passione siciliana per la Targa Florio. Sia con l’adesione alle diverse rievocazioni, sia organizzando eventi destinati alla stampa internazionale proprio in Sicilia, cercando, di rinvigorire il legame tra il Marchio e il territorio. Del resto la storia sportiva è forte, tanto forte. La Targa si lega alla storia di Porsche e allo sviluppo dei suoi modelli come nessun'altra gara. Già nel 1922, la Austro Daimler "Sascha", costruita da Ferdinand Porsche, partecipò alla Targa Florio. La piccola vettura ad alte prestazioni, con una potenza di 45 CV e un peso di 598 chilogrammi, conquistò immediatamente il primo e il secondo posto nella sua categoria.
Nel 1924, un progetto Porsche riuscì a conseguire addirittura la vittoria assoluta: era la Mercedes da 2 litri con motore a compressione a quattro cilindri, guidata da Christian Werner, che vinse la Targa e la Coppa Florio. Questa vittoria diede l’opportunità all’Università di Stoccarda di conferire un'onorificenza al capo costruttore Daimler dell'epoca che, guarda caso, era... Ferdinand Porsche.
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La Targa si lega alla storia di Porsche e allo sviluppo dei suoi modelli Dopo la seconda guerra mondiale e dopo che nacque, nel 1948, la Porsche, il suo fondatore decise di partecipare con le proprie vetture da competizione ai dieci giri del Piccolo Circuito delle Madonie. Anche se, nel frattempo, il tracciato era stato ridotto da 148 a 72 chilometri, la Targa Florio continuava a godere della fama di corsa automobilistica su strada più dura al mondo: stradine con fondi diversi, ponti stretti e tortuosi, attraversamenti nei paesi, curve “cieche” e a gomito, salite e discese ripide. La corsa siciliana era una delle più grandi sfide su strada che ci si poteva immaginare per una vettura sportiva poiché, diversamente da quanto accadeva all’epoca per le altre corse, questo tracciato non veniva chiuso neanche durante l’allenamento e i piloti erano costretti a confrontarsi continuamente con traffico e ostacoli. Il 10 giugno 1956, Porsche conquistò alla Targa Florio la vittoria fino ad allora più grande e importante della sua storia sportiva. Il pilota italiano Umberto Maglioli, con una Porsche 550 A Spyder, riuscì a portare la vittoria assoluta alla Casa di Zuffenhausen. Con questa vittoria, la giovane azienda Porsche si assicurò il riconoscimento internazionale poiché, per la prima volta, un pilota alla guida di una vettura della categoria inferiore fino a due litri di cilindrata riusciva a prevalere su vetture con cilindrata maggiore e molto più potenti. Maglioli surclassò letteralmente la concorrenza italiana con una velocità media di 90,0 km/h e un vantaggio di quasi 15 minuti sul secondo classificato. Il successo fu quanto mai sorprendente, se si pensa che solo undici giorni prima della Targa Florio, la Porsche 550 A Spyder aveva debuttato alla 1.000 km del Nürburgring. Il direttore di gara Porsche, Huschke von Hanstein, incoraggiato dalla vittoria di categoria conquistata, si recò in Sicilia col pilota Maglioli e due meccanici per testare nuovamente la competitività della Spyder. Per Porsche era la prima partecipazione a questa corsa leggendaria, poiché fino a quel momento la Targa Florio era stata considerata dominio delle grandi scuderie italiane. Maglioli concluse il percorso di 720 chilometri senza cambio pilota con un tempo di 7:54.52 ore e, grazie all'affidabilità della sua Porsche, si fermò ai box per un solo rifornimento. La vittoria di Umberto Maglioli nel 1956 segnò l'inizio di una straordinaria storia di successi per il costruttore di vetture sportive di Stoccarda. Dopo Maglioli, nel 1959, la coppia di piloti Edgar Barth e Wolfgang Seidel portò alla Casa la seconda vittoria assoluta nella Targa Florio con la Porsche 718 RSK Spyder. Nel 1960 seguì la vittoria di Joakim Bonnier e Hans Herrmann con la Porsche 718 RS 60 Spyder, e nel 1963 quella di Joakim Bonnier e Carlo Abate con la Porsche 718 GTR. Il 1964 inaugura per Porsche una nuova stagione nelle competizioni con la 904 Carrera GTS, concepita da Ferdinand Alexander Porsche: i piloti Antonio Pucci (altro mitico pilota siciliano, il Barone Pucci) e Colin Davis stracciarono tutti i prototipi della concorrenza con un modello di serie Tipo 904 conquistando la quinta vittoria assoluta nell'aprile del 1964.
La vittoria di Umberto Maglioli segnò l'inizio di una straordinaria storia di successi Con l'introduzione della Porsche 911, nel 1964 iniziò una nuova era anche nella costruzione delle vetture sportive. Il motore a sei cilindri derivato dal propulsore della Porsche 911, assicurò l'imbattibilità della Porsche 906 Carrera non solo nella categoria delle vetture da due litri. Alla 50ma edizione della Targa Florio nel 1966, vinsero Herbert Müller e Willu Mairesse sulla vettura sportiva costruita con telaio tubolare e carrozzeria in materiale plastico. Nel maggio 1967, la squadra Porsche si presentò alla Targa Florio con sei prototipi della Porsche 910. La corsa si concluse con una triplice vittoria, quando anche Rolf Stommelen e Paul Hawkins tagliarono il traguardo con la Porsche 910-8 davanti alle due vetture da corsa Tipo 910-6. Porsche ottenne la tripletta nel 1968 con la vittoria di Vic Elford e Umberto Maglioli con la Tipo 907-8. L'ambita “Coppa Florio” passò definitivamente nelle mani di Porsche. E la Coppa ricevette un posto d'onore nello studio personale di Ferry Porsche. Nel 1969, Porsche rispose al nuovo regolamento del Campionato Mondiale Marche sviluppando la Tipo 908/02 Spyder. Quattro delle sei Porsche 980/02 presentatesi alla partenza conquistarono i primi quattro posti. La vittoria assoluta spettò a Gerhard Mitter e Udo Schütz che, dopo 6:07.45 ore, stabilirono anche un nuovo record del percorso. Anche la Targa Florio del 1970, in cui Porsche schierò la leggera e agile Tipo 908/03 Spyder, si concluse con una doppia vittoria Porsche (Jo Siffert/Brian Redman, Pedro Rodriguez/Leo Kinnunen) e con il giro record di Kinnunen ad una velocità media di 128,57 km/h. Nel 1973, l’olandese Gijs van Lennep e Herbert Müller al volante della Porsche 911 Carrera RSR scrissero i loro nomi sull’Albo d’Oro della endurance siciliana. La Targa rimase sino al 1973 come gara valida per il Campionato Mondiale Marche e Porsche è stata il marchio automobilistico di maggiore successo, collezionando complessivamente undici vittorie assolute, 9 secondi posti, 12 terzi posti e 8 giri veloci. L’Alfa Romeo ne ha vinte 10, con 13 secondi posti e 7 terzi posti e vanta 10 giri veloci. La Ferrari ha invece vinto 7 volte, ha ottenuto 6 secondi posti e 4 terzi posti, mentre sono strati 7 i suoi giri veloci. Personalmente ho vissuto, nel 2010, una particolare rievocazione storica della Targa Florio, in versione Ecologica. Ero alla guida di una Porsche Cayenne Hybrid e il mio navigatore era un grande estimatore sia della Sicilia, sia del Marchio. Era Lucio, Lucio Dalla. Ancora oggi su YouTube si può rivedere l’intervista che rilasciò alle Tv locali. In tre minuti di conversazione riuscì a pennellare la sua esperienza e far emergere le sue emozioni. In quel momento era orgoglioso di entrare nella “storia della Targa Florio, vissuta in chiave ecologica a bordo di una vettura del Marchio che ne aveva scritto le pagine sportive”. Se solo si potessero riavere quelle strisce d’asfalto che mancano perché divorate dalla terra che muta, non ci sarebbero solo sogni, miraggi o ricordi romanzati a manifestarsi forti e fieri tra i silenzi delle Madonie. Frane o no, almeno quest’anno, lo scorso maggio per la precisione, “a cursa” è tornata. La visione di Lucio e di come gli uomini potessero reinterpretare la Targa Florio ha trovato appunto una sua prima concretizzazione grazie agli uomini dell’Automobile Club Italia che ha osato l’impossibile organizzando un centenario da brividi con quattro manifestazioni apparentemente incompatibili a sovrapporsi sulle strade vedove della Targa Florio. Un sovrapporsi di passioni, motori, gente e piloti che, con vetture moderne, storiche ed eccellenti come quelle che avevano corso per davvero nel periodo dei tempi eroici, hanno portato indietro nel tempo migliaia e migliaia di appassionati dell’auto. Vedere insieme Lingen, Stekkonig, Elford, Van Lennep per Porsche, Vaccarella per Ferrari, Merzario per l’Alfa, e molti, ma molti altri, è stato commovente ed entusiasmante. Piloti over 75 che ricordano ancora ogni minimo dettaglio delle loro avventure. Piloti sopravvissuti, piloti che amavano guidare ed incontrare il pubblico. La Targa Florio numero 100 non è stata una rievocazione, ma la sua rinascita. Auguri, “Cursa”.
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Non mi interessano le auto
ciò che conta
è il piacere della vita Gioielli e
cibo
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I ncontr i
gustosi Andrea Zanfi
LA MAN DRA GO LA
RI S TORANT E
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Alla tavola di Ramona Scappi e Valerio Ciervo Non so come mai ma sorge spontanea l’idea che quel nome fosse stato assegnato a quel ristorante in memoria della cinquecentesca opera teatrale attribuita a Niccolò Machiavelli chiamata Mandragola, commedia composta da un prologo e cinque atti. Ma solo dopo aver vissuto un simpatico prologo con Ramona, padrona di casa non che donna salvata dalla tristezza di una Giurisprudenza nella quale aveva mosso i primi passi, e sol dopo aver degustato i cinque atti recitati dallo chef Valerio, vengo a sapere che la ragione del nome di quel locale della bassa Reggiana, è l’omonima pianta alle cui radici vengono attribuite magiche ed esoterica non che afrodisiache e fecondative caratteristiche; pianta usata dalle streghe per preparare pozioni d'amore. Ma qui di esoterico non c’è nulla e per fortuna neanche di falso, tutto è spontaneo, semplice, ma allo stesso tempo, complesso poiché l’insieme si combina la sublimazione di una cucina che, pur richiedendo comprensione, regala piacevolezza. Li scopro per caso questi due “personaggi in cerca d’autore” non essendo La Mandragola in nessuna guida, ne mai recensita, pur meritando e non solo perché lo scrive il sottoscritto, ma per i meriti riconosciutegli da una clientela che pur non essendo cosmopolita o metropolitana ha voglia di appagare il proprio piacere con piatti “belli”, meritevoli d’essere ricordati. Così fra un antipasto e un primo vengo a conoscenza che è dal 2001 che hanno aperto questo ristorate, a Guastalla, potendo contare sulla propria passione, su una tradizione familiare importante trasferita loro dalle rispettive madri che conoscono bene la materia e su un orto che gli da l’opportunità di utilizzare materie prime di alta qualità. Stagionalità e genuinità sono le loro parole d'ordine. A sentirmi raccontare di loro potrei dare l’idea di essere un’eno-gastrointenditore che giudica ogni cosa. Ho rassicurato i mie interlocutori che non sono una minaccia, di certo non appartengo a quella categoria d’improvvisati blogger che si agirano per i locali recensendo qualunque alimento ingeriscono. Sono peggiori dei virus e come tali si sono diffusi e moltiplicati contagiando tutto e tutti. Contro di loro non c’è un vaccino, come non esiste un habitat ideale dove locare questa nuova specie antropologica che prospera ovunque, dagli 'ufficio, ai bar, alla strada e si riproduce nelle pause da lavoro, davanti alla macchinetta del caffè in ogni luogo si possa discutere, elogiare o denigrare il ristorante della loro ultima cena.
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Perché la vita è brieve E molte sono le pene che vivendo e stentando ognun sostiene; dietro alle nostre
voglie andiam passando
e consumando gli anni per viver con angosce e con affanni, non conosce gli inganni del mondo; o da quali mali e da strani casi appressi quasi sian tutti i mortali
Avendone avuto uno anch’io, per anni, cerco d’essere cauto e riflessivo nei giudizi credendo sia sciocco esaltare e innalzare a divinità certi ristoratori o collocare il cucinare fra le più modeste e prosaiche manifestazioni dell’uomo. Personalmente ritengo che sia un modo ingegnoso e creativo di trasmettere agli altri il proprio pensiero, la propria filosofia di vita e la propria arte di saper fare. Chi si adopera quotidianamente fra i fornelli e il rappresentante di un’antica, nobile e sublime arte nella quale si racchiude l’armonia di uno spirito che cerca la sublimazione attraverso l’‘interpretazione e l’utilizzo delle molteplici sfaccettature e sfumature che la Natura sa mettergli a disposizione. È in quella miriade di percezioni sensoriali che la nostra intelligenza si esalta e si auto-gratifica, scegliendo e giudicando, ricercando il distinguo che esiste fra l’ emozioni e il cibo degustato. C’è chi si adopera in termini estetici e poetici nell’interpretazioni del suo cucinare, chi invece esalta la tradizione e le proprie origini, chi la propria terra e chi la semplicità e il gusto degli elementi; vanno tutti rispettati poiché ognuno di questi attori è proiettato alla ricerca umorale di semplici sensazioni, capaci di renderci più gradevole quel bisogno fisiologico di sopravvivenza che quotidianamente siamo chiamati a soddisfare trasformandolo in splendidi momenti in cui no si evince solo la creatività, ma soprattutto il gusto e la convivialità. Ecco che nasce, contemporaneamente, l’esigenza di saper creare e abbinare intorno al cibo un’'atmosfera, quel contorno che agevola la piacevolezza dello stare a tavola, di poter scambiare qualche parola con chi è prossimo, creando rapporti interpersonali che spesso sono influenzati dal genere di strutture ricettiva dove il cibo viene offerto. Ecco che qui, alla Mandragola, tutto mi sembra in perfetto equilibro e questo non è cosa di poco conto. Credetemi. Ogni tanto ripenso a Mandragola e al canto di quella sublime opera del Machiavelli che recitava:
Per fuggir questa noia Eletta solitaria vita abbiamo. E sempre in festa e in gioia Giovin leggiadri e liete ninfe stiamo. Or qui venuti siamo Con la nostra armonia, sol per onorar questa sia lieta festa e dolce compagnia…
La Mandragola —
via Sacco e Vanzetti, 2/G 42016 Guastalla (RE) Tel. 0522 219810 Fax 0522 219810 info@lamandragola.it www.lamandragola.it
Rapporto qualità prezzo buono Servizio ottimo Qualità dei piatti eccellente
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Una partita regale nella storia. Fra sport e passione.
From Maurizio Zuliani si occupa di ideazione ed organizzazione di eventi direzionati al target alto; dal 1997 al 2001 collabora con la F.I.S.E. (Federazione Italiana Sport Equestri); dal 2002 rilancia assieme a Claudio Giorgiutti il Cortina Winter Polo e successivamente Il Polo Gold Cup Costa Smeralda ed il Polo Gold Cup Forte dei Marmi.
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È
uno degli sport o giochi più antichi al mondo. Infatti non sempre si è trattato di scontri o partite, a volte anche di passeggiate e di percorsi. I giochi o le manifestazioni equestri sono sempre state diffuse in tutti i continenti e latitudini. La storia fa risalire la prima partita intorno al 600 a.C. fra Turchi e Persiani, ed è da quest’ultimi che prende il nome. Infatti la parola “pulu”, in tibetano, vuol dire “palla”, quindi il gioco prende il nome dall’oggetto che determina vittoria e raggiungimento dell’obiettivo. Due traguardi che nel passato storico antico erano univoci, alla base di contese, anche militari, di proprietà, di diritti, di promesse e doti matrimoniali. La leggenda sportiva vuole anche che “pulu”, in lingua persiana, voglia invece significare semplicemente una competizione fra cavalli e cavalieri anche dimostrativa, non solo bellica. La palla ha una storia a parte, con diversi risvolti, soprattutto su come era costruita: all’inizio veniva usata la corteccia verde e i frusti leggeri della pianta di salice con mastice, poi sicuramente era usata la pelle di vari animali, anche di serpente; poi la gomma o il succo di bambù, quindi il caucciù e la resina. Il primo grande giocatore, sponsor o patron (come si direbbe oggi), personaggio del Polo, fu il re persiano Dario che lo considerò come una forma di socializzazione, di diplomazia e di approccio con i vari popoli dell’India già nel 522 a.C. Il bastone della mazza era molto flessibile ed elastico, molto sottile, chiamato “chaugan”; spesso si rompeva e poteva diventare una arma micidiale. Dall’India alla Cina il passo fu breve, ma da gioco o sport o passatempo, divenne anche un parametro per misurare le promozioni dei dirigenti pubblici cinesi: per molti anni i più abili giocatori di Polo facevano più facilmente carriera nelle alte sfere governative. Per secoli l’Asia è stata capitale di questo gioco-non gioco,
Un po’ di storiA spesso motivo di discriminazione, di prova di fedeltà, di aggregazione, di necessità popolari. Documenti raccontano delle sfide in Giappone, a Dakyu nella zona di Nara nel 727 d.C., fra squadre popolari, assai diffuse, al punto tale che l’Imperatore fu costretto a vietarle in quanto assai dannose per la cavalleria imperiale. Erano infatti ammessi tutti i comportamenti, anche i più pericolosi, su un territorio vastissimo e non sempre pianeggiante, fra un numero indefinito di giocatori in campo con una unica regola per dichiarare il vincitore: portare la palla in una determinata “porta” stabilita dall’avversario. A rafforzare e a confermare l’idea che il Polo, gioco o battaglia creato per vincere, fosse o non fosse un’esclusività dei re e delle famiglie potenti è la leggenda legata a Gengis Khan, il più grande diffusore del gioco a partire dal 1211 su tutto il territorio mongolo conquistato, al punto di renderlo obbligatorio nella scuola di guerra. Si narra anche che qualche volta, per palla, fosse usata la testa del nemico ucciso! (foto 1). Tale passione è suffragata dai tanti disegni e scritti del sovrano in merito all’organizzazione militare della cavalleria, sua arma micidiale nei campi di battaglia, spesso descritta in modo maniacale, con dettagli di tempi necessari e spazi da percorrere per anticipare mosse avversarie e coprire in modi diversi la fanteria o gli arcieri. Una pratica militare che sembra più uno studio a tavolino di una partita di Polo, o un duello alla sciabola. Ma non solo, poiché questo è ancora il tempo del Polo “antico”, il “the ancestor’s game”, un’unica gara annuale senza regole, in due tempi da 25 minuti per partita, che avveniva sempre nel mese di settembre nell’Himalaya indiano a 3.700 metri di altitudine, fra tutte le popolazioni locali. In India, gli inglesi diventarono subito dei fans e giocatori, soprattutto utilizzando il Polo come integrazione e occasione di dialogo. Il primo Polo Club è datato 1859, fondato dal generale inglese Robert Stewart a Silchar. Altre capitali erano Manipur, Pershavar, Chocar e Calcutta soprattutto grazie ai Maharajà locali che costruirono meravigliosi campi in sabbia ed erba dentro le proprie corti e palazzi. Dentro casa, si direbbe oggi, come un campo da tennis o una piscina o un calcetto a portata di mano.
Ai bordi del campo venivano allestite tende per gli ospiti e per i colloqui diplomatici. Era tempo senza regole di gioco, non esisteva la figura dell’arbitro o giudice, in quanto il fair play di ogni giocatore imponeva l’autodichiarazione di aver commesso il fallo. Ah… le regole!! Il primo club europeo sorge a Malta nel 1868, grazie ad alti funzionari coloniali inglesi di rientro dall’India, e da qui arrivò in Inghilterra, ponendo la prima sede nel Monmouthshire nel 1872 e, di lì a poco, nell’altro club di Hurlingham fu costituita da John Watson l’associazione che mise per iscritto le regole tramandate verbalmente per 2.000 anni dai giudici-arbitri incaricati, depositari e autorità assolute sul campo di gioco. Fra le personalità più innamorate del Polo, seppur non giocatore, vi fu Winston Churchill e diversi regnanti europei, come gli Hannover, i Coburgo Sassonia e la dinastia Windsor, con alcuni patron-giocatori come il principe Carlo. Tutto cambiò quando il Polo venne esportato dagli inglesi in Argentina, paese idoneo, perfetto sia per i cavalli che per l’ambiente, grazie alle pampas, le tipiche pianure sconfinate. Lo stretto legame uomo-cavallo incarnato dai gauchos, abilissimi nell’addestramento in Argentina, diventa un fattore determinante la diffusione, come pure le razze argentine, i Criollo o Petizos, importati dagli spagnoli, particolarmente predisposti alla velocità in spazi brevi, molto recettivi, resistenti alla fatica, con un garrese basso e molto agili. In poco tempo nascono in tutto il paese i vari Clubs e il Polo diventa il primo sport nazionale, costituendo una validissima alternativa al diffuso gioco del calcio. Oggi l’Argentina ospita il più importante Open mondiale, l’Abierto de Polo, che si disputa in Buenos Aires. Ma il cavallo non è l’unico compagno del giocatore, non sono ufficialmente riconosciute, ma esistono partite con gli elefanti. È un’esibizione unica, annuale, che si svolge in Tailandia, cui partecipano 10 teams e 40 giocatori provenienti da tutto il mondo, compreso la squadra neozelandese di rugby degli All Black. Come pure il famoso Camel Polo di Dubai. Sono sempre di più i personaggi appassionati di Polo, giocatori e non giocatori. Il più conosciuto al mondo è l’ex batterista dei Police, Stewart Copeland, patron di un’intera squadra internazionale. Diversi i maestri della moda e del design attratti dal Polo, molti loghi sono su T-shirt, come quello di Ralph Lauren che utilizza l’icona di un giocatore di Polo come marchio, evidenziando così speciali peculiarità di eleganza e discrezione.
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Italia e Cortina, il Polo sulla neve.
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44 Il Polo in Italia è ancora un evento sportivo elitario, piccoli numeri, località prestigiose, ambiente ricco di emozioni, di sensazioni, di esperienze con personaggi noti e non noti mescolati fra il pubblico di curiosi, di appassionati. Il primo torneo di Polo in Italia si svolse nel 1924 all’isola Brioni, quando quel territorio era ancora italiano. (foto 6) Negli anni ’30 fu fondato il Roma Polo Club, il più antico e prestigioso. Nel 1989 fu organizzato a Cortina d’Ampezzo il primo torneo di Polo su neve, secondo in ordine di tempo solo a quello di St. Moritz che vide la luce nel 1985. (foto 7) A partire dall’ultima decade del Novecento il Polo subì in Italia un notevole sviluppo conoscitivo, dovuto principalmente alla delocalizzazione dei tornei di Polo dai Circoli tradizionali a località turistiche esclusive quali Punta Ala, Argentario, Villa a Sesta, Costa Smeralda e Forte dei Marmi (foto 8). Uno sport difficile e pretenzioso per i giocatori e per le squadre, impegnativo per gli uomini e i cavalli. La scuderia deve essere di prim’ordine e ben attrezzata in tecnici, veterinari, gauchos fondamentali. Ma il pubblico è quello delle occasioni riservate, dei salotti romani e milanesi, degli anni ‘70 e ‘80, degli anni da bere. Si respira aria di pulito, di eleganza, di esclusività, che rende il parterre quasi indifferente, senza stupirsi, senza creare miti e legende che non hanno senso. Cavallo, cavaliere, pubblico, maniscalco, gaucho, spettatore e giudice sono una unica entità che si muove in armonia, con ritmi e simboli senza tempo, senza paragoni, senza valore. Tutto è automatico, normale, spontaneo… è facilmente individuabile il pesce fuori dall’acqua. Ecco il lago di Misurina, in Auronzo di Cadore, noto ai pescatori per
le sue trote salmonate splendenti e rosa, ma che d’inverno è un lago ghiacciato, una distesa di nitida neve ampezzana, con cornice le Tre Cime di Lavaredo, il monte Sorapis e le dolomiti cortinesi. Il campo su neve di Misurina è più stretto di quello su erba, 200x100 metri, ogni giocata è più lenta, i cavalli sono dotati di rampetti agli zoccoli per non scivolare. Ogni squadra ha bisogno di almeno 20 cavalli per gara. La palla inoltre è di un colore arancio-rosso vivo e ha un diametro maggiore. In occasione del Winter Polo avvengono altri eventi organizzati dalla Fip, tipo l’European on Snow che solitamente si tiene a St Moritz. Ai bordi del lago gelato è tradizione, oramai da oltre 20 anni, assistere al Trofeo Cortina Winter Polo, del Polo Open Championship del circuito Polo Gold Cup che, insieme alla Coppa della Costa Smeralda e al Polo Club Argentario, rappresentano i grandi tornei di Polo in Italia. Club house sul campo è l’hotel Misurina, club house di base è l’hotel de la Posta in centro a Cortina. Il Winter Polo si svolge per tradizione a febbraio, il periodo preferito dagli ospiti più esclusivi di Cortina, pochi stranieri, solo quelli più attenti. Si riprendono le vecchie tradizioni degli anni ‘60 e ’70 dei ritrovi nei rifugi, nelle baite. Meno auto in giro, più pace, più rispetto per la valle ampezzana, qualche viso noto ma ben lontano dal gossip, qualcuno che con discrezione da decenni non manca, meno persone in albergo e più nelle case, più intenti alle passeggiate, all’aperitivo e a riposare veramente. Una sciata solitaria, lenta, senza code alle seggiovie e funivie. Il tempo del Polo, direbbe qualche amico di Cortina di quegli anni, segna un ritorno alle vecchie giornate ampezzane, tranquilla pace fra le vette dolomitiche, chiacchiere in libertà con racconti di storie vissute, di amori nascosti; una conca dove godersi il passaggio dall’inverno ai primi raggi di sole della primavera. Tradizione vuole che l’apertura delle gare avvenga con alzabandiera e sfilata delle squadre, di solito 5-6 non
di più: nel tempo si sono avvicendati i colori di grandi marchi della moda e del design, tutti amici del Polo sulla neve, come i team Audi, Hotel de la Posta, Us Polo Assn, Montecarlo Club Polo, Mercedes AMG, Jaeger-LeCoultre, Audemars Piguet, Cartier, Loro Piana, Deutsche Bank, P.W.M., Ruinart Champagne con giocatori italiani e tanti maestri e rappresentanti di grandi squadre professioniste di Argentina, Brasile, Russia, India, Sud Africa, a dimostrazione che lo scenario alpino si presta a esprimere al meglio le vere caratteristiche del Polo: potenza e fierezza sportiva con eleganza e qualità. Diversi i giocatori noti che hanno solcato il campo di Misurina, come il romano Rommy Gianni capitano Montecarlo Polo Team, Luca d’Orazio, gli argentini Dario Musso e Nicolas Espain, veri campioni, Alfio Marchini e Pablo de Escandòn, Juan Nelson e Mariano Aguerre. La gara e i giocatori non sentono le condizioni del meteo, neve o sole non fa differenza, per giocare con passione, spirito, potenza, emozioni, coraggio, velocità. Intorno un pubblico infreddolito ma non distratto, attento alla maestria e all’abilità di cavalieri e cavalli. A Cortina, il Winter Polo, nasce nel 1989 per grande interessamento di Renato Manaigo, allora patron dell’Hotel de la Posta, con tanta voglia di fare, seppur con tanti dubbi, solo qualche anno dopo il mitico campo di gioco di St. Moritz La prima edizione del Cortina Winter Polo si svolse sul campo allestito al lago di Landro, all’ombra del monte Cristallo, poi ininterrottamente fino al 2012 nello scenario del lago di Misurina, e più recentemente il Comune ha messo a disposizione i campi di Fiames, più sicuri, punto di riferimento per gli amanti dello sci di fondo e delle ciaspolate. I cortinesi ci sono sempre, il bel mondo dello spettacolo, del
cinema, dell’automobilismo, dello sci, del bob partecipano e tifano con entusiasmo. Alla sera poi, nel padiglione a bordo campo, gli incontri più diversi e impossibili attorno ad un tavolo di aperitivo, una cena di gala, un ritrovo di amici di vecchia data, con casa a Cortina da sempre, ma difficilmente individuabili per le viuzze della perla delle Dolomiti. Alla sera si alza il sipario sul galà dinner del Village Restaurant con cuochi italiani e non molto noti artefici di assaggi e piatti fra il salutistico e il creativo. Sempre innaffiati con bollicine, spumanti di grandi marche, presenti in tutto il mondo, nei più grandi ristoranti stellati. Regia di El Toulà catering. In Italia ci sono più appassionati che giocatori: il bordo campo diventa il palcoscenico corollario delle partite. Negli anni i volti noti sono stati tanti, fra di loro molti appassionati di Polo, ma anche frequentatori delle più grandi manifestazioni sportive, dagli open di golf alle partite di Davis a Roma, o al circolo di Milano. Ospiti fedeli, attenti alle giocate dal parterre, spesso presenti gli Zoppas, i d’Asburgo Lorena, i Benetton, Margherita e Cellina Fucs von Mannstein, Doris Pignatelli, Giuseppe Tartaglione, Giuseppe Ferrajoli, i giovani Giovannelli, i brillanti Iaia e Vittorio Coin, Erik von Hermann, Chantal d’Aquarone, Arianna Bisconti, i Moretti, gli Stefanel, i Dorigo, gli Zanardi Landi, le nuove generazioni dei Marzotto, Roberta Cipriani e tanti altri. Negli anni hanno assistito alle gare il duca di Spoleto, Ira Fur-
stenberg con marito e figli, il conte Nuvoletti con Maria Sole Agnelli, Alessandra Torlonia e per tanti anni il capitano-giocatore Alfio Marchini, recente candidato Sindaco a Roma. Il Tivoli e Beppe Sello, come il Caminetto e Al Camin, baita Fraina e malga Federa, sono i ristoranti e i ritrovi per discutere di “grandiose” giocate, palle perse, scivolate… colpa sempre del destriero, linee di traiettoria vinte e mai.. perse, punti fatti e punti mancati per colpa di chi sa chi!! A volte i racconti nelle notti inoltrate, fra un calice di Franciacorta e di Trento, un Prosecco Superiore e un Gavi d’Antan diventano giganti leggendari, naturalmente per spirito di partecipazione e sola passione, con lo stesso ritmo del racconto del cacciatore e la sua lepre o del peso dell’ultimo storione pescato sulle rapide e fra i sassi del Piave. Il Polo è stile e scelta di vita, passione soggettiva e personale, molto privata quasi nascosta, perché ha bisogno di molto tempo, molti allenamenti, grande costanza. Seppur non è errato definire il gioco del polo, anche “lo sport dei re e il re degli sport”.
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Come si gioca Il Polo si gioca su un campo delimitato di 275 metri per 180, circa 3 volte San Siro, con un suolo di qualunque tipo purché pianeggiante, con l’obiettivo di infilare la pallina in una porta, fare goal direbbe qualcuno. È soprattutto una sfida non solo a vincere una partita come squadra, ma soprattutto a praticare uno sport difficile, pericoloso. Le regole infatti sono tutte improntate a salvaguardare cavallo e cavaliere. Si giocano da 4 a 8 tempi di 7 minuti cadauno effettivi (i chukkers) con 4 giocatori per squadra, ognuno con un handicap da meno 2 a più 10 punti e con una stecca in mano, flessibile e lunga, di bambù con un mazzuolo in legno cilindrico in punta; per questo i cavalli devono essere agili, corti, con un garrese o guidalesco basso e un baricentro importante per la mobilità del destriero. La soluzione della “stecca” in fibra di carbonio non è praticabile perché il ritorno dei colpi, giusti o sbagliati, crea delle infiammazioni articolari. Difficile e pericoloso con galoppate a 50 km orari, brusche virate, frenate, corse appaiati; sono attimi di alta concentrazione, impegno fisico, equilibrio e grande attenzione. Anche per questo ogni cavallo gioca un solo tempo e poi riposa. Colpire una pallina di 11,5 cm di diametro che vola anche a 180 km orari non è semplice. Pochissime regole: mai incrociare la linea tracciata dalla pallina e dare la precedenza al cavaliere che per primo si inserisce sulla linea della palla. Tutto qua. Nonostante questo, il Polo è uno sport vivo, dinamico, di contatti e per vincere la giocata si usano tanti mezzi e modi dettati da esperienza, invettiva, anticipazione… come per esempio anticipare la corsa dell’avversario o steccare la mazza dell’avversario prima che colpisca la pallina, o essere molto bravo ad appoggiare il proprio destriero a quello dell’avversario per portarlo fuori traiettoria e dal campo del gioco (ride-off). Una grande peculiarità di questo sport è che in campo ci sono contemporaneamente sia amatori che professionisti, questo per fare in modo che ogni squadra possa avvalersi di qualche vantaggio utile, uno score basso della squadra determinerà dei punti a favore. Il pubblico ha sempre avuto un ruolo fondamentale, non solo da spettatore. Nella storia lo spettatore, fra un tempo e l’altro, entra in campo e sistema le zolle di terra-erba sollevate dai cavalli. Per campi in sabbia o neve questo non esiste. Esiste invece la storia legata ad altri destrieri, come gli elefanti e i cammelli, proprio per l’origine geografica del gioco, e questo avvalora ancora di più l’idea di uno sport di stimoli, di rischi, di sfide, di pericoli, di fascino che offre infinite opzioni di gioco.
Termini dell’appassionato THROW-IN è il palla d’inizio ad opera dell’arbitro. La palla viene gettata fra i giocatori schierati. E così a inizio di ogni tempo e di ogni interruzione. REFEREE è il giudice-arbitro unico sistemato su una torretta che controlla tutto e interviene come terzo arbitro nella decisione finale. BACK il soprannome del giocatore nr. 4, ovvero il difensore. HANDICAP è il valore di un giocatore, ovvero la sua abilità. C’è una scala da -2 a 10. Il dieci è un giocatore perfetto e professionista. HANDICAP SQUADRA è la sommatoria del singolo handicap dei giocatori. La squadra con punteggio più basso viene agevolata con qualche goal in partenza. CHUKKER è il singolo tempo di una partita intera, che dura 7 minuti netti effettivi. Si va da 4 (in Italia, paesi deboli) a 8 (in Argentina, paesi forti) chukkers. UMPIRES sono i due arbitri ufficiali a cavallo in mezzo ai giocatori. GROOM chi cura i cavalli, fondamentale per ogni buon giocatore. Il moderno gaucho argentino. OPEN è il torneo più importante e non valgono gli handicaps. PENALITY è la punizione a seguito di un fallo. Sono di tre tipi per distanza dalla porta. Si trasforma in un goal se il fallo pericoloso avviene vicinissimo alla porta.
Maurizio Zuliani
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Gioielli e cibo, una lunga storia d’amore
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L e f o r m e e i c o l o r i d e l l e d e l i z i e d e l l a t a v o l a d a s e m p re i s p i r a n o g i o i e l l i e r i e c re a t o r i d i m o d a , c o s ì , g r a z i e a l l ’ a r t e o r a f a e a l l a f a n t a s i a d e l g i o i e l l i e re , i l cibo, svincolato dalla sua funzione nutritiva, si è trasformato in un oggetto c h e t r a c c i a u n a s t o r i a a l l e g r a , d i v e r t e n t e e i ro n i c a d e l g i o i e l l o .
tema degli alimenti, grazie al loro significato beneaugurante di ricchezza e promessa di vita, percorre la storia del gioiello. Frutti, bacche, grappoli d’uva, melograno, spighe, foglie di alloro e semi erano alcune delle forme preferite delle signore delle antiche civiltà. I gioielli in oro e smalto dell’epoca rinascimentale, ornati con pietre preziose incise o lavorate a cameo, mostrano tra i soggetti più ambiti i personaggi mitologici o gli dei che rappresentavano la ricchezza della natura, come la dea romana dei frutti, Pomona, raffigurata con la cornucopia, simbolo del nutrimento e dell’abbondanza. Nel Seicento, secolo che tanto ama i frutti come soggetti della pittura, sono molto apprezzate le perle, anche quelle irregolari o “barocche” che venivano usate per comporre grappoli d’uva sospesi a tralci in oro incastonati di smeraldi e altre pietre di colore per simulare le foglie. Alla châtelaine, gioiello caratteristico del Settecento, le dame appendevano diversi oggetti come orologi, sigilli, libri in miniatura, ma anche ciondoli a forma di pannocchia, di grappolo d’uva o di uovo che erano considerati amuleti in grado di attrarre prosperità, fortuna e ricchezza e di proteggere dalle malattie e dalle carestie. Il soggetto del grappolo d’uva è ampiamente ripreso nella prima metà dell’Ottocento e realizzato con perle o ametiste a simulare l’uva bianca e nera. Persino nei gioielli da lutto, realizzati in materiali scuri, come il giaietto e l’onice, e imposti dalla Regina Vittoria a tutta la corte inglese dopo la morte del marito principe Alberto nel 1861, non si rinuncia alle forme della natura che restano quelle più diffuse: fiori, spighe di grano, farfalle, viti rampicanti ecc., forse a sottolineare il legame tra la vita e la morte.
Nel 1925, all’Esposizione delle arti decorative di Parigi, si afferma l’Art Déco che predilige l’essenzialità delle forme e delle composizioni. Nascono così gioielli che sperimentano nuove forme: il prisma, il trapezio, le losanghe – per accordarsi anche alla moda femminile che diventa lineare e semplice – e si impongono nuovi abbinamenti di colori vivaci come il rosso, il turchese, il nero e si utilizzano le pietre multicolori incise a “melone” prese dalla tradizione indiana. Gli anni trenta portano una ventata di rigore formale e l’abbandono dei temi simbolici nell’arte e nel design del gioiello che privilegia le forme geometriche. Due sono le tipologie di gioielli appartenenti a quel periodo: i gioielli cosiddetti “del periodo bianco”, realizzati grazie all’uso del platino e dei diamanti, e i gioielli policromi che propongono un trionfo di gemme multicolori chiamate “tutti frutti”. Nella triste epoca della guerra, la produzione di gioielli si riduce enormemente, si usano soprattutto spille, bracciali e orecchini destinati a ravvivare i semplici tailleurs realizzati con stoffe maschili. Questi ornamenti sono in oro, spesso unito ad altri metalli che prende così colorazioni diverse – rosa, azzurro, verde –, hanno forme bombate e arrotondate e sono creati con lastre leggere e cave all’interno che incastonano diamanti e rubini molto piccoli o grosse pietre di colore come acquemarine, topazi, quarzi citrini. Non mancano soggetti scherzosi, tra cui quelli ispirati al cibo, che aiutano a superare questi anni difficili. Con l’arrivo degli anni cinquanta, le creazioni rappresentano la gioia di un periodo di rinascita: fragole e ciliegie colorate, ma anche spighe di grano e motivi a grappolo sottolineano l’augurio per un futuro di abbondanza, spesso interpretati con un gusto delicato e romantico che ben si addice al New Look lanciato da Christian Dior. Negli anni sessanta, almeno per il giorno, sono apprezzati gioielli sobri e di piccole dimensioni realizzati con oro lavorato in modo da assumere la forma di un filo ritorto, intrecciato come una corda, oppure tagliato in piccoli elementi uguali accostati l’uno all’altro per creare oggetti femminili, delicati e romantici. Mentre negli anni settanta anche nel gioiello si inseriscono temi etnici ed esotici.
Mara Cappelletti
I gioiellieri dell’Art Nouveau, attivi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, rappresentano negli ornamenti la fluidità delle forme utilizzando materiali preziosi uniti a pietre semipreziose come il corallo, la turchese, l’avorio, la tartaruga e a smalti che colorano con la loro natura delicatamente traslucida le superfici dei gioielli. La natura è ampiamente rappresentata anche nelle sue forme più semplici come le pannocchie di grano, i pesci, le bacche, i grappoli d’uva, in molti casi non nella versione rigogliosa della piena maturazione, ma nel momento della sfioritura e dell’appassimento.
Laureata allo IULM di Milano e specializzata in Storia del gioiello presso il Sotheby’s Institute of Art di Londra, Mara Cappelletti è pubblicista, autrice di libri e insegnante. Per oltre tredici anni ha collaborato con la rivista di bijoux “Ornamenta”, ha curato e scritto le opere a fascicoli Gioielli Etnici e Orologi Fashion pubblicate da De Agostini, così come la collana I Maestri del Tempo pubblicata da 24 Ore Cultura. Tiene corsi e conferenze sulla storia del gioiello presso scuole superiori, gallerie d’arte e presso l’Università Statale di Milano. Nel 2015 ha ideato e curato la mostra Gioielli di Gusto che si è tenuta a Palazzo Morando in collaborazione con il Comune di Milano.
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Oggi sono molte le versioni di gioielli moderni e contemporanei che rappresentano il nutrimento con stili molto differenti, diventando il punto di incontro tra la progettualità del food design e la fantasia del gioielliere; metallo, pietre e smalti danno vita ai gioielli a forma di cibo in un caleidoscopio di colori, di luce e di brillantezza.
Il gioielliere milanese Aldo Citterio reinterpreta il tradizionale grappolo d’uva con oro e ametiste. La maison De Simone Fratelli realizza grappoli altrettanto preziosi con oro e perle, ma esplora anche percorsi di scultura con l’anello che incastona un piccolo pesce che “respira” una bollicina di perla o, ancora, si rifà a ispirazioni surrealiste con gli orecchini che hanno la forma di sensuali bocche rosse. Nascono nell’alveo della più raffinata tradizione orafa le creazioni di Antonella Ferrara, artista-artigiana che utilizza metalli nobili, lavorati con la tecnica della cera persa o in lastre cesellate, abbinati a pietre preziose, cristalli, perle, coralli, conchiglie per dare vita a gioielli che spesso si ispirano alla mitologia, come il pendente Giardino delle Esperidi, ramo rigoglioso carico di pomi d’oro, frutti rossi e bacche attorno a una melagrana che rievoca la leggenda di Persefone.
Un inno alle bollicine da bere nei momenti di celebrazione è l’anello di Roberto Coin a forma di tappo di champagne da indossare per festeggiare e brindare alla vita. Alcuni oggetti nascono da una ricerca di nuovi materiali e nuove forme che diventa emblema di pura creatività e genera oggetti affascinanti destinati a porre una riflessione, a volte seria, a volte surreale, a volte fantastica del rapporto tra cibo e ornamento. Le creazioni di Barbara Uderzo, esprimono con sottile ironia una dimensione giocosa. I Blob rings, dal gusto decisamente pop, sono prodotti in argento e smalti, plastiche e resine: da glasse coloratissime spuntano bottiglie di champagne, aragoste presbiti, piccole teiere, piattini in porcellana… Una diversa visione è quella che vede il gioiello come espressione di una progettazione rigorosa, all’insegna
C re a re o g g e t t i f e m m i n i l i , d e l i c a t i e ro m a n t i c i . M e n t re n e g l i anni settanta anche nel gioiello si inseriscono temi etnici ed esotici. Si rifanno all’estetica naturale dai colori sobri e autunnali un po’ anni settanta i bracciali con pendenti a forma di frutta secca della maison R’OR, in versione smaltata oppure con piccoli diamanti incastonati. Si ispirano a orizzonti lontani nello spazio i gioielli presentati da Giuseppina Fermi con l’esotico fiore di loto, commestibile nella cultura indiana, il ciondolo Foglie di lattuga e l’anello Mela trafitto da una freccia, simbolo della conoscenza “colpita” e centrata o del colpo di un moderno Guglielmo Tell? Sono un rimando al trionfo della natura nel Rinascimento i gioielli di Mattioli che propone delicati cesti di frutta e fiori chiamati Arcimboldini.
di una marcata concettualità, che interpreta il tema in forma decisamente traslata. Nicoletta Frigerio si colloca in una terra di confine, in cui la sua ricerca artistica, senza distinzione tra arte e arti applicate, pone al centro la materia, sottoposta a interventi e trasformazioni chimiche. I suoi gioielliscultura sono pezzi unici di matrice astratta, che sviluppa in famiglie di oggetti, così da rappresentare dei percorsi simbolici, e ai metalli abbina i più diversi elementi quali l’alabastro, la ceramica, lo specchio, dalla forte valenza simbolica, e anche sostanze naturali, fondamentali per l’alimentazione, quali il sale e il pepe o il pane.
UNA
gustosa
ARTE DEL GIOIELLO
CONTEMPORANEO
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Tutte le immagini sono tratte dal catalogo della mostra Gioielli di Gusto che si è tenuta presso Palazzo Morando – Museo Costume Moda Immagine di Milano come evento di Expo in Città da settembre a dicembre 2105.
storia
1 Spilla con motivo a foglie di vite e grappolo d’uva. Gioiello da lutto. Fabbricante sconosciuto, Inghilterra 1865 circa. Jet inciso a mano. Collezione Deanna Farneti Cera, Milano.
golosa
fashion jewellery
Come accade per il gioiello, anche nel bijoux, che proprio del gioiello vero è – inizialmente – imitazione, non mancano esempi di ispirazione gastronomica. Dagli anni trenta in poi il bijoux inizia una vita indipendente rispetto al gioiello vero, rivendicando un valore autonomo che si trova nel disegno estroso e fantasioso e nella libertà acquisita dall’utilizzo di materiali dal valore intrinseco ben minore rispetto all’oro e alle pietre preziose, esplorando percorsi innovativi. Negli anni trenta e quaranta, la fantasia di Miriam Haskell e il suo impegno nella lavorazione a mano di ogni pezzo, permette ai bijoux di diventare ornamenti di pregio, spesso realizzati con forme che al cibo fanno riferimento, come noci, nocciole e chicchi di caffè.
I costumisti di Hollywood – Adrian, Hattie Carnegie, Nettie Rosenstein – iniziano a disegnare abiti e accessori anche per le donne comuni, facendo sì che lo stile americano e i bijoux di imitazione hollywoodiana prevalgano sullo stile europeo. Con il dopoguerra e l’avvento del New Look lanciato da Christian Dior, gli abiti tornano a essere lussuosi, mentre i bijoux si fanno splendenti di gemme d’imitazione e prendono la forma di un insieme di frutti deliziosi. Un profondo rinnovamento avviene negli anni sessanta: ora il gusto non dipende più solo dai suggerimenti dell’Alta Moda, ma da tutte le ispirazioni che vengono dalla strada e dal mondo dei giovani che vogliono un abbigliamento meno formale e più fantasioso. A rinnovarsi sono sia i colori, che diventano brillanti in contrasto con le decorazioni in oro, sia le forme e gli stili, sia i materiali, per i quali, sull’onda della sperimentazione, si impongono la plastica, il vinile e il plexiglas colorato che si aggiungono al vetro e allo strass. In questo contesto non può che continuare il successo, già iniziato nella prima metà del secolo, di Trifari grazie ai suoi bijoux realizzati in materiali poveri (leghe di metalli, finte gemme, cristalli e perline), ma con grande creatività e attenzione ai dettagli; particolarmente rappresentativi della sua produzione di questo periodo sono Pisello nel baccello e Melagrana in metallo dorato, smalti e strass. Ampio è anche l’uso di pietre cabochon. Negli anni settanta continua la sperimentazione dei materiali (cuoio, ceramica, corda) e, se da un lato diminuisce l’utilizzo di vetro, pietre
colorate e strass, dall’altro domina l’utilizzo dello smalto per realizzare cromie contrastanti. Importante in questi anni è il predominio del gusto vivace e colorato, di cui è un esempio il bracciale in plastica incisa a forma di fetta d’anguria realizzato da Sharra Pagano. Gli edonistici anni ottanta vedono il ritorno dell’alta moda e delle griffes francesi e italiane. Sono gli anni dell’eccesso, quando le signore sfoggiano tailleurs di giorno e sontuosi abiti da sera dai colori sgargianti. In questo periodo Lagerfeld si lascia tentare dai dolci, con collane a forma di biscotto, orecchini e spille come golosi pasticcini; Fendi sceglie invece sautoirs composti da sedani di pasta; Escada propone importanti colliers d’oro di frutta secca opulenta, mentre Ferré vuole spille a forma di grappolo d’uva che brillano di strass colorati. La moda degli anni novanta, più pacata, vede l’introduzione di bijoux leggeri, dai colori meno brillanti, ma non mancano le sperimentazioni provocatorie come quelle di Moschino che introduce gli abiti mucca e accessori altrettanto irriverenti. Le citazioni gastronomiche non mancano nella moda contemporanea, soprattutto nelle creazioni di Krizia, Prada, Dolce & Gabbana, che si ispirano alla dieta mediterranea. Contemporaneamente Missoni esplora le forme della frutta e della verdura con le meravigliose nuances di colore che caratterizzano la maison.
2 Spilla a motivo di centrotavola. Inizio XX secolo. Oro giallo e argento, con zirconi azzurri, granato, ametista, quarzo citrino, opale di fuoco, opale arancione, perline e piccoli diamanti. Marcata AR. Milano, Museo del Risorgimento, Dono Rosa Curioni De Marchi. 3 Spilla in stile “Tutti Frutti” a forma di losanga. Francia 1928 circa. Cristallo di rocca, ghirlande di rubini, smeraldi e zaffiri con taglio cabochon oppure incisi e con inserti di piccoli diamanti taglio brillante, oro 18kt e platino. Collezione Kathryn Bonanno, New York.
4 Spilla-orologio “Tutti Frutti” di Verger Fréres realizzato per Mauboussin, Francia 1930 circa. Platino che incastona rubini, smeraldi, zaffiri incisi e diamanti. Collezione Kathryn Bonanno, New York. 5 Spilla Escargot. Anni quaranta. Quarzo citrino intagliato al centro, incorniciato a radiante da quarzi citrini con taglio a gradino separati tra loro da diamanti con taglio a brillante, con montatura in platino e oro giallo. Collezione Kathryn Bonanno, New York. 6 Coppia di clip Grappolo d’uva. Italia, fine anni quaranta. Oro, zaffiri, rubini, diamanti. Collezione Cusi Gioiellieri di Corso Monforte. 7 Ciondolo Balangandan (amuleto protettivo usato dalle schiave in Brasile che rappresenta la prosperità). Italia, anni settanta. Oro e corallo. Collezione Cusi Gioiellieri di Corso Monforte, Milano.
CONTEMPORANEI 8-0 Spilla Grappolo d’uva. Aldo Citterio, Italia 2015. Oro giallo, ametista viola e 9 diamanti taglio brillante. 8 Anello Pesce. De Simone Fratelli, Italia 2015. Oro 18kt con scultura in corallo rosa del Giappone e brillanti. Collezione Aenaria. 9 Anello Persefone ed Era. Antonella Ferrara, Italia 2015. Oro e argento dorato, goccia di rubino. Realizzazione mediante fusione a cera persa dell’argento per il
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For centuries, table prelibacies have inspired a wealth of rare jewels and outstanding fashion jewellery. Foods, thanks to its auspicious meaning of wealth and life, traverses the history of jewelry, from ancient ornaments to contemporary pieces, and cultures near and far - from Ancient Greece to eighteenth century China. Grapes, pomegranates, pineapple, strawberries, but also wheat, pea pods, mushrooms, tomatoes, pasta, fish, crabs, eggs and game, let alone drinks, signified by often amusing interpretations like cocktail rings or masculine accessories like cufflinks. Food, freed from its mere nourishing function, has long grown into an aesthetic form of art. The historic and contemporary works on show, created by Italian and international jewellers and designers, explain how food may become a vehicle for creativity, emphasizing its aesthetic and cultural value.
melograno e dell’oro per la mela. Incastonatura a griffe del rubino. 10 Bracciale rigido Frutta secca. R’OR, Italia 2015. Bronzo con ciondoli in bronzo e smalto. Bracciale rigido Frutta secca. R’OR, Italia 2015. Bronzo con ciondoli in argento che incastonano pietre miste. 11 Anello, a forma di cesto di frutta e fiori. Mattioli, Italia 2015. Oro 18kt con tormalina rosa, quarzo bianco, peridoto, citrino, topazio azzurro, ametista e zaffiri. Collezione Arcimboldo. 12 Anello. Oro rosa, giallo e bianco con diamanti bianchi e brown e zaffiri gialli. Collezione Celebration by Roberto Coin. 13 Anello Blob ring - wine. Barbara Uderzo, Italia 2015. Argento rodiato, plastiche varie, vetro, porcellana, perla d’acqua dolce, sughero, cristallo. 14 Bracciale Zolla e sale. Nicoletta Frigerio, Italia 2015. Zolla preziosa in argento, zolla mediterranea fusione a cera persa, sale rosa dell’Himalaya.
fashion jewellery 15 Clip a forma di grappolo di nocciole. Frank Hess per Miriam Haskell, Usa 1938 circa. Noci, gusci e sfere passanti in legno inciso e tornito, foglie in metallo dorato. Non punzonata. Collezione Deanna Farneti Cera, Milano.
16 Orecchini a forma di pisello nel baccello. Firmati “Trifari”, Usa 1960. Metallo placcato oro, smalto, perle simulate e strass. Collezione Demaldè, Milano. 17 Gemelli “Acqua San Moschino”, Moschino, Italia, 1980 circa. Ottone placcato oro. Collezione Demaldè, Milano.
20 Cintura a festoni a forma di grappoli d’uva. Krizia, Italia 2010. Catena cui sono appese foglie in metallo dorato e sfere di plastica montate a formare grappoli d’uva. Collezione Deanna Farneti Cera, Milano.
18 Sautoir ricavato da elementi a forma di pasta. Disegnato da Donatella Pellini per Fendi, Italia 1980 circa. Elementi in metallo dorato a forma di pasta, infilati e intercalati a sfere sfaccettate. Collezione Deanna Farneti Cera, Milano. 19 Set composto da strangolino rigido e bracciale con polpi. Carlo Zini, Italia 2008. Metallo dorato, pietre in vetro multicolori montati a pavée pietre in vetro lattiginoso tagliate a cabochon. Collezione E.L.A. Antichità, Bergamo.
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onosco Riccardo Ricci Curbastro dai tempi dell’Anga Confagricoltura. Romano di nascita, ma Franciacortino a tutti gli effetti; produttore di vini tranquilli a Lugo di Romagna e di Franciacorta, a Capriolo, in Villa Evelina dove c’è un museo agricolo di famiglia fondato nel 1986 dal padre Gualberto. Qualcuno lo definisce cittadino del mondo, altri un abile politico con idee chiare, ma pratico nelle armi della diplomazia, molto attento. Ma è soprattutto un imprenditore. Presidente della nuova Federdoc italiana dal 1998, quando la vecchia struttura fondata nel 1979 e guidata dal senatore Elio Assirelli cambiò drasticamente pelle, virò di 360 gradi, fu presa in mano da giovani tecnici. Quando le Docg-Doc non erano più un baluardo nominale contro paure e sanzioni, ma erano progetti di territorio, proprietà collettive come strumento di difesa globale, certificazione, tutela, conoscenza, promozione. Fu riscritto statuto e regolamento ponendo le basi per costruire non solo un organo rappresentativo di terzo livello della interprofessione produttiva, ma anche un interlocutore forte e unico per il Ministero della Politiche Agricole, per tutti gli enti preposti, per la Ue. Per la prima volta un presidente proveniente dal mondo spumantistico riconfermato per la quinta volta continuamente nel 2016, un successo personale e un riconoscimento del lavoro compiuto, giusto Ricci Curbastro? "Oggi i nostri distretti produttivi e le nostre denominazioni, espressione della capacità artigianale e secolare di viticoltori hanno una significatività e riconoscimento nel mondo anche per il percorso e il meccanismo dei controlli attivati, sicuramente fra i più seri al Mondo. Tuttavia con 405 DO esistenti (ora Dop) e 118 IGT (ora Igp) abbiamo una dispersione di energia che sicuramente va rivista e riportata in un alveo più attuale, moderno, capace di esprimere maggiori volumi e attività promozionali sui mercati mondiali.
Un uomo del fare, nel sangue
le bollicine. 59
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Un lavoro straordinario, mastodontico, mai raggiunto prima da nessun altro. Sicuramente il risultato più forte e deciso dal 1986, anno nero della storia enoica nazionale, a regime nel 2013. Già Accademico della vite e del vino, della società di Agricoltura e dei Georgofili, Ricci Curbastro è stato insignito del titolo di cavaliere ufficiale della Repubblica, componente dal 2000 al 2009 di diversi comitati e consigli presso il Ministero e altri organi agricoli e vitivinicoli, dal 2010 al 2016 è presidente europeo di tutti i consorzi di tutela dei vini. Un impegno importante, un successo personale? "Efow ha svolto un ruolo importante nella tutela dei Doc/Igt, grazie a Federdoc che, sempre più, punta a migliorare la conoscenza dei vini italiani, dialogando continuamente su più tavoli, dai buyer alla stampa, dagli operatori di settore al consumatore finale, compreso diversi paesi esteri."Ricci Curbastro, nel 2015, apre un nuovo capitolo, nasce Equalitas, quali scopi? "Nasce con il patrocinio del Mipaaf, è il frutto di un intenso lavoro di Federdoc, Unione italiana vini, Csqa-Valoritalia, 3a Vino e Gambero Rosso per creare un modello di sostenibilità innovativo, grazie a uno standard volontario di controlli tecnologici, all’avanguardia, governato da un ente terzo, su biodiversità, consumi, impronta carbonica, gestione fitosanitaria, impatto sociale delle aziende e interazione con il territorio. Può essere uno strumento interessante per certi mercati, come quello Usa e Uk." Conoscendo Ricci Curbastro, tutto questo non è presenzialismo. Magari il mondo del vino italiano avesse più tecnici esperti pronti a sacrificare il proprio tempo libero per gestire cose comuni o per un congresso a Bruxelles sulla gestione degli impianti viticoli? Non solo per la Franciacorta, ça va sans dire!
Ni.Co
Il rischio che non dobbiamo assolutamente correre è quello di svalutare il nostro patrimonio enologico agli occhi dei consumatori mondiali, di perdere la capacità e gli strumenti per tutelarlo e proteggerlo dalle innumerevoli aggressioni che subisce." Presidente del Consorzio Franciacorta dal 1993 al 1999, Presidente di Agriturist dal 1998 al 2007. Un impegno continuo per il settore del vino, ma con un occhio intelligente verso anche le azioni e le opportunità offerte dalla integrazione con il turismo, con l’apertura delle cantine. Ha saputo creare un feeling fra il mondo produttivo e il mondo del consumo agendo spesso da promoter in prima persona, puntando più sul bene e l’interesse comune, piuttosto che a un tornaconto aziendale e individuale. Questa forza di carattere e grande mediazione sono state armi vincenti per una carriera del fare, non del dire. Certo alcuni sogni si sono infranti, alcuni obiettivi sono stati più lunghi del previsto. Sicuramente il tema erga omnes per i Consorzi ha avuto una svolta decisiva e drastica con l’entrata
in vigore nel 2008 della normativa comunitaria che ha affidato i controlli ad organismi terzi, equiparando il sistema vino all’agroalimentare già attivo da anni, togliendo di fatto lo stesso compito ai Consorzi già riconosciuti. Una marcia indietro. Questa scelta, decisamente alternativa e più autorevole, ha visto la sua applicazione nel 2010. Prevedibile? "Probabilmente con il senno di poi, forse era meglio fare un passaggio intermedio, ma l’esperienza è servita moltissimo. La costituzione di Valoritalia nel 2010 è stata la logica conseguenza. È stata una evoluzione, creata per dare punto di riferimento e garanzia alle aziende vitivinicole italiane. L’attività di certificazione partì in agosto, molto attiva da subito, arrivando già un anno dopo ad avere la gestione diretta di molte docg e doc italiane. 183 denominazioni, di cui 44 docg e 139 doc pari a circa il 75% di tutta la produzione nazionale italiana, corrispondente a 163.000 ettari di vigneti e a 12,5 mio/qli di uva e oltre un miliardo di bottiglie".
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62 Nato a Potenza nel 1931, Ri ccardo Dalisi è un architetto, designer e artista della generazione di Sottsass, Mendini e Branzi, internazionalmente noto grazie alla presenza di suoi lavori in numerose collezioni private e nei pi ù prestigiosi musei europei e d’oltreoceano (Musèe des Art Decoratif s, Parigi; Denver Art Museum, Denver, Colorado; Museo d’Arte, Montreal, Canada; Museo della Triennale di Mi lano), e alla sua versione della caff ettiera napoletana, commissionatagli dall’azienda A lessi nel 1979, che lo portò a vincere il Premio Compasso d’Oro nel 1981. Ultimo riconoscimento, nel 2014, il Premio C ompasso d’Oro alla Carriera per la sua vita professionale dedicata alla cultura del progetto.
Riccardo Dalisi
Cavaliere, 2003
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Courtesy of Studio Dalisi foto di Fulvio Cutolo
riccardo DALISI 63
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Riccardo Dalisi, Cavaliere, 1994 —
Courtesy of Studio Dalisi foto di Fulvio Cutolo
Classe 1986,
Francesca Paola Comolli
risiede e lavora a Piacenza. Dopo essersi laureata al Dams di Bologna in Storia dell’Arte, si è diplomata in Comunicazione e Organizzazione per l’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Collabora attualmente con l’artista piacentina Claudia Losi, con la Galleria Placentia Arte di Piacenza e scrive per alcune riviste d’arte online.
NEWS
La mostra Idee in Volo di Riccardo Dalisi, allestita al Museo Storico di Lecce – MUST fino al 31 dicembre 2016 e curata da Cintya Concari e Roberto Marcatti – si snoda, scandita nelle cinque sale del museo, tra progetti, disegni e prototipi del lavoro di Dalisi, attraverso cui è possibile scorgere l’importanza rivestita da tematiche presenti nelle sue opere quali il riciclo, la decrescita e l’ecocompatibilità. Riccardo Dalisi è stato, infatti, uno dei primi architettiartisti italiani a riformulare il concetto di sostenibilità, applicandolo al design industriale, lavorando materiali poveri con manualità artigiana.
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Dall’arte antica a quella medioevale, da quella moderna a quella contemporanea, uno dei ruoli dell’artista è stato q u e l l o d i c a l a r s i n e l l e s u e r a d i c i e i n t e r p re t a re , a t t r a v e r s o i m m a g i n i e s c u l t u re p r i m a , i n s t a l l a z i o n i e f o t o g r a f i e o g g i , a v v e n i m e n t i , e m o z i o n i , i d e e – p a s s a t i o p re s e n t i c h e s i a n o – c h e i n q u a l c h e m o d o l ’ h a n n o i n f l u e n z a t o e d e t e r m i n a t o u m a n a m e n t e e a r t i s t i c a m e n t e , p ro p r i o c o m e i l s u o l o , i l c l i m a e l e p r a t i c h e a g r i c o l e d e t e r m i n a n o l e c a r a t t e r i s t i c h e d i u n v i n o o d i u n p ro d o t t o a l i m e n t a re .
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Il Terroir degli artisti
L’
altra sera, sotto il cielo stellato di Pianello, un piccolo Comune della Val Tidone in provincia di Piacenza, grazie ad una conversazione con la mia cara amica e artista piacentina Claudia Losi, ho incominciato a ragionare sul concetto di terroir declinato in riferimento al panorama artistico contemporaneo. Come ben sanno gli appassionati di vino, il termine terroir tradotto testualmente dal francese significa suolo e in ambito enologico viene utilizzato tradizionalmente per indicare l’influenza che il territorio – nella fattispecie la sua geologia e i suoi aspetti climatici, ma anche i fattori antropici e quelli storici di un luogo – esercitano sull’uva che vi cresce, determinandone le caratteristiche specifiche. Il concetto – usato ormai anche per i prodotti agroalimentari e artigianali – è storicamente applicabile anche all’arte, che si è dimostrata nei secoli il linguaggio universale per comunicare la tipicità del luogo in cui viene prodotta, la sua storia e la tradizione culturale che lo contraddistingue. Gli artisti e le espressioni artistiche, infatti, affondano le proprie radici nella tradizione e nella cultura del suolo a cui appartengono, traducendone di volta in volta gli umori anche biologici sotto una nuova chiave di lettura: celebrativa, ironica o critica. Dall’arte antica a quella medioevale, da quella moderna a quella contemporanea, uno dei ruoli dell’artista è stato quello di calarsi nelle sue radici e interpretare, attraverso immagini e sculture prima, installazioni e fotografie oggi, avvenimenti, emozioni, idee – passati o presenti che siano – che in qualche modo l’hanno influenzato e determinato umanamente e artisticamente, proprio come il suolo, il clima e le pratiche agricole determinano le caratteristiche di un vino o di un prodotto alimentare. Il fil rouge che collega l’intera storia dell’arte, infatti, è, come ha scritto Francesco Bonami, “l’urgenza di dire qualcosa con le cose del mondo”1.
Volutamente o no, nel suo testo, il critico italiano non fa una classificazione o distinzione in merito alle suddette “cose del mondo”, lasciando anzi il suo pensiero aperto a diverse interpretazioni. Possiamo quindi intenderle sia come “cose-materie”, fisicamente presenti o prodotte in un “mondo-territorio”, sia come “cose-patrimoni” storici o culturali, germogliati in un “mondo-contesto sociale”. Il terroir dei primordi dell’arte, si “limita”, se così si può dire, a coincidere con gli aspetti geologici e climatici del territorio di produzione: dalla terra rossa, il guano di pipistrello, il sangue e il grasso animale tipici della pittura rupestre, all’uso della pelle e delle ossa fino all’uso dei metalli. Ovviamente, più si va avanti nella storia, e più si nota il crescente sopravvento dei fattori culturali su quelli puramente fisici, come bacino al quale gli artisti hanno scelto di attingere negli anni. Con l’avvento del Medioevo la luce assume un ruolo centrale. Essa, infatti, acquista un significato totalmente simbolico, diventando espressione del divino, in opposizione alla materia buia, vista come simbolo del peccato. Questo passaggio storico-culturale fu decisivo per lo sviluppo delle tecniche costruttive e decorative delle vetrate, che man mano – raggiungendo l’apice nell’architettura gotica – diventarono la predominante espressione artistica presente nelle chiese e nelle cattedrali. Anche in questo caso, il terroir si dimostrò imprescindibile e determinante per il loro sviluppo. I migliori esemplari di vetrate, infatti, si trovano nell’Europa Settentrionale, dove la luce conferisce ai luoghi una valenza rarefatta e spirituale. Con il Rinascimento inizia l’inesorabile preponderanza dei fattori antropici nell’ambito dell’arte. I quadri di Raffaello, Michelangelo e Leonardo non sarebbero quello che sono se Filippo Brunelleschi non avesse inventato la prospettiva e Leon Battista Alberti non l’avesse teorizzata nel suo Trattato della pittura. Tutta la realtà visibile diventò progettabile e misurabile. Tralasciando, non di certo per disinteresse o dimenticanza, tutti gli altri innumerevoli esempi che potrei citare e analizzare all’interno dell’arte prenovecentesca, cercherò di tracciare una mappa dei “vitigni autoctoni”, passatemi il termine, coltivati dagli artisti nell’ultimo secolo, soffermandomi, infine, specialmente sul terroir di due artisti contemporanei. Le esperienze artistiche che si svilupparono nel primo e nel secondo decennio del Novecento, ad esempio, vennero, per la prima volta, universalmente riconosciute dagli storici e dai critici dell’arte come “espressione dello spirito del […] tempo”2. Il Secessionismo viennese – Gustav Klimt, Egon Schiele e Oskar Kokoschka in testa – probabilmente non si sarebbe mai sviluppato se Sigmund Freud non si fosse interessato allo studio delle pulsioni umane represse ed agli istinti sessuali in primis.
Riccardo Dalisi
Lampione Quartieri spagnoli, Napoli
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fonte Google
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Mimmo Paladino Montagna di sale fonte Google Mimmo Paladino Montagna di sale (dettaglio) fonte Google Mimmo Paladino Hortus Conclusus (dettaglio), 1992 fonte www.italianways.com
Lo stesso rapporto di causa-effetto esiste tra lo sviluppo della cultura di massa e le invenzioni tecnologiche, come ad esempio quella dell’automobile e quella della cronofotografia3, e il primo futurismo di Giacomo Balla e Umberto Boccioni, incentrato sulla rappresentazione del movimento e della città industriale in ascesa, della quale fu ottima testimone anche la scena artistica americana come dimostra l’opera New York reinterpretata: la voce della città realizzata da Joseph Stella nel 1920-1922. Ugualmente, senza l’avvento del fascismo in Italia, chi potrebbe affermare con certezza che la politicizzazione delle pratiche artistiche sarebbe comunque avvenuta e che Carlo Carrà avrebbe, in ogni caso, dipinto nel 1914 Manifestazione interventista? Potrei citare innumerevoli esempi nella storia dell’arte che scaturirono dallo stesso principio di causa-effetto. Ad esempio, Il dominio dei prodotti consumistici, la mercificazione della cultura e lo sviluppo del medium televisivo negli anni ’50-’60, sono stati l’imprescindibile seme dal quale è germogliata tutta la cultura Pop americana, e non solo. Senza l’evoluzione progressiva della stampa fotografica, i paesaggi silenziosi, ovattati e avvolti dalla nebbia della Pianura Padana fotografati da Luigi Ghirri non avrebbero avuto lo stesso sapore trascendentale, e il passaggio dall’era industriale a quella postindustriale che travolse Milano negli anni ’70 non avrebbe trovato in Gabriele Basilico il suo perfetto documentatore analitico4.
Gli effetti “impossibili” di Salita e discesa (1960)e La cascata (1961), due delle litografie più famose di M.C. Escher, sono la trasposizione artistica del triangolo di Penrose, inventato dal matematico omonimo Roger Penrose. Oggi, il terroir degli artisti contemporanei oscilla tra la terra e la storia di un territorio, rimaneggiati e interpretati di volta in volta attraverso stili differenti. I cavalieri e i cavalli di Mimmo Paladino, beneventano, e quelli di Riccardo Dalisi, nato a Potenza ma napoletano di adozione, pur scaturendo entrambi dallo studio della tradizione sannita, differiscono enormemente nella forma e nel significato. Attraverso continui riferimenti al mito, enfatizzati dall’uso di simboli greco-romani, etruschi e paleocristiani, – ma anche visionari – Paladino sviluppa immagini archetipiche, dal sapore arcaico, mediterraneo e onirico, riprendendo le tecniche antiche come l’encausto e il mosaico. Le sue statue – di legno, bronzo, rame e argilla in primis – sono icone, maschere antiche che, ritornando ciclicamente nelle sue opere, formano un alfabeto, enigmatico e misterioso, attraverso il quale l’artista riscrive la storia della sua città. È il tema della memoria e del frammento, infatti, il perno del lavoro di Paladino, che, per plasmare i cavalli dell’installazione permanente Hortus Conclusus nel complesso universitario di San Domenico a Benevento e quelli annegati nella Montagna di sale in Piazza del Plebiscito a Napoli, ha rivolto l’attenzione alla composizione geometrica delle figure tipiche di Arturo Martini e, guardando ancor più indietro, ai Kouroi della statuaria greca del VII secolo a.C.. “[…] diventa inevitabile il confronto con gli antecedenti storici, e con la cultura che ciascuno si porta addosso, ma proprio nel precedente sta il motivo stesso del lavoro”5 dice Paladino. Figurativamente molto distanti, i cavalieri a cavallo di Riccardo Dalisi rievocano i costumi dadaisti degli spettacoli teatrali messi in scena al Cabaret Voltaire di Zurigo nel primo e secondo decennio del Novecento, pur dimostrando anch’essi una ricerca espressiva che spazia nel mitico e nell’arcaico, tradotta attraverso un processo di analisi culturale e sociologica della città campana. Create con l’utilizzo di materiali poveri e di riciclo, spesso raccolti dall’artista stesso nei vicoli di Napoli, come latta, carta, rame e ferro, le sue sculture
contengono una “sfida”: il riciclo contro il consumo e lo spreco e come spinta verso una continua innovazione. Nel quotidiano rapporto con i lattonai e i ramaioli di Rua Catalana, famoso quartiere degli artigiani, nacquero anche i prototipi per la caffettiera commissionatagli da Alessi, che fu premiata nel 1981 con il Premio Compasso d’oro e che rese Dalisi internazionalmente celebre. Da sempre impegnato nel sociale – grazie alla sua ricerca espressiva si è potuto entrare nella storia di un popolo, nell’anima di una città –, già negli anni ’70 l’architetto, artista e designer aveva realizzato opere di riqualificazione del Rione Traiano avvalendosi in questo caso, oltre che della cooperazione degli artigiani locali, della partecipazione degli anziani della Casa del Popolo di Ponticelli e dei bambini e dei giovani di quartieri in difficoltà. In seguito, nel 1997, il suo progetto denominato Napolino – dal nome di uno dei lampioni che creò per adornare Rua Catalana –, fu selezionato dalla Comunità Europea per il suo particolare valore culturale e, nel 2007, Dalisi contribuì sostanzialmente alla realizzazione di un percorso didattico per sensibilizzare all’arte i bambini disagiati del quartiere, insegnando loro la lavorazione scultorea dei metalli poveri. Protagonisti assoluti nell’opera dell’artista diventano quindi gli altri, l’incontro umano e sociale, che egli arricchisce introducendo e valorizzando il folklore, la fantasia e l’ironia, ma anche la spiritualità, della quale i quartieri napoletani sono impregnati. “Avevo circa 11 anni quando disegnavo per terra, sulla carta dei maccheroni con la penna e poi con i pennelli. I miei soggetti erano crocifissi e cavalli. Non erano simboli, ma il segno di un sentimento”6. In entrambi gli artisti campani “le materie usate hanno un loro inconscio, una loro storia”7. La mostra personale di Riccardo Dalisi dal titolo Idee in volo (di Riccardo Dalisi) è allestista al Museo Storico di Lecce - MUST fino al 31 dicembre 2016, mentre a Milano si sono appena concluse tre mostre dedicate all’artista beneventano.
Francesca Paola Comolli
1 Dal partenone al panettone. Incontri inaspettati nella storia dell’arte, Francesco Bonami, Mondadori Electa, Milano 2010, p. 5. 2 Termine tedesco Zeitgeist noto per l’utilizzo che ne fece Hegel nell’ambito della filosofia della storia (Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte), Berlino 1837. 3 Per cronofotografia si intende la registrazione in un’unica lastra fotografica, e quindi in un’unica immagine, di varie posizioni di un soggetto in movimento. Il cronofotografo fu inventato dal medico fisiologo francese EtienneJules Marey nel 1881. 4 Uscendo dai confini italiani: gli edifici su Sunset Strip fotografati da Ed Ruscha negli anni ’60 (USA) e le torri di raffreddamento negli anni ’90 di Bern e Hilla Becher (Germania). 5 Cortocircuito_Paladino, intervista di Flavio Arensi, curatore della mostra Paladino a Palazzo Reale, 7 aprile – 10 luglio 2011, Milano, catalogo GAmm Giunti. 6 I volti di Napoli, Stella Cervasio, intervista a Mimmo Paladino, Repubblica.it, Napoli, 23 maggio 2016. 7 Paladino. Fare in grande, Marco Vallore, intervista a Mimmo Paladino, Rivista Arte, luglio 2016, pag. 70.
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FAC SIMILE
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MI LA NO
Quando penso a Milano mi ritrovo a fantasticare su una metropoli sempre pronta ad aprirsi al mondo, capace di misurarsi con lo scorrere del tempo, avendo l’occhio di chi vorrebbe proiettarsi verso un futuro diverso, migliore, magari provando a relazionarsi con la bellezza, le mode, le tendenze, la cultura e l’innovazione e gli elementi che scandiscono i processi evolutivi.
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Attraversando le sue strade percepisco l’energia che da impulso a quel sistema città che cerca sempre di rapportarsi a un mondo cosmopolita che sente ancora vago e indefinito. Mi piace viverla da turista Milano, viaggiando a testa alta, guardando i grattacieli, i palazzi antichi, le guglie delle chiese specchiandomi, ogni tanto, nel luccichio delle sue vetrine e percependo come non vi sia niente di scontato in questa città, come mi appaiano, invece, certi “contenitori” urbani. Mi bagno in questo ampio organismo vivente, all’interno del quale si articolano complessi fenomeni sociali e infinite contraddizioni culturali con le quali provo a confrontarmi, fallendo miseramente in questo mio intento. Così mi defilo e come un ombra mi muovo adagio lungo i cerchi e le direttrici di questa città che si mostra in continua evoluzione, sempre diverse, pur rimanendo fedele a se stessa. Cammino crogiolandomi l’animo in tutti gli elementi di cui si compone, ognuno dei quali è contraddistinto dalla stratificazione degli eventi e delle epoche che si sono susseguite per disegnarlo. Provo a compararmi con tutto ciò che vedo, scoprendo il fascino di certi edifici, di bellissime strade e degli angoli che ne esaltano i particolari avendo la sensazione di ritrovarmi a vivere immerso nel passato e nel futuro allo stesso tempo, vivendo così un’esperienza unica in una città altrettanto unica. Mi muovo cercando di vedere i suoi quartieri, accorgendomi che nessuno assomiglia all’altro trovandomi ad indagare e a frugare in quei luoghi che più di altri sono portavoce della identità collettiva milanese, quella che ho voluto conoscere anche attraverso i sapori che hanno saputo offrirmi i ristoranti di Milano che vi invito a scoprire.
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76 Sono luoghi che con ordine si sommano ad altri, costruendo quella “spazialità” che non solo dà la dimensione esatta di cosa sia oggi Milano, ma come sia possibile viverla essendo lo strumento più idoneo per godere del dinamismo reale che questa città sa offrire. Se volete visitarla armatevi di quel flâner con cui il poeta francese Charles Baudelaire identificava il modo migliore per saper guardare un tessuto urbano, avendo uno sguardo capace di ricercare emozioni. È questo ciò che vi suggerisco di fare a Milano poiché solo così scoprirete il suo valore e cosa sia quel good living che vi promette ad ogni ora. Se seguirete questo semplice consiglio vi sarà più facile osservare come un albero, una piazza, un monumento, un locale o un oggetto si manifestino nella loro pienezza di contenuti, riuscendo ad assumere più valore e bellezza.
Se volete visitarla armatevi di quel flâner con cui il poeta francese Charles Baudelaire identificava il modo migliore per saper guardare un tessuto urbano, avendo uno sguardo capace di ricercare emozioni. Scoprirete come l’architettura sa farsi narrazione e condizione temporale del suo tempo. Ecco che i luoghi, tutti, compresi quelli che vi suggerisco di assaporare, si faranno portatori del racconto dell’uomo e del concetto di tempo a cui appartengono. Vivrete “un’eternità” moderna che porta i segni del passato, andando in direzione di un futuro che anticipa i tempi mettendo in scena l’oggi, senza dimenticare nulla di ciò che è stato. Un good living in Milano con il quale ho voluto dare riconoscibilità ad una filosofia imprenditoriale, al senso di appartenenza che essa rappresenta e a quel valore aggiunto che sa nutrirsi di cultura identificandosi con il cibo. Good living in Milano è un’idea che diventa prima libro e poi vostra, è lo stile italiano che diventa messaggio, è una mostra fotografica a cielo aperto, è un sistema multimediale di comunicazione capace di stimolare un “made n Italy” conscio, diverso e interessante, da vivere con orgoglio stando in compagnia di quei protagonisti che ho scelto come vostri ospiti.
AZ Foto di Alessio
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Patrizia Novello, laureata in Lettere Moderne all’Università Cà Foscari di Venezia, si occupa da sempre di comunicazione in diversi settori. Nata e formata nell’area artistica, grazie alla collaborazione con fondazioni e musei veneziani, affascinata ed attratta da sempre dal mondo dell’enogastronomia, comincia diverse collaborazioni nel settore fino alla svolta, nel 2010, quando diventa direttore editoriale della testata “Cucina Gourmet. Incontri nel gusto”. Da questa esperienza nasce il volume Grandi Chef d’Italia edito nel 2013 da Wingsbert House.
L’incanto di Palazzo Camozzini tra sogno e
realtà
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Un luogo non è mai solo “quel” luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati. Antonio Tabucchi
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Da sempre il viaggio è simbolo di mutamento ed evoluzione. Fin dall’antichità l’uomo ha sentito forte il bisogno di viaggiare per appagare il proprio desiderio di verità e di conoscenza e per soddisfare la voglia di ricerca costante del benessere e della pace, pace dello spirito e rilassamento del corpo. A metà tra storia e mitologia, tra realtà e leggenda, i grandi eroi, protagonisti dell’immaginario di ciascuno di noi, sono fantastici viaggiatori, da Enea a Ulisse, da Gulliver a Marco Polo. Nonostante in passato viaggiare non fosse semplice, l’uomo ha sempre desiderato varcare i confini della propria terra, sfidando il pericolo e le insidie dell’“andare oltre”. Spesso questo allontanarsi dalla propria casa, oggi come allora, è un fuggire da se stessi, quasi la necessità di cambiare pelle per ritrovarsi diversi e riscoprirsi in un luogo prima sconosciuto, ma poi sentito amico nella coincidenza delle emozioni.
Nel Settecento una delle mete più ambite dai viaggiatori era l’Italia, culla di un patrimonio artistico capace di risvegliare la creatività di musicisti, pittori e poeti così come accadde per Goethe che, abbandonata Weimar, per ben due anni si lasciò affascinare dalle meravigliose albe e dai suggestivi tramonti italiani: “…son salito sull’orlo dell’anfiteatro, che ha l’aspetto di cratere, nell’ora del tramonto e ho goduto la vista più deliziosa sopra tutta la città e dintorni” ( Viaggio in Italia ). L’orlo dell’anfiteatro e la deliziosa vista sono quelle che il calar del sole regala a chi, nel mese di settembre, possa godere nell’essere a Verona. Meravigliosa piccola città che racchiude in sé la memoria di secoli di storia, millenni di splendore culturale d’eccellenza che si respira ad ogni passo e che abbaglia lo sguardo in ogni suo pittorico scorcio. Tra l’azzurro del cielo e lo specchio d’acqua del fiume Adige, che con le sue sinuose curve abbraccia come un tenero amante la sua città, antiche mura e palazzi raccontano il tempo. Dall’Arena al Teatro Romano, dalla Porta dei Borsari al Palazzo della Gran Guardia tutto narra di questa millenaria e stratificata storia dalla romana alla medioevale fino alla tarda età rinascimentale, storia che forte si respira e palpita tra le stanze ricche di fascino di Palazzo Camozzini. Nel cuore del centro storico di Verona, nascosto tra vicoli e viuzze, illuminato dalla luce naturale del sole nelle giornate più belle, il Palazzo, di epoca romana con stratificazioni medioevali, già di proprietà dei Conti Gherardini, divenne residenza e dimora, dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, di Giuseppe Camozzini del quale ancor oggi porta il nome, nonostante appartenga da anni a Giovanna Benati Aletti Alemagna che, ereditato dalla nonna Giovanna Bajetta, vi ha sempre vissuto.
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Non il turista frettoloso, ma il viaggiatore che cerca nel suo andare il piacere del bello e che coglie il momento del viaggio come l’opportunità per crearsi e ritrovare uno spazio in cui rigenerare l’animo, saprà apprezzare l’intimità delle due stanze e dei tre appartamenti di Palazzo
Camozzini
La giovane Giovanna, donna eclettica per quanto dolce e sensibile, innamorata dell’arte in tutte le sue manifestazioni, dall’architettura alla pittura, dalla scrittura alla musica, capace di emozionarsi ed emozionare nel raccontare la storia della sua famiglia e il grande amore per ogni angolo della sua città, ha saputo dare nuova vita al palazzo scegliendo di condividere questa ricchezza con chi se ne senta affascinato e aprendo così le porte della sua casa all’ospite ed al viaggiatore che cerchi ristoro. Ogni viaggio ha un orizzonte che, prima di diventare meta e destinazione, è sogno. Edgar Allan Poe scrive: “Viaggiare è come sognare: la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato”. Non il turista frettoloso, ma il viaggiatore che cerca nel suo andare il piacere del bello e che coglie il momento del viaggio come l’opportunità per crearsi e ritrovare uno spazio in cui rigenerare l’animo, saprà apprezzare l’intimità delle due stanze e dei tre appartamenti di Palazzo Camozzini. Stupenda struttura che non si scorda, destinata a restare nei pensieri come meta che si affianca ad altre e diventa il patrimonio dei ricordi del viaggio, diventa parte dell’essere , si stempera in emozione da portare chiusa nell’animo come tappa del percorso di vita. Non luogo anonimo, di passaggio, dove ci si ferma una notte e tutto è impersonale e scolorito, ma culla impressa nella memoria. Nell’epoca di internet e della globalizzazione, Palazzo Camozzini rappresenta per l’ospite il luogo della sosta e del riposo, l’oasi dove ritrovare l’energia positiva e riconciliarsi con il vissuto e con i sogni. Entrare nel Palazzo è, dal primo istante, una grande emozione, ci si sente avvolti da un’atmosfera magica che placa ogni ansia e dona immediata pace e serenità. È come vivere da subito un piccolo pezzo di storia, con il privilegio di cogliere ad ogni sguardo parte di un vissuto intenso. La romanità della struttura ben si armonizza con gli elementi classici, tipici del tardo Cinquecento, che caratterizzano l’attuale facciata, mentre gli affreschi che animano e popolano le pareti risalgono al 1824, epoca in cui il Camozzini ne predispose la creazione insieme a una ristrutturazione interna tutta in linea con lo stile Impero. La maestosità del Palazzo nulla toglie all’intimità e al calore che si respirano in ogni angolo della casa, tutta arredata con i mobili che erano della nonna di Giovanna Benati. I quadri alle pareti, gli antichi comò, le scrivanie che sono nelle stanze da letto, sono tutti appartenuti alla famiglia e rivivono in una nuova dimensione nel rapporto vicendevole che creano con l’ospite . Non ci sono front office, non ci sono reception all’ingresso, solo il sorriso cordiale e aperto della padrona di casa che, con grande affabilità e dolcezza, accoglie il viaggiatore e lo porta a iniziare quello che per lui sarà il viaggio nel viaggio. Brillat Savarin (1755-1826 ), che dopo la morte fu ricordato più che per l’attività forense per la grande passione nei confronti dell’arte del ricevere, sosteneva in uno dei suoi aforismi che : “…invitare una persona è occuparsi della sua felicità durante tutto il tempo che essa passa sotto il vostro tetto…”. Ed è proprio ciò che mirabilmente riesce a fare Giovanna, l’ospite a Palazzo si abbandona all’intimità degli affetti e ritrova la calma e la serenità. È strano come nell’immensità del salone centrale, sottolineata da un grande lampadario che scende a interrompere la linearità delle forme, si possa trovare una dimensione profondamente umana: nel salottino creato per la conversazione o per le chiacchere fatte dopo cena prima di andare a letto, le confidenze della sera, quelle favorite dal buio, rotto dalla luce tenue delle candele, quelle che ci fanno sentire più vicini l’uno all’altro e ci scaldano il cuore; qui, in questo salottino, ci si dimentica di essere ospiti e ci si sente a casa propria, in un’oasi temporale di profonda calma. Nella grandezza del salone, costruito e pensato quasi come un teatro semicircolare, contornato dalle rappresentazioni della mitologia romana e chiuso con un trompe-l’oeil sulla parete centrale, che regala un’apertura virtuale verso un orizzonte infinito, silente troneggia la sagoma di un bellissimo pianoforte a coda a significare una delle passioni che la padrona di casa ama condividere con i suoi ospiti: la musica ed il canto. Residenza esclusiva di lusso e charme, accogliente e quasi irreale nella sua particolarità, nel suo saper coniugare i segni di un passato glorioso con tutti i confort che il tempo moderno ci ha regalato, grazie alla passione di Giovanna, ben sposandosi con il patrimonio artistico della città, spesso il Palazzo si trasforma in tempio della musica e del bel canto e conduce il
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viaggiatore, che si trovi a dimorarvi in quelle magiche serate, così come l’ospite occasionale che per qualche ora voglia godere di uno spettacolo da sogno, nei percorsi emozionali che solo le vibrazioni della lirica sanno suscitare. …ed il grande salone diventa teatro e palcoscenico delle arie più belle della Tosca, de L’elisir d’amore, di Cavalleria Rusticana, le voci armoniche dei cantanti lirici riempiono lo spazio fondendosi con le note calde del pianoforte che riecheggiano e animano le stanze. Nella città della musica, a pochi passi dal tempio della musica, l’Arena, lontani dalla folla gremita che distoglie e distrae, a Palazzo Camozzini si vive l’emozione del canto. In una nuova dimensione l’ospite entra nell’opera e diventa, con un’esperienza unica ed irripetibile, attore e protagonista di una favola. Sospeso nel tempo e trasportato nel sogno, avvolto e circondato dalle suggestioni della melodia, interagisce con gli attori… indossa un cappello, impugna una spada, alza un bicchiere, dimentica e allontana la realtà godendo di un momento senza tempo. E alla fine della rappresentazione, nel foyer allestito dove normalmente gli ospiti vengono accolti per la prima colazione, il novello spettatore, ancora gioiosamente
incredulo per l’esperienza vissuta, viene coccolato con un buffet allestito dalla padrona di casa per ringraziare non solo i protagonisti dell’opera, ma anche lo spettatore, attore improvvisato ed inaspettato. Così in un’atmosfera in cui si percepisce il palpitare delle diverse emozioni, Giovanna compie un’altra piccola magia e, come per incanto, il viaggiatore che abbia trovato riposo a Palazzo e l’ospite che per una sera si sia regalato una fuga dalla realtà, insieme godono di un attimo prezioso in cui si fondono un pezzo di storia, raccontata dalle mura antiche della residenza, una parte del patrimonio artistico di Verona, la musica, il bel canto e tutta l’italianità e la regionalità che si ritrovano nei vini e nel cibo del buffet. In sintonia con l’emotività che il momento regala, anche il cibo, prima espressione della cultura di un popolo, conduce il viaggiatore attraverso un percorso sensoriale per avvicinarlo al sentimento e alla conoscenza della terra veronese. In un felice connubio, arte e creatività sposano la riscoperta delle tradizioni enogastronomiche. L’ospite può abbandonarsi alle sensazioni piacevoli lasciandosi guidare e condurre in un viaggio conoscitivo del gusto, suggerito con sapiente delicatezza da chi si prende cura di lui.
Giovanna Benati ha costituito l’associazione culturale “Amici di Palazzo Camozzini” che ha come obiettivo di contribuire alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali, del patrimonio artistico, architettonico ed archeologico e di promuovere la valorizzazione di giovani talenti in ambito musicale (musica lirica, classica e leggera) , teatrale e cinematografico. Contestualmente ha dato vita alla compagnia teatrale/ musicale “Bel canto italiano”. Numerose poi le collaborazioni anche con artisti dell’Arena di Verona.
Sia la musica che il cibo sono capaci di influire sullo spirito umano. Proprio come “la musica può calmare la belva feroce” entrambi soddisfano sia le emozioni che i fabbisogni primitivi. Il cibo ci permette di sopravvivere ma il cibo di alto livello ci collega alle nostre emozioni, portando l’esperienza del mangiare oltre l’ambiente fisico. Brook Nestor
E così in questa giostra di emozioni, in questa nuova sinergia delle sfere sensoriali si concludono le serate musicali che il Palazzo regala all’ospite e, mentre la luce della luna avvolge le mura e filtra dalle vetrate, come in ogni spettacolo teatrale il sipario si chiude e cala il silenzio. Chi partirà nel portare con sé le immagini e i ricordi indelebili del soggiorno lascerà qualcosa del suo essere che arricchirà e sarà nuovo patrimonio del Palazzo. Altri viaggiatori arriveranno domani, diverse storie di vita animeranno le sale della residenza. Giorno dopo giorno il fluire del tempo, l’avvicendarsi degli uomini, le voci ed i cuori di chi godrà dell’ospitalità di Giovanna Benati lasceranno traccia del loro passaggio e scriveranno, con l’inchiostro della memoria, meravigliose avventure di viaggio.
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Premio Borsa di Laurea Giuseppe Comolli – Aperto il bando di presentazione delle tesi di laurea elaborate e discusse nel biennio solare 2016-2017. Scadenza 31 dicembre 2017 Il Premio di 3.000 euro è intitolato alla memoria di Giuseppe Comolli, tecnico agrario e docente. Dal 1991 sono state premiate 13 tesi, di cui 4 discusse con ottimi voti da laureati esteri e 9 da laureati nazionali. Tutti i vincitori sono brillanti professionisti e tecnici nel mondo del vino. Il premio è conferito solo a lavori di ricerca, di sperimentazione e di pregio sui vini spumanti ed effervescenti. Fattori determinanti nella valutazione di merito sono la scelta di temi legati ai distretti territoriali, ai vini Dop, ai voti ottenuti negli esami della laurea breve e specialistica, il voto e giudizio di laurea. Il premio è unico, non divisibile; la Commissione ha piena facoltà a non assegnare il premio. Dopo le prime edizioni, consegnate all’Università Cattolica di Piacenza, le altre assegnazioni sono avvenute presso la sede del Consorzio Franciacorta, Università di Brescia, a Trento, all’Università di Conegliano, al Parlamento di Strasburgo. Bando scaricabile da www.ovse.org.
2015, prime le bollicine italiane all’estero – Gli spumanti italiani sono sempre più apprezzati nel mondo Sono determinanti per la bilancia import-export rappresentando gli unici vini con il segno positivo all’export. Nel 2015 l’Italia è il primo produttore ed esportatore al mondo. La produzione è di 520 milioni di bottiglie per un valoreorigine di 1,352 mld/euro (euro 2,60 a bottiglia in cantina). Sul totale spedito-consumato, 373 mio/bott. (pari al 72%) sono state spedite in 90 paesi per un valore pari a 1,327 mld/euro (euro 3,56 in dogana/bott.). Il giro d’affari nel mondo è stato di 2,573 mld/euro (per euro 6,9 a consumo/bott./media). Gran Bretagna e Stati Uniti sono i primi due Paesi consumatori, seguiti da Germania e Russia.
Premio Gerolamo Conforto 1577 – Il premio sarà assegnato nel 2017 al miglior vino spumeggiante italiano È intitolato al medico bresciano che per primo scrisse un testo completo, dalla produzione al consumo, dalla presa di spuma agli effetti sulla salute umana. A significare l’interesse già nel Rinascimento italiano della zona brescianapadovana per questa affascinante tipologia di vino, ben 100 anni prima di altre legende, miti e scoperte più o meno vere, la datazione del 1577 del libro è prova inconfutabile.
Premio Francesco Scacchi 1622 – Il premio sarà assegnato nel 2017 al produttore di vini spumeggianti che ha saputo essere pioniere, creare un marchio, essere innovatore e lungimirante È intitolato all’abate-medico fabrianense che scrisse un interessante volume, corposo e dotto, sull’elaborazione e consumo dei vini spumeggianti dell’epoca nella zona marchigiana, a testimoniare che l’area tosco-adriatica già produceva bollicine.
La datazione di stampa del libro nel 1622 è prova dell’anticipazione dei tempi che verranno, dell’assaggio di una epoca fulgida per i vini effervescenti in tutta Europa. Libro presente in tutte le biblioteche e archivi ecclesiali alla metà del XVII secolo.
Asta di bottiglie Spumeggianti e C – Grande ripresa delle aste dei vini dopo una pausa di riflessione Nel 2016 sono riprese le battute italiane, londinesi e giapponesi, di grandi bottiglie anche di vini spumanti, non solo grandi riserve di vini rossi e bianchi già noti nel mondo. Dopo Barolo, Brunello, Barbaresco, Bolgheri ecco che le prime bottiglie di Franciacorta e Trento Doc acquisiscono spazi e valori. Poche a dir il vero, ma un magnum Franciacorta Saten della vendemmia 1993 ha raggiunto la valutazione di 360 euro alla contrattazione di Firenze, e una bottiglia Trento Doc Brut del Fondatore vendemmia 1999 è stata acquistata dall’amico ambasciatore a Tokio per 300 euro.
Packaging Bottiglia Spumeggiante – Moda e glamour, creatività e moode Gli architetti di grandi maison e palazzi, di marchi automobilistici noti e di ponti si stanno cimentando sempre più nella creazione di formati e sagome del vetro per contenere le migliori bollicine italiane. Allo stesso modo le etichette e le capsule, il vestito della bottiglia, diventano sempre più colorate, evidenti, fosforescenti e visibili... spesso mantenendo un binomio difficile da realizzare come tradizione-storia e innovazionecontemporaneità. Il Prosecco Doc è sicuramente la denominazione più lanciata in questa gara, ma anche la Franciacorta ha puntato prima su grafie di bottiglie personalizzate e poi sulle capsule e le etichette colorate. I produttori di Trento Doc sembrano più inclini a mantenere salda una tradizione legata a marchio, disegno e vigneto anche in etichetta. Da segnalare le pregiate ma forti bottiglie dorate, bronzee, argentate di alcuni notissimi marchi del Prosecco Doc Treviso. Spumeggiante Via della seta Venezia Pechino Una carovana di camper dall’Italia alla Cina, una mostra itinerante e un hub di cultura, di sana e corretta alimentazione, di rispetto della sostenibilità creato da Aikal (Associazione internazionale solidale), con partner Overland, Blucamp, NewtonLab, come continuità tematica di ExpoMilano2015 e anticipazione di Expo Dubai 2020 “Connecting Minds, Creating the Future”.
La Venezia-Pechino lancia la mostra della Civiltà della Tavola dei 5 continenti e intende creare una rete di dialogo e di commercio, favorendo anche le vie ferroviarie e marittime fra Lione e Pechino Partenza a primavera 2017 con un road show, tappa a Firenze, e da Venezia (novembre) percorre l’antico “sentiero” della Via della Seta fino a Pechino. 9 paesi attraversati, in ognuno contatti commerciali e con imprenditori seguiti da media tv e radio. Sui camper imprenditori e turisti. Gli spumanti italiani ci saranno e lasceranno il segno del gusto, della cultura, della solidarietà in ogni sosta.
Stessa strada per il ritorno, ma con imprenditori cinesi. Patrocinio di regione Veneto, Accademia italiana della cucina, Unioncamere Veneto.
VINI SPUMANTI: SALVANO L’EXPORT DEI VINI ITALIANI. URGE UNA NUOVA STRATEGIA POLITICA PER IL MERCATO INTERNO Sorge qualche dubbio sulla conferma dei 50 mld/euro di fatturato export dell’agroalimentare italiano previsto per il 2020. Dal mondo del vino, prima voce attiva, segnali ancora ottimi nel 2016 per i vini spumeggianti (e frizzanti), ma blocco per vini fermi e sfuso. A fronte di una previsione a 5,5 mld/euro il valore export vino a fine anno 2016 con una quota sempre maggiore dei vini spumanti oramai vicinissimi a 400 mio/bottiglie esportate in un anno, il consumo interno retrocede oramai da 6 anni a questa parte. Uno stop che merita una maggiore attenzione da parte degli organi di governo e ministero. L’export del vino italiano perde terreno in termini di numero di bottiglie, ma non si registra un andamento omogeneo. Il perseverare della crisi dei consumi, cambi delle monete, bassa diversificazione dei mercati e dei canali, mancanza di investimenti stabili e strumentali alla vendita e... obbligano a riposizionare prodotti e mercati. Ogni paese è un mercato a se stante di cui occorre conoscere le dinamiche complesse Il solo commerciale non risolve la situazione. Comolli: “L’export è fondamentale, ma è più grave la situazione sul mercato interno. Vicina la soglia dei 30 litri di consumo annuo procapite. Ottimo il successo del consumo consapevole, ma per questo urge ancor più una politica di conoscenza e di cultura su come-dove-quando-perchè consumare il vino concordata e integrata al modo di vivere, al benessere e buon gusto senza puntare solo sul prezzo e promozioni”.
COLLEZIONISTI DI SCUDI Nasce nel 1844, in un caratteristico cafè di Parigi in zona Montparnasse, a un tavolo di produttori di bollicine e di artisti, l’idea di realizzare una specie di “coperchietto” del tappo di spumante che non rompesse il sughero e che tenesse unito tappo-gabbietta alla bottiglia di vetro. Una idea che ben presto Adolphe Jacquesson, un produttore piccolo a Chalon sur Marne, mise in pratica depositando il brevetto della prima “muselet”, ovvero di una medaglia o moneta metallica ricurva preformata e fissata a 5 punti della corona del filo attorcigliato della gabbietta. In pochi anni questa soluzione sostituì tutte le precedenti, molte ancora fatte con il filo o cordicella di iuta-cotone oppure con un semplice filo di ferro incrociato a mano. Si parla di uno di quegli oggetti collegati alle bollicine che accentuano il mito del vino, le legende, la precisione, la ricerca del meglio in ogni caso. Si parla di capsule... cappellotti... scudi... muselet... (i termini si sprecano) per indicare i “lamierini” sagomati circolari che coprono la testa del tappo a fungo. In poco tempo diventate, per la loro rarità, ma soprattutto per la loro ricchezza di immagini anche di artisti noti, un cult da collezione. In Italia è recente la mania di collezionarle, ma già molto forte, ci sono collezionisti anche di 2000 “scudetti” uno diverso dall’altro. C’è un Club, il CCC, presieduto da Elia Rustignoli che dal 1997 cura anche il valore, le regole, i rapporti, gli scambi. Recentemente un “scudo” molto raro di una prova di stampa con errore di una nota cantina
piemontese di bollicine del 1990 è stato valutato poco meno di 160 euro. Una rarità, un bel guiness per un lamierino colorato. Il culto delle bollicine passa anche dal collezionismo degli “scudi”.
MILANO: CAPITALE VENDEMMIA EFFERVESCENTE Fashion, moda, design sono di casa in via Montenapoleone. Ora anche il vino, grazie a La Vendemmia. Si vendemmia in pieno centro a Milano, l’ultima edizione è stato un successo grazie anche all’apertura dell’evento e di ogni grande momento con le migliori bollicine Franciacorta e Trentodoc italiane. Nel quadrilatero della moda vincono le effervescenze enoiche tricolori. Personaggi e personalità da tutto il mondo per un evento diverso, in una strada che fa storia metropolitana del gusto e della eleganza. 140 luxury brand con in vetrina le più celebri etichette del vino italiano. Una boutique nella boutique, un gusto legato al piacere di un calice di vino. Grandi i binomi marchi-simbolo della cultura enoica con quella della moda e dell’abbigliamento di stile, ma non solo (http://bit.ly/2cNBwEz). Anche incontri esclusivi di wine experience in hotel, bar, ristoranti del centro metropolitano. Infine l’asta di Christie’s per vini e bollicine da collezione. Quotazioni ottime anche per le etichette made in Italy, targate vendemmia 2000 o 2002 o 2005. Quotazioni in crescita per il meglio delle bollicine. Un magnum griffato assegnato a 440 euro, per chi ama i record e le statistiche.
BOLLICINE E-COMMERCE L’e-commerce del vino nel mondo cresce per tutte le tipologie, paesi, marchi, denominazioni. Francia e Spagna sono ai primi posti dell’offerta e-commerce. Regno Unito, Usa e Paesi Scandinavi sono i paesi con il maggior volume d’affari per il vino via 2.0 o 4.0. Ecco i nuovi obiettivi: portare il vino direttamente in ogni casa massimo entro 40 ore dal pagamento avvenuto. In Italia l’e-commerce vale pochi milioni di euro. diversi Venture Capital esteri sono interessati al commercio del vino italiano nel mondo, poco nel nostro paese. C’è chi ci scommette come www.vinoaporter.com . Anche le bollicine possono avere un canale esclusivo e privilegiato per entrare nelle case degli italiani. Esclusività e unicità possono garantire il meglio rispetto che i canali generalisti. Specialisti delle bollicine pronti a un servizio 4.0 chiavi in mano da Milano a Palermo via corriere espresso, via aereo, via Italo veloce. Novità certa entro il 2017: basterà un programma dedicato per consigliare e portare la Bolla giusta al momento giusto nel luogo giusto. In Francia già c’è, a prezzi decisamente competitivi: circa 9 milioni di bottiglie di bollicine super vendute nel 2015.
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GONI focus STI Giulio Biasion, giornalista-editore.
Le sue passioni sono state la vela, il giornalismo (specializzato), l’editoria e la buona tavola, legata alle tradizioni ma dove non manchi anche la creativitá. Dopo un inizio nel marketing alla A. Mondadori Editore, Biasion viene chiamato a collaborare nella redazione della Mursia per le testate di nautica e di windsurf, in seguito è chiamato a dirigere la testata Windsurf Italia, sport che in quegli anni aveva ottenuto un vero boom e collabora con la testata Mare 2000 quale inviato per la vela d’altura, seguendo le grandi regate: Admiral Cup, Olimpiadi di Los Angeles 1984 per la vela e Witbreath, il giro del mondo a vela per barche con equipaggio. La conoscenza di vini e cucine di molti paesi esteri lo spinge a entrare nel mondo del turismo e della enogastronomia, senza tralasciare la nautica, dove seguirá le P. R. di vari cantieri, di aziende motoristiche e di eventi. Nasce il periodico Voyager mirato agli agenti di viaggi (ora online, per il pubblico), viene da lui ideata la rassegna BITEG (Borsa Internazionale del Turismo Enogastronomico) che si terrá a Ferrara nelle 2 prime edizioni, antesignana di quel “turismo enogastronomico” in fase di sviluppo. In seguito acquisisce la testata L’Albergo che si occupa, per i professionisti del settore, di tutte le problematiche legate al mondo dell’ospitalità, della formazione e della ristorazione, convegni, e che dirige tutt’ora. In questo campo partecipa a numerose iniziative, concorsi e Festival, fonda l’Associazione Club dei Sapori della quale è tutt’ora Presidente. Essa di occupa di eventi legati alle tipicitá regionali quali, ad esempio, il Festival delle cucine di montagna (in Friuli), Verde oro sull’Olio del Garda, Il Festival del pesce d’acqua dolce, Arte&Cibo, ecc. Attualmente sta organizzando ‘Master Maitre’ che si terrà alla Fiera di Padova nel prossimo novembre. Obiettivo? Rilanciare ed innovare le figure di Maitre e Cameriere, ruoli importanti e assai decaduti, ma che tutti riconoscono fondamentali, coinvolgendo i maggiori istituti alberghieri italiani, col patrocinio della Presidenza della Regione Veneto. È infatti dalla Sala che inizia il successo di un ristorante, più ancora che dalla cucina.
L'ospitalità e le proprie radici viste dal regista Francis Ford Coppola
In questa nostra intervista esclusiva, il grande regista, sceneggiatore e produttore di Hollywood Francis Ford Coppola ci racconta perché ha creato un gruppo alberghiero che punta sulle eccellenze. Tra i capolavori che lo hanno reso celebre – oltre a fargli vincere sei Oscar, due Palme d'Oro a Cannes, un Leone d'Oro a Venezia – citiamo soltanto la trilogia de Il Padrino, Apocalypse now e La conversazione, film che fanno parte dell’immaginario di intere generazioni. Oltre a dirigere film grandiosi, Coppola ha lanciato la carriera di numerosi attori tra cui Al Pacino, Robert De Niro, Harrison Ford, Diane Keaton, Robert Duvall, ecc. Uomo di cultura, Coppola ama produrre vini in California e non ha mai dimenticato il legame con l’origine della sua famiglia. Proprio per questo, ha aperto vicino a Matera, il sorprendente ed esclusivo Palazzo Margherita.
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È un famoso cineasta, noto in tutto il mondo per il suo ruolo di importante regista, sceneggiatore e produttore di Hollywood.
Parliamo di
francis ford coppola
e citiamo soltanto alcuni tra i capolavori che lo hanno reso celebre, oltre a fargli vincere sei Oscar, due Palme d'Oro a Cannes, un Leone d'Oro a Venezia: la trilogia de Il Padrino, Apocalypse now e La conversazione, film che fanno parte dell’immaginario di intere generazioni. Oltre a dirigere film grandiosi e divenuti cult, Coppola ha lanciato la carriera di numerosi attori tra cui Al Pacino, Robert De Niro, Harrison Ford, Diane Keaton, Robert Duvall, Matt Dillon, Diane Lane. Egli inoltre ha anche fondato la casa di produzione America Zoetrope con la quale ha ricevuto settanta nomination per gli Oscar e sedici Premi Oscar. Personaggio poliedrico, egli ha affiancato alla sua attività nel cinema l’abilità di un imprenditore mosso dalla passione per i luoghi in cui ha vissuto i suoi progetti: da oltre trent’anni produce vino nelle sue tre tenute nella Napa Valley in California. Infine ha anche aperto 4 resorts di lusso: due nel Belize, nella foresta pluviale e sulla spiaggia Turtle Inn, un terzo di fianco al lago Petèn Itzà in Guatemala, ed un quarto a Buenos Aires nel cuore del quartiere di Palermo. Uomo di grande cultura e sensibilità, Coppola non ha mai dimenticato il suo legame con l’origine della sua famiglia, ha compreso tutta l’autenticità e la bellezza di quella terra e, proprio per queste motivazioni, nel 2012 ha aperto a Bernalda, in provincia di Matera, il sorprendente Palazzo Margherita. Una terra che – come dimostra anche la recente designazione di Matera a Capitale della Cultura 2019 – si sta aprendo con grande slancio alla migliore valorizzazione del proprio patrimonio culturale, artistico, naturale ed enogastronomico.
Maestro Coppola, a lei che è imprenditore e conoscitore del mondo vinicolo offriamo una calice di bollicine italiane, un vino che ancora non produce, accompagnato dal nostro brindisi e da quello del Direttore di questa nuova testata! Com’è nata l’idea di entrare nel mondo del turismo e creare un piccolo ma qualificato Gruppo alberghiero a suo nome?
Direi per caso. Dopo l’esperienza vissuta nelle Filippine (ho vissuto lì per circa 2 anni con mia moglie ed i miei 3 figli), durante le riprese di Apocalyps Now, cercavo un luogo simile per una casa di vacanze. Durante un viag gio in Belize, ho scoperto un posto nel parco nazionale del distretto di Cayo incontaminato e selvag gio. Dopo averle ristrutturate per alcuni anni, le cabanas sono servite ad ospitare familiari ed amici, poi sono state aperte come Blancaneaux Lodge nel 1993.
Se non sbaglio la perfetta ristrutturazione di Palazzo Margherita, in Basilicata, non è stata la sua prima acquisizione?
Palazzo Margherita è il primo e solo “Family Coppola Resort” aperto in Italia e in Europa.
A un primo esame le vostre 5 strutture hanno una connotazione ben precisa: il forte legame con il territorio e con l’ambiente nelle quali si trovano, è così?
I “Family Coppola Resorts” sono integrati e contestualizzati nel luogo e nella cultura dove si trovano.
E perché ha scelto luoghi quali il Belize e il Guatemala: per l’ambiente ancora preservato, il paesaggio, o per altre motivazioni?
Perché amo quei luoghi e avrei voluto una casa lì. Ne ho fatto dei piccoli resorts che mi ricordano i bei momenti nei quali ho girato lag giù dei film.
Veniamo all’Italia e ai suoi ricordi, quando la sua famiglia le raccontava di Bernalda. Qui la sua scelta immagino sia stata legata alle forti radici paterne, alle sue origini. Ha acquisito una lussuosa villa del XIX secolo con parco e ne ha fatto un boutique hotel unico, speciale!
La scelta è sicuramente una scelta d’amore per la terra d’origine della famiglia Coppola, Bernalda Bella… qui in questa regione bellissima che all’estero conoscono in pochi, la Basilicata.
Ci racconti come ha affrontato questa ristrutturazione di Palazzo Margherita, a chi si è affidato per farla?
È stato un lungo lavoro di circa sei anni. Grazie alla collaborazione dell’Interior Designer francese Jacques Grange, ma anche ai tanti sug gerimenti dei miei figli Sofia e Roman e mia moglie Eleanor, Palazzo Margherita è og gi una piccola gemma di eleganza.
Qual è stata l'idea di design per questo hotel lontano dai grandi centri? A cosa si è ispirato l’architetto per le camere e gli altri spazi comuni?
Il rispetto dell’architettura originaria e il recupero di molti mobili del Palazzo. Ogni camera è diversa nella decorazione e nelle dimensioni, ma tutte ricordano una raffinata eleganza di altri tempi. La scelta dei materiali, degli accessori dai mobili ai bagni, immagino sia stata del vostro architetto. Ha utilizzato maestranze italiane per legarsi meglio al territorio o no?
Tutti gli artigiani che hanno lavorato erano locali.
Che tipo di ospitalità proponete a un pubblico internazionale, soprattutto americano: avete ricreato un set? Il cinema è comunque protagonista qui?
L’ospitalità è quella tipica del Sud. L’omag gio è al Cinema Italiano. Ho creato una collezione di alcuni tra i grandi film dai Maestri dal Neorealismo ad og gi ( più di 200 titoli) tutti in versione originale con i sottotitoli in inglese che è possibile visionare in ogni camera, oltre che nel bellissimo salone del Palazzo che si trasforma all’occorrenza in una sofisticata sala cinema (uno schermo nascosto scende da sotto gli stucchi neoclassici). E poi c’è il nostro Cinecittà Bar Bistrot, che è ornato da decine di foto dei grandi artisti che hanno lavorato a Cinecittà. Il Bar è un bellissimo luogo dove gli ospiti provenienti da tutto il mondo si mescolano alla gente locale. La considera un po’ la casa di famiglia visto che viene spesso con i suoi familiari, gli amici?
Assolutamente sì. Ed è lo stesso anche per i miei figli Roman e Sofia.
Quindi una villa aperta a chi cerca un’ospitalità esclusiva, lontana da quanto offrono gli hotels delle grandi catene internazionali.. curata in ogni dettaglio?
Palazzo Margherita è un’elegante e raffinata casa con accoglienza informale e spontanea tipica del Sud, i lucani sono gente semplice ma ospitale ed è questa la caratteristica dell’accoglienza che questa proprietà offre.
È questa quindi la scelta fatta dal Gruppo Coppola nei suoi resorts?
Ogni “Family Coppola Resorts” è fortemente caratterizzato dall’autentica ospitalità dei luoghi in cui si trova. E per accogliere una grande famiglia. Riesce a passare anche lei un po’ di tempo a Palazzo Margherita, a rilassarsi sul mare di Metaponto e ad apprezzare i prodotti di questo territorio unico e ancora da scoprire, lei che possiede un’azienda vinicola nella Napa Valley?
Quando i miei impegni me lo permettono, sono felice di trascorrere un po’ di tempo a Bernalda, rilassarmi nel giardino o bere qualcosa al Cinecittà Bar, mi piace stare tra la gente del posto come un vero bernaldese!
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Il gruppo non è grandissimo e, per filosofia aziendale, ci si sente e si confronta spesso. Succede spesso che clienti che hanno soggiornato da noi siano interessati a una esperienza in uno dei nostri Resorts in Centro America. Abbiamo una direzione Marketing internazionale e poi una gestione più differenziata per la promozione delle diverse destinazioni.
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Veniamo al Palazzo Margherita che lei dirige: da alcuni elementi si capisce che porta il segno della famiglia Coppola, non dimeno il cinema… ce li può descrivere? Chi conosce il Maestro, riconosce nel Palazzo tutti i segni che lo caratterizzano: la famiglia, le tre Suite principali hanno i nomi dei membri della sua famiglia Francis, Roman, Sofia, Gia e Agostino, e alcune di queste sono collegate da splendidi terrazzi privati; l’antico Salone si trasforma in una fantastica Sala Cinema; la family Kitchen dove gli ospiti possono rivivere il senso della famiglia assistendo anche alla preparazione dei nostri piatti tradizionali. Per il signor Coppola non c’è niente di meglio del cibo italiano e soprattutto delle nostre ricette tradizionali lucane, che la sua famiglia gli ha tramandato! Il vostro cliente da dove proviene per la maggior parte e cosa cerca? Più del 60% dei nostri ospiti sono nord americani. Sono clienti che conoscono già l’Italia, ma cercano una nota di autenticità che diventa ormai spesso difficile trovare nelle nostre belle e famose città d’arte, con un accoglienza professionale ma non formale. La stragrande maggioranza è leisure e a volte amante del cinema.
sul boutique hotel Palazzo Margherita jewellery
è
una General Manager che dirige un palazzo di metà Ottocento trasformato in hotel di lusso, l’unica struttura del Gruppo in Italia Rossella De Filippo è la General Manager di questo hotel, un buen retiro per tutta la famiglia Coppola. Ne abbiamo approfittato per farle alcune domande in merito al suo ruolo in un “boutique hotel” di 9 camere che è anche un gioiello di accoglienza. Quando Francis Ford Coppola visitò il Belize negli anni ‘80, se ne innamorò e comprò il Blancaneaux Lodge che si trovava in stato di abbandono. Nel 2001 venne acquisito anche un rifugio sulla spiaggia chiamato Turtle Inn. Entrambi sono oggi tra i più belli ed esclusivi resorts di lusso. Il Turtle Inn ha 25 stanze ed è sulla spiaggia, mentre il Blancaneaux Lodge ha 20 stanze e si trova all'interno della riserva forestale Mountain Pine Ridge. Entrambi i resorts sono impegnati a promuovere le migliori pratiche in ecoturismo e viaggi sostenibili. Infatti le due proprietà dei Coppola hanno unito le forze con STEP (Sustainable Tourism Eco-Certification Program), che rappresenta il gold standard per le aziende che vogliono essere innovative ecologicamente e socialmente responsabili, e il Sustainable Tourism Program, che si dedica ad aiutare le aziende a sviluppare pratiche ecosostenibili in diversi settori tra cui il turismo, clima e educazione. Attualmente i resorts dei Coppola stanno promuovendo diverse iniziative di sostenibilità: per esempio usano bottiglie di acqua in acciaio inox, per ridurre l'uso delle bottiglie di plastica; inoltre implementano procedure per conservare l'acqua e l'energia e hanno i loro orti biologici. Questi sono solo alcuni dei loro sforzi ambientali. Gli altri resorts sono il La Lancha nel Péten in Guatemala e il Jardin Escondido a Buenos Aires in Argentina. Ci può fornire qualche dato sul vostro Gruppo e se ci sono sinergie tra i vostri alberghi e le destinazioni, anche molto diverse tra loro?
Quali sono le specificità che offrite per attrarre un pubblico internazionale? A ogni richiesta di soggiorno consideriamo le aspettative e proponiamo delle esperienze che sono dei suggerimenti personalizzati. Ognuna di queste è testata da noi per assicurare una visione reale e autentica, fuori dai classici standard turistici. A volte i clienti vogliono soltanto essere coccolati in struttura: un massaggio, una nuotata in piscina, la lezione di cucina con la nostra cuoca, la visione del Gattopardo nel Salone e una passeggiata per le vie del corso di Bernalda… La vostra ospitalità su cosa punta: piatti tipici locali, vini, ecc., e su quali altre peculiarità? Una delle principali missioni di Palazzo Margherita è far conoscere la cucina regionale che esalta la qualità dei prodotti di questa terra lucana. Con lo Chef assicuriamo ogni giorno un menu stagionale e locale con prodotti selezionati in tutta la Basilicata e quasi sempre biologici. La nostra carta dei vini si chiama “I Vini della Magna Grecia” che, oltre ad offrire una selezione dei vini delle regioni di questa parte di Sud, presenta anche una selezione dei nostri vini di Napa Valley. Le nove camere, diverse tra loro, che peculiarità offrono? Ogni camera è diversa per dimensione e a volte stile, il restauro è stato rispettoso delle decorazioni e dei materiali esistenti, ma tutte assicurano gli stessi standard e amenities. Il giardino esterno, un altro plus importante immagino? Il giardino è un piccolo ma prezioso esempio di Giardino all’italiana della seconda metà dell’Ottocento, preservato dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali e Culturali che conserva una varietà di erbe aromatiche e alberi da frutto insieme a Palme e Pini. Il luogo che tutti preferiscono! A livello di personale, come riuscite a formare chef, camerieri, servizi vari? Il mio staff è quasi interamente stato formato qui a Palazzo, per molti è stata la prima esperienza di lavoro e per altri la prima esperienza in Hotel. I nostri standard sono molto alti e tutti i clienti sono più che entusiasti di tutti i miei ragazzi. I vostri prossimi obiettivi per promuovere sempre meglio questo esclusivo hotel? Stiamo cercando di focalizzarci maggiormente nella promozione in Europa, anche se un mercato molto recettivo è sicuramente il Sud America.
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“Vinificazione e Filmmaking sono due delle grandi forme d'arte della California”. Francis Ford Coppola Il fascino del mondo del vino ha attratto già da molti anni Francis Ford Coppola. Il regista ha investito con passione, mettendo il suo inconfondibile stile alle sue tre farm, tutte nella Napa Valley. La prima tenuta che il regista acquisì, la Francis Ford Coppola Winery, è nei pressi di Geyserville, nella parte settentrionale della Sonoma County. Un luogo ideale per rilassarsi e godere del piacere di una favolosa campagna, tra una degustazione e un interessante tour delle cantine. Risale a 35 anni fa la decisione di Coppola e della moglie Eleanor di acquistare parte della tenuta Niebaum, acquisizione che terminerà nel 1995 – lo stesso anno della vittoria dell’Oscar per la miglior regia, con Il Padrino – Parte II – con l’acquisizione del castello di Inglenook, diventato oggi il fulcro dell’azienda e ritornato ad essere parte integrante dei processi produttivi aziendali. Il primo vino della rinnovata Niebaum-Coppola vede la luce nel 1975, con il nome di Rubicon. È un vino a uvaggio bordolese, secondo la tradizione della Napa Valley, e che si avvicina alle migliori produzioni dei nostri cugini d’Oltralpe. Il Rubicon è un vino con una consistenza decisa, caldo e persistente, già all’olfatto ha una grande potenza, anche per la sua lunga permanenza in legno. Alla bocca è caldo, morbido e persistente, un vino importante che indubbiamente non si dimentica, anche per il suo costo di ben 100 dollari a bottiglia. Il successo di questo rosso di stirpe francese ha fatto sì che oggi l’azienda si chiami Rubicon Estate, in onore del Rubicon, il più premiato della cantina. Virginia Dare è l’acquisizione più recente dell’impero di Coppola nel mondo del vino. Si tratta d’una cantina aperta nel lontano 1835 nella Carolina del Nord. Produceva una gamma di vini dolci ma con aroma pungente, tra cui Virginia Dare, allora molto popolari fino al proibizionismo. Il marchio fu venduto più volte, e alla fine abbandonato nel 2011. Coppola lo acquisì e iniziò a raccontare “la storia” di Virginia Dare con quattro vini rilanciati nel 2014, ognuno con una storia coloniale alle spalle. Un anno dopo, Coppola ha confessato che i vini erano stati prodotti presso l'ex Geyser Peak Winery, che aveva acquistato nel 2013. Ha ribattezzato il luogo Virginia Dare Winery, perché quel brand lo ha sempre stuzzicato. “Il mito di Virginia Dare mi ha sempre incuriosito, e come un bambino mi ricordo il vino grazie alla bella ragazza bionda in etichetta e il 'Dillo ancora, Virginia Dare' con un tintinnio a quei tempi usato per fare pubblicità alla radio”, ci ha detto Coppola. “Il mio obiettivo è quello di rilanciare il marchio in modo che non si perda per le generazioni future”.
Il Gruppo Coppola —
Courtesy of Studio Dalisi Info: Palazzo Margherita, Corso Umberto 64 - 75012 Bernalda (MT) Tel: +39 0835.549060 e-mail: info@palazzomargherita.com - www.palazzomargherita.com
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siamo tutti dentro un vortice di bollicine??
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castelfalfi charming olfclub in toscana
Claudio Mollo, giornalista e critico enogastronomico, si occupa
di qualità agroalimentare e della ristorazione. In passato ha collaborato con numerose riviste nazionali e straniere. Collabora attivamente con chef, ristoratori, produttori vitivinicoli e artigiani del gusto, occupandosi di valorizzazione e promozione dell’accoglienza, territorio, turismo enogastronomico e prodotti di eccellenza.
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Toscana: le dolci colline, gli olivi, le vigne e il sommo poeta che scrive di tanta magnificenza travolto dalla poesia. Ma chissà quante altre magnifiche parole avrebbe usato per descrivere la nuova Toscana, meravigliosa fusione tra territorio, accoglienza e fascino tutto toscano. Tra le più belle “terrazze sulla Toscana”, come a me piace definire località di questo tipo, nel comune di Montaione in provincia di Firenze, c’è Castelfalfi, borgo di origine medievale con tanto di suggestivo castello, in posizione dominante sul confine delle campagne pisane e fiorentine, tra filari di vigne e oliveti, incastonato in un paesaggio da sogno.
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Un borgo che non dimentica le proprie origini etrusche.
Protagonista di quasi mille anni di storia, a partire dagli anni ’60 del XIX secolo, il borgo subì un processo di spopolamento durato decenni, che ebbe termine nel 2007 quando venne inaugurato un nuovo corso. Ristrutturato per mantenerne le caratteristiche originarie e accogliere chi sia alla ricerca di un’autentica esperienza toscana da TUI AG, il più importante tour operator del mondo che decise di acquistare la proprietà e di ridare nuova vita a un’area che comprende più di 1.000 ettari suddivisi tra vigne, oliveti, boschi, laghi e una riserva di caccia, ripristinando e tutelando la sua forte vocazione agricola. In un simile scenario naturale, ha preso vita uno dei più esclusivi campi da Golf della regione. A partire dagli anni novanta molti dei campi della regione furono sviluppati sfruttando la topografia naturale del territorio e proprio “Toscana Resort Castelfalfi” ospita uno dei campi più spettacolari d’Italia e il più grande della regione, il Golf Club Castelfalfi.
Natura, bellezza, benessere e sport si uniscono negli oltre 9.400 metri di pendio e prati incastonati tra boschetti di ulivi che caratterizzano le 27 spettacolari buche che compongono i due percorsi: il 18 buche Mountain Course e il 9 buche Lake Course. Entrambi permettono a tutti gli appassionati golfisti di percorrere lunghe distanze in un contesto immerso nella natura incontaminata, tipica della campagna toscana, a contatto con una fiorente vegetazione che impreziosisce ogni buca e dalle quali è possibile ammirare un panorama senza eguali. Un paradiso per tutti gli amanti del golf che non vogliono rinunciare al benessere, il luogo ideale dove vivere un weekend all’insegna dello sport e del relax. Il Mountain Course (Par 72) si estende per 6.351 metri con ripidi dislivelli e ostacoli d’acqua che lo rendono uno dei tracciati italiani più stimolanti e di sicuro richiamo per giocatori provenienti da tutto il mondo. Il Mountain Course fu ridisegnato nell’agosto 2010 dagli architetti Moroder e Preißmann, progettato per essere complementare alla topografia naturale del territorio e alla vegetazione preesistente, conferendo a ogni buca un carattere individuale e un senso di privacy a ogni fairway. Nel novembre 2011 è stato inaugurato il Lake Course (Par 37), sempre progettato dagli architetti Moroder e Preißmann che lo hanno studiato per adattarsi a ogni livello di esperienza. Al Golf Club Castelfalfi è presente anche un campo pratica con battitori in erba, 10 postazioni coperte, e un’area per lo short pitch. Entrambi i percorsi sono stati progettati per iniziare e terminare alla Club House così sia che si scelga il percorso a 9 buche che quello a 18, i giocatori sono sempre vicini a un piacevole punto di ristoro affacciato sulle colline toscane. A completare un fine giornata di gare o semplice “relax” tra le buche, nella “Rocca di Castelfalfi”, sovrastante il borgo, l’omonimo ristorante gourmet non delude mai chi è in cerca dei piaceri di palato, proponendo una cucina raffinata e articolata, interamente dedicata ai sapori di Toscana. Prima di cena poi, per fare un po’ di shopping, ci si può soffermare nei graziosi negozi e botteghe, situati sulla passeggiata principale del borgo. Castelfalfi, è baciato dalla fortuna anche per la felice e strategica posizione geografica, distando soli 60 minuti dall’aeroporto di Firenze e a 40 da quello di Pisa, e trovandosi a solo qualche decina di chilometri dai tesori artistici e culturali di gran parte della Toscana. Intenti e progetti futuri che continuano a far correre Castelfalfi e TUI AG verso nuovi intraprendenti sviluppi, dedicati all’accoglienza di pregio, con l’ampliamento delle strutture ricettive attualmente disponibili, prima tra tutte “La Tabaccaia”, situata all’estremità opposta del Borgo, ex fabbrica che essiccava tabacco per sigari toscani, che ha trovato nuova vita nelle vesti di un hotel di charme 4 stelle, in grado di soddisfare le esigenze del miglior turismo nazionale e internazionale.
Golf Club Castelfalfi — Loc. Castelfalfi MONTAIONE (FI) Tel. 0571 890200
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La Pianura Padana costituisce la più vasta area piana italiana. Rappresenta la massima concentrazione di abitanti e di attività economiche. Su una superficie di 41.850 km2, appena un ottavo del territorio nazionale, la Pianura alberga ben 14.850.000 abitanti, pari a oltre un quarto della popolazione italiana: la densità demografica (355 ab/ km2) risulta quasi doppia rispetto alla media nazionale. Con spicco ancora più netto emerge la sua importanza nel campo delle attività economiche: il 33% degli addetti al terziario e il 40% degli addetti all’industria operano in quest’ambito territoriale. L’aspetto che metteremo in risalto sono le tradizioni gastronomiche riferite in particolare ai primi piatti che ci sono stati preparati da cinque cuoche d’eccezione. Iniziamo il nostro viaggio da Milano, dove Francesca Maccanti del Bacaro del Sambuco in Via Montenapoleone ci delizia con le sue tagliatelle all’uovo con ragù di carne, che molti chiamano alla bolognese. Francesca prepara la sfoglia impastando in mezzo chilo di farina 00 12 tuorli e tre uova intere. Il ragù è a base di polpa di vitellone scelto, olio extra vergine d’oliva, burro, latte, doppio concentrato, sedano, cipolla bianca, carota, vino bianco profumato, noce moscata e pepe bianco. Le tagliatelle sono servite con un’abbondante grattugiata di Parmigiano Reggiano 24 mesi. All’Osteria di Fornio Fidenza (PR) Cristina Cerbi ci ha fatto gustare le mezze maniche ripiene in brodo, il primo della domenica e dei giorni di festa delle famiglie contadine della bassa parmense, che richiedono ingredienti poveri disponibili in tutte le case. Cristina prepara la sfoglia per le mezze maniche impastando la farina con un uovo intero per ogni 100 gr. Il ripieno è composto da 1
kg di Parmigiano Reggiano, 500 gr di 24 mesi e 500 gr di 32 mesi, 200 gr di pane grattugiato, un pizzico di noce moscata e 10 uova intere. Il brodo in cui saranno cotte per 5 minuti, devono rimanere al dente, è quello della “domenica” con: gallina, manzo e vitello. I cappelletti di Reggio Emilia I reggiani sono molto fieri di questa minestra, la cui caratteristica principale sta nel ripieno che si differenzia da varianti provinciali o regionali. All’interno della tradizione reggiana la ricetta varia leggermente secondo le località: montagna, bassa reggiana e capoluogo, così come le dimensioni che tendono ad aumentare scendendo verso la bassa. Il cappelletto, appetitoso e irresistibile, ripieno di stracotto e di Parmigiano Reggiano, è perfetto con il brodo. Dietro il suo aspetto si cela una piccola malizia che lo rende seducente, specie agli uomini. Secondo una leggenda, che trae origine dai versi della Secchia rapita di Alessandro Tassoni, Venere, Marte e Bacco, mentre girovagavano sulla Terra, fecero sosta in una trattoria. Il mattino seguente il dio del Vino e quello della Guerra si alzarono molto presto per ammirare l’Alba mentre Venere, più dormigliona, rimase a letto. Quando la dea si destò, meravigliandosi da essere da sola e forse un poco affamata, chiamò il cuoco. Questi, vedendo quel magnifico corpo, rimase così sconcertato che si rinchiuse in cucina, deciso a riprodurre almeno un particolare della dea. Con fervore impastò la sfoglia, tagliò tanti quadratini, li farcì di carne e li rinchiuse. L’ardore era ormai svanito ma “imitando di Venere il bellico, l’arte di fare il cappelletto apprese”. A chi non crede alla mitologia, diciamo che il nome deriva da “cappello” perché la forma dei cappelletti ricorda sia il copricapo medievale sia la mitria dei granatieri. I cappelletti li abbiamo gustati nel Ristorante Clinica Gastronomica da Arnaldo a Rubiera (RE), dove un team di rezdore li prepara ogni giorno. Per la sfoglia sono impastate 8 uova in 1 kg di farina 00. Per il ripieno è preparato uno stracotto con carne di maiale, prosciutto crudo, manzo, cipolla bianca e burro, cui si uniscono Parmigiano Reggiano 24 mesi, uova, pane e noce moscata.
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REZDORE della Pianura Padana
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Al Ristorante La Palta di Borgonovo Val Tidone (PC) Maria Luisa Mazzocchi ci ha deliziato con i suoi Tortelli piacentini con la coda, chiamati anche “caramelle” per la particolare conformazione. Maria Luisa prepara la pasta con dodici tuorli e due uova intere ogni kg di farina, un cucchiaio d’olio, sale e acqua. Il ripieno è composto da ricotta vaccina, Grana Padano invecchiato 20 mesi, spinaci o biete sbianchite, uova, noce moscata, pane grattato scottato con latte bollente e sale. I tortelli o caramelle sono serviti conditi con burro fuso e Grana Padano.
I tortelli di zucca, un classico della cucina della pianura padana, li trovate da Ferrara a Crema e numerose sono le sfide gastronomiche destinate a lasciare ognuno certo di fare i tortelli migliori al mondo. E ogni nonna convinta che i suoi siano i più buoni! Rispetto alla ricetta tradizionale, oggi si usano meno burro e meno amaretti; il risultato finale dipende soprattutto dalla zucca. Nonna Bruna del Ristorante Dal Pescatore sostiene che bisogna sceglierla molto pesante. La varietà impiegata è quella gialla, un po’ schiacciata e con nervature pronunciate.
Nadia Santini e suo figlio Giovanni, allievi prediletti di Nonna Bruna, preparano la pasta impastando 40 tuorli ogni kg di farina 00. Gli ingredienti impiegati per il ripieno sono: zucca, amaretti, mostarda di frutta senapata, Parmigiano Reggiano, burro, noce moscata, chiodi di garofano, cannella, pepe e sale. I tortelli sono serviti con burro e Parmigiano Reggiano. In tutti questi piatti trionfano il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, che sono i formaggi che tutto il mondo ci invidia, indispensabili per dare sapore e qualità a tutti i primi piatti.
La storia narra che il formaggio grana della Pianura Padana nacque nel 1134 nell’Abbazia di Chiaravalle, pochi chilometri a sud di Milano. Le origini del Parmigiano Reggiano risalgono al Medioevo e vengono generalmente collocate attorno al XII secolo. Giovanni Boccaccio nel Decameron dimostra che già nel 12001300 questo formaggio, vero miracolo della natura, aveva raggiunto la tipizzazione odierna.
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Grand Hotel Principe di Piemonte
Il mare d’inverno
L’autunno è uno dei periodi più affascinanti dell’anno, tutto torna a muoversi dopo la placida pigrizia estiva e si ha voglia di intraprendere qualcosa di nuovo. Una destinazione perfetta per un weekend autunnale è sicuramente Viareggio. Cittadina stupenda che nei primi anni del secolo passato fu conquistata dal fascino di uno stile Liberty. La cosa avvenne piano piano, all’inizio vi furono solo alcuni e sporadici segnali di questo nuovo stile artistico che si manifestò nelle costruzione architettonica degli edifici, ma col passare degli anni divenne vera moda, trattandosi di una piacevole assonanza di stili fra influenze artistiche arabe e nordiche. Per vederne i segni basta osservare i molti edifici realizzati in questo stile, rappresentato in Villa Bramanti, Villa Nistri e nelle numerose altre ville presenti su tutta la fascia costiera. Ma Viareggio non è solo architettura, infatti durante tutta la stagione autunnale vi sono numerose manifestazioni che coinvolgono persone di ogni età. Una di queste è quella che si svolge al Museo Archeologico A.C. Blanc che ospiterà alla fine del mese di ottobre una serie di attività dedicate ai bambini dai 4 ai 12 anni per stimolare la loro voglia di scoprire e quali siano le loro attitudine manuale. Inoltre dal 28 ottobre al 1° Novembre nella vicina Lucca si svolgerà la manifestazione COMICS & GAMES, 50 ANNI DI FANTASIA. Le “Nozze d’oro” per l'evento internazionale dedicato al fumetto, al Cinema d'Azione, all'illustrazione e ai Games. Ma le sorprese non finiscono in riviera infatti lunedì 31 ottobre ore 16.00 si festeggia HALLOWEEN... UN MUSEO DA PAURA. Un evento sempre speciale che porterà i bambini a contatto con il lato “macabro” dell’archeologia. Dopo un breve viaggio nella preistoria. Infatti, verrà presentata e analizzata la sepoltura di un giovane uomo dell’età del rame ritrovata a Vecchiano. I più coraggiosi, poi, potranno partecipare al Laboratorio dello spavento e realizzare maschere, decorazioni e oggetti per festeggiare Halloween nel modo più divertente. La giornata terminerà con una merenda degna di vere streghe e stregoni. I laboratori sono dedicati ai bambini dai 4 ai 12 anni. Per partecipare alle attività è necessaria la prenotazione. Quindi quale migliore soluzione per il soggiorno? Noi di Bubble’s vi consigliamo Il Grand Hotel Principe di Piemonte, una struttura bellissima sorta nei primissimi anni Venti, che è sempre stata la dimora di aristocratici, intellettuali e artisti.
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La sua eleganza ha sedotto la fantasia di numerosi registi diventando teatro di prestigiose produzioni cinematografiche. Tornato all'apice del suo incanto nel 2004, dopo 19 mesi di restauro, oggi il “Principe” si pone indiscutibilmente tra gli Hotel storici più raffinati esistenti in Italia. Cinque piani, arredati in stili differenti, suite splendide, cortesia e gentilezza, sono solo alcuni di pregi di un percorso ideale che potrete vivere attraverso l’elegante ospitalità di ogni epoca, capace di condurvi fino alla luminosità contemporanea della piscina sul tetto, uno spazio azzurro proteso sul mare, che fonde l’edificio con orizzonte. Gli ambienti intimi e una Spa che propone giochi d’acqua, sauna, centro fitness, massaggi, trattamenti estetici, sono gli altri elementi che vi coccoleranno, collocando, di fatto, questo hotel fra le mete dove potrete stappare con gusto una bottiglia di spumante. Un relax totale e assoluto, in un ambiente elegante e raffinato, per rigenerarsi nel benessere e nel piacere.
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Ma le manifestazioni in Versilia continuano infatti:
Domenica 6 novembre ore 17.00 PORTE APERTE AL MUSEO – L’ATLETA DI TARANTO Atleta di Taranto è il soprannome dato ai resti di un uomo vissuto nella città magnogreca di Taranto rinvenuti durante gli scavi per la costruzione di un palazzo. Nella magnifica tomba l’uomo veniva indicato come una vera leggenda dell'epoca per aver vinto quattro Giochi panatenaici in una delle specialità più difficili e poliedriche, il pentathlon. Lo scheletro dell’atleta è stato studiato dal Prof. Mallegni che ne rivelerà caratteristiche biologiche e svelerà ai bambini i segreti di questo sportivo.
Sabato 19 novembre ore 16.00 COSTRUIAMO UN FISCHIETTO BENEAUGURALE IN CERAMICA Mamme, papà e nonni potranno accompagnare i loro piccoli a scoprire la magia dell’argilla. I bambini avranno la possibilità di creare con le loro mani un fischietto beneaugurale come quelli che migliaia di anni fa suonavano i loro coetanei per giocare o per attirare forze
Grand Hotel Principe di Piemonte — Piazza Giacomo Puccini, 1 55049 Viareggio (LU) Telefono:0584 4011 Fax 0584 401803
benigne. Partendo da una pallina di argilla, i bambini impareranno come modellare, lisciare e bucare la materia per ottenere questo antico strumento. Il laboratorio è dedicato ai bambini dai 4 ai 12 anni. Per partecipare alle attività è necessaria la prenotazione.
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Riccardo Margheri
Nato a Milano, ma ha sempre vissuto in Toscana. Conta 15 anni di esperienza continuativa nel mondo del vino, frequentazione di eventi di degustazione in Italia e all’estero, visite in cantina e contatti diretti con produttori del Bel Paese e oltralpe. È tra gli assaggiatori della Guida Vini Buoni d’Italia – Touring Club De Agostini. Tiene seminari per conto di associazioni di produttori, in particolare il Consorzio del Chianti Classico. Ha fatto parte del panel di degustazione nell’ambito di concorsi internazionali in Sud Africa e Francia, è stato invitato a tenere educational sul vino italiano in Finlandia. Ha una vasta esperienza nella docenza nei corsi sommelier e nella conduzione di escursioni enoturistiche, dove profonde la sua conoscenza e la passione che anima il suo rapporto con il mondo del vino.
Non solo Champagne: le bollicine italiane hanno accompagnato la storia dello sport in numerose discipline, la loro presenza ha contraddistinto trionfi e gioie infinite, condivise dagli atleti e dai tifosi che li mitizzano. Piccola rassegna di gare, campioni, sponsor e momenti indimenticabili
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l legame tra bollicine e competizioni è assodato. L’eccitazione della contesa e dello sforzo di portarsi ai propri limiti, e anche oltre, trovano un contraltare nel carattere vivace degli spumanti che si sublima nel sollievo del traguardo conseguito e nell’apoteosi della vittoria. Se sui podi della Formula 1 si stappa(va) Champagne per ragioni di marketing, non di meno le bollicine italiane hanno rappresentato una parte importante nella storia delle affermazioni dello sport italiano e non solo. Ad iniziare, ça va sans dire, con Ferrari. Lo spumante trentino incrocia il cammino delle rosse di Maranello grazie all’iniziativa dell’intraprendente veronese Giancarlo Aneri, destinato non a caso a divenire direttore generale dell’azienda della famiglia Lunelli. Recita la “storia ufficiale” del marchio che Aneri, allora un semplice rappresentante, si presentò un bel giorno a casa di Enzo Ferrari con una confezione di sei Magnum di spumante: il Drake gradì l’omaggio (e di certo l’omonimia) ricordando un’antica offerta di un calice di spumante in un ristorante di Verona: “Non sono mai stato un bevitore, ma notai con sorpresa che aveva il mio stesso cognome”. Detto fatto: il legame “bi-ferrarista” viene suggellato a casa dell’Ingegnere con una cena che riunisce la creme de la creme del talento e della creatività italica ad ogni livello: oltre allo stesso Ferrari, brindano con lo spumante omonimo Enzo Biagi, Ugo Tognazzi, Ottavio Missoni e Roberto Bettega. Da quel momento, le innumeri vittorie di Maranello sono state festeggiate dalla squadra con una certo impressionante quantità di bottiglie delle bollicine trentine… Ma se la provincia di Modena è la terra dei motori, lo è anche del Lambrusco. L’azienda della famiglia Giacobazzi, protagonista del travolgente successo dei frizzanti emiliani negli Stati Uniti, sponsorizzò il compianto Gilles Villeneuve durante il suo periodo in Ferrari. Nei primi anni ’80 la circostanza faceva ancora sensazione, quando si pensi che la scuderia di Mara-
nello aveva sempre rivendicato di avvalersi esclusivamente di sponsor quali produttori di pneumatici, carburanti, ecc., per distinguersi dai concorrenti inglesi che al contrario non esitavano ad avvalersi di marchi di sigarette e quant’altro per il finanziamento della propria attività sportiva. Il Lambrusco fu a sua volta “contrabbandato” come sponsor “tecnico”, in quanto il suo denaro veniva impiegato per garantire la permanenza del pilota in squadra… Peraltro, dopo la tragica scomparsa del campione canadese nel 1982, i Giacobazzi con molta signorilità versarono alla vedova Joanna l’intero importo pattuito della sponsorizzazione e assistettero agli inizi della carriera anche il figlio di Gilles, Jacques Villeneuve, poi divenuto campione del mondo di Formula 1. In realtà, il Lambrusco è collegato alla storia della Ferrari anche attraverso una storia leggendaria e non molto conosciuta: le circostanze della progettazione del motore del modello 500 4 cilindri, trionfatore nei campionati mondiali del ’52 e del ’53 (14 Gran Premi vinti su 15 disputati!!). Il semplice ma efficacissimo propulsore era qualcosa di inopinato per la casa di Maranello, specializzata sin dai sui inizi nei 12 cilindri. Il progettista Aurelio Lampredi ricordava che le sezioni principali del progetto erano state concepite al tavolo da disegno nell’arco di una calda domenica di primavera (all’epoca si lavorava anche di domenica): Ferrari era passato dall’ufficio progettazione e con studiata indifferenza aveva chiesto a Lampredi che cosa ne pensava di una 4 cilindri… L’ingegnere livornese aveva subito dichiarato che la cosa era potenzialmente fattibile e il Drake lo aveva così invitato a buttar giù qualche abbozzo: in breve, Lampredi si ritrovò a lavorare colto da una sorta di frenesia creativa e, mentre le parti principali del motore gli balenavano alla mente e venivano riportate negli schemi progettuali, Ferrari lo riforniva sollecitamente di panini alla mortadella e di una non precisata ma certa copiosa quantità di Lambrusco (dopo tutto la giornata era afosa…). Siano state le bollicine emiliane, fatto sta che entro sera i progetti delle parti principali del motore erano già pronti, novella Minerva meccanica uscita già compiuta dalla mente di un Giove tecnologico. Il propulsore girava al banco di prova entro poche settimane, e sarebbe divenuto uno dei più vittoriosi della storia delle competizioni automobilistiche: chissà se avrebbe avuto altrettanto successo senza il prezioso apporto del Lambrusco? Ad ogni buon conto, l’esperienza più convinta e continuativa in tema di sponsorizzazione è forse il Martini Racing, sorta di squadra
trasversale, che ha portato il brand delle bollicine piemontesi spaziando in vari campi delle competizioni motoristiche. Creata nel 1968, dapprima per un’iniziativa della filiale tedesca della casa, ha toccato i suoi apici con le vittorie (con record) delle Porsche alla 24 Ore di Le Mans; i trionfi nel Mondiale Endurance prima della stessa casa di Stoccarda, e poi della Lancia nel 1981 con la elegantissima Beta Montecarlo; lo strapotere Lancia nei rallies internazionali, con ben sette titoli mondiali costruttori negli anni ’80 e un indimenticato filotto di vittorie al Rally di Montecarlo; e gli ultimi exploits motonautici del campionissimo Renato Molinari. Un investimento appassionato e convinto che si perpetua ancora adesso, in quanto la Martini dal 2014 sponsorizza in Formula 1 il team Williams, dopo una presenza (discreta, in termini visivi) sulle stesse Ferrari a metà degli anni 2000. Quattro ruote a parte, altra disciplina inscindibilmente legata alla spumantistica italiana è la motonautica. Il glamour degli yacht, la partecipazione di protagonisti dello star system internazionale (come Stefano Casiraghi, marito di Carolina di Monaco, che trovò la morte in competizione), e di celebrità assortite, tra cui anche ex-piloti di Formula 1, ben si combinava con il desiderio di affermare l’esclusività dei prodotti. La Martini non poteva non essere della partita, già nell’anteguerra con Theo Rossi di Montelera corridore di rango e pluri-vincitore del raid Pavia-Venezia.
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LICI NE torie Ma è rilevantissima la presenza della Gancia, prima per traghettare il brand “Pinot di Pinot” da aperitivo generalista a bollicina di alta gamma, e poi con la griffe aziendale medesima: indimenticate le vittorie del 1988 negli Stati Uniti con il Cesa di Fabio Buzzi, “la barca più titolata della storia”. Non da meno la storia motonautica della Cinzano, peraltro sponsor a tutto tondo: in bella vista sulla Fiat 131 Abarth campione del mondo Rally nel 1977 (“la macchina con il 75% di componenti di serie”, recitava la pubblicità…); nella MotoGP per il Gran Premio d’Italia a Misano, e, last but not least, protagonista di una lunga stagione di vittorie con il team dell’Olympia Milano di basket. Nell’immaginario comune l’associazione tra bollicine e competizioni è strettamente attinente alle competizioni automobilistiche. In realtà, le case spumantistiche italiane da lungo tempo hanno compreso il potenziale mediatico di visibilità garantito dagli sport più popolari.
A partire dal ciclismo
, che ha sempre goduto di una straordinaria popolarità. Nel 1931 si registra a Torino una Gran Coppa Martini&Rossi e tre anni dopo il marchio sponsorizza il Gran Premio della Montagna al Giro d’Italia. Ovviamente in quel caso si trattava anche di pubblicizzare i famosi Vermouth, ma pure gli spumanti, visto che il primo Asti risale addirittura al 1876. Anche la Cinzano si impegnò direttamente nel ciclismo, in competizioni cui partecipò anche un certo Eddy Merckx; la presenza del marchio fu anche cinematografica: in All American Boys del 1979, che si guadagnò l’Oscar per la miglior sceneggiatura e altre quattro nomination, la squadra professionistica mitizzata dal protagonista è griffata Cinzano.
E il calcio?
Il connubio Giro d’Italia-bollicine si è rinnovato più di recente con il Prosecco: prima con la spettacolare tappa a cronometro in mezzo alle colline di Valdobbiadene, e poi con il brand Astoria, presente sui podi delle singole frazioni con la propria cuvée Rosé: dopo tutto il Giro è organizzato dalla Gazzetta dello Sport, ovvero la rosea per antonomasia… Altro sport legato alla velocità è lo sci. E non manca la presenza delle bollicine sui podi di Coppa del Mondo e non solo. Alberto Tomba ha festeggiato i successi olimpici di Calgary 1988 a spumante Ferrari, e la casa trentina non omette di essere presente a tutte le competizioni sciistiche a lei vicine per festeggiare i vincitori e pubblicizzare il marchio: niente di più adatto alla promozione dell’immagine dell’attraente fuoriclasse dello sci Lindsay Vonn che brinda sensualmente da una Magnum dopo l’ennesima vittoria in Coppa del Mondo a Cortina d’Ampezzo. Né c’è il timore che lo spumante influisca negativamente sulla precisione: sui podi delle gare di Biathlon si festeggia con il prosecco Valdo.
Anche lo sport più popolare del Bel Paese non rinuncia ai festeggiamenti a base di bollicine, in campo e sugli spalti. Pare che si siano creati degli abbinamenti tra le squadre più blasonate e i marchi preferiti. Ovvero, la Juventus brinda a Ferrari (con una cuvée speciale e una sponsorizzazione di mezzo); il Milan si rivolge alla vicina Franciacorta con Cà del Bosco, la rivale Inter all’altro mito Bellavista. Fioccano le selezioni speciali e le serie limitate in occasione dei maggiori successi. E il produttore di Prosecco Santero, impegnatissimo nel campo della promozione sportiva, ha creato una cuvée ad hoc ancora per l’Inter. Competizioni, vittorie, festeggiamenti. È bello ricordare come le bollicine italiane tantissime volte abbiano caratterizzato questi momenti. Che si moltiplicano oltre le sponsorizzazioni vere e proprie e i podi dei trionfatori per i numerosi brindisi con i quali gli appassionati certo festeggiano i successi dei loro beniamini con altrettanto entusiasmo. Per suggellare questa incompleta carrellata, che fa lustrare gli occhi agli aficionados delle tante discipline menzionate, un’immagine: Pablito Rossi, ancora non pienamente consapevole di quanto è successo, con lo spumante Ferrari (ma avrebbe potuto essere un altro, molti altri) a festeggiare dopo la finale del Mundial spagnolo del 1982. Con l’augurio che molti di questi momenti siano ancora di là da venire e molte ancora le bottiglie di splendide, buonissime bollicine del Bel Paese da stappare.
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Il meglio dell’home design italiano e tecnologia ne sono il cuore. Venezia del Cinema ne è l’ambiente. Dalla nostra inviata ROBERTA CANDUS.
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luette in camoscio con una bella ciocca di raso, le mie scarpine salgono la passerella di questo “oggetto del desiderio” adagiato come una sirena, dall’invitante e soave profumo, a portata veramente d’occhio e di mano, una fortuna sfacciata essere lì. Lungo la Riva degli Schiavoni a Venezia, in questo momento del 73° Festival del Cinema, se ne possono ammirare parecchi, ormeggiati in bella fila, come appunto “il mio” Azimut 66. Sono come splendidi delfini spiaggiati ma che non soffrono, anzi sembra quasi che ci sia un feeling reciproco di sguardi, fra queste meraviglie del mare e i passanti curiosi. Esserci sopra è un vero godimento, si possono ammirare nel pieno della loro bellezza. Ce ne sono una bella serie, sembrano tanti guizzi bianchi e acciaio, con bandiere di lontani paradisi fiscali che svettano a poppa, ma anche tanti Tricolori, e fa molto piacere. Meraviglie di tecnologia e design, specie quelli usciti dai cantieri italiani che spiccano tra tutti per quel certo non so proprio di eleganza, raffinatezza, stile Made in Italy. Questi natanti, a vela o a motore, sono un palco privilegiato, come essere a teatro alla prima della Scala. Sono tanti salotti che ospitano imprenditori, amici. A Venezia in questi giorni, da veneziana pendolare, è un brulicare di attori e attrici su queste piccole navi ormeggiate al Lido, agli Schiavoni, in Darsena del Tronchetto. Particolarmente attratti dal mare e dalla frenesia della laguna e del Lido, ho intravisto il regista russo Andrei Konchalovsky, l’attrice Ana Lily Amirpour, lo scenografo Pablo Larrain che di design, immagini e profili se ne intende. Bellissime a passeggio fra i grandi motoscafi e le alte vele anche l’attrice Emma Stone e la giovanissima, astro nascente di 22 anni, Paula Beer vincitrice del premio intitolato a Marcello Mastroianni al Festival.Sempre scrutando fra una bolina e un pozzetto in pelle amaranto, ho notato altri due premiati, Ruth Diaz e Nuno Lopes, esausti per le continue passerelle richieste dalle decine di
YACH TING Quando un’iconA diventa realtà
fotografi e reporter presenti a Venezia, intenti anche a girare per le calle, a trovare un’immagine ricordo di una Venezia di fine estate calda, molto molto ben lontano dal mitico pensiero legato a Morte a Venezia. L’edizione 2016 ha assegnato il Leone d’Oro a Lav Diaz, nessun grande premio agli italiani. Ma come credo e ho sempre creduto, noi italiani ci difendiamo con il design, la moda, il bello, il buOngusto, la esclusività... anche di una barca che ho tutta a mia disposizione, curiosando e chiedendo a chi la governa. Mi aggiro tra gli spazi studiati per una vita confortevole solcando i mari, tra spruzzi pieni di salsedine e bianche spumeggianti che ricordano quei calici di cristallo rotondi ma slanciati, ampi ma raffinati per le ottime bollicine tricolori che mi porto per compagno... non si sa mai quale occasione mi aspetta. Difronte a una barca che è anche dimora, è normale incantarsi ad ammirare in tutta la loro eleganza, queste linee armoniose disegnate da Stefano Righini, la ormai tipica finestratura laterale a pinna di squalo, di questo flybridge allungato e quindi spaziosissimo con l’area di prua trasformata in una lounge esclusiva. I divani bianchi in pelle mi accolgono per un piccolo momento di relax in attesa anche di ritornare al Lido e vedere una prima cinematografica. Un calice di bollicine, non è sicuramente sprecare l’attesa, ma è un benvenuto a bordo. Slanciato come per inserirsi e guizzare tra le onde del mare, questo scafo è il risultato di una lunga ricerca che ha portato alla costruzione della sovrastruttura in fibra di carbonio permettendo un deciso alleggerimento dell’imbarcazione e un aumento dei volumi interni. Già perche per chi lo abita tutti i giorni, in vacanza immagino, gli spazi devono essere studiati nei minimi particolari. Carlo Galeazzi, l’architetto progettista, ha cercato proprio di unire lo stile con la quotidiana necessità. L’arredo di una barca da crociera e veloce, vero made in Italy, è il risultato di uno studio di avanguardia, per trovare spazi, inventarsi volumi, ricavare vani destinati allo stivaggio, rendendola una “barca” ancora più comoda. Già io comoda ci sto benissimo con il mio svolazzante abito in lino bianco, bianco e blu, chiaramente colori marinareschi; me ne starei tranquilla qui tutti i giorni. Non ho difficoltà, per apprezzarlo al massimo, a vivere questa visualizzazione come fosse già mio, come dovessi viverci non solo una vacanza, ma una vita di avventure piacevoli. Il cocktail è perfetto e si basa sui migliori ingredienti del brand, a partire dalle linee esterne che rimangono sinuose e sportiveggianti come nella migliore tradizione di barche di questo cantiere, offrendo però volumi e superfici accresciuti. Nella categoria delle imbarcazioni intorno ai 65 piedi, così mi hanno spiegato mentre mi versavano un altro vino spumeggiante e mentre vedevo il perlage risalire sino al mio naso quasi immerso nel calice per non perdere gli aromi, questo fly rappresenta senza dubbio il binomio più azzeccato fra la migliore tradizione costruttiva
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italiana e la più avanzata tecnologia. Certo che le bollicine cominciano a pizzicarmi il naso, o forse sono le comodità che non ti aspetti su una barca veloce, le ampiezze che “dentro” appaiono più appaganti e grandi che guardare da “fuori”, stando sulla banchina. Aggirarsi dentro, in questa casa galleggiante dalle linee morbide, è come essere padroni in questo momento di un mondo fantastico, meglio, un mondo in cui e con cui fantasticare. Stiamo passando alle zone più tecniche, beh prendo un’altra fragola ricoperta di cioccolato, e passo oltre; preferisco farmi affascinare dalla parte più voluttuosa. Partiamo dal flybridge, con tre differenti zone d’intrattenimento. S’ispirano agli arredi improntati a uno stile che attinge alla storia e alle significative eredità di gusto e cultura rigorosamente italiani. Ne sono un esempio il rovere termotrattato e le eleganti venature frisé del Sicomoro, tra le più pregiate essenze d’acero, impreziosite da verniciature ultraglossy che riprendono le tecniche dell’arte ebanistica italiana. Mi spiegano tutto sul procedimento di decolorazione e successiva tintura in vasca che richiede ben tre settimane per garantire massima resistenza e qualità estetica. Nell’esaltare le sfumature dei legni e i contrasti dei materiali giocano un ruolo fondamentale l’illuminazione con barre a led nascoste dai tendaggi. Chiaramente se ne ordinate uno e preferite che sia tutto di un solo tono più chiaro… basta dirlo! Già! Ci spostiamo a visitare le 4 cabine che, per garantire la massima vivi-
bilità a bordo, sono studiate nei minimi particolari anche dal punto di vista… dove metto i vestiti da sera? Anche la nuova zona bar, posta a prua della gallery, dove la cristalleria di bordo trova spazio in una vetrinetta retroilluminata inserita a decoro della zona living, mentre il wine cooler illuminato si fa protagonista nella zona bar e di passaggio verso il ponte inferiore. Qui è sempre al fresco un cestello, con ghiaccio e bottiglie di grandi bubble’s, per un brindisi da offrire gli ospiti. Già me ne sono accorta, sono già al secondo e non tarderò ad arrivare al terzo, la visita è ancora lunga. Il colpo d’occhio generale di una grande barca è importante, l’insieme di arredo, linee, oggetti, spazi deve essere un tutt’uno, armonico, personalizzato, quasi una firma autentica. È quello che è riuscito a comporre l’architetto Michele De Lucchi, tra le maggiori firme dell’architettura italiana (Triennale di Milano, il Palazzo delle Esposizioni di Roma, il Neues Museum Berlin), cui è stato affidato il compito di riprogettare anche i padiglioni del cantiere, per dare continuità e sottolineare le diverse progettualità. L’anima della barca, già perché di barca si parla, anche se direi che dovremmo trovarle un nome diverso, ha un sapore hi-tech fatto di soluzioni ispirate al mondo della domotica e dell’automotive, ma interpretate secondo i parametri di un’esperta ingegneria navale e tarati sulle esigenze del diporto. Paroloni, no si tratta dell'impiego del carbonio che è messo per la prima volta al servizio del comfort di bordo, consentendo di aumentare i volumi mantenendo un’eccellente stabilità dinamica e permettere così di guidarla con un dito. Che cosa prendo ora che giustamente mi faranno entrare nella parte più tecnica della visita… un altro champagne o… meno male che resteremo fermi e che a nessuno verrà l’idea di mettermi al timone.
Infatti, mi dicono che è un vero fiore all’occhiello in tema di tecnologia questo “pied dans l’eau” lungo più di 20 metri. È il primo sistema di timoneria elettronica, prima installazione al mondo in imbarcazioni di questa tipologia, con funzioni di controllo della sensibilità personalizzabili dall’armatore che può scegliere la configurazione migliore in base al proprio stile di guida, impostando i giri di barra e lo sforzo in relazione alla rotazione del timone ed al regime di velocità. Una soluzione che regala sensazioni di guida pari a quelle sperimentabili su autovetture dal piglio sportivo. Difatti i signori che sono con me si stanno bevendo proprio le parole del nostro anfitrione, mentre io immaginate cosa continuo a bermi beatamente. Chiaramente tutto funziona ormai con sistema integrato di monitoraggio di bordo del Raymarine customizzato con l’obiettivo di potersi
interfacciare con il maggior numero d’impianti possibile: dai dati motori agli allarmi e alle pompe di sentina, dai livelli e scarico delle casse alla ventilazione della sala macchine, fino all’impianto audio sia al governo dell’aria condizionata. Il sistema è accessibile sia da entrambe le timonerie sia anche in remoto tramite tablet. Che figata! Spero solo che non stiano a monitorare quante “bubbles” bevono anche gli ospiti-visitatori, mi pare che qualcuno... è sempre bene non fare nomi visti i personaggi noti, attori e attrici che salgono e scendono dal ponte... sia già più avanti di me. Siamo in una zona fra cucina e zona living dove un vetro opacizzabile
elettricamente e la gestione delle luci, possono scegliere fra tre scenari d’illuminazione presettati in base all’atmosfera che si desidera creare a bordo, per maggiore privacy. La cucina non è da sottovalutare. È vero che in ogni porticciolo italiano brulicano osterie tipiche e ristoranti accattivanti, ma un bon vivand e un appassionato del mare ama cucinare in pace, tranquillo, lentamente, senza correre, e ha bisogno di tutti gli strumenti del caso, molti elettronici e con diversi tasti di controllo e di avviso... non si sa mai che una chiacchierata interessante fra amici sul ponte... ti distragga. Allora addio al meraviglioso piatto di sarde o di persico o di salmone solo scottato in olio extra vergine ma delicato, non invasivo perché il profumo di mare nel piatto si deve sentire e non essere offuscato o ridotto da troppe spezie, troppi aromi. Elemento da considerare giustamente poiché in un momento intimo, spesso e sempre accompagnato dal solito calice di bollicine in mano per brindare al tramonto, i profumi devono essere delicati, sobri, educati e le luci devono non essere invasive, ma lasciare che ci si possa beare di quello che la natura propone. Venezia vista da una barca o dal centro del Canal Grande o lungo il tragitto lagunare per arrivare alla famosa terrazza dell’Excelsior del Lido, è tutta un’altra città, è tutto un altro vivere, soprattutto per una veneziana doc, ma pendolare, innamorata della città di San Marco, ma sempre alla ricerca della vecchia Venezia, di tranquillità e di luoghi dove ammirare un gioiello dell’architettura
sull’acqua, una fotografia continua e unica di case e palazzi Rinascimentali. Resto pur sempre incantata ancora una volta da questo spettacolo, visto da una prospettiva privilegiata. Il giro in barca vale qualunque follia. Beh alla fine cosa faccio? Non ho portato un libretto degli assegni, devo dire che ho parlato delle belle scarpine di camoscio bluette, ma la borsetta è mini mini, il porta-blocchetto degli assegni non ci sta e la mia carta di credito, pur essendo oro, non credo possa coprire il costo di questo gioiello della tecnologia e design italiano. Essere un’icona, sia essa la città o il grande motoscafo made in Italy, non è solo questione d’immagine, di stile o di capacità innovativa. È tutto questo, è l’insieme che mi ha dato qualcosa in più: girare su una grande barca, percorrere i canali di Venezia, ammirare gli Schiavoni, sorseggiare un calice bubble’s, essere orgogliosamente bubble’s, cioè alla ricerca di uno stile proprio e abbinato a dove mi trovo in quel momento. Essere un’icona, essere un prodotto di riferimento, in grado di mantenere intatta una personalizzata identità nel tempo e continuando a stupire per le elevate performance e il design sofisticato, questo è il vero successo dell’imprenditoria made in Italy, quella vera, composta di materiali, creatività, lavoratori tutti tricolori. Scendere a terra è come rendersi conto che eri stato su una nuvoletta e che ora devi toccare proprio terra e ritornare a sognare un altro oggetto del desiderio. Ti salva solo alzare gli occhi e vedere il profilo di Venezia e San Marco, per fortuna!
Roberta Candus
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DAl Film 8 1/2 claudia cardinale
La storia è a cicli, ma alcuni periodi sono più fortunati e si concentrano più fatti, non sempre positivi, ma che segnano la vita, una epoca, persone, oggetti. Un periodo di ricordi straordinari sono i cosidetti anni ’60-’70. è l’Italia del boom economico, del frigorifero e della prima televisione in casa, della prima Fiat Topolino, dei primi grandi film italiani. Anni di cerniera li ha definiti qualcuno, certamente un periodo di crescita, di passioni, di felicità, di prospettiva, di sogni diffusi ...orizzontali direbbero gli economisti di oggi.. sociocivili direbbero i politici di oggi. Ma la “Dolce Vita” cosa è stato? Cosa ha lasciato? Quanto ci manca? In quegli anni l’Italia sta crescendo; giovani rampolli, all’università o appena laureati, pensano al divertimento sabatico, come si dice. è anche il periodo in cui la comunicazione e i media prendono la nuova strada dell’etere, delle radio e tv, in cui ogni notizia è accompagnata da immagini, esaltata e portata nelle case degli italiani. Il giornalismo diventa sempre più un resoconto di fatti, eventi, scoop. Erano gli anni in cui Cinecittà era la Hollywood sul Tevere. Ecco la Dolce Vita. Il centro di gravità è via Veneto a Roma, fra il vecchio Grand Hotel e i cafè Doney e de Paris, il ristorante Valle e, poco distante, il Piper la prima grande discoteca-night. Dolce Vita evoca uno stile di vita, spensierato, al di sopra dei problemi ordinari, divertimento e sogno, immaginazione e realtà si mescolano.
AMARCORD DELLA DOLCE VITA... EPOCA ESCLUSIVA Ni.Co.
Racconta e ricorda la vitalità e il fascino, la febbrile creatività e l'indiscutibile glamour di quegli anni. Le immagini diventano storia, sono testimoni e prove di un mito realmente vissuto. Un mix di nobiltà, politica, cinema, scrittori, artisti e giovani ricchi o squattrinati concentrati a Roma. Tutte le star del cinema americano in quegli anni passano a Trastevere o in via Veneto. La Taylor viene fotografata mentre passeggia per via Veneto vestita da Cleopatra. Audrey Hepburn con le “ballerine” nere (siamo nel 1960) va a comperare il pane. Cary Grant e Rock Hudson colti all’alba a Cinecittà. Jane Mansfield che si fa imboccare da Mike Hargitay davanti a un piatto di spaghetti. E’ nota l’immagine di Anita Ekberg che lancia le scarpe addosso ai fotografi mentre passeggia per Roma, Jean-Paul Belmondo viene beccato con Ursula Andress. è un ballo sensuale che fa scattare la nascita della Dolce Vita romana. è il 5 novembre 1958, Olghina di Robilant festeggia il 25° compleanno al Rugantino a Trastevere insieme a una parte della nobiltà italiana e a personaggi e artisti come Linda Christian, Elsa Martinelli, Luca Ronconi. Atmosfera molto brillante, gioia di vivere, felicità diffusa fra tutti, tutti ballavano, si faceva a gara a chi faceva più casino. La corte alle ragazze, educata, si concedeva a tutte. Quando una bella giovane turco-libanese inizia una danza del ventre, sensuale e audace, inizia lo spogliarello.
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Durante Una Pausa Del Film La Dolce Vita Fellini, Pasolini, Mastroianni E Anouk Aimeè
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è Aichè Nanà. C’era pazzia, stravaganza, voglia di divertirsi , speranza, un gioco. La storia della danza sensuale fece il giro del mondo. Fellini gli dedicò una breve sequenza ne La dolce vita, rese omaggio a quella notte folle, euforica frenesia collettiva, fu detto, ma carica di forza umana, che segnò per anni il costume degli italiani. Fece da spartiacque di una epoca, ha impresso un ritmo di vita diverso. Anche gli intellettuali romani si concedettero alla vita mondana: vocianti discussioni fino alle 6 del mattino in piazza del Popolo vedevano protagonisti Moravia, Arbasino, Parise, Pasolini, Flaiano, la neoavanguardia di Balestrini, Eco, Schifano. Il centro di gravità è via Veneto a Roma, fra il vecchio Grand Hotel e i cafè Doney e de Paris, il ristorante Valle e dietro il quartiere, il Piper. Il salotto di Isabella Colonna, rigorosamente nell’antico palazzo di famiglia, racconta i primi incontri della dolce vita. Tanti ricordi del passato, una ritualità rinascimentale, una regolarità maniacale. Agli inizi degli anni ’60 riunisce la grande nobiltà romana e non, da re Farouk (innamorato della cucina italiana) a Gianni Agnelli, da Carlo Durazzo a Andrea Hercolani, da Pier Francesco Borghese a Luigi Caracciolo, da Porfirio Rubirosa a Gualtiero dell’Orto, da Paolo di Robillant a diversi sovrani in esilio. Senza dimenticare le dame, irraggiungibili donne capaci di ribaltare la vita di un uomo, di creare una vita, di lasciare il segno come erano Marina Cicogna e Gloria Ferri. I viveur erano affabulatori, piacevoli, ammagliatori, compagni di viaggio, galanti e non sdolcinati, una educazione nel comportamento naturale non costruita, seducenti in ogni manifestazione, capaci di rapportarsi con tutti. Erano Gigi Rizzi, forse l’emblema simbolo del playboy italiano di fine anni sessanta, compagno di una abbagliante Brigitte Bardot, di Beppe Piroddi, Franco Rapetti, Niki Rizzini che animavano le feste riservata e si godevano la vita. Ragazzi “perbene” come erano definiti, giocatori a carte, nottambuli che si muovevano dal Toulà di Cortina d’Ampezzo al Pirata di Antibes, dalla Bussola e focaccine di Pietro a Forte dei Marmi al Carrillon di Paraggi per una cena o al Piper di Viareggio dove cantava Patty Bravo. Era il tempo di un viaggio Milano-Portofino , andato ritorno in nottata, solo per mangiare un famoso gelato Paciugo a Portofino o a Santa Margherita. La terminologia dolce vita fu coniata per evocare uno stile di vita, spensierato, dedito al divertimento che termina con le manifestazioni pubbliche e di strada, la contestazione studentesca.
Oggi manca ogni parametro, ogni riferimento, tutto è dandy, eccessivamente superficiale, tutto ruota attorno ad una app o un post, un selfie. Non esistono più luoghi e momenti che fanno la differenza. Oggi non esiste neanche più il sogno di una riedizione di dolce vita. Certi uomini e donne non ci sono più, certi luoghi, i tempi, i modi, le maniere, gli insegnamenti, l’aria, i profumi che si respiravano in certe case. Solo una grande metropoli potrebbe far resuscitare la dolce vita, mentre oggi quei pochi benestanti, galanti, latin lover, ragazzi che giocano sono tutti impegnati all’estero, fuggiti dalle città italiane dopo aver presi due lauree e due master, pronti a scommettere una vita professionale di successo a Stoccolma o a Bruxelles o a Londra, piuttosto che a Roma.
Vita meritevole e impegnata certamente, ma quanto vale aver perso un pezzo di gioventù sfrenata, di giusto e misurato cazzeggio, di serate ridanciane fra amici, di corteggiamenti reali e veri?
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Un mondo di bollicine
Quando si dice Prosecco la mente corre al calice di vino bianco con l’inconfondibile perlage. In realtà è molto di più dato che il termine Prosecco Doc identifica un ampio territorio dell’Italia Nord orientale con la sua storia, le sue tradizioni e i suoi tesori artistici, culturali e paesaggistici. . Un vino giovane che soddisfa il gusto di giovani e meno giovani la cui storia risale a duemila anni addietro, quando, si narra, che l’imperatrice Livia Augusta, moglie di Augusto, non che madre di Tiberio, apprezzasse il vino realizzato con le uve Glera, raccolte inizialmente sulle colline carsiche triestine, chiamato all’epoca Pucìno, corrispondente all’attuale Prosecco, tanto che gli storici, attribuirono al Prosecco il motivo dell’eccezionale longevità della sovrana. Salubrità e immediatezza pare siano questi i segreti del successo del Prosecco Doc che negli ultimi anni registra un successo planetario sui mercati internazionali che non ha eguali, visto che all’export viene destinato oltre il 70% della produzione complessiva dell’areale di riferimento. Una Denominazione di Origine Controllata inter regionale
che interessa cinque province del Veneto (Treviso, Venezia, Vicenza, Padova, Belluno) e quattro province del Friuli Venezia Giulia (Gorizia, Pordenone, Trieste e Udine). Un vino che soddisfa tre mercati principali: UK, USA e Germania, ma sono incoraggianti anche i trend di crescita che caratterizzano i mercati emergenti come Russia, Cina, Nord ed Est Europa, Australia e Africa. Il merito è delle singole aziende e dell’impegno promozionale del Consorzio di Tutela del Prosecco Doc che associa il nome di questa Denominazione ad alcune delle più significative realtà culturali, artistiche e sportive a livello internazionale. Tra gli accordi più importanti sottoscritti dal Consorzio va certamente annoverato quello firmato con il museo Ermitage di San Pietroburgo, in virtù del quale il Prosecco Doc, per almeno cinque anni, sarà il Vin d’honneur, ovvero il vino ufficiale servito alle delegazioni ospitate dal Direttore Piotrovsky. Meritevoli di nota è anche la collaborazione avviata con Triennale di Milano e con lo IUAV di Venezia. Ma la gamma delle attività in cui si muove il Consorzio e l’appoggio
PRO SECC o un Vino giovane con una Storia millenaria
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al Festival Internazionale di Yuri Bashmet “Sulle Vie del Prosecco” e al festival internazionale del film documentaristico “Sole Luna”. Da segnalare, per quanto riguarda lo sport, vi è la sponsorizzazione della Barcolana di Trieste e la Veleziana di Venezia nel mondo della vela, l’IMOCO volley femminile, i mondiali di Superbike e la squadra I Dogi di rugby paralimpiaca. A farci raccontare questa enorme mole di impegni in cui si muove il Consorzio abbiamo chiesto numi al presidente dot. Stefano Zanetta e il direttore Dot. Luca Giavi che… “Il nostro maggior impegno è sul fronte della tutela internazionale del marchio – ci piegano - perché i tentativi di contraffazione aumentano di pari passo con il successo che stiamo ottenendo nel mondo, ma la nostra vera sfida è la sostenibilità che richiede la promozione di modelli di comportamenti virtuosi e di crescente condivisione da parte dei nostri produttori, sempre più sensibili alle tematiche ambientali. Cosa non facile per un gigante che nel 2009 commercializzava 950mila ettolitri di vino, mentre quest’anno 3.400 mila ettolitri. Un gigante produttivo che coinvolge 10.000 produttori disseminati sui circa 20.000 ettari vitati.
A. Podda
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BAR BIERI, 1924 Maccheroni Pianiciani - Advertising
A t t r a v e r s o l e s u e c re a z i o n i e d u n linguaggio artistico molto personale, B r u n i c i p o r t a d r i t t i a l l a re a l t à , s e n z a f i l t r i , i n m o d o c o s ì d i re t t o e d e s p l i c i t o , fino alla meta; la nostra società, che è e re d e d i o g n i m e r a v i g l i a , p e r i n s e g u i re , e m u l a re , r i n c o r re re l a m o d e r n i t à , i l b e n e s s e re , i l p o t e re , è d i v e n t a t a c o r ro t t a nelle coscienze e nelle forme, nella natura e n e l p e n s i e ro . N o n è t u t t a v i a n o s t a l g i a d e l p a s s a t o q u e l l a c h e t r a l u c e d a q u e s t e s u e o p e re , m a p i u t t o s t o c r i t i c a d e l p re s e n t e e consapevolezza del destino del mondo se la bellezza non interverrà a salvarlo, come invece auspicava - con smisurata fiducia, forse, n e i c o n f ro n t i d e l l ’ a r t e - i l p r i n c i p e M i š k i n d i D o s t o e v s k i j . L e o p e re d i B r u n i c i p a r l a n o d i u n u n i v e r s o a s s a i c o m p l e s s o , m a a l t re t t a n t o e a ff a s c i n a n t e , n e l q u a l e c i a s c u n “ s i s t e m a ” è re l a t i v o rispetto al tutto e alle sue parti e queste ancora rispetto alle geometrie naturali o artificiali che sono alla base di ogni cosa. C i p a r l a n o d i o g g i e d i s e m p re , d e l l a re a l t à e d e l l a f a n t a s i a , d e l t a n g i b i l e e d e l l ’ i n e ff a b i l e , d i t r a c c e e p re s e n z e , d e l l e c o s e t r a n s i t o r i e e di sentimenti eterni, di una dimensione umana, fatta di gesti, di r i t u a l i t à , m a a n c h e d i t e n s i o n e v e r s o i l f u t u ro , d i s o g n i e s p e r a n z e . C o s ì a n c h e l a v i t a q u o t i d i a n a s i e rg e a m o m e n t o d e g n o d i e s s e re r a p p re s e n t a t o , m a B r u n i - m e m o re d e l l ’ a r t e d e l l ’ u l t i m o s e c o l o - f a q u a l c o s a c h e v a o l t re l a r a p p re s e n t a z i o n e d e l l ’ o g g e t t o : l o p re n d e , lo toglie dal suo contesto, ed è questo che, così com’è, con le sue pieghe ed imperfezioni, le sue lacerazioni ed i segni dell’usura, a d i v e n t a re l a n a t u r a m o r t a d i s e s t e s s o . salvifico e di conoscenza; in Francesco è forte la consapevolezza della necessità dell’arte nella società moderna, alla quale la grande m e r a v i g l i a d e l p a s s a t o n o n p u ò b a s t a re . E f o r s e è l ì , p ro p r i o q u a n d o l ’ u m a n i t à s e m b r a i n c a p a c e d i c e n s u r a re i p ro p r i c o m p o r t a m e n t i , b l o c c a re l e p ro p r i e a z i o n i p e r l a s u a s a l v e z z a e q u e l l a d e l p i a n e t a , c h e p u ò , e h a f o r s e i l d o v e re d i i n t e r v e n i re , l ’ a r t e , q u a l e m e z z o potentissimo di comunicazione e linguaggio universale, ed è q u i , n e l l e o p e re d i F r a n c e s c o , c h e , n e l t e n t a t i v o d i r i s v e g l i a re l e c o s c i e n z e , i l c e m e n t o , c h e c o p re o g n i c o s a , o g g e t t o e s u p e r f i c i e , s e m b r a l a s c i a re a n c o r a s p a z i o e s p e r a n z a a l l ’ u o m o , a l l a n a t u r a e al sentimento.
Caterina Pacenti
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L’ a r t e è q u i d u n q u e e s p re s s i o n e , e m o z i o n e e s t e t i c a , s t r u m e n t o
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