Le Marche... l'orto del vino

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Le Marche... Andrea Zanfi

l’orto del vino

Carlo Cambi Editore



dedicato a Roberto un buon compagno di viaggio



Le Marche...

l’orto del vino

di Andrea Zanfi fotografie di Giò Martorana

Carlo Cambi Editore


Le Marche... l’orto del vino di Andrea Zanfi Fotografie di Giò Martorana Coordinamento editoriale e di redazione: Marco Biotti In redazione: Valentina Sardelli Progetto grafico: Elisa Marzoli Still-life: Carlo Gianni Traduzione inglese: An.Se sas - Colle Val d’Elsa (SI) Fotolito e stampa: Tap Grafiche S.p.A. Carlo Cambi Editore Via San Gimignano 53036 Poggibonsi (Siena) Tel. 0577 936580 Fax 0577 974147 www.carlocambieditore.it info@carlocambieditore.it 2006 © Copyright Carlo Cambi Editore Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy I diritti di riproduzione, di traduzione, di memorizzazione elettronica e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm, copie fotostatiche e cd), nonché l’inserimento in siti internet, sono riservati per tutti i paesi. Prima edizione: dicembre 2006 ISBN 88-88482-53-9 Per la foto di pagg. 48-49 ringraziamo il Consorzio Frasassi nelle persone di Mario Mingarelli (Presidente), Alberto Calò (Direttore Marketing) e Gianfranco Morettini (Area Marketing - supervisore durante lo svolgimento degli scatti fotografici). La foto di pagg. 162-163 appare per gentile concessione della Fondazione Pergolesi Spontini (Jesi, AN, Italy)


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Le Marche... l’orto del vino

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Fattoria Le Terrazze

di Andrea Zanfi

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Fattoria Mancini

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Fattoria Villa Ligi

La storia dei vigneti marchigiani

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Fazi Battaglia

di Oriana Silvestroni

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Fiorini

168

Garofoli

Una regione al plurale

172

Giusti

di Gian Luigi Calzetta

178

Il Conte

182

Il Pollenza

Fra passato e futuro

186

Lanari

di Ido Perozzi

192

Le Caniette

196

Lucchetti Mario

La parola ai produttori e agli enologi:

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Malacari

“Il futuro della viticoltura e del vino nelle Marche.

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Mancinelli Stefano

Opportunità e vantaggi, problematiche e incertezze”

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Marchetti Maurizio

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Marotti Campi

220

Montecappone

224

Monte Schiavo

Ritratti di vignaioli marchigiani 52

Accadia

228

Morelli Claudio

56

Antico Terreno Ottavi

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Moroder

60

Aurora

238

Oasi degli Angeli

66

Belisario

242

Poderi Capecci San Savino

70

Boccadigabbia

248

Polenta Elio

74

Bonci

252

Quacquarini

80

Bucci

256

Rio Maggio

84

Cantina dei Colli Ripani

262

Saladini Pilastri

88

Cantine Fontezoppa

266

Santa Barbara

94

Cantine Marconi

270

Santa Cassella

98

Casalfarneto

276

Sartarelli

102

Ciù Ciù

280

Spinsanti Catia

108

Colonnara

284

Strologo Silvano

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Conte Leopardi Dittajuti

290

Tenuta Cocci Grifoni

116

Costadoro

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Terre Cortesi Moncaro

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De Angelis

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Umani Ronchi

126

Fattoria Coroncino

304

Velenosi

130

Fattoria Dezi

308

Vignamato

136

Fattoria La Monacesca

312

Villa Pigna

140

Fattoria Laila

318

Zaccagnini

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Le Marche... l’orto del vino Dopo aver viaggiato, vissuto, visto e percepito, attraverso un contatto epidermico e umorale, i molteplici aspetti che caratterizzano e contraddistinguono le principali aree vitivinicole della Toscana, della Sicilia, del Friuli e del Piemonte, nel quinto volume della collana “I grandi vini d’Italia” ho voluto raccontarvi le Marche. A dispetto di ogni logica programmazione editoriale e contro il parere di qualsiasi strategia e opportunismo economico, eccomi qui, puntuale come ogni anno, ancora una volta, a presentarvi un nuovo libro che si prefigge, come quelli che lo hanno preceduto, di fotografare non solo la migliore produzione enologica di una regione italiana, ma di comprenderne, soprattutto, il suo divenire. Un nuovo volume, con nuove storie, non semplice da realizzare, poiché quello richiesto dalle Marche non è stato un impegno né facile, né tanto meno scontato. Anzi, devo dire che si è trattato di un lavoro articolato, lungo e impegnativo che in certi momenti mi ha confuso e ha richiesto da parte mia un’attenzione particolare fatta di estenuanti e lunghe degustazioni e di settimane vissute direttamente sul territorio, con visite giornaliere alle aziende. Dopo aver visto quali fossero gli aspetti della viticoltura in altre regioni italiane e aver percorso migliaia di chilometri, incontrando decine di produttori e aver degustato le loro produzioni enologiche in occasione di cene, incontri ufficiali, convegni, conferenze e presentazioni, pensavo francamente che in questo viaggio marchigiano tutto mi sarebbe stato più semplice. Ma non è stato così e non mi hanno agevolato neanche le oltre cinquecento cantine visitate in passato. Come se ne avessi avuto ancora bisogno, una volta di più ho ricevuto l’ennesima conferma che ad ogni azienda corrisponde sempre una storia che si integra perfettamente nel contesto socioculturale in cui opera; un contesto che resta unico e che non potrebbe mai essere replicato in nessun’altra parte del mondo. Storie inimitabili di uomini e territori, nelle quali si uniscono il saper fare con la tradizione, il

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passato con il futuro, le vecchie con le nuove generazioni, i sogni con i pregiudizi, le paure con i desideri, in un mix composto da una serie infinita di variabili sempre diverse fra loro che è necessario considerare con la massima attenzione e concentrazione per non rischiare di essere banali e ripetitivi. Un viaggio difficile, come al solito direi, ma che ha trovato spunto ed energia dal mio desiderio di curiosare, capire, osservare ed esaminare le esperienze e i modi che altri hanno di interpretare e concepire questo variegato mondo del vino. Mi sono lasciato piacevolmente andare nella descrizione di una nuova regione e di nuovi vignaioli, cercando di raccontarvi le caratteristiche di questi grandi solisti della vigna che ho scoperto essere, più che in qualsiasi altra parte d’Italia, poco avvezzi a “cantare in un coro”. Ho provato a stimolarli, a provocarli, cercando di abbattere quell’innata reticenza al dialogo che li contraddistingue, fornendo loro l’opportunità di raccontarsi e di sentirsi, per una volta, artefici della promozione del loro splendido territorio, contribuendo, attraverso questo mio lavoro editoriale, a dare lustro ad una terra che viene relegata ai margini del panorama enoturistico nazionale da stereotipi e luoghi comuni o dallo sciocco “sentito dire” di chi, con maggiore o minor merito, opera dietro a una scrivania. Da buon cantastorie, ho cercato di trasferirvi le molteplici emozioni, le passioni, la rabbia, le delusioni, l’amore, le gioie, le frustrazioni, i dubbi e gli interrogativi che questi produttori mi hanno trasmesso con i loro racconti e le loro storie di vita che ritengo siano letture perfette attraverso cui comprendere facilmente lo spirito che anima il comparto vitivinicolo di questa regione, anche e forse più del valore, peraltro soggettivo, che si può attribuire in una degustazione al terroir di un Verdicchio, di un Rosso Conero o di una Vernaccia di Serrapetrona. In queste pagine ho voluto descrivervi le “mie” Marche e l’ho fatto affidandomi a quel background in mio possesso, alimentato dalle molteplici esperienze raccolte nel corso di questo mio quinquennale viaggio alla scoperta del meraviglioso “vigneto Italia”. Eccomi quindi qui, nelle Marche, proposte

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anche nell’ottica dell’alternanza fra una regione vitivinicola di notevole importanza, come il Piemonte, che ho presentato con il volume del 2005, e una regione che, di contrasto, per me era catalogabile nella ristretta schiera di quelle “emergenti”. Già da qualche anno mi arrivavano, da più parti, segnali importanti di un suo risveglio enologico e, anche se giungevano un po’ tardivi rispetto al momento storico che aveva visto l’esplosione dell’enologia nazionale alla fine degli anni ‘90, decisi che quegli input meritavano, senz’altro, la massima attenzione. Non nego che facevo uno sforzo notevole a dare una location precisa a questa regione, non tanto per una soggettiva e scarsa conoscenza geografica dell’Italia, ma più per una difficoltà oggettiva di reperire nella mia mente un’immagine che fosse in grado di coniugare quel territorio a quelle emozioni gustative che percepivo nei vini; un connubio con il quale avrei potuto valutare la tipicità, la rintracciabilità e soprattutto la “marchigianità” di ciò che andavo degustando. Ma dove erano le Marche? Era questa la domanda che ogni tanto mi ponevo e alla quale, malignamente, qualcuno rispondeva che si trovassero appena sotto Rimini. Mi ritornarono alla mente lontani ricordi di un fanciullesco viaggio con mio zio Azeglio. Era il 1958, avevo appena sei anni e, se ricordo bene, a bordo di un camion Fiat Leoncino carico di libri, lo accompagnai nelle Marche, scoprendo per la prima volta non solo il mercato di Ancona, ma anche l’alba che mi abbracciò con un sole grande e rosso come non avevo mai visto prima, che sorgeva, con mia grande meraviglia, dal mare. Reminescenze che si arricchivano con altri ricordi, di vent’anni dopo, e precisamente con i miei otto giorni di CAR trascorsi a Fano o con memorie scolastiche di sanguinose battaglie tra Romani e Piceni o con lo studio più recente dei quattrocento anni di dominio esercitato su queste terre dalla Chiesa di Roma e l’utilizzo, da parte della stessa, dei marchigiani come esattori delle tasse, da cui il famoso detto che racconta “meglio avere un morto in casa che un marchigiano all’uscio”. Ricordi, memorie, studi, aneddoti e leggende che cercavo di interpretare e approfondire per conoscere meglio ciò che avrei incontrato di lì a poco e che comunque mi riportavano alla

sola cosa di cui ero davvero sicuro riguardo alle Marche e cioè che qui erano nati uomini del calibro di Raffaello, uno dei più grandi pittori italiani e di Leopardi, il padre della poesia moderna. Ma qualsiasi sforzo io potessi fare mi rimaneva difficile inquadrare questa terra, soprattutto perché non capivo il motivo per cui questa fosse l’unica regione italiana declinata al plurale: le Marche. Che cosa c’era e c’è dietro a quel “le” Marche? Quali culture, tradizioni, dialetti e abitudini di popoli e genti diverse? Quali sarebbero state le domande alle quali la mia penna avrebbe dovuto tentare di dare una risposta? Quanto avrei impiegato a comprendere questi vignaioli marchigiani? Tutto mi stimolava e fin dalle prime giornate trascorse in questa regione mi appassionai al viaggio, avendo la netta sensazione che qualsiasi azione io avessi intrapreso, queste terre si sarebbero spalancate ai miei occhi e mi sarebbero finalmente apparse come quel tesoro che percepivo nascosto un po’ ovunque io andassi. Ma non comprendevo il suo valore, né quanto lo stesso potesse essere importante: avevo solo la certezza della sua presenza e la cosa mi invogliava a cercarlo, pur sapendo che portarlo alla luce avrebbe significato un grande impegno di scavo che mi sarebbe stato reso difficile dalle paure e dalla diffidenza di quegli stessi interlocutori che, via via, andavo incontrando. Man mano che trascorrevano i giorni scoprivo paesaggi di una bellezza unica, composti da alte colline che si alternavano a valli che digradavano, trasversalmente, fino al mare. Tutto sembrava assomigliare ad un moto di onde che, increspandosi alte e possenti, precipitavano verso le valli sottostanti per risalire di nuovo su a comporre altre colline, dominate da antichi paesi che erano vigili osservatori di quei fiumi che scorrono nel fondo valle. Paesi ricchi di castelli e roccheforti, di cupole e campanili che svettavano come alberi maestri di antichi velieri sulle cui vele, spiegate al vento, sembravano disegnati i “greggi” delle case che sonnecchiavano indifferenti al mio passaggio. Terre che erano state un tempo feudi di grandi famiglie patrizie, di papi, di guerrieri e di


imperatori e che ora mi apparivano prive di quell’antica, nobile e fiera presenza, ma che trovavo tuttavia ricche di una genuina vitalità e che, via via, andavano colorandosi ora dell’oro del grano e del giallo dei girasoli, ora del verde ramarro dei vigneti o del rosso dei papaveri e del verde scuro degli olivi, ora del bianco crepuscolare delle spiagge di questo “selvaggio” mare Adriatico “senza tramonto”, come lo vide D’Annunzio. Camminando in equilibrio sulle cime di quelle colline avevo la netta sensazione che la strada che stavo percorrendo non fosse solo un confine fisico che separava due vallate, ma bensì uno spartiacque culturale fra mondi distinti che viaggiavano parallelamente senza mai incontrarsi, come i fiumi che scorrevano a fondo valle. Strade che sembravano delimitare perfettamente non solo il confine di quel plurale, “le” Marche, che era l’oggetto della mia ricerca, ma anche la definizione delle aree di competenza dei dialetti, che il mio orecchio percepiva come vere e proprie lingue, con vocali affossate nell’accento come scassi di vigne o come quei solchi di fossi che delimitano i confini dei campi. Dialetti duri, tipici, che non rappresentavano dei semplici modi di dire, ma racchiudevano in sé, storie, usi, costumi e abitudini diverse, difficili da comprendere per chi come me veniva da fuori e soprattutto perché, ahimè, qui non c’era nessuno che avesse la voglia di spiegarmelo. Quello che avevo scoperto era un plurale che ai miei occhi aveva molti significati e che un po’ nascondeva le discordanze che avevo percepito fra il nord e il sud di questa regione e le differenze che esistevano fra le stesse province, poche, vicine, ma fatalmente distanti. Quello che andavo scoprendo non era un sistema unico, ma molti sistemi, frammentati e in contrapposizione fra di loro, i quali certe volte avevano al contempo non un referente chiaro e preciso, ma più referenti, ognuno dei quali sembrava voler portare l’acqua al suo mulino. Viaggiando cercavo di scoprire quali fossero le anime che caratterizzavano queste Marche, provando a immaginare quanto avesse inciso la mezzadria in quella cultura contadina che giornalmente andavo visitando o quante e quali fossero le contraddizioni che mi raccontavano i limiti e i successi di quel benessere latente che

percepivo ovunque e che si era costituito sul duro lavoro di quel “metalmezzadro” che, per anni, aveva sostenuto l’industria e mantenuto viva l’agricoltura. Per lunghe settimane ho percorso strade tortuose che mi hanno condotto a cantine che, spesso, mi testimoniavano la qualità e l’eccellenza dei vini marchigiani e i grandi risultati ottenuti da questi vignaioli che silenziosamente, tenacemente, caparbiamente e onestamente hanno lavorato in maniera assidua per cambiare il corso delle cose, ma che, contemporaneamente e sistematicamente mi dimostravano, dall’altro lato, la loro complessa semplicità, i loro limiti comunicativi e la scarsa attitudine all’ospitalità. Non nascondo che, molte volte, demotivato per certe intollerabili mancanze d’attenzione e per la totale carenza dei più elementari canoni d’ospitalità, che credo meriti qualsiasi viaggiatore che si affaccia sulla porta di una cantina, sono stato intenzionato a voltare le spalle a qualche azienda che, invece, oggi è presente in questo libro. Per far questo ho attinto alla mia cocciuta determinazione, forgiata alla corte di quei testardi e veraci contadini friulani e piemontesi e che mi ha spinto alla comprensione e al buon senso. Nel loro insieme queste Marche mi sono apparse terre strane, anzi direi difficili e molto più complesse di quanto diano a vedere. Chiuse e restìe a farsi scoprire, risulteranno più percorribili che fruibili, ma è proprio questa loro unicità la forza che rende intrigante un viaggio nelle Marche, che deve essere condotto alla scoperta delle peculiari caratteristiche che creano il distinguo sia fra i vignaioli, sia fra le varie aree vitivinicole che caratterizzano il territorio. Devo assicurare che questi produttori mi sono apparsi personaggi veri, schietti, puri e semplici nel loro insieme, spesso però arroccati dietro a una riservatezza quasi ottusa che si chiude ancor prima di aprirsi e che difficilmente li conduce a una visione d’insieme, completa e costruttiva. Ognuno è dedito al suo lavoro, ognuno è attento a coltivare il proprio orticello, ma questi sono orti che, per concetto, risultano essere sempre piccoli e recintati, dentro i quali si produce e si respira quel tenace attaccamento al “frutto” che è tipico di chi ha avuto sempre poco da spartire. Orti che hanno consentito alla

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gente prima di sopravvivere e poi di costruire un futuro che fosse il più lontano possibile dalla miseria, di cui nessuno vuol più sentir parlare e che troppo spesso è nascosta in una pudica riservatezza che mi ha privato di quelle memorie storiche che sicuramente avrebbero arricchito i miei racconti. Con il passare delle settimane, nelle parole dei produttori intuivo un’impercettibile sensazione di disagio che non era riconducibile solo al malessere generale che da qualche anno ha colpito un po’ tutto il settore vitivinicolo nazionale, ma all’incapacità o all’impotenza di dare risposte collettive alle sfide che il mercato sollecitava. Nelle loro parole intuivo il desiderio di comunicarmi quante e quali fossero le grandi potenzialità che sanno offrire queste Marche e per scoprirle fino in fondo compresi che l’unica arma che avevo a disposizione e che avrebbe potuto aiutarmi a capire era nascosta nell’animo di quei vignaioli con i quali andavo interloquendo; essi erano nient’altro che la somma della cultura, delle tradizioni e della storia orale di quella terra che avevo deciso di raccontare. Anche i vini che andavo degustando mi regalavano splendide sensazioni, le quali, per la maggior parte, non erano classificabili con le esperienze precedenti, a testimonianza di una tipicità che incontrava, molte volte, anche l’eccellenza. Col passare del tempo mi accorgevo che la semplicità di quella ruvida provincialità contadina, che all’inizio mi era sembrata dura e spigolosa, aveva invece un suo grande fascino. Avevo la sensazione che si mantenesse in equilibrio con il tempo e con un livello qualitativo della vita che in molti, in altre parti d’Italia, vanno cercando. Era quel lento procedere che accompagnava la mentalità della gran parte dei produttori che mi entusiasmava, anche se comprendevo che quello “slow” risultava inadeguato ad affrontare le sfide della globalizzazione. Notavo che molti, pur percependo il bisogno di dare risposte concrete, erano protesi più a fare i vignaioli, che a preoccuparsi del come o del quando agire. Alla fine del mio viaggio mi sono fatto una personale idea della realtà di questa viticoltura marchigiana che ha grandi potenzialità, solo


in parte espresse, ma che giostra sui registri della ristretta volontà e dell’ingegno di pochi singoli vignaioli, molti dei quali, fino a pochi anni addietro, avevano scartato un confronto diretto con il mercato, preferendo sostenere, attraverso una buona produzione, aree vitivinicole di altre importanti regioni come la Toscana, il Trentino e il Piemonte, commercializzando per lo più del vino sfuso e perseguendo politiche produttive utili solo al soddisfacimento di un immediato e personale tornaconto. Così mi è sembrato di percepire che si fosse costruita un’enologia naïve, incapace ancora di promuovere, nel suo insieme, il “vigneto Marche” e che, risvegliatasi dal suo torpore, si era messa a correre improvvisamente senza una storica base culturale su cui costruire una progettualità. Posso comunque assicurare di aver visitato una grande regione e di aver conosciuto buoni vignaioli e delle gran belle persone alle quali auguro, attraverso questo mio libro, non solo di vendere qualche bottiglia di vino in più, ma di adoperarsi per sentirsi un po’ più marchigiani e meno ascolani, anconetani, maceratesi o pesaresi.

Andrea Zanfi





La storia dei vigneti marchigiani Le Marche si presentano ai visitatori con le loro colline modellate dal lavoro di uomini e donne che nei secoli hanno contribuito con il loro ingegno e con la loro fatica a disegnare un paesaggio variegato e spesso caratterizzato dalla presenza del vigneto. Le vigne con i loro filari contribuiscono alla piacevolezza del paesaggio marchigiano, si alternano ai campi coltivati e al bosco e sono la testimonianza dello stretto rapporto dei marchigiani con la loro terra e con la loro storia. Una storia antichissima quella della vite in questa Regione, dove, nei pressi di Ascoli Piceno, sono stati trovati reperti fossili di Vitis vinifera (la specie impiegata per la vinificazione) risalenti all’era quaternaria, ovvero ad un periodo che ha preceduto la comparsa della specie umana. A queste prime importanti tracce della presenza della vite nelle Marche, ne seguono altre relative alle prime fasi della civiltà Picena, come

testimonia il ritrovamento nei pressi dell’abitato di Matelica, in provincia di Macerata, di una tomba risalente all’VIII-VII secolo a.C., dove tra i ricchi oggetti che accompagnavano il defunto era presente un bacile contenente più di 200 vinaccioli di Vitis vinifera. La numerosità dei semi spinge a ipotizzare una provenienza da piante coltivate in loco. I Piceni, che popolavano il sud delle Marche, ebbero infatti contatti con gli Etruschi e da loro appresero alcune tecniche di coltivazione della vite. Alcuni secoli dopo, in epoca romana, il Piceno era ricco di terreni fertili dove la vite cresceva rigogliosa e dava abbondanti raccolti di cui si parla negli scritti di importanti autori latini come Plinio e Columella. La crisi dell’Impero Romano e la sua caduta portarono al declino di tutte le attività agricole, molti terreni furono abbandonati, il bosco riprese il sopravvento in molte aree e la viticoltura si modificò profondamente.

Le rigogliose alberate che avevano segnato il periodo dei Piceni e dei Romani lasciarono spazio a piccole vigne, spesso vicine alle città e chiuse da recinti (vigne concluse), dove le viti erano molto fitte e allevate basse. Le poche vigne coltivate di fatto si trasformarono in piccoli orti dove erano di solito presenti anche piante da frutto. La coltivazione della vite languiva, ma questa pianta e i suoi frutti continuavano ad essere radicati nel territorio, come testimonia se non altro la loro diffusa presenza nell’arte marchigiana del IV-V secolo d.C. con gli splendidi esempi negli scavi archeologici della cattedrale di San Ciriaco ad Ancona e nella cattedrale di Tolentino. Il valore simbolico della vite e del vino ha contribuito a salvaguardare questa coltura durante un lungo periodo di stagnazione commerciale a cui ha fatto sèguito una lenta rinascita iniziata nell’età dei comuni. Tra il

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X e il XIV secolo, quando ancora non si era registrato il rilancio della coltivazione, il motivo del tralcio di vite apparve frequentemente nei portali scolpiti delle chiese delle Marche. L’epoca rinascimentale ha poi portato ad un fiorire di commerci che hanno prodotto benefici effetti anche sullo sviluppo della viticoltura. Le migliorate condizioni economiche di alcuni ceti della popolazione hanno rinnovato l’interesse per la vite e il vino, la cui iconografia, ora conservata nelle chiese e nei musei delle Marche, viene ad arricchirsi ulteriormente. All’inizio dell’età moderna, le Marche hanno dato i natali ad Andrea Bacci (1524-1600), botanico e medico di Papa Sisto V, che dedicò gli ultimi anni della sua vita alla stesura di un trattato monumentale, “De naturali vinorum historia”, pubblicato nel 1596. L’opera di Bacci, suddivisa in 7 libri, tocca diversi aspetti dell’enologia del tempo e descrive i vini delle varie regioni d’Italia e dei paesi stranieri. Bacci descrive brevemente i caratteri dei vini (potente, sincero, generoso, gradevole, aromatizzato, cotto, crudo, ecc.) legandoli al territorio di produzione (Piceno, Ripatransone, Fermo, Offida, Macerata, Cluana, San Ginesio, Osimo, Recanati, Ancona, Sirolo, Senigallia, Fano, Gradara, ecc.) e talvolta alle varietà (Vernaccia, Greco, Lacrima, Trebulani, Malvasie, Moscatello, Vissane, ecc.). Bacci è un enografo entusiasta ed attento che intuisce il legame tra territorio e vino, anticipando l’attuale valorizzazione delle produzioni tipiche basate sulle denominazioni di origine. In quegli anni la mezzadria si era già ampiamente diffusa nelle Marche e i contratti stipulati tra i proprietari terrieri e i contadini spesso prevedevano il taglio degli alberi, la messa a coltura delle terre marginali e l’obbligo di piantare vigne e olivi. Nel XVI secolo il duro lavoro dei mezzadri modificò profondamente il paesaggio agrario della Regione: molti boschi furono tagliati, aumentarono i campi coltivati e le vigne concluse, che avevano segnato il periodo comunale, furono soppiantate dalle alberate poste al limitare dei campi in modo da segnarne i confini e non sottrarre terra fertile alla fiorente coltivazione dei cereali. Le viti maritate agli alberi e poste al margine dei campi coltivati hanno continuato a caratterizzare il paesaggio agrario delle Marche, così come di Toscana e Umbria, fino

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a tutta la prima metà del Novecento, quando il vigneto specializzato così come lo vediamo ora cominciò a prendere il sopravvento. Il vigneto specializzato, costituito da viti allineate in filari tra loro opportunamente distanziati per agevolare le operazioni colturali, seppure già consigliato da Columella in epoca romana, fu scarsamente adottato anche durante la ricostituzione viticola che si rese necessaria in seguito all’arrivo della fillossera. Questo piccolo insetto, la cui presenza nelle Marche fu segnalata nel 1890, 22 anni dopo la sua casuale introduzione nella Francia meridionale dal continente americano, provocò gravi danni a tutta la viticoltura europea con i suoi attacchi alle radici che portarono al deperimento e alla morte delle piante. In quel periodo, denso di cambiamenti politici e di poco successivo al passaggio delle Marche dallo Stato Pontificio al Regno d’Italia, si temette per la sorte della viticoltura e per la sopravvivenza delle varietà di Vitis vinifera fino ad allora coltivate. Nelle Marche, la morìa delle viti causata dalla fillossera portò ad una drastica contrazione delle superfici vitate che scesero dai 170.000 ettari del 1880 ad appena 60.000 ettari nel 1913. Sebbene da una lettera che Giacomo Leopardi indirizzò al padre per ringraziarlo del vino che gli aveva inviato in dono a Bologna si possa presumere un buon livello delle produzioni enologiche delle Marche, che secondo il poeta avrebbero avuto buone possibilità di commercio, l’analisi del comparto vitivinicolo marchigiano effettuata verso la fine dell’Ottocento mostra una situazione molto critica. Si dovette prendere atto della necessità di migliorare la qualità dei vini attraverso un percorso che comprendesse non solo il miglioramento delle tecniche di vinificazione e conservazione dei vini, ma anche un profondo cambiamento dell’organizzazione viticola, a partire dalla costituzione dei vigneti. Sul finire dell’Ottocento, nelle Marche l’appoderamento derivante dalla gestione mezzadrile aveva portato alla costituzione di numerosi piccoli fondi dove si coltivava la vite per la produzione di vino da destinare al consumo familiare. Le viti, escluse alcune piccole realtà di vigneto specializzato, venivano allevate lungo le alberate, dove erano “disordinatamente” presenti numerose

varietà con caratteristiche diverse, che venivano spesso raccolte senza troppo curarsi del grado di maturazione delle uve. La vinificazione poi sembrava non tenere in grande considerazione le numerose conoscenze che il mondo tecnico scientifico aveva fino ad allora prodotto sia nel campo della microbiologia che in quello dell’enologia. L’insegnamento in campo agrario cominciò ad essere sentito come una necessità e furono istituite le Scuole di Agricoltura e le Cattedre ambulanti che diedero un grande contributo all’evoluzione della vitivinicoltura regionale. Dal non felice quadro generale della viticoltura marchigiana di fine Ottocento, emersero alcune aziende capaci di ottenere premi internazionali con i loro vini. Nel 1876, all’esposizione universale di Parigi erano presenti un Sangiovese prodotto a Senigallia e un Lacrima proveniente da Fabriano. Nel primo dopoguerra si costituirono nuovi vigneti, le superfici vitate risalirono verso i livelli del periodo pre-fillosserico e prese avvio la trasformazione che ha portato all’attuale viticoltura, profondamente legata al passato, anche se costruita su nuove basi. Infatti le nostre tradizionali varietà di Vitis vinifera, originatesi nel corso dei numerosi secoli di coltivazione, furono innestate su “piede americano”, ovvero su varietà portainnesto di nuova introduzione, ottenute per incrocio di specie tolleranti provenienti dall’America. La ricostituzione viticola del primo dopoguerra dovette assoggettarsi ai vincoli imposti dalla diffusione della fillossera, ma non consentì quella razionalizzazione degli impianti che era stata auspicata a fine Ottocento: si continuò a privilegiare la coltivazione promiscua a quella specializzata, si mantenne l’uso di piantare diverse varietà frammiste lungo uno stesso filare e si rinviò la selezione dei vitigni “migliori”. Il ritardo nella selezione delle varietà da privilegiare nella coltura consentì di conservare in situ - on farm, come si usa dire ora per la conservazione della biodiversità vegetale direttamente nelle aziende agricole e non più presso le collezioni pubbliche, molti degli antichi vitigni. Questi vitigni erano ancora presenti sul finire degli anni ’60, quando fu avviato il turbinoso processo di ammodernamento della viticoltura, basato sulla nuova disciplina delle Denominazioni di Origine, e sono stati in parte

conservati in collezioni ampelografiche. Nella cultura viticola di questa Regione l’amore per la tradizione è forte, le novità non generano facili entusiasmi, ma vengono attentamente valutate prima di essere adottate. È stata forse la riluttanza ad aprirsi al nuovo che ha portato i viticoltori delle Marche a puntare sui vitigni di antica coltivazione come Verdicchio, Sangiovese, Montepulciano, Biancame, senza farsi travolgere dalla moda dei vitigni internazionali, che sono entrati a far parte del patrimonio ampelografico regionale senza modificarlo profondamente. L’attaccamento alla tradizione e la conoscenza del valore delle risorse genetiche locali spinge ora a valorizzare sempre più alcune varietà quali Lacrima, Vernaccia nera, Passerina, Pecorino, Aleatico e a riscoprire altre varietà che erano state dimenticate. Il successo ottenuto dai vini delle Marche sembra premiare l’accortezza e la tenacia di quanti hanno saputo inserire l’innovazione in un impianto complessivo fortemente legato alla tradizione e al territorio. È agli uomini e alle donne di questa Regione che Andrea Zanfi ha dedicato la sua attenzione in questo libro che non vuole affrontare gli aspetti tecnici della viticoltura e dell’enologia, ma mira a descrivere le persone, il legame con la loro terra e i loro vini. Sicuramente questa sua fatica consentirà di ampliare le conoscenze sul variegato panorama enologico della Regione Marche mettendo in risalto il fondamentale apporto dei tanti uomini e donne che si stanno dedicando con passione a rendere sempre più alta la qualità dei nostri vini.

Oriana Silvestroni Cattedra di Viticoltura - Facoltà di Agraria Università Politecnica delle Marche, Ancona






Una regione al plurale Le Marche, terra di confine, regione al plurale, terra di teatri e di campanili. Tanti slogans e tanti connotati per una Regione che ancora non riesce a crearsi una propria identità ben riconoscibile. È questa un po’ la sfortuna, e al tempo stesso la fortuna, di questa piccola Regione difficile da collocare nello scacchiere italiano, aperta al mare da una parte e delimitata dall’Appennino dall’altra, ricca di tante bellezze, di tanti tesori architettonici e di tanti giacimenti enogastronomici ancora inesplorati. Qui si producono vini unici, irripetibili prodotti da vitigni come il Verdicchio dei Castelli di Jesi, il Lacrima di Morro d’Alba, la Vernaccia di Serrapetrona che, anche solo a distanza di poche decine di chilometri, non danno lo stesso risultato. Un patrimonio prezioso e irripetibile fatto di 20.000 ettari di vigneti, di cui il 59% occupati da uve bianche e il 41% da uve rosse, dislocati su una grande parte del territorio regionale, ma con una superficie media per azienda di solo 0,85 ettari e una resa media di 13 t/ha per un totale produttivo di circa 1.800.000 Hl. Un panorama ampio di proposte enologiche che basano le loro aspettative su una qualità medio-alta di un’offerta importante sul mercato nazionale e internazionale che è andata, via via, ampliandosi grazie all’impegno profuso in questi ultimi anni dalla maggior parte dei produttori. Un lavoro attento di sviluppo e ricerca svoltosi parte in vigna e parte, grazie anche all’aiuto della regione, che ha contribuito con specifici finanziamenti alla modernizzazione delle cantine. Una situazione che potrebbe apparire ottimale se non si percepisse immediatamente il problema nel quale questa regione si dibatte ormai da anni che è quello di constatare che il vino marchigiano è sicuramente il prodotto che ha sofferto più di tutti dell’incapacità generale di costruire un sistema credibile intorno a questo territorio. La conseguenza logica è che oggi i nostri vini si trovano ad affrontare il mercato molto spesso sorretti solo dal marchio e dalla capacità imprenditoriale delle aziende che, con molta

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fatica, fanno da traino al territorio stesso senza trovare in esso un valido sostegno. Uno sforzo disumano se si paragona al sostegno, finalizzato alla comunicazione e alla promozione, che ricevono molte altre aree vitivinicole nazionali. Forse è arrivato il momento che da parte di tutti i produttori ci sia una maggiore coesione e una maggiore consapevolezza delle grandi potenzialità che ci offre questo territorio, che nel tempo ci ha fornito la certezza che i vini che produciamo non hanno niente da invidiare, per qualità e tipicità, a nessun altro vino italiano. È anche vero che per effettuare un ulteriore avvicinamento a quelle Regioni che da sempre sono considerate leader del settore e diminuire il gap comunicativo che ci divide da esse, è necessario attivare delle iniziative di promozione mirate alla valorizzazione di quel connubio ormai indivisibile che accosta la produzione vitivinicola al territorio. Una promozione per la quale c’è bisogno di unire ogni risorsa imprenditoriale, culturale e politica presente sul territorio e attivare, strategicamente, delle comuni forme di sostegno alla sfida che ci attende sul mercato globale. Sfida che con il passare degli anni sta diventando sempre più difficile, poiché l’offerta supera di gran lunga la domanda di consumo del vino nel mondo. Se è vero e necessario che si ricerchino risorse per la scuola, le infrastrutture, la famiglia e la sanità, è altrettanto vero che è necessario trovare risorse per valorizzare questo settore importante dell’agricoltura che tiene ancora ancorate sul territorio risorse umane, intelligenze e tradizioni che altrimenti andrebbero inesorabilmente disperse. Una viticoltura che, pur avendo una breve storia, ha saputo costruirsi una sua notorietà grazie soprattutto alle capacità di piccoli e grandi imprenditori che hanno creduto fortemente nelle potenzialità di questa terra e hanno saputo conservare, forse come in nessuna altra parte d’Italia, un forte legame con i propri vitigni. Ora è necessario che questo loro impegno sia suffragato da azioni a medio e lungo termine che proiettino i vini di questa regione alla conquista di nuovi mercati. Per fare questo è necessario puntare sul


territorio, che può divenire la nostra grande ricchezza, magari coinvolgendo e rinnovando il concetto dell’offerta turistica e costruendo con essa una maggiore fruibilità del territorio marchigiano al fine di creare quel “sistema Marche” con il quale potersi confrontare con il mercato internazionale con maggiori chances di successo. Sarà che parlare delle Marche, per un marchigiano DOC come me, significa collegare immediatamente la mia affettività, più vera e sincera, a questa terra che spinse la mia famiglia a dover emigrare, per lavoro, in Sardegna. Forse è anche per questo che mi interessa il futuro di questo territorio che oltre a possedere una bellezza sconvolgente contribuisce a produrre una grande qualità enologica che è sconosciuta a molti. Questa è una terra impastata da gente capace e volitiva, dove l’ingegno, da sempre, si sposa allo spirito imprenditoriale. Sarà forse per il profondo sentimento che nutro per questa terra, ma credo che qui vi siano tutti gli ingredienti affinché i vini della nostra regione, nel prossimo futuro, possano occupare il posto che si meritano tra i grandi vini del mondo. Buon lavoro a tutti.

Gian Luigi Calzetta Presidente Assivip

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Fra passato e futuro Nel titolo di questo volume sta l’essenza della vitivinicoltura della nostra Regione con i suoi pregi ed i suoi difetti. La coltura della vite nelle terre marchigiane ha testimonianze antichissime risalenti agli albori della civiltà Picena e del popolo omonimo. I Piceni erano già noti nelle opere dei classici greci e latini non solo per la loro fama di guerrieri, ma anche per la qualità dei prodotti che arrivavano dalle loro terre; testimonianze dell’epoca romana ci giungono da Plinio Il Vecchio che raccontava di oltre cento varietà

di uva coltivate in quest’area; nel Medio Evo, invece, si era quasi approntato un primo accenno di zonizzazione con una classificazione dei vitigni e la definizione delle aree di coltivazione. Questa ricchezza varietale è il fondamento del patrimonio ampelografico regionale che, pur avendo attraversato varie e complesse vicissitudini nel corso dei secoli, costituisce oggi quella biodiversità in grado di rappresentare il principale fattore di successo per la nostra vitivinicoltura.

La coltivazione della vite ha da sempre rappresentato una voce economica di assoluto rilievo, oltre che una caratterizzazione paesaggistico-ambientale che ha reso la nostra regione quel mosaico di vigneti ordinati che non mancano di impressionare quanti attraversano i dolci crinali delle nostre colline. Percorsi che riescono a testimoniare un antichissimo rapporto tra borghi, città e campagna. Un’interazione che sin dall’Ottocento ha contribuito alla nascita di aziende agrarie, formatesi con le risorse

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economiche degli inurbati, e fondate sul lavoro della famiglia contadina. Aziende in cui preponderante è stata la coltura dei cereali, che per secoli ha costituito la vera ricchezza dell’economia agricola marchigiana, ma che con il tempo si sono orientate verso le colture specializzate di vigneti e oliveti, dapprima per sopperire ai bisogni di autoconsumo e poi, negli anni, come nuove fonti di reddito e occasione di crescita economica. Analizzando la cosa in maniera critica, risulta che una delle tare che ha condizionato l’evolversi e lo svilupparsi del sistema strutturale del settore agricolo marchigiano risiede nel diffondersi, a partire già dai primi anni del Seicento, della mezzadria. La conduzione mezzadrile, sopravvissuta nella pratica fino agli anni ’60, è stata caratterizzata dall’estremo frazionamento poderale, voluto dai proprietari per sfruttare al meglio l’abbondante forza lavoro, dalla vessazione dei coloni, destinati ad un progressivo impoverimento, da una ripartizione colturale promiscua che privilegiava l’autoconsumo piuttosto che il mercato e che pertanto trasformava i poderi in isole autosufficienti in grado di produrre ciò che alla famiglia necessitava. Da questi fattori si evince la scarsa propensione agli investimenti migliorativi dei proprietari che, beneficiando delle rendite di più poderi, si assicuravano non solo quanto necessario alle loro esigenze, ma anche dei surplus produttivi che, fatti oggetto di mercato, garantivano anche introiti economici. Proprio per queste sue caratteristiche la mezzadria ha avuto strascichi rilevanti nella cultura imprenditoriale agricola marchigiana, impedendo uno sviluppo adeguato alle aziende anche dopo la sua abolizione. Dopo la graduale sparizione della mezzadria, i nuovi agricoltori, indebitati per acquisire il fondo dai “padroni”, si trovavano nell’impossibilità immediata di avviare uno sviluppo razionale e maggiormente produttivo e specializzato dei loro poderi che, anche per dimensioni, estremamente polverizzate, non potevano garantire redditività adeguata; così, per decenni, anche la vitivinicoltura si è rivolta essenzialmente all’autoconsumo e non al mercato. Solo con lo sviluppo della rete delle esperienze associative cooperative, che hanno svolto un


ruolo assolutamente positivo, si è avviata una nuova impostazione produttiva territoriale del settore vitivinicolo che però, per cause strutturali interne, non ha forse saputo evolversi adeguatamente, scontando oggi quel ritardo con cui si è proposta al mercato. Dal lato della promozione e della commercializzazione delle produzioni, nonostante che le Marche siano da annoverare fra le regioni a maggiore vocazione vitivinicola, esse non sono mai state capaci di porsi all’attenzione mondiale. I motivi sono svariati e possono essere ricercati nella cultura schiva dei marchigiani e nella posizione geografica che pone la regione decentrata rispetto alle grandi vie di comunicazione, come l’asse longitudinale Roma-Milano e quello trasversale TorinoVenezia, trovandosi schiacciata tra l’Appennino ed il mare, volta per i commerci più all’Adriatico che all’interno.

Già nel 1826 Giacomo Leopardi scriveva in un’epistola al padre: “E i nostri vini che noi mandiamo solamente a Roma e in piccole quantità, mentre ne abbiamo tanta abbondanza, non si venderebbero qui nel Bolognese [...]. Certo non fa per i possidenti di attendere al traffico; ma se nella nostra provincia ci fossero altri che vi attendessero, si arricchirebbero essi, e i possidenti avrebbero modo di vendere i loro generi a prezzi convenienti”. Solo a distanza di ben oltre un secolo nelle Marche si sta cercando di realizzare un “sistema vitivinicolo” in grado di dare risposte adeguate alle esigenze territoriali, ma anche ai nostri giorni c’è ancora molto da fare. Le prime iniziative promozionali, in Italia e all’Estero, negli anni del secondo dopoguerra sono state svolte dall’Unione delle Camere di Commercio, ma il sistema camerale non è mai riuscito, negli anni a seguire, a sostanziare

e a cristallizzare un progetto integrato di promozione agroalimentare adeguato. Solo in anni più recenti si è avviato un percorso che ha coinvolto tutta la filiera produttiva, interessando sia gli aspetti più prettamente produttivi e di miglioramento delle produzioni che quelli promozionali e commerciali. La crisi del mercato degli ultimi anni, soprattutto del vino in cisterna, ha fatto sentire pesantemente i suoi effetti anche nella nostra regione e nel Piceno in particolare. Date tali condizioni, per realtà distrettuali piccole e fortemente caratterizzate emerge l’assoluta necessità di costruire nuovi approcci verso il mercato. Occorre avviare un sistema produttivo che preveda la trasformazione, per quanto possibile diretta, e la commercializzazione, in maniera singola o associata, direttamente al consumatore finale.

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Tale strategia non può ovviamente prescindere da una forte opera di valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti tipici, resi riconoscibili e ben identificabili. Facendo riferimento in maniera specifica alla realtà della Provincia di Ascoli Piceno, in poco più di dieci anni l’intera filiera ha realizzato una forte ristrutturazione che ha coinvolto sia gli impianti di produzione (vigneti) che il settore della trasformazione con un ammodernamento diffuso e piuttosto capillare. Gli ingenti investimenti realizzati sono stati attuati sia utilizzando le possibilità di aiuto previste dalle misure legislative (PSR, ecc.), ma anche e soprattutto con l’impegno di ingenti risorse economiche immesse nel settore da parte degli stessi imprenditori agricoli. I produttori, in maniera abbastanza generalizzata, a sèguito della profonda ristrutturazione che li aveva visti impegnati all’ottenimento di più alti livelli qualitativi, avevano l’aspettativa di potersi garantire giusti rendimenti dai propri investimenti e dagli sforzi produttivi. Quest’aspettativa era giustificata proprio dal fatto che sino ad alcuni anni addietro il vino che veniva commercializzato in cisterna e in maniera “anonima” garantiva rendite più alte per le aziende vitivinicole, fondate essenzialmente sul lavoro familiare, quindi con costi di manodopera relativamente bassi. Tale tipo d’approccio di filiera aveva fatto ritenere superflui, ad eccezione di rari casi, gli sforzi volti alla promozione dell’immagine del vino attraverso strategie promozionali, di marketing e commerciali da indirizzarsi al consumatore finale e quindi al prodotto imbottigliato. Tale quadro fa comprendere come ancora oggi, allo stato attuale delle cose, i vignaioli della provincia di Ascoli Piceno, che presenta un’estensione di superficie vitata pari a circa 10.000 Ha e una produzione di circa 600-700 mila Hl di vino, non riescano a produrre più di dieci milioni di bottiglie. Questo dimostra che la trasformazione, la riconversione e l’ammodernamento dell’intera filiera produttiva non consentono, da sole, di far fare al settore quel salto in avanti verso il mercato. È indispensabile, quindi, un’adeguata promozione territoriale ai fini di una più qualificata commercializzazione.


Ciò che emerge con assoluta chiarezza è che fattori di successo sono ancora rappresentati dalla conservazione di un ottimo rapporto qualità-prezzo in primis e dall’identificazione dei vini con i territori produttivi, elemento quest’ultimo che ha contribuito a costruire un buon rapporto con il consumatore. Riteniamo che per il prossimo futuro sia necessario progettare ed investire in commercializzazione e promozione, non solo a livello internazionale, ma anche e soprattutto a livello nazionale, visto che da recenti ricerche emerge un sempre maggior interesse verso i prodotti marchigiani. Alla luce di questo è necessario che il nostro sistema produttivo si organizzi per raggiungere i potenziali consumatori in maniera coordinata ed adeguata, unendo produttori di dimensioni e capacità diverse, cooperative, trasformatori di media dimensione e aziende vitivinicole di medie e piccole dimensioni, al fine di creare un sistema vitivinicolo marchigiano vincente. In questa direzione nel Piceno ci si è mossi di recente con la costituzione di una società commerciale che, unendo le forze di diversi produttori di varie dimensioni e capacità, intende proporsi al mercato nazionale e internazionale con un’offerta vinicola capace di rappresentare la nostra area.

Ido Perozzi VINEA - Soc. Coop. Agricola

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La parola ai produttori e agli enologi:

“Il futuro della viticoltura e del vino nelle Marche. Opportunità e vantaggi, problematiche e incertezze” Parlare del futuro del Verdicchio significa ormai parlare di un vero e proprio distretto produttivo del vino che si è formato e che soprattutto negli ultimi anni si è arricchito di molte decine di nuove imprese che investono il loro lavoro e i loro capitali puntando su questo vitigno. Un segno importante di grande vitalità nel nostro bel territorio dei Castelli di Jesi. Il futuro del Verdicchio è legato, come quello degli altri vini del mondo, alla competizione crescente del mercato mondiale. Per questo è importante parlare dei due fattori che hanno sconvolto negli ultimi anni tutti i mercati e anche recentissimamente quello del vino: la globalizzazione da un lato e la postmodernità dall’altro. Globalizzazione significa che oggi già possiamo trovare vini australiani e sudamericani da noi (e domani quelli cinesi) con i prezzi, le qualità di quei paesi e le loro regole produttive che non sono necessariamente le nostre. Postmodernità significa soprattutto che il consumatore è ormai un individuo frastornato dalle migliaia di offerte, molto informato, che può agire nei consumi “a geometria variabile” - come dice De Rita - mescolando nell’abbigliamento una borsa di Gucci con una gonna di Zara e nel mangiare comprando nella salumeria più raffinata e contemporaneamente nel discount, mangiando a pranzo da McDonald’s e a cena nel ristorante pluristellato. Ora, di fronte a questa situazione, in tutti i settori sono state individuate diverse linee strategiche, ma nel vino se ne possono distinguere due fondamentali. C’è chi, da un lato, ha creduto nei cosiddetti vitigni internazionali (Cabernet, Chardonnay, ecc.), che tutti conoscono e tutti bevono. La loro è una strategia con buone probabilità di successo, perché offrono prodotti già conosciuti, già noti, che hanno un ingresso facile presso il consumatore mondiale, che si troverà poi così a confrontare lo Chardonnay californiano con quello australiano o quello siciliano. “Think global and act local” si definisce questa strategia: pensa globale e agisci locale. C’è chi invece utilizza un’altra strategia, che sta emergendo con più fatica e che non

sostituisce la prima, ma si affianca ad essa, la quale parte dal principio “Think local and act global” che significa che se si crede di avere una cosa speciale che esiste solo sul proprio territorio diventa strategico produrla al meglio; così facendo è molto probabile trovare uno spazio sul mercato e non perché è un prodotto già conosciuto, ma perché è un prodotto “diverso”. “Distinguersi o morire” dice il guru dell’impresa Tom Peters. Quindi chi punta sul Verdicchio deve sposare,

per forza di cose, questa seconda strada. Occorre però sapere che inizialmente è la strada più difficile, poiché bisogna comunicare molto e bene per costruire un’identità non equivoca che alla fine può creare dei vantaggi competitivi interessanti. Per seguire questa seconda strada occorre quindi lavorare su una visione di identità precisa che può essere della Marca e anche del Territorio. Ora si può dire che il Verdicchio ha in sé le caratteristiche per avere con questa strategia buone possibilità di successo e questo lo

dimostra il consenso ricevuto dagli enologi che stanno lavorando intorno a questo vitigno e i premi che i vari produttori prendono da fonti diverse. È chiaro che ciò di cui si parla sono opportunità e possibilità che si potrebbero costruire intorno a questo vino, ma non sono certezze, che peraltro oggi non può avere nessuno. Occorre però costruire un’identità che possa intraprendere strade non in contrasto l’una con l’altra, poiché il consumatore post-moderno sa di avere molte scelte e tende a fuggire dalle realtà equivoche. Ora, il Verdicchio può a pieno titolo presentarsi benissimo nelle fasce che rappresentano gli aspetti qualitativi del mercato del vino: la fascia media, che è la più consistente, quella del vino quotidiano, buono, genuino, ben fatto, con una sua riconoscibilità sensoriale e ha, per le caratteristiche produttive di alcune grandissime aziende ben organizzate, pochissimi concorrenti in Italia. Vi è anche una fascia più piccola e più alta, ma ugualmente interessante anche per i riflessi di immagine. Io credo che sia possibile lavorare su questi due grandi segmenti della piramide dei consumi vinicoli; è possibile, basta che i produttori non si adoperino per sciupare l’identità di questo vino, magari cercando soluzioni alternative e discutibili a basso prezzo pur di vendere o consentendo di gestire l’immagine di questo vitigno ad aziende imbottigliatrici poste fuori dalla zona DOC, ritrovando poi Verdicchi imbottigliati in Piemonte, Lombardia, Veneto o Lazio. Cosa penseranno i consumatori che degustano questi vini? Credete che da tutto questo esca un’immagine positiva del Verdicchio? Purtroppo la legge economica che il prodotto cattivo scaccia quello buono è sempre valida anche sull’immagine. Credo che questi siano i problemi seri da affrontare per delineare una comune strategia del nostro distretto che ha tutte le qualità per competere a testa alta sui mercati mondiali di domani.

Ampelio Bucci

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Il futuro del vino e della viticoltura è nell’industria e nella gestione industriale del vigneto e della cantina. L’industria ottimizza la resa e massifica il prodotto in ragione di uno standard riproducibile. La vigna non è composta da produttrici di uva che vanno rifornite e oliate, ma da individui con le loro caratteristiche di vigore e resistenza. Il Vigneto, se coltivato con armonia, è in grado di offrire peculiarità non riproducibili nella massa. Le Marche sono terra di grandi individualità, con un territorio estremamente collinoso e cangiante, dove insistono delle potenzialità rilevanti che si stanno rivelando con la diffusione del concetto di qualità. L’espressività del vigneto è legata a chi lo coltiva. Se il futuro del vino è nell’industria, come nel tessile l’eccellenza è nell’artigianato.

Lucio Canestrari

Credo sinceramente che la viticoltura marchigiana, al di là di facili campanilismi, rappresenti potenzialmente una delle realtà più esaltanti dell’ultimo decennio nel panorama enoico italiano. Credo che siano molti i fattori che mi spingono a tale affermazione fra cui mi piece ricordare il trend qualitativo medio assai elevato, la ricchezza varietale del territorio, che identifica i vini qui prodotti, la capacità evolutiva di alcuni vitigni, che consentono la creazione di vini longevi, e il fantastico rapporto qualità/prezzo che è facilmente riscontrabile anche nella gamma dei prodotti di punta di moltissime aziende. Sono queste alcune di quelle immediate argomentazioni che “venderei” ad un ipotetico consumatore perché riempisse la sua cantina di vini marchigiani così da fargli scoprire un’ampia soddisfazione nella loro degustazione, che lo condurrebbe, come mi capita spesso di sentire, al classico commento: “Non pensavo che nelle Marche si facessero dei vini così buoni…!” Purtroppo il nostro attuale limite è nella comunicazione, tradendo un po’ in questo la nostra marchigianità, che poi consiste nell’ottenere grandi risultati attraverso il lavoro, la pazienza e la tenacia, ma in silenzio, senza clamore, tenendo magari anche il capo un po’ chino.

Credo che sia giunta l’ora d’imparare a raccontarci, ad aprirci realmente al mondo e ad esternare con fierezza la nostra appartenenza, sbandierando a destra e a manca le nostre certezze ed i nostri successi… Non dobbiamo avere quella sciocca titubanza che ci spinge a non lodarci… e qualcuno sappiamo che lo ha fatto fino ad oggi vendendo fumo. Sono certo che se attuassimo questa politica i commenti negativi diventerebbero sempre più rari!

Aldo Cifola

Tralasciando per un attimo gli aspetti tecnici vitivinicoli, mi piacerebbe sottolineare che la viticoltura marchigiana ha grandi chances e ottimi punti di forza che proverei a racchiudere negli aspetti socio-culturali di questo complesso territorio sul quale vivono produttori che, nel tempo, hanno dato dimostrazione di saper rispondere eticamente al mercato e agli impegni presi verso terzi. Proprio partendo dalla centralità della collocazione geografica di cui godono le Marche rispetto al resto d’Italia, ritengo che sarebbe splendido valorizzare il patrimonio ambientale, paesaggistico, storico e monumentale di cui disponiamo, che è unico, e che fa da cornice ad un’agricoltura che ancora oggi propone un’interessante varietà di colture difficile da riscontrare in altre regioni. D’altro canto vi sono anche dei punti di debolezza, che riguardano soprattutto lo scarso know how di molte aziende nate negli ultimi anni, le quali da una parte si sono affidate a una schiera di professionisti che nei più svariati campi hanno interagito nell’attività imprenditoriale vitivinicola “mercificando” oltre ogni modo i servizi/prodotti offerti, facendo lievitare a dismisura i prezzi nel settore, mentre dall’altra parte hanno gestito gli investimenti come se operassero nell’orto di casa propria senza un’adeguata onestà culturale e imprenditoriale. Così si è potuto osservare che negli ultimi tempi molti considerano la produzione come variabile dipendente e la commercializzazione come variabile indipendente, causando alla lunga uno squilibrio dell’offerta sul mercato e agevolando la domanda dei canali distributivi come quello del D.O. e quello più grande del G.D.O.

Ecco perché ritengo che nel settore sarebbe auspicabile che vi fossero maggiori investimenti nella formazione delle risorse umane e in un’efficace politica di promozione e valorizzazione dei nostri vitigni autoctoni, oltre ad una concertazione operativa sulle risorse offerte dal territorio e dalla gastronomia, magari operando senza troppa improvvisazione. Quelle riportate sopra sono soltanto alcune riflessioni professionali che lo spazio messomi a disposizione non mi consente di approfondire, ma indubbiamente sono considerazioni di chi opera da molti anni in questo settore e lo giudica con occhi disincantati e pragmatici.

Marilena Cocci Grifoni

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Sono convinto che la Regione Marche, al pari e più di altre, rappresenti la più bella ed evidente espressione in termini di rivisitazione, progresso, sviluppo qualitativo e di immagine del proprio patrimonio vitivinicolo. La regione è ricchissima e variegata sia in termini di composizione dei suoli, che variano dai sabbiosi agli argillosi, dai compatti agli sciolti e ciottolosi, sia in termini di esposizioni e giaciture, con quelle stupende colline che degradano verso il mare che solo nelle Marche e, per la verità in Calabria, si possono ammirare. Se a questo aggiungiamo l’inestimabile patrimonio rappresentato dai due vitigni simbolo e bandiera di questa regione, vale a dire Verdicchio e Montepulciano e la grande

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imprenditorialità che, specialmente negli ultimi anni, è propria dei viticoltori marchigiani, è facile intuire quanto positivo potrà essere il futuro di questa regione. Vale la pena ricordare la grande adattabilità ai diversi terreni dei due vitigni e la possibilità di dare origine a prodotti importanti e allo stesso tempo diversi. Il Verdicchio che spazia da vino base per la produzione di grandi spumanti metodo classico o vini freschi e beverini, piuttosto che importanti strutturati e quindi di lungo nonché inusuale (per un vino bianco) invecchiamento. Il Montepulciano è in grado di dare vini rosati dalla grande freschezza e fragranza da bere giovani, sino a vini rossi unici non solo come

espressione varietale, ma soprattutto perché ricchi di carattere, personalità e struttura che si prestano, anche in questo caso, a lunghi invecchiamenti. Una bella ed interessante regione vista con apprezzamento dagli appassionati, ma anche dal mercato cosiddetto “normale”. Ho la fortuna di collaborare con aziende private e grandi strutture cooperative marchigiane che ringrazio per la grande opportunità che mi concedono di vivere con loro questa bella, interessante e, per certi versi, rivoluzionaria avventura enologica.

Riccardo Cotarella


La vitivinicoltura marchigiana ha conosciuto negli anni ‘90 un buon successo grazie al boom del settore vitivinicolo generale. Chi aveva un’azienda che operava da diversi anni ha consolidato sicuramente il suo ruolo leader, mentre altri nuovi imprenditori hanno investito nel settore con le difficoltà che scaturiscono dall’arrivare per secondi. Con la recente crisi dei consumi, sicuramente si è delineato un nuovo scenario, avendo da un lato la permanenza sul mercato, con relativo sviluppo, di aziende che hanno inteso in senso imprenditoriale la propria realtà vinicola, dall’altra le difficoltà di chi invece ha inteso l’attività vitivinicola come semplice speculazione o investimento alternativo al mattone. Ritengo comunque che le potenzialità delle aziende marchigiane siano notevoli, non tanto per le capacità produttive e qualitative che oggi si danno per scontate, ma per la peculiare originalità dei vini qui prodotti. Ritengo che proprio con questa forte caratterizzazione con la quale i vitigni autoctoni influenzano il “vigneto Marche” si sia potuta superare, in parte, quella omologazione che molti prodotti hanno a livello italiano e internazionale. È per questo che credo che gli enologi marchigiani abbiano lavorato bene, perché non si sono fatti troppo influenzare dalle nuove tecniche che permettevano la produzione di vini sicuramente più facili da commerciare, ma uguali a tutti gli altri. Gli enologi marchigiani hanno avuto il merito di rispettare la produzione delle uve e dei vini che con esse era possibile ottenere, lavorando con l’intento di ottenere il meglio senza togliere personalità ai propri prodotti. Questa, credo, sia la chiave del successo per i prossimi anni: essere diversi e riconoscibili, essere marchigiani.

Carla Fiorini

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A cavallo degli anni ’60 e ‘70 sono state prese, nel chiuso dei palazzi romani e della CEE a Bruxelles, le prime significative decisioni in ordine ai disciplinari dei vini a DOC delle Marche. Questi disciplinari sono stati praticamente imposti senza un confronto con i produttori del territorio, assicurando la priorità a certi vitigni, provenienti da altre regioni, in una sorta di colonialismo ampelografico. Spesso si trattava di vitigni estranei alla nostra tradizione colturale e di scarse qualità organolettiche, anche se di sovrabbondante produzione. Quindi nelle cantine si ebbero grandi quantità di vini, ma di scarsa qualità, destinati non

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al mercato, ma alle varie distillazioni da cui ricavare dei contributi comunitari. Analoghi contributi erano già stati concessi per gli impianti e, di lì a poco, sarebbero stati nuovamente concessi per gli espianti, prima che questi diventassero oggetto come diritti di reimpianto di un lucroso commercio anche con produttori di altre regioni. Quei primi e approssimativi disciplinari introdussero dunque la duplicazione di DOC di regioni vicine; un esempio per tutti il Sangiovese dei colli Pesaresi che faceva il “verso”, con assai poca fantasia, al Sangiovese di Romagna. Mentre un’altra DOC, il Bianchello del Metauro, ha conosciuto una breve stagione

di notorietà solo grazie all’interessamento di un produttore che puntava ad aumentare l’offerta del bianco quando il Verdicchio aveva ancora quelle ben note caratteristiche organolettiche graffianti. La “crisi del Metanolo” ha fatto vittime illustri anche nella nostra regione, ma partendo da quella crisi i produttori più avveduti si sono imposti un salto di qualità e, protagonisti di una costante crescita, hanno spesso raggiunto vertici di eccellenza. Questi produttori più avveduti si sono battuti per ottenere nuovi e più intelligenti disciplinari che hanno reso possibile la realizzazione di vini dalle qualità organolettiche più eleganti: basti


ricordare il riconoscimento di alcuni nostri vitigni autoctoni che erano andati perduti (Passerina, Pecorino). Non solo. I nuovi produttori ora sono anche bene attenti alla positura dei terreni, alla loro orografia e al particolare microclima; i nuovi impianti sono sempre preceduti da un’attenta analisi pedologica del terreno: tutte condizioni propedeutiche alla scelta di vitigni di comprovata resa qualitativa, in grado di assicurare la produzione di grandi vini che si distinguono per le originali qualità organolettiche. Ultimamente nella regione è stata introdotta una nuova Doc, il Pergola Rosso, con

l’intenzione di valorizzare un antichissimo vitigno presente nell’intera provincia di Pesaro: la Vernaccia Negra. La moltiplicazione di questi vecchi vitigni ha certamente arricchito il panorama viticolo marchigiano di un validissimo patrimonio genetico a rischio di scomparsa. Ma, soprattutto, ha contribuito all’esaltazione della tipicità dei nuovi vini prodotti in quelle cantine che hanno maggiormente capito quanto sia indispensabile un sempre più stretto collegamento tra vignaiolo e cantina e un sempre maggiore impegno del viticoltore in vigna. E se nelle cantine, con l’introduzione delle più appropriate tecniche di vinificazione, si

sono fatti passi da gigante, fino a raggiungere le sofisticate “eccellenze” dei maggiori produttori mondiali, nelle vigne si seguono ancora “regole” di produzione sorpassate, che sembrano ignorare lo stesso nesso esistente tra qualità dell’uva e qualità del vino. Tuttavia, negli ultimi anni si nota una maggiore, ma ancora timida, sensibilità per le cosiddette “zonazioni viticole”, destinate ad essere il volano per l’esaltazione di quelle particolari tipicità che i nostri vigneti potenzialmente sono in grado di offrire; caratteristiche che assicurano una facile e riconoscibile identità.

Pierluigi Lorenzetti

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La vitivinicoltura delle Marche negli ultimi 10 anni ha visto un grande sviluppo: sono stati rinnovati oltre 3500 ettari di vigneto, nei quali i moderni impianti predisposti per la meccanizzazione hanno visto aumentare i vitigni autoctoni mantenendo in equilibrio le varietà a bacca bianca e nera. La scelta di puntare sui vitigni autoctoni risale al 1982, quando la “globalizzazione” era una parola sconosciuta; la Regione, i produttori e le organizzazioni sindacali avevano capito che puntare sul territorio e sui prodotti tipici delle Marche poteva significare riuscire ad emergere nel panorama nazionale e internazionale. Grazie all’imprenditoria privata, fatta di piccole e medie aziende, accompagnate dalle strutture cooperative, i nostri vini hanno raggiunto traguardi impensabili (negli ultimi 5 anni ben tre aziende con vini prodotti da vitigni autoctoni hanno vinto a Londra il più alto riconoscimento enologico mondiale), l’utilizzo delle DOC è passato dal 7 al 22%, mentre le Indicazioni geografiche al 28%. Se a quanto detto, uniamo il grande rapporto qualità-prezzo, posso affermare che i nostri vini hanno varcato gli oceani e hanno contribuito ad accrescere il reddito di quanti hanno creduto e investito nel vigneto in questa regione. Purtroppo questa positività si scontra con la chiusura caratteriale, con la mentalità “feudale” dei marchigiani e con il grande frazionamento delle nostre aziende. E allora che fare? Credo che oggi occorra approfittare del cambio generazionale che sta avvenendo all’interno di molte aziende vitivinicole marchigiane, nelle quali molti giovani si stanno facendo strada, affinché si possa creare un nuovo winestyle, fatto non solo da persone laboriose ed attente al proprio orticello, ma da gente anche capace di unirsi e creare una proposta commerciale utile per superare quella massa critica necessaria per affrontare i mercati internazionali, dove le quantità unite al prezzo e alle caratteristiche organolettiche, uniche ed irriproducibili altrove, possono risultare vincenti. Altra iniziativa da concretizzare, per dar forza ai nostri viticoltori ed accrescere la voglia di investimenti, potrebbe essere quella di creare iniziative promozionali mirate aventi come slogan il nome delle nostre “Marche” con l’intento di far conoscere ai consumatori la

nostra Regione, che è unica, così come lo sono i nostri vini e i nostri viticoltori.

lunga paga sempre” e la tenacia e la saggezza dei produttori marchigiani sapranno ancora una volta avere la meglio.

Alberto Mazzoni Dino Porfiri Non è facile prevedere il futuro della viticoltura marchigiana in una realtà che cambia così velocemente, ma proverò ugualmente a descrivere quelle che credo essere le infinite potenzialità di una terra che per certi versi è unica e che, valorizzata e promossa in modo adeguato, può rivelarsi un vero “tesoro”. Sono profondamente convinto della saggezza dell’antico detto “chi taglia le proprie radici non ha futuro”, ed è per questo che credo che il duro e appassionato lavoro di tanti uomini e donne, che ha costruito quei “ricami agricoli” con i quali identifico i nostri vigneti, non debba andare perduto. Negli ultimi decenni abbiamo fatto dei grandi passi in avanti nel ricercare delle sinergie tra Istituzioni e produttori, al fine di promuovere insieme il territorio ed i prodotti tipici ad esso collegati, e ora più che mai è certamente il momento di continuare il cammino intrapreso. Soltanto azioni mirate a far conoscere sempre più la qualità della produzione vitivinicola della regione, con i circa 22.000 ettari coltivati a vigneto, le 14 tipologie di vino DOC e le 2 tipologie DOCG, potranno farci essere presenti ancora nelle preferenze dei consumatori. Azioni che hanno bisogno di: trasparenza - avendo la possibilità di creare una tracciabilità del prodotto che metta in condizione il consumatore di conoscere la storia di tutta la filiera produttiva del vino che sta bevendo; promozione - attivando una presenza costante del sistema territorio sul territorio stesso e all’estero, proponendo la ricchezza monumentale, storico-artistica presente nella regione abbinata alla promozione dei prodotti enologici veramente unici; ricerca e sperimentazione - attivando un’attenzione continua all’innovazione, che non significa stravolgere o ancor meno manipolare i prodotti, ma arrivare ad una produzione che grazie a nuove tecnologie sia proiettata al miglioramento della tipicità e della qualità dei vini. Il cammino non sarà certo facile, proprio in considerazione della difficoltà e dell’incertezza che si respira, ma credo che la “qualità alla

Il futuro della vitivinicoltura nelle Marche è da ricercare nell’opportunità di poter fruire il nostro passato. Partendo dal presupposto che non siamo e non saremo mai in grado di essere competitivi con le masse delle grandi plaghe viticole romagnole, pugliesi, siciliane o di quelle dei nuovi mondi, essendo la media della superficie delle aziende viticole marchigiane inferiore ad un ettaro, ci ritroviamo nell’impossibilità di avere importanti monopoli produttivi in grado di raffrontarsi con il mercato globale partendo da punti di forza riconoscibili e quantitativamente validi. Per sopperire a queste mancanze io, personalmente, credo che si dovrebbe puntare ancora di più sui vitigni autoctoni che culturalmente, storicamente e enologicamente rappresentano il genius loci delle quattro diverse “Marche”: il Bianchello della marca pescarese, il Verdicchio di Jesi e il Lacrima di Morro d’Alba della marca anconetana; la Vernaccia di Serrapetrona, il Verdicchio di Matelica e la Ribona della marca maceratese, il Pecorino, la Passerina, il Sangiovese e il Montepulciano della marca ascolana. È questa biodiversità il punto di forza, l’opportunità e il grande vantaggio sul quale deve contare il comparto vitivinicolo marchigiano, creando un modello intelligente di frammentazione qualitativa dell’offerta che deve essere in grado di distinguersi attraverso la diversità che diventa opportunità e novità sulla quale costituire lo stimolo per la scoperta di questo nostro territorio. Nel mondo globalizzato si naviga in oceani di Merlot, Cabernet, Chardonnay, Sauvignon..., mentre nelle Marche si naviga intorno a piccoli atolli, veri e propri giacimenti enologici tutti da scoprire. Anche se so che non è facile saper riconoscere e declinare questa ricchezza, è ancora peggio non riuscire a fare sistema intorno al mondo del vino, come è deleterio non saper prendere una posizione chiara nei confronti del mercato, con la conseguente difficoltà di determinare una pur minima strategia comunicativa o di marketing, che comunque non è mai stata


ancora approntata seriamente da nessuno e siamo ormai nel terzo millennio.

Roberto Potentini

La viticoltura ed il vino delle Marche rappresentano a mio avviso uno degli “embrioni” più interessanti dell’intero panorama vitivinicolo nazionale. Vorrei sottoporre all’attenzione del lettore i passi da gigante compiuti nel comparto negli ultimi venti anni; si pensi a quello che era la viticoltura marchigiana fino alla metà degli anni ‘80, in cui si assisteva ad un territorio costellato da una miriade di “micro” produttori agricoltori, i quali continuavano la produzione enologica più per tradizione che per convinzione, ricorrendo dunque a tecniche e modalità operative spesso non proprio corrette e scientificamente valide che per anni hanno dato dei risultati piuttosto esigui, ma forse non per questo inidonei alle richieste dei consumatori di allora. Si guardava spesso con una certa diffidenza alle scelte dei Toscani e dei Piemontesi che con paziente lavoro pionieristico sembrava volessero raggiungere qualcosa di non ancora ben chiaro o comprensibile. Ce ne rendiamo conto oggi; l’alimento vino aveva terminato la sua fase di bevanda fondamentalmente energetica e si avviava verso una nuova era caratterizzata dal consumo di piacere. Era giunto il momento di combinare l’esperienza e la tradizione con l’innovazione, in maniera tale da ottenere un connubio vincente. Fortunatamente la viticoltura e il vino marchigiano stanno ormai procedendo in questa direzione; dopo anni incerti, i produttori hanno compreso appieno il valore dei grandi vitigni che caratterizzano la regione, quali Verdicchio, Sangiovese e Montepulciano, troppo a lungo bistrattati, senza dimenticare le interessanti peculiarità di altri vitigni che, unici nel loro genere, danno vini altrettanto unici quali Lacrima, Aleatico, Vernaccia, Biancame, Pecorino e Passerina. Ora c’è da sfruttare questa unicità dei vini marchigiani come una grande opportunità, comunicando al consumatore la loro grande qualità, facendo forza sul buon rapporto qualitàprezzo che di certo non caratterizza, invece, la stragrande maggioranza dei cosiddetti “grandi

vini” conosciuti ai più. Sono questi gli aspetti su cui puntare sia per la sopravvivenza, sia per la crescita del settore che è chiamato a confrontarsi, nel nuovo millennio, con un mercato di indefinita vastità che mette a dura prova i produttori con una concorrenza spietata. Occorre in quest’ottica far buon uso

delle nostre conoscenze e del buon senso che spesso abbandona chi, abbagliato dal denaro, perde poi di vista una passione che accomuna tutti i veri vignaioli che fanno del proprio lavoro la propria vita.

Stefano Tonelli

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Le Marche...

l’orto del vino

ritratti di vignaioli marchigiani


ACCADIA Angelo Accadia e Maria Zitelli Non saprei da che parte incominciare o con quale frase iniziare a narrarti la mia storia; non so neanche se io abbia mai redatto un elenco delle cose, fin qui fatte, a cui attingere per rinfrescare la mia memoria e anche se abbia poi così tanta voglia di parlarti di me. Potrebbe succedere magari che io trovi piacere nel farlo, tanto da sentirmi parte integrante della storia stessa, o invece che trovi la forza di mantenere quel distacco, che appartiene ai saggi, così da riuscire a guardare la mia vita con occhi critici e, senza remore e

idilliache disquisizioni sul mio passato. No, non mi lascerò trasportare nel campo delle parole in cui tu sei maestro, ti parlerò invece per immagini, attraverso i colori forti con cui dipingo o forse attraverso le rappresentazioni di quelle similitudini della vita che arricchiscono queste tele che ci circondano, per arrivare tramite loro al vino che stiamo bevendo. O forse, invece, potrei parlarti attraverso delle metafore affinché tu possa comprendere chi io sia e quali possano essere state le ragioni

retorica. Queste banalità le lascio volentieri ad altri e sicuramente di storie del genere ne avrai sentite raccontare molte, tante, forse anche troppe nel tuo girovagare fra le vigne, le quali ultimamente sono sempre più frequentate da poeti e sognatori che, pur non sapendo minimamente dove stia di casa Calliope, sovente la scomodano per trovare pittoreschi escamotages culturali al loro business. È meglio che io invece rimanga ciò che sono, cercando di raccontarti senza troppi giri di parole quanto sia un tutt’uno con questo

paure, aprirla alla mercé della tua curiosità. Del resto venendo qua ti sarai accorto che io non ho un grande distacco dalle cose che mi circondano e poi, devo dire, non ho ancora ben capito quali siano le storie che tu vorresti sentirti raccontare da uno come me. Rasserenati: proverò lo stesso a parlarti, ma non so se le mie parole avranno il suono che ti aspetti e guardando questi quadri che riempiono queste pareti ne puoi comprendere il motivo, visto che mi sono sempre espresso meglio con un pennello che con una penna. Forse la miglior cosa che potrei fare è raccontarti di me attraverso ciò che vedi, senza lasciarmi trasportare in tenebrose o

che mi hanno spinto a lasciare Milano e a trasferirmi, con i miei pennelli, qui a Serra San Quirico fra queste colline pre-appenniche e avere la forza e la determinazione di cominciare un’altra vita nella quale ora faccio anche vino. Non ti parlerò delle difficoltà e dei momenti bui che seguirono a quella scelta; tutto assumerebbe un sapore vecchio e stantìo e, per uno come me che ama la vita e guarda sempre al futuro, comprendi che non ha molto significato il passato. Non ti parlerò neanche di quale sia l’affinità che c’è fra arte e vino, sarebbe retorico e, pur sapendo che tutto ciò è vero, non ti aspetti certo da me della

mestiere di vignaiolo. So di essere una persona che vive semplicemente del suo lavoro nel quale mette passione, ponendo sopra ad ogni cosa un grande rispetto per tutto ciò che lo circonda e soprattutto per la natura, perché è con essa che quotidianamente io mi confronto ed è da lei che traggo di che vivere e non mi permetterei mai di usurparla o distruggerla. Così, piano piano, ho imparato a convivere con le nuvole, il sole, la pioggia, il caldo e il freddo, e ho compreso, giorno dopo giorno, come questi elementi interagissero con me nella conduzione delle vigne, incidendo profondamente sul vino che produco.

e sempre meglio rimanere


‘

cio che siamo


ACCADIA Confidando nella divina provvidenza e senza manie di grandezza ho sempre cercato di stare con i piedi ben piantati per terra, dando sempre il massimo e lavorando a testa bassa, cercando di impegnarmi in una quotidianità che certe volte è difficile. Non ti nascondo che tante volte avrei voluto essere un uccello e volare via e una volta spiccato il volo, andare lontano, libero di raggiungere le case degli amici, le enoteche e i ristoranti sparsi un po’ ovunque guardando come quelle variegate persone apprezzino il mio vino e gratifichino il mio lavoro; su in alto ad osservare la capacità che ha il vino di essere il collante tra cose e persone diverse che nella quotidianità avrebbero avuto ben poco in comune. Come del resto io e te che cosa abbiamo in comune? Io imprenditore agricolo e tu scrittore, io che odoro di cantina e tu di libri, io che uso la tecnologia agricola e tu il computer, ma, anche così diversi, siamo qui a parlare di vino e io trovo che la cosa sia meravigliosa! Forse è per questo che sono così tanto attaccato a questo mestiere, perché con esso, come nella pittura, riesco ad andare oltre le parole e con le sensazioni e le emozioni che cerco di imprigionare nei miei vini, sono libero di raccontare i miei sogni, le mie passioni e ciò che sono. Così scopro di essere ogni anno un uomo diverso che ad ogni vendemmia si arricchisce di nuove esperienze, differenti e mai uguali. Ma non credo comunque sia solo questo alchemico meccanismo che regola la produzione del vino a farmi amare ciò che faccio, credo invece sia la possibilità che lo stesso mi dà di comunicare agli altri cosa faccio e ciò che sono, quello che in definitiva sei venuto tu oggi a scoprire. Non so se sono riuscito ad abbattere la mia riservatezza e a trovare le parole per raccontarmi, ma spero che tu, con questa degustazione che hai fatto, possa trarre degli spunti per il tuo libro sui vini delle Marche. La mia, in definitiva, è una storia semplice e credo di aver consumato tutte le parole per raccontarla e anche se così non è, non ho altro da aggiungere e, se ne hai voglia, il resto dillo tu che in questo sei più bravo.

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Riverbero Rosso Piceno DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano, Sangiovese e Lacrima, provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Ammorto, frazione Castellano, nel comune di Serra San Quirico, le cui viti hanno un’età di 12 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla e sabbia, sono posizionati ad un’altitudine di 370 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Montepulciano 60%, Sangiovese 30%, Lacrima 10% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4400 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda e terza decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 15 giorni ad una temperatura controllata di 25°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica e rimane per 8 mesi in acciaio, poi viene immesso in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo e secondo passaggio in cui sosta 12 mesi; travasato più volte in questo periodo, è messo in bottiglia senza filtrazione, per un ulteriore affinamento di altri 4-5 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4000-5000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso, il vino presenta al naso profumi di marasca sotto spirito, petali di rosa e viola appassita, note speziate di cannella, vaniglia e percezioni chinate e minerali. In bocca è equilibrato, piacevole, con tannini ben armonizzati ad una buona sapidità che conferisce lunghezza e persistenza. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2003 Note: il vino, che prende il nome dal riflesso di ciò che viene realizzato in vigna e in cantina da parte del produttore, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà di Angelo Accadia dal 1979, l’azienda agricola si estende su una superficie di 9 Ha, di cui 5 vitati e 4 a noceto, oliveto e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Gabriele Santoro e l’enologo Roberto Potentini.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Cantorì (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Conscio (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Consono (Verdicchio 100%) Innocenza IGT Marche Bianco (Verdicchio 50%, Trebbiano 40%, Malvasia 10%)

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ANTICO TERRENO OTTAVI Cesare Maria Ottavi …Dalla piantina di pomodoro all’albero più elevato, mentre si innalzano verso la luce affondano e ramificano sempre più le loro radici. In questo senso si può dire che crescere è discendere James Hillman, Il Codice dell’anima, Biblioteca Adelphi, 1998

mia nonna e, poggiando il capo sul suo petto, mi sembrava che niente nella vita avrebbe mai potuto colpirmi o farmi male. Con il passare degli anni le memorie di quei giochi liberi e spensierati lasciarono il posto ad altre emozioni che, comunque, mi spingevano a ritornare qui ogni volta che potevo. Mi affascinavano allora e mi stupiscono ancora oggi le cromìe dei colori che assumono queste colline che mi circondano e che si vestono, ad ogni stagione, con una livrea ricca delle infinite sfumature del verde o del giallo oro del

trascorrere il mio tempo fra queste vigne. Non nego che sono molto legato anche a Roma, poiché è la città in cui sono nato, dove ho studiato e dove, da trent’anni, come docente all’Università La Sapienza, insegno ingegneria elettronica. Lì ci sono i miei allievi, quell’affascinante mondo universitario che mi dato molto e mi ha fatto crescere come uomo; è a Roma che ci sono le mie tre società d’ingegneria elettronica con le quali sviluppo sistemi di comando/controllo, ma è qui che sono ramificate le radici di quella

Ogni volta che trovo un seme non resisto alla tentazione di piantarlo. È una gioia attendere che germogli e vedere spuntare quell’esile gambo mi dà la sensazione di assistere ad un miracolo. Non so spiegarmi i motivi di questa passione, ma credo che sia quel particolare gene che mi proviene da una stirpe contadina che ha radicato in me, in modo forte e profondo, l’attaccamento a questa terra. Quando vengo qui dalla caotica e frenetica Roma e mi ritrovo tra queste verdi e ondulate colline, assaporo una sensazione di sereno appagamento dello spirito; forse la stessa che provavo, da fanciullo, quando, durante le mie vacanze estive, mi ritrovavo tra le braccia di

grano, mentre i chiari e gli scuri disegnati dal passaggio della luce del sole danno, ad ogni ora del giorno, identità diverse alle stanze di questa casa. Da come ne parlo credo sia facile comprendere come questa campagna sia radicata nel mio cuore, ma ciò che maggiormente mi ha stupito è stato il fatto che, negli anni, ho scoperto di aver sempre più bisogno di respirare quest’aria familiare. Non so se ciò dipenda dal fatto che tutta la mia famiglia è originaria di queste zone o dal fatto che mio padre è nato in questa casa e mia madre a Serrone, in un paesino qui vicino; so solo che appena posso non perdo occasione di

genìa contadina a cui appartengo e che sento profondamente mia. Quando è morto mio padre, nel 1988, con mio fratello facemmo le consuete divisioni e dato che lui non aveva nessun interesse per la terra ne entrai volentieri in possesso incominciando ad occuparmi dell’azienda. Ma cosa farne? Quali colture praticare su quei pochi ettari che avevo in mio possesso? Avrei potuto continuare con quell’agricoltura promiscua impiantata da mio nonno e mantenere questa casa come una semplice dimora di campagna dove trascorrere qualche settimana di vacanza, ma per un ingegnere questo non era culturalmente possibile.

e grande il gesto di piantare un seme


nella terra e aspettare che cresca


ANTICO TERRENO OTTAVI

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Per anni ho ripetuto ai miei allievi che un ingegnere deve saper creare valore aggiunto a ciò che fa e che per lui i soldi non sono una volgarità, ma un bene attraverso il quale costruire il proprio e l’altrui benessere. Decisi di coniugare quella forma mentis con le memorie che mi avevano continuamente portato su questa terra, ricercando quale fosse la migliore soluzione che mi avrebbe consentito, nel breve e medio periodo, di dare redditività a questa proprietà. Guardandomi in giro scoprii che la viticoltura poteva essere una buona strada per raggiungere il mio scopo. Quella semplice equazione “costi-benefici” sembrava quadrare. Non conoscevo molto del vino e gli inizi, lo confesso, non furono semplici, visto che ignoravo sia le sue componenti specifiche, sia le sue discipline costitutive. Senza esitare mi tuffai a capofitto nello studio di questo particolare settore e, nel giro di qualche anno, stravolsi l’azienda impiantando nuovi vigneti e realizzando un tassello importantissimo nel processo di produzione: la cantina. Fu progettata da una grossa azienda, la EnoConsult che, abituata a costruire grandi cantine, all’inizio mi aveva un po’ snobbato. Riconosco che le loro perplessità erano anche comprensibili, dato che si trattava di mettere a regime una struttura che avrebbe vinificato solo un centinaio di quintali di vino, ma ne scaturì un piccolo gioiello di efficienza nella quale, in parte, ho potuto anche applicare le mie peculiari competenze di ingegnere. Non mi ci volle molto per comprendere che il problema non era impiantare una vigna o fare vino: la difficoltà maggiore consisteva nel creare intorno al prodotto un valore aggiunto, capace di costruire credibilità e spendibilità al vino, perseguendo la strada che avrebbe dovuto condurre non solo all’innalzamento delle sue specifiche qualità organolettiche, ma anche alla sua identificazione in un preciso e specifico territorio, sottraendolo, così, a una globalizzazione verso la quale non avrei avuto armi per combattere. La teoria era abbastanza semplice, ma la pratica era completamente diversa: erano solo pochi anni che producevo in un territorio dove ero l’unico vignaiolo che imbottigliasse. Come capita spesso, quando non si riesce a trovare il

bandolo della matassa, in mio soccorso venne la fortuna, che mi fece conoscere l’enologo Giancarlo Soverchia, il quale, osservando le mie vigne e la cantina, capì subito l’assoluta serietà dei miei propositi nel voler realizzare un vino di qualità che fosse in grado di coniugare gli standard qualitativi voluti dal mercato con questo territorio. Si appassionò a quella folle idea e, ancora oggi, è qui accanto a me e non smetto di ringraziarlo abbastanza per avermi consentito di ridisegnare nuovi orizzonti per questa azienda, introducendomi al mondo del vino in modo professionale. Oggi riconosco che i miei sforzi iniziali avrebbero prodotto ben poca cosa se non avessi seguito le indicazioni che mi venivano date da Giancarlo, il quale insiste per una costante ricerca nella vigna e una continua sperimentazione in cantina. Così è stato, e in fondo non ho fatto altro in tutti questi anni che ripetere quel gesto semplice che facevo quando ero bambino: piantare un seme nella terra e aspettare che crescesse. È stato così con questa azienda; ho piantato le vigne e con esse il seme della credibilità e della rintracciabilità per i miei vini con il riconoscimento della DOC I Terreni di Sanseverino. Ora aspetto che tutto cresca e che ciò che faccio diventi sempre più testimone del profondo legame che ho con questa terra.


Collemorra di Càgnore IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Càgnore, nel comune di San Severino Marche, le cui viti hanno un’età media compresa tra i 5 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 14 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine di media tostatura in cui rimane per 15-18 giorni, durante i quali è travasato più volte prima dell’imbottigliamento che, senza filtrazione, avviene nel mese di giugno, 18 mesi dopo la vendemmia e dove subisce un ulteriore affinamento di altri 18 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 9000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di confettura di prugne, more e lamponi maturi, con importanti percezioni di viola appassita che si aprono a note di liquirizia nera e cioccolato fondente, oltre a nuances di tabacco da sigaro toscano. In bocca è elegante, con una fibra tannica ben evoluta e una bella freschezza; piacevole, risulta inoltre lungo e persistente. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 2000 - 2002 Note: il vino, che prende il nome dal campo dove si trova la vigna, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Cesare Maria Ottavi dal 1985, l’azienda agricola si estende su una superficie di 25 Ha, di cui 9 vitati e 16 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Piero Perigè e l’enologo Giancarlo Soverchia.

Altri vini I Rossi: Pianetta di Càgnore IGT Marche (Vernaccia Nera 100%) Ribballa di Càgnore IGT Marche (Montepulciano 100%) Lisà IGT Marche (Vernaccia Nera 100%) I Filari di Càgnore IGT Marche Rosato (Vernaccia Nera 100%)

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AURORA Lorenzo Spaccasassi - Federico Pignati - Enrico Gabrielli - Franco Pugliese - Paolo Ciommi Viviamo in un mondo in cui l’unica certezza che abbiamo è che non ci sono più certezze, poiché accade spesso di scoprire che le idee e le convinzioni sono state partorite da false verità. È per questo che qualche volta ci sentiamo quasi come se appartenessimo a un’altra epoca, nella quale erano ancora vive e radicate le memorie storiche che non rendevano facile e agevole il passaggio fra passato e futuro. Abbiamo avuto comunque la fortuna di crescere in un tempo in cui percepivamo nell’aria un grande cambiamento;

cambiare il mondo e su come impegnarci per farlo, ora affrontando complicati discorsi politici, quando la politica aveva ancora il giusto significato, ora rincorrendo concetti così profondi e complessi che ci sembravano più grandi di noi. Idee, solo idee, sicuramente avanguardiste per quei tempi, ma che ci trasmettevano entusiasmo e contribuirono di lì a poco a innescare in noi dei grandi mutamenti. Quelle idee venivano sviscerate una per una, così da avere più chiara la strada per poter realizzare

provando a cambiare il corso della nostra vita. In quelle lunghe chiacchierate disquisivamo sulla storia di quelle Società di Soccorso Agricolo, tipiche dell’Ottocento, o di quelle prime forme di cooperativismo, socialista marxista, che contraddistinsero gli inizi del secolo passato o su quelle “comuni” anarchiche che stavano caratterizzando i nostri tempi, cercando di identificare quale fosse, fra quelle ipotetiche aggregazioni, quella che più ci calzava. Decidemmo che, accettando dei compromessi,

un nuovo vento, che portava l’annuncio di grandi trasformazioni sociali e lotte di classe. Si era alzato leggero, caldo, quasi impercettibile, ma dando subito l’idea che, di lì a poco, si sarebbe trasformato in un uragano che avrebbe spazzato via molte di quelle convinzioni che reggevano il mondo che noi conoscevamo. Quel leggero vento ci ululava nelle orecchie e ci spinse a guardarci dentro scoprendo che anche noi ci stavamo schiudendo a una visione più ampia e complessa di ciò che ci circondava, contribuendo anche a modificare e a strutturare, in modo radicale, dei nuovi e più ampi orizzonti. Da amici, al bar, discutevamo su come

quei grandi obiettivi che ci prefiggevamo. Erano pensieri puri quelli espressi in lunghe chiacchierate serali davanti a un bicchiere di vino. I nostri occhi erano sinceri e luccicanti di un grande e straripante senso di libertà e di indipendenza che non avrebbe potuto essere arginato da niente e da nessuno, ma, tutt’al più, arricchito dai nostri sogni che vedevano nella terra e nel valore che essa rappresenta, la loro giusta collocazione.

forse avremmo potuto optare per una comunità-cooperativa di stampo illuminista che fosse in grado di modellarsi alle nostre esigenze. È così che da trent’anni stiamo insieme. In questi anni ci siamo mossi in una logica di continuità culturale che non è mai venuta meno e anche se certe idee iniziali freak o legate al Peace and Love degli anni ’70 si sono modificate, questa nostra comune è la testimonianza che è possibile vivere in modo diverso dal modello dell’American Life basato sul business fine a se stesso. Un modo diverso di interpretare la vita che non disdegna la storia di questa terra di cui siamo figli, ma che ci consente,

Ma come avremmo potuto combattere quell’innato carattere, fortemente individualista, che ci segnava e che sapevamo appartenerci? L’avremmo scoperto solo stando insieme e

siamo come un blend, composto da


‘

cinque personalitĂ , diverse, ma affini


AURORA

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contemporaneamente, di sentirci cittadini del mondo scegliendo di affrontare la nostra quotidianità nel rispetto, nel reciproco aiuto e nel sostegno di chi ci sta intorno. Eravamo giovani in quegli anni Settanta e quella rivoluzione culturale, di cui qui arrivavano solo gli echi, era lontana, “dall’altra parte della luna”. Tutto ciò che arrivava si smorzava nell’atmosfera ovattata, chiusa e pigra della cultura paesana dove ancora predominavano, come stereotipo dei valori etici e sociali, la figura del farmacista, del dottore, dell’avvocato e del maresciallo dei Carabinieri. Ma quelle idee, portate dal vento sempre carico di novità, attecchirono in noi e cominciarono a far breccia nelle nostre menti rendendoci chiaro quali fossero le insidie racchiuse da quel “progresso economico” di cui tutti parlavano. Cominciammo a vederne le pecche e a intuirne ipocrisie e contraddizioni, comprendendo a quali illogiche conclusioni avrebbe condotto quella folle corsa verso l’ignoto che oggi è la causa dei molti problemi che affliggono il nostro pianeta che è, in definitiva, l’unico posto che abbiamo dove poter vivere. A distanza di tanti anni possiamo affermare che l’impegno che abbiamo profuso ha dato un giusto compenso ad ognuno di noi, ma non è certamente questo che ci ha spinto a non mollare mai; crediamo sia stato invece il grande senso di amicizia che ci lega, i valori comuni, la solidarietà, la condivisione dell’amore per l’ambiente che, nel tempo, è divenuto filosofia di vita; è stato il senso di libertà che ci dà il contatto giornaliero con la terra e il nostro vino che rappresenta il blend delle nostre cinque personalità che, pur essendo diverse, sono, fra di loro, affini. Abbiamo pensato di costruire quest’azienda agricola a nostra immagine e somiglianza ed è per questo che, da trent’anni, condividiamo il lavoro che ci ha portati ad acquistare altra terra dove piantare nuove vigne. Certamente tante cose sono cambiate lungo la strada, soprattutto quando sono arrivate le nostre compagne e con esse il rischio che l’esperimento fallisse per spinte centripete ed egoistiche. Era chiaro che l’amore per la propria donna conducesse verso un’autodifesa della propria sfera personale, mentre il nostro

agire spingeva verso l’esterno, verso il mondo, tutti insieme come un’unica, una sola persona. Dopo un naturale assestamento, dobbiamo dire che le nostre famiglie non ci hanno impedito di proseguire su questa strada comune; del resto nessuno di noi avrebbe potuto sopportare un simile fallimento. Nessuno avrebbe accettato l’idea di vivere una vita diversa da questa che, oltre a trasmetterci un grande senso di libertà, crea una piacevolissima sensazione di condivisione delle responsabilità e degli impegni e fa sì che ci

sentiamo tutti un po’ più leggeri. Queste sono le cose importanti per le quali abbiamo lottato, superando le tempeste delle incomprensioni, le mareggiate dei risentimenti, le bonacce dell’indifferenza e le risacche delle difficoltà personali; tutto ha contribuito ad aprire fra di noi dei dialoghi sinceri, franchi, schietti, che ci hanno messo l’uno davanti all’altro in un leale confronto che ha fatto germogliare il fiore della tolleranza, della consapevolezza, del rispetto e della fiducia e questo è stato quanto di più bello potesse accaderci.


Barricadiero IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è un blend della vinificazione delle migliori uve Montepulciano, Cabernet Sauvignon e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Contrada Ciafone, nel comune di Offida, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto tendenti all’argilloso con presenza di calcare, sono posizionati ad un’altitudine di 180 metri s.l.m., con esposizione a sud e sud-ovest. Uve impiegate: Montepulciano 75%, Cabernet Sauvignon 15%, Merlot 10% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 2500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dall’ultima settimana di settembre ai primi giorni di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e i mosti ottenuti si avviano alla fermentazione alcolica che si svolge per 10 giorni ad una temperatura di 30°C, per il Montepulciano in tini di rovere troncoconici, per il Cabernet Sauvignon e il Merlot in tini di acciaio inox; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che dura altri 20 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri e, nella prima fase, délestages ogni due giorni. Terminata questa fase, i vini effettuano la fermentazione malolattica nei rispettivi recipienti; quindi sono posti in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimangono per 12 mesi. Al termine di questo lungo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7500 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino scuro con punte purpuree, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi concentrati di frutti rossi e spezie dolci che si aprono a note olfattive di cassis e rabarbaro, fichi, frutta secca e cioccolato con l’uvetta. In bocca è fresco, equilibrato, con buona mineralità; ben armonizzato, risulta lungo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 2001 - 2002 - 2004 Note: il vino, il cui nome è di fantasia e che presenta in etichetta la rappresentazione della tradizione popolare carnevalesca di Offida (“lu bove finte”), raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Aurora società semplice agricola dal 1979, l’azienda si estende su una superficie di 29 Ha, di cui 10 vitati e 19 occupati da frutteti, oliveti, prati, boschi e seminativi. Svolgono le funzioni di agronomo e di enologo gli stessi soci.

Altri vini I Bianchi: Offida Pecorino DOC Fiobbo (Pecorino100%) Falerio dei Colli Ascolani DOC (Falerio 50%, Passerina 30%, Pecorino 20%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Superiore (Montepulciano 50%, Sangiovese 50%) Rosso Piceno DOC (Montepulciano 50%, Sangiovese 40%, Merlot 10%) Marche Rosso IGT Novello

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BELISARIO Antonio Centocanti Non pensavo, quando mi proposero la presidenza di questa Cantina Sociale, che il mondo del vino avesse così tante sfaccettature e fosse così variegato. Il mio impegno lavorativo come perito informatico e responsabile marketing di una prestigiosa banca locale occupava già abbondantemente il mio tempo, tanto che non vedevo come avrei potuto ricoprire un altro incarico così importante. In quel puzzle che erano le mie giornate avevo già fatto fatica a inserire l’incarico di vice sindaco del comune di Cerreto d’Esi, così rimasi titubante

che l’aveva privata di una vera progettualità strategica e di un programma operativo pluriennale; assenze, queste, che l’avevano trascinata in una disastrosa situazione economica. Sciolti i primi ingarbugliati problemi, decisi che avrei dovuto applicare a questa cantina quell’esperienza che avevo acquisito negli anni intorno ai numeri e provare a costruire il suo futuro solo ed esclusivamente su di essi. Compresi che per una cantina cooperativa vitivinicola come questa di Matelica, che

di Matelica, la nostra DOC, che rappresentava l’identità storica di questa nostra cantina e di cui oggi vinifichiamo quasi il 75% dell’intera produzione del territorio. A darci una mano, nel 1995, ci fu anche una sostanziale ripresa del mercato del vino. Non mi lasciai sfuggire quel risveglio e con l’aumento delle vendite non solo rividi l’iniziale programma di investimenti, allargandolo ad ogni singolo settore operativo, compreso quello commerciale, ma, contro il parere di molti membri del consiglio di amministrazione, diedi

per diverso tempo sull’assunzione di quel mandato. Le mie esperienze di consulente si erano costruite sulla realizzazione di centri di elaborazioni dati o su programmi di investimenti che avevano altre finalità e che richiedevano un approccio diretto e immediato con i bilanci, in quella logica bancaria che, da sempre, è regolata da semplici concetti amministrativi in cui due più due deve fare sempre quattro. Mi ci volle un po’ di tempo per decifrare le problematiche che interagiscono intorno al mondo del vino, come non nego che trovai difficoltà a venire a capo delle ragioni che avevano portato questa azienda ad uno stallo amministrativo particolarmente pericoloso

ricopre un importante ruolo sul territorio, non avrei dovuto mai farmi coinvolgere da quella poesia che aleggia intorno al mondo del vino, ma, al contrario, avrei dovuto essere preciso, programmatico, strategico e soprattutto attento ai numeri con i quali avevo sempre ottenuto ottimi risultati. Cercai di rimuovere immediatamente quella languida e apatica situazione in cui si era venuta a trovare la cantina, trovando i sistemi per rifinanziarla e dare così un’immediata liquidità al sistema; poi, con i miei collaboratori, rivedemmo i programmi di gestione, quelli di approvvigionamento e quelli produttivi, decidendo di scommettere tutto sul Verdicchio

avvio all’acquisizione di questo stabilimento, dove oggi abbiamo la nostra sede, che fu comprato direttamente dalla Regione Marche che aveva qui gli uffici dell’Ente di Sviluppo Agrario. Quel volano restìo a compiere il primo giro aveva incominciato a girare a pieno; ora si trattava di continuare a investire, dal momento che era ormai evidente che questa cantina era diventata un bene di tutti e, per questo, doveva essere continuamente tutelata e valorizzata. Con questa filosofia ci concentrammo sul programma che prevedeva l’innalzamento graduale, ma costante, della qualità dei nostri vini e, a tale fine, costituimmo una nuova impresa, “Viti

il difficile e far girare il volano che e


sempre restio a compiere il primo giro


BELISARIO

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e Vigneti”, con la quale, tutt’oggi, forniamo assistenza ai nostri soci e gestiamo direttamente diverse decine di ettari di vigneti con l’intento di portare in cantina uve di grande qualità. Tutto è stato fatto tenendo sempre d’occhio i numeri, monitorando costantemente le rese effettive che derivavano da ciascuna operazione e reinvestendo gli utili; questa strategia ci ha consentito di arrivare alla situazione attuale che vede l’azienda in una situazione florida e indebitata, se così possiamo dire, unicamente per quel mutuo sottoscritto anni fa con la regione Marche e ormai in via di estinzione. Comunque le sfide, i progetti e le iniziative qui non finiscono mai e oggi ce n’è una in

particolare a cui tengo molto ed è quella che ci vede impegnati a portare i nostri vini sui mercati internazionali, pur sapendo che ciò significherà lavorare, sotto l’aspetto commerciale, con nuove strategie di marketing e importanti investimenti. Non nego che forse sarebbe stato bello vivere lasciandosi trasportare dall’entusiasmo e dalla passione senza relegare ogni cosa alla sterile quantificazione dei numeri, ma è più forte di me: non riesco a lasciarmi coinvolgere facilmente dai sogni e, quando lo faccio, li affronto in modo controllato, soprattutto quando devo fare delle scelte. Credo che questo mio limite sia invece la dimostrazione di quanto io rispetti ogni singolo

socio di questa cooperativa. Non dimentico mai che qui siamo in una zona montana, con tutto ciò che la cosa comporta; come non dimentico che questa gracile economia si basa sull’agricoltura e in particolare sulla viticoltura, dato che ormai quelle poche industrie presenti sul territorio hanno, da anni, avviato un’opera di dismissione. È per questo che il mio impegno in tutti questi anni è stato quello di salvaguardare questa ruralità, contribuendo con questa cantina a renderla viva e pulsante e facendo sì che le numerose famiglie dei nostri soci si sentissero protette e partecipi di un più ampio progetto che ha come fine la tutela di questo ambiente, la sua salvaguardia e la sua costante bonifica.


Cambrugiano Verdicchio di Matelica DOC Riserva

Altri vini I Bianchi: Verdicchio di Matelica DOC Vigneti Belisario (Verdicchio100%) Verdicchio di Matelica DOC Vigneti del Cerro (Verdicchio100%) Verdicchio di Matelica DOC Terre di Valbona (Verdicchio100%) I Rossi: Colli Maceratesi Rosso DOC San Leopardo (Sangiovese 50%, Ciliegiolo, Cabernet Sauvignon e Merlot 50%)

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Balzani nel comune di Matelica, le cui viti hanno un’età compresa tra i 3 anni (nuovi impianti) e i 30 anni (vecchi impianti). Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di scheletro e argilla, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 450 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato doppio nei vecchi impianti, cordone speronato semplice in quelli nuovi Densità di impianto: 1666 ceppi/Ha nei vecchi impianti, 3500 ceppi/Ha nei nuovi Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura e all’immediata criomacerazione con un contatto delle bucce sul mosto che conduce la massa a una temperatura inferiore ai 6°C in un’atmosfera satura di anidride carbonica per circa 16 ore. Al termine di questa fase di macerazione, il mosto sulle sue vinacce viene avviato alla pressatura soffice e, dopo la pulizia statica, che avviene alla temperatura controllata di 14°C per circa 24 ore, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 25 giorni in acciaio; qui rimane per 2 mesi, al termine dei quali, dopo il primo travaso, il 20% della massa è messo in barriques di rovere francese a grana fine e di media tostatura dove rimane per 10 mesi e in cui svolge la fermentazione malolattica. Nel mese di settembre dell’anno successivo alla vendemmia viene effettuato l’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 10 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 40000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, mentre al naso offre profumi minerali che si spalancano a note floreali di camomilla, frutti a pasta gialla come la pesca, oltre al melone invernino e a nuances speziate di foglie di tè e timo che si aprono a sensazioni di agrumi. In bocca l’entratura è pulita, elegante, con una piacevole sensazione di vaniglia e una buona sapidità che conferisce al vino bella freschezza, lunghezza e persistenza. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1988 - 1994 - 1996 - 1998 - 2001 - 2002 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: la Belisario - Cantina Sociale di Matelica e Cerreto d’Esi è operativa dal 1971 e in essa conferiscono i vigneti e le uve oltre 180 soci che operano sul territorio dei due comuni, su una superficie complessiva vitata di 300 Ha. Collaborano in azienda l’agronomo Mario Ghergo e l’enologo Roberto Potentini.

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BOCCADIGABBIA Elvidio Alessandri Il mare appariva tutto quanto sereno, d’un verde soave, su cui si movevano, qua e là sparse, larghe macchie violacee, come ombre di nuvole fuggitive su una prateria novella. Il Monte Conero, nel suo semplice e grande lineamento, appariva appena rosato con non so quale interior luccichio di oro, quasi un tesoro nascosto da un velario. I moli si protendevano fuori, nel mare men chiaro presso la riva, come rigide, bianchissime braccia. (Gabriele D’Annunzio, Il Piacere)

Come il grande poeta, mai potrei pensare di stare in un posto che fosse lontano dal mare o, in qualche modo, di trovarmi nell’impossibilità di osservarlo al mattino, specialmente in quelle giornate d’inverno quando il vento di levante rende difficile veleggiare in questo nostro mare corto. Sì, è proprio così; più che un uomo di terra o di vigna credo di essere un uomo di mare che fa vino. Del resto non potrebbe essere diversamente, visto che mi sono accostato prima al mare che alla viticultura alla quale, quasi da astemio, ho incominciato ad interessarmi già in età adulta ritrovandomi al suo cospetto privo di qualsiasi cognizione tecnica, ma, anche, scevro da qualsiasi

convincimento precostituito. La semplice, ma rude mentalità contadina che produceva quei vini scorbutici, duri e spigolosi non mi era mai interessata. Quella sciocca convinzione, allora molto diffusa, che il vino buono fosse solo quello del contadino, che cambiava colore già nel trasportarlo dalla cantina alla tavola, non mi soddisfaceva e la rifiutavo, facendo arrabbiare anche mio padre che, da vignaiolo autodidatta, vedeva in me il suo più grande critico. Io non sapevo praticamente niente di questo

francese che, dopo il suo arrivo, aveva introdotto quei vitigni che, pur essendo stranieri, avevano invece trovato qui, dopo quasi due secoli, un loro stabile habitat che aveva contribuito a renderli unici e diversi da quelli impiantati in altre parti del mondo. Erano tante le testimonianze di quella trasmigrazione viticola qui in zona ed alcune sembravano essere sopravvissute allo scorrere del tempo. Grazie a quei vitigni cominciai a interessarmi alle testimonianze della breve ma importante

mondo affascinante che sta intorno e dentro a una bottiglia; ricordo solo che mi piacevano i vini francesi e, quando decidevo di aprire una bottiglia, volevo che il vino fosse elegante, equilibrato e possibilmente sapido, come il mare che amo. Quando mio padre decise che era giunta l’ora di abbandonare quella sua folle idea di vedermi, almeno per una volta, apprezzare il vino che egli produceva e mi passò le redini dell’azienda di famiglia, scoprii, con piacevole stupore, che qui nella zona, a Civitanova Marche, esisteva già una grande tradizione di vitigni francesi. Scoprii tracce importanti di una viticoltura che era stata portata da quella amministrazione

presenza francese, scoprendo come Napoleone III, dopo la sconfitta di Sedan, avesse risollevato le sue sorti economiche, durante il suo esilio a Londra, proprio vendendo il vino qui prodotto, ottenuto da vitigni francesi coltivati dall’agronomo Hallaire, amministratore dei suoi beni personali in Italia. Mentre riflettevo su queste memorie, ero un po’ dispiaciuto che del vino marchigiano fosse servito solo per impinguare le casse dell’ex-imperatore senza che la cosa avesse creato un minimo vantaggio di notorietà a questa terra. Queste piccole riflessioni mi fecero comprendere che partendo da quella storia avrei potuto iniziare il mio cammino di vigneron, anche se, guardandomi intorno, capii

non volli seguire nessuno,


solo il mio istinto e l’odore del mare


BOCCADIGABBIA

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che in questa terra era tutto da ricostruire. Erano i primi anni Ottanta e da noi era ancora scarsa, o quasi nulla, l’attenzione verso il territorio e completamente sterili i rapporti tra i vari produttori; una visione ristretta del sistema vitivinicolo, inoltre, rendeva vana qualsiasi iniziativa: era un settore che si movimentava solo grazie all’iniziativa di qualche singolo vignaiolo che agiva peraltro solo per interesse personale. Quando si parlava di Marche, le rare volte che ciò accadeva, si esaltavano solo le peculiarità del Verdicchio ed io, che ero lontano dalla zona di Jesi, cosa avrei dovuto fare, dato che avevo, intorno a me, solo una piccola ma interessante tradizione di coltivazione di vitigni francesi? Quale strada avrei dovuto intraprendere per produrre un vino spendibile sul mercato nazionale e internazionale? La storia mi indicava un percorso, il mercato un altro e fu così che decisi di seguire il mio istinto e produrre vini che mi piacessero. Non ci volle molto per capire di aver scelto il percorso più arduo, irto e difficile, ma che, tuttavia, risultava l’unico che mi avrebbe consentito di stappare e godere di una bottiglia di vino come desideravo. Oggi sono contento delle mie scelte e quando posso, mi siedo alla finestra del mio ufficio e, con un bicchiere di vino in mano, osservo il mare in lontananza e, con calma, vado a confrontare quello che degusto con quello che vedo, accorgendomi, ad ogni vendemmia che passa, di riuscire a coniugare sempre meglio i sapori morbidi, intensi, amarognoli e salmastri del mio vino con la brezza marina che respiro e che affolla costante tutte le mie memorie giovanili. È avendo nella mente ben chiara questa immagine che mi piace raccontare il mio vino, quando vado in giro per il mondo. Faccio un po’ come i Francesi, con quel loro modo speciale di sentirsi vignerons, di raccontare chi sono, cosa fanno e come ottengono i loro risultati con la responsabilità cosciente di chi, in prima persona, effettua le scelte per la propria azienda. Non c’è nessuno meglio di un vigneron che possa rappresentare le passioni e l’impegno che legano alla terra; nessuno meglio di lui può descrivere lo speciale vincolo che lo unisce alle proprie viti, al proprio vino,

al mondo dal quale proviene. Dopo tanti anni non mi sento ancora stanco di viaggiare e di questa passione devo ringraziare l’esempio che mi ha dato mio padre che, fino a quando ha potuto, è sempre andato in giro con la sua Alfa Romeo a commerciare pellami. Da lui ho imparato l’arte del commercio, ma anche l’ottimismo e il saper guardare oltre i limiti angusti, fisici e mentali, che racchiudevano questo territorio marchigiano.

La strada che avevo intrapreso conduceva lontano, poiché non si trattava più di produrre il vino per la famiglia o per pochi amici, come faceva mio padre, ma per una clientela sconosciuta, sparsa un po’ ovunque per il mondo, che non avrebbe accettato nessun cambio di colore o di gusto in ciò che beveva, una clientela alla quale ho sempre cercato di far arrivare questo mio messaggio composto dal mare, dalle vigne e da questo territorio.


Akronte

IGT Marche Cabernet Sauvignon

Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon provenienti dal vigneto dell’azienda posto in Contrada Castelletta nel comune di Civitanova Marche, le cui viti hanno un’età di circa 15 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova su un terreno sabbioso-argilloso, è posizionato sulle prime colline che salgono dal mare, con esposizione a sud. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica e contemporaneamente alla macerazione sulle bucce che avviene in recipienti di acciaio inox per 15-20 giorni alla temperatura di 25°C; in questo periodo vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura, per un 50% di primo passaggio, in cui rimane per 18-20 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e il vino ottenuto, dopo un periodo di stabilizzazione e una leggera chiarifica, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: da 7000 a 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino vivace, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi speziati di liquirizia, rabarbaro e china che si aprono a note erbacee di menta e percezioni di frutti neri come il ribes. In bocca è caldo, sapido, equilibrato, con tannini ben armonizzati; lunghissimo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1990 - 1995 - 1997 Note: il toponimo Akronte è l’antico nome longobardo del torrente Caronte che delimita a sud i vigneti dell’azienda. Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà di Elvidio Alessandri dal 1956, l’azienda agricola si estende su una superficie di 35 Ha, di cui 25 vitati e 10 occupati da oliveto, seminativi e altro. Collaborano in azienda l’agronomo Giovanni Basso e l’enologo Fabrizio Ciufoli.

Altri vini I Bianchi: La Castelletta IGT Marche (Pinot Grigio 100%) Montalperti IGT Marche (Chardonnay 100%) I Rossi: Pix IGT Marche (Merlot 100%) Saltapicchio IGT Marche (Sangiovese 100%) Il Girone IGT Marche (Pinot Nero 100%) Rosso Piceno DOC (Montepulciano 50%, Sangiovese 50%)

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BONCI Giuseppe Bonci Col passare degli anni ho compreso sempre più che nella vita io avevo un destino prestabilito, che era quello di fare il vignaiolo e che tutto era già stato scritto, affinché io continuassi la tradizione vitivinicola di famiglia. Eppure c’erano stati anche lievi segnali affinché ciò non accadesse, ma sono caduti nel vuoto e non hanno modificato di una virgola ciò che per me era stato predestinato. Mia madre Lina e mio padre Mario mi incoraggiarono a uscire da quel loro mondo fatto di insicurezze e costanti difficoltà e,

O chissà, invece, dove sarei arrivato se fosse stata accettata la domanda che avevo fatto per arruolarmi nell’Esercito Italiano come Ufficiale. Non lo saprò mai, anche perché, quando la presentai, non pensavo certamente che fra i requisiti richiesti per l’ammissione vi fosse il diniego all’appartenenza ad uno schieramento politico. Scoprii più tardi che, a quei tempi, una prima ma radicale scrematura a quelle domande di ammissione era dettata dalle informazioni che ricercavano i carabinieri della tenenza di

volta sull’uscio di casa per chiedere un banale bicchiere d’acqua o anche il permesso per benedire la casa, consenso che del resto mia nonna, da buona cristiana, gli avrebbe dato più che volentieri. No, non l’ho mai capito quel prete e del resto, come avrei potuto farlo? Ricordo comunque che non soffrivamo molto per quel suo comportamento e la cosa ci scivolava addosso: qui c’era da lavorare e poco altro a cui pensare.

con molti sacrifici, si impegnarono per farmi conseguire il diploma di perito elettrotecnico, nella speranza che potessi avere un futuro diverso. Certe volte mi domando come sarebbe stata la mia vita se avessi avuto l’opportunità di entrare in una di quelle industrie, che agli inizi dei primi anni ’60 qui nelle Marche avevano aperto i battenti un po’ ovunque. O chissà come sarebbe stata la mia vita se fossi riuscito ad entrare all’ENI nel momento in cui il marchigiano Mattei ne era il presidente. Ipotesi nelle quali, non lo nego, io avevo riposto anche delle speranze, che però erano crollate presto, poiché avrei dovuto avere quelle conoscenze e quelle amicizie giuste che, invece, non avevo.

competenza. Spesso, quando non conoscevano il soggetto, richiedevano altre informazioni sulla sua moralità al prete del paese, il quale mi definì “soggetto proveniente da una famiglia dichiaratamente comunista”. Per lui l’appartenenza di mio padre e di mio zio a quello schieramento politico era un marchio indelebile e pericoloso. Fu così che quella mia richiesta fu respinta. Per anni l’ho visto scivolare via silenzioso, senza mai fermarsi a parlare con noi. Passava dall’altra parte della strada, quando scendeva da Cupramontana, dritto e senza mai voltarsi verso la nostra casa. Eppure abitavamo a qualche chilometro dal paese e avrebbe potuto affacciarsi qualche

Mi fa sorridere, oggi, pensare che la nostra storia di vignaioli è partita con due soli ettari, acquistati da mio padre e da mio zio nel 1952. A quelle poche vigne man mano se ne aggiunsero altre e poi altre ancora, fino a costituire una piccola ma funzionale azienda vitivinicola, alla quale la famiglia mise il nome di Valle Rosa. In ogni modo fu nel 1959 che iniziò la realizzazione di una vera e propria cantina alla quale fin da subito venne data un’impronta commerciale, arrivando, agli inizi degli anni ’80, a vinificare anche 30.000 quintali di uve e a imbottigliare fino a un milione e mezzo di bottiglie da un litro, come voleva il mercato di allora. Quelle grandi quantità richiedevano un

sono bastati due soli ettari di vigne


per tracciare il solco della mia storia


BONCI

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impegno e una dedizione totale da parte di ogni elemento della famiglia e anche se ci inorgogliva il fatto che quella piccola azienda di due ettari fosse cresciuta, lo sforzo richiesto non era conforme ai risultati ottenuti. Erano gli anni in cui si cominciava a percepire una crescente crisi nel vino, poiché sempre più ci dovevamo confrontare sul mercato con le cooperative vitivinicole che, grazie al supporto dei sussidi economici ricevuti dallo Stato, riuscivano a praticare prezzi per noi impensabili. La morte di mio padre, che avvenne nel 1981, e la perdita del suo grande contributo mi convinsero che era giunto il momento di dare un sostanziale cambiamento alle strategie aziendali con le quali intendevo rivalutare l’intera filiera produttiva di ciò che eravamo in grado di coltivare direttamente, dedicando scrupolosa attenzione all’innalzamento del livello qualitativo della nostra produzione. Avevo compreso che il mercato stava cambiando e che vi era una crescente domanda di qualità nel vino, il quale non veniva più visto come un elemento importante dell’alimentazione quotidiana, ma come un piacevole prodotto con il quale accompagnare una gastronomia che incominciava a diventare sempre più ricercata e ricca. Un cambio radicale di mentalità per un mercato che non aveva più interesse per la quantità, ma che si orientava invece verso la qualità. Si trattava di una grande trasformazione sociale che coinvolgeva un po’ tutta la filiera agroalimentare e, di conseguenza, tutto il comparto agricolo. Quel lento ma inesorabile mutamento richiese però del tempo per essere assimilato, soprattutto da chi aveva sempre vissuto la campagna in modo profondo, con un rapporto di forte dipendenza con la terra attraverso la quale più si produceva e meglio si sopravviveva. L’abbattimento di questi vecchi concetti e pregiudizi provocò anche all’interno della mia famiglia molte discussioni, che non sono sempre state facili da superare, ma che, nel tempo, mi hanno condotto a costruire l’azienda che volevo io: di dimensioni umane, funzionale, nella quale poter far coincidere la qualità della filiera produttiva con l’innovazione, l’esperienza con la ricerca, prestando la massima attenzione a tutti i processi che interagiscono per l’ottenimento di un grande risultato.

Sono passati tanti anni e con molta serenità devo dire di non aver alcun rimpianto, anche perché credo di aver accondisceso a quel destino che qualcuno aveva scritto per me e di aver fatto nella mia vita quello che mi è stato dato in sorte di fare, vale a dire il vignaiolo. Non rimpiango di essere rimasto affascinato e entusiasmato dal mondo del vino e di aver assecondato quei sentimenti che mi hanno permesso di far crescere quest’azienda, come non ho rimpianti per aver fatto solo ed esclusivamente il vignaiolo, né di far parte di una famiglia che ha costruito la propria storia su questo territorio che sento profondamente mio. È una storia complessa che ha attraversato più di mezzo secolo, durante il quale la viticoltura e l’enologia si sono trasformate completamente e in questo veloce e radicale cambiamento si sono venute a creare situazioni positive e altre negative che devo dire, con orgoglio, ho saputo affrontare. Un mare tumultuoso e difficile, un mercato in continuo mutamento che ha provocato alti e bassi nella vita di un’azienda vitivinicola ed è forse per questo che, dopo tanti anni di duro lavoro, avrei voluto dare alle mie figlie maggiori sicurezze rispetto a quelle che invece sono riuscito a costruire per loro, così da non farle stare in apprensione come lo sono stato io tutte le volte che c’era un’annata difficile per una vendemmia complicata o per un semplice sussulto del mercato enologico.


Rojano Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Passito Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti da un vigneto dell’azienda, posto in contrada Valle nel comune di Cupramontana, le cui viti hanno un’età di 15 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla, tendenzialmente calcarei, è posizionato ad un’altitudine di 400 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: le vendemmie avvengono, dopo un lungo appassimento in pianta, in parte nella metà del mese di novembre e in parte nella seconda decade di ottobre. Le uve vengono poi appassite su graticci fino alla metà di gennaio, quindi si procede alla pressatura soffice delle uve appassite e, dopo una pulizia statica del mosto, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 60 giorni in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di secondo e terzo passaggio dove il vino sosta per 8 mesi. Al termine di questo periodo si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 5-6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; al naso offre profumi complessi che spaziano dalla frutta secca all’albicocca appassita, dai canditi al miele di acacia, con note di tostatura e di fieno secco e un finale di mallo di noce e percezioni speziate di vaniglia e smalto. In bocca è avvolgente, pieno, dolce, morbido, caldo, con un’entratura elegante, rotonda e una buona sapidità; fresco, lungo e persistente, con un finale che ricorda i fichi secchi e le mandorle. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1996 - 1998 - 2000 Note: il vino, che prende il nome dall’abbreviazione di una via chiamata Rovejano, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Bonci dal 1952, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, di cui 35 vitati e 15 occupati da seminativi, olivi e prati. Collaborano in azienda l’agronomo Pierluigi Donna e l’enologo Sergio Paolucci.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore San Michele (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Barrè (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Le Case (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Pietrone (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Spumante Brut (Verdicchio 100%) I Rossi: Casanostra IGT Marche (Montepulciano 90%, Sangiovese 10%)

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BUCCI Ampelio Bucci Il vino è un prodotto che ha a che fare con l’agricoltura, con la terra, con le stagioni, con il trascorrere del tempo e con mille altre sfumature che spesso non dipendono dalla volontà dell’uomo. Il vino non è un prodotto industriale e per la sua produzione non si possono fare troppi programmi o progetti, né sperare che la propria creatività, il proprio impegno o l’intuito possano in qualche modo sopperire a ciò che madre natura decide di fare quell’anno. Era invece con questi elementi che io operavo nel mio primo lavoro da manager alla Hoffmann La Roche, una multinazionale farmaceutica, dove ho imparato attraverso le strategie di marketing a interpretare i fattori che determinano il successo di un prodotto. Poi ho proseguito la mia formazione in quell’affascinante mondo della moda, dove negli anni ‘70, ampliando le mie esperienze lavorative di consulente, ho potuto comprendere l’importanza della parte sensoriale ed estetica del prodotto che doveva essere commercializzato. Il contatto quotidiano con quell’imprenditoria della moda e del design italiano, composta per lo più da uomini geniali e creativi, mi aveva fatto intuire che il successo, di chi o di che cosa, dipendeva dalla capacità di prendere rischi e dalla “identità” specifica con la quale si riusciva a comunicare al mercato che cosa vi fosse dietro a quell’eccentrico e talvolta incomprensibile saper fare. Era quella la forza di uomini come Armani o Versace, i quali sono sempre stati capaci di applicare una “identità” precisa alla loro interpretazione della moda. Quella lettura particolare delle cose fece scattare in me il desiderio di confrontarmi in modo diverso con quella imprenditorialità, di cui ero stato sempre consulente, cercando di gestire, con quella genialità che avevo ben interpretato, l’azienda agricola di famiglia che non mi aveva mai stimolato più di tanto. Infatti la campagna e l’agricoltura classica che seguivo fin da quando ero ragazzino, mi erano sembrate sempre noiose e quasi deprimenti.

Ogni anno le solite cose, ogni anno la ripetizione dei soliti gesti e, a ogni raccolto, i soliti rituali di contrattazione con un mercato che, qualsiasi cosa io facessi, pagava quei chicchi di grano sempre meno. Sempre più mi rendevo conto che quella globalizzazione, di cui oggi si parla tanto, la faceva da padrona già da tempo in agricoltura, facendo scendere ogni anno il prezzo del grano secondo quello che succede nel mercato di riferimento, che è quello canadese. Non sarebbe cambiato di molto se un anno avessi provato a mettere i pomodori: al momento del raccolto sicuramente avrei dovuto confrontarmi con i prezzi del mercato cinese, oppure, se avessi coltivato la soia o qualsiasi altra coltura, le cose non sarebbero andate diversamente: c’era sempre qualcun altro che avrebbe deciso cosa io avrei dovuto mettermi in tasca. In quei primi anni ’80 si cominciava a parlare di vino e compresi che forse in quel settore avrei potuto sperimentare quell’idea di “identità” arrivando a produrre un vino che poteva avere una sua caratteristica e una sua propria personalità, quella che avrebbe potuto creare la differenza fra me e il mercato. E, in più, nel vino si poteva lavorare con idee e creatività anche nel marketing inteso come immagine, comunicazione e distribuzione. Del resto mi aveva già stancato quel lavoro di consulente e l’idea di mettermi a fare vino mi entusiasmava più di quell’abitudinaria routine giornaliera fatta di riunioni e piani commerciali, sempre per gli altri. Nella mia vita avevo avuto sempre il bisogno di nuovi stimoli per impegnarmi fino in fondo e, avendo già dimostrato a me stesso quali erano state le mie potenzialità nel campo della consulenza, ritenni che fosse giunto il momento di sperimentarmi su nuove cose che si orientassero verso spazi a me sconosciuti, così da arricchirmi interiormente e crescere come uomo. Non so se questo mio animo così irrequieto e sempre pronto a mettersi in gioco mi sia stato trasmesso da mio padre Ampelio. Anche lui portava il mio stesso nome, che ho scoperto poi venire dal greco e voler dire “colui che fa

il vino”. Mio padre aveva pensato di ampliare l’azienda agricola già esistente alla conclusione della sua carriera di direttore generale delle Assicurazioni Generali, quando aveva sentito crescere in sé la nostalgia della sua terra natìa. Lo ricordo ancora, con quel suo cappello nero in testa e quell’aspetto di uomo tradizionale. Invece lui era un uomo unico, un libero pensatore come ce ne sono altri in questa zona, dove c’è sempre stata una colonia di anarchici anticlericali provenienti, forse, dalla vicina Romagna. Come altri uomini di quello stampo, era insofferente a tutto quello che era borghese e formale. E di questo ebbe modo di dare prova nella sua vita, durante la quale non mancarono i momenti in cui manifestò, attraverso una grande personalità, la sua libera interpretazione e la sua particolarissima maniera di fare le cose. Uno di questi esempi fu in occasione del suo matrimonio, che celebrò, per la sua “allergia” alle chiese, in casa, accettando una funzione spicciola e sbrigativa davanti a soli due contadini, che fecero da testimoni, e a un prete; il sacerdote accettò solo per accontentare mia madre, che era religiosissima e più giovane di 20 anni di lui, che invece aveva da poco passato la cinquantina. Era del 1887 e quando io nacqui, lui era già in età avanzata e i contatti con quell’uomo, anziano e introverso, non furono mai troppo semplici. Troppi anni ci dividevano, anche se, con il passare del tempo, ho compreso sempre più quel suo modo particolare di interpretare la vita, anche nelle piccole manifestazioni di quella semplice quotidianità che vivevamo nella nostra casa di Milano, dove il salotto di casa, ritenuto a quei tempi un luogo out per i bambini, era invece il nostro parco giochi, mio e delle mie tre sorelle. Sarà stato per le esperienze lavorative o per via dell’educazione che ho ricevuto, ma quando, negli anni ‘80, ho cominciato a fare vino, tutte le difficoltà dell’inesperienza e della scarsa conoscenza di questo settore le ho affrontate con il massimo dell’entusiasmo e della passione ed è stata questa passione per la nuova sfida a darmi la forza di immergermi nella conoscenza

c’e un’identità e qualcosa di straordinario


in certe vecchie bottiglie di Verdicchio


BUCCI del mondo del vino, di seguire le mie idee e di andare controcorrente, sperimentando, in anni in cui tutti piantavano i vitigni internazionali, le potenzialità di questo meraviglioso vitigno che è il Verdicchio che, all’epoca, nessuno prendeva seriamente in considerazione per la qualità, ma solo per la quantità. C’era qualcosa di straordinario in certe vecchie bottiglie di Verdicchio che avevo assaggiato, le quali racchiudevano quell’idea di “identità” che io stavo cercando. Mi sembrava che quel vino giocasse proprio su quelle note identificative di grande personalità e di riconoscibilità del territorio su cui veniva prodotto, elementi che creavano quella personalità che io speravo di ottenere nell’immediato futuro con il mio vino. Negli anni ho compreso che è stata soprattutto l’imprevedibilità, che si ripete ogni anno, creata dal connubio di variabili come il tempo, la natura e il mio saper fare, che mi ha fatto rimanere intorno alle mie vigne così a lungo, insistendo oltre ogni mio ragionevole calcolo. Un mix sempre diverso, mai uguale, mai ripetitivo, che mi consente di mettermi ogni anno alla prova e che giustifica ampiamente il fatto di fare un lavoro che mi fa sentire vivo. Per certi aspetti è simile alla moda, quella vera. Che è fatta di stili non di cambiamenti. Di stili che sono vere identità, come Armani. Sempre uguale come stile, ma ogni anno diverso per essere vicino al mondo che cambia continuamente. Nella moda è il mondo sociale che cambia, nel vino quello naturale. Quello di cui un po’ mi rammarico è che non so ancora chi proseguirà ciò che io ho costruito qui in tutto questo tempo. Forse la colpa è di non essere riuscito a trasferire a nessuno dei miei figli o dei miei nipoti la stessa passione che ho ereditato per la terra, ma ho fiducia che presto, nella squadra delle persone a me care, qualcuno possa affiancarmi per continuare ad insistere nella ricerca di quella “identità” che io vado cercando da oltre vent’anni.

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Villa Bucci Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Doc Riserva Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Montecarotto nelle contrade Villa Bucci e Cupo delle Lame e nel comune di Serra De’ Conti, nelle contrade Baldo, San Sebastiano e San Fortunato, le cui viti hanno un’età compresa tra i 17 e i 45 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di argilla, calcare e gesso, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 220 e i 380 metri s.l.m., con esposizioni a est, sud-est e sud-ovest. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a doppio archetto e a guyot Densità di impianto: 2200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima settimana di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e, dopo una pulizia statica del mosto, che avviene a temperatura ambiente o con leggera refrigerazione, si inseriscono secondo gli anni i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae normalmente per 20 giorni, senza controllo della temperatura, in tini di acciaio in cui rimane per 1-3 mesi. A seconda delle annate il vino naturalmente può svolgere o meno la fermentazione malolattica, durante la quale vengono effettuati alcuni délestages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Trascorso questo periodo, il vino è travasato in botti di rovere di Slavonia da 50 a 75 Hl dove rimane per 18-24 mesi; successivamente si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15000-25000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; all’esame olfattivo offre profumi complessi di frutta a pasta gialla come pesca e susina, oltre a note esotiche di mango che poi lasciano spazio a sensazioni speziate di cannella, caramella d’orzo e a nuances di fiori di acacia, gelsomino, tiglio, anice, menta e macchia mediterranea. In bocca ha un’entratura elegante, avvolgente, rotonda, con una spiccata sapidità: caratteristiche che conferiscono freschezza, lunghezza e persistenza. Prima annata: 1983 Le migliori annate: 1983 - 1988 - 1990 - 1992 - 1994 - 1999 2000 - 2001 - 2003 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dalla villa di famiglia, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Bucci dagli inizi del 1800, l’azienda agricola si estende su una superficie di 380 Ha circa, di cui 26 vitati e 354 circa occupati da seminativi, ortaggi, coltivazioni di sorgo, olivi e bosco. Collabora in azienda l’agronomo Gabriele Tanfani; la funzione di enologo è svolta da Giorgio Grai. Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Doc Superiore Bucci (Verdicchio 100%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Tenuta Pongelli (Montepulciano 50%, Sangiovese 50%) Villa Bucci Rosso Piceno DOC (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%)

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CANTINA DEI COLLI RIPANI Adriano Lorenzi Con questa giornata piovosa non è possibile affacciarsi dalla terrazza e osservare le sfumature dei colori che caratterizzano la campagna di Ripatransone, quella che oggi, forse più di ogni altra area geografica del Piceno, possiede il maggior numero di ettari vitati. È una terra splendida, lavorata in ogni sua parte fin quasi all’inizio di ogni vallata, coltivata sino all’estremo, anche in punti dove fa paura arrivare. Questo paesaggio morbido è stato modellato nel tempo dalla maniacale passione dei vignaioli che, dimostrando un attaccamento unico,

sono rimasti ancorati alla loro terra, forse anche grazie alla presenza di questa Cantina Cooperativa che opera al loro fianco e di cui oggi io sono presidente. Un incarico che mi pone addosso un forte senso di responsabilità che non rifiuto, ma che mi costringe a un impegno costante e quotidiano per provare a costruire un futuro migliore, non solo per i nostri 494 soci conferitori, ma anche per questo territorio che necessita di una progettualità di più ampio respiro diretta alla sua indispensabile valorizzazione e promozione, che non può basarsi solo sul vino che, già di per sé, possiede grandi doti comunicative. In questi anni ho cercato di portare nella cooperativa sia la mia esperienza personale, sia

quella filosofia che applico quotidianamente nella mia azienda, sforzandomi di interpretare ciò che accadrà e, se necessario, investendo affinché il futuro non mi trovi impreparato. Questo lo ripeto spesso ai miei soci, come ripeto che se avessero voluto un presidente che a fine di ogni campagna viticola avesse pensato solo a dare loro un maggior dividendo, invece che un programma di sviluppo, non avrebbero dovuto eleggermi! Sono abituato a costruire il futuro e non a subirlo; sono abituato a guardare lontano e a misurarmi con quanti desiderano ragionare sulla potenzialità del vino marchigiano. In un momento di crisi come quello che stiamo vivendo oggi, dove sarebbe logico e prudente effettuare radicali tagli ai costi e ai progetti di espansione, queste mie idee possono risultare impopolari. Per natura sono un ottimista e credo che le cose possano cambiare e per questo mi adopero affinché ciò avvenga prodigandomi con un impegno totale, senza compromessi o titubanze. A fronte di ciò, c’è anche il mio attaccamento alla cooperativa e il forte legame affettivo che mi lega a questa azienda, poiché la mia famiglia è stata tra le fondatrici della Cantina; mio zio è stato presidente nel primo anno di vinificazione e io ne sono divenuto socio molto presto, ricoprendo da subito incarichi amministrativi. Non nego però che far accettare il processo di trasformazione dell’azienda a molti di questi vignaioli ascolani non è stato facile e non lo è tuttora. L’individualismo e la diffidenza fanno parte delle strutture più recondite del carattere degli uomini che vivono in queste colline; qui esiste una cultura contadina che si basa esclusivamente sul lavoro, sulla riservatezza e sulla chiusura nei confronti perfino del proprio vicino. Una cultura che guarda ai propri interessi, perché è stata partorita da secoli di mezzadria. Gente che si ritrova molte volte sfiduciata dalla mancanza di un confronto con il “potere” ed è quindi guardinga non solo nei confronti dello stesso, ma anche di tutto ciò che rappresenta il nuovo, che è vissuto come

elemento destabilizzante. Per questo li vedo spesso arroccarsi su degli incomprensibili “no” verso l’innovazione, un rifiuto del quale molti non sanno neanche dare una giustificazione, ma che è facile comprendere se si ha voglia, per un momento, di confrontarsi con la loro incallita abitudine a vivere un’esistenza difficile, fatta di sogni e speranze infrante, che li ha indotti, nel tempo, a non avere tanta fiducia in quel futuro roseo e incantato raccontato da altri; un futuro che, del resto, è sempre stato in contrasto con la dura quotidianità che vivevano.

Per questo io sono sempre alla ricerca di un dialogo costruttivo e di un rapporto diretto con loro, informandoli e facendoli partecipi della vita della cooperativa. Per questo non mi stanco di convocare diverse assemblee annuali che si vanno a sommare non solo alle numerose riunioni di zona, ma anche agli incontri settimanali che si svolgono nel mio ufficio con tutti coloro che hanno il desiderio di fare critiche costruttive o proposte intelligenti. Nel tempo si è anche creato un rapporto di amicizia tra gli stessi soci che cercano di incontrarsi almeno una volta all’anno al pranzo sociale, al quale tutti fanno in modo di non mancare. Nata nel 1977 per ottemperare alle esigenze di una sessantina di viticoltori che trovavano

sono abituato a costruire il futuro


e non a subirlo


CANTINA DEI COLLI RIPANI

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difficoltà a vendere le loro uve, nell’arco degli anni questa cantina è cresciuta enormemente, cercando di adeguarsi alle evoluzioni dei tempi, modificando il suo approccio con il mercato, soprattutto con l’innalzamento della qualità dei prodotti che commercializza mediante la propria rete distributiva e attraverso i propri undici punti vendita sparsi fra le Marche, il Veneto e la Lombardia. Nel tempo abbiamo cercato di ristrutturarci e, per comprendere meglio i nostri punti di forza,

abbiamo provveduto a certificare l’azienda secondo i parametri dettati nel settore dai regolamenti Europei ISO 9001, intervenendo, aggiornando e modernizzando i processi di trasformazione, vinificazione e imbottigliamento al nostro interno, con un investimento di quasi 5 milioni di euro e andando, successivamente, ad assistere in modo diretto i soci conferitori, così da far giungere in cantina uve di primissima qualità. Per far questo ci siamo affidati a due enologi,

due periti agrari, un tecnico e un agronomo che segue direttamente tutti i vigneti. Un gruppo di giovani, dinamico, eclettico, insieme al quale trasformiamo oltre 130.000 quintali di uve che vengono selezionate e vinificate in modo da poter risalire al luogo di provenienza e creare una tracciabilità al vino messo sul mercato. Un processo evolutivo lungo e difficile che oggi ci dà soddisfazione e in modo chiaro ci fa affermare che la Cantina dei Colli Ripani c’è ed è una bella realtà delle Marche.


Khorakhané IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon e Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Contrada Caniette, nel comune di Ripatransone, le cui viti hanno un’età di circa 15 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni profondi e ricchi di scheletro, sono posizionati a un’altitudine compresa tra i 300 e i 380 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 80%, Cabernet Sauvignon 20% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito ai primi di ottobre per il Cabernet Sauvignon e verso la fine dello stesso mese per il Montepulciano, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e i mosti ottenuti si avviano alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni in rotomaceratori di acciaio inox ad una temperatura compresa tra i 24 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che prosegue per altri 10-15 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati meccanicamente frequenti rimontaggi giornalieri e un délestage. Terminata questa fase si procede alla fermentazione malolattica in tini di cemento vetrificato; alla conclusione, e dopo un breve periodo di stabilizzazione, i vini sono posti per 18-24 mesi in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo passaggio. Conclusa la maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3500 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di prugne, more, cacao, caffè, cuoio; si aggiungono via via note di eucalipto e menta, di frutti rossi e ciliegie sotto spirito che si integrano con altre sensazioni olfattive speziate di cannella, pepe bianco e liquirizia. In bocca è sensuale, con tannini esuberanti; caldo, equilibrato, ben armonizzato, lungo e persistente. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2002 Note: il vino, che prende il nome da una canzone di Fabrizio De Andrè, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 12 anni. L’azienda: la Cantina dei Colli Ripani è operativa dal 1977 e in essa conferiscono le uve 494 soci che operano sul territorio circostante su una superficie complessiva vitata di 1100 Ha. Collaborano in azienda gli agronomi Pietro Vanicola e Sandro Crescenzi e gli enologi Fabrizio Ciufoli, Marco Pignotti e Matteo Chiucconi.

Altri vini I Bianchi: Leukòn IGT Marche (Chardonnay 100%) Offida Pecorino DOC Rugaro (Pecorino 100%) Offida Passerina DOC Ninfa Ripana (Passerina 100%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Superiore Castellano (Montepulciano 65%, Sangiovese 35%) Offida Rosso DOC Leo Ripanus (Montepulciano 60%, Cabernet Sauvignon 40%) Rosso Piceno DOC Transone (Montepulciano 60%, Sangiovese 40%)

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CANTINE FONTEZOPPA Piero Luzi Finite le scuole me ne andai a Parigi, ma non chiedermi il motivo; forse lo capirai nel prosieguo del discorso, dai fatti che ti racconterò, senza parlarti troppo di me, cosa che un innato e profondo senso della riservatezza, che sfiora quasi il pudore, mi impedisce di fare. Erano gli anni delle grandi lotte studentesche, quando tutte le idee erano sottoposte a discussione e verifica; anni di forti contrasti sociali, di accorate faziose lotte politiche fra chi era conservatore e chi rivoluzionario, fra chi era di destra e chi di

quegli scontri. Così, incredibilmente, mi ritrovai a discutere e a filosofeggiare delle motivazioni di quegli eventi e delle sorti future del mondo davanti ad un buon bicchiere di vino in un comodo salotto parigino invece che per strada o in qualche piazza. Trovarsi a Parigi da solo, in un periodo così turbolento, non era una cosa semplice e, ripensandoci, mi compiaccio con me stesso di come, così giovane, fossi già capace di affrontare la vita.

insieme a care amicizie che facevano parte di imprenditori e membri dell’intellighentia parigina, che non con i miei coetanei contestatori i quali si prendevano le sassate e le manganellate per le strade di Saint Germain. Certamente qualche coetaneo di allora non avrebbe condiviso quel mio snobismo intellettuale e riconosco che non ho poi molto da vantarmi di questo remoto passato da contestatore, avendo trascorso quegli anni di grande lotta sociale più nella bella vita parigina che in mezzo ai lacrimogeni e alle assemblee

sinistra, fra chi filosofeggiava in modo anarchico sull’interpretazione da attribuire all’esistenza e chi difendeva il potere costituito. Erano gli anni in cui incominciavo a prendere in mano, seppure ancora timidamente, le redini della mia vita, ma la lotta di classe, che aveva provocato quella contestazione studentesca e che aveva spinto tanti giovani nelle piazze nel tentativo di dare un nuovo ordine al mondo, non sarebbe riuscita ad appassionarmi al punto tale da coinvolgermi nel suo ingranaggio cruento che sembrava andare tanto di moda. Quelle violenti manifestazioni erano lontane dal mio modo di pensare e ricordo che già allora la mia convinta non violenza mi faceva rifuggire da

Anche se non scendevo in piazza con bandiere e slogan, penso di essere stato lo stesso un tipo “tosto”, sicuramente più di quanto lo sono adesso! Indubbiamente ero un contestatore democratico, uno che amava dire ciò che pensava e, senza battere ciglio, subiva anche le conseguenze di quelle sue prese di posizione, sia in famiglia che a scuola, dove avevo già avuto molti richiami e poi sospensioni, alcune volte ingiustificate, altre volte meritate, per le sciocchezze che avevo compiuto. Quella era una rivolta esaltante, coinvolgente, che condividevo appieno, anche se ne sentii il frastuono da lontano, trovandomi spesso più

proletarie. Certamente tutto mi è stato utile e quelle amicizie mi sono servite per costruirmi una bella esperienza e mi hanno consentito di avvicinarmi alla buona tavola e al buon bere. Ricordo che spesso seguivo una fanciulla in qualche week-end in campagna dove capitava l’occasione di assaggiare quegli splendidi vini francesi dei quali ancora oggi, a distanza di anni, ne ricordo uno in maniera particolare. Chinon, si chiamava quel vino, prodotto da un piccolissimo vigneron della Loira che aveva una cantina sotto terra, costruita nel tufo, dove si degustava quel vino con il patè, le olive e un po’ di formaggio. Avrò avuto poco più di 20 anni, ma già avevo appreso quali fossero i piaceri da cui non

il mio interesse e mantenere in


questo territorio un po’ di benessere


CANTINE FONTEZOPPA

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avrei mai dovuto allontanarmi, comprendendo l’importanza delle cose buone della tavola e del buon bere; parametri che hanno contribuito a determinare il livello della qualità della vita che poi ho scelto di vivere. Ma nulla accade per caso e se ero andato volontariamente esule in Francia ed ero rientrato in Italia con in testa un’idea imprenditoriale che avrebbe marcato il mio futuro, ebbene tutto questo avrà pure avuto un senso. Anche se non avevo cambiato il mondo, il mondo, con gli imprevedibili avvenimenti che aveva provocato nella mia vita, aveva contribuito a cambiare il mio destino. Ti chiederai che nesso potrà mai esserci tra belle parigine, quel movimentato ’68, un’impresa di calzature e una cantina? Beh... come potrai immaginare, tutti questi elementi hanno contribuito a creare ciò che sono e, se è vero che gli uomini si giudicano dalle loro azioni, è facile che, conoscendo queste, tu possa meglio interpretare chi io sia. È innegabilmente vero, tuttavia, che se un giorno non avessi accompagnato, in giro per le Marche, un imprenditore francese a comprare delle scarpe, oggi non sarei qui. Proprio da lì è iniziata la mia storia, prima come buyer per una società francese che commercializzava scarpe per bambini e poi come produttore, sempre nel settore calzaturiero, con una piccola società che, via via, è cresciuta fino ad assumere le dimensioni di una piccola multinazionale. Una multinazionale pocket, come la chiamo io, con oltre 2500 dipendenti e stabilimenti in quattro paesi del mondo, fra cui uno anche in Cina, con un fatturato che pone la Falc Spa nella ristretta schiera delle migliori aziende calzaturiere al mondo e la inserisce nella rosa delle imprese candidate a raggiungere la leadership mondiale in pochi anni. Un obiettivo importante che richiede un’analisi delle problematiche che coinvolgono il futuro del mercato globale, problematiche che richiedono talvolta scelte rapide, non di rado anche difficili e dolorose, sia per chi deve effettuarle, sia per chi, purtroppo, deve subirle. Non nascondo che certe volte rimpiango quel lontano ’68 e quella mia fervente gioventù in cui ero libero di decidere del mio destino molto più di quanto non lo sia oggi.

Del resto sono un imprenditore ed è questo che ho fatto per tutta la vita e a sessant’anni, forse, non saprei fare altro. Nella consapevolezza di voler continuare a farlo per il resto dei miei giorni e nel migliore modo possibile, ecco la mossa di diversificare l’attività nel settore immobiliare e nell’azienda vitivinicola. Quest’ultima non è stata, come potrebbe pensare qualcuno, uno sfizio o la semplice voglia di seguire la tendenza che oggi molti del jet set internazionale hanno di avere un’etichetta di vino; è stato invece più l’interesse a mantenere nel territorio un po’ di ricchezza, investendo su questa terra, piuttosto che comprare uno yacht che, del resto, non ho mai avuto e non mi è mai interessato avere. Per me il bello è avere le idee e avere la possibilità di vederle realizzate; credo che questa sia la forza di un imprenditore e sicuramente questa cantina è una di queste mie idee. Non nego in ogni modo di essere legato più a questa terra che al vino, anche se riconosco che in una bottiglia di vino c’è passione, coinvolgimento, programmazione e strategia, quasi come in una grande azienda, e che in esso ritrovo tante sfaccettature delle molte vite che ho vissuto, compresa quella splendida parentesi parigina.


Morò Serrapetrona DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Vernaccia Nera provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Serrapetrona, le cui viti hanno un’età di 5 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare pre-appenninica su terreni calcarei silicei, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 450 e i 510 metri s.l.m., con esposizione a ovest/sud-ovest. Uve impiegate: Vernaccia Nera 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 9000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che inizia alla metà di ottobre e prosegue fino alla prima decade di novembre, con più passaggi in vigna, si procede alla diraspatura delle uve raccolte e successivo passaggio su tavolo di scelta. La fermentazione alcolica si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 10-12 giorni ad una temperatura che non supera mai i 27°C. Si esegue una fase di post-macerazione di 5-7 giorni, dopo di che il vino, dopo opportuni travasi, viene posto in barriques, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 13-15 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati periodicamente colmature, bâtonnages e almeno 3-4 travasi. Al termine di questa maturazione si procede all’assemblaggio delle barriques e, dopo un breve periodo di stabilizzazione in botte grande e un leggero collaggio, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 5 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con venature violacee. Denso e cremoso, all’esame olfattivo offre aromi fruttati di prugna e susina oltre a note speziate di pepe macinato, accenni silvestri e nuances floreali di viola. In bocca è piacevole, speziato, equilibrato, pulito, anche fresco, con note fruttate sul retrogusto. Prima annata: 2002 Le migliori annate: 2003 Note: il vino, che prende il nome dal soprannome di un contadino della zona, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà di Piero Luzi e C. dal 1999, l’azienda agricola si estende su una superficie di 70 Ha, di cui 32 vitati e 38 occupati da oliveti, prati e boschi. Svolge la funzione di agronomo e di enologo Giancarlo Soverchia.

Altri vini I Rosati: Rosato IGT Marche (Sangiovese 60%, Merlot 20%, Lacrima 15%, Cabernet Sauvignon 5%) I Rossi: Colli Maceratesi DOC Carapetto (Sangiovese 50%, Merlot 25%, Cabernet Sauvignon 25%) Serrapetrona DOC Falcotto (Vernaccia Nera 85%, Sangiovese 15%) Colli Maceratesi DOC Vardò (Sangiovese 50%, Lacrima 20%, Merlot 15%, Cabernet Sauvignon 15%)

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CANTINE MARCONI Maurizio Marconi Non nascondo di essere stato sempre affascinato dalla complessità che è racchiusa nell’agricoltura, così come non nego che le mille opportunità e sfaccettature che interagiscono fra la natura del suolo e i sistemi tecnici utilizzati per coltivarlo, mi hanno spinto, in senso sia sperimentale che pratico, a verificare le possibilità di applicazione di alcune mie idee. Monitorando di continuo ciò che mi circondava e facendo attenzione a tutto quello che d’innovativo mi succedeva intorno, il coinvolgimento è andato via via crescendo

Del resto ho sempre avuto bisogno di spaziare e di andare oltre gli orizzonti precostituiti, regolati per lo più dalle abitudini imposte dalla tradizione sulla quale Erino fondava ogni sua certezza, ma che, pur essendogli stata utile per condurre questa azienda, per me, fin da quando entrai in azienda, nel 1981, subito dopo il diploma di perito agrario, si dimostrò inadeguata e non conforme alle mie idee. Erano gli anni in cui venivano dati i contributi per espiantare le viti, ma rammento che non volli dar retta al mio istinto e mi lasciai invece

costosa macchina e che, per percepire tutte le indescrivibili emozioni che si sprigionano dalla sua guida, fosse necessario provarne il funzionamento. È con questo spirito che giornalmente affronto il mio lavoro, andando a scoprire quale sia il funzionamento delle cose e quali siano le attività più consone da intraprendere per soddisfare un mercato che è sempre più globale, esigente e preparato. Un mercato che devo costantemente monitorare e tenere ben presente in ogni scelta

e da anni, ormai, sono impegnato a 360° in questo settore agricolo: dalla viticoltura al comparto cerealicolo, da quello frutticolo a quello sementiero, dall’allevamento di bufale all’olivicoltura. Mi entusiasma e mi stimola questa poliedricità operativa che mi sono costruito, con la quale appago il mio carattere irrequieto ed estremamente curioso che, difficilmente, mi avrebbe consentito di rimanere tranquillo in questa azienda familiare. Sicuramente non sarei stato capace di lasciare che il mio destino fosse guidato dal tran tran offerto dalla viticoltura, che comunque mi appassiona e che ho imparato ad amare grazie a mio padre Erino.

condizionare dalla passione che mio padre aveva messo per tutta la sua vita in quelle poche viti; una passione che lo aveva indotto a scavare sotto terra, con pala e piccone, una sua piccola cantina, che lui chiamava la Legnaia, dove aveva riposto delle botti che lui stesso aveva costruito. Ricordo che in azienda sconvolsi il preesistente impiantando dei vigneti con nuove tecniche di conduzione, inserendo l’impianto d’irrigazione a goccia, l’inerbimento tra i filari, preoccupandomi di rinnovare ogni fase che intervenisse nella filiera produttiva vitivinicola, dalla singola vite alla cantina. Del resto ero sempre stato convinto che l’agricoltura assomigliasse a una bella e

che vado ad effettuare per le aziende agricole in cui sono attivo, cercando di identificare, per quanto mi sia possibile, quali siano i margini di successo e i limiti che pone il territorio in cui agisco, così da realizzare programmi di sviluppo credibili per il futuro. Una quotidianità che mi vede occupato sia in questa azienda di famiglia, che conta 50 ettari di terreno, di cui 22 vitati, sia nella gestione di altri 100 ettari che ho preso in affitto che si sommano ad altri 1020, suddivisi in tre aziende, che conduco direi più da vero e proprio fattore che da consulente agronomo; 1170 ettari che, a loro volta, si vanno ad aggiungere ad altri 400 dell’azienda di un amico, in Romania, che, ultimamente, mi sta appassionando

mi entusiasma questa poliedricità


con la quale appago la mia curiositĂ


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particolarmente, anche se la seguo in maniera saltuaria. Mille cose a cui pensare e cento cose da fare in ogni giornata, durante la quale, certe volte, mi sembra di far parte di un videogame nel quale mi ritrovo ad essere un po’ protagonista e un po’ regista, ora agendo in prima persona, ora demandando ai miei collaboratori. Infatti non è facile pensare a tutto, ma so di avere intorno a me ottimi collaboratori e sicuramente uno dei migliori è mia moglie Manuela che, oltre ad avere tanta pazienza e a comprendere le mie passioni, condivide i miei sacrifici che iniziano quando è ancora notte e finiscono a tarda sera. Non m’importa se non ho molto tempo per me: ciò che conta è che quel poco che ho a disposizione possa dedicarlo ai miei figli. Del resto mi diverto facendo ciò che faccio e se non fosse così non potrei avere questo impegno che mi spinge sempre a guardare avanti e a proiettarmi in un futuro che è mio obiettivo disegnare il più possibile simile a ciò che desidero. Per ottenere questi risultati ho viaggiato andando di persona a controllare altre realtà agricole; viaggi che mi hanno aperto a nuovi orizzonti e a nuove esperienze, aiutandomi a capire quei piccoli segreti che hanno consentito, almeno nel settore delle colture da seme, di porre in primo piano, a livello mondiale, le aziende in cui opero. Non ne conosco molti che agiscono con queste idee nell’agricoltura marchigiana e non so se per tipi come me sia appropriato l’aggettivo di avventuriero, che qualche volta gli altri mi attribuiscono; a meno che non si voglia abbinare ad esso l’idea di un uomo che crede fortemente in ciò che fa e, per ottenerlo, va oltre i limiti prestabiliti. Così mi sono trovato a sperimentare nuove colture e a riportare nelle Marche la coltura della canapa o l’allevamento della bufala, ricercando sempre, comunque, nuovi confini e, per quanto mi è stato possibile, dando una mano anche agli amici con l’intento non solo di aiutarli a perseguire i loro obiettivi, ma di trasmettere loro anche il mio entusiasmo per lo sviluppo di questa agricoltura marchigiana. Beh... se questo vuol dire essere avventuriero, allora devo dire che io lo sono. Le mie avventure però si svolgono a cavallo

della mia moto, su queste dolci colline che non abbandonerei mai, poiché sono queste aziende le principali artefici di questi fantastici viaggi che mi spingono a guardare il futuro ricercando sempre nuove tecnologie e nuove colture per progredire. La mia è un’avventura che non ho nessuna intenzione di interrompere, anche perché non potrei farlo, dato che non sono mai stato capace di mettermi seduto a osservare questa campagna senza percepire, sempre e comunque, nuovi stimoli o intuire quali potrebbero essere le sorprese che la stessa è in grado di riservarmi, che sono di più di quante ne abbia riservate il Polo Sud a Robert Scott e a Roald Amundsen o i territori sudamericani a qualcuno dei tanti conquistatori spagnoli.


Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Etichetta nera Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Contrada Melano nel comune di San Marcello di Jesi, le cui viti hanno un’età media di 20 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto tendenti all’argilloso, sono posizionati ad un’altitudine di 250 metri s.l.m., con un’esposizione che varia da nord a est. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 10°C, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 30 giorni, alla temperatura di 12°C, in tini di acciaio; qui il vino rimane per 4 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati alcuni sur lies al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Al termine di questo periodo avviene il travaso in botti di rovere e quercia da 20-25 Hl dove il vino rimane per 1 mese, quindi si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati e con profumi che spaziano da lievi percezioni di salvia e timo a note di frutti tropicali come mango, papaia e frutto della passione oltre a quelle più nostrali di susina a pasta gialla matura che lasciano poi spazio a nuances di fiori di acacia e di scorza di arancia amara. In bocca ha un’entratura elegante, pulita, equilibrata, con una buona sapidità: caratteristiche che conferiscono freschezza, lunghezza e persistenza. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2003 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dalla zona DOC di produzione e dal colore dell’etichetta, raggiunge la maturazione dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Marconi dal 1947, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 50 Ha, di cui 22 vitati, 27 occupati da seminativi e 1 da oliveto. Collabora in azienda l’agronomo Leonardo Valente, mentre svolge la funzione di enologo Sergio Paolucci.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Verdesmeraldo (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Corona Reale (Verdicchio 100%) I Rossi: Lacrima di Morro d’Alba DOC Bluviolet (Lacrima 100%) Lacrima di Morro d’Alba DOC Superiore Arciere (Lacrima 100%)

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CASALFARNETO Paolo Togni Io non sono certo il tipo che potrebbe star chiuso in cantina ad aspettare che qualcuno gli venga a dire quanto è buono il suo vino o che possa rimanere in attesa di venderne una bottiglia attraverso la semplice strategia commerciale del passaparola. La cosa del resto non l’ho neanche mai pensata, soprattutto perché ho una visione molto più ampia di questo meraviglioso mondo del vino, del quale ho approfondito la conoscenza grazie a Casalfarneto; l’ho costruita su esperienze molto diverse da quelle in cui opera questa azienda e che vedono impegnata la mia famiglia nella gestione di un gruppo industriale la cui divisione leader è quella che produce e distribuisce gli spumanti Rocca dei Forti, mentre un’altra divisione imbottiglia e commercializza cinque diversi marchi di acque minerali. Industrie che hanno richiesto dedizione e impegno costanti, supportati da azioni e strategie di marketing di ampio respiro, proiettate più all’immagine e all’identificazione dei bisogni di un mercato, sempre più globalizzato, che a una specifica identificazione con il loro territorio di appartenenza. Un lavoro impegnativo basato su piani economici e finanziari, su riunioni e consigli di amministrazione, su azioni e piani commerciali: un lavoro che non mi aveva mai permesso di guardare neanche il paesaggio che era al di fuori del mio ufficio. È successo invece che, un giorno, nella ricerca di un’ulteriore diversificazione del nostro business aziendale, mi sia accostato alla terra e a quelle infinite sfumature che regolano la produzione del vino, che, pur imbottigliando qualche milione di bottiglie di spumante, conoscevo poco. Quel contatto epidermico, che è andato consolidandosi ancor più con l’acquisto di questa tenuta, mi ha aperto un mondo nuovo e bellissimo, in cui ho potuto constatare quale fosse l’integrazione che un simile prodotto ha, invece, con il suo territorio di produzione. La cosa, devo dire, mi ha stregato e quell’identificazione totale, unica, irripetibile che ha il terroir con il vino mi ha fatto

spalancare gli occhi e mi ha fatto osservare, con una luce diversa, non solo il paesaggio che è caratterizzato da queste mie vigne, ma anche il territorio tutto intorno che ho scoperto più bello e suggestivo di quanto avessi mai osservato prima. Pur avendo un’esperienza importante, mi sono accostato al vino come potrebbe fare uno scolaretto al suo primo giorno di scuola, con la preoccupazione di ciò che lo attende e l’entusiasmo di chi sa che ha tutto da imparare per poter diventare un giorno grande e preparato. Forse è per questo che mi sono dedicato ad una ristrutturazione molto seria di questa azienda, anche facendo costruire una cantina interrata, affascinante nella sua architettura, progettata a basso impatto ambientale, che si integra filosoficamente e tecnologicamente al territorio viticolo che la circonda; questo è stato fatto, anche andando contro chi riteneva superfluo l’interramento della nuova cantina e perseguendo l’idea che ogni particolare doveva essere compreso ed eseguito con quella attenzione che meritano le cose importanti, puntando soprattutto sull’innovazione, anche di quegli strumenti di comunicazione che devono sostenere e rendere visibili i vini che qui produciamo. Nel fare tutto questo, però, non ho mai dimenticato quale fosse il motivo che mi ha condotto ad appassionarmi così tanto ed è per questo che ho deciso di legare sempre più questa cantina a questo territorio, che ritengo non solo essere una parte essenziale della stessa, ma anche quel notaio scrupoloso che registra tutto ciò che noi facciamo. In genere, non mi dilungo sugli aspetti organolettici del vino e lascio i tecnici disquisire su di esso con quella proprietà di linguaggio di cui ancora non mi sono appropriato, ma so di sicuro che non posso fare a meno, quando descrivo questa azienda, di integrarla in un ragionamento più ampio che coinvolge questo ambiente e tutte le Marche, convinto come sono che la mia bottiglia di vino sia la migliore cartolina per questa terra, l’unica in grado di creare un distinguo netto e

preciso fra i miei vini e quelli di tutte le altre parti del mondo. Non ti nascondo che fino a quando non ho messo a fuoco e non è stato chiaro dentro di me questo obiettivo, non riuscivo a inserirmi completamente nel mondo del vino. Ora tutto è cambiato e anche se Casalfarneto non è l’attività più importante del nostro gruppo industriale, di sicuro è quella che mi coinvolge e mi appassiona più di ogni altra, dal momento che mi ha dato anche l’opportunità di costruire dei momenti d’incontro con gli altri produttori vitivinicoli dell’area marchigiana, i quali, come me, stanno prendendo coscienza che, da soli, non si può realizzare nessuna grande strategia promozionale degna di dare alla nostra produzione e a questa regione il lustro che meritano. In queste riunioni faccio notare loro che sarebbe utile e necessario che tutti quanti facessimo un passo indietro per incominciare a parlare meno delle singole aziende e sempre più di quale sia il movimento vitivinicolo di questa zona, caratterizzata dai “nuovi Verdicchi” e da grandi vini rossi che nessuno conosce e che nessuno sa bene dove siano prodotti o quali siano gli aspetti del territorio identificativi e caratterizzanti. Troppo spesso pensiamo più a guardare cosa fa il cavallo del concorrente vicino, piuttosto che alla corsa che ci attende e che, tra l’altro, è sempre più difficile e tutta in salita. Sono convinto che solo facendo sistema possiamo affrontare il mercato del futuro, dove a causa della forza dei numeri, il singolo rischia di essere sopraffatto dalle grandi multinazionali. In ogni modo aspetto solo che sia definitivamente pronta la nuova cantina per dare vita a molte iniziative proprio per migliorare l’immagine non solo dei nostri vini, ma anche di tutto il territorio che ci circonda. Lo so che non sarà un’impresa facile, ma dalla mia ho l’esperienza che mi ha portato in questi anni a dialogare in maniera costruttiva con il mercato, nazionale e internazionale, e credo che essa possa aiutarmi in questo nuovo e importante obiettivo.

un impegno costante, supportato


da azioni e strategie utili per il futuro


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Cimaio IGT Marche Bianco Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Farneto, nel comune di Serra de’ Conti, le cui viti hanno un’età di 33 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto tendente al sabbioso, profondi, freschi, con falde acquifere molto superficiali, sono posizionati ad un’altitudine di 280 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-ovest. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda metà di novembre, quando le uve sono state attaccate da muffa nobile (Botrytis Cinerea), si procede alla loro pressatura soffice e, dopo una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 5°C per 24 ore, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per circa 30 giorni, alla temperatura di 18°C, in tini di acciaio, nei quali il vino rimane fino a quando non è stato raggiunto lo sviluppo di buona parte dell’alcol potenziale; in questo lasso di tempo si procede al prelievo di una parte della massa che viene messa in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura per il 50% di primo passaggio e per il 50% di secondo passaggio. Si riavvia poi la fermentazione alcolica che prosegue lenta fino alla fine di gennaio, con il vino posto nel legno che è lasciato libero di far svolgere la fermentazione malolattica. Dopo circa 6 mesi dalla vendemmia si procede all’assemblaggio delle partite e dopo un periodo di stabilizzazione in acciaio di 6 mesi, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino, che si presenta di un bel colore giallo dorato, all’esame olfattivo offre profumi complessi che spaziano da sentori netti di miele e burro ad altri di frutta a pasta gialla come pesca, ananas e mango che lasciano spazio a note floreali di ginestra e tiglio con un finale di spezie dolci. In bocca ha un’entratura vellutata, elegante, rotonda, che ricorda molto le note dolciastre dei biscotti al burro e del cedro candito. Grande sapidità e bella freschezza creano un mix perfetto fra la vena alcolica e le percezioni olfattive e gustative, caratteristiche che conferiscono lunghezza e persistenza. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2001 - 2003 - 2004 - 2005 Note: il vino, il cui nome indica la cima, il punto più alto, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Togni dal 2004, l’azienda agricola si estende su una superficie di 60 Ha, di cui 25 vitati e 35 occupati da cereali, leguminose, oliveto e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Danilo Solustri e l’enologo Roberto Potentini.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Riserva Grancasale (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore Fontevecchia (Verdicchio 100%)

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CIÙ CIÙ Walter Bartolomei Non c’è niente da fare: fa parte di noi. È una cosa che ci appartiene, una di quelle cose che ti senti scorrere dentro forse perché ti viene trasmessa, con l’esempio, fin dalla tenera età e, man mano che il tempo passa, scopri che assomiglia sempre più a una malattia o a un’etichetta che ti sia stata, indelebilmente, appiccicata addosso e della quale, con il passare degli anni, non riesci più a liberarti. Scopri che è diventata un sistema di vita, uno strumento, un abito mentale dal quale non riesci più a staccarti, è divenuta parte integrante del

chi vive come noi a contatto con la natura. Il nostro è un sistema culturale, profondo, interiore, sordo ad ogni richiamo, una filosofia di vita sana e costruttiva, che ci tiene impegnati su questa terra per 365 giorni l’anno e che non ti sarà difficile ritrovare fra queste colline marchigiane, anche in altri contadini. Noi siamo fatti così e non credo che vi siano antidoti capaci di neutralizzare ciò che ci è stato insegnato fin dalla nascita. Del resto non poteva essere diversamente. È infatti dal lontano 1956 che la nostra famiglia è

cedendoli, spesso, in proprietà agli stessi mezzadri che già abitavano quelle campagne. Fu così che Natalino, nostro padre, insieme ai due suoi fratelli, divenne proprietario di nove ettari di terreno coltivato in modo promiscuo, come i canoni di quei tempi richiedevano: un po’ di bestiame, alcune vigne e qualche ettaro a seminativo. Ma, come potrai ben comprendere, era prevedibile che ai tre fratelli quell’appezzamento di terra stesse un po’ stretto; così non è difficile intuire quali siano state le motivazioni che indussero, poco

tuo modo di fare, di pensare, di agire e, sempre più, ti accorgi che assomiglia a quella cosa che potrebbe essere indicata con la sana e proficua educazione al lavoro che caratterizza noi contadini ascolani. Noi due non sapremmo come spiegartela, ma credo che sia proprio l’educazione alla fatica la sua giusta sintesi, crediamo che ciò che ci caratterizza sia proprio quel naturale impeto al sacrificio che ci portiamo dentro. Crediamo sia quello spontaneo rispetto che abbiamo per le cose che ci circondano oppure quel grande senso di responsabilità che assumiamo nei confronti degli impegni presi con una stretta di mano, anche se siamo certi che gli elementi che ci caratterizzano, in definitiva, siano gli stessi di

qui, sì qui, sopra queste terre che circondano il nostro podere, proprio qui, dove nostro padre ha faticato prima da mezzadro e poi, orgogliosamente, da proprietario. Se ti dovessimo indicare quale sia il punto di partenza della nostra storia come vignaioli ascolani crediamo che questo dovrebbe coincidere con quell’esodo che, all’inizio degli anni Settanta, stravolse un po’ in tutta Italia la vita delle campagne; esodo avvenuto negli anni del boom economico, proprio in quegli anni caratterizzati dall’industrializzazione, quando, almeno qui nelle Marche, l’industria strappò forza lavoro alla campagna fino al punto da costringere i grandi latifondisti e proprietari terrieri a vendere i loro appezzamenti

più tardi, nostro padre ad andare a lavorare nell’industria. Sai, quelli erano gli anni in cui nelle Marche nasceva il famoso “metalmezzadro”, il contadino part time, quella figura che di giorno vestiva i panni del metalmeccanico e alla sera e in tutte le feste comandate quelli del contadino per onorare i sacrifici occorsi per accaparrarsi quel pezzo di terra. Nostro padre decise invece di andare lontano da casa e fu così che per anni si trovò impegnato a lavorare in multinazionali che costruivano grandi opere un po’ ovunque, in Sicilia e in altre parti del mondo, nella realizzazione di dighe, gallerie e viadotti. Quello era indubbiamente un lavoro impegnativo e pericoloso che però veniva

la sana e proficua educazione al lavoro


che caratterizza noi contadini ascolani


CIÙ CIÙ

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retribuito molto bene con stipendi cinque volte superiori a quelli percepiti da un qualsiasi altro operaio occupato in un’azienda delle Marche. Mio padre rammenta ancora oggi che, a quell’epoca, con due stipendi riusciva quasi a comprarsi un trattore. Quelle risorse si dimostrarono incommensurabilmente utili per l’azienda familiare ed è innegabile che le stesse furono fondamentali per impiantare vigneti e comprare nuove attrezzature. È così che è cresciuta l’azienda, con un continuo incremento delle strutture logistiche e operative e con l’acquisizione di nuovi terreni in affitto. Continuò così fino alla metà degli anni Novanta, ma sarebbe inutile, monotono e superfluo metterci a raccontare questi ultimi venti anni che sono stati contraddistinti solo dal lavoro. Fu nel 1996, dopo che nostro padre si separò dai suoi fratelli e si ritirò dal suo girovagare, che l’azienda incominciò ad assumere i connotati visibili oggi a tutti. Iniziammo a costruire la cantina, poi il capannone, quello lì che vedi davanti a casa, arrivando ad acquistare nuovi appezzamenti di terreni oltre a un bel vigneto a Borgo Miriam, nel comune di Offida. Adesso coltiviamo quasi 100 ettari di vigneto di nostra proprietà che, come potrai immaginare, richiedono impegno e, ahimè, come al solito, tanto, ma tanto lavoro, ora perché necessitano di nuovi drenaggi, ora perché si deve provvedere a sostituire i vecchi impianti o perché è necessario rivedere quelli più recenti. Interventi sempre e comunque tutti contraddistinti da un impegno continuo e finalizzati alla preparazione della terra e dei vigneti nel giusto modo per la vendemmia. In alcuni momenti ci sono stati anche dei frangenti estremamente difficili da superare che ci hanno visto dividerci fra cinque cantieri aperti in contemporanea, cinque situazioni diverse, ognuna delle quali con un suo peculiare tipo di lavoro da svolgere, con cinque squadre di operai da assistere e da rendere edotti sugli scopi dell’intervento che è sempre diverso da vigneto a vigneto. Qui, sai, ancora oggi non è facile far comprendere a tutti che, per raggiungere la qualità assoluta, è necessario che ogni elemento della filiera produttiva sia rivisto secondo canoni diversi da ciò che la tradizione orale di queste campagne ancora tramanda. Pensa che quando abbiamo impiantato alcuni nostri vigneti utilizzando il laser, tutti si sono

messi a ridere come fosse una barzelletta. Tu non hai ben presente quali siano stati gli accorgimenti e le sperimentazioni che abbiamo dovuto applicare per superare le difficoltà che nascevano dal lavorare queste colline così ripide con i trattori che non riescono, arrivati in fondo al filare, a girare. Con l’esperienza abbiamo risolto i problemi, quelli complicati e quelli che potrebbero sembrare anche stupidi, ma qui ogni giorno si devono risolvere piccoli e grandi faccende che, sommate le une alle altre, qualche volta sembrano più grandi di quanto poi non lo siano in definitiva. Ne abbiamo fatta comunque di strada, da quei nove ettari dei nostri inizi agli attuali 120 e tutto ciò è stato possibile solo attraverso il lavoro che, come avrai compreso, non manca mai. Non contenti di ciò, abbiamo deciso di aprire anche un ristorante nel centro storico di Offida, convinti come siamo che sarà un ulteriore strumento di visibilità per la nostra azienda e per la valorizzazione dell’immagine di questo territorio, così legato al vino. Ci piace questo progetto, perché lo sentiamo particolarmente nostro, perché la nostra gioventù è trascorsa nel ristorante che avevamo fino a una decina di anni fa all’interno dell’agriturismo di famiglia. Ci piace perché ci siamo resi conto che i tempi sono cambiati ed è ora di diversificare l’impegno lavorativo, magari lasciando a nostro padre la cura maniacale delle sue vigne e pensando un po’ di più a far conoscere il nostro vino e questa terra ascolana, attivandoci sui mercati nazionali, europei ed anche internazionali per promuovere questa regione che, soltanto da pochi anni si sta lasciando alle spalle il suo atavico torpore. Quello che è mancato per troppo tempo, e in parte manca ancora, è una proficua e costruttiva comunicazione che faccia conoscere questa splendida terra, messa sempre un po’ in disparte e quasi mai nominata, nemmeno nelle previsioni del tempo che giornalmente si enunciano nelle varie trasmissioni televisive. Ci rendiamo conto che c’è ancora da fare tantissimo, ma siamo certi che, se ognuno si impegna in prima persona con piccole e sostanziali azioni, le cose possono cambiare, anche rapidamente. Del resto noi continueremo ad andare avanti lavorando come abbiamo sempre fatto, cercando di fare vino, che forse è il nostro miglior ambasciatore.


Oppidum IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Ciafone nel comune di Offida, le cui viti hanno un’età di circa 12 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine di 280 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3350 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 12 giorni ad una temperatura di 25°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri e alcuni délestages. Terminata questa fase, il vino svolge la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane 12 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati almeno 3 travasi. Al termine di questa maturazione avviene l’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, si procede all’imbottigliamento, che avviene senza filtrazione; quindi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino impenetrabile con unghia violacea, il vino si presenta all’esame olfattivo ampio e complesso, con percorsi sensoriali che spaziano dalle note fruttate di confettura di ciliegie a quelle di prugne, dai sentori speziati di vaniglia, chiodi di garofano, tamarindo e china fino a nuances di polvere di cacao e liquirizia. In bocca è piacevole, pieno, caldo, equilibrato, ben armonizzato con una fibra tannica vellutata e una buona sapidità che lo rendono lungo e persistente. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2001 Note: il vino (dal latino oppidum, città fortificata) raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Massimiliano e Walter Bartolomei dal 1966, l’azienda agricola si estende su una superficie di 120 Ha, di cui 70 vitati e 50 occupati da prati, boschi e seminativi. Collabora in azienda l’enologo Pierluigi Lorenzetti.

Altri vini I Bianchi: Offida DOC Le Merlettaie (Pecorino 100%) Falerio dei Colli Ascolani DOC Oris (Falerio 100%) I Rossi: Offida DOC Esperanto (Montepulciano 70%, Cabernet Sauvignon 30%) Saggio IGT Marche (Sangiovese 100%) Rosso Piceno DOC Superiore Gotico (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Rosso Piceno DOC Superiore Orum (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%)

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COLONNARA Carlo Pigni Campanari Ricordo che conobbi Ercole Garrone al Consorzio dell’Asti Spumante dove mi aveva portato una borsa di studio della Regione Marche. Dopo essermi diplomato enologo alla Scuola Enologica di Conegliano Veneto, avevo girovagato un po’ per diverse cantine prima di arrivare a quel prestigioso consorzio dove lui era direttore. Era la fine degli anni ‘60 e rammento che Garrone, come enologo, era già famoso un po’ in tutta Italia e anche qui, nelle Marche,

con una curiosità morbosa che andava al di là dell’aspetto tecnico per perseguire il desiderio di scoprire nuove frontiere. Fu Garrone che mi presentò alla cantina Colonnara, da dove non mi sono più mosso, e sono ancora legati a lui gli anni di quella iniziazione al mondo del vino che hanno arricchito la mia formazione professionale. In quegli anni erano poche le aree vitivinicole dove si produceva vino bianco e una di queste era la zona di Jesi dove, tranne per alcune grandi aziende come la Fazi Battaglia, il

di orientare la produzione verso il settore della ristorazione, privilegiando la bottiglia piuttosto che la vendita del vino in cisterna, andando controcorrente rispetto a quello che normalmente facevano le cooperative in quello scorcio degli anni ‘60. Sorrido ripensando a quei primi anni, durante i quali avevo al mio fianco solo altre due persone: un cantiniere e una segretaria. Ricordo che dovevo fare un po’ di tutto: dal seguire le uve che arrivavano in cantina alla loro lavorazione, dal

dove addirittura era considerato il padre del Verdicchio. Sapendo delle mie origine marchigiane, spesso mi raccontava di quegli interminabili viaggi con la sua Lancia che duravano un’intera giornata e che lo conducevano per le strade polverose degli anni ‘50 dal Piemonte nelle Marche. Quella era un’enologia pionieristica che mi affascinava e mi coinvolgeva completamente e che sicuramente ha contribuito a far nascere in me la passione per questo lavoro che ormai svolgo da quasi quarant’anni. Quelli erano tempi in cui si muovevano i primi passi nella sperimentazione e nella ricerca enologica per un continuo miglioramento delle tecniche di vinificazione. Erano i tempi in cui l’innovazione era guardata

frazionamento della superficie vitata provocava un ristagno dell’offerta rispetto alla crescente richiesta che proveniva dal mercato. Colonnara, che è stata la prima cantina sociale fondata nelle Marche, fu costituita proprio per omogeneizzare il sistema produttivo locale, orientato principalmente alla coltivazione di uve bianche e forse fu per questo che, avendo lavorato nel mondo degli spumanti e dei vini bianchi, fui ritenuto idoneo a ricoprire il ruolo di enotecnico di questa nuova cantina. Il presidente di allora, Luigi Ghislieri, che è stato un punto di riferimento importante per tutti noi, aveva compreso quale dovesse essere l’indirizzo commerciale della cantina e, con una lungimiranza rara per quei tempi, scelse

riempimento all’imbottigliamento, fino alla commercializzazione e alla consegna del vino, con risultati tangibili che, in pochi anni, si concretizzarono con un graduale ma costante ampliamento dei partners commerciali, italiani ed esteri. Se mi guardo indietro mi accorgo di aver vissuto in questa cantina tutta la mia vita, sia quella professionale di enotecnico, sia quella di socio viticoltore, costruendo in tutti questi anni forti legami con chi lavora qui dentro e anche con tutti i soci, a fianco dei quali ho trascorso tante vendemmie. Certo, se non fosse stato per questo profondo vincolo che mi lega a quest’azienda, forse non

e un punto di riferimento che nel


tempo ha saputo costruire forti legami


COLONNARA

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avrei accettato nuovamente l’incarico dopo il mio allontanamento, nel 1994, in conseguenza di un diverso indirizzo che un rinnovato consiglio di amministrazione aveva voluto dare alla cantina. Qualcuno aveva pensato di percorrere strade differenti da quelle che avevo tracciato negli anni passati, tranne accorgersi, in seguito, che quel rinnovo periodico delle cariche sociali che si svolge, per statuto, ogni tre anni, crea un vuoto programmatico che è difficile colmare se non vi è una consolidata esperienza alle spalle. Del resto è risaputo che questo fatto rappresenta uno dei limiti della cooperazione e ne determina la sua precarietà, tanto che, nella vita delle cooperative, un importante elemento di continuità è spesso rappresentato soltanto dall’enologo che, come nel mio caso, ricopre anche l’incarico di direttore. Devo dire comunque che Colonnara in questi anni ha dato una risposta sia in termini economici, sia di stimolo al mantenimento del patrimonio viticolo di questa zona: basta guardarsi intorno e osservare come i terreni siano dei giardini e non vi sia nessun terreno incolto o come i nostri paesi siano ancora vivi e vitali. Ma c’è ancora molto da fare e la cosa, devo dire, non mi spaventa, anzi mi entusiasma. Nel prossimo futuro contiamo infatti di orientare la crescita della cantina su diversi obiettivi, uno dei quali è quello di arrivare al controllo diretto dei vigneti, per meglio armonizzare la nostra viticoltura agli orientamenti commerciali. Inoltre dedichiamo un particolare impegno allo sviluppo di sempre più ampie forme di collaborazione con le altre cantine cooperative della nostra Regione. Altro obiettivo primario è quello di attivarci affinché la nostra struttura associativa sia sempre più orientata al soddisfacimento delle necessità dei nostri viticoltori, quelli vecchi e quelli nuovi. Infine, se sarà possibile, vorremmo cercare di mettere in discussione la struttura della nostra DOC più importante, quella del Verdicchio, poiché crediamo che sia ormai obsoleta e restrittiva. Personalmente credo che sarebbe più interessante disporre di una DOC di territorio “Castelli di Jesi” piuttosto che “Verdicchio dei Castelli di Jesi”, in modo da poter ampliare la capacità della nostra offerta privilegiando, per quanto possibile, i vitigni autoctoni, senza escludere però le altre uve autorizzate nella nostra area. L’idea fondante è quella di uscire dalla

“schiavitù” della monocoltura, perché credo che la cosa porterebbe un vantaggio e aiuterebbe a risolvere le problematiche di quell’eccedenza di produzione di Verdicchio che si ripropone ciclicamente, provocando un eccesso dell’offerta e un abbassamento dei prezzi, mentre avere la possibilità di offrire sul mercato altri vini, prodotti con altri vitigni, potrebbe rappresentare un’opportunità in più per la nostra viticoltura che necessita di nuove occasioni, soprattutto sotto il profilo economico.

Ipotesi, sogni, obiettivi, ma, in ogni caso, ovunque io mi giri e con chiunque parli, ho sempre in mente Colonnara che, come cantina cooperativa, avrei voluto avesse contribuito in modo più deciso alle scelte politiche che hanno interessato il comparto vitivinicolo marchigiano: l’avrei voluta più dinamica e capace di promuovere in un contesto europeo, oltre ai propri vini, anche questo meraviglioso territorio, ma ci sarà tempo e sicuramente qui c’è ancora tanta voglia di fare!


Ubaldo Rosi

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Tùfico (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Cuprese (Verdicchio 100%) Colonnara Brut Millesimato Metodo Classico (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Passito Sanctorum (Verdicchio 100%) I Rossi: Tornamagno IGT Marche Rosso (Montepulciano 60%, Sangiovese 40%) Rosso Conero DOC Horus (Montepulciano 100%)

Brut Metodo Classico Riserva

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti scelti tra i più vocati per la produzione di vini spumanti, all’interno degli attuali 140 soci che conferiscono la loro produzione alla cooperativa e che sono posti nel comune di Cupramontana e zone limitrofe. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto di origine marina con forte presenza di argilla e sabbia, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione che va dal sud-est al sud-ovest. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone doppio capovolto, silvoz o guyot Densità di impianto: 1600-2000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo la decantazione statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 16°C, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 25 giorni in tini di acciaio ad una temperatura compresa tra i 16 e i 18°C. Al termine della fermentazione, il vino è travasato in tini di cemento vetrificati dove rimane fino alla primavera, periodo durante il quale svolge interamente la fermentazione malolattica. Al termine di questo periodo si procede all’imbottigliamento (tirage), con l’aggiunta di lieviti e zuccheri, il vino è stivato nella cantina di maturazione dove inizia la seconda fermentazione (prise de mousse) e resta in bottiglia per 5-6 anni sui lieviti (maturation sur lies). Alla fine di questo periodo le bottiglie passano alla fase successiva (remuage sur pupitres) dove vengono periodicamente fatte ruotare su appositi cavalletti e contemporaneamente inclinate in modo che le fecce vengano a concentrarsi nel collo, nella bidule sotto il tappo. In seguito avviene il degorgément, vale a dire l’eliminazione delle fecce raccolte nella bidule, quindi la bottiglia si rimette in posizione normale e si procede all’aggiunta del liqueur d’expedition e alla definitiva tappatura; segue un ulteriore affinamento di altri 2-4 mesi prima dell’etichettatura e della commercializzazione. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con un perlage molto fine e persistente; all’esame olfattivo offre intensi profumi di lieviti e fiori di campo che si aprono poi a note di nocciola e fiori di mandorlo, con un fondo fruttato e di crosta di pane oltre che di nuances agrumate. In bocca ha un’entratura elegante, fresca, con una buona sapidità e un equilibrio che armonizza le percezioni olfattive con quelle gustative. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997 - 2001 - 2003 - 2004 Note: il vino prende il nome da uno dei primi protagonisti dello spumante marchigiano, Ubaldo Rosi, amministratore dei Beni della Casa Ducale di Leuchtenberg, che nel periodo dal 1843 al 1847, in cui dimorò a Jesi, si occupò della produzione di spumante metodo classico. Il vino raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: la Cantina Colonnara, viticultori in Cupramontana, fondata nel 1959 è operativa dal 1963 e in essa conferiscono le uve 140 soci che operano sul territorio di Cupramontana e dei comuni limitrofi posti sulle colline alla destra del fiume Esino. Dirige la Colonnara l’enologo Carlo Pigini Campanari che si avvale della collaborazione dell’agronomo Emiliano Berardi e di Pierluigi Gagliardini, storico cantiniere della Cooperativa.

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CONTE LEOPARDI DITTAJUTI Piervittorio Leopardi Dittajuti Ricordo che negli anni ‘70, l’agricoltura era attraversata da un’enormità di forze centrifughe che devastavano gli stessi legami fra uomo e terra che si erano venuti a costituire nei secoli, colpendo ogni idea di equilibrio e coltura e spingendo gli operatori agricoli a rivedere ogni anno i piani operativi delle loro aziende che prevedevano ora l’impianto di nuovi vigneti, ora la loro estirpazione, ora il finanziamento allo sviluppo di nuove colture intensive, ora la dismissione di altre. Mio padre, a quei tempi, aveva puntato molto sull’allevamento delle mucche da latte, e l’economia aziendale era prevalentemente orientata al sostegno di questa primaria attività. La viticoltura, invece, poteva contare allora su 18 ettari di vigneto a Rosso Conero doc, che davano una produzione destinata in parte alla vinificazione, nella vecchia cantina di famiglia, e in parte alla cantina sociale. Il vino ottenuto veniva venduto sfuso o in damigiane, per soddisfare il consumo locale quotidiano delle famiglie che nelle Marche è sempre stato molto importante. Le poche decine di migliaia di bottiglie prodotte, vendute nel punto vendita dell’azienda, non giustificavano l’impegno di una struttura commerciale più efficiente. Appena cominciati gli studi universitari alla facoltà di Agraria, avevo iniziato ad affiancare mio padre in azienda, seguendo con passione e grandi soddisfazioni il settore zootecnico. L’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina, avvenuta nel 1989, segnò il declino del nostro allevamento: il prezzo del latte crollò e mio padre prese la dolorosa e traumatica decisione di dismettere quell’attività. Ricordo che mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso: tutto ciò a cui avevo dedicato più attenzione non aveva più un futuro. Con la chiusura delle stalle mi rendevo conto che dovevo ritagliarmi un nuovo spazio in azienda. Ma le coltivazioni tradizionali, come il grano duro, il mais o la barbabietola da zucchero, non potevano giustificare la mia presenza in azienda al fianco di mio padre. Al tempo stesso le mie esperienze nel settore vitivinicolo si

erano andate via via consolidando ed avevo incominciato a fare i primi passi per migliorare la nostra produzione enologica, anche se questi non erano ancora sufficienti per giustificare una mia presenza in azienda. Fu così che alla fine degli anni ‘80 decisi di aprire a Roma un’attività nel settore dell’informatica. Furono due anni importanti per la mia vita, fatti di esperienze nuove e stimolanti, ma durante i quali compresi che rimpiangevo la mia campagna e che si era riacceso in me quel legame con quelle terre a cui, fin da bambino, avevo deciso di dedicare la mia vita. Il 1991 è stato l’anno decisivo: infatti ho sposato Lidia, che da allora è sempre al mio fianco e mi aiuta a prendere importanti decisioni, come quella di tornare ad occuparmi dell’azienda di famiglia, con un ruolo più definito. Ricordo che mio padre fu talmente contento di ciò, che accettò di buon grado che io mi assumessi la responsabilità di seguire e migliorare la produzione del vino. Per liberarlo da tutti quegli obblighi formali e burocratici, che si facevano sempre più complessi, presi in affitto una parte dei vigneti ed avviai i primi lavori per ammodernare la cantina. Nei primi tempi rammento che papà era preoccupato per il modo con cui conducevo la cantina e le vigne e per gli investimenti che facevo. Gli ci volle un po’ di tempo prima di accettare le mie decisioni. A volte ero costretto a nascondergli l’acquisto di un macchinario enologico o di una botte nuova, che pagavo regolarmente di nascosto con i miei risparmi. Dal 1996, quando mi ha ceduto anche l’ultima parte dei vigneti, c’è stato un suo graduale allentare delle redini aziendali. Sono finalmente riuscito a dare il via ad un progetto di ristrutturazione aziendale molto importante, che ancora oggi mi vede impegnato nella realizzazione di nuovi vigneti, la cui superficie complessiva è arrivata a quarantacinque ettari, e di una grande cantina sotterranea, che è il fiore all’occhiello della mia azienda e mi consente di produrre 200.000 bottiglie all’anno di vini di ottima qualità, esportati in diversi continenti.

e una maestra di vita

Sin da bambino, quando mi chiedevano cosa avrei voluto fare da grande, rispondevo che avrei voluto fare il contadino. Ho sempre avuto il desiderio di lavorare a contatto con la natura e forse solo oggi incomincio a capire le ragioni profonde di quel legame con la terra, nato nella mia infanzia, quando mi perdevo in quegli spazi aperti, inebriato dai profumi della campagna che si mischiavano agli odori che scaturivano dal contatto epidermico che avevo sia con le decine di mucche da latte che riempivano le nostre stalle, sia con gli animali da cortile che diventavano spesso gli amici dei miei giochi. Non so però se sia stato solo questo a spingermi a rimanere ancorato a questo luogo e a frequentare, molto più tardi, la facoltà di Agraria o se sia stato, invece, l’amore che ho sempre avuto per i miei genitori. Un affetto profondo, che mi ha spinto ad essere più di un figlio che, pur cercando di aiutarli e di seguirne le orme e i consigli, ha raddoppiato il proprio impegno per ricoprire anche il posto di un fratello maggiore che era mancato a ventuno anni, adoperandosi inconsciamente, e con tutto se stesso, affinché quel vuoto affettivo, che si era venuto a creare con quella disgrazia, pesasse il meno possibile nella vita dei miei genitori. Forse ci sono anche altre motivazioni che mi hanno spinto a rimanere qui a Numana, e che mi hanno aiutato ad accettare, per tanti anni, le idee di un padre che controllava le proprietà di famiglia con gran rigore e con quella determinazione tipica di chi ha paura di trovarsi impreparato nell’affrontare i cambiamenti epocali e traumatici che ciclicamente colpiscono l’agricoltura, come quelli che avevano disgregato e frammentato la grande proprietà latifondistica ed il patrimonio di suo nonno, proprietario di 1000 ettari, lavorati da 100 mezzadri e gestiti da 4 fattori. Per lui ogni cosa doveva essere ponderata, rendicontata e svolta attraverso immutabili azioni quotidiane, uguali da sempre ed affrontate con il retaggio di tecniche che, a lui, quasi mai sembravano superate.


questa campagna


CONTE LEOPARDI DITTAJUTI Da quando nel 2001, purtroppo, mio padre è mancato, mi capita spesso di chiedermi che reazione avrebbe nel vedere le trasformazioni e le migliorìe che ho apportato, e mi domando se sarebbe in grado di riconoscermene il merito. Oggi, a distanza di anni, devo ammettere che la campagna è stata una grande maestra di vita, poiché credo che mi abbia fatto crescere, dandomi sia l’opportunità di rincorrere i miei sogni che la capacità di affrontare le nuove sfide e quei cambiamenti grazie ai quali uno impara l’adattabilità, il significato della pazienza e il valore del tempo, arrivando a comprendere sempre più la precarietà, l’ineluttabilità e la transitorietà di tutte le cose umane. Mi accorgo che, per arrivare a questi risultati, ho percorso una strada lunghissima, irta di difficoltà, affrontata con estrema accortezza, durante la quale ho fatto molta attenzione a non tralasciare nessun particolare e attingendo, spesso, all’amore per mia moglie e a quello per i miei figli. Ogni nuova esperienza mi ha arricchito e non mi ha fatto retrocedere di un solo passo, anche se devo ammettere che è più facile confrontarsi con se stessi che con tutte le variabili che interagiscono in un’attività come la mia, che si svolge a ritmi lentissimi di produzione, legati al lavoro di vigneron e all’annualità della vendemmia, ma, al tempo stesso, presenta un ritmo frenetico per quel che riguarda l’aspetto commerciale, sempre più cruciale rispetto al passato. Fra le mie vigne non vi sono certezze ed ogni anno è una nuova vendemmia, mai uguale a quella dell’anno precedente, ognuna ricca di nuovi problemi da affrontare con l’ironia di chi non si annoia mai. È bello alzarsi la mattina con la serenità di chi ormai ha accettato che non c’è niente di certo e di scontato intorno. In questo tourbillon ti accorgi che è solo quel quotidiano rinnovamento che proviene dall’amore, che si prova verso qualcosa o qualcuno, che ti predispone a una maggiore armonia con il mondo ed amplia la tua gioia di vivere. E pensare che faccio solo del vino!

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Pigmento Rosso Conero DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dal vigneto denominato Corraini, posto in località Coppo, nel comune di Sirolo, le cui viti hanno un’età media di circa 18 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei con buona percentuale di marna argillosa, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 150 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3900 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte a mano in piccole cassette. Il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per circa 15 giorni ad una temperatura controllata compresa tra 16 e 24°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che prosegue, sempre a temperatura controllata, per alcuni giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi e délestages giornalieri. Terminata questa fase il vino effettua la fermentazione malolattica, al termine della quale, dopo una breve decantazione, è posto in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura, per il 50% nuove e per il 50% di secondo passaggio, in cui rimane per 22-24 mesi; nei primi 6 mesi vengono effettuati alcuni bâtonnages e il vino è travasato più volte. Al termine di questo lungo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 9000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso con luminosi riflessi purpurei, il vino offre un percorso olfattivo complesso, armonioso, con note di marasca, prugna matura e confettura di more, percezioni che si aprono poi a nuances di viola appassita, pepe e chiodi di garofano, sentori di foglia di tabacco e polvere di caffè. In bocca ha un’entratura fresca, con una fibra ben evidente ma setosa, piena, con tannini rotondi e morbidi; vino lungo e persistente comunque destinato ad un lungo invecchiamento. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1993 - 1994 - 1998 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal colore di cui si macchiava la pelle delle mani dei vendemmiatori, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà di Piervittorio Leopardi Dittajuti dal 1996, l’azienda agricola si estende su una superficie di 160 Ha, di cui 45 vitati e 115 occupati da prati, oliveto e seminatiAltri vini I Bianchi: Calcare IGT Marche (Sauvignon 100%) Bianco del Coppo IGT Marche (Sauvignon 100%) Verdicchio dei Castelli Jesi DOC Castelverde (Verdicchio 100%) I Rossi: Rosso Conero DOC Vigneti del Coppo (Montepulciano 100%) Rosso Conero DOC Casirano (Montepulciano 85%, Syrah 8%, Cabernet Sauvignon 7%) Rosso Conero DOC Fructus (Montepulciano 100%)

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COSTADORO Giuseppe Costantini Brancadoro

Non mi ci volle poi tanto per comprendere di aver commesso un grave errore nell’aver scelto la facoltà di giurisprudenza. Quel programma di studio richiedeva una vocazione che non mi apparteneva e diventare avvocato non era certamente lo scopo primario della mia vita.

una bottiglia di vino, riempì due bicchieri e, guardandomi negli occhi e alzando il calice, mi sorrise e disse: “Brindiamo, perché oggi è un grande giorno per la giurisprudenza italiana”. Sorrisi anch’io divertito davanti a quella sua sottile ironia e, del resto, come dargli torto? Aveva ragione anche quella volta, come sempre. Quella sua irriverente “presa per i fondelli“ lo rese ai miei occhi ancora più grande di quanto già non lo considerassi. Quell’amicizia, che contraddistingue da sempre il nostro

realizzato oltre 25.000 interventi, tutti praticati rigorosamente in strutture pubbliche di tanti paesi del mondo, mettendo la sua scienza e la sua ricerca a disposizione di tutti. In lui trovo il reale significato dell’etica, della morale e dell’amore che tutti dovremmo avere per il prossimo. Non si arriva dove è arrivato lui se non si ha un preciso scopo nella vita e, pensandoci bene, con il senno di poi, credo che egli abbia contribuito in modo determinante a costruire anche il mio, quello che mi vede impegnato,

Il mio animo libero, un po’ irrequieto, viaggiava parallelo, ma opposto agli schemi che l’avvocatura avrebbe richiesto. Entusiasta, impulsivo e bonaccione come sono, mi sarei certamente trovato male a difendere farabutti e delinquenti. Ad avvalorare questi pensieri c’era il mio limitato impegno e il relativo, e logico, scarso profitto che risultava nello studio. Fu così che, coerente con ciò che mi riconoscevo d’essere, andai da mio padre per comunicargli la mia volontà di lasciare gli studi. Non battè ciglio: mi conosceva bene e già sapeva che, prima o poi, sarei arrivato a quella conclusione, ma, come al solito, mi aveva lasciato correre come si fa con un giovane puledro prima di domarlo. Ricordo che aprì

rapporto, è stata costruita proprio su fatti analoghi a questo. Per me è stato sempre il padre che ogni figlio vorrebbe, quello che, con la sua sola presenza, ti trasmette il senso della famiglia, sa comprenderti, sa leggerti dentro e sa guardare oltre, incoraggiandoti a vivere la vita, accompagnandoti nel tuo viaggio, stando sempre un passo indietro rispetto al tuo cammino, dandoti la certezza che quando, titubante, tu ti volterai, lo troverai lì a infonderti quelle sicurezze che ti sembrava di aver smarrito. Sì, lui è il mio Superman, il mio eroe, un uomo che in 40 anni di attività come luminare italiano della chirurgia vascolare e membro onorario dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, ha

ormai da anni, nella tenuta di famiglia. Credo che mio padre sia l’unico genitore che abbia fatto carte false per far congedare il figlio dall’Esercito Italiano, nel quale rimasi due anni, nel genio guastatori, con il grado di ufficiale. Con la morte di mio nonno, queste terre, che appartengono al patrimonio di famiglia da centinaia di anni, dovevano pur essere gestite e mantenute. Non c’era nessuno che, oltre a me, potesse seguire l’azienda: mio fratello lavorava già come primario a Busto Arsizio e mio padre, pur cercando di dividersi fra queste vigne e i vari convegni e sale operatorie, trovava sempre più difficoltà a strutturare questa tenuta vitivinicola in modo moderno.

Chi non ha uno scopo non prova quasi mai diletto in nessuna operazione (Giacomo Leopardi, Zibaldone, 268)

fu mio padre a identificare quale fosse


lo scopo della mia vita


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Ritengo che sia stato in considerazione di questo che egli pensò bene di “disegnare” lo scopo della mia vita. Qualcuno esordirebbe con: “Correva l’anno 1992” o “Mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita” e così anch’io, senza conoscere nulla del vino, convinto com’ero che mischiando il rosso e il bianco si facesse il rosè, mi ritrovai a fare il vignaiolo. Mio padre sapeva che, per appassionarmi, avrebbe dovuto coinvolgermi profondamente e non si lasciò scappare l’occasione costringendomi a partire dall’abc. Ascoltando e osservando i vecchi contadini iniziai col fare il trattorista, il postino, poi il cantiniere e, crescendo gradatamente, vendemmia dopo vendemmia, giunsi a conoscere sempre meglio i meccanismi che regolano l’enologia. Ho imparato tutto sulla mia pelle interessandomi sempre di più a questo mestiere. Del resto, in questi anni, ho compreso che, per fare il vignaiolo, ci vuole passione, perché è un lavoro difficile, incerto, imprevedibile, mai uguale, ora per colpa delle piogge o delle grandinate, ora per colpa del gelo o del troppo caldo. È un lavoro difficoltoso perché ogni anno è diverso all’anno precedente, perché le stesse viti rendono in modo differente e io stesso, ogni anno che passa, mi sento cambiato. Inoltre, per un’azienda con quasi 100 ettari di vigneti, è fondamentale anche il contributo dei collaboratori che devono perseguire e sposare la filosofia aziendale e anche questo è un impegno che ogni mattina deve essere affrontato.


Il Crinale IGT Marche Merlot

Solo con la passione puoi migliorare quello che produci e avere risultati che ti diano soddisfazione ed è solo la passione che ti fa andare sul trattore, che ti fa arare, fresare, rimanere fino alle due di notte, sotto vendemmia, a pulire i tubi nella cantina pur sapendo che il giorno dopo, alle sette del mattino, dovrai già essere lì quando arriverà il primo carico di uve. A volte sorrido pensando che mi sarebbe piaciuto fare il biologo marino, per scoprire, immergendomi nelle profondità delle acque, nuovi universi, forme di vita e tesori nascosti. Quel mare, che è qui di fronte a me, mi ha dato sempre l’idea di grandi spazi e un senso di libertà che solo il contatto con la natura sa offrire. In un certo senso, però, credo di aver realizzato il mio desiderio, immergendomi in questo mare di vigne e scoprendo ogni giorno un mondo complesso e stimolante che nasconde al suo interno un universo di piccole e grandi cose che non sono visibili a chi crede che, da sola, la vigna sarebbe in grado di dare grandi uve con le quali fare grandi vini. Era logico e prevedibile che gustando il piacere sottile di vivere mille occasioni di novità e nuove esperienze io, non potendone più fare a meno, mi fermassi qui. Era questo il movente che aveva ideato mio padre ed è quello che in definitiva mi ha spinto a trovare qui il mio scopo, che è quello di produrre un vino di qualità e rinsaldare, ogni giorno di più, l’ amore che mi lega alla mia famiglia.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Ciafone nel comune di Acquaviva Picena le cui viti hanno un’età di 6 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni a medio impasto con presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m., con esposizione a est. Uve impiegate: Merlot 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte in cassetta e il mosto è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 7-10 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati sia rimontaggi giornalieri che délestages. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica per il 70% in acciaio e per il restante 30% in tonneaux di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane per 24 mesi. Al termine di questo lungo periodo di maturazione si effettua l’assemblaggio delle partite e dopo un breve periodo di stabilizzazione a freddo in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 3-6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi dolci di marmellata di mirtilli, note speziate di pepe bianco e vaniglia e nuances floreali di rosa canina appassita, tabacco scuro, cuoio e bastoncino di radice di liquirizia. In bocca ha un’entratura elegante, con tannini presenti ma ben in sintonia con le note olfattive e la ricchezza dell’insieme avvolge e scalda il palato lasciando piacevoli sensazioni di tabacco vanigliato. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001 - 2003 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Costantini Brancadoro dal 1969, l’azienda agricola si estende su una superficie di 140 Ha, di cui 96 vitati e 44 occupati da oliveti, prati, boschi, calanchi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Rutilia Pasqualetti e l’enologo Nicola Dragani.

Altri vini I Bianchi: Offida Pecorino DOC Danù (Pecorino 100%) Offida Passerina DOC La Feròla (Passerina 100%) Falerio dei Colli Ascolani DOC Le Ginestre (Falerio 100%) I Rossi: Offida Rosso DOC Diciotto Quarantotto (Montepulciano 80%, Merlot 20%) Rosso Piceno Superiore DOC La Rocca (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%)

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DE ANGELIS Quinto Fausti Come avrai notato, nelle Marche le cose non sono poi così semplici come appaiono, anche se chi entra in questa terra ne rimane affascinato. È una terra splendida, che sembra quasi uscita dal pennello di un attento pittore che, incline a percepire le sfumature cromatiche che sanno offrire i vigneti, i campi di girasoli e di grano, riesce a renderne in modo unico tutta la solarità. Basta guardarsi intorno per vedere che ogni centimetro quadrato di queste colline appartiene a una complicata tavolozza che raffigura un più complesso disegno che è compreso fra mare e monti. Devi sapere che a fornire a quel pittore i colori, hanno contribuito la cura, l’ingegno, la tenacia e il lavoro dei contadini marchigiani che non si sono mai lasciati sfuggire l’occasione di dialogare con la natura. Ma in questo mondo così globalizzato non è più sufficiente lavorare a testa bassa come abbiamo sempre fatto noi: oggi è necessario saper comunicare il proprio saper fare e in questo, ahimè, non siamo dei maestri, anzi non siamo proprio capaci... È qui che cominciano le nostre difficoltà ed è in questo che ci troviamo davanti a stridenti contraddizioni e ad ataviche reticenze. È da anni che vado predicando che dovremmo, un po’ tutti, abbandonare questa nostra chiusura, questo nostro orgoglio che ci fa sentire insensatamente al centro dell’universo e questa nostra riservatezza senza costrutto che non conduce a niente. È tanto che dico che bisognerebbe guardare oltre, prendere esempio da chi ha già lavorato in certe direzioni, provando a percorrere anche strade diverse sulle quali costruire un intento comune che sappia, una volta per tutte, valorizzare il nostro impegno fra queste vigne. Sono state proprio queste considerazioni, che ormai, devo dire, sono comuni a chi ha più a cuore le sorti del settore enologico, che mi hanno spinto insieme ad altri produttori a cercare di costruire “Fattoriepicene spa”, un piccolo consorzio con il quale trovare un comune denominatore fra l’interesse del singolo e lo sviluppo del territorio. Del resto il territorio di Offida, come avrai notato, ci offre l’opportunità per lo sviluppo di questo importante processo di crescita e sarebbe sciocco lasciarsela sfuggire.

Ma ti posso assicurare che qui, fra queste colline, anche l’uso di un semplice plurale maestatis è già un’utopia e il “noi” lascia il posto ad un silenzioso quanto assordante “io” che ci accomuna e ci rende sterili e poco costruttivi. Ma la contraddizione maggiore, anzi il paradosso, è che viviamo nell’unica regione italiana “al plurale”, “le” Marche appunto. Un plurale che ha molti significati e notevoli discordanze, come quelle che esistono fra il Nord e il Sud di questa terra, fra provincia e provincia, addirittura fra vallata e vallata, vicine e sempre parallele, come le divergenze che esistono fra l’idea che hanno gli imprenditori o i politici sullo sviluppo della costa e dell’entroterra, fra chi si occupa di industria e chi di agricoltura o di turismo. Mai un sistema unico, ma molti sistemi, frammentati e certe volte in contrapposizione fra di loro. Anche i modi di interpretare la viticoltura sono stati diversi, e in parte lo sono tuttora, fra le varie aree geografiche, convinti come siamo che il nostro orticello debba essere, per forza, il più verde e il migliore. Ma tu sai bene che non è così e, comunque, ci stiamo provando a cambiare le cose con questo consorzio. Del resto io sono aperto al cambiamento e forse, più di tanti altri, sono predisposto a rimettermi in gioco, anche se non ti nego che non è stato semplice, intorno al ‘95-‘96, lasciare il mio lavoro di ingegnere meccanico. Ma ci sono riuscito, attraversando i vari stadi che in questo ultimo decennio hanno caratterizzato il mondo del vino, inserendomi nella storia dell’azienda di famiglia che opera da oltre quarant’anni in questa provincia di Ascoli, da sempre serbatoio di approvvigionamento della viticoltura di tante altre regioni italiane. È stato duro cambiare la mentalità, allargare le prospettive, mettere in piedi progetti di più ampio respiro che non fossero regolamentati da numeri o formule matematiche, ma dal fiuto per gli affari e dall’analisi percettiva dell’andamento dei mercati che, ahimè, si acquisiscono con l’esperienza e con tante vendemmie sulle spalle. Come non è stato semplice prendere la decisione di cominciare a imbottigliare. Non è stato facile convincere mio suocero a perseguire

questa nuova avventura, visto che lui aveva sempre commercializzato il vino sfuso. Come dargli torto? Per tanti anni vendere il vino sfuso di queste colline ascolane era redditizio. Con arguzia e intelligenza si muovevano grosse quantità di uve, e quindi di vino, destinato al taglio o all’arricchimento di vini toscani, piemontesi o veneti. Profumati, potenti, fini o eleganti non aveva importanza: era necessario che fossero semplicemente buoni vini, come quelli che questa terra sa dare e, qualunque fosse stata la richiesta, c’era pronto il vino che la soddisfaceva. Anche per me, che mi accostavo a questo nuovo lavoro, non era troppo complicato vendere una cisterna di vino. Ce n’erano, e ce ne sono ancora, di aziende che lavorano così, qui nell’ascolano, e anche noi non disdegniamo questo vecchio filone, dato che, dopo tanti anni, abbiamo ancora dei buoni clienti, anche se questo è un tipo di commercio che ha risentito molto della crisi in atto nel settore enologico, con un calo che ultimamente ha sfiorato il 40% o addirittura il 50%. Sono lontani i tempi in cui bastava fare una telefonata, spedire all’acquirente una bottiglietta da ½ litro di vino e, se piaceva, venderne mille, duemila o tremila quintali in un colpo solo, arrivando, nel giro di tre o quattro mesi, a vuotare la cantina e guadagnare anche dei bei soldini. Ma quelli erano altri tempi, in cui, forse, se tutti insieme avessimo preso con più convinzione altre strade, questo Rosso Piceno avrebbe avuto sul mercato un peso maggiore, oltre a considerazione e quotazioni più elevate. Ma così non è stato ed è inutile disquisire sui se e sui ma. Con l’esperienza, che sento crescere in me, sono sempre più convinto che oggi esistano le basi perché questa terra, da sempre vocata alla viticoltura, recuperi il terreno perduto nei confronti delle più quotate aree vitivinicole nazionali, così come sono convinto che i nostri vini raggiungeranno presto importanti traguardi, soprattutto se continueremo a innalzare sempre più la qualità dei nostri prodotti, così come abbiamo già cominciato a fare, magari comunicando in modo più efficace ciò che ci circonda.

qui l’uso del “noi” lascia il posto


ad un quanto mai assordante “io”


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Anghelos IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano, Cabernet Sauvignon e Sangiovese provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in Contrada Lala nel comune di Offida, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 250 metri s.l.m., con esposizione a nord-est e sud. Uve impiegate: Montepulciano 70%, Cabernet Sauvignon 25%, Sangiovese 5% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nel mese di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in rotomaceratori di acciaio inox per 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 35°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale viene effettuato almeno 1 rimontaggio giornaliero all’aria. Terminata questa fase, il vino effettua, sempre in acciaio, la fermentazione malolattica; qui rimane 1 mese e dopo il primo travaso viene posto in barriques di rovere francese di media tostatura a grana fine in cui resta dai 12 ai 15 mesi; durante questo periodo viene effettuato 1 travaso, poi il vino è messo in bottiglia dove rimane per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 25000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino, il vino offre all’esame olfattivo profumi di confettura di prugna, cassis, rabarbaro e tostatura di caffè a cui si aggiungono altre sensazioni speziate di china, rosa canina appassita, macchia mediterranea e cacao amaro in polvere. In bocca è caldo, equilibrato, con tannini ben armonizzati, lungo e di grande persistenza. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1999 - 2001 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà dal 1985 di Alighiero De Angelis e delle figlie Rosella e Elide, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 60 vitati, 10 occupati a oliveto e il restante a prati, boschi e seminativi. L’azienda è condotta da Quinto Fausti; collabora in azienda l’enologo Roberto Potentini.

Altri vini I Bianchi: Falerio dei Colli Ascolani DOC (Trebbiano 50%, Pecorino 30%, Passerina 20%) Prato Grande IGT Marche (Chardonnay 100%) Offida Pecorino DOC (Pecorino 100%) I Rossi: Rosso Piceno Superiore DOC Oro (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Rosso Piceno Superiore DOC (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Rosso Piceno DOC (Montepulciano 70% Sangiovese 30%)

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FATTORIA CORONCINO Lucio Canestrari e Fiorella De Nardo con i figli Valerio e Fulvio Da studente aiutavo mio padre nella conduzione della trattoria di famiglia che si trovava proprio nelle vicinanze di Piazza Mazzini, vicino alla Rai. Da Guido, si chiamava quella tipica osteria romana che, aperta dai miei nonni alla metà degli anni ’20, aveva visto accrescere la sua notorietà con l’ingresso di mio padre, che anch’io aiutavo nel lavoro. Ancora oggi, a distanza di anni, quando ci penso, mi ricordo distintamente quel frastuono di pentole, piatti e forchette che si percepiva dalla cucina posta

secondo un basilare principio di equilibrio e di armonia ricercato fra l’assoluta qualità delle risorse che si hanno a disposizione e il proprio saper fare. Mio padre ha sempre sostenuto che qualsiasi scelta avessi voluto fare nella vita avrei dovuto prima di tutto capire dove mi avrebbe condotto e questa affermazione l’ho sempre tenuta ben presente per tutte le cose che avrei potuto fare, sia che si trattasse di diventare oste e proporre un piatto, o fare il vignaiolo e proporre un vino.

tentacolare di Roma, città che poco si confaceva al suo carattere quieto, sensibile e riservato, proprio di chi è nato tra le campagne brumose del Nord, in quel Veneto che aveva dato i natali anche a mia madre. Lei non era mai stata attratta dal luccichìo delle vetrine delle grandi strade del centro, le macchine la intimorivano e Roma stessa la terrorizzava. Allora cosa fare? Al cuor non si comanda e, per risolvere le sue paure e soddisfare il nostro amore che intanto cresceva, decidemmo di trasferirci, io da Roma

proprio sotto la casa dei miei nonni, a cui faceva da sottofondo il parlottare, e talora il vociare, degli avventori che giornalmente passavano in quel locale. La cucina e la sala di quella trattoria mi facevano presagire quale sarebbe stato il mio futuro: presto avrei dovuto prendermi cura di quel bailamme e la cosa non mi dispiaceva. Quell’attività commerciale, così particolare e unica, che da sempre crea un collage perfetto fra le capacità e le passioni, fu per me una valida scuola, consentendomi di capire quale fosse l’importanza dell’uso degli ingredienti giusti, utili a garantire il risultato del piatto, esattamente come accade nella vita, ingredienti che devono essere calibrati

Finita la scuola e poi il servizio militare, ad attendermi c’era la trattoria di famiglia, se non che, alla stazione di Milano, uno sguardo furtivo di donna cambiò la mia vita. Quegli occhi avevano una luce diversa che andava oltre il profondo senso di tranquillità che percepivo in quello sguardo e ricordo che non esitai minimamente ad innamorarmi di lei. Ci perdemmo tra le migliaia di persone della stazione, poi la ritrovai, la guardai negli occhi e le chiesi se voleva diventare mia moglie. Arrossì e con quegli occhi, ridenti e trasognati, mi rispose: “Sì!” Abituata alla campagna, alle quiete dei lunghi silenzi invernali e alle serate dinanzi al focolare, Fiorella non amava la morsa

e lei dalle campagne trevigiane, qui nelle Marche, a Staffolo, nella casa che mio padre aveva appena acquistato. Un vecchio rudere, che decidemmo di restaurare in economia, circondato da poco più di 2 ettari di terreno coltivati a colture promiscue. Eravamo davvero “un cuore e una capanna” e il nostro amore fu sufficientemente capace di sostenerci spiritualmente e di rendere meno dure le molte rinunce quotidiane che dovevamo fare. Fu lo zio Augusto il nostro mentore, colui che ci insegnò le arti del mestiere del contadino e la gestione dell’agricoltura, raccontandomi le sue tecniche, le storie, le sofferenze e i trucchi delle campagne e delle cantine della prima

un po’ per gioco,


un po’ per amore e un po’ per bisogno


FATTORIA CORONCINO

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metà del secolo scorso. Però quell’agricoltura, bella come un quadro naif, era massacrante sul piano fisico ed umiliante su quello economico. I soldi scarseggiavano e per vivere lavoravamo presso altre cantine e nei ristoranti della zona, mentre, contemporaneamente, piantavamo ogni anno nuove vigne, nella speranza che una maggiore produzione di vino ci potesse consentire l’affrancamento dal lavoro esterno che si è poi concretizzato nel 1989. Così, poco alla volta, abbiamo piantato mezzo ettaro di vigna e poi ancora un altro mezzo ettaro, arrivando a produrre 600 bottiglie il primo anno e 1200 il secondo e comprendendo che, con quella poca terra che avevamo, avremmo potuto fare ben poche cose. Decidemmo così di non farci sfuggire l’occasione di acquistare a Spescia, una località qui vicino a Staffolo, un vigneto di 1,8 ettari che ci veniva offerto ad una cifra vantaggiosa, perché malato e su un terreno ripidissimo, ma comunque noi non avevamo denari e le nostre famiglie, chi in un modo e chi in un altro, a seconda delle possibilità li anticiparono. Così è iniziata la nostra storia di contadinivignaioli, un po’ per gioco, un po’ per amore e un po’ per bisogno, e oggi, a distanza di anni, sono felice della strada intrapresa, che è andata oltre l’obiettivo desiderato di arrivare a coltivare sei ettari di vigna per consentire l’autofinanziamento del lavoro. Devo dire che tutto è accaduto in maniera naturale, spontanea, senza traumi, direi quasi in maniera ovvia, così come fu ovvio per me lasciare tutto e tutti e trasferirmi qui a vivere questa storia d’amore che ancora dopo tanti anni mi unisce a Fiorella. Ovvio e naturale come è stato incominciare a fare il vignaiolo, come è stato imbottigliare immediatamente il vino che producevamo, mentre un po’ meno scontata fu la decisione di raccogliere le uve mature, che rappresentava un criterio innovativo nel panorama vitivinicolo delle Marche di quegli inizi degli anni ‘80. Per me era tuttavia naturale accettare la vita nella sua interezza di gioie e responsabilità, facendo ogni giorno la propria parte con la diligenza del buon padre di famiglia. Non avendo niente su cui contare, ogni mattina ci alzavamo e ‘NDO ARIVO METTO ’N SEGNO, scritta che compare su ogni nostra bottiglia,

ha cominciato ad essere la realtà di tutti giorni, in cui la mole del lavoro era grande e facevamo quello che potevamo, fin dove si poteva, come d’altronde accade anche oggi. Forte dell’aiuto che avevo da mia moglie, con la quale condivido tuttora i sacrifici e le gioie, e aiutato dal mio carattere un po’ fatalista, intriso di quella speciale filosofia solare e un po’ “menefreghista” che abbiamo noi capitolini e che è difficile da comprendere per chi non è romano, sono andato avanti senza voltarmi indietro, un passo davanti all’altro su quel destino che mi ero scelto. Oggi mi rendo conto che siamo stati bravi, molto bravi nel raggiungere i nostri

obiettivi. Siamo stati bravi nel non lasciarci mai abbattere nei momenti difficili o scoraggiare dalle critiche e dalle avversità che, paradossalmente, hanno sempre avuto su di me l’effetto opposto, quello cioè di stimolarmi ancor di più nell’affinare i miei propositi, mettendo a punto idee e strategie sempre nuove, senza badare troppo a cosa mi succedeva intorno. Sarà che sono molto concreto e stando accanto a Fiorella ho trovato ancora più semplice rifuggire dal quel presenzialismo che sembra aver colpito un po’ tutto il mondo, anche quello del vino, e che è lo specchio di questa società ad economia avanzata.


Gaiospino Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore Io lavoro molto e se ho del tempo libero preferisco trascorrerlo con i miei figli, tra le mie viti, in campagna, anziché nei “salotti che contano” del vino. È qui che trovo l’equilibrio che mi gratifica e mi tiene in contatto con quei valori reali e concreti che cerco di trasferire ai miei figli; è questo il rifugio mio e della mia famiglia e ne racchiude speranze e sogni. Qui viviamo in armonia con la natura, fra ampi spazi verdi e una campagna splendida, a contatto con queste viti che sono diverse una dall’altra e richiedono tutta la mia attenzione e finché ci riusciamo, rimarremo qui senza voler divenire ciò che non siamo e desiderando solo quello che abbiamo.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Spescia, nel comune di Cupramontana, le cui viti hanno un’età compresa tra i 16 e i 27 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi con forte pendenza, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica, che avviene alla temperatura controllata di 16°C, il 30% del mosto è inserito in tonneaux di rovere dove svolge la fermentazione alcolica e in cui rimane per 15 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati alcuni bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Al termine di questo periodo si effettua il travaso e si procede all’assemblaggio delle varie partite; dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, mentre all’esame olfattivo sprigiona profumi che spaziano dalle note di frutti a pasta gialla come mango, ananas, pesca sciroppata e susina matura a percezioni floreali di fiori di acacia e gelsomino. In bocca ha un’entratura complessa, elegante, molto piacevole, rotonda ed equilibrata che armonizza la vena alcolica con le percezioni olfattive e gustative; buona sapidità e freschezza; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1988 - 1990 - 1996 - 1997 - 1999 - 2003 Note: il vino, che prende un nome di fantasia, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà di Lucio Canestrari e Fiorella De Nardo dal 1981, l’azienda agricola si estende su una superficie di 17 Ha, di cui 9 vitati, 1,5 a oliveto e 6,5 occupati da sprofondi e bosco. Consulente l’enologo Alberto Mazzoni.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Il Coroncino (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Stracacio (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Il Bacco (Verdicchio 100%) Le Lame IGT Marche (Trebbiano 60%, Biancame 40%) I Rossi: Ganzerello IGT Marche (Sangiovese 90%, Montepulciano 10%)

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FATTORIA DEZI Davide e Stefano Dezi Sai quante volte mi è passato per la mente di smetterla di arrovellarmi, di sacrificarmi, di rompermi il capo intorno a queste vigne? Sai quante volte sono stato tentato di lasciar perdere questo mestiere di vignaiolo? Non ti nego che questi pensieri si sono affollati spesso nella mia mente, ma, come nuvole all’orizzonte apparse all’improvviso, sono svaniti, sono stati spazzati via dal desiderio di non mollare, di riuscire dove altri, qui, avevano fallito. Quel vento forte e teso che quasi sempre rende chiaro il cielo dei miei pensieri era, ed è tuttora,

Sì, è per dare dignità al loro lavoro, per dare valore alla loro tenacia e una giusta ricompensa alla loro predisposizione al sacrificio e al loro attaccamento a questa terra, che io sono rimasto. Non puoi capire quanto ciò abbia significato. Devi sapere che non sono poi così lontani gli anni in cui si pensava non al guadagno o al business, ma soltanto alla sopravvivenza, alla dura e cruda sopravvivenza che spinge a ragionare, solo ed esclusivamente, nell’ottica di riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, asciugandosi dalla fronte la fatica, avendo il coraggio di non

alimentato non solo dall’orgoglio di sentirsi parte integrante della storia e della tradizione di questa mia famiglia, ma anche dall’amore che mi lega a questo territorio di Servigliano. Devo dire inoltre che c’è anche un altro importante motivo per il quale non sono mai stato invogliato a ricercare strade alternative per il mio futuro: sono gli occhi di questi due signori che tu vedi qui accanto a me, Romolo e Remo, rispettivamente mio zio e mio padre. Come vedi, i loro sono occhi sinceri, semplici, da contadini, che assomigliano, come diceva Curzio Malaparte, agli occhi dei buoi, grandi e languidi che hanno saputo guardare la terra e lavorare su ciò che gli apparteneva trascorrendo fra queste vigne tutti gli oltre ottant’anni della loro vita.

mollare mai, né davanti alla fantomatica ipotesi di vendere per ottenere un immediato, quanto mai effimero ritorno economico, né davanti agli avidi commercianti che speculavano sul raccolto, né di fronte alle avversità che madre natura ogni tanto scatena, senza guardare in faccia nessuno, elargendo a poveri e ricchi. No, caro mio, come puoi ben capire non è stato facile cambiare il corso delle cose; non è stato facile cambiare quella cultura di miseria che qui regnava sovrana. Ci vuole tempo per invertire certe tendenze, così come, del resto, c’è voluta molta pazienza per convincere questi due attempati giovani a percorrere nuove strade. Pensa a quanti e quali contrasti possa aver provocato, all’interno

della nostra famiglia, il dover procedere a una semplice potatura che riducesse la produzione nei vigneti, togliendo una fetta importante di reddito alle misere casse familiari. Immagina soltanto quanta fatica io possa aver fatto per far comprendere loro il significato di “qualità”, quale significato possa aver assunto la decisione di commercializzare il vino che producevamo solo dopo tre o quattro anni o il semplice utilizzo delle barriques. No, certamente tu non puoi capire quali rischi abbiano corso quei fragili meccanismi generazionali che regolano i rapporti in una famiglia. Il fatto che tu oggi sia qui è un’altra ciliegina che si va a sommare alle altre e a tutte quelle che, nel tempo, hanno contribuito a convincermi e a convincerli che la strada intrapresa era quella giusta, quella sulla quale era necessario e doveroso insistere. Certo non nego che la saggezza e l’esperienza di due “biblioteche” viventi come loro abbiano contribuito ad aprirmi gli occhi su tante cose, soprattutto su quelle fasi vegetative dei vigneti e di conoscenza dei nostri terreni; nozioni che hanno contribuito ad accrescere, indubbiamente, il mio saper fare. Ecco perché non mi stanco di seguire con attenzione i loro consigli, ecco perché quelle viti che loro hanno piantato cinquant’anni fa sono sempre al loro posto, ancora belle, vive e rigogliose. È stata la loro tradizione orale che mi ha insegnato ad accudirle, così come meritano le vecchie signore, affinché continuassero a dare uve prestigiose. Sai, non mi dispiacerebbe avere un giorno la possibilità di trasferire a mio figlio ciò che loro mi hanno insegnato. Comunque, standogli accanto per tutti questi anni, la cosa più bella è scoprirmi, ogni giorno che passa, come loro; assomigliando loro sempre più, divenendo uno strumento della terra, un vigile guardiano capace di assecondarla, accudirla e preservarla. Spesso quando guardo i nostri vigneti mi vengono in mente quei versi dallo Zibaldone di Giacomo Leopardi: “L’arte non può mai uguagliare la ricchezza della natura”; e sono queste stesse parole che mi ritornano in mente quando, la mattina, vado fra quei filari e

l’arte non puo mai uguagliare


la ricchezza della natura


FATTORIA DEZI provo a saggiare gli umori delle viti, godendo di quelle vibrazioni che percepisco in modo chiaro, forte e positivo in quel quotidiano contatto. Così, negli anni, ho imparato a conoscere sempre meglio questa terra, dove ogni porzione è diversa dall’altra, dove nessuna particella è della stessa pasta dell’altra. La cosa fantastica è che mi accorgo di questo a ogni vendemmia, soprattutto quando scopro che il vino, dopo aver atteso che il tempo compia il suo dovere, assume caratteri nuovi e diversi. Ogni vigneto dà una diversa interpretazione di questo nostro terroir ed è così che il mio innamoramento per questa terra e per queste mie vigne diventa una passione ogni anno più forte, rinsaldando quel legame che mi unisce a questo luogo fin dalla nascita. È per questo che, dentro di me, quando penso a Romolo e Remo, sento un grande senso di gratitudine nei loro confronti.

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È questa terra, alla fine, la vera mattatrice; a lei non gliene frega niente del fatturato, dei mercati esteri, dei winemakers o della promozione del territorio: lei è lì, da sempre, e rimarrà qui anche dopo che noi saremo diventati polvere, a lei interessa solo che vi sia qualcuno che la coltivi, la zappi e la curi ogni giorno. In questi anni non nego che ci siano state anche tante mortificazioni, tante rinunce, tanti sacrifici, ma c’è stata anche tanta, tanta gente che ci ha voluto bene e che oggi vorrei ringraziare e lo faccio qui, da queste tue righe, se me lo consenti. Voglio ringraziare tutti coloro che ci hanno aiutato a nascere come azienda, altri che, comprandoci e ricomprandoci il vino, hanno creduto nel nostro impegno e nella nostra passione; voglio ringraziare tutta questa gente che fa parte della nostra vita e di questa piccola grande storia che, in definitiva, ci racconta meglio di qualsiasi altra cosa.

In linea di massima credo di averti narrato veramente la nostra vita, di cui, caro amico, io sono orgoglioso, come avrai ben capito, e lo sono delle nostre origini, di questa mia provenienza contadina, dei valori forti e dei legami che mi sono stati trasmessi da questi due baldi vecchietti, valori che forse mi hanno un po’ frenato, ma che hanno contribuito a mantenere e a salvaguardare un patrimonio che, altrimenti, sarebbe andato disperso. Non so se, venendo qui da attento viaggiatore in cui ti riconosco, hai scoperto nuove o eclatanti novità. Forse te ne andrai deluso di non aver sentito niente che tu non abbia già sentito altre volte, forse da altri contadini come me, tutti sicuramente diversi, ma tutti uguali fra loro. Siamo gente di campagna, siamo fatti così, gente semplice, nel bene o nel male e non ti dolere di ciò. Il bello è questo: prendi ciò che di buono ti abbiamo regalato oggi e in esso scoprirai che ci


Regina del Bosco IGT Marche Rosso sono ancora delle anime sincere a questo mondo. In fondo, e tu smentiscimi se credi, io penso che il mestiere del vignaiolo sia un po’ come quello dello scrittore. Credo che tra essi vi siano molte similitudini. Noi, come te, osserviamo ciò che ci circonda e cerchiamo di interpretarlo secondo l’esperienza e la cultura che abbiamo e ragionando e disquisendo sui modi e sui sistemi di ciò che vogliamo ottenere, ci affidiamo al tempo, come tu del resto per scrivere i tuoi libri, non è vero? Ci vuole tanto tempo sia per fare un buon libro, sia per fare un buon vino, poiché l’uva, così come le parole, deve nascere, deve essere raccolta, poi spremuta e il nettare ottenuto messo da parte a maturare affinché un giorno, come un libro, possa raccontare, attraverso il suo colore, le sue sfumature e il suo gusto, il significato, il concetto e l’essenza del pensiero che lo ha partorito.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Fontemaggio nel comune di Servigliano, le cui viti hanno un’età di circa 35 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di argilla e sabbia, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 230 e i 260 metri s.l.m., con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 2800 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima settimana di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in tini di cemento per 15 giorni ad una temperatura compresa fra i 28 e i 32°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, al termine della quale si effettua una stabilizzazione del vino che prosegue per quasi 1 mese prima che lo stesso venga travasato in barriques di rovere francese per l’80% di primo passaggio; qui effettua la fermentazione malolattica e vi rimane per 24 mesi, al termine dei quali si procede all’assemblaggio delle partite e a un nuovo periodo di stabilizzazione di 1 mese. Trascorso questo lungo periodo di maturazione, il vino, senza filtrazione, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 9000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di piccoli frutti di bosco come mirtilli e ribes neri che via via si aprono a percezioni olfattive di fiori appassiti e note di liquirizia, cacao in polvere, tabacco secco da sigaro e spezie dolci, con un finale che riporta alla mente profumi selvatici. In bocca è affascinante, complesso, caldo e potente, sapido, con una fibra tannica che si armonizza perfettamente con l’alcol e rende il vino lunghissimo e di grande persistenza. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1993 - 1995 - 1998 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dalla “regina del bosco”, identificata con la Beccaccia, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Romolo e Remo Dezi dal 1975, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 15 vitati e 15 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge le funzioni di agronomo Davide Dezi, mentre Stefano Dezi si occupa della cantina.

Altri vini I Bianchi: Le Solagne IGT Marche (Verdicchio 70%, Malvasia 30%) I Rossi: Solo IGT Marche (Sangiovese 100%) Dezio IGT Marche (Montepulciano 100%)

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FATTORIA LA MONACESCA Aldo Cifola Io appartengo a quella categoria di vignaioli che fanno il vino non per business, ma per passione. Sono 25 anni che lavoro con mio padre in questa azienda e ancora, pur producendo e vendendo vino, non mi sono arricchito e credo che non mi riuscirà mai! In campagna succede spesso che se da una parte prendi uno, dall’altra investi due e la coperta che hai confezionato è sempre corta, da qualsiasi parte tu la tiri: non copre mai tutto ciò a cui era destinata. Questo è un tipo di lavoro silenzioso, schivo, lontano dagli slogan preconfezionati; è un lavoro che ti aiuta a crescere, ti arricchisce di tante cose e ingrandisce a dismisura la tua pazienza con la quale diventi un po’ più fatalista e comprendi meglio le sfumature del tempo che passa e annacqua i tuoi entusiasmi, rende leggeri i tuoi sogni, ancorandoti sempre più a quella terra che giornalmente devi lavorare. È una pazienza amica che ti dà la forza per non lasciarti andare quando imprechi contro quelle nuvole che ti rendono le cose difficili e ti fa sopportare meglio le lunghe attese legate a questo lavoro. Piantare una vite e aspettare che cresca e dia frutti maturi richiede molto più tempo di quanto si possa immaginare, e ci si accorge poi che non è finita, che tutto questo non è sufficiente, perché è necessario far scorrere altro tempo per riuscire a vinificare quei frutti e lasciare che il vino prodotto maturi in cantina. Vedendo che i mesi e gli anni passano, scopri che al tuo fianco, a farti compagnia, non c’è stato soltanto il calendario, ma anche quella pazienza che, da buona amica, ha condiviso con te le speranze e le delusioni. Ecco perché spesso ripeto che l’idea di fare il vignaiolo non ti può venire dal semplice desiderio di fare business, ma è una cosa che nasce soltanto dal cuore, dalla passione, da una volontà ferrea, dal lavoro e da quelle mille altre cose che metti in ciò che fai per creare quel vino che richiede la stessa cura e la stessa profondità con cui un’artista crea un’opera d’arte. Certamente non sono uno scultore né un pittore, ma credo di essere un buon “architetto della natura” che ha saputo modellare queste

colline secondo l’obiettivo che si era prefissato e ha saputo attendere che queste viti dessero buoni frutti. Non esiste nessun’altra attività dalla quale, a fronte degli investimenti fatti, si debbano attendere 10 o 15 anni per avere degli ipotetici risultati. Quale mente imprenditoriale, in un mondo che correndo a velocità impressionante travolge tutte le regole, potrebbe concepire una simile strategia aziendale? Forse un folle, un poeta o un sognatore e nessuno di questi è mai un

contadino. È per questo che ripeto che è la passione il sentimento più importante richiesto da questo lavoro. Una passione che si acquisisce con il tempo, trovandocisi immersi fin dalla più tenera età; una passione trasmessa dalle persone che ti circondano, nel mio caso da mio padre, che, pur con il suo carattere riottoso, schivo ma concreto, ha saputo trasferirmi il suo modo di interpretare questo mestiere di vignaiolo. Non servono tante parole, né tanti fronzoli per descrivere cosa significhi vivere in simbiosi con il proprio territorio, con le proprie vigne e con la propria cantina. Non serve raccontare novelle o declamare poesie per parlare di cosa vi è dentro o dietro ad una bottiglia di vino.

Basta venire qua e guardarsi intorno per comprendere quale sia il valore che noi diamo al nostro mestiere e se non è sufficiente questo basta stappare una bottiglia del nostro Verdicchio per comprendere quale sia la nostra idea del vino. Noi nasciamo come produttori di vini bianchi e il nostro vino è stato sempre questo, non abbiamo mai seguito le mode o preso scorciatoie per ottenere il plauso del mercato; al contrario, per esaltare le sue caratteristiche abbiamo percorso talvolta strade molto lunghe, legate esclusivamente all’evoluzione dei vigneti. Sono venticinque anni che perseguiamo silenziosamente l’obiettivo di realizzare vini che siano capaci di durare nel tempo e per farlo non utilizziamo i legni, ma, più semplicemente, il vetro, con l’intento di immettere sui mercati prodotti “pronti”. Non importa se per ottenere simili risultati occorra più tempo, l’importante è che il risultato esalti la territorialità. È per questa territorialità che procediamo da anni ad un’attenta selezione massale dei migliori cloni posti nei vigneti storici dell’azienda, così da lavorare non con viti omologate, ma con quelle di cui possiamo conoscere la natura e la capacità di adattamento a questo territorio. À stato così e credo che sarà così ancora per molto tempo, anche se per il futuro mi piacerebbe realizzare un grande Metodo Classico. Devo ammettere che la cosa mi intriga e stimola ancora di più la mia capacità di emozionarmi. Non sarà un compito semplice quello che mi sono proposto e non so quando potrò realizzarlo, ma l’importante è che sia ben presente nella mia mente senza però distogliermi dal continuare a fornire, con i miei vini, un piccolo contributo alla conoscenza e valorizzazione della DOC del Verdicchio di Matelica e di questo meraviglioso territorio, magari sottraendolo alla millenaria chiusura mentale che ne ha inficiato la crescita. So già che in aggiunta alla mia volontà, alle capacità personali e oltre al mio desiderio di movimentare quest’economia agricola e innalzare l’attaccamento che nutro per questa vallata, mi occorrerà soprattutto tanta, tanta pazienza, ma quella, come ho già detto, non mi manca.

e una pazienza amica che ti dà


la forza per non lasciarti andare


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Mirum Verdicchio di Matelica DOC Riserva Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Monacesca nel comune di Matelica, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 370 e i 390 metri s.l.m., con esposizione a nord-sud. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura ad archetto o capovolto Densità di impianto: 1800 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 2500 nei nuovi Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito verso la fine di ottobre con la raccolta di uve surmature, si procede alla pressatura soffice delle stesse e dopo una pulizia statica del mosto alla temperatura controllata di 5°C per circa 24 ore, si inseriscono lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 12-15 giorni in acciaio ad una temperatura di circa 20°C; qui il vino rimane 7-8 mesi durante i quali svolge la fermentazione malolattica. Di solito alla fine del mese di agosto successivo alla vendemmia viene effettuato l’assemblaggio delle partite e, dopo un affinamento di 10 mesi in acciaio, si ha un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, dopodiché il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 13000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino, che si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, offre all’esame olfattivo profumi profondi e complessi di mandorle tostate, con note agrumate e di miele di acacia, camomilla e tarallucci all’anice a cui seguono percezioni minerali e vegetali di timo. In bocca è caldo, piacevole, vellutato, elegante, lungo e persistente con piacevoli sensazioni balsamiche e di anice stellato; bella la freschezza e grande la persistenza. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1988 - 1991 - 1993 - 1994 - 2001 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dal nome del proprietario soprannominato “Miro”, da cui Mirum, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Cifola dal 1966, l’azienda agricola si estende su una superficie di 80 Ha, di cui 27 vitati e 53 occupati da seminativi. Svolge la funzione di agronomo lo stesso Aldo Cifola, mentre quella di enologo è svolta da Roberto Potentini e Fabrizio Ciufoli.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio di Matelica DOC (Verdicchio 100%) I Rossi: Camerte IGT Marche (Sangiovese 70%, Merlot 30%) Duerosso IGT Marche (Sangiovese 50%, Merlot 50%)

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FATTORIA LAILA Andrea Crocenzi “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la velocità...” Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del Futurismo Non so se l’ebbrezza di correre veloce sulla pista della vita sia un brivido di magnificenza o la sensazione di una bellezza ogni volta nuova, ma il correre veloce è quello che, in definitiva, io faccio giornalmente. Difficilmente mi fermo a guardare il passato e, se questo avviene, lo faccio distrattamente,

preferendo, invece, concentrarmi sul modo migliore di immaginare e costruire il futuro. Non nascondo però, che qualche volta ho provato a rallentare questa sfrenata corsa, iniziata con il mio ingresso in questa azienda vitivinicola, ma purtroppo non ci sono mai riuscito. Sembra addirittura che in questo momento storico della mia vita io non sia capace neanche di ritagliarmi un piccolo spazio da utilizzare per me o per la mia famiglia, per godere insieme ad essa di ciò che è stato fatto in questi anni. Questo impeto irrefrenabile a correre è più forte di me e così continuo a muovermi verso i traguardi che mi sono prefissato, con la sensazione costante di trovarmi seduto su un

treno che va dritto veloce verso il suo capolinea. In silenzio, dai suoi finestrini intravedo sfrecciare via in un attimo tutte quelle cose che, non interagendo direttamente con il mio lavoro, passano via senza tornare mai più. Con il cuore triste, dai finestrini di quel treno guardo mio figlio crescere, perdendo ogni giorno che passa quelle piccole e grandi cose che, specialmente nell’adolescenza, rendono unico il rapporto fra padre e figlio; osservo quel sottile filo di malinconia che solca il viso dolce di mia moglie Lara che, in silenzio, mi rimane al fianco rinunciando a godere di quelle piccole e dolci sfumature che rendono unica la vita di coppia. Mentre il treno sfreccia, provo a difendere, con le unghie e con i denti, anche quelle poche amicizie che coltivo dalla mia gioventù, ma anche loro si allontanano sempre più, giorno dopo giorno, e con esse inesorabilmente spariscono anche quei punti di riferimento familiari, come il bar o la piazza del paese, che con la loro rassicurante presenza erano parte integrante della mia quotidianità. Così rimango immobile al mio posto e, pur essendo a conoscenza di tutto questo, continuo stoicamente e coraggiosamente in questa inarrestabile corsa che almeno spero mi condurrà, un giorno, a realizzare quella grande azienda che mi sono prefissato di costruire. Ancora non ho capito se questo mio comportamento sia dettato da un’insana forma di masochismo o da un grande egoismo che, prendendo spunto dall’istinto innato che ha sempre avuto l’uomo di misurarsi con se stesso, mi spinge ad affrontare la vita armato solo delle mie personali convinzioni e dei miei ideali, come potrebbe fare solo chi, con coraggio, affronta la sfida di un grande sogno da realizzare. Non so se queste siano le vere motivazioni, ma sono sicuro che questo mio modo di agire non è condizionato da quel luogo comune che ci vede tutti convinti nel considerare che la vita è breve e deve essere vissuta a pieno, nella sua interezza. Questo lo sanno tutti e da sempre è la cosa che influenza meno le mie scelte, anche se devo ammettere che con l’arrivo di mio figlio Matteo

le cose sono un po’ cambiate, come del resto erano già cominciate a cambiare nel 1989, dopo la mia laurea in Economia e Commercio, quando non pensavo assolutamente di ritrovarmi a fare il vignaiolo e, soprattutto, non credevo di rimanere così stregato dal mondo del vino. Ricordo che quando mi fu proposto di seguire l’azienda della famiglia di mia moglie, fra me e me pensai che, non avendo fatto il militare, avrei potuto provare per un anno, in modo da vedere, intanto, cosa sarebbe successo. Non mi ci è voluto molto per capire che

questo mestiere è come una grande matrioska all’interno della quale si nascondono altri mestieri, piccoli e grandi, ognuno dei quali ricco d’arte e di passione; mestieri capaci di intrecciare l’immaginario con il reale, pieni di conoscenza e di scienza. Ce n’è uno stracolmo di capacità, uno ricco d’intuito, un altro custode della tradizione, uno chiaroveggente, un altro sognatore; tanti e tutti capaci di interfacciarsi in maniera fertile con questo territorio, con la sua storia, con la mia personale individualità e con un’altra infinità di variabili, tutte da gestire, da controllare e da far funzionare al meglio delle loro possibilità. Sembra facile, ma non lo è, mentre è facilissimo comprendere come, essendo troppo ampia la

non guardo il passato, preferendo


concentrarmi sul mio futuro


FATTORIA LAILA

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gamma di variabili, troppo complessa la rete delle relazioni, troppo poche le vendemmie alle mie spalle e troppo corte le giornate, mi impegni così tanto per arrivare a quel difficile risultato che mi auspico di raggiungere, di un buon vino per intenderci, al quale mi rendo conto che ogni anno vado sempre più avvicinandomi. D’altra parte ho sempre preferito non adagiarmi su situazioni semplici, prediligendo i nuovi obiettivi e le nuove sfide, cercando, per quanto fosse possibile, di non sentirmi mai arrivato, spingendomi sempre oltre, alla ricerca di un continuo miglioramento che talvolta andava al di là delle mie concrete possibilità. Certe volte mi rendo conto che non tutto dipende dalla mia passione o dal mio impegno e ogni tanto mi trovo a rallentare in quella corsa che invece vorrei fluida, liscia, diretta, senza esitazioni verso il mio futuro. Sono queste Marche che mi frenano e la loro mancanza di cultura vitivinicola in grado di costruire una maggiore consapevolezza del ruolo che questa imprenditoria agricola dovrebbe svolgere nei riguardi del territorio in cui opera. Non c’è volontà politica di costruire un sistema intorno all’agricoltura, che è lasciata completamente al suo destino, né vi è il minimo sviluppo di un momento aggregativo che generi, fra i produttori, una capacità propositiva nei confronti delle istituzioni e del mercato. Sperimento quotidianamente la difficoltà che incontro per imporre il mio marchio, la mia azienda e questo territorio che nessuno conosce e che spesso ci troviamo ad indicare come quello posto a sud di Rimini, e giornalmente conosco bene quali siano le difficoltà per ottenere dei risultati senza dover contare su aiuti da parte degli organi istituzionali preposti. Questa è un regione dove non succede mai niente e solo la mente di eccentrici personaggi e dinamici imprenditori costruisce un sistema economico che però non ha né progettazione, né pianificazione, né basi culturali reali. Tutto questo, comunque, non ha frenato il mio entusiasmo, né diminuito la mia velocità, anzi, queste avversità logistiche mi hanno dato ancora più voglia di fare le cose, di sperimentare nuovi sistemi, di allargare i miei orizzonti, di studiare e aggiornarmi per migliorare ciò che è migliorabile, affinché io possa raggiungere il prima possibile quel mio sognato obiettivo di costruire un’importante azienda.


Lailum Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Riserva Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Le Ville, nel comune di Corinaldo, le cui viti hanno un’età compresa tra i 30 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto, tendenzialmente calcarei con forte presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 2600-6000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre fino a quasi tutto il mese successivo, si procede al raffreddamento delle uve (che arrivano in cantina ad una temperatura di 7°C) e ad un’immediata pressatura soffice delle stesse. Dopo la pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 6-10°C, si inseriscono i lieviti autoctoni e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni, alla temperatura di 16°C, in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo e secondo passaggio che, oltre ad essere inserite in un ambiente refrigerato, per la prima settimana sono avvolte in balle di iuta riempite con ghiaccio chimico. Terminata questa prima fermentazione, al 50% del vino viene fatta svolgere la fermentazione malolattica, sempre in legno, mentre per l’altro 50% essa viene bloccata. Durante i 6 mesi di maturazione vengono effettuati giornalmente alcuni bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili e accrescere struttura e longevità del vino; su queste fecce il vino rimane fino al giorno prima dell’imbottigliamento, che avviene con una leggera filtrazione; una volta messo in bottiglia, subisce un affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati e offre all’esame olfattivo profumi complessi di frutta a pasta gialla come pesca e susina che lasciano spazio a note di fiori di acacia, gelsomino e macchia mediterranea. In bocca ha un’entratura elegante, rotonda, con una buona sapidità; queste caratteristiche conferiscono freschezza, lunghezza e persistenza. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001 - 2003 - 2004 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà di Laila Libenzi dal 1950, e diretta da Andrea Crocenzi dal 1990, l’azienda agricola si estende su una superficie di 41 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Antonello Loiotile e l’enologo Lorenzo Landi.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore Eklektikos (Verdicchio 100%) I Rossi: Rosso Piceno DOC (Montepulciano 80%, Sangiovese 20%) Rosso Piceno DOC Lailum (Montepulciano 85%, Sangiovese 15%)

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FATTORIA LE TERRAZZE Antonio Terni e la moglie Georgina

Bob Dylan, Nettie Moore, “Modern Times”, 2006

e mi trasferii a Numana, fra queste morbide vallate che dal Monte Conero declinano verso il mare. Non ero nuovo ai traslochi, visto che mi ero già trasferito da Buenos Aires, dove ero nato, a Milano e poi, da quella città, appunto, qui a Numana. Ma cosa ero venuto a cercare in questa terra marchigiana? Per fatalità o predestinazione non so se avrei dovuto diventare contadino, vignaiolo e proprietario terriero o con quale arte magistrale avrei dovuto interpretare quel

sua forma mentis con il complesso mondo del vino. Forse la colpa è del fatto che mi trovo combattuto fra una piacevole ed energetica sensazione, originata dalla complessità delle esperienze e delle mille idee che ogni produttore vitivinicolo fa confluire nel mondo del vino, e la mia personale incapacità di percepire, intorno a quel mondo, la poesia o quelle atmosfere magiche che sento, invece, narrare da altri. Io ho l’assoluta certezza che qui alle Terrazze cerchiamo di fare il vino nel migliore dei modi, poiché questo

Non mi piaceva lavorare in un’azienda d’ingegneria, ma soprattutto non mi piaceva fare l’ingegnere, nonostante mi fossi laureato al Politecnico di Milano. Mi trascinavo in quella grigia quotidianità, vivendo in una città come Milano che invece, in quegli anni ’70, sembrava dipinta tutta o in bianco o in nero. Andavo avanti senza entusiasmo, provando un dolce sollievo e un po’ di rifugio in parte nella musica, che per me era rappresentata da miti come Bob Dylan, i Rolling Stones e i Beatles, e un po’ in quelle tracce culturali, delineate dall’amore per la filosofia e la matematica, che quel corso di laurea mi aveva lasciato. Così, quando mio padre mi chiese di occuparmi di quest’azienda familiare, accettai volentieri

triplice ruolo. Dopo svariati anni ancora non riesco a trovare risposte a queste domande, come non riesco a darle, del resto, nemmeno a quelle che riguardano il mio triplice ruolo, o a quelle che concernono il mio stesso divenire. Non ci posso fare niente, del resto sono fatto così: sono un onesto anarchico, un gentleman anticonformista, come usa definirmi mia moglie Georgina, uno che dalla sua ha sempre avuto la possibilità o la fortuna di poter scegliere, quando la vita glielo consentiva, la strada che più gli aggradava. Sono il prototipo perfetto dell’ingegnere disordinato che ama il caos, matematico e filosofico, che, a distanza di anni, trova ancora difficoltà a coniugare la

ci consente di avere delle gratificazioni e di qualificare l’impegno che io, mia moglie e qualsiasi altro nostro collaboratore mettiamo verso questo lavoro, questa azienda e verso tutti quelli che acquistano una bottiglia del mio vino. Ma poiché considero “fare vino” prima di ogni altra cosa un mestiere, per quanto antico, pieno di riferimenti simbolici e certamente nobile, mi rimane lontana, e a tratti incomprensibile, tutta la stucchevole retorica che lo contorna e che lascio volentieri ad altri. Credo che la mia vita debba essere riempita di altri contenuti e così, alla soglia dei miei cinquant’anni, procedo, ancora dubbioso, nel mio girovagare con il solito insaziabile desiderio di appagare il mio grande senso

“Everything I’ve ever known to be right has been proven wrong I’ll be drifting along The woman I’m loving she rules my heart No knife could ever cut our love apart” Ogni cosa che io abbia mai saputo essere giusta è stata dimostrata sbagliata Sto andando alla deriva da solo La donna che amo controlla il mio cuore Nessun coltello potrebbe tagliare il nostro cuore

il prototipo perfetto dell’ingegnere


disordinato che ama il caos


FATTORIA LE TERRAZZE di libertà e la mia irrefrenabile curiosità di conoscere, spinto in questo dalle mie passioni e dalla mia sana ambizione di scrivere, ogni giorno, nuove pagine di questa mia esistenza. È per questo che, quando posso, mi piace estraniarmi con la mia barca e veleggiare in perfetta solitudine in questo mare Adriatico. Nel silenzio appago il mio grande senso di libertà che troppe volte rimane castrato dalla quotidianità. Silenzi che mi fanno compagnia, nei quali nutro la speranza di trovare le risposte ai miei dubbi e alle mie perplessità, sapendo, per certo, che non le troverò mai. Un’anima in pena, un ricercatore con l’animo selettivo che, provvisto di un liberatorio senso di qualunquismo, di un salubre menefreghismo e di una grande dose di egoismo, respinge volentieri, per quanto gli è consentito fare, quelle piccole rotture e quegli intoppi quotidiani che appesantiscono le giornate e

la vita, demandandoli amorevolmente a mia moglie o agli altri. Due mondi diversi, io e lei, due emisferi completamente opposti. Io argentino e lei inglese, io un italosudamericano trapiantato a Milano, lei una splendida e integerrima anglosassone innamorata dell’Italia; io appassionato e sognatore, lei efficiente, pragmatica e ordinata; io schivo verso tutto ciò che non mi incuriosisce, lei concentrata a terminare qualsiasi cosa iniziata. Io hippy, lei formale; io appassionato di musica rock, lei di musica classica; entrambi però uniti in una realtà talvolta stridente o armonica, a seconda delle giornate, dove ognuno di noi due può esprimere se stesso, entrambi certi dell’amore e della comprensione dell’altro. Quando lei è assente, la casa tace. Fra le mura

familiari trascorro le mie giornate sorridendo, pensando a quanto sto bene in questo mio rifugio senza tutte quelle chiacchiere e disquisizioni sui problemi che quotidianamente intervengono nella vita di un’azienda, nei quali sono coinvolto mio malgrado. Subito dopo, però, penso che se non ci fosse la dovrei “inventare”, perché sento che quella sua effervescenza culturale, quel suo humour tanto british e quella sua squillante risata, mi mancano. D’altronde è anche vero che se mi permetto di crogiolarmi volentieri nelle mie passioni è perché ho la fortuna di avere accanto Georgina. C’è un punto, in ogni modo, nella nostra unione, dove i ruoli sembrano ribaltati e, divertito, scopro che forse il vero pragmatico sono io. È lei, infatti, che porta la poesia nella mia vita e, da perfetta inglese, rimane


Chaos IGT Marche Rosso affascinata dai ritmi e dai mutamenti delle stagioni; è lei che segue con amorevole attenzione l’evoluzione dei vigneti appuntando meticolosamente l’andamento di tutte le vendemmie, una per una, descrivendo gli inverni secchi o quelli gelidi, le estati torride o quelle umide. Il mio approccio caotico alla vita mi discosta un po’ dalla sua armonica e complessa visione della natura e mi accorgo di non riuscire a seguirla più di tanto, poiché credo che, alla fine, non ci sia niente da raggiungere, niente a cui tendere, ma solo una

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano, Merlot e Syrah provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Svarchi nel comune di Numana, le cui viti hanno un’età di 10 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni che variano da calcareo-argillosi a calcareo-sabbiosi, sono posizionati a circa 1 km dalla costa, ad un’altitudine di 40 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Montepulciano 50%, Merlot 25%, Syrah 25% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che, a seconda della maturazione dei singoli vitigni, inizia nella seconda decade di settembre e finisce alla fine di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e i singoli mosti ottenuti si avviano alla fermentazione alcolica che è fatta svolgere in recipienti di acciaio inox e si protrae per 14-20 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 32°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, i vini effettuano la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimangono 12 mesi, periodo durante il quale si effettuano almeno 2 travasi. In seguito si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino viene imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino, che si presenta all’esame visivo di un bel colore rosso rubino intenso, con un’unghia violacea, quasi impenetrabile, propone all’olfatto profumi di fiori appassiti e tostatura di grano, percezioni che gradatamente si spostano su frutti neri maturi, come prugne, note speziate di vaniglia, cacao in polvere e pepe. In bocca risulta elegante, con una fibra tannica corposa, ma vellutata e con una piacevole sensazione di sapidità che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dalla teoria matematica del Caos, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Terni dal 1882 e condotta da Antonio Terni dal 1980, l’azienda agricola si estende su una superficie di 140 Ha, di cui 21 vitati e 119 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Federico Curtaz e l’enologo Attilio Pagli.

Altri vini I Bianchi: La Cave IGT Marche (Chardonnay 100%) I Rossi: Rosso Conero DOC Sassi Neri (Montepulciano 100%) Planet Waves IGT Marche (Montepulciano 75%, Merlot 25%) Rosso Conero DOC (Montepulciano 100%)

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FATTORIA MANCINI Luigi Mancini È curioso il destino degli uomini. Io avrei voluto progettare automobili e invece mi ritrovo qui, a quasi quarant’anni, a parlare di come produco vini e di come cerco di interpretare i caratteri della mia terra. Non si tratta esattamente dello stesso mestiere. Arrivai in azienda alla fine del 1995. Mio padre Ettore aveva deciso di vendere la villa di Fano e di trasferirsi nella casa della cantina. Per lui, allora unico membro della famiglia ad occuparsi di Fattoria Mancini, sarebbe stata senz’altro una sistemazione

quella automobilistica, che mi faceva rivolgere più attenzione alle officine e alle pagine della stampa specializzata, piuttosto che alle aule universitarie e ai testi di analisi matematica. D’altronde, secondo la buona tradizione accademica italiana le materie di studio hanno sempre avuto scarsa aderenza con gli aspetti pratici e mi ritrovavo a non nutrire simpatia per quel modo di insegnare. All’età di undici anni avevo vissuto a Londra e frequentato una scuola inglese dove il pragmatismo anglosassone mi consentiva risultati scolastici

mondo dal quale ero stato prudentemente tenuto lontano e del quale non sapevo assolutamente nulla. Una cosa era evidente e su questa convenivo con mio padre: la struttura non era più adeguata ai tempi. Peccato, perché nei primi anni ‘70 era stata progettata come una cantina razionale ed innovativa. Pochi anni prima mio nonno Luigi, anche lui ingegnere come molti Mancini, aveva venduto la propria impresa edile ed insieme a mio padre aveva deciso di investire

più comoda per seguire l’attività, ma per me, allora studente di ingegneria abituato alla vita cittadina, la prospettiva del trasloco in campagna era decisamente meno entusiasmante. Conoscevo appena la cantina e quasi affatto i terreni della proprietà, dato che mio padre si era sempre ben guardato dal farmi frequentare quell’ambiente di lavoro nel quale lui stesso, interrotti gli studi di ingegneria, si era dovuto cimentare e credo anche poco volentieri. In effetti i miei studi ormai da svariati anni procedevano piuttosto a rilento e non per scarso entusiasmo verso la materia, tutt’altro; era, infatti, proprio la forte passione per la meccanica e soprattutto

ben più brillanti di quelli ottenuti in patria. Qui non avevo mai accettato che in centinaia di ore di lezione non si fosse mai preso in mano un bullone! Così passavo buona parte del mio tempo a disegnare automobili, modificare motori e leggere manuali. Tutto ciò per cui mi ero iscritto alla Facoltà di Ingegneria mi stava in realtà allontanando dalla laurea. Quando ci si trasferì nella casa dell’azienda, una delle mie prime preoccupazioni fu quella di trovare un locale per la mia officina e per la mia auto. Lo trovai nell’angolo della cantina più distante da casa: per arrivarci dovevo attraversare tutto l’edificio. Fu così che cominciai a chiedermi come funzionasse quel

nella ricostruzione dell’azienda agricola. Realizzarono la nuova cantina - la quarta della famiglia dalla metà dell’Ottocento - e una quarantina di ettari di nuove vigne a Roncaglia e a Focara, splendide colline a strapiombo sul mare, poco a nord di Pesaro. Poi, per tanti anni, si erano mantenute le cose così com’erano. Decisi così di dare una mano al rinnovamento, rientrando dall’università “…un giorno prima...” nei fine settimana. Ben presto il “giorno prima” divenne alcuni giorni prima e quando mi accorsi che stavo tornando dall’università in azienda il martedì, capii che era giunto il momento di prendere una decisione.

mi sono accostato al vino libero e


schivo da pensieri omologati


FATTORIA MANCINI

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In quel momento compresi che ero stato irrimediabilmente coinvolto da quella cantina. Spesso, tornando a casa tardi, dopo aver parcheggiato l’auto, attraversando la cantina prendevo una sedia e mi fermavo a guardarla per ore, cercando di capire come funzionasse e come si potesse trasformarla per avviare un nuovo corso aziendale. Iniziai a viaggiare per cercare quanto di utile potessi trovare altrove. Prima in Italia, poi molto spesso in Francia ed infine, inevitabilmente, in quei paesi che coltivano Pinot Nero - il nostro vitigno di famiglia - Nuova Zelanda, Oregon, California. Nel giro di pochi anni la cantina subì un cambiamento sostanziale. La struttura razionale creata da mio padre e da mio nonno mi fu di grande aiuto, mentre la passione per la meccanica mi fece affrontare con entusiasmo la gran mole di lavoro e di studio necessaria per la trasformazione tecnica. Di lì a poco, con lo stesso spirito con il quale avevo lavorato in cantina avrei potuto interessarmi dei vigneti e mi accorsi che mi si stavano aprendo nuovi orizzonti, molto più complessi di quanto avessi visto fino a quel momento. Fattoria Mancini era vissuta principalmente di vendita di vino sfuso alla clientela locale e nonostante l’uso di sistemi di vinificazione raffinati, la produzione di bottiglie era una parte modesta nel fatturato dell’azienda. Tuttavia sono state proprio le etichette di allora la solida base della nostra gamma attuale; soprattutto compresi, quando decidemmo di trasformare l’attività rivolgendoci al mercato della bottiglia, che in casa esistevano già dei vini meritevoli di sviluppo e dei vitigni sui quali si doveva puntare. Primo tra tutti quel Pinot Nero, tanto caro a mio padre e a suo nonno, introdotto dall’amministrazione francese durante la dominazione napoleonica e ormai coltivato sui nostri terreni da quasi due secoli. Non si trattava di uno dei soliti vitigni internazionali; dal 1870, quando il trisnonno Luigi acquistò uno di quei terreni vitati dai francesi, quello stesso Pinot Nero era sempre stato gelosamente custodito in Fattoria Mancini e ormai a buon diritto lo si poteva considerare un autoctono. In quasi duecento anni di adattamento al nostro suolo e al nostro clima, aveva acquisito

delle caratteristiche uniche ed irripetibili altrove. Nel vino si riscontravano i caratteri varietali tipici del vitigno, cosa assai rara per un Pinot Noir coltivato nell’Italia centrale. D’altronde chi all’epoca, pur possedendo un Impero, aveva deciso di piantare del Pinot Nero proprio qui, sulla costa di Pesaro, qualche buon motivo lo avrà pur avuto. Decidemmo di andare oltre la semplice produzione e avviammo, in collaborazione con l’Università di Milano, una complessa ricerca finalizzata alla selezione clonale del Pinot Nero di Focara. Presto gli studi si estesero all’Albanella, un’uva a bacca bianca esclusiva di questa zona, dotata di caratteristiche

estremamente personali e interessanti. La ricerca, intesa nel senso più lato, divenne rapidamente una colonna portante della nostra filosofia aziendale, una forma concreta di quella volontà di capire che ha sempre caratterizzato il mio modo di vivere, ed è stato uno stimolo costante a perfezionare qualsiasi processo produttivo. Negli ultimi anni la ricerca è stato lo strumento più appassionante per raggiungere nel vino l’espressione dei caratteri della mia terra e dei suoi vitigni, pur sempre, e necessariamente, interpretati con il mio stile personale, quello stile che avrei voluto dare alle mie automobili e che oggi cerco di dare alle mie bottiglie.


Focara Pinot Noir Colli Pesaresi DOC Focara Pinot Nero

Altri vini I Bianchi: Colli Pesaresi DOC Roncaglia (Albanella 75%, Pinot Nero 25%) Impero Blanc de Pinot Noir IGT Marche (Pinot Nero 100%) I Rossi: Colli Pesaresi DOC Sangiovese (Sangiovese 100%) Focara Pinot Noir Riserva Colli Pesaresi DOC Focara Pinot Nero (Pinot Nero 100%) Blu IGT Marche (Ancellotta 50%, Montepulciano 40%, Pinot Nero 10%)

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nella sottozona Focara della DOC Colli Pesaresi, nel comune di Pesaro. La maggior parte delle vigne ha un’età media di circa 35 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni limosi, profondi, con forte componente sabbiosa e presenza calcarea, sono posizionati ad un’altitudine di circa 150 metri s.l.m., con varie esposizioni, in prevalenza a sud ed est. Uve impiegate: Pinot Nero 100% Sistema di allevamento: allevamento parabolico (brevetto di Fattoria Mancini), potatura a guyot Densità di impianto: da 1600 ceppi per Ha (vecchie vigne) a 5000 ceppi per Ha (nuovi impianti) Tecniche di produzione: le uve vengono vendemmiate nella prima decade di settembre. Dopo la raccolta vengono refrigerate in cella frigo, successivamente pigiadiraspate e poste in tini di acciaio inox da 20 Hl. Dopo una settimana di macerazione prefermentativa a circa 9°C viene avviata la fermentazione alcolica durante la quale si effettuano rimontaggi e follature manuali per circa 15 giorni ad una temperatura che non supera i 27°C. Terminata questa fase, il vino viene messo in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura dove effettua la fermentazione malolattica (che comunque viene appositamente ritardata fino alla primavera successiva tenendo le stesse barriques in ambienti refrigerati); qui rimane per 12 mesi durante i quali vengono effettuati regolari bâtonnages mensili. Ad un anno dalla vendemmia viene effettuato l’unico travaso in cisterna per l’assemblaggio preimbottigliamento. Dopo circa 2 mesi il vino viene imbottigliato senza filtrazione. Segue un ulteriore affinamento di un minimo di 6 mesi in vetro prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 9000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino vivace, il vino presenta un percorso olfattivo elegante, con note fruttate di ribes nero, fragoline selvatiche e lampone, con un’apertura a percezioni di petali di rosa e cassis e nuances di cannella. In bocca ha una bella struttura, importante, seducente, con una buona sapidità che lo rende fresco e in armonia con una fibra tannica setosa; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1997 Dal 1997 al 2003 è stato prodotto con l’etichetta “Impero”. Nei primi anni ‘70 era etichettato “Castello di Focara”. Le migliori annate: 1998 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome del vitigno e della località di produzione, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. Fino al millesimo 2003 era presente sull’etichetta il nome commerciale Impero, nome che ora Fattoria Mancini ha riservato esclusivamente al proprio Pinot Nero vinificato in bianco. L’azienda: di proprietà Mancini dal 1861, oggi di Ettore e Luigi Mancini, l’azienda agricola si estende su una superficie di 80 Ha, di cui 36 vitati e i rimanenti occupati da prati e boschi.

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FATTORIA VILLA LIGI Francesco Tonelli con la moglie Maria Ida e i figli Stefano ed Elena Nella nostra zona siamo rimasti in pochi viticoltori e di questi siamo solo tre o quattro a vinificare la Vernaccia Rossa di Pergola. Devo dire comunque che non è stato sempre così: fino ad una quarantina di anni fa qui c’era un’importante tradizione vitivinicola che ha visto picchi produttivi anche di trentamila ettolitri di vino, non pochi per un territorio piccolo come questo. Un vino che, per la maggior parte, veniva venduto sfuso o in damigiane alle numerose osterie di Pergola, Cagli, Cantiano, Acqualagna e a quelle delle piccole frazioni limitrofe, frequentate per lo più dai numerosi operai occupati in una vicina miniera di zolfo che è rimasta operativa fino alla metà degli anni ‘70. Anche la nostra famiglia ha una tradizione vitivinicola che è da far risalire almeno a tre generazioni addietro, quando, nel 1912, nonno Antonio iniziò a vinificare da filari di viti che aveva impiantato in località Valrea, in mezzo ai campi di grano e granturco, come usava allora. Tradizione che fu poi seguita e ampliata da mio padre Cesare e da suo fratello, mio zio Marino, che divennero, oltre che dei buoni produttori, anche ottimi commercianti di vino; tradizione che vede oggi l’impegno del sottoscritto come vignaiolo e di mio figlio Stefano come enologo, su questo stesso territorio che ha rischiato seriamente di veder scomparire il patrimonio genetico viticolo qui esistente dopo la chiusura della miniera e il conseguente crollo del mercato locale del vino. È intorno alla metà degli anni ‘70 che, storicamente, si può collocare l’inizio del rapido declino che ha colpito la viticoltura di questa zona, come, del resto, anche quella di tante altre parti d’Italia. Fu proprio in quegli anni che si concatenarono diversi elementi fra loro che provocarono una graduale dismissione del sistema produttivo vitivinicolo nell’area; fattori che non sono da ricercare solo nella crisi del settore minerario, ma anche nella crescente industrializzazione delle zone limitrofe a Pergola e di numerosi paesi europei che richiamarono molta manodopera con conseguente spopolamento delle campagne.

Vi fu anche un altro problema che colpì la viticoltura nel suo insieme e fu quello meno visibile, forse quello più nascosto, che riguardò l’aspetto culturale con il quale l’intero comparto vitivinicolo dovette affrontare i grandi mutamenti in corso provocati dalla nascente globalizzazione. Fu in quegli anni, infatti, che incominciarono a comparire quelle complesse normative atte a ristrutturare l’intero comparto viticolo nazionale e quella crescente burocrazia, abbinata alla nascita delle cooperative e

al finanziamento destinato all’impianto o all’espianto dei vigneti, provocò non pochi problemi ai vecchi contadini. Negli stessi anni prendevano consistenza, con sempre maggiori aspettative, le DOC che regolamentavano la produzione e delineavano le aree produttive con relativo impianto di vitigni specializzati che dovevano essere riconosciuti e autorizzati nel rispetto delle normative e delle quote comunitarie. Una grande confusione per chi era abituato solo a muoversi per la campagna e non a girare fra enti e uffici. Vi era comunque, almeno in questa zona, una vecchia e arcaica mentalità contadina che, fino alla fine degli anni ‘80, non era molto distante dal concetto descritto dalla

Lex Agraria degli antichi codici Romani, che affidava al contadino la proprietà della terra secondo tre confini: quello imposto dagli altri uomini, delimitato e visibile, e quelli che erano stati assegnati dalla divina provvidenza, uno sopra la sua testa, che correva fino al cielo, e l’altro sotto i suoi piedi, che scendeva fino al centro della terra. Con questa idea arcaica è facile capire quanti non comprendessero la necessità di richiedere delle autorizzazioni per arrivare a commercializzare il vino che producevano da sempre sulla propria terra. Fu così che molti di loro si opposero concettualmente a quel processo che imponeva di dover sottostare a regole che non condividevano e abbandonarono le vigne. Mia madre Emma invece, dopo la scomparsa di mio padre, avvenuta nel 1976, continuò a mandare avanti imperterrita l’attività vitivinicola, nello spirito, tuttavia, del semplice mantenimento del preesistente, nella speranza che, prima o poi, io mi sarei deciso a prendere in mano le redini dell’azienda di famiglia. Mi ci vollero quasi dieci anni per arrivare a una simile decisione, ma, nel 1985, annus mirabilis, decisi di abbandonare al più presto il mio lavoro di insegnante per dedicarmi completamente al vino. Anch’io, come tanti, avevo sentito il richiamo dell’impiego statale, quello che consente di far di conto e, al 27 di ogni mese, avere la certezza di uno stipendio, piccolo ma sicuro. Sinceramente devo dire che non avevo mai tralasciato l’idea di ritornare in mezzo a quelle vigne che mi avevano visto adolescente e di questo ne è testimonianza prima di tutto il fatto di aver scelto di frequentare l’Istituto Tecnico Agrario di Pesaro e poi la Facoltà di Agraria a Bologna, ma anche di aver partecipato, nel 1972, al primo corso di sommelier che si fosse mai tenuto nelle Marche, che mi permise di comprendere i molti aspetti qualitativi ed estetici che si racchiudono in un vino. Ricordo che con me a quel corso AIS c’erano molti amici, tra i quali Lucio Pompili, oggi titolare del famoso ristorante Symposium, che,

ho l’orgoglio che solo un padre puo avere


per il figlio che segue le proprie orme


FATTORIA VILLA LIGI molto più tardi, ringraziai pubblicamente per l’aiuto e il sostegno che mi dimostrò all’inizio della mia attività di produzione vitivinicola di qualità. Oggi sono contentissimo della decisione che presi in quell’annus mirabilis, così come sono contento di essermi legato al mio territorio e di essermi distanziato, fin dalle prime vendemmie, dal vino prodotto dai miei predecessori, ricercando un po’ ovunque, come un novello Indiana Jones, quelle rare e vecchie viti di Vernaccia Rossa di cui raccoglievo i tralci che catalogavo e delle quali curavo la riproduzione da appositi vivaisti.

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Ricordo che trovai uno di questi rari e vecchi vitigni nel chiostro della Chiesa di San Francesco in Pergola, altri in località Pantana e in una vecchia vigna denominata Orfei, in località Grifoleto, che apparteneva ad un signore, Giovanni Orfei, scomparso nel 1998, il quale, sentito il mio innegabile amore per la viticoltura, me la affidò con una scrittura privata. Sono passati ormai vent’anni e ammetto che non è stato facile in questo tempo costruire una buona visibilità intorno a questo vitigno. Certo non gioca a mio favore il fatto che

questa sia una piccolissima DOC, che ho contribuito sostanzialmente a far nascere, la quale comprende a malapena 45 Ha di vigneti, come non gioca a mio favore il fatto che non siamo in molti produttori ad essere iscritti all’albo della stessa, e questo talvolta mi intristisce, perché vorrei più competitività e un maggior confronto sui programmi e sul futuro di questo territorio viticolo. Comunque sono felice di aver seguito il mio istinto e la mia passione e di ritrovarmi qui oggi a fare il vignaiolo, come sono contento di avere accanto mio figlio Stefano che, dopo essersi laureato in Scienze e Tecnologie


Ambrato di Grifoglietto Vin Santo Alimentari con indirizzo enologico, e dopo aver fatto un’esperienza in alcune aziende vitivinicole australiane, si è messo al mio fianco con la solita passione che avevo io tanti anni fa, con il desiderio di costruire un percorso nuovo per questa azienda. Con l’orgoglio che solo un padre può avere per il figlio che segue le proprie orme, lo osservo e, compiaciuto, mi diverto a confrontarmi con lui, tralasciando il fatto che mi sta facendo spendere un sacco di soldi per modernizzare l’azienda e la cantina: tanto ho capito che dovrò lavorare almeno fino a 85 anni e di questo non mi lamento, poiché si dice che avere da pagare allunghi la vita!

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Biancame (progenitore del Bianchello) provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Grifoleto nel comune di Pergola, le cui viti hanno un’età media di circa 45 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto tendenti all’argilloso con pendenza media del 15-18%, sono posizionati ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Biancame 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a doppio capovolto Densità di impianto: 2000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito tra la terza decade di ottobre e la prima di novembre, e dopo un breve appassimento in vigna, si procede alla raccolta dei grappoli e al loro appassimento che prosegue, a seconda delle annate, dai primi di gennaio alla fine di febbraio. Al termine di questo impegnativo lavoro si procede alla pressatura delle uve con successivo inoculo di lieviti al mosto ottenuto e si dà avvio alla fermentazione alcolica, che si protrae parte in caratelli di rovere da 50 lt e parte in grandi damigiane di vetro per circa 2 mesi fino al raggiungimento del residuo zuccherino desiderato. Il vino rimane nei rispettivi contenitori per 48 mesi e durante questo periodo ogni 6 mesi si effettuano delicati bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili. Terminata la maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 1600 bottiglie (da 0,500 lt) l’anno Note organolettiche: di un bel colore ambrato brillante con riflessi oro, il vino presenta un percorso olfattivo ampio con aromi di scorza d’arancia candita, giuggiola e datteri freschi, con un finale che ricorda la frutta secca e il torrone. In bocca risulta dolce e morbido con un buon equilibrio fra le percezioni olfattive e quelle gustative. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1998 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal colore assunto dopo anni di affinamento e dall’antico toponimo della località di produzione, raggiunge la maturità dopo non meno di 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Francesco Tonelli dal 1985, l’azienda agricola si estende su una superficie di circa 30 Ha, di cui 19 vitati e 11 occupati da seminativi, olivi e bosco. La funzione di agronomo è svolta da Francesco Tonelli, mentre quella di enologo dal figlio Stefano.

Altri vini I Rossi: Vernaculum Pergola Rosso DOC (Vernaccia di Pergola - clone di aleatico 100%) Grifoglietto IGT Marche Rosso (Vernaccia di Pergola - clone di aleatico 100%) Rubicondo IGT Marche Rosso (Merlot 50%, Cabernet Sauvignon 50%) Parlengo IGT Marche Rosso (Montepulciano 100%) Fiori IGT Marche Rosato (Vernaccia di Pergola - clone di aleatico 100%)

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FAZI BATTAGLIA Maria Luisa Sparaco con le figlie Chiara e Barbara Giannotti Credo di non essere smentita se affermo che nell’immaginario collettivo quando si pensa al Verdicchio, come associazione d’idee, spunti nella mente il nome della Fazi Battaglia. Non è un caso che esista tale parallelismo fra questo vitigno e questa cantina; del resto operando come viticoltori dal 1949 ed essendo stati tra i primi a commercializzare i vini che provenivano da questo vitigno, è facile comprendere come mai arrivino in molti a questa logica conclusione. Fu mio nonno, l’imprenditore farmaceutico

dinamica, che trae forza da un grande passato e da un futuro che è ben delineato, almeno nella mia mente, e del quale presto i miei figli diventeranno protagonisti. Queste mie affermazioni potrebbero apparire come un’autocelebrazione, ma non è così, poiché esse si basano sull’analisi dei fatti e sull’esperienza di chi, prima di me, si è alternato alla guida di quest’azienda, e che non ha mai sentito venir meno il senso di appartenenza a una vicenda iniziata più di mezzo secolo fa, né si è sottratto agli impegni assunti, ma ha dato

spaziavano dalla casa farmaceutica al mulino, dalle stalle alle vigne, trovava sempre un momento per starmi accanto e portarmi con sé in campagna da sola o con gli altri miei cugini. Ricordo che lo seguivo in tutte le sue escursioni che ci portavano per vigne e casolari e, ascoltandolo e frequentandolo, mi sono appassionata alla campagna e a tutte quelle molteplici attività che la caratterizzano. Figlio di contadini, conosceva bene quali fossero i segreti della terra e delle sue stagioni, ed io restavo ammutolita ed affascinata a

Francesco Angelini, che percepì, grazie alla sua genialità e lungimiranza, le grandi potenzialità di questo vino e fu lui stesso che in quegli anni, acquistando quest’azienda, diede vita, con quei primi 60 ettari, a un gruppo che oggi, con i suoi 380 ettari vitati sparsi fra Marche e Toscana, è da considerarsi fra le aziende più importanti e conosciute d’Italia. Fu lui che ideò per primo la commercializzazione del Verdicchio in quella famosa bottiglia a forma d’anfora che, nella zona, fu copiata da molti. La nostra è una favola che ha attraversato più di mezzo secolo di quella storia che ha contraddistinto ogni momento evolutivo dell’enologia nazionale; storia che ha confermato, in questi decenni, la bontà delle idee che guidano quest’azienda e che ci fanno affermare, con orgoglio e a dispetto di tutto e di tutti, non solo che ne siamo parte integrante, ma che la nostra è una presenza propositiva,

il suo personale contributo affinché la storia di quest’azienda avesse una continuità. Fortunatamente, prima di prendere le redini dell’azienda, ho avuto l’opportunità di accrescere le mie esperienze accanto a grandi uomini come mio nonno Francesco e mio padre Spartaco, che, a modo loro, sono riusciti a trasferirmi valori importanti dei quali ho fatto tesoro per trovare la grinta e la determinazione giusta per dirigere la Fazi Battaglia e operare quelle scelte che stanno dando un sèguito a questa impresa. È innegabile che mio nonno occupi un posto particolare nel mio cuore e quando ripenso a lui ancora oggi mi emoziono, poiché egli ha rappresentato il nonno ideale che ogni bambino avrebbe voluto avere al suo fianco. Amorevole, dolce, premuroso, educativo, trovava sempre e in ogni caso il modo per starmi vicino. Nonostante i suoi innumerevoli impegni, che

seguire i suoi racconti. Un uomo straordinario dal quale ho imparato anche il valore dell’onestà, il significato dell’etica e, forse, ho acquisito anche quella consapevolezza che mi contraddistingue e mi spinge ad andare sempre in fondo alle cose che faccio, non tirandomi mai indietro davanti alle difficoltà, affrontandole con quella serenità che trova energia nella forza delle idee. Dopo la morte di mio nonno Francesco, l’azienda ereditata da mia madre venne presa a cuore anche da mio padre Spartaco, che, nonostante i numerosi impegni dettati dal suo lavoro di imprenditore edile, non dimenticò mai di dedicargli le giuste attenzioni che si rivolgono alle imprese di famiglia. Fu così che incrementò il numero dei vigneti, costruì nuovi stabilimenti e diede vita ad una produzione più strategica e moderna, in sintonia con il nuovo mercato emergente. Fu sempre mio padre

si accrescono le proprie esperienze


stando accanto a grandi uomini


FAZI BATTAGLIA che acquistò nel 1969 l’azienda in Toscana, la Fassati, rendendo la nostra realtà nel mondo vinicolo sempre più decisiva ed interessante. Quando, nel 1990, incominciai a occuparmi della cantina, fu infatti lui ad insegnarmi quei sottili meccanismi con i quali avrei dovuto imparare presto a confrontarmi. Ed è sempre grazie a lui che ho imparato quanto sia decisivo l’impegno e quanto sia importante la risolutezza nell’affrontare le cose. Sono questi stessi insegnamenti che come madre ho cercato di trasferire ai miei figli, affinché abbiano la forza di superare le prove che la vita inevitabilmente porrà loro davanti. Mi ritengo fortunata di avere avuto due docenti di questo calibro al mio fianco che mi hanno trasmesso tante sicurezze che oggi, anche

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come nonna, spero di avere la possibilità di trasmettere ai miei nipoti, poiché questo mondo che si sta delineando all’orizzonte mi preoccupa, perché è sempre più difficile, crudo e privo di quei punti di riferimento che servono per affrontare la vita. Serenamente continuo in ogni caso a predicare quei valori che mi hanno trasmesso Francesco e Spartaco, accorgendomi però, e sempre più, che quei concetti si confondono ai ricordi. Così mi ritrovo spesso a racchiudere ogni cosa del mio passato in un angolo dolce in fondo al cuore, dove quelle memorie non solo mi fanno compagnia, ma mi aiutano a trovare la grinta per trasferire tutto ciò che ho ricevuto ai miei figli, che presto prenderanno il mio posto alla guida della Fazi Battaglia.


Arkezia Muffo di San Sisto IGT Marche Bianco Zona di produzione: il vino è il prodotto dell’appassimento e della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti da 2 ettari selezionati del vigneto San Sisto, scelti per la prossimità al fiume Esino che favorisce lo sviluppo naturale della muffa nobile (Botrytis Cinerea); il vigneto si trova nel comune di Maiolati Spontini e le viti hanno un’età media di circa 16 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di argilla, tendenzialmente calcarei, è posizionato ad un’altitudine di 350 metri s.l.m., con un’esposizione variabile da est a sud-est. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone doppio capovolto Densità di impianto: 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene da fine novembre per quasi un mese con circa 10 passaggi per selezionare i grappoli che presentano un attacco di muffa superiore al 50%, si procede alla pressatura soffice dell’uva raccolta e dopo una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 12°C, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 35-40 giorni, in piccoli recipienti di acciaio inox alla temperatura controllata di 16-18°C. Al termine di questo periodo il vino viene travasato in piccole botti di rovere francese da 225 lt dove sosta 14-16 mesi per la maturazione; quindi si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore oro brillante e con profumi intensi di frutta secca e di albicocche appassite che si allargano a sensazioni di biscotti al burro e miele, nuances di bacche di eucalipto e cachi maturi con un delicato fondo balsamico. In bocca è pieno, morbido, dolce, avvolgente, con una piacevole freschezza e un buon equilibrio. Lungo e persistente, con un finale accattivante di arancia candita e caramello al rum. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1997 - 2001 - 2003 - 2004 Note: al vino è stato dato un nome di fantasia che viene da un cavallo vincitore di numerosi premi. Raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Sparaco dal 1949, l’azienda agricola si estende su una superficie di 320 Ha, di cui 300 vitati e 7 occupati da seminativi, olivi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Mirco Pompili e l’enologo Dino Porfiri con la consulenza di Franco Bernabei.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Massaccio (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Le Moie (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva San Sisto (Verdicchio 100%) I Rossi: Rosso Conero DOC Riserva Passo del Lupo (Montepulciano 85%, Sangiovese 15%)

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FIORINI Silvana Fiorini e la figlia Carla Sono passati ormai trentasei anni da quando arrivai per la prima volta nelle Marche. Giunsi da Milano per venire a trovare Valentino, che successivamente sarebbe divenuto mio marito, e rammento che fui molto emozionata quando, insieme a mio fratello Angelo, che mi aveva accompagnato, feci quella piccola salita che conduce allo splendido palazzo di Mondavio, di proprietà della famiglia del mio fidanzato. Ricordo distintamente che quella magnifica costruzione del XV secolo non fu la sola cosa che mi affascinò: mi colpì molto anche questo

dimora e quei bellissimi cesti di verdura che facevano bella mostra sul tavolo della grande cucina, rigogliosi di insalate fresche e zucchine in fiore, melanzane violette e cipollotti, sedani e cipolle, portati dai contadini con quella naturale spontaneità che allora caratterizzava la gente di campagna. Ogni tanto, quando ripenso a quel tempo, mi rammarico che non esista più quella vecchia e sana cultura contadina che seppe confortarmi rendendo meno duri gli anni difficili del mio inserimento.

in Giurisprudenza, non fu facile scegliere fra la grande città e questa tenuta di 120 ettari a Barchi, che mio marito conduceva in modo professionale e con grande lungimiranza. Non nego che quegli inizi furono duri, così come lo fu adattarmi a questa lenta vita di provincia che conducevamo io e Valentino. Mi ci volle un po’ di tempo per comprendere quale fosse il significato di quelle sue parole che ogni tanto mi ripeteva per prepararmi alla situazione che avrei trovato arrivando nelle Marche. Ripeteva spesso che qui non esisteva “l’ambiente” sul quale si

splendido territorio marchigiano che, ancora oggi, dopo tanti anni, riesce sempre ad emozionarmi come allora. Arrivando - lo rammento come fosse ora - ebbi la sensazione di immergermi in una campagna che sembrava disegnata dalla mano esperta di un solo uomo, tanta era la simmetria che si intuiva nella visione generale di quell’insieme, frutto di una splendida e geniale strategia che si dimostrava attenta non solo alle cromìe e alle sfumature dei colori, ma anche a trarre il massimo profitto da ogni più piccolo fazzoletto di terra. Non ho più dimenticato quella giornata che, immersa per sempre nei miei ricordi, è viva e luminosa come allora. Tutto è nitido nella mia mente: quel cielo, quella terra, quella splendida

Era una società contadina tranquilla, che nel tempo, purtroppo, si è modificata in una società post-industriale caratterizzata da una crescente arroganza che, parallelamente, ha accompagnato il fortunato benessere economico diffuso in quasi tutte le classi sociali. A quei tempi non era difficile percepire un po’ ovunque quella vera ruralità che apriva il cuore e che era accompagnata da semplici parole che la gente si scambiava. Mi sposai con mio marito quando lui era già avanti con gli anni e per me, che all’epoca rappresentavo lo stereotipo della tipica signorina di buona famiglia dell’alta borghesia milanese, con studi classici all’esclusivo Istituto Vittoria Colonna di Milano e successiva Laurea

potessero costruire momenti di aggregazione o di socializzazione, né luoghi dove fosse possibile effettuare scambi culturali se non circoscritti alle poche visite che ricevevamo nella nostra casa. Ricordo che aveva ragione; qui infatti tutti viaggiavano per conto proprio, perseguendo solo ed esclusivamente i propri interessi e i propri obiettivi, chiusi in una riservatezza certamente poco chiassosa, ma anche poco costruttiva. Così le mie giornate venivano scandite dagli impegni familiari o dall’arrivo, da Roma o da Milano, di questo o di quell’altro fratello di mio marito. Un mondo chiuso che divenne per me quasi ermetico quando, successivamente e per anni, dovetti dolorosamente concentrare tutte le mie attenzioni sulla mia primogenita Maria Elisabetta,

dove e finita quella sana cultura


contadina che apriva il cuore della gente?


FIORINI

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colpita da una lunga e difficile malattia. Era così diversa la vita a cui ero abituata che mi sentivo soffocare, ma devo riconoscere di non essermi mai arresa. Fortunatamente la mia natura curiosa, apertamente intraprendente, lombarda, ha avuto il sopravvento e nel corso degli anni ho cercato con tutte le mie forze di socializzare, iscrivendomi a tutto quello a cui mi sarei potuta iscrivere, dalle varie associazioni, ai vari circoli fino alle Onlus, cercando di condurre una vita attiva per me e per gli altri, comportandomi come se non vivessi in queste Marche sonnacchiose e pigre, ma in Lombardia, cercando di mettere in tutto ciò che facevo la stessa gioiosa partecipazione alla vita che mi avrebbe caratterizzato se fossi vissuta a Milano. Da allora sono passati tanti anni e tante cose sono accadute, anche se la curiosità e l’innata voglia di conoscere che mi hanno sempre contraddistinto non sono cambiate molto, anzi sempre più le metto, con piacere e gioia, a disposizione della nostra azienda vitivinicola. Così oggi mi trovo sempre più impegnata a far conoscere il nostro vino, le nostre DOC e questa terra, operando ora con mia figlia Carla che, come enologa, ormai da anni conduce la cantina, ora con mio marito, che iniziò alla fine degli anni ‘60 a modernizzare gli ettari vitati nell’ottica

di valorizzare il nostro Bianchello e il nostro Sangiovese. In questi ultimi dieci anni penso di aver condotto importanti battaglie per la valorizzazione di questo territorio, ma non so se riuscirò mai a vincere la guerra che sento, invece, di aver irrimediabilmente perso, poiché, nonostante siano molteplici i riconoscimenti e gli attestati che quotidianamente mi giungono per il lavoro svolto, noto che ci sono moltissime cose che rimangono ancora da fare, affinché si possa giungere a risultati accettabili nella promozione di queste Marche. Credo che per ottenere anche un solo risultato dovrà avvenire un miracolo e un vero e radicale cambio di mentalità, un’apertura e un allargamento delle prospettive e degli obiettivi da parte di chi opera su questo e per questo territorio, così da trovare delle strategie comuni per sostenere l’agricoltura e questa viticoltura in modo più proficuo. Sono queste le cose che nel mio piccolo cerco di fare quotidianamente e tutto sommato, non essendo poi neanche marchigiana, potrei anche accontentarmi di ciò che ho ottenuto per la mia azienda, ma in fondo credo di essere una persona di grande fede e mi adopero affinché qui avvenga quel miracolo che tutti ci attendiamo in modo che le cose possano cambiare da un giorno all’altro.


Tenuta Campioli Bianchello del Metauro DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Bianchello provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Campioli, nel comune di Barchi, le cui viti hanno un’età di 20 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di argilla, tendenzialmente calcarei, sono posizionati ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con un’esposizione che varia da est a sud-est. Uve impiegate: Biancame (Bianchello) 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a sylvoz Densità di impianto: 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito tra la fine di settembre e la seconda decade di ottobre, si procede alla diraspatura delle uve raccolte e dopo una macerazione pellicolare di 12 ore alla temperatura di 8°C si procede ad una pressatura soffice e alla pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 10°C per 48 ore, al termine della quale si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 30 giorni, a 16°C, in tini di acciaio nei quali il vino rimane per 4-5 mesi durante i quali vengono effettuati alcuni bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Al termine di questo periodo si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 2 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 90000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi verdognoli; al naso offre profumi di frutta a pasta gialla come pesca e susina che lasciano poi spazio a note di fiori di acacia, gelsomino, macchia mediterranea e a nuances minerali. In bocca ha un’entratura elegante, rotonda, equilibrata, con buona sapidità e grande freschezza, caratteristiche che rendono il vino lungo e persistente. Prima annata: 1991 Le migliori annate: 2003 - 2005 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà di Valentino e Silvana Fiorini dal 1930, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 40 vitati, 1 a oliveto e i restanti a seminativo. L’agronomo è lo stesso Valentino Fiorini, mentre svolge la funzione di enologo Carla Fiorini con la consulenza di Roberto Potentini.

Altri vini I Bianchi: Monsavium Vino da Tavola (Bianchello 100%)

I Rossi: Colli Pesaresi Sangiovese DOC Sirio (Sangiovese 85%, Montepulciano 15%) Colli Pesaresi Rosso DOC Bartis (Montepulciano 70%, Cabernet Sauvignon 30%)

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GAROFOLI Caterina, Carlo, Gianluca, Gianfranco e Beatrice Garofoli In Italia ci sono molti vignaioli che hanno deciso di produrre vino seguendo il loro istinto imprenditoriale e molti lo fanno per dar sfogo alle loro passioni o per l’attaccamento e il senso di responsabilità che nutrono nei confronti della terra che è stata loro lasciata. C’è invece chi, come noi, pur facendo proprie tutte le motivazioni sopra indicate, si sente parte integrante di un progetto più ampio che, affondando le sue radici nel tempo, ha visto coinvolta ogni nostra generazione precedente nel tracciare quelle linee guida

i doveri e i meccanismi con i quali avremmo dovuto fare i conti. Con questo spirito è stato educato Antonio, il nostro bisnonno, e poi Gioacchino, Franco, Dante, e quindi noi e allo stesso modo verranno educati i nostri figli, che già si stanno inserendo in questa azienda-famiglia. Qualche volta ricordiamo ancora quando, dopo la terza media, i nostri genitori ci indicarono, con risoluta fermezza, quale doveva essere il nostro futuro, specificando chi avrebbe dovuto frequentare il Liceo Scientifico e poi la Facoltà

sussegue alla guida dell’azienda e sicuramente è innegabile che vi sia alle nostre spalle una lunga storia che prende forza dall’attaccamento che tutti noi abbiamo avuto per questo territorio; da sempre esso ha rappresentato per la nostra famiglia un punto di riferimento che ci ha consentito di vivere, prosperare, affermarci come uomini, come imprenditori e come protagonisti del mercato enologico nazionale. Una storia che parte da lontano, da quelle damigiane di vino che correvano prima sul mercato locale, poi su quello regionale fino a

che ci permettono di operare oggi con molta tranquillità come imprenditori nel mercato vitivinicolo. Coloro che ci hanno preceduto nel tempo, ci hanno sicuramente trasmesso il legame forte e indissolubile con questo mestiere, con questa terra, con la cantina e il vino. Ci hanno insegnato ad amalgamare i sottili fili che regolano il mondo vitivinicolo con le esigenze, i bisogni e i sogni della nostra famiglia, affinché anche noi riuscissimo a dare un segnale tangibile del nostro passaggio e a trasferire alle generazioni future quei valori che abbiamo ereditato. Non neghiamo di sentirci fortunati nell’essere stati accompagnati in questa crescita e nell’aver avuto il tempo per capire quali fossero le regole,

d’Agraria e chi l’Istituto Tecnico Commerciale e poi Economia e Commercio. Ognuno aveva un suo ruolo, in modo che vi fosse quella continuità generazionale che aveva sempre visto uno della famiglia occuparsi del vino e delle terre e l’altro delle attività amministrative e commerciali dell’azienda. Quel ragionamento, che sarebbe potuto apparire come una chiusura coercitiva e ottusa, fu invece da noi interpretato come una grande opportunità di poter dimostrare ai nostri genitori di essere in grado di cogliere quell’occasione e ricambiare quel segno d’amore, aiutandoli a non disperdere i loro sforzi, migliorando, magari, ciò che era stato fatto. Siamo ormai alla quinta generazione che si

quello del Nord Italia. Un storia che giunse, senza sussulti, fino agli inizi degli anni ’50, quando lo zio Dante ebbe la folgorante idea di provare a commercializzare il vino che producevamo non più attraverso i “vinattieri”, ma attraverso i normali negozi di generi alimentari che, in quegli anni, incominciavano a ricoprire un ruolo sempre più importante nella distribuzione dei prodotti agroalimentari. Offrire un vino già imbottigliato e munito di una etichetta identificativa del produttore fu la svolta che vide presto questa cantina crescere a tal punto che, alla fine dello stesso decennio, commercializzavamo già un milione di bottiglie e sempre in quegli anni arrivò in azienda anche la prima linea di imbottigliamento, forse la seconda

e indissolubile il legame con


questo mestiere e con questa cantina


GAROFOLI o la terza costruita in Italia. Insieme a quel mastodontico macchinario arrivò anche uno dei primissimi pastorizzatori a piastre che lavorava a caldo, proprio il contrario di quanto è fatto oggi, ma era il solo sistema conosciuto che consentiva di avere un vino stabile. Momenti epici di un mercato che infondeva in azienda nuove energie e interessanti prospettive per tutto il territorio. Ma il vero e proprio boom avvenne circa dieci anni dopo, con l’anfora, la famosa bottiglia che era stata utilizzata per prima da Fazi Battaglia prendendo spunto da una bottiglia simile diffusa in Francia. Quella novità, abbinata al nostro Verdicchio dei Castelli di Jesi, che divenne DOC nel 1967, non

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solo ci aprì definitivamente il mercato italiano, ma anche un po’ quello straniero che incominciò a interessarsi ai nostri vini. Centocinque anni di storia che ci portiamo dentro permetterebbero di raccontare tanti momenti che hanno scandito i successi e gli insuccessi non solo della nostra cantina, ma anche del comparto vitivinicolo marchigiano. Anni che ci hanno visto cogliere le opportunità che si sono presentate, ma anche farci sfuggire molte altre occasioni che si sono perse, un po’ per colpa delle mode che investono i mercati, le quali, così come sono venute, tramontano e vanno via e un po’, forse, anche per colpa di quel nostro modo tutto marchigiano di essere duri fuori e morbidi dentro, come quel Muricide,

sempre difficile da aprire, che vive qui lungo la costa adriatica e che noi in dialetto chiamiamo “Garagoro”. In ogni caso siamo contenti di ciò che abbiamo fatto sino ad oggi, e, come ci eravamo ripromessi, abbiamo pensato soprattutto a migliorare e a consolidare i nostri successi e l’azienda. Siamo sicuri che con questa solidità avremo più tempo di educare i nostri figli allo spirito che anima questa azienda che oggi, con i suoi due milioni di bottiglie prodotte e commercializzate in oltre cinquanta paesi del mondo, è fervida, vitale e solida, quanto e forse più di quella che abbiamo ereditato continuando a sperare di far durare questa azienda ancora molto nel tempo.


Podium Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Cupo delle Lame nel comune di Montecarotto, le cui viti hanno un’età compresa tra i 4 e i 10 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di sabbia e di conchiglie fossili, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 260 e i 300 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla metà di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica del mosto alla temperatura controllata di 5°C per circa 36 ore, si inseriscono lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 20 giorni in acciaio ad una temperatura compresa tra i 13 e i 20°C; qui il vino svolge la fermentazione malolattica e sosta per 12 mesi circa. Vengono effettuati alcuni bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Trascorso questo periodo si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 40000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati e con profumi complessi di frutta a pasta gialla come pesca e susina, percezioni di frutta matura, come papaia e banana, note floreali di gelsomino, di tiglio e di mandorle e nuances vegetali di macchia mediterranea. In bocca ha un’entratura rotonda, salina, di grande apertura che conferisce al vino bella freschezza, buona lunghezza e persistenza. Prima annata: 1992 Le migliori annate: 1993 - 1995 - 1997 - 1999 - 2002 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal latino podium (poggio), raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Garofoli dal 1901, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, di cui 42 vitati e 8 occupati da oliveto e bosco. Collabora in azienda l’agronomo Luca Mercadante; svolge la funzione di enologo Carlo Garofoli.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Riserva Serra Fiorese (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Classico Superiore Macrina (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Spumante Brut Riserva Metodo Classico (Verdicchio 100%) I Rossi: Rosso Cònero DOC Riserva Grosso Agontano (Montepulciano 100%) Rosso Piceno DOC Colle Ambro (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Rosso Cònero DOC Piancarda (Montepulciano 100%)

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GIUSTI Piergiovanni Giusti Un tempo, coltivare la vigna era un rito collettivo come lo era la vendemmia e ogni cosa o essere umano che partecipava a quel gioco di aggregazione aveva un suo ruolo specifico, determinante per il risultato finale. Quello stare insieme non aveva il solo scopo, più o meno comune, di produrre vino, ma contribuiva a rinsaldare i legami familiari e amicali attraverso il piacere di condividere i momenti importanti che scandivano i ritmi della vita di questa azienda. So di essere stato fortunato a crescere in mezzo a questa sana cultura contadina, una cultura ricca di valori imperniata sul lavoro, sul sacrificio e sulla stima degli altri; valori attraverso i quali compresi quale fosse l’importanza non solo di quelle vigne e di quelle vendemmie, ma anche di tutte quelle persone che mi aiutarono ad essere un po’ meno chiuso, riservato e introverso di quanto sarei sicuramente diventato. Quelle occasioni mi consentivano di accrescere le mie esperienze, di misurarmi e di confrontarmi, inserendomi in un collaudato e sempre più allargato cerchio di amicizie e di rapporti interpersonali che congiungeva la vita dell’azienda di mio padre al territorio circostante. Era come se in quei momenti si creasse, tutto intorno, una grande e positiva energia capace di scacciare ogni eventuale negatività e di far affiorare solamente la parte migliore del carattere della gente, in modo che ognuno desse il suo contributo per costruire quel desiderio comune di stare insieme. Anche se mi è difficile raccontare, per la complessità del ricordo che ho maturato della mia adolescenza, sono consapevole di quanto profondo è in me il legame con quelle memorie, poiché le stesse si intrecciano con il ricordo di mio padre e con il grande amore che mi legava a lui. Per un po’ ho creduto che quel mondo non fosse in grado di sopravvivere alla scomparsa di quell’uomo per me tanto importante, che mi aveva insegnato tra l’altro ad apprezzare i frutti che la vita ogni giorno ci regala. Avevo 23 anni e rammento che fu un periodo di grande sbandamento, durante il quale fui

pervaso dalla paura di non riuscire a percorrere quella strada che insieme a mio padre Luigino avevamo immaginato. Nei primi tempi portai avanti la cantina dedicandomi più che altro al mantenimento e alla sopravvivenza dell’azienda, cercando, soprattutto, di capire cosa avrei voluto e potuto fare nella mia vita ora che tutto era cambiato. Ero attraversato da mille pensieri e quelle ansie si combinavano al forte desiderio di reagire e di dimostrare di essere in grado di raggiungere, nel più breve tempo possibile, un grande risultato, così da poter far fare a questa azienda quel salto qualitativo che mio padre aveva ricercato per tanti anni. Una frenesia e un desiderio che però, invece di stimolarmi mi paralizzavano, poiché, non essendo ancora supportato dall’esperienza e da una preparazione tecnica adeguata, mi rendevo conto che quegli obiettivi che mi ero prefissato di raggiungere venivano inficiati dai molti se e dai molti ma che balenano nella mente di chi, così giovane, improvvisamente si trova da solo ad affrontare la gestione e la responsabilità di un’azienda. È stato difficile proseguire, ma, giorno dopo giorno, continuare ad occuparmi delle vigne di Montignano mi ha aiutato a conservare lo spirito di quelle lontane vendemmie e a fugare i dubbi e le perplessità sul mio futuro. Con l’aiuto di mio suocero Vincenzo, un nuovo padre, e soprattutto con l’amore di mia moglie Elena ho capito che potevamo ricominciare a costruire e ho compreso di essere stato, anche in questo caso, molto fortunato, poiché le radici dell’insegnamento, che mio padre si era prodigato a darmi, erano scese nel profondo della mia anima. In mio soccorso arrivò anche il mio amico Giancarlo Soverchia che con i suoi sapienti consigli mi fece intravedere la possibilità di raggiungere quel grande risultato che desideravo. Così, al suo fianco, avviai un processo di approfondimento delle conoscenze tecniche che ampliarono anche i miei orizzonti personali. Compresi che non dovevo far altro che assecondare il mio carattere e andare avanti,

avendo un grande senso di rispetto nei confronti delle idee che avrei voluto perseguire e soprattutto verso tutto ciò che mi circondava: la terra, le vigne e quei fondamentali rapporti personali costruiti con chi collaborava da anni con me. Amicizie come quella con Gianfranco Spinsanti e la sua famiglia, che sono riuscito a rinforzare prendendo come esempio quel modello semplice che mi ha fatto conoscere mio padre; un sistema dove non c’era bisogno di chiedere o di imporre qualcosa, poiché tutto avveniva, e avviene ancora oggi, in modo naturale, lavorando insieme, come conseguenza dell’attenzione che ognuno pone per questa azienda. Così i ricordi infantili di quelle giornate allegre e spensierate trascorse insieme in occasione della potatura e della legatura delle viti o della vendemmia sono ritornati a farmi compagnia e hanno dato un’impronta chiara alla mia filosofia di vita. Quelle lontane percezioni ed emozioni si sono amalgamate ad una politica aziendale che, in definitiva, è diventata specchio di ciò che sono e del modo semplice che ho di vivere la vita, dimensionata su mia moglie, sui miei tre figli e sulle mie vigne di Montignano. Un nucleo di affetti che cerco di mantenere in perfetto equilibrio fra le mie ambizioni, il tipo di vita che vorrei vivere e gli echi di quella lontana armonia che si respirava in questa campagna e che spero di regalare anche ai miei figli. Non mi interessa produrre un milione di bottiglie, come non mi interessa commercializzare il mio vino in cento paesi del mondo: desidero solo che ciò che faccio ogni giorno sia un altro passo avanti e contribuisca a far crescere bene la mia famiglia e questa piccola realtà imprenditoriale. In questo senso è sintomatico anche aver scelto di continuare a coltivare un solo vitigno come il Lacrima di Morro d’Alba, perché, rispetto alle aspettative che altri vitigni mi avrebbero consentito di avere, ho preferito puntare su un nostro antico autoctono capace di esprimere un prodotto che avesse un anima, un’identità e fosse anch’esso in equilibrio con questo territorio, così come cerco di esserlo io.

in quelle vendemmie c’era il desiderio


comune di stare insieme


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Rubbjano Lacrima di Morro d’Alba DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lacrima provenienti dal vigneto Rubbjano, di proprietà dell’azienda, situato in località Montignano, nel comune di Senigallia, le cui viti hanno un’età di 18-20 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 180 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Lacrima 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di rovere francese, per 20-24 giorni ad una temperatura controllata compresa tra i 18 e i 28°C; durante la macerazione sulle bucce vengono effettuati rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui poi rimane per altri 10-12 mesi, periodo durante il quale viene controllato e seguìto nella sua evoluzione con eventuali travasi a seconda della necessità; l’imbottigliamento avviene nel mese di maggio del secondo anno dalla vendemmia, poi segue un ulteriore affinamento in bottiglia di 6-8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 3400 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino con riflessi violacei, il vino presenta un complesso percorso olfattivo. Piacevole, vinoso, fresco, intenso, con sentori di marasca, note floreali di rose rosse e viole appassite, accompagnate da nuances speziate di vaniglia e pepe bianco. In bocca risulta caratteristico, con un contrasto netto e quasi scioccante fra le percezioni olfattive quasi dolci e avvolgenti con la bocca secca e fresca. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000 - 2001 - 2003 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dal torrente che scorre nel fondovalle dell’azienda ai piedi dell’omonimo vigneto, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà di Piergiovanni Giusti dal 1981, l’azienda agricola si estende su una superficie di 42 Ha, di cui 15 vitati e 27 occupati da prati, boschi e seminativi. Collabora in azienda come agronomo ed enologo Giancarlo Soverchia.

Altri vini I Rosati: Le Rose di Settembre IGT Marche (Lacrima 100%) I Rossi: Lacrima di Morro d’Alba DOC Lacrima (Lacrima 100%) Lacrima di Morro d’Alba DOC Luigino Vecchie Vigne (Lacrima 100%)

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IL CONTE Emmanuel, Samuel, Marina e Walter De Angelis Non ti si sarà stato difficile incontrare, nel tuo girovagare fra i vigneti d’Italia, aziende vitivinicole che si sono costituite sulle capacità e sullo spirito di abnegazione di intere famiglie, quelle stesse che poi si trovano ancora oggi a condurle. Penso anche che, in definitiva, le loro storie siano un po’ tutte uguali e tutte contraddistinte dalla cocciutaggine che hanno avuto i padri o i nonni di tutelare e mantenere la terra in loro possesso; storie più o meno simili, costruite quasi tutte sui sacrifici, sull’impegno e sul duro lavoro, tutte però sorrette dalle speranze che le cose mutassero e dai sogni di un futuro diverso, migliore rispetto a un presente che si basava solo sulla necessità del soddisfacimento dei bisogni primari. Anche la nostra storia non è molto diversa dalle altre. Fu mio nonno Emidio, una volta stabilitosi qui nel ’65 con tutta la famiglia, il primo a condurre, insieme a mio padre Marino, questa azienda vitivinicola che apparteneva a un signore di Torino, originario di questa zona, che la lasciava gestire ai suoi contadini, poiché l’aveva acquistata solo per fare un investimento. Mentre la famiglia aumentava e noi ragazzi crescevamo in mezzo a vigne e damigiane, gli anni passavano e con il tempo cambiavano anche le esigenze della nostra famiglia e quella dipendenza, senza costrutto e senza futuro, incominciava a pesare. Quando nel 1988 mio padre ebbe l’occasione di acquistare questa terra, ricordo che, entusiasticamente, non se la fece sfuggire. Fu così che qualche anno dopo, una volta lasciati gli studi, iniziai anch’io a lavorare al suo fianco, seguìto, dopo appena due o tre anni, da mio fratello Walter e poi da mia sorella Marina, alla quale si aggiunse, un po’ più tardi, anche l’altro mio fratello Samuel che, per il momento, è impegnato in azienda solo part-time. Quegli inizi erano contraddistinti dalla vendita del vino sfuso, attività che tutt’oggi continuiamo a fare, perché ci dà continuità e un immediato rientro economico, aiutandoci, spesse volte, a coprire le spese e gli investimenti che facciamo sulla promozione dell’imbottigliato. Come vedi anche qui tutto è frutto di quella

semplice e costruttiva visione che i contadini hanno sempre avuto del tempo, della terra e del lavoro che essa richiede affinché dia i risultati sperati. Come in tanti altri casi, la forza di questa azienda è data dalla famiglia, dalla sua unione, dall’esperienza di ben tre generazioni che fortunatamente, ancora oggi, si scambiano idee e si forniscono un reciproco aiuto. Se non avessi avuto al mio fianco uomini come mio nonno e mio padre, che hanno marcato la mia formazione di vigneron e indirizzato le mie

scelte, forse oggi non sarei qui. È stando al loro fianco, seguendo i loro consigli e le loro indicazioni che mi sono formato. Quando ero ragazzo e avevo appena iniziato a lavorare in azienda, spesso mi demoralizzavo vedendo le poche soddisfazioni che scaturivano dalla mole di lavoro che richiedevano le nostre vigne, ma invece di scoraggiarmi sognavo che un giorno le cose sarebbero cambiate e pensavo che “un giorno la mia azienda sarebbe stata diversa e che poi, anche questo territorio, nel quale operavamo, magari gradatamente, si sarebbe trasformato divenendo uno dei poli vitivinicoli d’importanza nazionale...”. Sognavo ad occhi aperti, fantasticando sull’azienda che avrei voluto costruire e questo sogno colorava la dura realtà con le sue magnifiche tinte, arricchendo di entusiasmo e di passione le mie giornate, proiettandomi nel futuro con magnifici progetti.

I sogni arricchiscono la vita e se non hai dei sogni non vai da nessuna parte e sono stati proprio loro che mi hanno aiutato ad andare avanti, a credere in quell’obiettivo a cui vorrei arrivare. Sono ancora quei sogni che mi danno la forza di alzarmi al mattino e lavorare fino a tardi, sono loro che costruiscono nella mia mente sempre nuovi progetti. Così mi sono creato delle convinzioni che condivido con i miei fratelli, ai quali cerco di raccontare anche le passioni che mi animano, facendo loro comprendere che questa azienda è un meraviglioso contenitore in cui ci può stare tutto. Certe volte noto che mi guardano perplessi. E come dar loro torto? Soprattutto quando racconto che io vedo in un bicchiere di vino le stesse cose che vede un orafo, immaginando il suo più bel gioiello, in un pezzo d’oro grezzo. Ripeto che la “preziosità” sta nell’idea che dobbiamo avere delle nostre vigne e di tutti quegli elementi che compongono il nostro terroir. L’unicità di quel racconto è da ricercare nel valore che ha questo territorio e nelle capacità che abbiamo noi di interpretarlo per creare un prodotto unico e inimitabile che assomigli a un vero e proprio gioiello. Come sarebbe bello che anche noi, come quell’artigiano orafo che trasferisce la sua genialità e quella sua arte antica sul materiale prezioso ma ancora grezzo, riuscissimo a immettere nel nostro vino il valore che ha questo luogo dove siamo nati. Come sarebbe meraviglioso se chi lo assapora potesse percepire le nostre memorie, il valore che noi diamo a questa nostra famiglia, tutte le vendemmie passate e quel lavoro di selezione e riqualificazione che, da anni, stiamo attuando sulle nostre vigne. Non ti è difficile comprendere cosa vi sia dentro quel bicchiere di vino che tu ora stai degustando; lì c’è tutta la mia volontà, la mia gioia e la felicità che ho di perseguire quel mio sogno che rappresenta la parte più bella della mia vita. Se lo gusti ci troverai dentro anche i nostri sacrifici, le rinunce, i dispiaceri per gli insuccessi,

la forza di quest’azienda e data dalla


famiglia, dalla sua unione, dall’esperienza


IL CONTE gli errori e le delusioni. Ci troverai le previsioni errate e le annate da dimenticare, quel rovescio della medaglia che oggi non ti voglio raccontare, ma che tu comprendi benissimo. Comunque ti posso assicurare che è una medaglia conquistata sul campo, nella vigna, in cantina; una medaglia con due facce, una bella e una brutta, una ricca di soddisfazioni e una di delusioni, ma che comunque è appuntata qui sul mio petto come un trofeo, sicuramente il più importante della mia vita. Essa rappresenta l’idea che mi sono fatto di questa azienda, l’emblema di quel mio sogno nel quale ho sempre creduto, fin da quando entravo da piccolo nelle botti o guidavo i trattori fra i filari respirando quell’aria di speranza che, in casa De Angelis, non è mai mancata.

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Zipolo Villa Prandone IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Colle Navicchio nel comune di Monteprandone, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcareo-argillosi con presenza di sabbia, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 220 metri s.l.m., con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Montepulciano 60%, Sangiovese 20%, Merlot 20% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000-8000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che inizia di solito dal 10 settembre per il Merlot e prosegue fino alla metà di ottobre per il Montepulciano e il Sangiovese, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 7 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri per almeno altri 10 giorni. Terminata questa fase, i vini, singolarmente per ogni vitigno, effettuano la fermentazione malolattica in barrique dove rimangono per 16-24 mesi durante i quali vengono effettuati almeno 2 travasi. Al termine di questo lungo periodo di maturazione il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino vivace con riflessi purpurei, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi complessi che spaziano dalle note di violetta a quelle di frutti rossi maturi come il ribes nero fino a giungere a percezioni olfattive di ciliegie sotto spirito che si integrano con altre sensazioni speziate di cannella, liquirizia con un finale balsamico. In bocca è caldo, sapido, equilibrato, ben armonizzato, lungo e persistente con un finale che riporta alla mente le note di liquirizia. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999 - 2001 - 2003 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Marino De Angelis e dei figli Walter, Emmanuel, Samuel e Marina dal 1988, l’azienda agricola si estende su una superficie di 13 Ha, di cui 12 vitati e 1 occupato da oliveto. Collabora in azienda l’enologo Pierluigi Lorenzetti.

Altri vini I Bianchi: Navicchio Villa Prandone IGT Marche (Chardonnay 60%, Malvasia 30%, Trebbiano 10%) Falerio dei Colli Ascolani DOC Aurato (Trebbiano 40%, Pecorino 30%, Passerina 30%) L’Estro del Mastro IGT Marche (Passerina 100%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Conte Rosso (Montepulciano 50%, Sangiovese 50%) Rosso Piceno DOC Superiore Marinus (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Donello IGT Marche (Sangiovese 100%)

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IL POLLENZA Aldo Brachetti Peretti Per uno come me, che da cinquanta anni è nel management dell’economia nazionale e ha superato per ora indenne ogni terremoto economico e politico che in questo mezzo secolo ha scosso il nostro paese, ritrovarsi a fare il produttore di vino non è cosa da poco. Non so se sia stato l’attaccamento che, da marchigiano, nutro per questa terra, se sia stato il suo richiamo atavico, oppure quel desiderio inconscio di mettermi alla prova: in ogni caso, non mi è facile ricercare una motivazione specifica a questa mia scelta.

API e IP, a parlare di viticoltura ed enologia? Come dicevo, non so se vi siano delle risposte a queste personali interrogazioni, ma se ve ne sono, una di queste potrebbe essere ricercata nella forza delle idee che mi hanno sempre contraddistinto lungo tutta la mia carriera di imprenditore, dandomi l’energia sufficiente per affrontare ogni cosa. Pensandoci bene, forse non c’è una precisa risposta a queste domande, ce ne sono molteplici e tutte variamente concatenate fra di loro che potrebbero essere interpretate in modo diverso a seconda di chi le ascolta.

petrolifere, considerate inquinanti, all’ambiente e alla natura. Dico che tutto risulta plausibile per chi guarda e non ha occhi per vedere. Io, del resto, li lascio chiacchierare. Alla soglia dei miei 70 anni di età ne ho sentite tante e viste troppe per sentirmi emotivamente coinvolto dalle sciocchezze che sono nate intorno a “Il Pollenza”. Ho sempre avuto le idee chiare e ho sempre fatto forza su di esse per permettermi ora di scoraggiarmi o sentirmi messo in discussione.

Ma perché ho sentito il bisogno di andare oltre le mie capacità e sperimentarmi in un campo che non conoscevo? Cosa avrei potuto fare di più oltre a ciò che già avevo fatto? Come mai, dopo aver raggiunto una certa posizione e dopo aver lavorato una vita nel mondo petrolifero, sopportando gli umori di un mercato in continua fibrillazione, non sono andato in pensione e ho goduto dei risultati ottenuti, invece di perseguire, cocciutamente, ancora un altro obiettivo? Quale contorta volontà spinge un uomo che ha la responsabilità di migliaia di dipendenti e che è a capo di una holding con oltre 4500 punti vendita sparsi per tutta Italia, contraddistinti dai marchi

C’è anche chi, più semplicemente, giudica dall’esterno le cose. Sono gli stessi che, guardando queste vigne, la cantina e la maniacale cura con la quale ho ristrutturato questa villa del XVI secolo, pensano a me come a un megalomane, a uno di quei ricconi che, annoiandosi e non sapendo come investire il proprio denaro, ha pensato di poter fare il vino con i soldi. Altri potrebbero pensare che tutto sia semplicemente il frutto di uno spiccato egocentrismo che colpisce spesso molti collezionisti, i quali, con orgoglio, mettono in mostra l’ultima opera acquistata; altri ancora potrebbero supporre che, in tutto questo, vi sia l’abile disegno politico di accostare le aziende

Il motivo di questo mio passo è profondo, molto più intimo di quanto si possa pensare e tocca gli angoli più remoti dello spirito. Da quando sono entrato nelle mie società ho cercato sempre di ampliarle, di farle crescere, renderle efficienti e compatibili con le altre società satellite che si venivano via via costituendo, a partire da quelle che si occupano della produzione di energia elettrica, fino alla rete commerciale, portando questo gruppo, di cui sono ancora il presidente, ad essere il primo gruppo petrolifero in Italia in termini di fatturato. Per fare questo ho dovuto lavorare sodo, con l’obiettivo di costruire qualcosa di importante per me e per la mia famiglia. Durante questo lungo percorso ho cercato di

quando si e determinati,


l’impossibile non esiste


IL POLLENZA

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motivare tutti i miei collaboratori, compresi i miei figli Ferdinando e Ugo, chiedendo a ognuno di essi quell’impegno che io, per primo, ho sempre messo nell’azienda. È stato quel quotidiano impegno che mi ha fatto lavorare anche per 14-16 ore al giorno a darmi l’energia e la forza di raggiungere questi risultati, non avendo mai avuto paura di affrontare le sfide. Forse qualcuno ha pensato che questa Tenuta, che ho voluto fortemente, fosse il mio “buon ritiro”, un angolo dove trascorrere tranquillamente e serenamente l’ultimo tempo della mia vita e devo confessare che anch’io ho sperato che lo diventasse, ma così non è stato. Ha prevalso la voglia che ho di vivere e di progettare ancora un futuro tutto da definire, ha prevalso questo innato desiderio di provare a fare altro, quella mia propositiva visione delle cose che mi circondano e il grande senso di responsabilità con il quale cerco di fare, sempre e comunque, tutto nel migliore dei modi, che si tratti di petrolio o di vino, che si progetti uno stabilimento o una cantina: si parli di energia o di viti, per me non ha importanza, ogni attività richiede la mia massima attenzione. Quella cosa che per altri avrebbe avuto il significato di un gioco, per me è diventata una nuova sfida che, a 70 anni, mi piacerebbe avere il tempo di poter vincere. Ne ho vinte tante di sfide nella mia vita e se il Signore vorrà, riuscirò anche in quest’ultima impresa, che credo, più di ogni altra, lascerà un segno indelebile del mio passaggio su questa terra. Non so come spiegarlo, ma quando si arriva negli ultimi anni della propria vita, si cominciano a fare i conti e a tirare le somme. Succede così che ti accorgi che, pur avendo fatto mille cose, aver costruito un impero industriale e aver dato un futuro sicuro alla tua famiglia, a quella somma matematica manca un qualcosa, un segno che più di ogni altro ti rispecchi e trasmetta ai tuoi nipoti e alle persone care quale sia stato il tuo personale approccio alla vita. Forse un autoritratto, ma con un messaggio forte. Le cose cambiano. Le aziende si trasformano e ne nascono di nuove, altre diventano più forti di quanto già non lo siano e ciò che oggi c’è, potrebbe, un giorno, non esserci più, ma quello che non cambia mai è il rapporto che l’uomo ha con la terra, alla quale anch’io sono tornato; il senso di appartenenza e di possesso di quell’elemento che nessuno ti porterà mai via.

Ogni tanto mi rammarico di aver affrontato questa mia sfida da solo, senza che i miei figli comprendessero cosa significasse per me. Ma forse era giusto così e in fondo credo che questa mia volontà l’abbiano accettata più per amore paterno che per condivisione dello spirito che l’ha animata, non comprendendo forse la necessità che in me era nata di riappropriarmi della mia storia di marchigiano e, con essa, provare a ricostruire una memoria, che, pur essendo giovanissima, può sempre contribuire a far sentire tutti i membri della mia famiglia parte integrante di un territorio con il quale consolidare un legame. Lo so che i miei quattro figli e i miei otto nipoti non hanno tempo per queste riflessioni e il loro mondo è lontano da queste vigne, ma spero che un domani, venendo qui, non considerino più questa azienda come una casa di campagna, ma la terra dove vive l’anima del padre o del nonno. In definitiva è forse questa la scommessa che non so se potrò, davvero, mai riuscire a vincere.


Il Pollenza IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Sangiovese e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Casone, nel comune di Tolentino, le cui viti hanno un’età di circa 8 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto tendenti all’argilloso, sono posizionati ad un’altitudine di 130 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 60%, Sangiovese 20%, Merlot 20% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito intorno alla fine di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 12 giorni in vasche di cemento vetrificato ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in barriques di rovere francese di Allier da 225 lt a grana fine e media tostatura dove effettua la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12-15 mesi. A questa lunga maturazione segue l’assemblaggio delle partite e, dopo un periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12-18 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 14000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo complesso, pieno, robusto, intrigante, con profumi che spaziano dai frutti selvatici maturi a nuances erbacee, alla vaniglia, a note dolci di fieno e di viola, con un finale che ricorda le foglie di eucalipto. In bocca risulta molto elegante con una fibra tannica setosa; assai lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001 Note: il vino, che prende il nome dall’azienda, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Aldo Brachetti Peretti dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie di 200 Ha, di cui 50 vitati e 250 occupati da boschi e seminativi. Svolgono la funzione di agronomo Vincenzo Melìa e Giovanni Campodonico, quella di enologo Umberto Trombelli con la consulenza di Giacomo Tachis.

Altri vini I Bianchi: Brianello IGT Marche (Maceratino 60%, Sauvignon 20%, Malvasia 10%, Trebbiano 10%) Pius XI Mastai IGT Marche (Sauvignon 80%, Traminer Aromatico 20%) I Rossi: Porpora IGT Marche (Merlot 100%) Cosmino IGT Marche (Cabernet Sauvignon 100%) Brachetti IGT Marche (Pinot Nero 100%)

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LANARI Luca Lanari Ci sono delle cose che ci appartengono e che sono radicate nel profondo del nostro cuore e quanto più lo sono, tanto più ci rimane difficile esternarle. Sono quelle cose che senti tue, quasi al pari di un arto del corpo al quale non potresti mai rinunciare senza mettere in pericolo la tua stessa esistenza. Personalmente ho diverse cose a cui non saprei più rinunciare, cose che hanno condizionato in modo netto il mio modo di essere, di pensare e di approcciarmi alla vita.

impegni, scadenze e vendemmie, con nessuna opportunità di poter sfuggire a ciò che il destino mi aveva riservato. Compresi subito che per affrontare quel grande fardello dovevo utilizzare solo il senso di responsabilità e del dovere che mi aveva insegnato mio padre. Crebbi in fretta, accorgendomi che la gioventù che avrei voluto vivere, il più serenamente e il più spensieratamente possibile, mi era stata portata via. Senza timori andai avanti, perseguendo l’obiettivo, che pensavo fosse

contro tutto e contro tutti, a dispetto degli avvocati e di quelle sterili discussioni a cui conducono, quasi sempre, le questioni ereditarie. In quelle discussioni ho sperimentato momenti di confronto e di scontro che mi hanno segnato l’anima e fatto riflettere; momenti nei quali mi sono sentito nudo scoprendo quanto fossi piccolo e debole davanti alle complesse avversità della vita, momenti nei quali, allo stesso tempo, ho compreso quanto potessi contare, invece, su alleati unici che

Una di queste è sicuramente questa azienda vitivinicola, che mi sono ritrovato a condurre a soli 18 anni, dopo la morte improvvisa di mio padre che aveva appena soddisfatto il grande sogno della sua vita, quello di ritirarsi in campagna a fare il viticoltore, dopo essere stato per tantissimi anni un commerciante di vino al dettaglio in Ancona. Non fu semplice, avendo appena conseguito il diploma di ragioneria, ritrovarmi proiettato dai banchi di scuola in mezzo alle vigne, affrontando una realtà che era fatta non solo da un’azienda da gestire, ma anche da una famiglia da mandare avanti. Senza accorgermene, da un giorno all’altro mi immersi nel mondo del lavoro rincorrendo

comune a mia madre e alle mie sorelle, di dare continuità a questa azienda. Molto più tardi, invece, scoprii che gli altri componenti della mia famiglia avevano preso strade diverse dalla mia e quelle vigne e quella cantina, dove ero rimasto solo a spaccarmi la schiena, per loro avevano assunto un altro significato, meno sentimentale, più venale e concreto di quanto potessi immaginare. Cosi mi avviai ad affrontare in compagnia di mia moglie Paola, che sempre mi ha sostenuto, questo viaggio che proseguo ormai da venticinque anni, nell’ottica di mantenere ciò che mio padre mi ha lasciato, difendendo, fortemente e cocciutamente, questa terra

da anni ho al mio fianco e ai quali non potrei più rinunciare: l’amore per la mia famiglia e la fede. Questi due alleati sono insostituibili compagni di viaggio che danno un senso ai miei giorni, riempiono il mio cuore e mi fanno sentire vivo, scendendomi nel profondo e provocandomi una miriade di emozioni che, spesso e con gioia, io utilizzo per dialogare con Dio. So benissimo che sono molti i problemi che non potrò risolvere e così nel dialogo schietto e sincero che ho con Lui invoco il Suo aiuto, affinché mi sia meno gravoso sopportare tutti i pesi sulle spalle. Ogni tanto ho la sensazione che quelle mie preghiere non cadano nel vuoto, scoprendo

mi ritrovai a crescere in fretta



LANARI

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così che in mio aiuto arriva la Provvidenza che spesso mi ha sostenuto nella risoluzione di quelle mie problematiche, rivelandosi magari tramite casi fortuiti o palesementi improvvisi, trasformando quelle situazioni che mi sembravano amare, dolorose e difficili in momenti di forte crescita interiore e spirituale,

ad assaporare quindi, con sempre maggiore entusiasmo, l’armonia divina di tutto ciò che mi circonda. È attraverso questa stessa serenità che mi approccio all’educazione dei miei figli, Filippo, Giovanni, Sara e Maria Sole, cercando di insegnare loro il valore della lealtà, del senso del sacrificio e del dovere,

Una rotta talvolta difficile da comprendere e da condividere, ma che ho scoperto risulta meno gravosa se si hanno degli obiettivi precisi da perseguire e ai quali credere. Così mi sono accorto che la forza delle idee ha contribuito a rendermi tollerabile il dispiacere di aver dedicato anni alla costruzione

facendomi sperimentare quali siano i reali valori del mio “credo”. Non nascondo che nelle sfide che giornalmente sono chiamato ad affrontare ho imparato a conoscere i miei limiti e le mie debolezze, ma anche a conoscere la vita, a percepirne l’impermanenza e la precarietà e

oltre al significato dell’orgoglio, della dignità e dell’altrui rispetto, aggiungendo a tutto questo anche quello che ho imparato in questi anni durante i quali ho sempre cercato, per quanto mi è stato possibile, di mantenere fede a quel sentiero che il destino aveva disegnato per me.

di un’azienda, ritrovandomi poi a dover riacquistare ciò che ritenevo mio fin dall’inizio. Sospiro quando penso a queste cose, poi alzo le spalle, scuoto la testa e vado avanti, cercando di non farne un dramma e pensando che a tutto c’è una spiegazione e se mi rimane difficile ancora comprenderla fino in fondo, mi


Fibbio Rosso Conero DOC ripeto che, in quella rotta che è stata tracciata per me, sicuramente prima o poi capirò il profondo significato. Mi ripeto spesso che l’importante è non farsi abbattere dalle avversità e avere sempre chiara la magnificenza delle cose che mi circondano.

Così scopro di essere fortunato ad avere tutte queste cose intorno che mi danno il senso di appartenenza a un grande disegno divino, che solo in parte percepisco, ma all’interno del quale mi è stata concessa l’opportunità di svolgere un lavoro che amo e che mi piace moltissimo.

Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dal “Vigneto del Carcere”, di proprietà dell’azienda, posto in contrada Montacuto nel comune di Ancona, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni prospicienti il mare Adriatico con presenza di calcare e silicio, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 120 e i 150 metri s.l.m., con esposizione a sudovest. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato nel nuovo impianto; doppio capovolto nel vecchio impianto Densità di impianto: 2000 ceppi per Ha nei vecchi impianti; 5000 ceppi per Ha in quelli nuovi Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede ad un’attenta selezione delle uve raccolte in piccole cassette da 10 kg e riselezionate nuovamente in cantina su un tavolo di scelta; segue la diraspapigiatura delle stesse, poi il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 8 giorni ad una temperatura compresa tra i 20 e i 23°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che prosegue per altri 15 giorni controllando che la temperatura non superi mai i 30°C; durante questa fase vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. In seguito il vino effettua la fermentazione malolattica e, dopo un breve periodo di decantazione, è posto in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura (70% nuove e 30% di secondo passaggio) in cui rimane 12 mesi, periodo durante il quale è travasato più volte. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso, profondo, con riflessi purpurei, il vino presenta al naso note complesse che spaziano dalle rose rosse appassite ai frutti neri come il ribes e la marasca matura, dalle spezie dolci alla liquirizia, lasciando nel finale un piacevole fondo minerale e di terra. In bocca ha un’entratura fine, elegante, equilibrata, morbida, con una buona freschezza e una fibra tannica setosa che rende il vino piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1998 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che ha un nome di fantasia e che non è stato prodotto nelle annate 1995 e 1996, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà di Luca e Paola Lanari dal 2002, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12 Ha, tutti vitati. Collabora in azienda l’enologo Giancarlo Soverchia.

Altri vini I Rossi: Rosso Conero DOC Aretè Riserva (Montepulciano 100%) Rosso Conero DOC Clìvio (Montepulciano 100%)

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LE CANIETTE Giovanni e Luigi Vagnoni con il padre Raffaele Ti è mai successo di avere una folgorazione? O di essere investito da una balenante idea che ti attraversa come una saetta e ti induce a riflettere e a mettere in dubbio tutte le aspettative che ti eri costruito nella vita? A me è successo con il vino, trovandomi all’improvviso stregato dal suo grande fascino e da quelle irrefrenabili passioni che sa scatenare. Per uno che proviene da una famiglia di vignaioli da quattro generazioni la cosa potrebbe anche sembrare un po’ strana, ma ti posso assicurare che non è così, visto che

alle aziende vitivinicole che costellano il Chianti e tutta quella zona. Quell’andar per cantine segnò la mia vita. Dopo quasi vent’anni ricordo ancora perfettamente le splendide architetture che caratterizzavano quelle aziende, così come i loro grandi vini e, del resto, come potrei mai dimenticare quei Sangiovese e quei Merlot di cui, allora, disconoscevo l’esistenza? Ti confesso che, nel gruppo, ero considerato quello che avrebbe dovuto, in teoria, capirne un po’ di più di quei vini, ma devo ammettere

vignerons con la staticità e l’immobilismo del mondo vitivinicolo di casa mia. Fu comunque l’esperienza al Castello di Ama che fece scattare in me quella folgorazione di cui ti parlavo. Non nego che quella degustazione mi segnò profondamente. Non so quale fu l’elemento scatenante della mia folgorazione, se furono i vini, la visita alla cantina, quella alle vigne o la simpatia dei personaggi lì incontrati, oppure quella bottiglia di vino che mi era stata regalata e che stringevo forte fra le mani. Ricordo che

non avevo nessuna intenzione di continuare l’attività di famiglia, né tanto meno di perdere il mio tempo dietro alle vigne o a rincorrere, come faceva mio padre, qualche commerciante di vino. Pensavo di fare tutt’altra cosa nella mia vita, forse il lavoro per cui avevo studiato, l’elettrotecnico magari, trovando un buon impiego in qualche fabbrica della zona, oppure sperimentandomi in altri campi, ma mai intorno al vino. Invece... Tutto accadde tra il 1986 e il 1988, mentre andavo a trovare i miei amici che studiavano a Firenze. Io e gli inseparabili Rolly, Silvia, Andrea e Roberta, decidemmo di dedicare buona parte del nostro tempo libero

che ero ignorante come un somaro e completamente all’oscuro di qualsiasi cosa li riguardasse, a partire dalle tecniche di vinificazione fino ad arrivare alla conoscenza delle stesse viti o di quelle sfumature olfattive che sentivo esprimere in modo così affascinante dai nostri interlocutori. Ero una frana, ma giocavo bene le mie poche carte e soprattutto ero quello che più di tutti seguiva in religioso silenzio la descrizione di quei vini che ci venivano offerti e le tecniche e la metodologia che ognuno di quei produttori usava per realizzarli. Man mano che quelle goliardiche escursioni proseguivano, mi ritrovavo sempre più spesso a confrontare le strabilianti esperienze che mi venivano raccontate da quei

una volta uscito da lì guardai negli occhi i miei amici e con la massima serietà comunicai loro solennemente che mi sarei messo a fare il vino anch’io proclamando: “Voglio produrre vino e lo voglio fare così”. Non mi presero molto sul serio e, lì per lì, risero di quella mia frase. Ero stato stregato da quel senso di accoglienza che ci avevano riservato e dall’attenzione che ponevano su ogni loro vino, che era il risultato di una precisa filosofia aziendale, di una complessa ricerca e di un grande lavoro di conoscenza del proprio territorio; un vino che non solo era eccezionale, ma che veniva anche arricchito e circondato da una straordinaria comunicazione e da azioni di marketing che lo

questi vini sono il frutto di lotte


e sacrifici, gioie e dannazioni


LE CANIETTE rendevano ancor più unico. Oggi ti posso confessare che quella “lontana” bottiglia di vino che mi venne donata, ha fruttato loro anni d’amore incondizionato. Tornai a casa pieno di entusiasmo, desideroso di sperimentare ciò che avevo appreso in quel mio vagabondare per le terre toscane. Quando esposi le mie teorie a mio padre mi accorsi subito che con lui sarebbe stata dura e che quelle innovazioni di cui parlavo sarebbero state poco esportabili nelle Marche. Dopo un po’ i contrasti divennero all’ordine del giorno, tanto da indurmi ad abbandonare quel progetto e a rifugiarmi, per un anno e mezzo, nella falegnameria dell’azienda di Roberta che, nel frattempo, era divenuta mia moglie e poi madre delle nostre tre figlie. Quando ormai avevo riposto quel sogno in un cassetto e ci pensavo solo saltuariamente, mi telefonò mio padre e, senza esitare, alla sua domanda su che cosa avrei voluto fare da grande risposi: il vignaiolo. Credo che in quel momento lui comprese che non stavo giocando e fu lì che incominciò,

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sempre con molta reticenza, a lasciarmi un po’ più di spazio. Era il 1993 e da lì inizia la mia storia di vignaiolo marchigiano che prendeva spunto da quelle convinzioni che avevo acquisito in Toscana, da quelle realtà vitivinicole che avrei voluto far conoscere a mio padre per fargli comprendere meglio quale era il mio progetto, il mio sogno. Piano piano cominciai con delle innovazioni piccole, ma essenziali per il funzionamento dell’intera filiera produttiva, anche se mio padre, ancora per molto, rimase scettico sui miei metodi. Portando risultati e sorprendendolo con le mie sperimentazioni, gradatamente le cose cambiarono, ma il maggior salto qualitativo si ebbe soprattutto dopo l’entrata in azienda di mio fratello Luigi. Il suo arrivo fu quanto di meglio potesse capitarmi. Mi fido di lui e lui si fida ciecamente di me; avevo bisogno di qualcuno che controllasse quello che facevano gli altri, perché, stando in cantina o in giro a vendere vino, non riuscivo a seguire tutte le fasi operative e mi accorgevo che molte cose

rimanevano indietro o addirittura venivano ignorate. È stata dura arrivare fino a qui e non so dirti quante incomprensioni e quante lotte ho fatto per poter semplicemente fare ciò che era giusto, come non ti dico quanti magoni mi procurava quel sentirmi sempre sotto esame. Sensazioni che si andavano a sommare al crescente senso di responsabilità che, con il passare degli anni, mi ritrovavo addosso, dovendo accentrare su di me la direzione aziendale. Vedi come il mondo sia strano e corra certe volte su binari tracciati irragionevolmente da abitudini, tradizioni, concezioni errate difficili da estirpare da chi vuole mettersi in gioco e guardare oltre. Comunque, il fatto che oggi ci sia un consenso intorno alle mie bottiglie è la conferma che in questi anni ho percorso una giusta via sulla quale insistere per gli anni a venire. Questi vini mi sono costati l’anima, il sonno e sono fatti di lotte e di pianti. Sono stati la mia gioia e la mia dannazione, mi hanno dato e mi hanno tolto in un continuo alternarsi di emozioni, ed è così


Nero di Vite Rosso Piceno DOC per tutto, ora sentendomi rincuorato da ciò che ho fatto, ora sentendomi angosciato da quello che c’è ancora da fare. Ah se c’è da fare! C’è davvero ancora tanto da fare per raggiungere quel vino che io vorrei e, anche se le cose sono cambiate, rimangono sempre difficili per un passionale come me, e forse ancora più di prima. Non ho più voglia di aspettare molto, voglio concretizzare e arrivare, il prima possibile, dove mi sono prefissato di giungere: il tempo passa e so che devo far presto. Io ho amato questo lavoro prima ancora di capire qualcosa d’importante sul vino, e ancora lo amo, ma, col passare del tempo, mi accorgo che questo mio sentimento è forte e non ammette mezze misure, direi quasi che è un amore intransigente, sfacciato, irriverente e prepotente con il quale, però, devo raggiungere presto un giusto compromesso per non perdere l’equilibrio fra le aspettative e la realtà che mi circonda, rischiando di smarrire quella strada tracciata tanti anni fa al Castello di Ama.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve di Montepulciano e Sangiovese provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Piaggiole nel comune di Ripatransone, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 anni (Montepulciano) e i 40 anni (Sangiovese). Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni a medio impasto con presenza di calcare, sono posizionati a un’altitudine compresa tra i 280 e i 300 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 70%, Sangiovese 30% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot per il Sangiovese, spalliera con potatura a cordone speronato per il Montepulciano Densità di impianto: 1600 ceppi per Ha per il Sangiovese, 4000 ceppi per Ha per il Montepulciano Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda settimana di settembre per il Sangiovese e prosegue nella prima e nella seconda settimana di ottobre per il Montepulciano, si procede separatamente alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti délestages periodici. Terminata questa fase, i vini effettuano la fermentazione malolattica in barriques nuove di rovere francese a grana fine e media tostatura dove proseguono la maturazione per 28 mesi, durante i quali, nel periodo iniziale, si effettuano alcuni bâtonnages. Terminata questa fase si effettua l’assemblaggio delle partite e il vino, dopo un periodo di stabilizzazione di 12 mesi in acciaio, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 9000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino scuro, impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con una grande complessità di profumi che spaziano dalle note di frutti di bosco come more e mirtilli, fino a giungere a percezioni di cacao amaro che lasciano spazio a nuances fresche di china e liquirizia. In bocca ha un’entratura ricca ed equilibrata, ma al contempo larga, leggera ed elegante, con una fibra tannica ben presente che insieme a una buona acidità conferisce al vino lunghezza e persistenza. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2001 - 2002 Note: Il vino, che prende un nome di fantasia, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Vagnoni dal 1897, l’azienda agricola si estende su una superficie di 18 Ha, di cui 16 vitati e 2 occupati da oliveto e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Marco Cavalieri e l’enologo Umberto Svizzeri.

Altri vini I Bianchi: Offida Passerina DOC Vino Santo Sibilla Persica (Passerina 100%) Offida Pecorino DOC Io Sono Gaia Non Sono Lucrezia (Pecorino 100%) Falerio dei Colli Ascolani DOC Lucrezia (Trebbiano 40%, Passerina 30%, Pecorino 15%, Verdicchio 15 %) I Rossi: Rosso Piceno DOC Morellone (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Rosso Piceno DOC Rosso Bello (Montepulciano 50%, Sangiovese 50%)

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LUCCHETTI MARIO Mario Lucchetti con il figlio Paolo e l’enologo Alberto Mazzoni Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia Vangelo secondo Matteo, VII, 24-26 Non ho timore a dirti che la roccia sulla quale ho costruito la mia esistenza di contadino è questa famiglia che mi circonda. È stato mio padre Alberto, che ha 91 anni ed è ancora vivo, a insegnarmi che, senza una famiglia, per un uomo di campagna è difficile arrivare a grandi risultati. Mi ha sempre esortato a difenderla, a proteggerla, riprendendomi sul fatto che, se non mi fossi impegnato in tal senso, poteva accadere che ogni cosa per la quale io avessi lavorato, si sarebbe potuta dissolvere e i miei figli, non avendo fondamenta su cui aggrapparsi nei momenti difficili, avrebbero potuto sbandare e perdersi. Gli ho dato retta e, con la serenità di chi sa di aver fatto sempre il proprio dovere e di aver sempre dato il massimo, ho restituito ogni energia in mio possesso per questa mia famiglia e per questa terra. Fu proprio sulle radici di mio padre che io costruii le mie, innalzate su una solida roccia e che mi hanno consentito in questi anni di mantenere unita intorno a me la mia famiglia, composta oggi dai miei genitori, da tre figli, due generi, cinque nipoti, mia moglie ed io. Quattro generazioni a confronto che, quotidianamente, ravvivano il desiderio di condividere insieme a me la vita, abitando vicini in queste due case che stanno una di fronte all’altra, alcuni in questa nuova dove c’è anche la cantina e gli altri in quella vecchia, completamente restaurata. Un gruppo solido e forte, che non perde occasione per stare insieme e che ogni domenica si riunisce, a pranzo o a cena, e se

manca anche uno solo di noi, per me non è né domenica, né festa. Difficilmente ci allontaniamo, soprattutto io, che non ho mai avuto voglia di muovermi troppo da questa campagna. Il mio mondo è tutto qui, intorno a questa terra e fra gli odori di questa cantina che ho appena finito di ristrutturare. Non nascondo che quando succede che uno dei miei figli è costretto, per qualche motivo, ad allontanarsi, mi incupisco e mi aggiro inquieto intorno a casa: tutto mi sembra avvolto da un velo di tristezza che non saprei descrivere. Non posso farci niente: è più forte di me, io sono fatto così, tutto vigna e famiglia. Sono molti gli amici che si meravigliano di questa forte unione che ci contraddistingue e non nascondo che il sentirmelo dire un po’ mi inorgoglisce, perché ho chiaro che anche altri percepiscono l’energia positiva che si respira fra queste mura domestiche. È la stessa energia che mi fa alzare il mattino e mi spinge ad andare avanti e a migliorare ciò che ho appena realizzato, confidando sul fatto che ho intorno delle persone con le quali mi è possibile condividere non solo parte della mia quotidianità, ma anche le mie preoccupazioni, le mie gioie, le speranze, il presente e il futuro. Con il passare degli anni scopro che non ho costruito solo un’azienda vitivinicola in grado di guardare il futuro con rosee speranze, ma anche un valido sodalizio capace di creare un argine e fare scudo nei confronti di quel mare tempestoso che sembra essere diventato il mondo esterno, il cui rumore riecheggia minaccioso fra gli annunci di chiassose trasmissioni televisive che percepisco in lontananza. È con questo spirito che ho cercato di far crescere i miei figli e sento che hanno compreso il mio amorevole messaggio; spero che anche loro siano in grado di trasferirlo ai loro figli, riuscendo a trasmettere, magari, anche un po’ di attaccamento a questo mestiere di vignaiolo. Un attaccamento che sono riuscito a trasmettere a Paolo, il più piccolo dei miei

figli, stimolandolo ogni giorno, ora facendogli guidare il trattore, quando era un bambino, ora portandolo con me nella vigna per fargli comprendere prima possibile le mille sfumature che regolano quel meraviglioso habitat, riuscendo ad avere, ora che ha 23 anni, un valido e fidato vignaiolo al mio fianco. Del resto mio padre aveva fatto così con me, anche se, quando io ero ragazzino, intorno alla casa di vigne ne avevamo davvero poche, poiché eravamo ancora mezzadri e quest’azienda continuava a perpetrare l’indirizzo di auto-sostentamento con il quale si era concretizzata la riforma agraria fascista. Qui non c’erano i vigneti, ma soltanto dei “filoni”, filari di viti che correvano da un pioppo all’altro a inframmezzare i campi di grano e granturco. Producevamo cereali, avevamo le mucche e molti animali da cortile, qualche albero da frutta e l’orto, secondo un’economia promiscua che, indipendentemente dall’andamento delle stagioni, ci consentiva di sopravvivere. Sono cresciuto in questa essenziale cultura contadina, il cui unico comandamento era quello del lavoro. Mi ricordo comunque che, ancora piccolissimo, piangevo tutto il giorno se mia madre si azzardava a non chiamarmi, al mattino presto, impedendomi così di seguire mio padre in cantina e svinare con lui il vino “nuovo”. Quel pianto nascondeva una passione che, con il passare degli anni, si è consolidata anche attraverso quei meravigliosi momenti intorno ai quali riuscivamo ad aggregarci con tutti i parenti: le vendemmie. Venti, venticinque persone che alla fine delle giornata si ritrovavano davanti a una scarna cena fatta di noci, pane e qualche sardina, il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino. Con gli anni mi accorgo di essere entrato in simbiosi con queste vigne e, come loro, mi sento radicato su questo territorio scoprendo che le mie radici, dalle quali traggo energia, sono i miei figli, i miei nipoti e le mie personali memorie delle atmosfere vissute in quelle vendemmie di tanti anni addietro.

la roccia sulla quale ho costruito la mia


‘

esistenza di contadino e questa famiglia


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Guardengo Lacrima di Morro d’Alba DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lacrima provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Santa Maria del Fiore, nel comune di Morro d’Alba, le cui viti hanno un’età compresa tra i 16 e i 18 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto tendenti all’argilloso, ricchi di potassio e poveri di ferro, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 220 metri s.l.m., con un’esposizione che varia da sud-ovest a sud-est. Uve impiegate: Lacrima 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 3700 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dagli ultimi giorni di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto, immesso in tini di acciaio inox, viene tenuto ad una temperatura inferiore ai 10°C per 5 giorni, al termine dei quali si lascia risalire la temperatura e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 8 giorni a 26-27°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae per 6-7 giorni, durante i quali viene fatta svolgere anche la fermentazione malolattica. Alla conclusione di questa fase e dopo una breve pulizia statica, il vino è lasciato maturare in acciaio per altri 4 mesi; quindi si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 16000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore porpora intenso con riflessi violacei; al naso offre profumi pieni, complessi, profondi, che si aprono ad un percorso sensoriale che conduce a sentori fruttati di polpa di marasca e prugne mature, percezioni dolciastre di sciroppo di amarena per poi aprirsi a note speziate di pepe e a nuances di viola e rosa rossa appassita. In bocca ha un’entratura meno prorompente rispetto alle percezioni avute al naso, ma comunque affascinante, speziata, con una sapidità che rende il vino fresco, piacevole, con un retrogusto morbido, lungo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1998 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome da un torrente che attraversa i vigneti, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà di Mario Lucchetti dal 1981, l’azienda agricola si estende su una superficie di 15 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Paolo Lucchetti e l’enologo Alberto Mazzoni.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore (Verdicchio 100%) I Rossi: Lacrima di Morro d’Alba DOC (Lacrima 100%)

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MALACARI Alessandro Starrabba Malacari Spesso mi succede di non trovarmi a mio agio nei confronti della storia della mia famiglia, poiché non mi è stato né facile, né semplice varcare il portone principale di questo palazzo che contraddistingue, da 400 anni, la presenza dei Malacari sul territorio di Offagna e confrontarmi con tutto ciò che si è svolto fra queste mura e sulle terre che lo circondano. Sentivo che il mio era un confronto impari con uomini come Andrea Malacari che, nel 1830, fu uno dei triumviri della Repubblica

affrontare gli impegni, li ingigantiva, anche e soprattutto per il grande rispetto che aveva sempre nutrito verso chi lo aveva preceduto; un rispetto che si era improvvisamente trasformato in dovere, impegno e dedizione nei confronti di questa azienda che, dopo la morte di mio padre Giovanni, non aveva più nessuna guida. Un lutto che, di fatto, troncò quel cordone ombelicale che mi legava fortemente a Roma, la mia città di adozione, conducendomi, a ventuno anni, qui nelle Marche, alle sorgenti

stereotipi nobiliari di cui trasudavano queste proprietà. Un equilibrio difficile proprio perché, essendo figlio di una generazione che negli ultimi cinquant’anni ha costruito, distrutto, ricostruito e poi nuovamente distrutto miti e passioni, contribuendo a dare precarietà a tutto e tutti, per lungo tempo sono rimasto incredulo sull’opportunità di puntare sulla forza della mia identità culturale e storica. Con umiltà mi sono rimboccato le maniche e mi sono impegnato per far crescere

Anconetana, o con un mio trisnonno che fu garibaldino e comandante del battaglione marchigiano nella sanguinosa battaglia di Castelfidardo e che contribuì moltissimo all’unione dell’Italia. Fervide menti le cui tracce sono ancora conservate fra queste mura e nella biblioteca di famiglia, dove sono custodite molte prime edizioni di opere in francese di Voltaire, Diderot, D’Alembert, oltre a una copia de L’Encyclopédie e a una rara e bella edizione de L’Enciclopedia di Agricoltura del Rozier. Uomini che hanno delineato il solco sul quale si è costruita la storia di questa casata. Forse la mia era la semplice paura di un giovane che, non considerandosi all’altezza di

delle mie radici. Lasciata l’università, avviai un confronto fra le necessità di preservare ciò che mi era stato affidato e il mio personale desiderio di costruire un soddisfacente percorso di vita, capace di garantirmi l’opportunità di confrontarmi e introdurmi con merito fra i Malacari degni di essere ricordati. In questi anni è stato difficile tenere in equilibrio il passato con il futuro, coniugando la necessità di dare dinamicità e vigore a quest’azienda con il rispetto di quelle memorie storiche che qui avevano regolato l’ambiente e le colture; un’unione che solo molto più tardi si è dimostrata vincente e mi ha consentito di affrontare il mondo del vino senza quelle fossilizzazioni culturali di vecchi

quest’azienda e, dopo venticinque anni, con soddisfazione devo dire che molte cose sono cambiate da quando sono arrivato. Quanti problemi sconosciuti mi sono divenuti familiari e quante perplessità, incognite e dubbi ho dovuto superare per modificare ciò che all’inizio mi sembrava immutabile. Nonostante tutto, ancora mi emoziono quando finisco di restaurare una stanza di questa villa o quando mi soffermo a ricordare quali siano stati i processi decisionali che hanno consentito di realizzare i cambiamenti che hanno trasformato i vigneti e la cantina e, ancora oggi, ho ben chiaro il ricordo dell’emozione che provai nel confezionare la mia prima bottiglia di vino, sensazione che come

il difficile e stato sempre tenere


in equilibrio il passato con il futuro


MALACARI

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intensità è stata seconda solo alla nascita di mia figlia Costanza. In questi anni, tante volte ho trovato sollievo leggendo l’iscrizione sulla porta d’ingresso di questo palazzo che recita “Abbiti a porto la domestica villa”. Ripensando a quel “porto”, mi rendo conto di quanto, nei momenti di grande tristezza e solitudine, questa casa sia stata per me un punto fermo, il mio punto di riferimento, l’angolo del mondo dove potevo rifugiarmi per ricaricarmi e affrontare ciò che mi attendeva fuori dal portone di questa “domestica villa”. Un porto a cui, ancora oggi, approdo volentieri nei momenti difficili ed è per questa

ragione che ho ritenuto doveroso rilanciarlo, cercando di coniugare al suo restauro, che sarà lungo e dispendioso, anche lo sviluppo del territorio circostante e quello dell’azienda per la quale ho puntato sui vitigni autoctoni e sulla grande opportunità che mi viene offerta dalla DOCG del Conero. Con l’esperienza e l’aumento del numero delle vendemmie, ho compreso che, se si ha in mente un progetto, è necessario perseguirlo fino in fondo e io, nel mio piccolo, mi sento parte integrante di un progetto più grande e più complesso di me che coinvolge tutti i produttori di vino di questa zona, con i quali mi piacerebbe confrontarmi per far

comprendere loro che solo insieme è possibile superare i momenti di difficoltà e costruire un futuro diverso. Io so benissimo che ognuno di loro è un valore aggiunto per questo territorio e per questo li rispetto e li stimo, poiché credo fortemente che, uniti, si possa costituire un punto di riferimento importante per l’enologia marchigiana che, per i vini a bacca rossa, può essere identificato solo in una grande e importante DOCG, quella del Conero. Del resto, ci sono molte aree vitivinicole in Italia che, proprio puntando su una forte caratterizzazione dell’offerta e su una comune tipicizzazione dei processi di trasformazione,


Grigiano Rosso Conero DOC

sono riuscite a creare una forte attenzione nei loro confronti da parte del mercato. Non so se riuscirò a far comprendere agli altri la grande opportunità che stiamo sprecando; certe volte, quando ci incontriamo, mi sembra di partecipare a riunioni “donchisciottiane” in cui mi ritrovo a combattere contro mulini a vento, che silenziosi e indifferenti, seguitano a roteare le loro pale. Io continuo a sperare e a lavorare per arrivare quanto prima a terminare la ristrutturazione di ogni singolo metro quadrato della villa e dei 44 ettari di vigneti di proprietà, così da potermi dedicare a costruire la mia storia e godermi un po’ di sereno riposo.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Grigiano nel comune di Offagna, le cui viti hanno un’età media di circa 35 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni profondi di natura calcareo-argillosa, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 2400 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 5680 ceppi per Ha in quelli nuovi Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 8-10 giorni ad una temperatura che non supera mai i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale si effettuano un délestage giornaliero e, solo nella prima fase, rimontaggi periodici. In seguito il vino effettua la fermentazione malolattica al termine della quale, dopo una breve decantazione statica, viene posto per un 50% in tonneaux e per un 50% in barriques, tutti legni di rovere francese a grana fine e media tostatura di cui almeno l’80% di primo passaggio; qui rimane per 16 mesi. Al termine di questa maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 9 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 9500 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino si presenta al naso con un percorso olfattivo complesso che parte da profumi di confettura di frutti neri e polpa di marasche mature, per arrivare a note di cioccolato amaro e nuances speziate dolci di cannella e pepe bianco. In bocca è avvolgente, piacevole, con un’entratura fresca e una fibra tannica elegante, fine ed equilibrata che, abbinata ad una buona sapidità, lo rende molto lungo e persistente. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1998 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dalla località di produzione, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Malacari dal 1500 e gestita da Alessandro Starrabba Malacari dal 1981, l’azienda agricola si estende su una superficie di 44 Ha, di cui 19 vitati e 25 occupati da seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Pierluigi Donna e l’enologo Sergio Paolucci.

Altri vini I Rossi: Rosso Conero DOC Villa Malacari (Montepulciano 100%)

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MANCINELLI STEFANO Stefano Mancinelli Sono stato “trasportato” in questo lavoro dall’onda inerte della tradizione familiare che ha visto sempre un Mancinelli operare a stretto contatto con la campagna e con l’agricoltura. Fu, infatti, il mio bisnonno Angelo che, aprendo, alla fine dell’Ottocento, un frantoio di trasformazione delle olive per conto terzi, dette il via a questa usanza familiare che fu proseguita poi da mio nonno Alberto che acquistò, in seguito, anche una delle prime macchine trebbiatrici della zona. Mio padre Fabio, credo proprio per una

vitivinicola di famiglia e presto mi ritrovai animato dalla stessa passione e dallo stesso impegno che vedevo in mio padre. Storicamente la nostra viticoltura, come quella dell’intera zona, si fondava principalmente su questo vitigno autoctono che è il Lacrima di Morro d’Alba, che prende il nome sia dal comune dove è allevato, sia dal fatto che il grappolo, all’apice della sua completa maturazione, secerne una lacrima succosa. Fino agli inizi degli anni ‘80 qui si praticava un’enologia hobbistica, per lo più sconosciuta

agli attuali 200. Tutto il settore fu colpito da un irrefrenabile desiderio di soddisfare quella crescente domanda e, ognuno per conto suo, rispettando il più classico “stile” marchigiano, cercò di migliorare l’aspetto qualitativo della propria produzione che, fino a quel momento, aveva assai risentito delle tradizioni e dei sistemi operativi che, per decenni, avevano scandito i tempi di quelle vendemmie, utili solo per fare il vino per casa o per i pochi amici appassionati. Così ci fu chi si orientò sulla spumantizzazione,

questione congenita, non poté esimersi dal continuare questa consuetudine e, raccolta quella passione ereditaria che, in seguito, mi trasmise, si dedicò per diletto alla coltivazione delle viti. Ricordo che, proprio mentre studiavo alla facoltà di Agraria di Firenze, alla fine degli anni ‘70, egli non si lasciò sfuggire l’occasione per andare in pensione dal lavoro di insegnante di contabilità che aveva svolto per tantissimi anni, presso gli Istituti Tecnici Femminili di Jesi ed Ancona, riuscendo così ad appagare, definitivamente, il sogno di starsene a lavorare su queste terre, fra le sue vigne. Lo stesso indirizzo formativo che avevo scelto mi portò a confrontarmi con la piccola realtà

a chi non abitava nella zona, su un’estensione vitata complessiva che non superava i 7 ettari, posti alla periferia del paese. Le cose mutarono appena un vecchio Sindaco del paese, Franco Fava, nel 1985, riuscì a ottenere per la Lacrima di Morro d’Alba, con grande lungimiranza e a dispetto della piccolissima rappresentanza viticola esistente sul territorio, la Denominazione di Origine Controllata. Con quel riconoscimento le cose cambiarono. Per noi vignaioli, quella DOC fu una grande fortuna. Fu così che incominciò una nuova era per la viticoltura della zona, poiché da quel giorno le richieste di Lacrima aumentarono e gli ettari vitati si moltiplicarono, fino a giungere

chi sull’appassimento, chi sulle nuove tecniche di criomacerazione; altri andarono a riscoprire anche tecniche di vinificazione desuete o addirittura scomparse, mettendo su una babele enologica che, pur essendo stimolante, rischiò, in un certo momento, di confondere un po’ il mercato. Oggi, forse grazie anche al ventaglio di proposte enologiche con le quali si presenta, questo vitigno si sta affermando sempre più, dimostrandosi un gioiello pari agli altri autoctoni marchigiani che racchiudono, forse più di altri, l’esprit più vero della terra in cui sono prodotti. Dal quel 1985 sono passati già più di vent’anni e c’è stata una crescita costante

fummo colpiti da un irrefrenabile


desiderio di arrivare


MANCINELLI STEFANO

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del settore vitivinicolo della zona, ma non c’è stato, intorno a questa DOC, quell’exploit di un qualificato e acculturato turismo enogastronomico che così tanto ha caratterizzato, invece, altre zone vitivinicole d’Italia, dando un impulso imprenditoriale, culturale ed economico a tutto il territorio di riferimento. Qui tutto è immutabile. Nessuno ha voluto interpretare i cambiamenti che in quest’ultimo decennio erano chiari a tutti e che hanno sostanzialmente modificato il turismo nazionale ed europeo, che è andato, via via, orientandosi verso la ricerca di quella maggiore qualità della vita che si riscontra nelle aree a spiccata vocazione viticola. Tutti sembrano essere colpiti da una cecità assoluta e noi produttori, impotenti, abbiamo assistito persino al rifiuto di una precedente amministrazione comunale di iscrivere il territorio nell’associazione Città del Vino e in quella del Turismo del Vino, togliendo di fatto Morro d’Alba da quel circuito enogastronomico che movimenta qualche milione di persone in tutta Europa. Amo questo territorio e sono sicuro che a questo mio paese non mancherebbe niente per essere conosciuto e apprezzato da molti, non solo per la tipicità del vino che qui produciamo, ma soprattutto per le bellezze architettoniche, storiche, monumentali e paesaggistiche che conserva. Sono certo che Morro d’Alba potrebbe diventare “la Montalcino delle Marche”, per mille motivi, fra cui uno splendido castello che ancora conserva un meraviglioso camminamento di ronda che corre tutto intorno all’edificio e dal quale, nei giorni di sereno, si può osservare un bellissimo panorama che spazia dal mare ai monti Sibillini. Un posto magnifico che riconduce a lotte cavalleresche, a disfide e ardite tenzoni i cui strèpiti sembrano riecheggiare ancora all’ombra delle merlature. Qui non sono in molti a comprendere che la gente vuole bere e quasi ubriacarsi non più del vino, ma della storia, delle memorie e delle tradizioni di una terra. Quando vado in giro per il mondo e i miei potenziali clienti degustano questo vino, noto che, immediatamente, diventano curiosi e ricercano nelle mie parole una storia che li faccia sognare e che li riconduca, anche solo per un attimo, a questa terra che non

conoscono, ma che desiderano ardentemente scoprire, arrivando a chiedere quali siano i piatti tipici, la storia e le usanze di queste terre marchigiane o come qui si riempiano le giornate quando il vigneto è vuoto e la cantina è silenziosa. Vino quindi come elemento di traino e di sviluppo, capace di promuovere e di creare attenzione verso un territorio nel quale io credo molto e che spero, il prima possibile, venga valorizzato da tutti i miei concittadini.


Re Sole Lacrima di Morro d’Alba DOC Passito Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lacrima provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Santa Maria del Fiore nel comune di Morro d’Alba, le cui viti hanno un’età compresa tra i 3 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza d’argilla, sono posizionati ad un’altitudine di 180 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Lacrima 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 2200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede al totale appassimento delle uve che rimangono appese grappolo per grappolo per 4 mesi su una struttura che simula il vigneto in un ambiente termocondizionato; quindi si effettua la diraspapigiatura delle uve e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 14-15 giorni a temperatura controllata; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri fino a quando il grado zuccherino non raggiunge 10° babo. Completata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane per 24 mesi, periodo durante il quale è travasato più volte prima di essere messo in tonneaux dove rimane per altri 24 mesi. Terminato questo lungo periodo di maturazione, si effettua l’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, si procede all’imbottigliamento per un ulteriore affinamento di altri 5 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 5000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino tendente al violaceo, intenso, quasi impenetrabile, il vino presenta un percorso olfattivo con profumi fruttati ampi, complessi, pieni, che vanno dalla confettura di more al ribes, alle prugne secche, per poi aprirsi a note floreali di violetta appassita e a una diffusa mineralità. In bocca è dolce, caldo, avvolgente, con una chiusura ampia e profonda che lascia piacevoli e durature sensazioni di tamarindo. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1993 - 1998 - 2000 - 2003 Note: il vino, che prende il nome da un gioco di fantasia, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà di Stefano Mancinelli dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie di 62 Ha, di cui 25 vitati e 38 occupati da oliveto e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Giancarlo Soverchia e l’enologo Roberto Potentini.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore (Verdicchio 100%) I Rossi: Lacrima di Morro d’Alba DOC (Lacrima 100%) Lacrima di Morro d’Alba DOC Sensazioni di Frutto (Lacrima 100%) Lacrima di Morro d’Alba DOC Terre dei Goti (Lacrima 100%) Rubrum IGT Marche (Montepulciano 50%, Sangiovese 45%, Lacrima 5%)

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MARCHETTI MAURIZIO Maurizio Marchetti Nomen est fatum, il nome è destino, dicevano i Romani e nel nome Marche c’è tutto il destino di questa regione. Nome corto, l’unico declinato al plurale utilizzato per indicare una regione italiana. Questa è una terra strana, lasciatelo dire da chi la conosce bene. Anzi, si direbbe una terra difficile da interpretare e, nel suo insieme, molto più complessa di quanto sembri. Può apparire chiusa e restìa a farsi scoprire, una terra quasi più percorribile che fruibile e ritengo che questa sua unicità sia da ricercare

dei papaveri o del verde scuro degli olivi. Onde alte e immobili alla cui sommità si arroccano gli antichi paesi che, come velieri, spiegano in alto, verso il cielo, le vele dei loro numerosi campanili; vigili osservatori di quei fiumi che scorrono nel fondo valle e che, scendendo parallelamente a quelle onde dall’Appennino fino all’Adriatico, segnano i confini fra le varie “Marche”. Confini che solo all’apparenza sembrano ipotetici, ma che invece, posso assicurare, segnano diversità di cultura, di tradizione e di

collocabili in aree ben precise i cui confini, in alcuni casi, sono solo le colline che dividono una vallata dall’altra. Ma vi sono altri mille esempi a cui si potrebbe ricorrere per spiegare quanto sia articolata e composita questa società marchigiana. Qui si vive una complessità culturale che non è solo apparente, ma che è riscontrabile in mille differenze e distinguo fra le varie zone delle Marche. E questa gamma di toni, di gusti e specialità si manifesta anche nella nostra enogastronomia, che si caratterizza in modo

anche nelle caratteristiche morfologiche del suo territorio, che affascina chiunque arrivi qui. Non è infatti difficile rimanere incantati davanti alla splendida tavolozza cromatica che contraddistingue queste campagne, disegnate nei secoli dall’ingegno, dalla capacità, dalla passione e dal lavoro certosino profusi da ogni contadino marchigiano nel coltivare con cura la propria terra. Un paesaggio che dà l’impressione di una certa omogeneità che simula il moto ondulatorio del mare, con vallate che si susseguono a vallate, le cui onde si colorano ora dell’oro del grano o del giallo dei girasoli, ora del verde ramarro dei vigneti, del rosso

pensiero fra le varie genti che abitano questa regione. Non credere che questa sia la ripetizione della solita banale storia che contraddistingue la contesa fra i “campanili” così cara al municipalismo di noi italiani. No, il discorso è molto più complesso ed assume quasi le vesti di un vero e proprio habitus sociale. Molto più profondo e radicato di quanto si possa credere, esso è da ricercare nel carattere e nell’animo delle genti marchigiane, sempre poco inclini ad instaurare immediati rapporti personali, che non siano quelli prettamente commerciali. Devi sapere che qui gli stessi dialetti assumono i connotati di vere e proprie lingue,

netto e unico da provincia a provincia, da vallata a vallata, da città a città. Una gastronomia che è capace di contrapporre ad Ancona il tradizionale e saporito “sardone scottadito”, cotto sulla graticola, allo squisito “baccalà all’ascolana” più a sud, mentre a Senigallia abbiamo una cucina di mare molto delicata e sofisticata con piatti come la “zuppa di pesce con i cannoli”. Modi diversi di interpretare il prodotto ittico, accompagnato per la cucina anconetana da vini rossi come quelli prodotti sul Monte Conero, o per la cucina senigagliese da vini bianchi prodotti nell’entroterra, nei vigneti che troneggiano sulla cima dei crinali che delimitano le valli e si inoltrano nell’interno

onde immobili alla cui sommità


s’arroccano i paesi


MARCHETTI MAURIZIO

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fino alle prime pendici delle montagne appenniniche. Quante anime caratterizzano queste Marche e quante contraddizioni ne raccontano i limiti e le qualità! Queste sono terre dove in genere sopravvive una riservatezza atavica, retaggio anche di un certo costume rurale medioevale, in una sorta di pudore che sembra chiudersi in se stesso ancor prima di aprirsi al dialogo, ma che oggi rappresenta un freno all’urgenza di costruire una visione strategica coerente, aperta, moderna e innovativa. Forse questa è un’interpretazione un po’ troppo severa, dovuta ad un insieme di amore e analisi critica per la nostra realtà sociale, ma non si creda che sia agevole esprimerla, soprattutto in riferimento al contesto del mondo del vino marchigiano nel quale operiamo. Posso assicurare che questo è un settore particolarmente delicato e difficile; un comparto produttivo fragile che ancora stenta a trovare una propria identità precisa, che ha radici antiche ma bisognose di un solido rafforzamento e di ulteriore profonda innovazione - di processo, di prodotto e di marketing - su cui poter fare sicuro affidamento. Di esso si potrebbe quasi dire, in gergo marinaresco, che è ancora una flotta che naviga un po’ a vista, senza una rotta precisa e condivisa, nella speranza che le nebbie spesso all’orizzonte e i temporali di crisi siano spazzati via da venti propiziatori. Questa enologia marchigiana è costruita soprattutto sulla buona volontà, sulla perseveranza e sull’ingegno di quei vignaioli che, tranne sporadici esempi, fino a pochi anni addietro hanno evitato un confronto diretto con il mercato preferendo in modo parcellizzato commercializzare vino sfuso e perseguendo politiche produttive orientate a soddisfare un tornaconto immediato o di breve termine. Così negli anni si è sviluppata un’enologia carente di una vera e propria progettualità capace di evidenziare i confini dell’autentico “vigneto Marche” e di valorizzarne adeguatamente le specificità. Andando in giro, prova a domandare ai molti enologi e produttori che incontri quale sia il destino di questi vini marchigiani... Tutti ti

parleranno dei vitigni autoctoni, delle grandi opportunità e delle potenzialità che essi potrebbero riservare per il futuro, ma pochi saranno in grado di indicarti con sicurezza un’efficace strategia comune che non si esaurisca nei propri obiettivi individuali e di corto periodo. Tutti qui viaggiamo in modo parallelo, ognuno al fianco dell’altro, senza mai incontrarci per operare in una dimensione progettuale globale di medio-lungo termine, all’interno di una moderna struttura organizzativa di “sistema”. Non nascondo che a volte si può avvertire la tentazione di allontanarsi da questa terra in cui permane una distinzione netta fra marchigiani e marchigiani, fra vini bianchi e vini rossi, fra DOC e DOCG, fra Marche e Marche. È inconfutabile che il livello qualitativo dei vini prodotti si sia notevolmente innalzato sino a raggiungere espressioni di eccellenza; è vero che un crescente numero di aziende oggi si affaccia sul mercato; ma è anche altrettanto vero che non si è innovato a sufficienza l’atteggiamento generale del mondo del vino marchigiano. Così, ancora oggi, si può constatare come il complesso delle forze in gioco, delle lobbies, delle rappresentanze di categoria e dei legittimi interessi organizzati - dall’imprenditoria ai soggetti politico-istituzionali, ai poteri e alle strutture pubbliche - si esaurisca troppo spesso in discussioni abbastanza sterili, prive di concretezza propositiva decisionale, molte volte carenti delle azioni operative conseguenti. Così si assiste al carosello nel quale ognuno si prodiga, spesso in buona fede, ad auspicare prospettive rosee sul futuro del vino marchigiano. Poi, spenti i riflettori e i microfoni, la realtà riconduce invece ad un insufficiente dinamismo generale che ci costringe a rimboccarci le maniche e a giocarci il futuro della nostra azienda contando solo sulle proprie forze. Ma forse, è anche giusto che sia così. Ciò che resta, nonostante tutte le difficoltà di contesto e di percorso, è l’affetto per la propria terra marchigiana, che continua a motivare la tenacia imprenditoriale ed il realismo di un vignaiolo comunque orientato a coltivare anche la visione positiva di un migliore futuro.


Villa Bonomi Conero DOCG Riserva Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Castro di San Silvestro nel comune di Ancona, le cui viti hanno un’età media di circa 6 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosi di medio impasto profondo, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 150 metri s.l.m., con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima metà di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 6-7 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 26°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che invece prosegue, sempre a temperatura controllata, per altri 12-14 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura per 1/3 di primo, 1/3 di secondo e 1/3 di terzo passaggio, in cui rimane per 16 mesi durante i quali è travasato più volte. Terminata la maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 4-6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino presenta un percorso olfattivo pieno e complesso che spazia da note fruttate di mora e polpa di marasca matura a percezioni speziate di pepe bianco, cannella e chiodi di garofano, con un finale che ricorda i fiori appassiti. In bocca ha un’entratura importante, con una fibra tannica elegante, evoluta, che insieme a una buona sapidità conferisce al vino lunghezza e persistenza. Bello il finale fruttato. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1991 - 1993 - 1997 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla villa padronale di proprietà della famiglia Marchetti, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Marchetti dal 1850, l’azienda agricola si estende su una superficie di 75 Ha, di cui 18 vitati, 50 a seminativi e 7 a bosco e altre colture. Le funzioni di agronomo sono svolte dallo stesso Maurizio Marchetti, mentre collabora in azienda l’enologo Lorenzo Landi.

Altri vini I Bianchi: Rosso Conero DOC (Montepulciano 100%) I Rossi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC (Verdicchio 100%)

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MAROTTI CAMPI Giovanni Marotti Campi con il figlio Lorenzo Non è stato facile comprendere i sottili meccanismi che regolano il mercato del vino per una piccola azienda come la nostra, inserita in un mercato che non è inquadrabile all’interno di quelle regole manageriali sulle quali ho costruito parte della mia carriera di Presidente e Amministratore Delegato della Seagram, una multinazionale che si occupava della produzione e della distribuzione, a livello mondiale, di molti noti marchi di superalcolici fra i quali il Glen Grant o il Chivas Regal. Durante la mia lunga militanza al vertice di quella prestigiosa multinazionale, avevo già verificato personalmente quanto fosse complesso lo sviluppo di strategie commerciali nel settore del vino, confrontandomi direttamente con una realtà come la Ricasoli, una fra le più prestigiose aziende vitivinicole toscane che, negli anni ‘80, rappresentava il prestigio del vino italiano nel mondo. Compresi presto che la gestione di un marchio vitivinicolo così importante richiedeva continui investimenti a lungo e medio termine non solo sotto l’aspetto tecnico, ma anche sotto l’aspetto commerciale e sotto quello della gestione delle risorse umane, settore che necessitava di nuove professionalità che, nel tempo, avrebbero forse potuto condurre ai risultati auspicati. Non potendo attivare simili progettualità nella Seagram, mi trovai costretto, mio malgrado, a cedere quella casa vinicola, poiché ciò che avrei dovuto fare era incompatibile con gli obiettivi che si pongono solitamente le multinazionali, il cui scopo è il profitto a breve termine, al fine di dare risposte concrete alle borse internazionali con risultati calcolati su basi trimestrali. Durante la mia vita professionale questa casa di campagna e queste colline di Morro d’Alba erano un punto fermo in quel continuo tourbillon che mi portava in giro per il mondo, durante il quale mi ritrovavo spesso a pensare a cosa avrei fatto quando sarei andato in pensione. Fu con questa ottica che nel 1991 rilevai completamente questa azienda dalla mia famiglia; un’azienda che a quei tempi aveva un indirizzo produttivo prettamente cerealicolo, non conforme a ciò che avrei voluto per il “buen retiro” della mia vecchiaia. Così modificai, piano piano, il paesaggio tutto intorno, facendo piantare annualmente viti, fino a trasformare 54 dei 120 ettari aziendali in

splendidi vigneti, tutti specializzati. In pensione non mi vedevo a trascorrere il tempo leggendo il giornale, nel giardino di casa, e proprio pensando che la vigna avrebbe potuto essere una buona occupazione per quegli anni a venire, incominciai dapprima a piantare vigne e poi a vendere le uve che, in alcune annate, arrivarono a rappresentare più della metà dell’intera produzione della DOC del Lacrima di Morro d’Alba. I prezzi che riuscivo a strappare erano sempre più interessanti, ma intuivo che non sarebbe potuto continuare a lungo un trend così positivo, visto e considerato che ormai molti altri produttori stavano impiantando nuovi vigneti. Sincerandomi della qualità di quelle uve di Lacrima, attraverso delle microvinificazioni che feci assaggiare ad alcuni enologi, decisi che era giunto il momento di costruire una cantina, che divenne operativa proprio con la vendemmia del 1999, così da dare vita a quella produzione che avrebbe poi rappresentato quest’azienda. Fui sorpreso che mio figlio Lorenzo, che si stava laureando in Economia, decidesse di non intraprendere quella carriera che io avevo caldeggiato in una multinazionale, preferendo un contatto più diretto con questa terra, con questa campagna e con il mondo del vino e scegliendo una qualità della vita diversa e forse migliore rispetto a quella che sicuramente avrebbe vissuto lavorando in una grande azienda. Con l’apertura della cantina e con le prime vinificazioni si rese necessario porre attenzione anche all’aspetto commerciale dei vini che producevamo, così da pianificare le vendite, nella consapevolezza che il difficile non è solo produrre un buon vino, ma venderlo ad un prezzo remunerativo. Personalmente non me la sentivo più di ricominciare a prendere aerei e di spostarmi da un capo all’altro del mondo e fu naturale che iniziasse mio figlio ad occuparsi delle vendite e della rete commerciale, attivandosi sui mercati stranieri con ottimi risultati, visto che oggi vendiamo più del 50% dei nostri vini all’estero e che i nostri più grossi mercati sono l’Inghilterra e gli Stati Uniti, seguiti da Olanda, Danimarca, Belgio, Nuova Zelanda e Australia. Sono contento che in questi pochi anni i nostri

vini abbiano già raggiunto una buona visibilità e anche buoni riconoscimenti; la cosa mi fa ben sperare per il futuro, dato che, proprio in considerazione della gran mole di lavoro che stiamo attivando nei vigneti e in cantina, non possiamo che migliorare ciò che abbiamo appena iniziato. È un lavoro minuzioso e complesso, che si evidenzia nell’espletamento di azioni mirate ora al riequilibrio dei vigneti, ricercando un miglioramento continuo della produzione viticola che di anno in anno è in netto avanzamento, nella conoscenza delle tecniche di vinificazione più adatte a un vitigno complicato come è il Lacrima; un vitigno che, non avendo un background importante sul territorio di riferimento, ci costringe ad impegnarci in una sperimentazione continua che sicuramente ci condurrà fra qualche anno ad ottimizzare l’intera filiera produttiva. Con l’accumulo delle vendemmie sulle spalle e con una maggiore consapevolezza delle nostre potenzialità, mi rendo conto sempre più che ciò che ho intrapreso è una splendida avventura che sono felice di poter condividere oggi con mio figlio, rammaricandomi un po’ di non potergli trasmettere tutto quel contributo di esperienza che ho acquisito nella mia carriera di top manager in giro per il mondo, non tanto perché ne sia impossibilitato da qualche ragione specifica, ma poiché certi principi cardini sui quali si basava quella esperienza in una grande multinazionale risultano inadeguati per una “micro” realtà come la nostra. Il cambiamento dei mercati ed in particolare di quello del vino ha subìto una grande accelerazione nell’ultimo decennio ponendoci di fronte a nuove esigenze e alla necessità di nuovi modi di fare marketing. Sono sicuramente nuove sfide quelle che, da padre, con orgoglio, osservo affrontare da mio figlio, che sa tenere loro testa con il piglio giusto e la determinazione di chi ha saputo leggere fra quelle sottili sfumature che regolano oggi il mercato del vino. Così mi sono accorto che Lorenzo ha saputo coniugare i nostri vini a questo territorio, al fine di caratterizzare fortemente la produzione e di renderla unica nei confronti di una globalizzazione che speriamo sappia creare un distinguo fra chi produce artigianalmente come noi e la grande industria.

l’importante e poter scegliere la qualità


della vita che si desidera vivere


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Orgiolo Lacrima di Morro d’Alba DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lacrima provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Sant’Amico, nel comune di Morro d’Alba, le cui viti hanno un’età media di circa 12 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine di 170 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Lacrima 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3450 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che è svolta parte in rotomaceratori e parte in recipienti di acciaio inox e che si protrae nel primo caso ad una temperatura compresa tra i 35 e i 38°C, soltanto per 24 ore, mentre nel secondo caso alla temperatura di 18°C, per 12 giorni, periodo durante il quale, contemporaneamente, avviene anche la macerazione sulle bucce. Terminata questa fase, si procede all’assemblaggio delle partite e il vino effettua la fermentazione malolattica prima di essere inserito in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di secondo passaggio, in cui rimane 6-8 mesi per la maturazione; in seguito, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 25000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino con riflessi violacei, il vino presenta un percorso olfattivo ampio, complesso, pieno di sensazioni di frutta fresca, petali di rose rosse e chiodi di garofano. In bocca risulta fresco, con una fibra tannica leggera e discreta sapidità; buona lunghezza e persistenza. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 2000 - 2003 Note: il vino, che prende il nome da una rocca medioevale che era presente nella zona, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Marotti Campi dal 1860, l’azienda agricola si estende su una superficie di 120 Ha, di cui 54 vitati e 66 occupati da seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Ivano Berardinelli e l’enologo Roberto Potentini.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Albiano (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Luzano (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Salmariano (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Passito Onyr (Verdicchio 100%) I Rossi: Lacrima di Morro d’Alba DOC Rùbico (Lacrima 100%) Donderé IGT Marche (Petit Verdot 50%, Cabernet Sauvignon 25%, Montepulciano 25%)

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MONTECAPPONE Giannandrea Mirizzi con il piccolo Andrea, Gianluca e la moglie Annarita Avrei avuto l’opportunità di fare tante cose: l’avvocato, che mi piaceva tanto, il commercialista, professione per la quale mi ero anche laureato in Economia e Commercio a Roma, città nella quale sono nato e dove abitava la mia famiglia; avrei anche potuto fare il bancario, seguendo le orme di mio padre che è stato, per tantissimi anni, direttore di alcune filiali della Banca di Roma, oppure sarei potuto diventare “enotecaro” come mia madre Rosanna, marchigiana DOC, prima donna sommelier professionista della città, la quale continua a mandare avanti, ormai da quasi venti anni, l’enoteca che mio nonno Recildo aprì cinquant’anni fa in via Tuscolana. Sicuramente avrei potuto fare un sacco di cose o indossare dei panni molto diversi da quelli con i quali oggi mi presento, ma invece eccomi qua fra queste colline marchigiane per cercare di diventare, nel più breve tempo possibile, un buon vignaiolo. Chissà se si tratta di una casualità o di una fatalità o se sia il semplice destino che ha voluto modificare così radicalmente il mio futuro. Non saprei dirti quale sia il motivo certo per il quale, dal 1997, io mi ritrovo in questa azienda di sessanta ettari posta alla periferia di Jesi. Posso solo assicurare che quel senso del dovere e di responsabilità, che mi ha sempre caratterizzato e che mi ha spinto ad assecondare la decisione dei miei genitori di rilevare le quote che i soci di mio nonno Recildo detenevano di questa tenuta di Montecappone, si è trasformato in una grande passione per tutto ciò che riguarda le mille sfaccettature che il comparto vitivinicolo sa offrire. Senza volerlo mi ritrovai ad interpretare il mestiere di cantiniere, che sembrava calzarmi addosso perfettamente, scoprendo che tutte quelle opportunità che avrei potuto avere con l’avvocatura, l’economia o la carriera bancaria e che si erano, nel tempo, alternate nella mia mente, si andavano ora disciogliendo come neve al sole e mi lasciavano seguire tranquillo, e senza rimpianti, questa nuova avventura. Fu quasi immediata la percezione di aver intrapreso la strada giusta che ancora oggi, a distanza di anni, mi consente di crescere e di acquisire nuove esperienze, sperimentandomi

in questo mestiere così poliedrico, complesso e sempre diverso. Ma perché uno che ha vissuto trent’anni a Roma, e che ha davanti a sé una buona carriera da libero professionista, decide di lasciare tutto e ritirarsi nelle Marche a fare il vino? Potrei risponderti con qualche frase bella e retorica, ma in definitiva non saprei indicarti la motivazione precisa che mi ha spinto a venire qui. Forse una delle cause, ma che io stesso ritengo molto eterea, potrebbe essere ricercata nella quotidiana frequentazione di quella enoteca materna dove mi prodigavo a sistemare le bottiglie di vino negli scaffali e a fare qualche consegna. Ricordo comunque che quelle giornate erano scandite da lunghe chiacchierate con clienti e produttori, ognuno dei quali esternava una passione per il mondo del vino che un po’ mi intrigava. Io rimanevo spesso ad ascoltarli, non pensando che, in capo a qualche anno, mi sarei trovato nelle loro stesse condizioni, a sciorinare impressioni sulle percezioni olfattive o a disquisire sul piacere, sul gusto o su quali fossero le migliori tecniche di vinificazione di uno specifico vitigno. Spesso ascoltavo mia madre e la seguivo in quei suoi ragionamenti che, non nego, certe volte mi sembravano un po’ astrusi; in fondo, dicevo fra me e me, si trattava di vino, di solo e semplice vino e poco altro e allora? Forse è anche questa la ragione per cui ho cercato, quando sono entrato in cantina, di scoprire subito cosa vi fosse dietro a quelle caratteristiche organolettiche di cui avevo sentito parlare nell’enoteca di mia madre, per le quali lei e alcuni suoi clienti riuscivano a intavolare dei veri e propri dibattiti, dividendosi addirittura in diverse scuole di pensiero con ipotesi e teorie distinte. Sì, forse fu proprio la somma di tutte quelle reminescenze che mi spinse, dopo la prima vendemmia, a innamorarmi di questo mestiere, come se avessi subìto un colpo di fulmine che, piano piano, si è trasformato in amore, un po’ come è successo, poco più tardi, con mia moglie Annarita. Così, a partire dal 1997 venni nelle Marche, abbandonando Roma, gli amici e lo stile di vita

che conducevo in quella città, seguendo, per quanto mi era possibile, la produzione, ma lanciandomi contemporaneamente, da quel “picchio” testardo e cocciuto che riconosco di essere, in uno studio che mi ha spinto ad approfondire tutto ciò che potesse, in qualche modo, riguardare o interagire con il vino e con la sua produzione. Man mano che le mie conoscenze crescevano, comprendevo sempre più che vi era molta differenza tra quelle chiacchiere sul vino che ascoltavo in bottega da mia madre e la complessità di quella cantina in cui mi stavo mettendo in gioco. Ce n’era di strada fra il dire e il fare, fra il degustare un vino e il produrlo, anche se il fine ultimo, per chi lo produce, è sempre quello di ottenere un plauso da un palato che riesca a distinguere la particolare personalità di ogni vino. Così, ormai da quasi un decennio, vivo questa nuova esperienza come l’unica e la migliore che potesse accadermi, perché tramite essa ho imparato a giocare in attacco nella vita e non più in difensiva, come avevo sempre fatto in passato, capendo che, con una struttura che può produrre con le proprie vigne oltre 400.000 bottiglie, è necessario muoversi e misurarsi quotidianamente con il mercato, avendo la costanza e la grinta di non mollare mai, caratteristiche che solo in parte mi conoscevo così radicate nel profondo. C’è comunque da considerare che non è facile veicolare i vini di questa regione, poiché, con prove fatte, solo il 5% dei clienti che entrano in un’enoteca di Roma o Milano, pur se consigliati, poi, al momento di dover scegliere tra le molte proposte, preferiscono acquistare un vino marchigiano. Questo è l’effetto, ma la causa è da ricercarsi all’interno di una regione che non aiuta più di tanto il tessuto imprenditoriale agricolo a crescere e a promuoversi oltre il proprio orticello. Sarebbe fondamentale che noi imprenditori riuscissimo a dialogare, lasciando alla politica il compito di raccogliere le nostre istanze in modo da attivarci tutti insieme affinché questa regione abbia la visibilità che merita. Dal settore turistico a quello agroalimentare

avrei potuto fare tante cose,


ma preferii sperimentarmi qui


MONTECAPPONE a quello industriale, ognuno dovrebbe essere proiettato verso un unico obiettivo, che è quello di far crescere le Marche e il suo territorio. Parole belle che spesso si sentono ripetere un po’ ovunque, ma noto con rammarico che siamo ancora lontani da questo obiettivo comune e la dimostrazione sta nel fatto che le stesse strutture ricettive, gli agriturismi e la ristorazione chiedono, a noi produttori, del vino standard, oserei dire globalizzato. Pazzi! - Grido loro. Abbiamo il Verdicchio, un gioiello unico al mondo, il Montepulciano, potentissimo e longevo, la Lacrima di Morro d’Alba e tanti altri vitigni autoctoni prodotti, non solo da industriali, ma da vignaioli artigiani che puntano sulla qualità. È su queste peculiari caratteristiche, su queste eccellenze o su tutti gli altri elementi, storici, monumentali, paesaggistici e industriali che caratterizzano e identificano la nostra regione, che ogni elemento della catena distributiva che opera sul territorio marchigiano dovrebbe concentrarsi per sentirsi parte integrante di un sistema. Questo mio piccolo sfogo è comune a tutti coloro che sentono di avere tra le mani il futuro e avrebbero voglia di veder cambiare le cose il prima possibile, ma io, che sono un produttore “emergente”, so bene che ho ancora tante cose da fare e forse è per questo che non mi voglio accontentare di ciò che ho.

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Tabano Esino Rosso DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Tabano, nel comune di Jesi, le cui viti hanno un’età media di circa 6 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con esposizione a ovest e sud-ovest. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 8 giorni ad una temperatura che non supera mai i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che prosegue, sempre a temperatura controllata, per altri 12 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica per un 50% della massa in acciaio e per l’altro 50% in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo, secondo e terzo passaggio in cui rimane 12 mesi per la maturazione; durante questa fase vengono effettuati dei bâtonnages ed il vino è travasato più volte. Al termine si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6600-13500 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino presenta un percorso olfattivo complesso, con percezioni nette di fiori appassiti che si mischiano a piccoli frutti neri maturi oltre a note di prugna e di polpa di marasca matura, sentori che lentamente accompagnano nuances speziate di pepe nero, cannella e chiodi di garofano avvolti in splendida mineralità che sfocia in accenni di iodio. In bocca ha un’entratura elegante, equilibrata, armoniosa, con una fibra tannica evoluta che riporta alla mente le percezioni fruttate avute al naso risultando lungo e persistente. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2002 - 2003 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dal toponimo dove è posizionato il vigneto, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà delle famiglie Bomprezzi e Mirizzi dal 1968, l’azienda agricola si estende su una superficie di 64 Ha, di cui 60 vitati e 4 occupati da frutteti, oliveti e prati. Collabora in azienda in qualità di agronomo ed enologo Lorenzo Landi.

Altri vini I Bianchi: Esino Bianco DOC Tabano (Verdicchio 70%, Sauvignon 20%, Malvasia 10%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Montesecco (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Utopia (Verdicchio 100%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Montesecco (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%)

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MONTE SCHIAVO Gian Luigi Calzetta Sono più di vent’anni che sono tornato nelle Marche, da dove ero andato via quando ero bambino. Adolescenza in Sardegna, dove i miei si erano trasferiti, poi gli studi in Toscana, fra Lucca, Firenze e Pisa e il primo impiego, di nuovo in Sardegna, dove ancora oggi risiedono le mie sorelle dopo la morte dei nostri genitori. In quegli anni non pensavo certo di ritornare qui, anche se il ricordo delle Marche era sempre presente nella mia quotidianità e soprattutto grazie a mia madre, che non smetteva mai di pensare alle sue lontane origini. Ricordo ancora che ascoltavo, in silenzio, i suoi racconti su un territorio che, pur sentendolo vicino, non conoscevo, cercando di comprendere cosa vi fosse al di là di quei nomi di parenti o amici che ogni tanto arricchivano quelle sue memorie. Credo sia stata proprio lei a gettare le basi del grande attaccamento che ancora oggi mi lega a questa regione e, molti anni più tardi, quando decisi di tornarvi definitivamente, in seguito all’amore che era nato per una splendida marchigiana che poi divenne mia moglie, devono essere stati quei suoi racconti sulle mie origini a non farmi titubare un solo attimo. Venendo via dalla Sardegna ero andato a lavorare alla Dreher, la famosa azienda produttrice di birra che alla fine degli anni ‘60 aveva come testimonial il grande Mike Bongiorno; qui ho percorso tutti i gradini della scala gerarchica, arrivando fino alla direzione vendite. Quando la Dreher fu inglobata da una multinazionale olandese, decisi di cambiare area e, seguendo l’invito che, da tempo, mi aveva rivolto Bruno Bolla, nel ‘74 entrai nel mondo del vino italiano assumendo l’incarico di direttore commerciale per l’Italia e l’estero di una grande cantina. È nato proprio in quel periodo il mio coinvolgimento totale con il vino che, in oltre trent’anni, mi ha portato a viaggiare per il mondo e mi ha fatto assistere a tutti i grandi mutamenti che hanno contraddistinto, attraverso momenti di grande crisi e crescita, il settore vitivinicolo nazionale. Quegli anni vissuti alla Bolla furono contraddistinti da quel grande entusiasmo

che solo un giovane ragazzo che si affaccia all’esperienza della vita può avere. Rappresentare quella cantina ha significato molto per me, poiché quell’esperienza mi ha permesso di maturare sia professionalmente che come uomo. Con quella cantina ho avuto la possibilità non solo di viaggiare, ma di avere anche notevoli gratificazioni commerciali in anni in cui, invece, non si poteva certo dire che il vino italiano avesse la considerazione di cui gode oggi nel panorama mondiale.

Con quell’esperienza si consolidò definitivamente il filo diretto che ancora oggi mi lega al vino, un filo che non si è mai spezzato in tutti questi anni, neanche quando nel 1982, per ragioni familiari, decisi di lasciare Brescia e di ritornare definitivamente nelle Marche dove assunsi le redini commerciali dell’azienda vitivinicola Garofoli. Un’altra parentesi importantissima della mia vita che durò per più di un decennio, fino al momento in cui, nel 1996, Gennaro Pieralisi mi offrì l’opportunità di diventare amministratore delegato della Vini Monte Schiavo (La Vite S.p.A.), una nuova cantina costruita da poco sulle ceneri di una cooperativa. Quella sfida mi entusiasmò fin dai primi

momenti, visto che c’era tutto da organizzare intorno a quel contenitore in muratura, a partire dalla definizione di una strategia commerciale che prendesse spunto da un progetto credibile e perseguibile capace di indirizzare la linea produttiva rendendola riconoscibile e spendibile sul mercato. Fino a quel momento il vino prodotto era stato prevalentemente venduto sfuso e, pur essendo di buona qualità, non poteva più soddisfare i canoni qualitativi richiesti dal mercato; si trattava quindi di modificare le strategie produttive e, per fare questo, trovai una valida collaborazione in Pierluigi Lorenzetti, un enologo da inserire, a mio avviso, nell’elenco dei migliori e più promettenti tecnici della nostra regione. Ricordo che difesi quella sua candidatura anche davanti al consiglio d’amministrazione che, invece, avrebbe visto di buon grado alla guida tecnica della Monteschiavo un grande enologo di fama nazionale. A me Pierluigi era sempre piaciuto, soprattutto per quella sua disponibilità ad interpretare la produzione enologica non solo come gratificazione personale, ma come soddisfacimento delle esigenze che avevano le aziende in cui lavorava. Insieme a lui, e con tutto il giovanissimo staff che collabora con me, abbiamo incominciato a far crescere questa impresa acquisendo importanti collaborazioni e proprietà in altre regioni italiane e cercando di coniugare il nostro marchio con il territorio nel quale lavoriamo in una continua ricerca di migliorare anche ciò che fino al giorno prima ci sembrava perfetto. Dopo tanti anni di direzione commerciale, ancora oggi non so dove io possa trovare la forza di crescere, migliorarmi e andare avanti. Credo che quest’energia derivi dalla passione che metto in tutte le cose che faccio e che sia stato questo sentimento a contraddistinguere la mia vita, facendomi circondare sempre da persone appassionate alle cose tanto quanto me. Sì, credo sia proprio la passione a guidarmi e a sorreggermi ancora oggi, anche perché girare il mondo è un piacere a trent’anni,

nel vino niente e statico, tutto e in


continua evoluzione


MONTE SCHIAVO

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ma continuarlo a fare ora, che ne ho più di sessanta, incomincia ad essere una bella fatica, anche se fare ancora oggi 30000 km in 8 giorni per lavoro mi fa sentire, quando torno, pur essendo stanco, soddisfatto e gratificato dai risultati ottenuti. I miei ragazzi assicurano che sono il più giovane di tutti qua dentro, ma io so che, anagraficamente, non è vero. Credo che il segreto di questa mia longevità culturale e di quei sottili meccanismi che mi fanno sentire ancora così dinamico e propositivo sia da ricercare nel rapporto che io ho sempre avuto con la quotidianità. Non ho mai avuto voglia, infatti, di pensare troppo al passato, ma ho sempre cercato di adoperarmi per porre nel presente le basi del mio futuro; un esercizio mentale che mi ha aiutato a superare tante difficoltà e ad avere dentro di me una vena di ottimismo che non è mai venuta meno ed è forse in questa visione delle cose che si racchiudono la mia vivacità e il mio spirito giovanile. Ripeto spesso a me stesso che ogni giorno porta con sé un piccolo obiettivo da raggiungere e ogni sera il progetto dell’obiettivo da raggiungere il giorno successivo. Sono così, forse, perché per tutta la vita ho fatto il migliore lavoro del mondo, promuovendo un prodotto come il vino che non è mai statico, ma in continua evoluzione ed essendo amato da molti, ha su di sé l’attenzione di tutti. Per questo, da quando sono tornato nelle Marche, ho cercato sempre di promuovere il Verdicchio, che io considero il migliore vino bianco al mondo, affinché avesse la sua consacrazione sul mercato mondiale, consapevole che questa promozione non può essere disgiunta da quella del territorio marchigiano che ha delle enormi potenzialità. Con rammarico però constato che, fino ad oggi, noi marchigiani non siamo stati capaci di valorizzare questo vino unico e inimitabile, come del resto tutti gli altri prodotti vitivinicoli che produciamo, e allo stesso tempo non siamo riusciti neppure a rendere spendibile l’immagine di questa regione, che è sicuramente una delle più belle d’Italia. Non so se si tratti di un disinteresse generale, di incompetenza programmatica sulle


Adeodato strategie regionali, oppure di una latente inconsapevolezza rispetto alle potenzialità che abbiamo: so solo che fino a oggi è stato così. Pur essendo tutti consapevoli che in questa terra ci sono arte, storia e cultura, paesi che assomigliano a piccoli gioielli, e pur sapendo di vivere in una regione dall’alto livello qualitativo di vita e dove si vive più a lungo che in qualsiasi altra regione italiana, noi marchigiani non siamo riusciti né a rendere fruibile questo territorio, né a creare un sistema capace di promuovere ciò che ci circonda. Forse questo è il mio più grande cruccio e, anche se non potrò assistere al radicale cambiamento di prospettive di cui necessiterebbe questa regione, che amo tantissimo, sono sicuro che, fino a quando avrò forza, non demorderò da questo importante obiettivo.

Rosso Conero DOC

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti da vigneti posti nei comuni di Sirolo e Camerano, le cui viti hanno un’età media di circa 15 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto prevalentemente calcareo, sono posizionati ad un’altitudine di 100 metri s.l.m., con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 14 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane per 15-18 mesi, periodo durante il quale è travasato più volte prima dell’imbottigliamento che, senza filtrazione, avviene 24 mesi dopo la vendemmia; il vino poi rimane in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6500 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi violacei, il vino presenta un percorso olfattivo ampio, complesso, piacevole, con note di fiori rossi appassiti che si mischiano a quelle fruttate di marasca, ribes e mirtilli neri che, via via, lasciano spazio a un fondo di liquirizia e a note minerali. In bocca ha un’entratura elegante, con una fibra tannica evidente, ma piacevole, che non infastidisce e che, insieme a una buona sapidità, rende il vino abbastanza fresco, lungo e di buona persistenza. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001 - 2002 Note: il vino, che prende il nome dall’omaggio che l’azienda ha voluto dedicare a Adeodato Pieralisi fondatore del gruppo omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Pieralisi dal 1995, l’azienda agricola si estende su una superficie di 140 Ha, di cui 115 vitati e 25 occupati da oliveto. Collaborano in azienda l’agronomo Costantino Capogrossi e l’enologo Pierluigi Lorenzetti. Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Pallio di San Floriano (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Le Giuncare (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Nativo (Verdicchio 100%) I Rossi: Lacrima di Morro d’Alba DOC (Lacrima 100%) Esio IGT Marche (Cabernet Sauvignon 50%, Montepulciano 40%, Merlot 10%) Rosso Conero DOC Conti Cortesi (Montepulciano 100%)

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MORELLI CLAUDIO Claudio Morelli Ora che mi siedo un attimo accanto a te e rifletto su questi ultimi trent’anni della mia vita passati nel mondo del vino, devo dire che mi sento soddisfatto di ciò che ho fatto. Purtroppo non ho mai tempo di guardare indietro, vado sempre di corsa e sono sempre concentrato sulle mille problematiche che, quotidianamente, mi trovo a dover risolvere, fra cui la miriade di lavori che mi attendono in vigna e in cantina. Lo so che dovrei prendermi i miei spazi o trovare il tempo, almeno, di godere dei piccoli risultati che ho ottenuto, ma non ho tempo per farlo. Devi sapere che per me il lavoro va ben oltre l’intrinseco significato che possono avere la serietà, l’onestà, il sacrificio, l’impegno o la costanza, virtù e valori utili per arrivare ai risultati che uno si è prefissato. Per me il lavoro è una dimensione complessa che abbraccia tutta la sfera etica dell’esistenza, quelle virtù e quei valori che ti ho indicato, e che mi appartengono e mi aiutano a proteggermi dal mondo esterno. Il loro è un abbraccio caldo, protettivo che mi consente di dialogare con il mondo, aiutandomi a superare le insicurezze, così da poter aumentare l’autostima. Questa insicurezza, che spesso mi indurisce, mi rende focoso e astioso nei confronti della vita ed è anche il motore che mi spinge ad essere sempre più esigente con me stesso per cercare di ottenere quelle piccole soddisfazioni morali necessarie, forse anche più dei soldi, per andare avanti. Come si dice, “i soldi o si rubano o si sposano” e io non sono riuscito mai a fare nessuna delle due cose, quindi non mi resta che lavorare. Devi sapere che, fin da giovanissimo, ho respirato l’odore del vino aiutando mio padre Carlo in questa cantina, durante le vacanze estive. Del resto, non poteva essere che così, dato che la mia famiglia si manteneva con questa piccola impresa e mio padre era costretto a girare in lungo e in largo per le Marche per comprare le uve che poi venivano vinificate in questa struttura, producendo dei vini di buon livello, anche se un po’ massimali,

ed erano venduti in vetro nelle classiche confezioni da un litro o due, come usava in quegli anni. Erano gli anni ‘70 e qui intorno tutto era diverso, anche quest’azienda, che a quei tempi era fuori Fano, mentre ora, come vedi, è stata inglobata nel paese. Avendo una cantina e non essendo proprietari di vigneti, sarebbe stato forse più logico che, terminata la scuola dell’obbligo, io frequentassi l’istituto enotecnico, un corso di studi che mio padre caldeggiava molto. Non avevo voglia di trasferirmi a Conegliano Veneto: mi piaceva troppo giocare a pallone e poi qui c’era il mio mondo, le mie sicurezze e, intorno, avevo tutto ciò che mi serviva. Fu così che, egoisticamente e certo un po’ superficialmente, scelsi di diplomarmi all’Istituto Tecnico Agrario di Pesaro. Una volta conclusi gli studi, feci subito il servizio militare, al termine del quale entrai in azienda imparando da mio padre tutto quello che era possibile apprendere, arrivando negli anni a prendere le redini dell’attività, anche perché mia sorella Claudia e mio fratello Virginio non erano minimamente interessati a seguire la strada paterna. Dentro però mi sentivo un vignaiolo nella completezza del termine più che un cantiniere o un commerciante di vino. Ero convinto che per fare dei buoni prodotti enologici avrei avuto bisogno di seguire direttamente tutta la filiera produttiva e intervenire, se e quando ve ne fosse stato bisogno, in ogni singola fase operativa, dalla vigna alla bottiglia. Mio padre, del resto, è sempre stato un buon artigiano del vino e, conducendo onestamente la propria attività, non ha mai potuto permettersi di acquistare delle vigne e quelle che ci venivano offerte in affitto erano di scarso valore vitivinicolo e i vigneti o i terreni sui quali erano collocate non avevano mai i requisiti che ritenevo invece indispensabili. Devo riconoscere che la crisi economica che colpì una cantina sociale della zona, indirettamente mi favorì, dandomi la possibilità di affittare, a prezzi abbastanza vantaggiosi,

dei bei vigneti che altrimenti ben difficilmente avrei potuto permettermi. Dovetti attendere il 1994 per poter prendere in affitto i primi 4 ettari di vigneto che avessero i requisiti che io desideravo, con vigne che superavano i trent’anni, posizionate in modo splendido su terreni unici. Da quei 4 ettari di vigneto iniziali siamo passati agli attuali 23, dei quali 13 coltivati con uve a bacca bianca, principalmente Bianchello del Metauro, e 10 a bacca rossa, per lo più Sangiovese. Certo che questa politica di scegliere e prendere in affitto i vigneti un po’ qua e un po’ là mi rende tutto più complicato e più dispendioso, ma “chi non ha, di virtù si armi”, diceva il saggio e a me certamente non sono mai venute meno la tenacia, la testardaggine e la passione per cercare di coronare il desiderio di essere un buon vigneron capace di far esprimere il meglio ai vigneti che ha a sua disposizione. Per raggiungere questo obiettivo sono arrivato a mettere in secondo piano il profitto, perseverando in una politica aziendale che puntasse alla qualità e fosse capace di scalzare quell’immagine, ormai purtroppo consolidata, di un’azienda capace solo di produrre vini grossolani e anonimi. Certo ho faticato molto a cambiare la vecchia immagine della cantina, ma se tu oggi sei qui, comincio forse a pensare di essere sulla buona strada. Comprenderai quindi cosa mi abbia spinto a scegliere quei vecchi vigneti che producono poche uve di qualità e che, certamente, non mi rendono in termini economici e capirai anche il perché di questi investimenti in cantina. Ho fatto tutto con l’intento di disegnare un futuro diverso per questa impresa, ma so che non è facile e che forse non sarà sufficiente trasformarla, investirci o crederci fino in fondo. Io, del resto, preferisco sempre far parlare il vino che, se vorrai, anno dopo anno ti racconterà a che punto io sia arrivato in questo mio lungo viaggio di vignaiolo marchigiano.

il lavoro va ben oltre la serietà, l’onestà,


il sacrificio, l’impegno o la costanza


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La Vigna delle Terrazze Colli Pesaresi Sangiovese DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese, provenienti dal vigneto omonimo, posto in località Roncosambaccio nel comune di Fano, le cui viti hanno un’età di 35 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla, tufo e sabbia, è posizionato ad un’altitudine di 100 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 2500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla seconda alla terza decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 8 giorni ad una temperatura compresa tra i 24 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che prosegue, sempre a temperatura controllata, per altri 7 giorni durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in acciaio dove rimane per 10 mesi, poi viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 12000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino brillante, il vino offre al naso un percorso olfattivo variegato, con profumi di viole e rose rosse che si aprono a note fruttate di marasche e a nuances speziate di pepe e spezie dolci. In bocca è splendidamente armonioso, equilibrato, fresco, piacevole, con tannini morbidi ben armonizzati ad una buona sapidità che conferisce lunghezza e buona persistenza. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1997 - 2000 - 2001 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: l’azienda di Claudio Morelli vinifica solo uve provenienti da vigneti presi in affitto con contratti pluriennali o uve acquistate da viticoltori convenzionati, posti sul territorio dei comuni di Fano, Fratterosa e Cartoceto. La cantina di vinificazione è situata in località Sant’Andrea di Suasa a Mondavio, quella per l’imbottigliamento è a Fano. Collaborano in azienda l’agronomo Gianfranco Mazzanti e l’enologo Riccardo Cotarella.

Altri vini I Bianchi: Bianchello del Metauro DOC Borgo Torre (Bianchello 100%) Bianchello del Metauro DOC San Cesareo (Bianchello 100%) Bianchello del Metauro DOC La Vigna delle Terrazze (Bianchello 100%) Solare IGT Marche (Bianchello 35%, Malvasia 35%, Moscato 30%) I Rossi: Suffragium IGT Marche (Montepulciano 70%, Vernaccia Rossa di Pergola 30%) Magliano IGT Marche (Sangiovese 50%, Cabernet Sauvignon 30%, Merlot 20%)

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MORODER Alessandro Moroder Troverai tante persone, nel mondo del vino, che ti racconteranno storie, presagi o predestinazioni che, in qualche modo, dovrebbero giustificare la loro presenza in questo specifico settore che fino ad ieri non apparteneva loro. Io posso solo dirti che, dopo essermi diplomato in un liceo classico, stavo quasi per diventare medico, scoprendo, man mano che andavo avanti nello studio, che per me quella non era né una scelta volontaria, né una missione. Era un percorso formativo che mi era stato “confezionato”, anche se, a distanza

1979, la vita iniziò a tracciare il mio cammino o meglio, iniziò a darmi i primi sentori che quell’andare avanti per inerzia, nel segno di Ippocrate, probabilmente non era la cosa più giusta che potessi fare, anche se non nascondo che mi ci volle un po’ di tempo per percepire chiaramente i suoi segnali. Del resto avevo molto poco di cui preoccuparmi, dato che mio padre, come direttore generale della Pepsi Cola Italia, mi consentiva di condurre una vita agiata improntata su un po’ di studio, tanto sport, che praticavo anche a livello agonistico, e un bel po’

Ma la vita, ancora lei, non era d’accordo e io continuavo a rimanere sordo e cieco ai segnali che continuavano a giungermi da questa azienda di famiglia che andava lentamente sgretolandosi per effetto dell’incuria di un amministratore che non gestiva oculatamente il patrimonio affidatogli, mentre io, unico erede, invece di preoccuparmi, rimanevo a Roma tornando assai di rado nelle Marche per seguire i miei interessi. Continuò così ancora per qualche tempo, fin quando la vita o la mia “padrona”, scegli tu come chiamarla, vedendomi ancora sordo ai

di anni, non ho ancora ben capito da chi. Non ricordo se avevo condiviso con qualcuno l’idea di quel corso di laurea: so solo che lo affrontavo senza entusiasmo o coinvolgimento alcuno, lasciandomi andare a quella sorta di destino predefinito che forse avevo accettato solo per non darmi troppo il pensiero di dover scegliere. Come si sa, in ogni caso, la vita è padrona benevola: ti lascia andare libero fino a quando non ti allontani troppo dal suo controllo e quando ciò accade, ti scuote e ti riporta sulla strada che lei ha tracciato per te, facendoti comprendere che il tuo girovagare è finito e che è giunto il momento in cui devi rispondere a delle regole precise. Così, dopo la morte di mio padre Giancarlo, che avvenne nel

di divertimento. Nel frattempo quest’azienda marchigiana, che era stata seguita fino al 1955 da mio nonno Augusto, rappresentava nella mia memoria il sunto delle vacanze adolescenziali, delle calde estati passate sul Conero giocando all’aria aperta con gli amici; era quel buon ricordo di giorni sereni e ogni cosa che circondava questa casa, fossero viti, olivi o altro, non aveva certo il profumo un po’ amaro del lavoro e niente mi faceva presagire che un giorno sarei ritornato qui. Dopo quel lutto, improvviso e inaspettato, abbandonai gli studi per seguire quella che fino a quel momento era stata la mia vera passione, lo sport, facendone l’oggetto del mio lavoro.

suoi richiami, decise di incarnarsi in splendide fattezze femminili e di venirmi accanto, indirizzandomi sempre più verso quel destino al quale ancora sfuggivo. Quelle sembianze, messaggere del misterioso destino della mia vita, avevano il nome di Serenella, che era intanto divenuta mia moglie. Fu lei a spingermi a cambiare vita e a tornare qui per ricostruire ciò che il tempo e l’incuria avevano distrutto. Quasi senza accorgermene mi ritrovai a realizzare quello che era il sogno di mio padre quando fosse andato in pensione, cioè ritirarsi qui per prendersi cura di quest’azienda che non era mai riuscita, dalla morte del nonno, ad avere dei bilanci accettabili. Assumendo quell’impegno mi toccò diventare grande e mi accorsi di aver

sentirsi dentro la voglia di creare un


luogo a nostra immagine e somiglianza


MORODER

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effettuato quel salto proprio perché avevo avuto la fortuna di avere la migliore allenatrice e il miglior stimolo che uno potesse sperare di avere: Serenella. È stata lei a credere, per prima, che avremmo ottenuto questo risultato che oggi è sotto gli occhi di tutti, ed è sempre stata lei che mi ha incoraggiato e mi ha spinto a non mollare mai, anche quando avevamo ben poche risorse fisiche ed economiche a cui attingere. Quando ci trasferimmo, nel 1984, l’azienda era in uno stato indescrivibile: c’erano le case da mettere a posto, le attrezzature agricole e la cantina erano inesistenti e i 6 ettari di vigna producevano poca uva che riuscivo in parte a vendere alla cantina sociale e in parte a vinificare, così da produrre un po’ di vino da commercializzare sfuso o in damigiane. I primi anni sono stati molto duri e c’è voluto del tempo per ottenere una redditività sufficiente che ci consentisse di vivere più serenamente. Del resto producevo il vino ancora in modo artigianale, dato che avevo una passione più come puro consumatore che come addetto ai lavori ed ero privo di qualsiasi cognizione

enotecnologica; fatto questo che, alla lunga, proprio per la libertà di azione tipica di chi non conosce, mi ha permesso di partire con il piede giusto. Piano piano, abbiamo incominciato a piantare nuovi vigneti, a fare la cantina ristrutturando la parte dell’edificio dove ora c’è anche il ristorante e presto realizzeremo un agriturismo nella casa prospiciente: un progetto questo, finalizzato a far sposare il concetto dell’ospitalità a quello della convivialità familiare. Un insieme arricchito dalla naturalezza delle materie prime proposte e dal senso estetico di cui è in possesso Serenella e con la mission di far riscoprire ai nostri ospiti la qualità della vita che, secondo noi, deve sempre includere scambi culturali, amicizie e una propositiva apertura verso il prossimo. La voglia di creare questo luogo a nostra immagine e somiglianza è nata dal ricordo triste di quando ci imbattemmo in una realtà marchigiana chiusa e provinciale che all’inizio ci mise un po’ in difficoltà. Sapevo che i marchigiani sono persone splendide, laboriose e un po’ chiuse, portate più


Dorico Rosso Conero DOC Riserva

a lavorare che a fare gruppo, come sapevo che ognuno qui è indirizzato a viaggiare un po’ per conto proprio, nella vita come sul lavoro, ma non nascondo che l’impatto con questa dura realtà mi traumatizzò e ricordo che fu difficile superare sia il loro scetticismo, sia abituarsi alle atmosfere provinciali. Ogni tanto mi piace sedermi e guardare cosa abbiamo fatto e con un po’ di soddisfazione mi godo quest’azienda che è stata costruita esattamente come volevamo noi, anche se sappiamo benissimo che ci sono ancora tante cose da finire. In quei momenti, soprattutto nel silenzio della cantina, qualche volta penso a mio padre e non nascondo che mi piacerebbe potergli far vedere cosa è diventata questa azienda. Conoscendolo non so se lui avrebbe condiviso certe nostre scelte, ma sono sicuro che sarebbe molto felice di questa mia serenità e eviterebbe di rimproverarmi di non aver perseguito l’idea di diventare un medico, anche se è quello che in definitiva sto facendo, dato che non è forse vero che sto curando le mie radici?

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Montacuto, nel comune di Ancona, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 36 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argilloso-calcarei, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 18-20 giorni ad una temperatura di 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri e délestages. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica al termine della quale, dopo una breve decantazione, è posto in barriques di rovere francese di primo, secondo e terzo passaggio, a grana fine e media tostatura, in cui rimane per 24-30 mesi, periodo durante il quale è travasato più volte. Alla conclusione di questa lunga maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 30000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino presenta un percorso olfattivo pieno, complesso, elegante, con percezioni nette di fiori appassiti e in particolare di rose rosse che si aprono a note carnose di polpa di ciliegia nera matura; lo spettro olfattivo si amplia poi verso sentori di pepe bianco e spezie dolci con un fondo piacevolissimo di cacao in polvere. In bocca ha un’entratura piacevole, di bella sapidità e con tannini morbidi; lungo e decisamente persistente al retrogusto. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1988 - 1990 - 1993 - 1997 - 1998 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dai fondatori della città di Ancona (i Dori), raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Moroder dal 1837, l’azienda agricola, oggi condotta da Alessandro Moroder, si estende su una superficie di 38 Ha, di cui 26 vitati e 12 occupati da frutteti, ortaggi, oliveto, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Tarcisio Ricciotti e l’enologo Franco Bernabei.

Altri vini I Bianchi: Oro Vino da uve stramature (Moscato 60%, Malvasia 20%, Trebbiano 20%) I Rosati: Rosa di Montacuto IGT Marche (Alicante Nero 50%, Sangiovese 30%, Montepulciano 20%) I Rossi: Rosso Conero DOC (Montepulciano 100%) Ankon IGT Marche (Montepulciano 50%, Merlot 25%, Cabernet Sauvignon 25%)

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OASI DEGLI ANGELI Eleonora Rossi e Marco Casolanetti

Non so se sia stato proprio l’odore di quel mosto a farmi ritornare in questo luogo ad ogni vendemmia o il fascino che in me suscitavano i colori e le atmosfere che si vivono in questa stretta e lunga vallata dove i miei genitori hanno avuto, da sempre, un po’ di terra.

le prospettive, le priorità e le stesse finalità rispetto al futuro. Tutto assume una colorazione più sfumata, meno forte, e il bianco e il nero, con cui vedevi le cose, si trasformano in un’infinità di mezze tinte di cui incominci a capire il significato e il loro utilizzo. Così ti accorgi che quel viaggio che hai intrapreso alla ricerca del tuo equilibrio, ogni giorno diventa meno pesante, ti riconduce a quella familiarità che avevi abbandonato e sempre più lontano dal superfluo, dall’inutile

Anche ripensandoci bene, non so spiegare quali fossero le ragioni o i motivi di quel mio frequente pellegrinaggio. Mi era chiaro, come del resto a molti, che i luoghi dove si è trascorsa l’infanzia hanno un fascino e un richiamo particolare che è impossibile nascondere in fondo al cuore. Ma in quel mio desiderio di rifugiarmi sempre più spesso fra queste colline c’era dell’altro, c’era una sensazione di appartenenza a un luogo che era custode delle mie memorie, con il quale mi trovavo sempre più in armonia; una sensazione che sentivo sfuggirmi quando ero da altre parti. Sappiamo tutti che crescendo, quasi sempre, in noi avvengono inevitabili metamorfosi e sono proprio quei cambiamenti che modificano

e da quelle finte verità che respiravo su quei palcoscenici di teatro che avevo incominciato a calpestare anni addietro. Il convincimento che in questa azienda dovessi ricercare tutto questo, si consolidò proprio quando incominciai a frequentare Marco. Ricordo che ci trovavamo spesso giornate intere a parlare di questa campagna, di mio padre, dell’odore del mosto, di come fosse meraviglioso veder cresce una pianta e di quanta superficialità vi fosse invece in chi vive in città, dove molte cose si danno per scontate, non avendo un contatto diretto con la terra. In città tutto è più facile, si scende e si va dal fruttivendolo, senza sentire sulle proprie spalle il peso del lavoro che quel frutto ha richiesto.

Veniva un odore di vino in fermento che l’aria notturna arrestava nel vano della finestra... Paolo Volponi, La Strada per Roma, Einaudi Tascabili, 1992

Del resto il tempo scorre veloce in città e deve essere consumato. Era proprio il rispetto del tempo che ci faceva riflettere, mentre il modo in cui noi avremmo dovuto consumarlo riempiva le nostre lunghe chiacchierate, convincendoci sempre più che lo scommettere sulle nostre capacità di confrontarci con questa terra poteva essere un buon motivo per lasciar perdere ciò che stavamo facendo, magari provando anche a fare un buon vino. Ma come inserirsi in questa natura e in quel meccanismo che ci sembrava già perfetto senza provocare un suo squilibrio o un nostro rigetto? Disquisivamo cercando delle risposte che non c’erano. Dovevamo solo provare, cercando di mettere attenzione a quali fossero le ragioni e i motivi che dettavano i tempi di quel gioco. Del resto si trattava di trovare un equilibrio fra noi e ciò che la natura annualmente compie, fra ciò che eravamo stati e questa terra. Un compito non facile, ma che avevamo deciso di affrontare, certi che il forte sentimento che ci univa ci avrebbe aiutati a trovare un’armonia con il resto delle cose che ci circondavano. Oggi ci appassiona questo gioco che abbiamo intrapreso con la natura. È un gioco complesso che ha fortificato, ancora di più, il nostro amore e ci ha spinti a crescere come vignaioli e come persone. Un gioco che, a dispetto di quello che credono in molti, richiede impegno e una grande dedizione, oltre ad un continuo confronto fra ciò che vorresti e ciò che invece puoi ottenere rispettando la natura. Con il tempo ci siamo accorti che questo lavoro è composto da un’infinità di variabili, di cui anche noi facciamo parte, che lo rendono unico, incerto e imprevedibile e che deve essere giocato con molta attenzione, quasi in punta di piedi, con quella circospezione richiesta quando si affrontano le prove difficili, nella consapevolezza di entrare a far parte di una squadra di campioni e di non essere ancora né grandi giocatori, né gli unici a giocare quella partita. È un gioco didattico che ti insegna a rispettare

i luoghi dove si e trascorsa l’infanzia


hanno un fascino e un richiamo particolare


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i ruoli, a lavorare in gruppo e a capire come le stagioni, la terra, il sole, il vento e la pioggia, gli altri giocatori appunto, interagiscano con te in quel terroir su cui stai operando. Perché in definitiva è di divertimento che stiamo parlando quando si tratta di fare vino: un divertimento serio, ma sempre divertimento. È così che noi abbiamo deciso di viverlo, con il giusto coinvolgimento, ma anche con un equilibrato distacco, al fine di realizzare una proficua collaborazione fra le nostre viti e le nostre capacità. Ogni annata è una storia a sé, ognuna dà vini completamente diversi fra loro e ognuna contribuisce a fomentare la nostra passione per questo mestiere di vigneron e forse è per

terra, arrivando solo dopo a capire che ci vogliono anni per far comprendere alle viti quale sia il loro ruolo in questo comune progetto.

questo che ci troviamo a trascorrere ore e ore in vigna e giornate intere in cantina in un arricchimento continuo del nostro apprendistato che ci mette in simbiosi con la natura. È vero che certe volte l’attesa per una nuova vendemmia o per la maturazione del vino può sembrare lunga e snervante, ma bisogna aspettare e avere pazienza che le cose compiano il loro ciclo naturale. Purtroppo succede che per soddisfare il proprio ego, ottenendo veloci risultati, certe volte si commettono degli errori nei confronti della

per il quale nella vita avevano contato soltanto il futuro, i progetti e le passioni. Come per mio nonno, anche per me lo scorrere del tempo è un oltraggio alla mia grande voglia di vivere, ma con l’aiuto di Marco ora inizio a prenderci confidenza, convinta come sono che l’amore mi farà superare anche questo problema e mi consentirà di non pensare troppo al tempo e ai suoi limitati confini. Di questo non ho nessun dubbio, poiché con lui al mio fianco sono sicura che i miei obiettivi prima o poi si realizzeranno.

Talvolta, quando penso al tempo, mi ritorna in mente mio nonno che, morto l’anno scorso a 90 anni, alla fine della sua esistenza mi disse quasi stupendosi: “il tempo mi ha fregato piano piano”. Si era ritrovato vecchio quasi senza accorgersene, perché aveva vissuto sempre pensando al futuro fino a quando non si era accorto che il suo tempo era finito. Il tempo aveva piegato anche quell’uomo forte che se ne era tornato a piedi da Lubiana alla conclusione della seconda guerra mondiale e


Kurni IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Sant’Egidio nel comune di Cupra Marittima, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 90 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni sabbioso-limosi con presenza di scheletro, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 270 metri s.l.m., con esposizione a sud e sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato e alberello Densità di impianto: dai 7000 ai 15000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla metà di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae 15 giorni per un 60% in barriques di rovere francese nuove e per il restante 40% in tini di acciaio inox, ad una temperatura non controllata; durante questo periodo vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri; successivamente si procede alla macerazione sulle bucce, che dura fino a 40 giorni. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques nuove dove rimane per 12 mesi prima di essere trasferito in una seconda serie di barriques nuove in cui matura per altri 10 mesi. Al termine di questo lungo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino viene messo in bottiglia senza nessuna filtrazione e chiarifica per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5800 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore rosso rubino impenetrabile con un’unghia purpurea, mentre all’esame olfattivo offre un percorso sensoriale che spazia dalla confettura di amarena e frutti neri maturi come ribes e more per proseguire con note di petali di rosa appassiti e spezie dolci come cannella e cardamomo, oltre a nuances balsamiche e minerali, fra cui si ricordano la china, il tabacco scuro e la caramella al rabarbaro per finire a piacevoli percezioni di cioccolato in polvere e di liquirizia dolce. In bocca è potente, avvolgente e offre una gamma ampia di piacevoli sensazioni gustative che si armonizzano con il palato in modo caldo e con una fibra tannica morbida e di grande equilibrio; grande lunghezza e persistenza lasciano un finale di liquirizia. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1998 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal soprannome attribuito alla famiglia Ciarrocchi, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Eleonora Rossi dal 1990 e della sua famiglia da più generazioni, l’azienda agricola si estende su una superficie di 20 Ha, di cui 10 vitati e i restanti occupati da oliveto, boschi, ortaggi e seminativi. Svolge la funzione di enologo Marco Casolanetti.

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PODERI CAPECCI SAN SAVINO Domenico Capecci con il figlio Simone

Se la generazione di mio padre avesse immaginato, o soltanto percepito, dove stesse andando il mercato del vino all’inizio degli anni ’80, non saremmo ora qui a disquisire su quali

interno questa società contadina, imprigionando anche coloro che avrebbero avuto le possibilità di emergere e di distinguersi. Qui nessuno si faceva troppe domande: si lavorava tenacemente, magari per tutta la vita, sfruttando al massimo ogni metro quadrato di terreno affinché desse il miglior risultato possibile senza andare troppo per il sottile. Padri che ripetevano i gesti che avevano imparato dai loro padri, tutti uniti e divisi fra loro, ma cocciutamente decisi a perseguire quella tradizione che non aveva consentito di

potrebbero essere gli scenari futuri del sistema vitivinicolo marchigiano. Sicuramente questo territorio avrebbe avuto, già da qualche tempo, l’opportunità di mettersi in mostra e questa nostra viticoltura sarebbe stata già consacrata per le sue grandi potenzialità. Oggi parleremmo del consolidamento sul mercato enologico dell’immagine delle nostre DOC o della qualità dei vini che qui si producono. Invece siamo qui ancora a ricercare le motivazioni che, solo ora, li hanno portati a farsi apprezzare sullo scenario nazionale. Fra le tante cause che hanno determinato questo ritardo c’è indubbiamente la mezzadria, che è stata, forse, la peggiore di tutte. Una gabbia culturale che ha rinchiuso al suo

modificare lo stato delle cose. E non fu neanche risolutiva la fine della mezzadria che, in certi casi, con quel diventare finalmente “padroni”, spesso faceva acuire tutte le contraddizioni di questa organizzazione sociale con le sue deficienze e le tare culturali che limitavano gli orizzonti e le scelte imprenditoriali, lasciando che il tempo scorresse via e le cose rimanessero immutabili. In quei remoti anni ‘70 era impensabile qualsiasi discorso innovativo sulla ricerca, sulle tecniche di allevamento degli impianti o su quelle di vinificazione, né si conosceva il significato della parola marketing o quali dovessero essere le strategie di protezione, tutela e valorizzazione di un territorio.

“Siete mezzadri o proprietari? Domandò Guido mentre stava per lasciarli. (…) Io sono in affitto. La fittanza è vecchia di 40 anni ed è della Cappella Musicale. Paolo Volponi, La Strada per Roma, Einaudi Tascabili, 1992

Per decenni ognuno ha continuato a vendere per conto proprio le uve e il vino sfuso che, pur pagato molte volte in modo equo, metteva ogni anno i viticoltori alla mercé di quei quattro mediatori che, nel frattempo, si arricchivano, costringendoli anche a servili sorrisi. Nessuno che posponesse a quell’immediato e misero guadagno una visione più ampia del proprio divenire; tutti investivano volentieri su un trattore, ma mai su un futuro migliore; nessuno che con lungimiranza seguisse la parabola dei talenti del Vangelo secondo Matteo che i marchigiani, assidui frequentatori di chiese e di chiostri, avrebbero dovuto conoscere bene. Quella cecità impediva di spaziare e comprendere le grandi potenzialità che avevano queste vigne e questo territorio. Andò avanti così fino agli inizi degli anni ’90, quando iniziò ad imporsi l’economia della conoscenza e le Marche vitivinicole incominciarono a domandarsi quale fosse il loro esatto posizionamento rispetto ad altre realtà nazionali. La scoperta di essere molto indietro in quella ipotetica classifica fece sorgere a tutti una serie di domande, ma si è dovuto attendere ancora altri dieci anni perché qui si iniziasse a parlare di un ipotetico “sistema” vitivinicolo marchigiano. Intanto molti treni sono passati, si sono fermati e sono ripartiti senza che in tanti riuscissero a salirci sopra. Ti ho raccontato questo per farti comprendere meglio in quale ambiente mi sono mosso e quanto sia stato complesso trasferire e arricchire le mie conoscenze enologiche. Devo ammettere però che mio padre è stato uno che, pur non comprendendo nella sua totalità cosa stesse accadendo, ha sempre fiutato il cambiamento, lasciandomi intraprendere una nuova strada per questa azienda, quella dell’imbottigliamento. Quando entrai definitivamente in azienda, nel 1990, anche noi, come tutti qui intorno, vendevamo il vino in damigiana e in cisterna, pur sapendo che con queste vigne si sarebbe potuto fare un grande prodotto e non sarebbe stato difficile commercializzarlo in modo più proficuo e redditizio. Quante cose ci sarebbero state da fare per

qui nessuno faceva domande,


si lavorava e basta


PODERI CAPECCI SAN SAVINO

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raggiungere questo obiettivo, ma mi mossi con i tempi e le possibilità che avevo a disposizione. Del resto a quei tempi eravamo privi di una linea d’imbottigliamento e solo successivamente ne fu messa a disposizione una mobile dal consorzio Vinea; in questa difficile situazione, come non comprendere la diffidenza di mio padre che avrebbe dovuto fidarsi di un ventiquattrenne inesperto quale ero io all’epoca? Col senno di poi mi rendo conto però che anch’io non sono esente da responsabilità e solo oggi, dopo sedici anni, capisco che avrei potuto calcare di più la mano e provare a fare di più di ciò che ho fatto. Forse per troppo tempo ho avuto una limitata visione di quali fossero i repentini cambiamenti del mercato del vino e quali le conseguenze di quella sua globalizzazione o le cause del generale innalzamento della qualità dell’offerta a fronte di una crescente diminuzione della domanda. Mio padre però mi ripeteva sempre di non avere fretta e di avere invece la determinazione di voler raggiungere un grande obiettivo e prodigarmi per raggiungerlo. Così è stato e, anche se molto lentamente, tutto è andato bene e alla fine ho avuto ragione, grazie anche alla fortuna di incontrare, lungo il mio cammino, delle persone che si sono in seguito rivelate fondamentali per la crescita dell’azienda. In tutti questi anni ho puntato sulla valorizzazione dei vitigni autoctoni, che rappresentano la vera identità del comparto vitivinicolo del Piceno, attraversando momenti bui durante i quali non è stato facile mantenere intatti l’entusiasmo e la speranza, ma che mi hanno consentito di diventare un buon conoscitore delle luci e delle ombre di questo mondo del vino che decisi, tanti anni fa, di frequentare. Sono consapevole che i chiaroscuri fanno parte di questo mestiere, così come sono consapevole delle chances che possiede questo nostro territorio e di quali siano gli elementi che contribuiscono a innalzare il suo fascino: tutti fattori che non potranno mai più essere disgiunti, ma che dovranno intrecciarsi al vino che qui produciamo. Forse l’essermi formato una precisa consapevolezza di questo mestiere, degli strumenti attraverso cui si realizza e del contesto in cui lo pratico, è una delle mie più grandi vittorie che un giorno vorrei avere la possibilità di raccontare a un prossimo viaggiatore che appaia, come te, all’improvviso sulla porta della mia cantina.


Quinta Regio IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Santa Maria in Carro e Colle Mura nel comune di Monteprandone, le cui viti hanno un’età media di circa 30 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto tendenti all’argilloso, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con esposizione a est-sud. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot e cordone speronato Densità di impianto: 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati dei rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura dove effettua la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12-15 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati 2 travasi; in seguito viene posto in botti di rovere da 15 Hl dove rimane per altri 15-18 mesi. Al termine di questo lungo periodo di maturazione il vino è assemblato e, dopo un periodo di decantazione, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con sentori complessi, eleganti, ben armonizzati fra di loro che variano dalla confettura di frutti rossi alla rosa canina essiccata, dalle note di chiodi di garofano a quelle di pepe e paprica piccante fino ad arrivare a percezioni mentolate che si aprono a sentori di caffè e vaniglia. In bocca risulta elegante, con una fibra tannica austera e setosa; molto equilibrato, il vino è in possesso di una grande sapidità e risulta lungo e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001 Note: il vino, il cui nome è un omaggio al Piceno come quinta regione dell’Impero Romano, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà di Domenico Capecci dal 1974, l’azienda agricola si estende su una superficie di 32 Ha, di cui 27 vitati e 5 occupati da oliveto, boschi e seminativi. Svolge la funzione di enologo Simone Capecci.

Altri vini I Bianchi: Offida Pecorino DOC Ciprea (Pecorino 100%) Falerio dei Colli Ascolani DOC Collemura (Trebbiano 40%, Passerina 30%, Pecorino 20%, Verdicchio 10%) I Rossi: Ver Sacrum IGT Marche (Montepulciano 100%) Fedus IGT Marche (Sangiovese 100%) Rosso Piceno DOC Collemura (Sangiovese 60%, Montepulciano 40%) Rosso Piceno DOC Superiore Picus (Montepulciano 60%, Sangiovese 40%)

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POLENTA ELIO Elio Polenta con il padre Giancarlo Ci sono cose che devono accadere perché è stato scritto che esse accadano. Certo non avrei mai immaginato di vestire un giorno i panni del vignaiolo, dato che, come impresario edile, nella mia vita mi ero ritrovato sempre immerso in mezzo ai cantieri e ai contratti di compravendita, a impalcature e al cemento, ai mutui e a clienti sempre più esigenti. Se una decina di anni fa mi avessero detto che sarei arrivato a questo avrei dato del matto a chi si fosse azzardato a proferire tale idiozia. Ma come si vede può succedere anche questo

di scelta, dato che l’azienda di mio padre mi era caduta sulle spalle alla sua morte, quando avevo solo 21 anni. All’improvviso mi ritrovai un cantiere da portare avanti, con decine di operai da seguire e con tutti quei problemi, annessi e connessi, a cui io dovevo dare delle risposte, fossero esse riferite ai contratti da rispettare piuttosto che alla gestione delle risorse economiche da dover amministrare, ai rapporti con le banche fino alle mille insidie di un’attività che mi era, perlopiù, sconosciuta. Fortunatamente, con mio fratello trovammo

consente, tutt’oggi, di continuare in questa professione avendo dalla mia anche la stima del mercato immobiliare, ma, come dicevo sopra, non avrei mai pensato di ritrovarmi, alla mia età, a investire i miei guadagni su questa terra e ritrovarmi nei panni di un contadino. Questo agriturismo mi sembrava fosse un buon equilibrio fra ciò che desiderava mio figlio Elio e il mio desiderio di avere un luogo dove rifugiarmi e distaccarmi dalla quotidiana frenesia dei cantieri e dell’ufficio, magari godendo di una tavola imbandita e di un buon

nella vita, soprattutto se uno si trova nella necessità di dare un futuro a un figlio che non si sente predisposto per quel mondo complesso e difficile degli appalti che gli prospettavo io, ma preferisce invece che la sua vita scorra su binari un po’ più ordinari, più tranquilli e meno apprensivi rispetto a quelli sui quali avrebbe dovuto correre se mi avesse seguito. Come dargli torto, del resto? Io sapevo bene che la vita di un imprenditore edile non è facile e certamente non è quella bella favola che uno crede, come non è facile districarsi in quella giungla in cui il settore si è trasformato negli ultimi anni. Io del resto non avevo avuto altre possibilità

la strada per superare quei brutti momenti iniziali. Fu così che cominciai e, rimboccandomi le maniche, come si suol dire, in questi lunghi anni di militanza imprenditoriale ho aperto, qui ad Ancona, decine e decine di cantieri e costruito centinaia di appartamenti. Oggi che avrei potuto starmene tranquillo e affrontare la mia vecchiaia con più serenità, mi ritrovo invece a fare progetti per una cantina nuova e nuovi vigneti. Cosa mi mancava? Del resto, operando coscienziosamente e cercando di rispettare sempre l’ambiente e i miei clienti, mi sono realizzato economicamente e mi sono costruito un’ottima reputazione come costruttore edile; ciò mi

bicchiere di vino. Mi piaceva quel Rosso Conero che il vecchio contadino produceva in quella decina di filari che aveva piantato sulla collina davanti alla casa. Quella terra bianca, friabile e argillosa, abbinata alla vicinanza del mare, che dista poche centinaia di metri, conferiva a quel vino un gusto tutto particolare. A me piaceva, ma le mie conoscenze gustative si limitavano ad annuire o a scuotere il capo a seconda che un vino fosse più o meno di mio gradimento e il mio giudizio era circoscritto a due parametri: buono o cattivo. Quel vino comunque era buono e di questo ne erano convinti in molti e forse fu per questo che in quelle chiacchierate fra amici incominciò

e una terra bianca, friabile


e argillosa, che mi entusiasma


POLENTA ELIO a farsi strada l’ipotesi che su questa terra si potesse fare un vino interessante da poter commercializzare. Ecco quindi, visto che è scritto che tutto quel che deve accadere accade, che in una di quelle serate incontrai Giancarlo Soverchia, che sarebbe diventato poi il mio enologo; egli degustando quel rosso, sentì venirgli in testa nuove e interessanti idee che stimolarono la sua fantasia e che gli aprirono le porte di nuovi scenari enologici per questa zona; idee che ricordo si ingrandivano sempre di più mano a mano che se ne parlava, risvegliando in me alcune passioni, speranze e desideri che ormai alla mia età avevo pensato di riporre nel profondo del mio cuore. Le chiacchierate si protraevano sempre più e le idee diventavano sogni e i sogni ipotesi da sviluppare e poi progetti da realizzare. È per questo che passo i miei sabati, le mie domeniche e ogni momento libero a piantare e legare le viti, a svinare o a imbottigliare il mio vino. Appena posso, fuggo qui anche durante la settimana, ritrovandomi a seguire con apprensione ed emozione l’evoluzione vegetativa di ogni pianta, forse con la stessa attenzione che metto nel seguire la crescita dei miei nipoti: Lorenzo di 8 anni e la piccola

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Alessia che ha appena compiuto 1 anno. Qui mi sento giovane, attivo e, alla mia età, mi ritrovo ancora a correre su e giù per i pendii dove si trova la vigna nuova, terreni che sono talmente ripidi che, per legarla, mi devo sedere per terra e proseguire, in discesa, con cautela. Qui non ci sono calcoli matematici da rispettare e qui tutto è, paradossalmente, più incerto e più imprevedibile del riuscire a costruire un palazzo. Mi diverto facendo il contadino e sono sereno, anche se mi preoccupa un po’ non poter riuscire a finire quello che ho iniziato in questi ultimi anni. Sono nuvole passeggere che attraversano la mente di chi ha superato già da un pezzo i sessant’anni. È forse questo il solo cruccio che ho, poiché, avendo tante cose da terminare, mi dispiacerebbe lasciare dei problemi ai miei figli. Come dicevo sono nuvole passeggere e come vengono vanno via e mi concentro di nuovo sul lavoro e su quel programma di investimento economico che mi vedrà impegnato fino a 70 anni, quando riuscirò a far quadrare il cerchio della mia vita chiudendo in bellezza e magari brindando con un grande vino che sarò riuscito a produrre qui.


Poy IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Portonuovo, frazione Poggio, nel comune di Ancona, le cui viti hanno un’età media di circa 80 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto argilloso calcareo, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 90 e i 150 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 14 giorni in recipienti di acciaio inox ad una temperatura compresa tra i 27 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati alcuni rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane per 15-18 mesi, periodo durante il quale è travasato più volte prima dell’imbottigliamento che, senza filtrazione, avviene nel mese di settembre, circa 2 anni dopo la vendemmia; l’affinamento in bottiglia prima della commercializzazione è di altri 10 mesi. Quantità prodotta: 1200 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso e profondo, quasi impenetrabile, il vino presenta un percorso olfattivo con profumi di frutti rossi quasi appassiti che si aprono a percezioni di confettura di frutti neri del sottobosco che via via lasciano spazio a note di bastoncini di liquirizia, polvere di caffè e spezie orientali; il finale ricorda note balsamiche e di macchia mediterranea. In bocca ha un’entratura salina, fresca, con una fibra tannica di forte personalità che affascina e scalda configurando grande persistenza e lunghezza. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2003 Note: il vino, che prende il nome dall’antico toponimo della frazione Poggio, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà di Elio Polenta dal 2000, l’azienda agricola si estende su una superficie di 10 Ha, di cui 2 vitati e gli altri occupati da prati, boschi, seminativi e dall’agriturismo a conduzione familiare. Collabora in azienda l’enologo Giancarlo Soverchia.

Altri vini I Rossi: Accipicchia IGT Marche (Montepulciano 100%)

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QUACQUARINI Mauro, Monica e Luca Quacquarini Sareste in grado di immaginare cosa erano le Marche trent’anni fa e quale poteva essere, a quei tempi, la vita in una provincia come Macerata o quella in un paesino come Serrapetrona? Se riuscite a pensare tutto questo, sicuramente avete tanta fantasia, ma qualsiasi cosa possiate aver pensato è lontana e molto diversa da quella che abbiamo vissuto noi! Con il senno di poi e con la serenità e la tranquillità di oggi, possiamo assicurare che le cose non sono state semplici, ma ciò che

o nulla, avrebbe spinto molti altri a lasciar andare tutto e farsi incantare dal richiamo delle sirene delle fabbriche che nel frattempo avevano incominciato a ululare a fondo valle. Ma non fu così e, passo dopo passo, con l’impegno, la volontà, l’arguzia e l’intuito di chi sa guardare oltre, lui cominciò a mettere un mattone sopra l’altro per cambiare la situazione. Del resto ne aveva accumulata di esperienza in gioventù prodigandosi in mille lavori e sperimentandosi nella gestione del piccolo spaccio del Consorzio Agrario del paese e

coinvolto la famiglia, si trasformarono in splendidi vigneti sui quali nostro padre innestava solo ed esclusivamente Vernaccia Nera di Serrapetrona. Ci volle tempo perché quell’impegno pionieristico su questo vitigno desse i suoi frutti, dato che, non avendo nella zona un’azienda di riferimento, tutto ciò che facevamo si riferiva ad un apprendistato casuale e autodidatta che ha condotto, prima Alberto e poi noi, ad una continua sperimentazione, pagata anche a caro prezzo.

maggiormente ci ha aiutato a uscire da quelle situazioni, consentendoci di crescere e diventare ciò che siamo, non sono stati solo i sacrifici o il grande impegno che abbiamo messo nel fare le cose, ma, soprattutto, la forza delle idee che ci ha trasmesso nostro padre Alberto. Quando decise di staccarsi dalla famiglia di suo padre e proseguire per proprio conto il cammino di agricoltore, noi eravamo degli adolescenti e solo molto più tardi comprendemmo quali fossero state le difficoltà che aveva incontrato nel recidere quel cordone ombelicale e quante questioni e problemi fossero sorti intorno a quelle quattro cose che dovevano essere spartite fra zii e fratelli. Il dover ripartire da zero, avendo in mano poco

in quella di un distributore di benzina, oltre a quella di un mulino, dove erano prodotte granaglie e farine, utilizzate nell’allevamento di polli, pensando, nel frattempo, a vendere uova e vino. Quell’effervescenza imprenditoriale, coadiuvata dal sacrificio e dall’impegno giornaliero di mamma Francesca, contribuì molto a far sì che le cose cambiassero più rapidamente di quanto possiate immaginare e quelle scarse prospettive iniziali iniziarono a trasformarsi presto in progetti concreti sui quali scommettere per il futuro. Ben presto, quei terreni di cui era riuscito a venire in possesso, dopo quella sofferta “spartizione dei pani e dei pesci” che aveva

Tutto, sbagliato o giusto che fosse, lo abbiamo imparato a nostre spese, provando quali fossero le migliori soluzioni per adattare quelle nuove tecniche di allevamento e di vinificazione di cui si sentiva parlare al sistema pedoclimatico di questo nostro territorio, arrivando solo ora a capire quale sia il rapporto che lega questo vitigno a questo terroir. Inoltre non c’è da sottovalutare il fatto che, in quegli anni, tutti i vitigni autoctoni sembrava non avessero più mercato e molti imprenditori li estirpavano per impiantare quelli che chiamavano “internazionali”, come Merlot e Cabernet Sauvignon, che riuscivano a strappare migliori quotazioni. La Vernaccia presentava molte difficoltà di

e la forza delle idee


che movimenta la vita


QUACQUARINI coltivazione e di vinificazione e sembrava che, tranne noi, tutti la considerassero un vitigno che alla fine sarebbe scomparso definitivamente. A quelle difficoltĂ commerciali mio padre rispose con la sua genialitĂ . Ricordo ancora quando caricava il camioncino di cartoni di bottiglie e il mattino presto, quando

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era ancora buio, partiva per tentare di vendere, porta a porta, quel suo prezioso carico. Cento bottiglie a quel cliente, duecento a quell’industriale, trecento a quel commerciante e quando, a sera tardi, tornava a casa, il cassone era vuoto, ma le tasche erano piene e i soldi incassati servivano per fare un altro passo in

avanti e consolidare i progetti che avevamo in programma di realizzare. Mentre mio fratello Luca e mia sorella Monica se ne stavano in azienda, io spesso seguivo mio padre in quelle sue escursioni commerciali rimanendo affascinato da quel suo modo di interloquire che era arricchito, di quando in quando, da


Vernaccia di Serrapetrona DOCG Dolce un’accurata descrizione delle caratteristiche organolettiche di quella spumeggiante Vernaccia o delle radicate convinzioni circa la tipicità del territorio dove quel vino era stato prodotto. Quelle sue parole mi servono anche oggi che seguo il settore commerciale dell’azienda e vado in giro per il mondo a promuovere il mio vino e lo splendido territorio di Serrapetrona. In ogni caso è doveroso fargli un plauso, perché ha ragionato sempre con la sua testa, anche quando tutti lasciavano la terra e lui rimaneva qui, o quando gli altri abbandonavano la Vernaccia e lui ne piantava dieci ettari alla volta, oppure quando tutti rincorrevano le mode del mercato e lui restava fedele alla sua filosofia dei piccoli passi o ancora quando tutti alzavano i prezzi e lui li manteneva inalterati. Ci ha sempre ripetuto di non avere fretta e che il mercato, alla fine, lo avrebbe ripagato di quella sua costante serietà che era fuori e dentro a ogni bottiglia di vino e con il tempo sarebbero arrivate le gratificazioni e il rispetto della gente. Queste sue convinzioni lo hanno portato ad affermare, già molti anni addietro, che presto sarebbe arrivato il momento in cui, sulle etichette delle bottiglie, sarebbe stato necessario stampare la foto del vignaiolo produttore, poiché ci sarebbe stata sempre molta più gente che avrebbe voluto vedere il volto di chi produceva quel vino e decidere se fidarsi o no di quanto descritto. Questo non lo abbiamo ancora messo in pratica, anche se ci stiamo pensando, ma il suo concetto di conoscere tutti i clienti lo abbiamo fatto nostro, memori di quelle sue vendite di tanti anni fa. Oggi i tempi non sono più gli stessi e sarebbe anacronistico quel tipo di commercializzazione, anche se crediamo che, come nella storia, anche in questo settore i cicli si ripetano e quindi sia sempre necessario non dimenticare quella sua esperienza. Tenere duro è servito e i risultati, come previsto, sono arrivati: la DOCG, la presenza di altri produttori nella zona e l’interessamento sempre crescente del mercato e dei media nei confronti di questo vino fanno sperare che le cose migliorino ulteriormente e, intanto, tutti e tre non disdegniamo minimamente di ascoltare ancora i consigli di papà Alberto.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Vernaccia Nera provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Cese nel comune di Serrapetrona, le cui viti hanno un’età compresa tra i 4 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di breccia, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 450 e i 510 metri s.l.m., con esposizione a ovest/sud-ovest. Uve impiegate: Vernaccia Nera 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 2200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dal mese di ottobre, si procede all’appassimento del 40% delle uve selezionate, mentre il restante 60% viene avviato verso una soffice diraspapigiatura e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 12-15 giorni ad una temperatura compresa tra i 20 e i 24°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, dopo circa 3 mesi si procede alla pigiatura delle uve in appassimento e la massa è inserita nel vino stoccato al fine di riavviare una nuova fermentazione alcolica che dura 22 giorni alla temperatura di 12°C; al termine si procede ad una pigiatura e ad una decantazione naturale per circa 20 giorni. Quindi il vino rimane in acciaio per oltre 5 mesi per poi essere inserito nell’autoclave per la terza fermentazione (per la presa di spuma) dove rimane 180 giorni; prima dell’imbottigliamento segue una refrigerazione a una temperatura di -4°C, per favorire la precipitazione tartarica; dopo la filtrazione e la pastorizzazione, il vino subisce un ulteriore affinamento di altri 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 110000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con venature violacee e una spuma densa e cremosa che svanisce lentamente; i profumi percepiti al naso sono fruttati di prugne e susine, speziati di pepe macinato a cui si affiancano accenni floreali di viola e note silvestri. In bocca è piacevole, speziato, equilibrato, pulito, fresco, con note fruttate che ritornano sul finale. Prima annata: 1958 Le migliori annate: 1988 - 1989 - 2004 - 2005 Note: il vino, che prende il nome dal vitigno omonimo, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 4 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Quacquarini dal 1958, l’azienda agricola si estende su una superficie di 84 Ha, di cui 24 vitati e 60 occupati da oliveto, prati, boschi e seminativi. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Luca Quacquarini.

Altri vini I Rossi: Vernaccia di Serrapetrona DOCG Secco (Vernaccia Nera 100%) Petronio IGT Marche (Vernaccia Nera passita 100%) Colli della Serra IGT Marche (Vernaccia Nera 25%, Sangiovese 25%, Merlot 25%, Cabernet Sauvignon 25%)

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RIO MAGGIO Tiziana e Simone Santucci Gli uomini potevano chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non potevano sottrarsi al profumo. Poiché il profumo è fratello del respiro. Con esso penetrava gli uomini, a esso non potevano resistere, se volevano vivere. E il profumo scendeva in loro, direttamente al cuore e distingueva categoricamente la simpatia dal disprezzo, il disgusto dal piacere, l’amore dall’odio. Colui che dominava gli odori, dominava il cuore degli uomini David Suskind, Profumo, Mondadori

Erano altri tempi quelli in cui lavoravo in una profumeria e, dalla mattina alla sera, vivevo immersa in una nebbia odorosa fatta di essenze dai nomi esotici e di sentori di spezie e sandalo che richiamavano alla mente lontani e incantati paesi orientali. Ogni mattina sempre uguale. Truccata, sempre a puntino, trascorrevo le mie giornate tra etichette dorate, opalescenti, traslucide, ondeggiando come una falena intorno alla luce. Poi un viaggio nell’isola di Bali e la scoperta dell’amore mi cambiò la vita. Ero partita da single e, ritornando a casa, insieme a Simone, che divenne presto mio marito, compresi che le cose non sarebbero state più le stesse.

Poco dopo, infatti, alla morte di suo papà, che avvenne nel 1993, ci trovammo a decidere cosa fare di quella piccola azienda che per tanti anni era stata la passione di quel vecchio, dove aveva piantato diversi filari di viti, intercalati da alberi da frutta e piante di ulivo che facevano corona a campi seminati a grano, granoturco o barbabietole. Ricordo Simone che più guardava questa campagna, pensando a cosa farne, e più si convinceva che qui si sarebbero potuti produrre vini di grande qualità. E così è stato. Io, dando retta al mio cuore e all’istinto, senza tentennamenti, come del resto avevo fatto sposando subito quell’uomo con il solito entusiasmo che mi contraddistingue, condivisi quel suo progetto di vita. Quel sogno in comune mi affascinava, anche se ero conscia che avrebbe richiesto un mio coinvolgimento totale. Per noi non aveva importanza se qui a Montegranaro, già da tempo, in molti avevano abbandonato la campagna per impiegarsi nel settore calzaturiero o se ancora, tutto intorno, nessuno aveva mai provato a fare seriamente dei vigneti specializzati così da produrre grandi vini. Quella sfida ci entusiasmava e, dando retta solo al nostro spirito d’avventura e alla forza che ci trasmettevamo l’un con l’altro, ci mettemmo a fare i vignaioli. Quando mi siedo sulla veranda della cantina e guardo queste colline coltivate a grano e girasoli, con qualche albero da frutto messo qua e là, mi rendo conto del grande contrasto cromatico che provoca in questo paesaggio il verde dei vigneti e penso che io e Simone abbiamo avuto tanto coraggio a intraprendere questa strada. Certe volte ho la sensazione di vivere una favola, dove tutto si profuma magicamente di odori diversi che nascono dalla speciale unione che le mie viti creano con la terra e il cielo, con il grano e i girasoli che le circondano e con quel loro prefissato e inarrestabile ciclo vegetativo. Il profumo che ne deriva è una fragranza tenue e leggera, quasi impercettibile, che mi sforzo di riscoprire anche nel mio vino che sorseggio in

quelle brevi pause riflessive. Quando quelle essenze fuoriescono dal bicchiere, ho la sensazione che qualcosa di miracoloso sia accaduto, che qualcosa di infinitamente grande abbia coniugato il nostro impegno con queste viti e che si è concretizzato spontaneamente, senza troppi clamori, senza risonanze, forse solo per appagare il mio sciocco stupore. I jeans e le magliette di cotone che indosso adesso che frequento queste vigne, mi fanno sembrare così lontani quegli anni in cui mi

rinchiudevo nella profumeria; anche se non è minimamente diminuito il mio desiderio di odorare ciò che mi circonda. Il profumo del vino, quello della terra e della cantina ricolma di mosto o il profumo della terra bagnata e degli abiti intrisi di pioggia per un temporale improvviso caduto durante la primavera evocano un mondo misterioso che in qualche modo mi riporta alla mente le affascinanti etichette di vecchia memoria. Mi piace annusare tutte le evoluzioni che il nostro vino compie lungo il suo cammino e attraverso quell’evolversi ne percepisco il carattere, la natura, l’anima e la longevità. Quell’essenza odorosa determina i ritmi del nostro tempo e accompagna i vari momenti

mi piace annusare l’evoluzione


del mio vino e percepirne il suo divenire


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Granarijs Rosso Piceno DOC della nostra quotidianità; quelli di quiete e di relax trascorsi a chiacchierare con Simone dei nostri progetti futuri, oppure quelli che accompagnano le serate conviviali passate con qualche amico, magari davanti ad una fiorentina cotta sulla brace. Sono profumi che hanno arricchito la mia vita e che le hanno dato significato e spessore e non ha importanza se per ottenerli sudo o fatico in vigna o mi spacco la schiena quanto o più di un uomo: l’importante è riuscire a conservarli il più a lungo possibile in una bottiglia, nella speranza che assomiglino sempre più al terroir che io e Simone abbiamo costruito intorno per loro.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano e Sangiovese provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Vallone nel comune di Montegranaro, le cui viti hanno un’età di circa 25 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei di medio impasto con presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 220 e i 240 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Montepulciano 70%, Sangiovese 30% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 2000 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 5000 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dal 15 ottobre per il Sangiovese e continua fino ai primi di novembre per il Montepulciano, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e i mosti ottenuti si avviano alla fermentazione alcolica che si protrae per 12 giorni in recipienti di acciaio inox ad una temperatura compresa tra i 22 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che, a seconda delle annate, si prolunga, a temperatura ambiente, anche per altri 15 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino è posto in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura per metà di primo passaggio e per metà di secondo passaggio; qui effettua la fermentazione malolattica e rimane per 12-14 mesi durante i quali vengono effettuati 2 travasi e periodici bâtonnages. Alla fine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 8 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino brillante, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di frutti di bosco e cassis, a cui si aggiungono note vegetali di fiori appassiti di rosa rossa, sottobosco e ginepro con un finale balsamico e di spezie dolci. In bocca è fresco, elegante, equilibrato, ben armonizzato, lungo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997 - 1998 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dall’antico toponimo di Montegranaro (Mons Granarijs), raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Simone e Tiziana Santucci e Graziano Mazza dal 2003, l’azienda agricola si estende su una superficie di 32 Ha, di cui 13 vitati, 2 a oliveto, 13 di vigneto in fase di realizzazione, prati, boschi e seminativi. Collabora in azienda con funzioni di agronomo e di enologo Giancarlo Soverchia.

Altri vini I Bianchi: Sauvignon Artias IGT Marche (Sauvignon 100%) Falerio dei Colli Ascolani DOC Telusiano (Trebbiano 50%, Pecorino 30%, Passerina 20%) Chardonnay IGT Marche Colle Monteverde (Chardonnay 100%) I Rossi: Pinot Nero Colle Monteverde IGT Marche (Pinot Nero 100%) Rosso Piceno DOC Rio (Sangiovese 50%, Montepulciano 50%)

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SALADINI PILASTRI Saladino Saladini Pilastri Non sono mai riuscito ad ambientarmi alla quiete di questa campagna, ai suoi profondi silenzi, a quei pomeriggi invernali quando già imbruna e scende una pioggerellina fitta e fredda che raggela. Si chiude, alle spalle degli ultimi operai, il cancello della fattoria, tutto tace e allora sprofondo sul divano davanti al caminetto dove un ceppo arde. Il fuoco riscalda un po’ l’ambiente e i miei pensieri si concentrano su quel libro aperto nelle mie mani, nell’attesa della cena, mentre lascio che il tempo scorra lentamente.

Sicuramente qualcuno avrebbe venduto volentieri tutto per rincorrere i propri sogni e vivere la sua vita dimenticandosi di queste terre e della famiglia. Io, invece, ho sentito sempre molto forte il senso di appartenenza a questo casato e il ruolo storico che lo stesso ha ricoperto su questo territorio. Con la morte di mio zio Romano quest’azienda si trovò improvvisamente senza guida e senza una sana direzione. Ricordo che era il novembre del 1984 quando

prevalse il senso di responsabilità, il rispetto per la mia famiglia e l’amore per ciò che i miei avi avevano accudito e tramandato, nella convinzione che anch’io facessi altrettanto, consapevole del mio semplice ruolo di guardiano degli interessi dei Conti Saladini Pilastri, affinché altri, dopo di me, potessero godere ciò che io ora sto godendo. Del resto non si nasce impunemente in una famiglia come la mia, qualche pegno bisogna pur pagarlo. Così è stato, ed ora eccomi qui da oltre vent’anni a lavorare su questa terra

Confesso che dopo 22 anni non mi sono ancora del tutto abituato a vivere lontano dalla mia Roma. Sento sovente la nostalgia di quella sua frenesia, dei suoi orari strampalati, dei suoi negozi sempre aperti, delle file d’auto sul lungotevere che si ripetono fino alle tre di notte, della vita che pulsa ad ogni ora del giorno, di quella voglia godereccia che investe tutti, romani e non romani. È lì che sono nato ed è lì che ho vissuto fino a 28 anni. Non nascondo che mi manca un po’ la mia Roma, ma del resto, cosa avrei potuto fare? Avrei dovuto lasciare che qui tutto andasse in malora? Ne conosco tanti che, al mio posto, l’avrebbero fatto.

dovetti interrompere bruscamente un viaggio all’estero e precipitarmi qui nelle Marche, a San Benedetto del Tronto, dove mio zio si stava ormai spegnendo per una banale polmonite da mesi, per sua volontà, trascurata. Quel 21 novembre la mia vita cambiò radicalmente. Piano piano, dopo la morte di mio padre Alessandro, quella di mio fratello Lodovico e quella di mio zio Romano, mi ritrovavo da solo. Non c’era più nessuno ad occparsi dell’azienda di famiglia e fu così che mia madre ed io, ci ritrovammo un inatteso carico di responsabilità. Avrei potuto decidere di lasciar correre e di non farmi coinvolgere da questa fattoria, ma

ascolana che devo dire, però, non è riuscita a modificare il mio accento romano. Ricordo sempre volentieri i momenti in cui venivo due volte l’anno a trovare mio padre in quest’azienda. A Natale e in estate ci trasferivamo qui in campagna e papà, che era molto appassionato di barche e di pesca, ci portava al mare a San Benedetto del Tronto, una San Benedetto completamente diversa da quella odierna, con un mare splendido, un piccolo porticciolo e spiagge libere da qualsiasi costruzione. Ricordo che mi aveva costruito una barchetta a remi, che conservo ancora oggi, con la quale mi cimentavo nella pesca di sgombri e aguglie. Finite quelle vacanze, durante le quali mi godevo la mia famiglia

e qui che trovo la piacevole sensazione


di appartenere a una storia


SALADINI PILASTRI

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al completo, noi ragazzi tornavamo con la mamma a Roma. Poi gli studi, i viaggi in giro per il mondo fino a quel novembre di tanti anni fa, quando mi ritrovai immerso in quei silenzi e in quelle lunghe serate invernali qui a Spinetoli. Grazie all’aiuto di preziosi collaboratori e degli operai che avevo conosciuto nelle mie frequentazioni estive, mi appassionai presto a questa campagna e soprattutto al mondo del vino, che io non conoscevo. Con loro ho riattivato e ammodernato l’impianto d’imbottigliamento, ampliato la cantina e impiantato nuovi vigneti, con l’intento di dare maggiore impulso e redditività a

quest’azienda. Guardandomi indietro non mi pento di aver mantenuto fede agli impegni morali assunti con la mia famiglia, anzi più passa il tempo e più mi convinco che il mio destino fosse già segnato e che questa specie di predestinazione non abbia fatto altro che contribuire a sviluppare quelle passioni, verso la terra e la campagna, che mi devono essere state trasmesse da mio padre. Altrimenti non si spiega il perché io oggi non possa più fare a meno di questa natura, delle armonie che ne regolano il divenire, di questo alternarsi delle stagioni e di questo lento scorrere del tempo.

Ora che vivo qui, il mio rapporto con ciò che mi circonda si è fatto ancora più speciale e, acquisendo quell’esperienza che nasce dalla confidenza quotidiana, ho imparato a condividere con la mia gente le tradizioni orali di questi luoghi arrivando anche ad interpretare quelle fasi della luna che da sempre regolano la vita di noi campagnoli. Ho imparato quale sia il momento giusto per uccidere il maiale, per sementare, vendemmiare o svinare; ho la sensazione di essermi arricchito e di aver tenuto fede a un patto, non scritto, di fedeltà, attenzione e amore verso questa terra che mi appartiene. Così, come il mio avo, anch’io ho affrontato la


Vigna Monteprandone Rosso Piceno DOC Superiore Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano e Sangiovese provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Colle Navicchio e Spiagge nel comune di Monteprandone, le cui viti hanno un’età di 26 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla e limo, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 230 metri s.l.m., con esposizione a est, sud e ovest. Uve impiegate: Montepulciano 70%, Sangiovese 30% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura mista Densità di impianto: circa 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 15 al 25 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 25 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 33°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica e rimane per 4 mesi in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo e secondo passaggio; durante questo periodo il vino viene travasato più volte, quindi è messo in bottiglia, senza filtrazione, per un ulteriore affinamento di altri 13 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi eterei quasi balsamici, frutti di bosco scuri come ribes e more, chiodi di garofano e cannella, mirto e rabarbaro, con un finale che ricorda la liquirizia. In bocca riempie e risulta caldo, sapido, equilibrato e ben armonizzato; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997 - 1998 - 2000 - 2001 - 2003 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Saladino Saladini Pilastri dal 1986, e in regime di agricoltura biologica dal 1995, l’azienda agricola si estende su una superficie di 320 Ha, di cui 140 vitati e 180 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Domenico D’Angelo e l’enologo Alberto Antonini.

mia piccola crociata personale che mi vede oggi non solo difendere il patrimonio di famiglia, ma arricchirlo con l’orgoglio di voler far conoscere al mondo il vino di questa terra, ancora oggi purtroppo non tanto rinomato, continuando sulla strada che ho tracciato tanti anni fa. Non so se ci riuscirò, ma, a differenza del mio avo, nessuno mi proclamerà beato, né avrò monumenti o stemmi che ricordino le mie piccole “battaglie” quotidiane. Forse, e dico forse, avrò solo la gratitudine di qualche mio collaboratore e di chi arriverà dopo di me a capo di questa azienda che non ho mai abbandonato, pur essendo così lontana e diversa dalla mia Roma.

Altri vini I Bianchi: Falerio dei Colli Ascolani DOC Palazzi (Trebbiano 65%, Pecorino e Passerina 20%, Chardonnay 15%) Falerio dei Colli Ascolani DOC (Trebbiano 70%, Pecorino e Passerina 20%, Chardonnay 10%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Piediprato (Montepulciano 50%, Sangiovese 50%) Rosso Piceno DOC Superiore (Sangiovese 70%, Montepulciano 30%) Rosso Piceno DOC Superiore Montetinello (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Pregio del Conte IGT Marche (Aglianico 50%, Montepulciano 50%)

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SANTA BARBARA Stefano Antonucci Si dice che un uomo, quando riesce a raggiungere un importante obiettivo, voluto e desiderato più di ogni altra cosa - e bada bene uso appositamente il condizionale, perché non so se quello che sto dicendo corrisponda a verità - possa ritrovarsi talmente appagato e orgogliosamente soddisfatto di ciò che ha realizzato che gli sorge il dubbio sull’autenticità del risultato ottenuto, quasi come per paura che sia tutto un sogno e possa svanire nel nulla. È come quel campione che, nella finale, una volta tagliato il traguardo, con lo sguardo chiede

che facevano: per loro era, in concreto, la sola ragione di vita. Io certamente non ho mai compiuto gesti eroici, né sono mai arrivato primo in qualche competizione e del resto, come sanno tutti, io faccio solo vino, e non so spiegarti come mai in questo periodo della mia vita io mi senta così vicino alla figura di quell’atleta vittorioso, forse perché credo di aver vinto una gara, una delle gare più importanti che un atleta possa mai aver corso nella sua vita e che mi ha visto perseguire, ininterrottamente, negli ultimi quindici anni, il

quando mai sarebbero arrivati dei risultati; avevo solo la certezza di poter fare affidamento sulla serietà, l’etica e il rigore che avevo acquisito all’interno di quell’istituto bancario, virtù che mi sarebbero state assai utili nei confronti degli impegni, dei mutui e dei finanziamenti che mi furono concessi. Devo essere sincero, non ho mai cercato la fama, ma ora che, magicamente, un po’ è arrivata, grazie al vino che produco, devo dire che essa non mi dispiace affatto. Come quell’atleta, anch’io incredulo mi guardo intorno e, insicuro,

conferma del risultato ottenuto a chi lo circonda, agli avversari stessi, al pubblico e al tabellone luminoso. Lo sforzo profuso, che è andato oltre le sue possibilità, pone la sua mente, per una frazione di secondi, in uno stato confusionale ed è proprio in quegli attimi che quell’uomo arriva a dubitare della vittoria ottenuta, cercando conferme ovunque prima di lasciarsi andare ad una gioia incontrollabile. Sa di aver raggiunto la fama, che gli darà gloria e notorietà e che, secondo gli antichi, era la sola divinità in grado di poter concedere una vera soddisfazione ai mortali, prolungando la vita oltre i confini della morte attraverso la memoria di gesta eroiche capaci di sopravvivere al tempo. Gli antichi la cercavano ovunque, in ogni cosa

successo di quest’azienda vitivinicola. Un successo che ho voluto fortissimamente e che, dopo tanto impegno, mi consente oggi di avere la grande soddisfazione di vedere i miei vini inseriti nell’elenco della migliore produzione italiana; ti posso assicurare che, per me, questo equivale ad aver vinto un’Olimpiade. Non so dirti però se, quando sono partito, pensavo di incontrare quella divinità; so solo che detti un gran dispiacere a mia madre, quando, nel 1994, decisi di lasciare la banca, dove avevo lavorato quasi per venti anni, per dedicarmi a tempo pieno a questa azienda che, fino ad allora, avevo seguito soltanto part time. Non sapevo dove mi avrebbe condotto quest’avventura enologica, né sapevo se e

cerco quelle conferme che mi diano la certezza di aver ottenuto veramente quel risultato che mi ha portato dove io volevo arrivare. Sarà forse sciocco e infantile, ma a me fa piacere entrare in un locale e vedere sui tavoli dei commensali le mie bottiglie di vino, come non ti nego che provo piacere quando negli wine bar, nelle osterie o nei locali che frequento, incontro persone che mi chiedono della mia attività e mi pongono domande, mostrando interesse e affetto verso ciò che faccio. Come potrei negarti che, adesso che ho raggiunto qualche risultato, ho più voglia di mordere la vita e di godermi questo momento magico che mi ripaga di tanti sacrifici e dell’impegno fin qui profuso, gratificandomi

in ogni cosa si nasconde la chiave


del successo di un uomo


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ed emozionandomi anche con premi e riconoscimenti che le nostre etichette ottengono un po’ ovunque, in giro per il mondo. Non so se sia un caso, ma ti posso assicurare che, man mano che crescevano le soddisfazioni e le cose cominciavano ad andarmi meglio, notavo che, da parte mia, c’era una maggiore apertura verso il mondo esterno e un maggior coinvolgimento nei rapporti interpersonali. Man mano che il numero delle bottiglie commercializzate aumentava, si allentavano quei freni inibitori che le preoccupazioni e gli impegni finanziari avevano costruito intorno a me e, sempre più, mi sentivo libero da quella cortina di ferro nella quale mi sembrava di essere immerso. È forse per questo che ora trovo sempre più piacere a stare in mezzo a quelle amicizie che sono riuscito a costruirmi in questi anni attraverso il vino. Sto forse ricercando in loro le stesse emozioni ricercate dall’atleta? Non so se tu abbia ragione o meno; so solo che tutto questo contribuisce a mantenere viva in me la passione per questo lavoro e mi spinge a perseguire sempre nuovi obiettivi. Non ti nego che, se mi guardo indietro, mi vedo molto diverso da ciò che sono oggi e mi viene da sorridere ripensando alla ristretta schiera di amici che avevo quando lavoravo in banca o alla vita semplice che facevo allora che, ti posso assicurare, non può essere assolutamente equiparata a quella che conduco adesso. Non avrei mai pensato che il vino sarebbe stato capace di modificare le mie abitudini e i miei pensieri, fino al punto di accorgermi, a 53 anni, di aver costruito intorno a me una realtà importante per un paese come questo di Barbara, alla cui periferia sono posti i 40 ettari dei miei vigneti, attraverso i quali ho cercato di imporre la mia personale visione del vino che è riscontrabile anche nell’interpretazione che do alla vita. Fino a questo momento le cose mi stanno dando ragione e penso che, in definitiva, la fama non sia altro che il riconoscimento, da parte degli altri, del mio lavoro e dell’obiettivo che sono riuscito a ottenere. E tu sai bene che non è né semplice, né alla portata di tutti. La modestia lasciamola a chi ha ben ragione di coltivarla: io ho lottato duramente per impormi e, senza retorica o stupida umiltà, sono contento dei risultati fin qui ottenuti. Adesso vorrei proprio continuare a godermi


Pathos IGT Marche Rosso questa fama che non è certo quella imperitura degli artisti, degli eroi o dei benefattori dell’umanità, ma è la mia, più modesta direi, piccolissima, e finché dura me la tengo stretta, perché rappresenta la certificazione di qualità e la dimostrazione dell’assoluta bontà e attenzione che metto nel fare il mio vino.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Merlot, Cabernet Sauvignon e Syrah provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Coste nel comune di Barbara, le cui viti hanno un’età media di circa 30 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto tendenzialmente calcarei, sono posizionati ad un’altitudine di 250 metri s.l.m., con esposizione a est e sud. Uve impiegate: Merlot 34%, Cabernet Sauvignon 33%, Syrah 33% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene, a seconda della maturazione dei singoli vitigni, a partire dalla seconda decade di settembre fino alla terza decade di ottobre, si procede separatamente alla diraspapigiatura delle uve raccolte e i mosti ottenuti si avviano singolarmente alla fermentazione alcolica che è fatta svolgere in recipienti di acciaio inox e si protrae per 12-14 giorni ad una temperatura che non supera mai i 27°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 7-14 giorni, durante i quali vengono effettuate follature e frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa prima fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo passaggio, in cui rimane per 18 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati periodicamente dei bâtonnages. Al termine si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4300 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso, il vino presenta un percorso olfattivo che inizia con note di frutti neri maturi come ribes e mirtilli neri, per proseguire con percezioni floreali di rose e viole appassite, spezie dolci di tamarindo e legno di liquirizia che si accompagnano ad una grande mineralità, con un finale che ricorda l’humus e le foglie del sottobosco. In bocca ha un’entratura elegante, con una fibra tannica già evoluta che, abbinata ad una piacevole sensazione di sapidità, lo rende caldo e abbastanza lungo e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001 - 2002 - 2003 Note: il vino, il cui nome in greco significa emozione, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Stefano Antonucci dal 1989, l’azienda agricola si estende su una superficie di 43 Ha, di cui 40 vitati e 3 occupati da prati, boschi e oliveto. Collaborano in azienda l’agronomo Antonio Verdolini e l’enologo Pierluigi Lorenzetti. Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Stefano Antonucci (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Le Vaglie (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Tardivo Ma Non Tardo (Verdicchio 100%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Il Maschio da Monte (Montepulciano 100%) Stefano Antonucci IGT Marche (Merlot 40%, Cabernet Sauvignon 40%, Montepulciano 20%) Vigna San Bartolo IGT Marche (Montepulciano 75%, Cabernet Sauvignon 25%)

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SANTA CASSELLA Sergio Sgarbi e Giangaetano Micheli Gigotti Sono anni che continuiamo a stare vicini, forse più come amici che come cognati, contribuendo ognuno di noi, con il nostro background, al miglioramento di quanto abbiamo incominciato a fare insieme in questa azienda trent’anni fa. Partendo proprio dalle nostre singole esperienze, che si sono concatenate e implementate nel tempo, siamo riusciti a creare quelle sinergie che ci hanno consentito da una parte di crescere e di migliorare come uomini, dall’altra di realizzare i nostri sogni come vignaioli. I percorsi di vita così diversi, che ci hanno contraddistinto e che sono andati ad interagire in caratteri così difformi, non ci hanno limitato, anzi, ci hanno arricchito in questa nostra esperienza comune, il cui collante non è stato, come in molti casi, soltanto un progetto economico, ma le passioni che forse da sempre e inconsciamente ci portavamo dentro per il vino e per la terra. Itinerari che hanno viaggiato parallelamente, ma che hanno condotto entrambi ad appassionarci sempre più a queste vigne che piantammo togliendo un po’ di spazio ai frutteti, che caratterizzano, ancora in parte, questa azienda. Ognuno ha seguìto la sua strada, chi ricercando nell’imprenditoria il soddisfacimento alle proprie aspirazioni e l’appagamento del proprio animo libero e indipendente, chi ottenendo invece l’ampliamento dei propri orizzonti nella ricerca, all’Istituto di Studi e Programmazione Economica e come consigliere economico all’ONU e all’OCSE, combattendo anche dure discussioni istituzionali per la regolamentazione delle attività delle multinazionali. E ritrovandosi entrambi, sempre più spesso, a parlare di vino. Questa passione per la viticoltura e per il vino non è un amore sbocciato all’improvviso, ma è stato, invece, un lento e graduale avvicinamento, maturato dentro di noi piano piano; gli anni hanno saputo smussare ora la focosa irruenza, ora le spigolose forme caratteriali o addolcire le cocenti delusioni che riserva la vita. Entrambi abbiamo compreso che ciò che riuscivamo a realizzare fra questi filari era qualcosa di straordinario e di nostro e i risultati che incominciavamo ad ottenere non erano altro che l’applicazione pratica delle nostre idee.

Queste deduzioni hanno creato forti emozioni che ognuno ha vissuto in modo personale; chi, più gaudente, ha visto in loro la conferma di quali siano i sottili piaceri della vita, chi, invece, più razionale, ha ricercato attraverso la tecnica vitivinicola la loro affermazione. Con il tempo quest’entusiasmo avrebbe potuto affievolirsi e condurci alla nostra età, di 64 e 72 anni, a vedere le cose con un po’ più di distacco, ma non è stato così, anzi, questa strana e piacevole sensazione di avere, ancora oggi, voglia di giocare e divertirsi facendo vino, ci

galvanizza sempre più portandoci a fare progetti e a costruire ancora dei sogni per questa piccola azienda. Perché dovremmo limitarci e circoscriverli? Del resto sognare non costa nulla e inoltre siamo convinti che l’unica arma per sconfiggere il tempo è avere sempre nella mente delle aspirazioni da realizzare che non ti fanno pensare a come esso scorra inesorabile, ma a quello che devi fare domani. Abbiamo ancora quel fremito di qualche anno fa che ci spinge a impegnare ogni nostro momento libero in quest’azienda: ora però facciamo tutto con più calma, trovando il tempo e il gusto anche di fermarci per fare una bella partita a carte. In ogni modo ci sono progetti per nuovi

vigneti, per la wine house, che vedrà la nascita di alcuni appartamenti con una sala per le degustazioni, per l’aggiornamento e la continua ricerca di sempre migliori soluzioni enologiche da applicare ai nostri vini che nascono da un continuo screening e controllo nei vigneti. Tutto caratterizzato da quell’entusiasmo che non ci ha mai abbandonato, fin da quel lontano 1974, quando incominciammo a fare le prime bottiglie con i cinque ettari che avevamo a disposizione. Ora le cose sono cambiate e l’azienda ha assunto un altro aspetto: quel piccolo vigneto si è moltiplicato e le vigne oggi ricoprono una buona parte dell’azienda di famiglia che comunque mantiene ancora il suo vecchio orientamento frutticolo a basso impatto ambientale, come lo sono del resto anche tutti i nostri vini. Non solo si è trasformata l’azienda, ma è cambiato anche il nostro approccio al mondo del vino, sia in termini di investimenti, che negli ultimi dieci anni sono stati enormi per le nostre economie, sia in termini migliorativi, nella ricerca di una sempre maggiore qualità dei vini che produciamo. Sapevamo che quanto stavamo facendo avrebbe portato a ottenere dei risultati, che, infatti, non hanno tardato a venire, insieme alle soddisfazioni e ai riconoscimenti sia nelle guide, sia nei concorsi nazionali e internazionali con degustazione alla cieca dove siamo riusciti ad ottenere grandi e inaspettati risultati. Siamo contenti di tutto questo, anche se in quelle lunghe chiacchierate che facciamo insieme a qualche amico davanti a un bicchiere di vino, non nascondiamo alcune preoccupazioni per il futuro che, sicuramente, non sarà dei più rosei, specie per le piccole aziende. Come tutti gli altri piccoli produttori italiani, anche noi continuiamo sulla strada della qualità e degli investimenti, in quell’inevitabile e continuo dimenarci in un mercato che sembra, in alcuni momenti, darci ascolto, mentre in altri sembra del tutto sordo alle nostre richieste. Certamente non muteremo la strada che abbiamo intrapreso per quest’azienda tanti anni fa, ma al contempo ci piacerebbe che tutto il settore modificasse il proprio approccio ai problemi che sorgono, sempre più globali e complessi da superare. In definitiva non c’è da fare i conti su una “fallanza”

sono i nostri caratteri difformi che ci


hanno arricchito in questa esperienza


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o su un voto più o meno scarso di una guida: qui c’è da fare i conti con una globalizzazione che lascerà poco spazio alle realtà come la nostra, a meno che esse non conquistino il consumatore che rifiuta il vino standardizzato. Al posto del vigneron, delle passioni e del terroir ci sono sempre più il marketing, la comunicazione, l’immagine. È il trionfo delle grandi imprese, di quelle multinazionali su cui qualcuno di noi due ha dibattuto per tutta la vita, le quali hanno una visione del vino come di un prodotto industriale qualsiasi, ma hanno dalla loro parte le risorse economiche e la forza del numero delle bottiglie prodotte per imporsi sul mercato. Uomini che hanno cavalcato i mercati come noi, chi studiandoli profondamente per capirne le debolezze e la forza, chi, invece, standoci in mezzo quotidianamente, sanno leggere attentamente i fattori socio-culturali che si vanno via via determinando nei vari strati dell’economia mondiale e le previsioni non depongono a favore delle piccole aziende vitivinicole che hanno scarse risorse per costituire un valore aggiunto al vino che producono. Per far fronte ai tanti problemi vitivinicoli puntiamo sulla qualità determinata da quel particolare terroir dove è localizzata la nostra azienda, a pochi chilometri dal mare, sulla selezione delle uve, sulla tradizione e la cultura da proteggere e da tramandare, su quei mille discorsi che ognuno arricchisce come meglio crede, consapevoli che i nostri prodotti avranno, sempre più, le caratteristiche idonee a soddisfare quelle piccole nicchie di mercato la cui domanda esiste e verso le quali tutti noi puntiamo. Se il sistema vitivinicolo italiano non prende coscienza di questo e consapevolmente non si organizza in tal senso, presto molte piccole aziende rimpiangeranno ancora di più i momenti favorevoli che sono appena terminati. È con l’artigianalità del vino delle singole aziende e con l’identificazione delle stesse nel territorio che le piccole imprese possono combattere questo spettro della globalizzazione. Della cosa ne parliamo spesso con quella serenità che ormai ci contraddistingue, convinti come siamo che per noi fare vino è sì un impegno serio, ma anche un bellissimo gioco al quale vogliamo continuare a giocare ancora per lungo tempo, certi di migliorare e acquisire nuovi estimatori dei nostri vini “artigianali”.


Cardinal Bonaccorso Colli Maceratesi Rosso DOC Riserva Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Borroni in Contrada Santa Cassella, nel comune di Potenza Picena, le cui viti hanno un’età media di 15 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla e sabbia, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 190 e i 250 metri s.l.m., con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Montepulciano 10% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e i mosti ottenuti si avviano alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni in recipienti di acciaio inox ad una temperatura compresa tra i 25 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati rimontaggi giornalieri e alcuni délestages. Terminata questa fase, dopo una breve defecazione, il Montepulciano e una parte del Sangiovese (il 30%) vengono posti in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo e secondo passaggio, dove effettuano la fermentazione malolattica e in cui rimangono per 15-18 mesi, periodo durante il quale si effettuano 2 travasi; la massa del Sangiovese, invece, è posta in botti da 10 Hl in cui rimane per 15-18 mesi. Al termine di questa lunga maturazione, il vino è assemblato e, dopo un periodo di decantazione, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi purpurei, il vino offre all’esame olfattivo spiccati profumi di ciliegie, ribes, amarene sciroppate e nuances floreali di viola appassita che si aprono a note speziate di caffè e pepe bianco fino ad arrivare ad una percezione mentolata e a sentori di caffè e vaniglia. In bocca risulta fresco, elegante, con una fibra tannica setosa che mette in equilibrio la buona sapidità e la lieve vena alcolica facendo risultare il vino lungo e persistente. Prima annata: 2002 Le migliori annate: 2002 Note: il vino, il cui nome ricorda il Cardinale Bonaccorso Buonaccorsi (1620-1678) che fu tesoriere del Vaticano, promotore e difensore degli interessi di Macerata e avo degli attuali proprietari, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà di Giangaetano Micheli Gigotti e della famiglia Sgarbi dal 1700, l’azienda agricola si estende su una superficie di 70 Ha, di cui 32 vitati, 10 occupati da frutteti e 28 da oliveto, seminativi e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Umberto Santoni e l’enologo Pierluigi Lorenzetti. Altri vini I Bianchi: Donna Angela IGT Marche (Malvasia 85%, Chardonnay 15%) Donna Eleonora IGT Marche (Chardonnay 85%, Sauvignon 15%) Giardin Vecchio IGT Marche (Maceratino 70%, Malvasia 30%) I Rossi: Conte Leopoldo IGT Marche (Cabernet Sauvignon 85%, Montepulciano 15%) Rosso Piceno DOC (Montepulciano 75%, Sangiovese 25%)

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SARTARELLI Donatella Sartarelli e Patrizio Chiacchiarini

Non potrebbe essere diversamente, dato che, dovunque io vada, lo porto sempre dentro di me. È un sentimento forte, di grande riconoscenza per chi mi è stato accanto in tutti

È forse in questa timidezza o nel gioco sottile che in questi anni si è creato fra di noi, in quelle non dichiarate, ma ferree regole che dividono le nostre competenze o nei sottili meandri dei ruoli di padre e di madre, di donna e di uomo, che si racchiude in definitiva questa storia, mia e di Patrizio, ma so che non riuscirei a scomporla e crearti un distinguo fra dove inizia l’una e finisce l’altra. Un intreccio complesso fra un grande sentimento e questi trent’anni di normale quotidianità vissuta uno accanto all’altro, che io difendo come una leonessa,

scommettendo su un’attività che, a quei tempi, poteva essere rischiosa, visto che tutti si facevano il pane in casa. Con Patrizio siamo cresciuti insieme, appagando con questa scelta di vita il desiderio di costruire un percorso nel quale condividere tutto e ritrovarci a sera felici di poterci abbracciare, in segno di incoraggiamento e di affetto. Insieme abbiamo avuto la forza di ridare vita all’azienda agricola, che contava solo 12 ettari, troppo pochi per fare progetti e costruire

questi anni, ha scaldato le mie giornate e ha materializzato i miei sogni con dei figli, facendo sbocciare questa azienda come un fiore o scalzando la tristezza degli anni bui e dolorosi, che mi rattristavano il cuore, con la forza della serenità. Non posso parlare di quest’azienda senza parlare di colui che ne è l’anima e movimenta la mia vita, anche se ti prego di non volermene se, da buona marchigiana, sorvolerò sulle passioni. Come potrai ben capire non è facile parlarti di cosa io provi, ma ti posso assicurare che, quando parlo d’amore, i miei occhi lo cercano e, ora che me lo fai notare, arrossisco mentre il pudore prende il sopravvento e smorza le parole.

arrivando a celarla dietro a una scorza di ruvido egoismo e di amore materno, proteggendo ciò che siamo da tutto e da tutti. Una storia iniziata da ragazzini, prima ancora che decidessimo di lasciare ogni altra cosa per metterci a fare i vignaioli come mio padre Ferruccio che, essendo nato in campagna, aveva sempre avuto la passione per le vigne e per la terra, attività che aveva dovuto abbandonare, intorno agli inizi degli anni ‘60, perché poco redditizia. La nostra è una storia partita quando io ancora studiavo, nel 1976, e fu avvolta, quasi subito dopo, dal profumo del pane caldo sfornato nel forno di famiglia, qui a Montecarotto, che mio padre aveva acquistato insieme a suo fratello,

un solido futuro e, sempre insieme, abbiamo superato gli anni bui dei contrasti e delle cattiverie, sorte per questioni di eredità, dopo la morte di mio padre. Momenti tristi, ricchi di umane bassezze il cui solo ricordo mi fa nascere un magone che si smorza in gola e gli occhi si inumidiscono di rabbia e dolore, mentre mi riecheggiano nella mente le dolci parole di Patrizio e il gemito di Nico, il nostro cane lupo, che, quando mi vedeva scoppiare in lacrime, sembrava che con i suoi lamenti mi implorasse di cessare quel pianto. Momenti di grande crescita interiore che ho condiviso insieme a queste viti, accorgendomi che la nostra esistenza si svolgeva magicamente all’unisono perfetto con queste vigne.

Hai mai conosciuto persona che fosse molte cose in una, le portasse con sé, che ogni suo gesto e ogni pensiero che tu fai, di lei racchiudesse infinite cose della tua terra, del tuo cielo? Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Mondadori

siamo uno splendido intreccio


di trent’anni di normale quotidianità


SARTARELLI Ti posso assicurare che furono esordi duri e difficili, ma, con la tenacia che ci contraddistingue, siamo riusciti a superarli e a fare tante cose, ad avere dei riconoscimenti e ad affermarci come una delle poche cantine che, da sempre, ha puntato solo su una produzione monovarietale di Verdicchio, vitigno che caratterizza gli attuali 66 ettari vitati della nostra azienda. Sono contenta e soddisfatta dei risultati ottenuti in questi anni e di ciò che rappresenta oggi la nostra realtà sul territorio, ma la felicità maggiore è l’aver realizzato tutto questo insieme a mio marito, con il quale siamo riusciti anche a vendere più del 50% della nostra produzione direttamente in azienda, allargando ogni anno il giro dei nostri clienti abitudinari, alcuni dei quali ci seguono da oltre venti anni, e a far sì che vecchi clienti ne mandassero altri a comprare il nostro vino. Non abbiamo mai investito una lira in pubblicità, né messo in atto strategie di marketing che potessero in qualche modo aiutarci a commercializzare ciò che producevamo. Credo che il segreto di questo nostro piccolo successo sia da ricercare nella costanza qualitativa dei vini che immettiamo sul mercato e nel rapporto qualità-prezzo che li contraddistingue oltre a quell’accoglienza che riserviamo a chi viene a trovarci in azienda per comprare il vino. Fra di noi non c’è bisogno di tante parole: lui mi capisce benissimo, siamo due caratteri forti e risoluti e abbiamo la stessa positiva ambizione, la stessa volontà di voler migliorare ciò che abbiamo appena ottenuto. Siamo legati in modo indissolubile, entrambi orientati a guardare positivamente il futuro, sapendo che un’azienda come la nostra, che ha raggiunto ormai queste dimensioni, richiede un impegno giornaliero ed è necessario dare sempre il massimo, così da consolidare ciò che abbiamo fatto e propiziare un futuro sicuro ai nostri due figli Caterina e Tommaso che non dovranno mai dubitare del nostro impegno e del nostro amore.

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Balciana Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, posto in contrada Balciana, nel comune di Poggio San Marcello, le cui viti hanno un’età di circa 14 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto calcareo tendente allo sciolto, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione che varia da nord a nord-est. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 2300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che si effettua di solito a partire dall’ultima decade di ottobre con la raccolta delle uve in surmaturazione, si procede alla pressatura soffice e, dopo una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 8°C, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 35 giorni, alla temperatura di 17°C, in tini di acciaio nei quali il vino rimane per 8 mesi. Al termine di questo periodo si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; al naso offre complessi profumi floreali di tiglio e gelsomino che si aprono a sensuali percezioni di frutta matura a pasta gialla, susine, mango e papaia, accompagnate da complessa mineralità e salmastrosità. In bocca ha un’entratura di grande impatto, con la mineralità che si accompagna alle note fruttate già percepite al naso; conferma anche al palato grande freschezza e personalità oltre ad una notevole lunghezza e persistenza. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1997 - 2001 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dalla contrada dove si trova il vigneto, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà di Donatella Sartarelli dal 1989, l’azienda agricola si estende su una superficie di 72,5 Ha, di cui 66 vitati e 6,5 occupati da oliveto. Collaborano in azienda l’agronomo Luca Severini e l’enologo Alberto Mazzoni.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Tralivio (Verdicchio 100%)

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SPINSANTI CATIA Catia Spinsanti Quando porto mio padre Adino in mezzo a queste vigne, percepisco a pieno quale sia il reale valore di ciò che ho fatto. In silenzio si siede davanti alla porta della cantina e per ore osserva quei rigogliosi filari che davanti a lui geometricamente delineano i confini della nostra proprietà. Quel suo silenzioso osservare crea un grande rumore nel mio cuore e provo ad allontanarmi da quel senso di tristezza che mi colpisce nel vederlo così malato, cercando di cogliere quali siano i suoi pensieri che, in certi momenti, mi sembrano attraversati da un’infinita serie di emozioni. Non mi è raro vederlo scuotere il capo e in quell’attimo il suo sguardo, sempre tranquillo e dolce, diventa cupo e avverso a quella provvidenza che, per un oscuro disegno divino, l’ha voluto allontanare dalla sua terra in seguito ad un ictus che l’ha colpito una decina di anni fa. Altre volte, invece, i suoi occhi si riempiono di una languida gratitudine per essere riuscito a far sì che il suo lavoro, e i sacrifici che lo hanno sostenuto, non fossero gettati al vento. Non è concepibile quanto sia grande la mia felicità nel vedere stampato nei suoi occhi un sincero grazie, anche se, ancora oggi, mi guarda perplesso, ma compiaciuto, poiché certamente non immaginava che con due figli maschi fossi proprio io, la femmina, a proseguire la sua attività di vignaiolo. Quando venne meno la sua salute, in famiglia pensammo di vendere questa terra o di farla lavorare a terzi, ma tutte le soluzioni lo amareggiavano. Noi, del resto, eravamo impegnati ognuno nelle proprie attività; chi, come me, in un ufficio, chi, come mio marito, intento a svolgere la sua professione di architetto e chi, come i miei fratelli Claudio e Giampiero, invece, ormai da anni lontani da casa, per essersi trasferiti in Germania.

Quella situazione di stallo andò avanti per un paio di anni, fino a quando mio fratello Claudio, che in Germania si occupa di importazione di vini, pensò che avrei potuto pensare io a proseguire la tradizione di famiglia. Non so dirti quale fu il ragionamento che mi spinse a non far cadere nel vuoto quella “scellerata” proposta, né so spiegarti quale sia stata la molla che mi ha spinto a lasciare le mie certezze e, dall’oggi al domani, impegnarmi oltre ogni mio limite fra queste viti. Ero completamente all’oscuro dei meccanismi che regolano la viticoltura, né tanto meno conoscevo quali fossero le sfumature che interagiscono nella vinificazione, eppure, all’improvviso e senza nessuna esitazione, qualcosa in me scattò e mi fece lasciare un lavoro e una retribuzione sicuri, spingendomi a salire per la prima volta su un trattore che mi condusse in mezzo alle vigne che dovevano essere curate, legate, concimate e accudite come non pensavo fosse possibile fare. Quanto lavoro, quanti sacrifici, quanta fatica per una come me che, fino a poco tempo prima, era abituata a pigiare i tasti di un computer! Non nego che fui molto contenta quando, qualche anno dopo, venne in mio soccorso anche mio marito, che aveva perso il suo lavoro; comunque, anche per lui non fu una cosa semplice mettersi a fare il contadino, visto che lui non sapeva neanche cosa fosse lavorare in campagna! Sono passati degli anni e ancora oggi non saprei dirti di più di ciò che ti ho raccontato. Forse potrei ricercare le cause di questo mio trasformismo in quel concetto arcaico che conduce chi è cresciuto in queste zone e ha respirato i profumi di una passione paterna a riappropriarsi di quel filo sottile che lo lega alla terra. O forse potrei raccontarti che la causa di

tutto ciò va ricercata non solo in quei geni di un sentimento ereditario per la viticoltura che mio padre mi ha trasferito, ma nel desiderio di canalizzare il quotidiano impegno su qualcosa di più concreto, di stabile, di certo, di mio, rispetto a quell’affrancamento da un lavoro che mi aveva tenuto per quindici anni alle altrui dipendenze. Forse potrebbe essere stata la voglia di mettersi ancora in gioco o l’idea che vi fosse un’altra vita oltre quella semplice scrivania o il desiderio inconscio di voler dimostrare a me stessa di essere capace, ancora una volta, di raggiungere quegli obiettivi che gli altri non ritenevano io fossi in grado di ottenere. Del resto la mia vita è sempre stata condizionata da questo leitmotiv, poiché ho sempre dovuto andare oltre le mie possibilità per acquisire quella fiducia che altri ottengono magari con la metà del mio impegno. Come vedi sono molteplici i fattori che hanno interagito in questa mia decisione e tra tutti credo che abbia influito anche la volontà di lasciare a mia figlia, che ho adottato lo stesso anno in cui ho piantato la prime vite, un’impronta tangibile del mio passaggio su questa terra. Sicuramente credo di saper dimostrare più con i fatti che con le parole quanto sia grande la mia testardaggine nel perseguire gli obiettivi che mi prefiggo di raggiungere. Non so neanche se questa vigna nasconde in sé il mio desiderio di mettere radici o se invece in essa abbia percepito lo strumento ideale con il quale consolidare i rapporti che legano la mia famiglia che, su questo progetto, si è trovata unita e predisposta a darmi un valido sostegno; ognuno con le proprie capacità e la propria predisposizione, ognuno portandosi dietro le proprie storie, la propria carriera e il proprio destino che, alla fine, si è incrociato con quello degli altri che, come me, desideravano fare qualcosa di importante qui a Camerano.

chi ha respirato la forza di una passione


paterna cerca di riappropriarsi delle sue origini


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Sassóne IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Camerano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 30 e i 45 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di calcare e argilla, sono posizionati ad un’altitudine di 220 metri s.l.m., con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 6000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 26°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che prosegue per altri 14-15 giorni a temperatura controllata, durante la quale viene effettuato almeno un délestage giornaliero. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica, conclusa la quale, dopo una breve pulizia statica, è inserito in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura 1/3 di primo, 1/3 di secondo e un 1/3 di terzo passaggio, in cui rimane per 12 mesi. Concluso il periodo della maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino con riflessi violacei, il vino presenta un percorso olfattivo che si apre a profumi pieni, piacevoli e complessi che spaziano da note fruttate di marasca matura che piano piano lasciano spazio a percezioni speziate di tabacco e caffè, fino a nuances di cioccolato amaro. In bocca ha un’entratura fresca, con una fibra tannica presente, ma ben equilibrata che, abbinata ad una piacevole sensazione di sapidità, rende il vino caldo, lungo e persistente. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal grande masso (sassóne), su cui sorge il paese di Camerano, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà di Catia Spinsanti dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12 Ha, di cui 8 vitati e 4 occupati da oliveto e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Alceo Orsini e l’enologo Umberto Trombelli.

Altri vini I Rossi: Rosso Conero DOC Adino (Montepulciano 90%, Sangiovese 10%) Rosso Conero DOC Camars (Montepulciano 100%)

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STROLOGO SILVANO Silvano Strologo con la moglie Catia Non sono un buon affabulatore e non ho al mio fianco un sacco dove frugare e trovare le parole per descriverti quale sia il mio rapporto con questo mestiere di vignaiolo e se anche lo avessi, gonfio e stracolmo, non saprei scegliere quelle in grado di raccontarti la positività che mi trasmettono queste vigne, questa terra e quell’insieme di elementi che, nel tempo, mi hanno arricchito come uomo consentendomi di diventare ciò che sono. Per te, che non sei nato su questo territorio, credo rimanga difficile capire quanto sia

avere la possibilità di conoscere un’infinità di persone che mi hanno aiutato a guardare le cose con un’altra prospettiva, andando più in là dell’angolo di osservazione che avrei potuto avere se fossi rimasto sempre qui a Camerano. È una questione di orizzonti che si ampliano sempre più e mi appagano lo spirito dandomi una visione diversa di ciò che può essere la vita e con essa tutte quelle relazioni interpersonali, le amicizie e la visione del commercio e, credimi, tutto questo non è paragonabile a nient’altro.

Credimi che comunque non è stato facile promuovere i vini di questa terra, poiché nel mondo le Marche non hanno la stessa notorietà del Piemonte o della Toscana, ma, come diceva Giulio, l’importante è sentirsi parte integrante di un territorio e avere la voglia e il desiderio di promuoverlo, raccontarlo sentendoselo addosso come un vestito di taglio artigianale confezionato su misura. Sono convinto, infatti, che il produttore che passa un’ora affaccendandosi dietro ad un cliente nell’intento di vendergli il maggior numero di bottiglie non

profondo il rapporto che lega noi marchigiani a questa terra e forse non puoi comprendere quanto siano profonde le radici che mi spingono a sentirmi parte integrante della stessa. Se tu ci riuscissi, allora forse incominceresti ad afferrare quanto sia stato importante per me produrre vino, concetto imprenditoriale che va ben oltre il semplice business. Fare il vignaiolo mi ha consentito di andare al di là di queste colline che mi circondano, mi ha fatto viaggiare e scoprire il mondo con quella gioia che può avere solo un bambino che guarda un nuovo gioco. Non avrei mai pensato di ritrovarmi un giorno a New York o a Tokyo o in altre parti del mondo a fianco delle mie bottiglie di vino e

Questo mestiere mi ha permesso non soltanto di accrescere la mia cultura vitivinicola, ma ha significato apprendere, ascoltare e penetrare sotto la corteccia dell’umano essere, cercando di capire chi avessi ogni volta davanti a me, per trarre il meglio dalla sua esperienza, trattando ogni interlocutore, non per il denaro che avrebbe potuto portarmi, ma per ciò che rappresentava, condividendo con lui la passione per il vino, senza limiti territoriali. È questo ciò che mi ha insegnato mio padre Giulio, e da lui ho imparato ad andare oltre le infinite paure che sono presenti in questa cultura provinciale in cui sono nato, cercando di essere positivo nei confronti della vita e di ciò che faccio.

ha capito nulla di cosa lo circondi. La gente ha voglia di scoprire cosa c’è dietro a quella bottiglia di vino e soprattutto vuole capire chi c’è al di là di quel contenitore di vetro, andando curiosamente oltre il proprio immaginario per conoscere non solo il territorio dove quel vino è prodotto, ma l’uomo che lo ha realizzato, così da portarsi via tutto ciò che c’è di visibile e d’invisibile. Mi dispiace che oggi mio padre non sia accanto a me per godersi quello che sono riuscito a costruire, ma sicuramente si meraviglierebbe dei risultati che la sua famiglia ha ottenuto da quegli inizi degli anni ’60, quando decise di lasciare la mezzadria e di mettersi in proprio. A quei tempi lui non immaginava certo che

sono gli orizzonti che danno


una visione diversa alla vita


STROLOGO SILVANO il vino che producevamo potesse essere imbottigliato, ma solo io so quanto ho dovuto combattere, dopo la sua morte, con suo fratello Marino per convincerlo non solo a perseguire questa nuova strategia commerciale, ma ad assumere un enologo o a procedere ad un radicale cambiamento dei sistemi di allevamento oppure a definire delle semplici potature o, infine, a inserire in cantina nuove tecnologie. Il tempo mi ha dato una mano e, con i primi risultati, le cose sono cambiate e con esse anche le prospettive e anche se tutto è andato via via consolidandosi, non ho mai perso la voglia e il desiderio di divertirmi a fare ciò che faccio, arrivando a scoprire che oggi quest’azienda è la mia vita e il mio universo. Tutti lavoriamo per portare avanti questa nostra favola con la quale abbiamo ottenuto dei grandi risultati, ma ogni componente della famiglia sa benissimo che, in questo mondo, come nella vita, nulla è per sempre e che il difficile non è arrivare in cima, ma è mantenersi ad alti livelli e quando si è in cima basta poco, anche soltanto un piccolo errore, per scoprire di essere tagliati fuori. Questo timore o consapevolezza, chiamala come vuoi, ci porta a dare sempre il meglio, ognuno sapendo quali sono i propri compiti, a partire da mia madre, che mi aiuta in cucina quando arrivano i clienti, a mia moglie, che si alterna come un jolly dove c’è bisogno, fino a mia sorella e a mio cognato, che si adoperano con grande dedizione. Tutti presenti e sorridenti affinché il frutto di quest’impegno arrivi come un benevolo messaggio nei grandi circuiti, sulle tavole dei ristoranti e tra i gourmets: questo è ciò che in definitiva ci ripaga del grande sacrificio che facciamo.

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Traiano Rosso Conero DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Camerano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza d’argilla, sono posizionati ad un’altitudine di 250 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato nei nuovi vigneti; guyot nei vecchi Densità di impianto: 2000 ceppi per Ha nei vecchi impianti; 5000 nei nuovi Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in tini di rovere francese, per 8 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che prosegue, sempre a temperatura controllata, per altri 10-12 giorni, periodo durante il quale vengono effettuate manualmente frequenti follature giornaliere. Terminata questa fase e dopo una decantazione statica di circa 48 ore, con un travaso dopo 24 ore, il 70% del vino viene immesso in barriques nuove di rovere francese a grana fine e media tostatura, il restante 30% in barriques di secondo passaggio, dove effettua la fermentazione malolattica e in cui rimane 15-18 mesi, periodo durante il quale è travasato almeno una volta. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle barriques e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, nel mese di giugno viene imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino presenta un percorso olfattivo con profumi di fiori rossi appassiti che si aprono a percezioni di marasca e prugna molto matura che lasciano spazio a note di spezie dolci, tabacco, polvere di caffè, radice di liquirizia e a un finale balsamico. In bocca ha un’entratura armoniosa, fine, con una fibra tannica evidente, ma in evoluzione. Vino che conferma le percezioni olfattive con buon equilibrio ed eleganza risultando lungo e persistente. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2000 - 2001 - 2002 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dall’imperatore Traiano che partì da Ancona alla conquista dell’Oriente, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà di Silvano Strologo dal 1997, l’azienda agricola si estende su una superficie di 20 Ha, di cui 11 vitati e 9 occupati da seminativi. Collabora in azienda l’enologo Giancarlo Soverchia.

Altri vini I Rossi: Rosso Conero DOC Julius (Montepulciano 100%) Rosso Conero DOC Riserva Decebalo (Montepulciano 100%) Rosato: Marche Rosato IGT Rosa Rosae (Montepulciano 90%, Sangiovese 10%)

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TENUTA COCCI GRIFONI Paola, Marilena, Guido Cocci Grifoni e Diana Marchetti Se dovessi raccontare in modo conciso quale è stato lo stimolo che mi ha accompagnato per tutta la vita potrei descriverlo con un’unica parola: amore. Non sono certo io la prima a dire che è il motore di tutto, ma sicuramente sono l’ennesima conferma che è con l’amore che si muovono le cose ed è stato quello che mi ha sorretto in tutti questi anni dandomi la forza di condividere le gioie e i dolori con mio marito Guido. Un amore che dovetti mettere subito alla prova, poiché, dopo essermi diplomata e aver già

convinzioni su cosa io significassi per lui, mi infondevano sicurezza. Erano altri tempi e sicuramente bastava poco a noi ragazze per essere felici: aver mantenuto alta la buona reputazione della nostra famiglia, amare un uomo con il quale avere figli e vivere il più dignitosamente possibile. Anche tu, che hai i capelli bianchi, forse ti ricorderai di come erano quegli anni ‘60, anni in cui l’Italia incominciava a correre e le industrie nascevano come funghi, mentre la gente scappava dalla campagna per cercare

prodigassi per sostenerlo, anche se aveva le idee ben chiare. L’essere rimasto orfano del padre quando aveva soltanto 16 anni non lo aveva scoraggiato dal continuare puntigliosamente la tradizione vitivinicola di famiglia e il sentirsi addosso la responsabilità di sua madre e di suo fratello Vincenzo, che studiava medicina, più che chiuderlo lo aveva stimolato a dare sempre il massimo come in tutto ciò che faceva. Non aveva potuto studiare e di questo si crucciava, ma in famiglia bastava anche un solo uomo di cultura e non poteva essere

vinto un concorso che mi dava l’abilitazione all’insegnamento, mi indusse a lasciare tutto per sposarmi con un baldanzoso giovanotto, che ha adesso 70 anni e che è qui, ora, seduto accanto a me. Non pensare che sia stato semplice lasciare Offida e trasferirmi in questa Contrada Messieri. Quei pochi chilometri che mi dividevano da casa rappresentavano per me qualcosa di più di un semplice trasloco: era un viaggio più mentale che spaziale, fra il paese e la campagna. Ma ero convinta che la mia scelta fosse la cosa più giusta che potessi fare, innamorata com’ero di quella cocciuta determinazione che caratterizzava Guido. Quelle sue risolute certezze su un futuro migliore e le sue

fortuna in città. Erano anni in cui, qui, c’era ancora la mezzadria e su queste strade sterrate i più fortunati si spostavano con la Vespa e, mentre incominciavano a circolare le prime Fiat Seicento, tutti, per raggiungere le frazioni o i paesi circostanti, utilizzavano gli autobus, privati e pubblici, e andare da qui ad Ascoli era già un bel viaggio. Stranamente, mentre tutti abbandonavano la campagna, per amore, io mi ci tuffavo dentro. Mi sentivo anche un po’ fortunata, dato che entravo a far parte di una famiglia che possedeva già delle terre. Guido, del resto, è nato qui; è legato a queste terre ed era giusto che io lo seguissi e mi

diversamente, dato che c’era un’azienda da mandare avanti. Fu nel 1963 che ci sposammo e ricordo che nel 1964 Guido, al contrario di quanto accadeva intorno a lui, cominciò ad acquistare dei terreni e a dispetto di quelli che, oltre a svendere le terre in loro possesso, gli davano anche del matto, si prodigava a piantare vigne e a rilevare tutti i terreni confinanti alla nostra proprietà. Erano anni duri per la campagna e come potrai immaginare i problemi non mancarono; per far fronte e onorare quegli investimenti non mi sottrassi dal fornirgli il mio contributo lavorativo, pur avendo avuto già due figlie, Marilena e Paola, a cui badare. Lui, del resto, aveva ben chiaro quale fosse il suo

e l’amore il motore che muove le cose



TENUTA COCCI GRIFONI obiettivo che, all’inizio degli anni ‘70, si poneva in netto contrasto con il panorama vitivinicolo locale che si basava sulla commercializzazione delle uve e del vino sfuso, venduto in cisterne o all’ingrosso come vino da taglio. Lui era uno dei pochi che già allora imbottigliava, ma, bada bene, solo ed esclusivamente il vino che produceva e per questo era ritenuto, con quello sciagurato tentativo, un visionario sognatore che voleva dilapidare il patrimonio di famiglia. Erano momenti nei quali dovevamo fare affidamento solo sulle nostre forze, dato che non potevamo contare su nessun aiuto di enti o istituzioni, né si poteva sperare che le altre aziende vitivinicole contribuissero, con i loro vini, a far conoscere in qualche modo questo territorio, allora praticamente sconosciuto. Le DOC appena costituite erano dei progetti lungi dall’essere definiti e che dovevano essere ancora assimilati dalla gran parte dei viticoltori locali. Dovemmo aspettare la fine di quel decennio perché qualche giornale si interessasse ai vini che si producevano nella zona, raggiungendo il momento di maggior popolarità, se ricordo bene, proprio in concomitanza dell’ascesa alla ribalta nazionale dell’Ascoli Calcio e del suo presidente, il grande Costantino Rozzi, che, nel frattempo, aveva dato vita ad una sua azienda vitivinicola, Villa Pigna e che, come noi, si era intestardito a imbottigliare il vino che produceva cercando di accomunare allo stesso anche il territorio. Un piccolo fuoco che non divenne mai falò. Erano anni in cui questa provincia, purtroppo, annoverava una sparuta schiera di viticoltoriimbottigliatori che si potevano contare sulla punta delle dita di una mano. Il resto, poi, fa

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parte della storia odierna che, forse, conoscerai già, ma quello che non sai è che da allora abbiamo dovuto aspettare quasi trent’anni prima che altri produttori prendessero coscienza delle loro grandi potenzialità e contribuissero a innalzare sia il livello qualitativo dei vini prodotti, sia l’immagine di queste terre ascolane. Certo, se Guido non avesse cocciutamente continuato su questa strada, o avesse aspettato che i tempi mutassero, tu oggi non saresti qui a sentirmi raccontare questa storia, che si basa sulla forza di volontà di questo contadino che ha dimostrato, a sé e agli altri, che i sogni si possono avverare, e sulla mia risolutezza e la capacità delle nostre figlie, che sono cresciute fra le vigne e la cantina. Il suo è stato un impegno costante che lo ha indotto a valorizzare sempre i vitigni autoctoni, come ad esempio il Pecorino, interpretando con occhio attento quegli impercettibili segnali che preannunciavano i grandi mutamenti che sarebbero arrivati molto più tardi sui mercati nazionali e internazionali. Sai quante volte l’ho visto togliere l’acqua con la spugna da una vasca per paura che ci rimanesse qualche goccia? Sai quante giornate trascorse nella vigna? E quante ancora lì, a controllare che ogni minimo particolare fosse stato eseguito secondo le sue indicazioni. La sua attenzione al dettaglio, la sua testardaggine e il suo rigore morale sono stati gli elementi che ci hanno consentito di arrivare ai risultati che sono sotto i tuoi occhi, che ti potranno anche apparire non eclatanti, ma sono ciò che abbiamo ottenuto stando vicini e amandoci per tutti questi anni.


Il Grifone Offida Rosso DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano e Cabernet Sauvignon provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località San Basso, nel comune di Offida, le cui viti hanno un’età di circa 15 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 230 e i 270 metri s.l.m., con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Montepulciano 70%, Cabernet Sauvignon 30% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot e cordone speronato Densità di impianto: 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella terza decade di ottobre per entrambi i vitigni, si procede alla diraspapigiatura delle uve e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 7-12 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino svolge la fermentazione malolattica in acciaio, dove rimane per oltre 12 mesi; poi viene inserito in botti di rovere di Slavonia da 30 Hl, in cui rimane per 12 mesi. Al termine di questo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e la massa è trasferita in tonneaux da 5Hl dove sosta almeno 8 mesi; quindi il vino viene messo in bottiglia per un affinamento di altri 4-6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino con venature violacee, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di confettura di more, sensazioni floreali di mammola e rose rosse abbinate a piacevoli nuances speziate di caffè tostato, tabacco e bastoncino di liquirizia. In bocca risulta morbido, equilibrato, di grande finezza e ben armonizzato; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997 - 1998 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dallo stemma aziendale su cui è rappresentato un grifone, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Cocci Grifoni dal 1969, l’azienda agricola si estende su una superficie di 80 Ha, di cui 40 vitati e 40 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge le funzioni di enologo Paola Cocci Grifoni con la consulenza di Roberto Potentini.

Altri vini I Bianchi: Falerio dei Colli Ascolani DOC Vigneti San Basso (Pecorino 30%, Passerina 30%, Trebbiano 20%, Verdicchio 20%) Offida Pecorino DOC Podere Colle Vecchio (Pecorino 100%) Offida Passerina DOC Spumante Brut (Passerina 100%) Offida Passerina DOC Passito Prosit (Passerina 100%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Superiore Vigna Messieri (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Rosso Piceno DOC Superiore Le Torri (Montepulciano 60%, Sangiovese 40%)

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TERRE CORTESI MONCARO Doriano Marchetti Ci sono aziende che sono riuscite a integrarsi perfettamente con il territorio in cui operano, contribuendo con la loro presenza a incidere sulla sua storia. Credo che in questo ristretto numero di aziende possa essere inserita di diritto la Terre Cortesi Moncaro, una cantina cooperativa che ha contribuito enormemente, durante l’arco dei suoi quarant’anni di attività, a tutelare e a consolidare i giacimenti vitivinicoli dapprima nella provincia di Ancona e poi anche in quella di Ascoli Piceno. Un’attività che è stata un punto di riferimento importante per il tessuto socio-economico del comparto agricolo di queste aree, contraddistinguendo e tutelando anche l’aspetto architettonico, paesaggistico e storico del territorio. La storia dell’operosità di quest’azienda parte da lontano, dalla metà degli anni ‘60, anni in cui veniva abrogata definitivamente la mezzadria e le nuove aziende agricole, che nascevano un po’ ovunque, si ritrovavano nell’impellenza di ricercare sbocchi commerciali che si orientassero, principalmente, per la produzione cerealicola verso i Consorzi Provinciali e per quella viticola verso le nuove cantine “sociali”, che avevano forme giuridiche più o meno simili in tutta Italia. Quegli anni ‘60 erano segnati dalle grandi innovazioni, dall’industrializzazione, dall’ingresso della chimica e della meccanizzazione in agricoltura e incominciavano a giungere, da una lontanissima Bruxelles, normative e incentivi che la neonata Comunità Europea elargiva per sostenere l’agricoltura della vecchia Europa ormai arrivata allo sbando. Nel frattempo si cominciava a intravedere, senza capirne i tratti, il vero volto della globalizzazione e gli scopi di quel mercato comune che avrebbe condizionato le scelte future dell’intero comparto vitivinicolo. Fu così che quest’area, storicamente contraddistinta da una buona sensibilità associativa, favorì la nascita di questa

cooperativa che, immediatamente, riuscì a trovare sbocchi commerciali alla sua produzione, puntando fin da subito sulla forza derivata dall’unione dei soci, ognuno dei quali condivideva gli obiettivi della cantina e dava il suo maggiore contributo per ottenere il miglior risultato possibile. Era il 1968, l’anno in cui nasceva il disciplinare del Verdicchio dei Castelli di Jesi e iniziava la rapida trasformazione di queste colline che si ornarono di vigneti, modificando radicalmente, in breve tempo, l’aspetto. Dal paesaggio sparirono quasi completamente quelle coltivazioni promiscue che avevano caratterizzato la mezzadria e si passò alle monoculture e all’orientamento verso una viticoltura sempre più specializzata. Da allora sono passati molti anni e oggi questa cantina sociale rappresenta la più grande realtà vitivinicola delle Marche, con oltre 1000 soci conferitori che operano su 1600 ettari vitati, dai quali si ottengono circa 100.000 ettolitri di vino l’anno, con oltre 9.000.000 di bottiglie commercializzate e distribuite in 25 paesi del mondo. Posso assicurare che, per una cantina cooperativa, ottenere simili risultati non è facile, così come non lo è stato riuscire a mantenere un trend operativo così positivo per tutti questi anni senza subire né flessioni, né dismissioni e senza aver mai aver ricevuto finanziamenti a fondo perduto. Per ottenere simili obiettivi è necessario gestire l’insieme con una continuità decisionale utile per costruire progetti a lunga scadenza in grado di traghettare la cooperativa nel futuro. È forse per questo che, in questa cantina, la figura del Presidente e quella del Direttore Generale coincidono; cariche che mi onoro di ricoprire, ininterrottamente, ormai dal 1999. Il mio è comunque un lavoro complesso svolto in équipe, in piena sintonia con il consiglio d’amministrazione, con tutti i miei collaboratori e con l’appoggio e la fiducia dei nostri soci,

ognuno dei quali si adopera in modo coerente con la politica imprenditoriale che abbiamo concordato, al fine di essere tutti partecipi del percorso che abbiamo intrapreso. In questo “esercizio collettivo” sono anni che tutti poniamo attenzione all’aspetto qualitativo della nostra produzione, fattore che è sempre stato considerato un valore non solo primario, ma di sopravvivenza per la nostra cantina. Scelte che ci hanno condotto a risolvere, gradatamente, tutte quelle problematiche che interferiscono nella filiera produttiva che va dalla vigna alla bottiglia, problematiche che possono influire in maniera molto determinante sul risultato finale. Ecco quindi che ci siamo attivati sia per gestire direttamente, con uno staff professionale, gran parte dei vigneti, sia aggiornando di continuo gli standard operativi della cantina, così da avere le stesse opportunità, detenute da qualsiasi altra grande azienda privata, di confrontarsi con il mercato in modo propositivo. I nostri soci hanno capito che, per poter stare sul mercato e misurarsi con gli altri, è necessario ragionare all’unisono su obiettivi comuni che, pur avendo delle priorità strettamente commerciali, contribuiscano non solo ad aumentare la visibilità e il successo dei nostri vini, ma siano capaci di dare una maggiore caratterizzazione e tipicizzazione ai vini prodotti, vero e proprio biglietto da visita dei territori di Montecarotto, del Conero e del Piceno, i tre distretti di nostra competenza. È innegabile che oggi l’agricoltura stia attraversando un momento di riorganizzazione molto impegnativo per tutte le forze che operano al suo interno, ma credo che, proprio in momenti così complessi, assuma più valore il ruolo delle cooperative vitivinicole, convinti come siamo che attraverso l’aggregazione si possano trovare le argomentazioni per accettare, e magari vincere, la sfida che ci viene lanciata dalle altre aree vitivinicole del mondo.

era proprio l’anno in cui nasceva il


disciplinare del Verdicchio dei Castelli di Jesi


TERRE CORTESI MONCARO


Campo delle Mura Rosso Piceno DOC Superiore

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Verde di Ca’ Ruptae (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Vigna Novali (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Passito Tordiruta (Verdicchio 100%) I Rossi: Rosso Conero DOC Riserva Cimerio (Montepulciano 100%) Rosso Conero DOC Riserva Vigneti del Parco (Montepulciano 100%) Gaudente IGT Marche (Lacrima 100%)

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano e Sangiovese provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Campo delle Mura, tra i comuni di Acquaviva Picena e Monteprandone, le cui viti hanno un’età di 10 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni sciolti tendenti al sabbioso, calcarei e ciottolosi, sono posizionati ad un’altitudine di 260 metri s.l.m., con un’esposizione sud/sud-est. Uve impiegate: Montepulciano 70%, Sangiovese 30% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a doppio guyot Densità di impianto: 2220-6000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: la vendemmia avviene di solito nella seconda e terza decade di ottobre per il Sangiovese e nella seconda decade di ottobre per il 70% delle uve di Montepulciano; il restante 30% del Montepulciano resta in pianta per una surmaturazione di altri 15 giorni circa. Le uve raccolte si avviano poi ad una macerazione prefermentativa a freddo alla temperatura di 10°C per 3-5 giorni, quindi si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni in recipienti troncoconici di rovere ad una temperatura che non supera mai i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che si prolunga per altri 10 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese di primo e secondo passaggio in cui rimane 12 mesi, travasato più volte prima dell’imbottigliamento; dopo una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 5000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino intenso, il vino offre al naso profumi di prugne e marasche sotto spirito, sentori di petali di rose rosse e viole appassite, note speziate dolci e nuances chinate e minerali. In bocca ha una fibra tannica ancora evidente che comunque non infastidisce più di tanto dimostrandosi nel corso della degustazione piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000 - 2002 Note: il vino, che prende il nome dalla località di produzione, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: il nome Terre Cortesi Moncaro nasce dall’unione di “Terre Cortesi” (espressione di diverse “Terre” ognuna con la propria “Corte”) e “Moncaro” (contrazione del nome Montecarotto). Tre sono le cantine: quella di Montecarotto, nel cuore dell’area classica dei Castelli di Jesi; quella a Camerano, alle pendici del Monte Conero e quella di Acquaviva Picena, nell’area superiore del Piceno. La cooperativa è operativa dal 1964 e in essa conferiscono le uve oltre 1000 soci che operano sui vigneti delle tre aree vitivinicole più importanti della regione per una superficie complessiva vitata di 1600 Ha. Collabora in azienda l’agronomo Danilo Coppa, mentre svolge la funzione di enologo Giuliano D’Ignazi con la consulenza di Riccardo Cotarella.

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UMANI RONCHI Michele Bernetti Si dice in genere che la terza generazione sia quella che distrugge ciò che le precedenti hanno creato. Ci siamo. È la mia - ho pensato - e man mano che aumentava il mio coinvolgimento nel lavoro, sentivo crescere in me il peso della responsabilità nei confronti di questa azienda. È stata una consapevolezza di appartenenza che è andata crescendo, basandosi non solo su una questione di business, di bilanci o di conti economici, ma toccando anche le sfere più intime, emotive ed emozionali.

commerciale. Aree operative che al loro interno ne racchiudono altre, di piccola e grande rilevanza, che ho cercato in questi anni di assimilare, sotto l’aspetto conoscitivo e culturale, così da poter stimolare in questo territorio un’importante produzione enologica che facesse riferimento a ciò che mio nonno Roberto Bianchi e mio padre Massimo hanno creato e mi hanno trasferito. È stato un coinvolgimento graduale, ma totale e di questo devo ringraziare mio padre che mi ha dato sempre grande fiducia, ampia libertà di

l’abnegazione per raggiungerlo, mentre sembra essere la responsabilità l’elemento che richiede, più di tutti, il consolidamento e la salvaguardia di ciò che è stato raggiunto. Per questo mi reputo un uomo fortunato, poiché sono riuscito a coniugare le passioni al lavoro, percependo le sottili sfumature e le diverse anime che in esso si contrappongono. Il mio è ormai un coinvolgimento totale che mi porta a visitare regolarmente i duecento ettari dei nostri vigneti e a seguire le fasi operative della cantina disquisendo con chi opera al mio fianco,

Sono stati tanti gli elementi che comunque, dopo la laurea in Economia e Commercio che mi avrebbe aperto le porte di una proficua professione, hanno interagito spingendomi a rimanere nell’azienda di famiglia. Uno di quelli che ritenevo, e ritengo forse il più intrigante di tutti gli altri, è la poliedricità operativa con la quale, quotidianamente, sono chiamato a confrontarmi in questa attività. Un lavoro che solo all’apparenza può sembrare semplice, ma che richiede, invece, sia una buona managerialità, sia specifiche competenze professionali a supporto degli elementi che contribuiscono, tutti insieme, al successo di un’azienda vitivinicola e che riguardano il comparto agrario, quello enologico e quello

scelta e spazio decisionale anche negli aspetti tecnici, dimostrandosi, nei miei confronti, aperto e ben disposto a lasciare il timone del comando. Questa fiducia credo sia derivata dal convincimento nel constatare il mio costante e sempre maggiore coinvolgimento, attraverso il quale ho cercato di coniugare la passione ad un sempre maggiore senso di responsabilità nei confronti della mia azienda. Termini che mi sforzo ancora oggi di tenere distinti fra di loro, al fine di non perdere quelle sottili emozioni e quelle lievi e piacevoli soddisfazioni che ognuna di quelle virtù sa trasmettere, condividendo la tesi che sia la passione a farti amare e a farti perseguire un obiettivo e sia poi l’impegno a darti la forza e

spingendomi anche al di fuori dell’azienda, in mezzo alle terre marchigiane, nella ricerca delle radici e delle tradizioni che contraddistinguevano, un tempo, la vita contadina scandita dai ritmi delle vendemmie, dei raccolti, della caccia e della pesca. Con il passare delle vendemmie, ho la sensazione che tutto appartenga a un piccolo universo che cerco di racchiudere, il più possibile, nel mio vino, all’interno del quale riesco a percepire i paesaggi che contraddistinguono queste splendide Marche, i profumi così unici e inimitabili del vitigno dal quale nasce e i volti degli oltre ottanta uomini che lavorano in cantina o fra le vigne della nostra azienda. È questa la visione che mi porto appresso e che

il difficile e coniugare e distinguere


le passioni, l’impegno e le responsabilità


UMANI RONCHI mi fa star bene. Una sensazione stupenda che si accentua ancora di più quando mi trovo all’estero a degustare, con qualche cliente o importatore, i vini che produciamo. A qualsiasi latitudine o longitudine io sia, godo nel ritrovare dentro quei bicchieri non solo il piccolo universo della Umani Ronchi, ma la mineralità di questa terra marchigiana, i colori di questa campagna e i venti che sferzano la superficie del mare Adriatico. Lì dentro c’è una piccola parte di queste Marche che cerco di portare in giro per il mondo, trasformando quel macrocosmo nell’ambasciatore ideale della laboriosità della nostra terra. È facile percepire quanto io sia legato alla mia regione e mi entusiasma e mi riempie d’orgoglio

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poter raccontare, in quelle degustazioni, a giapponesi, americani o australiani, quali siano quelle mie percezioni gustative. A volte, però, mi sento impotente dinanzi al contrasto che scaturisce tra quel mio racconto, così passionale, sul potenziale qualitativo dei nostri vini marchigiani, e quei volti che rimangono muti e interrogativi, non avendo ben chiaro dove e come sia quella terra che io accuratamente descrivo loro. Scopro così che le Marche, per quei consumatori, mancano di un’identità ben precisa: per molti è una terra astratta persa in qualche parte d’Italia senza un simbolo o un punto di riferimento che la identifichi in maniera inequivocabile e la rappresenti nel loro immaginario. Quando qualcuno di quegli ipotetici clienti

degusta un vino toscano, subito nella sua mente si disegnano i simboli più classici della toscanità: i cipressi di Bolgheri resi immortali dal Carducci, Firenze, la famosissima torre pendente di Pisa; così per un vino siciliano subito si evocano l’Etna, la greca Selinunte o le meravigliose cassate, ma quando uno degusta un vino marchigiano, quali immagini sorgono nella sua mente? Forse è questo l’impegno più difficile che ci attende, una sfida impegnativa che è necessario affrontare insieme per poter risolvere un problema che interessa tutti, non solo gli operatori del settore vitivinicolo, ma l’intero sistema produttivo marchigiano. Del resto ne abbiamo di cose uniche sulle quali puntare, bellezze architettoniche e paesaggistiche che ci vengono invidiate da


Casal di Serra Vecchie Vigne Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore chiunque si aggiri per queste terre, e allora? Certamente ciò che ci frena sono le mille sfaccettature in cui si frammentano le Marche; esse non contribuiscono a rendere di facile risoluzione la problematica evidenziata, né io, del resto, come atipico commercialista, ho una precisa risposta a questo problema e, forse, non l’avrei neanche se fossi un vignaiolo prestato all’economia. In ogni caso, comunque vadano le cose e dovunque io vada, non rinuncio a portarmi dietro un po’ di queste Marche e nella speranza che anche gli altri produttori facciano la stessa cosa, fiducioso, guardo al futuro, appagato dai mille volti che la vita ha saputo sintetizzare per me in un unico concetto: la mia passione per il vino.

Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, posto in località Busche di Montecarotto, nel comune di Montecarotto, le cui viti hanno un’età di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto tendenti all’argilloso, è posizionato ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con un’esposizione che varia da est a sud-est. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone doppio capovolto Densità di impianto: 1700 ceppi per Ha Tecniche di produzione: la vendemmia avviene di solito dopo la prima decade di ottobre. Una volta raccolte le uve, si procede alla pressatura soffice seguìta dalla decantazione statica del mosto. Avviata in tini di acciaio, la fermentazione alcolica si protrae per circa 10 giorni alla temperatura di 18°C; al termine di questo periodo, il vino resta in acciaio per ulteriori 3-4 mesi operando regolari bâtonnages al fine di accrescere complessità e longevità. Successivamente, il vino viene travasato in tini di cemento in cui rimane per altri 8-10 mesi, al termine dei quali si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 3-4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati e offre all’esame olfattivo profumi intensi di albicocca, susina e ananas che lasciano poi spazio a note di fiori di acacia, gelsomino, menta selvatica, salvia e macchia mediterranea. In bocca ha un’entratura elegante, rotonda, con una buona sapidità, caratteristiche che conferiscono freschezza, lunghezza e persistenza. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001 - 2003 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Bernetti dal 1968, l’azienda agricola si estende su una superficie di 200 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Luigi Piersanti e l’enologo Emidio Felicetti con la consulenza di Gianpiero Romana per la parte agronomica e di Giuseppe Caviola per quella enologica.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio di Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Plenio (Verdicchio 100%) Verdicchio di Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Casal di Serra (Verdicchio 100%) Maximo IGT Marche (Sauvignon Blanc 100%) I Rossi: Pelago IGT Marche (Cabernet Sauvignon 50%, Montepulciano 40%, Merlot 10%) Rosso Conero DOC Cùmaro (Montepulciano 100%) Rosso Conero DOC San Lorenzo (Montepulciano 100%)

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VELENOSI Angiolina Piotti Mi piace correre e credo di farlo perché mi fa star bene, mi tiene in forma e per nessuna ragione al mondo rinuncio ad una salutare corsa mattutina. Per passione, per hobby, e anche per mettermi alla prova, ho partecipato a tante maratone, quelle di New York, Londra e Berlino per esempio; ne faccio almeno due o tre l’anno alle quali si vanno a sommare anche altre mezze maratone un po’ ovunque, in Italia o all’estero. Nella maratona sono importanti la resistenza, la volontà, la lealtà, la costanza, la tenacia e l’allenamento, ma ho potuto constatare che non è soltanto un’antica disciplina sportiva, ma una vera e propria filosofia di vita che coinvolge le gambe, la testa, la passione e lo spirito, in un mix complesso di capacità e volontà. Del resto non avrei potuto praticare nessun altro sport, perché, pensandoci bene, la mia vita è sempre stata una lunga maratona, iniziata da tanto tempo e ancora lungi dal concludersi. Una lunga corsa che è iniziata 22 anni fa, quando con mio marito Ercole abbiamo preso in affitto quest’azienda che aveva un’estensione di appena nove ettari. Non so dirti minuziosamente cosa sia accaduto in tutti questi anni: so solo che non ho badato a risparmiare energie e, con una cadenza giusta, ho pensato solo a correre, mettendo una gamba davanti all’altra, un giorno dopo l’altro, senza mai fermarmi o sentirmi soddisfatta. Eravamo giovani, e anche un po’ sprovveduti; del resto non poteva essere diversamente, visto che io avevo fatto gli studi scientifici, mentre Ercole si era diplomato in ragioneria; entrambi conoscevamo poco o nulla del mondo del vino, ma la cosa ci entusiasmava e, per affrontarlo, eravamo disposti a tutto, anche a rimetterci sui libri. Come Forrest Gump ho attraversato la mia vita correndo, lavorando notte e giorno, superando le avversità, le amarezze e i momentanei successi che incontravo lungo il mio percorso, avendo ben chiaro l’obiettivo da raggiungere, che è sempre stato quello di consolidare e far crescere quest’azienda, che non mi ha mai tradito, e che ora basa la sua forza produttiva di oltre un milione di bottiglie, su 140 ettari vitati di nostra proprietà. In questi anni è successo di tutto; anni che sono volati via rotolando in un tourbillon infinito di eventi, sensazioni e passioni.

Una corsa continua con la quale ho superato tanti ostacoli messi uno dietro all’altro. Una maratona che ha ripreso ritmo con quel matrimonio di 22 anni fa ed è proseguita con le centinaia di presentazioni e degustazioni dei miei vini svolte in ogni angolo del mondo, con i figli da crescere, le cresime e le comunioni a cui presenziare, le fiere a cui partecipare, gli agenti da ricercare, gli importatori da incontrare, i vigneti da comprare, le pubbliche relazioni da instaurare e da mantenere, le strategie di marketing da definire, il vino da vendere, i collaboratori da motivare, i premi da

ritirare, fino alla separazione da sopportare; e quindi con la dignità di donna da mantenere, con l’amore per i figli da coltivare, con un tumore da sconfiggere e con la solitudine da accettare. È stato un susseguirsi di cose affrontate tutte in velocità, e come dicevo prima, ponendo sempre una gamba davanti all’altra, un giorno dopo l’altro, senza mai fermarmi. Nessuno me lo ha chiesto, ma si vede forse che sono un talento naturale per questo tipo di attività... Non saprei dirti, però, le ragioni di questo mio correre; so solo che io lo dovevo fare e ho continuato a farlo, senza una risposta tecnica, manageriale o strategica dell’accaduto: è accaduto e basta. So solo che ho corso fino al punto che quasi mi è scoppiato il cuore e

che è stato impossibile arrestarmi. Nessuno avrebbe potuto farlo, anche perché non lo avrei permesso. A me piace ciò che faccio, anche se, quando rallento, incomincio a notare molte più cose, piccole sfumature e molte più tonalità cromatiche della vita e mi chiedo se i miei figli Matteo e Marianna sarebbero stati migliori se la mia corsa si fosse trasformata in una semplice camminata. Non c’è prova che possa fugare questo mio dubbio, ma in fondo io sono serena, perché sapevo e so che sto facendo esattamente ciò che doveva essere fatto per costruire il loro futuro e credo che questa sia la più grande dimostrazione d’amore che potessi dare loro. Sono ormai abituata a correre e sono felice di farlo anche dopo tutti questi anni; del resto sono nata così e non mi vorrei diversa da ciò che sono, visto che questa frenesia mi fa vivere un’infinità di momenti nella loro piena e totale percezione, così da non avere rimpianti, poiché non si può rimpiangere ciò che si è vissuto molto intensamente. Ogni momento è una storia a sé e non ha importanza se può essere anche l’ultimo; non fa differenza, perché quando uno ha sempre seguìto fedelmente la sua strada e ha dato il massimo nella vita non ha paura che le cose finiscano. Come la maratona, anche la mia storia può sembrare monotona e ripetitiva; del resto parlo solo di lavoro e poi ancora, solo e soltanto, di lavoro. Lo so che posso dare l’idea di avere attivato un processo di transfert con la mia azienda e di aver ricercato, in essa, tutto ciò che mi mancava: padre, madre, marito e amore. So che posso dare motivo di pensare che con questa azienda io abbia riempito tutti i miei vuoti esistenziali, affettivi e colmato le mie mancanze caratteriali: e se anche fosse? Il costruirla e vederla crescere mi è stato di grande aiuto e posso assicurare che tutto ciò mi ha fatto da guida e da sostegno più di chiunque altro e forse è per questo che continuo a lavorare per lei e ancora oggi continuo a correre instancabilmente mettendo una gamba davanti all’altra, un giorno dopo l’altro, senza mai fermarmi o sentirmi appagata.

ho fatto forza sulla volontà,


‘

la lealtĂ , la costanza e la tenacia


VELENOSI

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Ludi IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano, Cabernet Sauvignon e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Offida e Castel di Lama, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni prevalentemente argillosi, tendenzialmente calcarei, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Montepulciano 40%, Cabernet Sauvignon 30%, Merlot 30% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a metà ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in fermentini in acciaio inox da 100 Hl per 20-25 giorni ad una temperatura controllata compresa tra i 26 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese nuove a grana fine e media tostatura, in cui rimane per circa 18 mesi. Le varie tipologie di vino vengono tenute separate fino al momento dell’assemblaggio, poi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 26000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino vivace, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di amarena e ciliegia in confettura, cassis, spezie piccanti, note vegetali, liquirizia, tabacco e cacao a cui seguono percezioni balsamiche di eucalipto e menta che si integrano con altre nuances speziate di cannella e pepe bianco. In bocca è caldo, sapido, equilibrato, ben armonizzato; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2001 Note: il vino, nato come un “gioco” (la radice latina del nome ne è la conferma), raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà di Ercole Velenosi, Angiolina Piotti e Paolo Garbini, l’azienda agricola si estende su una superficie di 140 Ha, di cui 105 vitati e 35 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Francesco Piccirillo e l’enologo Attilio Pagli.

Altri vini I Bianchi: Rêve di Villa Angela IGT Marche (Chardonnay 100%) Linagre di Villa Angela IGT Marche (Sauvignon 100%) Falerio dei Colli Ascolani DOC Vigna Solaria (Trebbiano 40%, Passerina 30%, Pecorino 20%) Velenosi Brut VSQ Metodo Classico (Chardonnay 70%, Pinot Nero 30%) I Rossi: Rosso Piceno DOC Superiore Roggio del Filare (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%) Rosso Piceno DOC Il Brecciarolo (Montepulciano 70%, Sangiovese 30%)

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VIGNAMATO Maurizio Ceci con la moglie Serenella Merli e i figli Francesco, Alessandra e Andrea Sono sempre stata legata ad Amato, mio suocero, che mi ha insegnato più di ogni altra persona ad apprezzare la vita di campagna e a lavorare in cantina. Conosceva bene quali fossero le soddisfazioni, le frustrazioni e i sacrifici che arrivano dalla terra e quali fossero invece i piccoli segreti che si instaurano tra chi fa questo lavoro e le proprie vigne. Il suo era un legame forte e onesto con l’ambiente che lo circondava, forse perché essendo stato uno dei quindici figli che Umberto Ceci aveva messo al mondo, dovette lottare

che mi lega a lei, costringendomi a lottare per essa fino all’ultimo respiro, in balìa delle paure, delle incertezze, delle sfide, dell’amore e delle soddisfazioni che vado cercando per alimentare l’insaziabile motore del mio ego. Credo che comunque vi sia qualcuno lassù che disegna in modo bizzarro il nostro divenire e ogni nuovo giorno fa sì che sia diverso, costringendoci a metterci di fronte a delle scelte che ci consentono non solo di orientare il nostro domani, ma anche di misurarci con ciò che siamo. Così come succede ora che sei venuto a trovarmi e ho

i miei figli, messi così in successione, non per importanza, come potrebbe suggerire il concetto di scala musicale, ma solo per ordine di apparizione a questo mondo. Ricordo ancora quando a ventiquattro anni entrai in azienda; rammento che ero in attesa del mio secondogenito, anche se già con la nascita di Alessandra avevo iniziato a prendere i primi contatti con questa ruralità, interessandomi sempre più all’azienda e soprattutto alla cantina dove in tutti questi anni mi sono sempre prodigata con attenzione e passione.

tutta la vita per far crescere quell’unico ettaro che gli era toccato in eredità. Fu per questo che restò legato così tanto a questo luogo e a queste vigne e per lo stesso motivo, forse, mi esortava spesso a tenere sempre sotto controllo la cantina e proprio questa fu l’ultima raccomandazione che mi rivolse prima di morire, proprio a me che sono cresciuta in paese, che ho studiato musica e che non avevo mai avuto segnali di una qualsiasi predisposizione per la natura, la terra o la campagna o per un semplice orto o un giardino che non avevo mai avuto l’occasione di coltivare prima di sposarmi e venire ad abitare qui. Certo, se ci penso, devo proprio dire che la vita è stata bizzarra con me, ma è questa la magia

la possibilità di fermarmi e riflettere pensando a ciò che sono e a quello che sono riuscita a ottenere al fianco sia di mio marito Maurizio, sia dei suoi genitori, sia di questi tre splendidi figli, Alessandra, Andrea e Francesco, che io adoro. Non era certamente questa la vita che doveva scaturire dalla lettura di quegli spartiti, ma, nonostante tutto, quel grande direttore d’orchestra che è Dio mi ha concesso comunque di creare una mia personale musica, composta dalle note che riesco a tirar fuori da questa azienda che sprigiona una melodia che, con gli anni è diventata lieve, leggera e serena come la stessa evoluzione che ho avuto nella mia vita. Una scala musicale sobria che ha per do mio marito, mentre i re, mi, fa e sol siamo io ed

In molti sono convinti che con il vino si fanno i soldi e il solo fatto di produrlo bene consente ai quei pochi fortunati che ci riescono di avere intorno a loro atmosfere magiche e uniche. Invece non è così e tu che giri per tante aziende Italiane lo sai bene che non è questa la verità. Questo è un lavoro che ti guarda in faccia, che ti chiede molto: è un lavoro complesso dove devi saper fare l’agronomo e l’enologo, l’esperto di marketing e il pubblicitario, conoscere le strategie che regolano le pubbliche relazioni e, contemporaneamente, riuscire ad essere un buon amministratore e un ottimo commerciante, avendo cura di non tralasciare il senso del dovere che ti richiede l’essere genitore. È un lavoro che ha bisogno di capacità e di

c’e qualcuno, lassu, che disegna


in modo bizzarro il nostro destino


VIGNAMATO

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saper amalgamare perfettamente le passioni, i sentimenti e il dovere, ma ti posso assicurare che riuscire in questo, come donna, non è facile. Sono sicura che, per chi come noi è partito da zero, qualunque sia il ricavato economico che può scaturire da questo lavoro, lo stesso non potrà ripagare i sacrifici che questa attività ci ha richiesto. Questo è un mestiere che si fa solo se si ha passione, pensando al denaro come ad una conseguenza, non sempre scontata, dell’impegno che si è profuso. Non è il segno positivo sul conto corrente che ti fa alzare all’alba e ti fa lavorare, senza sosta, fino a notte fonda in un turbinìo di mansioni e di attività che è necessario compiere, a prescindere dal livello di stanchezza o dalla quantità di acciacchi che hai addosso. Sto in cantina per ore senza accorgermi che il tempo passa, proseguendo a svolgere meticolosamente quelle tabelle che ho discusso con il mio enologo affinché alla fine della giornata niente rimanga in sospeso. Una precisione e un’attenzione che mio marito ironicamente non smette mai di sottolineare, ma che mi aiuta ad allontanare la stanchezza e mi pone in equilibrio con me stessa, riuscendo ad organizzare fra di loro la passione, il mio senso del dovere e l’amore che nutro per la mia famiglia alla quale dedico i miei sacrifici. Non ci vuole molto per comprendere che fare il cantiniere non è un lavoro prettamente femminile poiché in cantina tutto risulta faticoso e a volte anche molto difficoltoso, richiedendo un’attenzione continua da quando arrivano le uve e, su su, fino all’imbottigliamento. È un lavoro comunque che non cambierei con nessun altro e che mi piace, così come piace a mia suocera Maria, che ancora oggi, a 77 anni, manda avanti le vigne insieme all’agronomo e a qualche dipendente. Nella sua forza vedo un grande rispetto per ciò che ha creato suo marito e con i suoi gesti fra quelle vigne sento che in qualche modo onora Amato ripetendo a quei filari le stesse cure che riservava al compagno della sua vita. La nostra è una piccola realtà; sappiamo benissimo che dobbiamo far conto soltanto sul pezzo di vigna che abbiamo a disposizione, ma sappiamo anche che dalla nostra parte abbiamo una grande forza che ci fa superare tutti gli ostacoli e questa è la passione che, posso assicurare, in questa famiglia non è mancata mai.


Versiano Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Battinebbia nel comune di San Paolo di Jesi, le cui viti hanno un’età di 40 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di argilla, sono posizionati ad un’altitudine di 250 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone doppio capovolto e guyot Densità di impianto: 2500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 12°C, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni a 18°C in tini di acciaio nei quali il vino rimane per 3-4 mesi; durante questo periodo vengono effettuati alcuni bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. In seguito il vino viene travasato in altri tini di acciaio inox termocondizionati dove rimane per altri 8 mesi al termine dei quali si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un colore giallo paglierino con riflessi verdolini e all’esame olfattivo offre profumi di fiori freschi di campo e di gelsomino che si allargano a note minerali e a percezioni agrumate di pompelmo rosa con un finale biscottato. In bocca ha un’entratura fresca, rotonda ed equilibrata che accompagna una buona sapidità rendendo il vino fresco, lungo e persistente. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1999 - 2000 - 2001 - 2003 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dalla Pieve del vecchio Castello di San Paolo di Jesi, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà di Serenella Merli dal 2005, l’azienda agricola si estende su una superficie di 10 Ha, di cui 8,5 vitati e 1,5 occupato da un oliveto. Vengono condotti in affitto altri 8 Ha, di cui 5,5 di superficie vitata. Svolge la funzione di agronomo e di enologo Giancarlo Soverchia.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Valle delle Lame (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC Passito Antares (Verdicchio 100%) I Rossi: Esino Rosso DOC Rosolaccio (Montepulciano 60%, Sangiovese 30%, Cabernet Sauvignon e Merlot 10%) Rosso Piceno DOC Campalliano (Montepulciano 80%, Sangiovese 20%)

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VILLA PIGNA Anna Maria Costanza Rozzi Per chi vive in provincia non è semplice creare un distinguo fra le tradizioni dei tempi passati, le necessità del presente e l’idealismo necessario per affrontare il futuro. Tutto si mischia e si ovatta, soprattutto in un territorio come quello ascolano, dove il confronto è visto più come una sfida, a cui rinunciare, che come un momento di crescita. Qui le cose si susseguono lentamente ed è facile afferrarle e farle proprie senza richiedere un grande sforzo e, anche per chi viene da fuori, non è difficile adeguarsi a questa atmosfera che all’inizio affascina per la sua semplicità e scorrevolezza, ma poi annoia per la sua incapacità di appagare l’animo con la sua quotidianità ripetitiva. Tutto è a portata di mano, tutto sembra scattare perfettamente come una serratura bene oliata: dalle amicizie ai servizi, dal rito serale dell’happy hour alla passeggiata domenicale lungo il corso cittadino. Non nego che certe volte mi affascina questa città di Ascoli, un luogo splendido dove tutti conoscono tutti e dove non è difficile, per nessuno, comprendere i ritmi salienti che scandiscono i tempi di questo quieto vivere. Credo che sia così un po’ in tutte le piccole città della provincia italiana, ma io, del resto, conosco solo questa, è qui che vivo, che ho sempre vissuto e di questa sola potrei parlare. È una provincialità sana, alla quale non saprei più rinunciare, poiché in certi momenti ti scalda come una bella coperta di lana che ti protegge dalle intemperie esterne, anche se altre volte ti soffoca e non ti invoglia a guardare al di là delle mura cittadine. Così è stato anche per il comparto vitivinicolo ascolano che, da sempre, ha preferito rimanere quello che era, accontentandosi di essere niente di più o niente di meno di un importante serbatoio di approvvigionamento per le altre regioni viticole italiane. Il lento ma regolare flusso economico che derivava da quegli scambi commerciali era sufficiente per mantenere lo stato delle cose e non aveva importanza che altre aree vinicole crescessero: l’importante era che quel poco arrivasse,

sempre, in ogni modo, ogni anno. Ora sorrido piacevolmente guardando il continuo agitarsi che anima il comparto vinicolo di questa provincia. Non è difficile immaginare che la crisi che ha colpito negli ultimi due o tre anni la vendita del vino sfuso ha allarmato il settore. Ora sono tutti indaffarati a riempire bottiglie su bottiglie, anche chi, fino a poco tempo fa, costruiva mobili, scarpe o magari aveva uno studio notarile. Tutti con le forbici in mano e giù a potare vigne, e giù a riempirsi la bocca di poesia, di passioni soppresse per lungo tempo e di amore per la terra e la natura; amori che non avevano mai confidato per timidezza che ora finalmente sbocciano e consentono loro di narrare storie ricche di fantasie. Ora che i momenti sono difficili, tutti si sono messi a correre: chi a chiudere le stalle e chi a rincorrere i buoi che sono scappati e ognuno, come al solito, per conto proprio. Sorrido pensando a mio padre che, alla fine degli anni Settanta, se ne andava in giro per l’Italia con il cofano pieno di confezioni di vino che produceva in questa cantina. Lui, presidente dell’Ascoli Calcio, carica che ha ricoperto per 27 anni, per primo aveva capito quale fosse la strada da seguire e trent’anni fa aveva tracciato già il percorso capace di identificare sul mercato nazionale la qualità del “sistema” ascolano, fatto di territorio, vino, olio, prodotti tipici, un mix che si è sempre amalgamato con spiccate individualità imprenditoriali; tutti elementi che caratterizzavano, e ancora caratterizzano, questa provincia. Per primo ha portato in giro il nome di Ascoli mettendo sempre in secondo piano il suo. Lui è stato uno dei tanti ascolani veri, schietti, che hanno faticato e lavorato molto per emergere, ma è stato anche uno dei pochi che non ha rinunciato mai, in quel suo dialetto tipico, a parlare di questa terra, di Ascoli e del Rosso Piceno, mentre, quando tornava a casa, raccontava cosa vi fosse al di fuori delle nostre mura cittadine. Lui era così; le stesse energie che profondeva

nel calcio le impiegava in tutte le cose che faceva e se il calcio, come si dice, è passione, divertimento e sacrificio, beh..., lui nel medesimo modo affrontava anche le altre cose della vita con l’ingegno, l’inventiva, la creatività, la tenacia, l’impeto, la tecnica, il raziocinio e l’umiltà di saper accettare le sconfitte e il saper gioire delle vittorie che gli riservava la vita. Oggi mi rendo conto che mio padre apparteneva a una razza di uomini che non esiste più. Guardandomi, credo di aver preso diverse cose da lui. Per alcuni anni ho seguìto, al suo fianco, tutte le partite dei campionati dell’Ascoli Calcio, ma stargli dietro non era facile, lui era sempre in movimento, convinto com’era che il lavoro non tradisse mai e che attraverso l’impegno si ottenessero i risultati. Indubbiamente era una mente libera, sempre pronto a mettersi in discussione e a confrontarsi con altre realtà. E sono queste le stesse cose che cerco di far comprendere a mio figlio, trasmettendogli i valori che mio padre ha insegnato a me. Quando mio padre è venuto a mancare, io già seguivo la cantina da diverso tempo, ma non ancora a tempo pieno come succede invece da dieci anni a questa parte. A quei tempi l’azienda contava quasi 300 ettari e imbottigliavamo un milione e mezzo di bottiglie, fra cui quelle con il classico tappo a vite da uno o due litri. Poi da un certo momento e per un insieme di fattori la situazione è cambiata e abbiamo ridotto di molto le dimensioni aziendali, dismettendo certi affitti, vendendo vigneti troppo lontani dal corpo aziendale, che ora conta 200 ettari, e arrivando a vinificare circa 9000 quintali di uve contro i 60000 di capienza. In ogni modo devo riconoscermi il merito di aver tenuto alta la testa e di essere riuscita, da sola, a continuare a far parlare bene di quest’azienda. Ho fatto quello che mi è stato permesso di fare, confidando solo sul desiderio di portare avanti la storia che mio padre aveva iniziato più di trent’anni fa.

mio padre apparteneva a una razza


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di uomini che non esiste piu


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Rozzano IGT Marche Rosso Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Montepulciano provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Offida, le cui viti hanno un’età media di circa 20 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con forte presenza di argilla e sabbia, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m., con esposizione a nordovest e sud-ovest. Uve impiegate: Montepulciano 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 1600-3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nell’ultima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae in recipienti di acciaio inox per 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 32°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che prosegue per altri 12 giorni durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino effettua la fermentazione malolattica e dopo un breve periodo di stabilizzazione è posto in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane 12 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati 2 travasi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 26000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di confettura di ciliegia e di amarena, note floreali di viola mammola e papavero, oltre a piacevoli percezioni di chiodi di garofano, cannella e liquirizia e ad un finale di eucalipto. In bocca è pieno, fresco, equilibrato, ben armonizzato, con una fibra tannica morbida che riporta alla mente piacevoli sensazioni fruttate; lungo e persistente. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1990 - 1995 - 1997 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dalla famiglia Rozzi, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Rozzi dal 1967, l’azienda agricola si estende su una superficie di 200 Ha, di cui 100 vitati e 100 occupati da oliveti, frutteti, prati e boschi. Collabora in azienda l’enologo Riccardo Cotarella.

Altri vini I Bianchi: Offida Pecorino DOC Rugiasco (Pecorino 85%, Sauvignon Blanc 15%) Falerio dei Colli Ascolani DOC Pliniano (Trebbiano 40%, Pecorino 30%, Passerina 30%) Offida Passerina DOC Majia (Passerina 85%, Sauvignon Blanc 5%, Chardonnay 5%, Verdicchio 5%) I Rossi: Offida Rosso DOC Cabernasco (Montepulciano 50%, Cabernet Sauvignon 30%, Merlot 20%) Rosso Piceno DOC Superiore Vergaio (Montepulciano 60%, Sangiovese 40%) Briccaio IGT Marche (Montepulciano 100%)

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ZACCAGNINI Rosella Zaccagnini con il padre Mario Il mio nome? Rosella Zaccagnini, figlia di Mario, colui che ha fondato e sviluppato l’azienda guardando lontano, oltre l’orizzonte delle colline dei Castelli di Jesi. Sono una che ama l’arte in tutte le sue forme e avrei fatto volentieri il Liceo Artistico, ma in azienda serviva una ragioniera e così ho seguito la volontà di mio padre, più pragmatica che creativa. Quante volte mi ha fatto piangere, quante volte in silenzio ho sopportato il suo rigido modo di educarmi alla vita e quante altre mi sono chiesta quali fossero le motivazioni che lo spingevano a

po’ il morale il fatto che quella severità che richiedeva a me era la stessa, espressa in ugual misura, con tutti i suoi collaboratori in cantina; cercando di stimolare ognuno a dare di più, a migliorarsi in ogni cosa, a mettere tutta la passione e l’attenzione di cui erano capaci, in modo che tutti contribuissero in qualche modo a fare il vino più buono e per esaltare le capacità e la qualità del loro lavoro di vignaioli, quasi come se esserlo qui a Staffolo fosse una responsabilità in più. Non è stato facile stargli accanto; con gli anni

le famiglie dei mezzadri mandavano avanti faticosamente il lavoro. È per questo che, non appena ebbe qualche soldo ricavato dal lavoro imprenditoriale di una ditta d’impianti elettrici che aveva aperto agli inizi degli anni ‘60, decise di comprare questa azienda. Conoscendolo, credo che abbia pensato che questa proprietà gli avrebbe dato maggiori garanzie per una serena vecchiaia, non comprendendo invece che non aveva mai avuto l’indole di poltrire senza far niente, giocando a

chiedermi sempre qualcosa in più rispetto agli altri. La figlia è in genere il fiore all’occhiello di un padre, il cucciolo da custodire, ma la protezione e l’affetto hanno spesso molteplici volti. Non capivo quella durezza, quella disciplina, il dover sempre dimostrare di essere più brava di quanto in definitiva fossi, come all’Università, quando dovevo rifiutare qualsiasi voto che non fosse trenta e lode; nulla bastava, niente era sufficiente, ma tutto era necessario per farmi diventare ciò che lui voleva io diventassi. Credo che lo preoccupasse il fatto che, un giorno, avrei potuto ritrovarmi a compiere quei sacrifici che lui aveva dovuto fare, oltre ogni limite, per ottenere le cose. Mi risollevava un

ho incominciato prima a comprenderlo sempre meglio e poi ad amarlo sempre più, soprattutto ora che, diventando nonno, non lesina tenerezza e attenzioni a mia figlia. Certe volte, davanti alle mie proteste, mi ricordava e mi ricorda ancora che è con i sacrifici che si ottengono le cose e per rafforzare quel duro ma saggio concetto racconta di quando, a undici anni, studiava e lavorava in paese, nel bar di famiglia. Credo che in quella sua adolescenza abbia maturato l’idea che un giorno avrebbe dovuto comprare della terra per sentirsi realizzato. Forse tutto nacque osservando quei quattro o cinque proprietari terrieri che si permettevano di giocare a carte tutto il giorno, infischiandosene della pioggia o del sole, mentre

carte, tutto il giorno, in un bar. Come avrebbe potuto uno come lui, che ha lavorato sempre come un matto, stare tranquillo a godersi ciò che si era guadagnato in una vita di sacrifici? Come è facile constatare anche ora che ha superato i settant’anni, non sta fermo un minuto e credo si sentirebbe morto se non avesse le “mani in pasta” in questa cantina. Lo adoro perché mi è stato sempre vicino e solo ora comprendo che ciò che mi ha dato è stato forse più amore che sofferenza. Devo confessare che, pur non conoscendo molto gli aspetti tecnici del vino, il riuscire a condividere con mio padre l’avventura di questa azienda vitivinicola mi entusiasma,

e con i sacrifici che


si ottengono le cose


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poiché questo suo sogno, che lo ha portato ad acquistare queste terre sulle quali costruire una nuova cantina, è diventato anche il mio. Con il tempo ho compreso che questo mondo del vino mi dà la possibilità di essere finalmente me stessa, di occuparmi di tutti quegli aspetti creativi necessari per la conduzione di una cantina: dalla comunicazione fino alle etichette e al marketing, ponendomi davanti ogni giorno un nuovo problema da risolvere, sul quale ragionare anche con la giusta fantasia. Per una laureata in giurisprudenza come me non è facile comprendere i segreti che regolano l’agricoltura e quali siano quelle sottili differenze che incidono sulla qualità del vino. No, devo ammetterlo con molta onestà che tutto questo non è il mio pane quotidiano, soprattutto avendo, per anni, continuato a ricoprire il ruolo di amministratrice unica di un’azienda metalmeccanica. Comunque, nonostante tutto, ho accettato e condiviso sempre le scelte di mio padre e se oggi questa azienda è diventata una bella realtà che, supportata da grandi investimenti, nell’immediato futuro diventerà tecnologicamente ancora più avanzata, beh... non ti nascondo che è anche un po’ merito mio. Comunque, in questo processo di crescita aziendale e individuale ho capito che non è più sufficiente produrre solo un buon vino, ma che, oggi più che mai, per piccole realtà come la nostra è necessario stimolare il territorio per integrarlo a quel sistema di qualità che adoperiamo nella produzione vitivinicola con delle iniziative specifiche o con una maggiore presenza di strutture turistiche che possano far conoscere sempre più il comune di Staffolo. La qualità quindi alla base di tutto. Dopo la ristrutturazione dei casolari, finalizzata all’obiettivo di cui parlavo prima, sappiamo benissimo che ci saranno molte altre cose a cui dovremmo pensare, anche se è ormai da anni che stiamo investendo nella ricerca enologica, nella sperimentazione clonale dei vigneti, ottenendo risultati che ci gratificano e che ci stimolano a proseguire verso il futuro con curiosità e decisione. Forse vi chiederete perché sia io a parlare, se poi racconto di mio padre. È una domanda legittima, ma io non esisterei senza di lui, come non esisterebbero l’azienda, né l’agriturismo, né la cantina; quindi, di cosa mai avrei dovuto parlare?


Pier delle Vigne Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Verdicchio provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in contrada Salmàgina, nel comune di Staffolo, le cui viti hanno un’età media di 18 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con presenza di argilla e sabbia, sono posizionati ad un’altitudine di 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Verdicchio 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a doppio guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia che si effettua di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 12°C per 12 ore, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 14 giorni, alla temperatura di 18°C ed è svolta parte in tini di acciaio e parte in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di secondo e terzo passaggio. Al termine di questo periodo, il vino viene assemblato e messo tutto in barriques, dove svolge interamente la fermentazione malolattica e in cui rimane 8 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. In seguito si procede all’assemblaggio delle partite, quindi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi verdolini e con profumi di nocciole tostate ed erbe aromatiche, a cui si aggiungono percezioni olfattive che via via si aprono a note di frutta a pasta gialla come pesche e susine oltre a fiori di campo e vaniglia. In bocca ha un’entratura elegante, equilibrata, rotonda, sapida, fresca; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1995 - 1997 - 2002 - 2003 Note: il vino, che prende il nome da un personaggio della Divina Commedia, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà di Mario Zaccagnini e Livia Cerioni dal 1975, nel 2002 subentrano la figlia Rosella Zaccagnini e il marito Franco Boezio. L’azienda agricola si estende su una superficie di 75 Ha, di cui 25 vitati e 50 occupati da seminativi e oliveti. Collabora in azienda l’agronomo Alberto Mazzoni, mentre svolge funzione di consulenza enologica la società Enoconsulting di Alberto Musatti.

Altri vini I Bianchi: Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Riserva Maestro di Staffolo (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore Salmàgina (Verdicchio 100%) Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico DOC Superiore (Verdicchio 100%) Zaccagnini Brut Riserva (Verdicchio 50%, Chardonnay 30%, Pinot Nero 10%, Pinot Bianco 10%) I Rossi: Vigna Vescovi IGT Marche (Cabernet Sauvignon 60%, Montepulciano 20%, Pinot Nero 20%) Rosso Piceno DOC (Sangiovese 60%, Montepulciano 40%)

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2006 presso la Tap Grafiche S.p.A. Poggibonsi (SI) - Italy



Le Marche... l’orto del vino

Dopo aver viaggiato, vissuto, visto e percepito i molteplici aspetti delle principali aree vitivinicole della Toscana, della Sicilia, del Friuli e del Piemonte, nel quinto volume della collana “I grandi vini d'Italia” ho voluto raccontare le Marche (...). Mi sono lasciato piacevolmente andare nella descrizione di una nuova regione e di nuovi vignaioli, cercando di raccontarvi le caratteristiche di questi grandi solisti che ho scoperto essere, più che in qualsiasi altra parte d'Italia, poco avvezzi a “cantare in un coro”. Ho provato a stimolarli, a provocarli, cercando di abbattere quell'innata reticenza al dialogo che li contraddistingue, fornendo loro l'opportunità di raccontarsi e di sentirsi, per una volta, artefici della promozione del loro splendido territorio, contribuendo, attraverso questo lavoro editoriale, a dare lustro ad una terra che meriterebbe più attenzione nel panorama enoturistico nazionale (...). Man mano che trascorrevano i giorni scoprivo una regione di una bellezza unica, composta da colline che si alternano a valli le quali digradano, trasversalmente, fino al mare. Una regione le cui terre, nel loro insieme mi sono apparse comunque strane, anzi direi quasi difficili e molto più complesse di quanto invece diano a vedere. Chiuse e restìe a farsi scoprire, si sono mostrate più percorribili che fruibili, anche se, devo dire, che è stata proprio questa loro unicità a rendermele intriganti (...). A posteriori, comunque, posso assicurare di aver “vissuto” una grande regione e di aver conosciuto dei buoni vignaioli ai quali auguro, nel prossimo futuro, di adoperarsi affinché si sentano un po' più marchigiani e meno ascolani, anconetani, maceratesi o pesaresi.


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