Dio è nato per caso

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Vincenzo Datteo

Dio è nato per caso


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Copyright © 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it

ISBN: 978-88-96926-89-5

Vincenzo Datteo, Dio è nato per caso, Antipodes, Palermo 2015


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a zio Franco, con il ricordo, ancora vivo, delle calde lacrime versate mentre, dal balcone, osservavo, con terrore, la Golf bianca interamente sommersa dalla neve e a Mary, inconsapevolmente Mary.

Leggere è evasione, scrivere è libertà.


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Prefazione

L’esigenza di mettere nero su bianco mi ha colpito presto e per caso. Come un fulmine. L’ho scoperto con il senno di poi, quando ho cominciato a mettere un pizzico di sale nella zucca. Quel lampo mi ha centrato, attraversato di netto e, nel suo percorso, ha schiacciato qualche interruttore, ha attivato qualcosa. Non mi ha trasformato in un supereroe o dotato di poteri ultraterreni. È entrata e si è subito celata negli angoli remoti dei miei pigri e acerbi neuroni. Lei c’era e, da organismo monocellulare, ben presto si è trasformato in un bruco vorace, cibandosi delle realtà che osservavo, dei discorsi che ascoltavo, dei libri che leggevo, dei miei primi pensieri innocenti che troppo spesso non uscivano dalla bocca e rimanevano dentro, nel buio, e che andavano a rifornire la dispensa segreta. La bestia cresceva ma serpeggiava oscura, lenta, silenziosa. Ho cominciato a rendermene conto quando ho rispolverato gli archivi impolverati della mia mente. Me ne sono accorto molto tempo dopo, quando, di tanto in tanto, ripensavo ai miei compiti in classe di Italiano. Non so perché, ad un tratto mi sono ritrovato a pensare a quei temi. Di solito, quando faccio una cosa, il perché me lo chiedo sempre. Certo, le risposte non sono quasi mai soddisfacenti, ma almeno c’è da apprezzare il tentativo per il raggiungimento della conoscenza. E così, di punto in bianco, per alcuni pe5


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riodi, mi ritrovai a pensare a quei compiti. La scuola era già lontana da un pezzo, ma la tiravo a me, guardando compiaciuto, nella nuvoletta creata dalla mia mente, la A gigantesca e imponente che si stagliava su un lato della colonna del foglio che conteneva il mio scritto. Era scritta in rosso, dello stesso colore acceso del rossetto dalla mia professoressa di lettere. Se ci penso bene, credo che io, in tutta la mia carriera di studente non proprio modello, non abbia mai scelto altra traccia che quella di attualità. Intendiamoci, non lo facevo perché non studiassi bene l’autore di turno o l’opera del momento. Si è portati a credere che la traccia di attualità sia sempre servita come ancora di salvataggio per gli studenti poco studiosi. E questa è senza dubbio una verità. Ma poi, nel tema di attualità qualcosa, qualcosa, si doveva pur scrivere. E studioso o no, se non conoscevi l’argomento in questione e non sapevi intrecciare bene il soggetto, il verbo ed il complemento, erano cavoli amari lo stesso. Ammetto di non essere stato uno studioso alacre. Tuttavia, anche quando conoscevo come le mie tasche l’argomento del giorno, la mia scelta era già stata fatta. Come al solito. Come sempre. Per otto lunghi anni. Scrivere di attualità mi faceva spaziare, mi disincagliava dalle strette troppo rigide dell’argomento fissato per le altre tracce. L’attinenza al tema doveva comunque esserci ma lo coglievo come un invito a esprimermi su argomenti più reali, più vicini a noi, più vicino a me. E lo trasformavo in un racconto. Ogni storia si camuffava da compito in classe. Ed io, per tre ore, mi alzavo dalla sedia e andavo lontano, in silenzio, senza far rumore. Vagavo per posti diversi, lontani, vicini. Respiravo odori nuovi, profumi leggeri, olezzi nauseanti. Toccavo, gustavo, ascoltavo, osservavo, sentivo. Ed era tutto così vero, potente, reale. La campanella 6


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irrompeva come un calcio nelle parti basse ma il viaggio era fortunatamente terminato in tempo. Piegavo il foglio in due, scarabocchiavo la mia firma, mi alzavo e consegnavo il foglio a righe. Il dorso della mia mano sinistra, sporco d’inchiostro, era la prova tangibile del mio viaggio spazio-temporale. Il bruco non si era trasformato in una farfalla, ma in un serpente. E anche famelico. Mangiava e cresceva. Strisciava e si nascondeva. Ai tempi del liceo, poi, fece capolino tra le righe di un vecchio diario. Che fissa! Ricordo che scribacchiai una storiella su un ragazzo sfigato e che non se la passava proprio alla grande. Non so dire perché lo feci. Perché scrissi di lui. Forse per solidarietà. Non saprei con esattezza. Pensate che fosse un modo per sentirmi solidale nei confronti di quel giovanotto eternamente perseguitato? In parte. Ma, soprattutto, credo lo feci per me stesso. Scoprii una forma di vita. Scoprii un altro mondo. Di sentirmi Dio. Di avere la piena conoscenza del bene e del male. Il serpente, così come fece con la povera Eva, mi si presentò con tutto il suo fascino elettrizzante, che attirava ed incuteva timore. Mi mostrò il suo pomo rosso e succulento, che aveva la forma di una penna stilografica. Il risultato fu che fui cacciato dall’Eden e di essere costretto a guadagnarmi da vivere con il sudore della mia fronte. Diciamo qualcosa di simile. Di sicuro non il parto con dolore. Mia madre, impicciona come al solito (un po’ come Dio nella Genesi o come tutte le mamme), si trovò con quell’affare tra le mani, non certo le Sacre Scritture, a sfogliare le pagine testimoni di tanta drammaticità. Lei, inconsapevole del parassita che dimorava dentro il mio corpo, mi prese in disparte e, visibilmente preoccupata, mi portò in camera chiudendosi la porta alle spalle. Mi chiese se ci fosse qualcosa che non andasse, se 7


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avessi problemi con gli amici e se in generale fosse tutto a posto. Io, alquanto imbarazzato, tentai in qualche modo di farle capire come stavano le cose, ma l’ansia di una madre non si tranquillizza così facilmente. Fu così che mi cadde la mela di mano e lasciai il poveretto a cavarsela comunque con la dura realtà e senza il mio segreto supporto psicologico, a Eva a vedersela da sola con l’incolpevole Adamo e al serpentaccio di filare via come una pecorella smarrita. Per quanto mi riguarda, mi ritrovai a scendere dall’Olimpo e a fare la vita di un comune mortale. Con la fine della scuola smisi anche di scrivere temi di attualità e cominciai a sbattermi per affrontare i problemi di attualità. Anni dopo, quando i peli ormai ispidi cominciarono ad insediare gran parte del mio viso un po’ più spigoloso, in un giorno qualunque d’estate, il serpente che cacciai si ripresentò dinanzi attraverso le sembianze di un Drago. Un Drago a tre teste che sputava fuoco. Terminai di lavorare e invece di tornarmene a casa, mi accesi una sigaretta e rimasi davanti al computer. Parte di questo scritto è frutto di quel fuoco. Parte di questo romanzo ebbe inizio quel giorno qualunque. Così, senza essere stato previsto, senza nessun motivo. Senza nessun compito in classe o ragazzo sofferente che implorasse aiuto. Le dita, come esseri dotati di vita propria, presero a battere sulla tastiera e, proporzionalmente al numero di caratteri impressi su un foglio di word, il numero dei mozziconi di sigarette continuava a crescere nel posacenere. Fuori dalla finestra, il tempo scorreva. I giorni scorrevano. All’interno il tempo si era fermato. Il caldo di quell’anno, lo ricordo bene, fu torrido ma non si faceva sentire. Non quando mi mettevo davanti al monitor. Lì mi rinfrescavo, trovavo refrigerio. Li, le stagioni, le decidevo io. In quel momento tutto si fermava, tutto s’in8


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frangeva contro una bolla invisibile. Io ero Dio. Ero ritornato su, nell’Olimpo. Mi accade ancora oggi. È questo il motivo per cui mi piace scrivere, forse. Non perché soffra di egocentrismo maniacale. Certo, mia moglie dice che sono narcisista, ma non è questo il punto. Io scrivo per vivere, per essere libero. L’ho scoperto per caso. Già, il caso. È diventato il mio credo, la mia religione. Croce e delizia. Il caso regna, muove i fili dell’esistenza, senza malizia, senza un piano congeniato. Lo fa e basta. La conseguenza negativa si chiama Satana, altrimenti Dio. Il caso mi ha fatto conoscere mia moglie che non smette di sbruffare quando mi vede giocare ai videogiochi. Dice che sono troppo grande per certe cose. Il caso mi ha fatto fare le valigie e andare lontano. Qualcuno dice che avevo l’età giusta per prendere e partire. Il caso ha fatto si che la bastarda si portasse via un ragazzo di nome Francesco. Io dico che era troppo presto per essere portato via. Il caso è il protagonista dell’esistenza e di quest’opera scritta casualmente in un giorno fortuito e pubblicata nella maniera più inattesa. Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a cose, persone o fatti è puramente casuale. Ringraziamenti: Vorrei semplicemente ringraziare questa Casa Editrice per avermi dato la possibilità di toccare con mano questo piccolo ghiribizzo che galleggiava nella mia mente già da un po’ di tempo. Ringrazio anche i miei genitori perché se non mi avessero messo al mondo non avrei potuto deliziare i lettori di questa leccornia letteraria. Scherzo, ovviamente. 9


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Capitolo 1

I

l vento che soffiava da est gli scompigliava i lunghi capelli neri. Il ragazzo camminava a testa bassa, con le mani in tasca, immerso nei pensieri. Non pensava a niente di particolare. Nella mente affioravano immagini confuse, sbiadite, che avevano lo scopo di accompagnare il rientro a casa. La sigaretta penzolante dalle labbra, arrivata alla fine della breve corsa, era stata fumata, più che dai suoi polmoni, dal leggero soffio d’aria che spirava. Il viale, come sempre, era quasi deserto. Quel giorno era giustificato. Era la vigilia di Natale. Le saracinesche erano abbassate e nelle case si sentivano le grida di festa. Di solito, nei giorni normali, le uniche presenze che popolavano il quartiere erano vecchi pensionati, perennemente affacciati ai balconi delle abitazioni, intenti a scrutare i pochi passanti della giornata. I più audaci avevano come obiettivo quello di rompere le scatole ai piccoli gruppetti di ragazzini che di tanto in tanto, soprattutto in estate, con il pallone tra i piedi, tentavano d'imitare le gesta eroiche dei loro beniamini calciatori. Per loro sfortuna, le partite che disputavano, più che contro i loro avversari coetanei, avvenivano contro i vecchi rompiballe. Aveva venticinque anni, li aveva compiuti qualche mese prima e non aveva festeggiato. Il giorno del compleanno era diventato uno come gli altri. Era solo il ricordo amaro del11


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l’ennesimo giro di boa. Da bambino era diverso. Tutto era diverso. Anche l’aria era diversa, era più fresca, frizzantina. I colori erano diversi, erano più vivaci, più caldi. I profumi erano diversi, erano più intensi, più decisi. Il giorno del compleanno era il più bello. Era il più bello perché era il suo giorno, era la sua festa. A volte ricordava il giorno del diciottesimo compleanno. Si aggrappava a quel giorno e non lo mollava per diverse ore. Il diciottesimo è il giorno che tutti aspettano per diciotto lunghi anni. Pensava a quei seimilacinquecentosettanta giorni che non passavano mai e che lo facevano fantasticare sul futuro, sui progetti, sui sogni, sulla libertà. Il giorno prima sapeva cosa l’attendeva. Doveva essere una gran festa, la sentiva dentro. Era arrivato al seimilacinquecentosessantanovesimo giorno ed era quasi fatta. Quella mattina, cosa più unica che rara, si era svegliato di ottimo umore. Svegliarsi alle cinque del mattino, per prendere il treno che lo conduceva al paese dove frequentava il liceo, non era un gran motivo di gioia. Quel mattino fu diverso. Aveva consumato la nutriente colazione a base di caffè, latte e corn flakes. Poi l’aveva completata con l’immancabile sigaretta lontano dagli occhi indiscreti dei suoi. Era uscito da casa felice come una Pasqua. Quando arrivò in classe era come se non fosse mai giunto, come se avesse marinato la scuola. Effettivamente risultò presente all’appello fatto dal docente d'Italiano ma la mente aveva debordato gli argini della realtà. Aveva trascurato le possibili interrogazioni, aveva ignorato l’ora di educazione fisica (o per meglio dire, la partitella di calcetto contro gli odiosi studenti della quinta D), si era dimenticato d'indossare la tuta ginnica, appuntamento a cui raramente non fosse puntuale, e poi… E poi non aveva pensato neanche per un solo istante a 12


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