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Francesco Pilieci
IL CANTO DELL'UPUPA (Lettere, cartoline, pensierini, citazioni e favolette)
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A mio padre
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Copyright Š 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it ISBN: 978-88-96926-70-3
Francesco Pilieci, Il canto dell’upupa, Antipodes, Palermo 2015
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I
E
ra un tardo pomeriggio di agosto non afoso né umido. Quell’anno l’estate non era stata affatto torrida e le ventole dei condizionatori erano rimaste quasi ferme. Ciò nonostante, Paolo aveva atteso il calar del sole per recarsi al cimitero, come soleva fare ogni giorno quando non aveva impegni inderogabili. Paolo era un uomo di mezza età, con un aspetto qualunque e un lavoro qualunque. Apparteneva a quella schiera di persone che vivono nel più assoluto anonimato, lontanissime dai riflettori della notorietà e completamente incapaci di modificare il corso degli eventi, fossero anche quelli localistici e di basso cabotaggio. Eppure, non era uno sprovveduto. A seguito di un colloquio di lavoro intercorso molti anni prima, così si era espresso su di lui un esaminatore: «Dà un’impressione immediata di modestia, determinata anche da un’immagine esterna alquanto trascurata. Si rivela però subito come una persona attiva, intelligente, tenace e dotata anche di sicura sensibilità psicologica. Interagisce sempre con estrema ragionevolezza, senza mai cadere in banalità e luoghi comuni. Le sue analisi, certamente acute, sono anche ricche di buon senso. 5
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Ha interessi vari, e si diletta persino di poesia, che è un hobby oggi abbastanza raro. Ne ha però un atteggiamento distaccato e simpaticamente auto ironico.» Lungo la strada che portava al cimitero, Paolo incrociò le consuete facce: il pensionato solitario, il ciclista alquanto attempato e il turista ormai vecchio con cappellaccio e bastone. La camminata di Turi, il pensionato, era inconfondibile con quella sua andatura platealmente altalenante. Se non fosse stato bassino di statura, avrebbe potuto stare benissimo accanto ai “giganti” nelle feste padronali. E da giovane Turi i “giganti” li aveva visti spesso ballare nei tanti paesi deve era andato a suonare con la banda. Pur essendo egli sempre stato fondamentalmente un asociale, dopo il pensionamento era diventato un tipo ancora più solitario. Quali erano le ragioni del suo isolamento? Aveva problemi familiari o era affetto da qualche sindrome neurologica? Paolo, schivo di curiosità, non si era mai informato al riguardo. Certamente Turi doveva però avere qualche disturbo alla prostata, considerando che era solito appartarsi all’improvviso per orinare dietro gli alberi o nei vicoli. Ma il fatto che parlasse sistematicamente da solo e con ampia gestualità, anche per le vie cittadine, lasciava supporre che qualche rotella veramente fuori posto ce l’avesse. Pure Gaetano, il ciclista, che in gioventù era stato un fanatico e incompreso poeta e artista, aveva suonato nella stessa banda di Turi. Ah, bei tempi quelli in cui nel paese c’era una sola banda! Di recente, a seguito di una cruenta lotta fratricida senza esclusione di colpi, la banda originaria aveva finito per scindersi dando vita a due distinti e contrapposti complessi bandistici; ma ambedue non erano del tutto autosufficienti e si vedevano costretti a fare costante ricorso all’ausilio di suonatori forestieri. Tra le due compagini, nel tempo, invece che una resipiscenza e una rappacifica6
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zione sia pure utilitaristiche, si era generato un odio insormontabile, e talmente viscerale e ingiustificato da non consentire in alcun modo una ricomposizione. Negli ultimissimi tempi, poi, si era assistito addirittura a una vergognosa campagna acquisti. Tanto accanimento reciproco era forse determinato dal solo fine di strappare forze agli antagonisti per rafforzare il proprio sodalizio? Ma la bassezza dei profili acquisiti lascerebbe supporre anche tutt’altro. E se si trattasse di un meschino tentativo di sfasciare la concorrenza per accaparrarsi tutte le commesse? Solo questione di business, quindi? Qualche rotella arrugginita c’era anche nella testa di Gaetano, altrimenti non si spiegherebbe, alla sua età, una tanto smaniosa iperattività sportiva e un’esagerata e maniacale cura del fisico. Un pochino strano era pure il turista. S’intratteneva in città solo due settimane all’anno. Che bisogno aveva quindi di fare footing tutti i giorni? La sua stranezza era confermata anche dall’atipicità della fascia oraria in cui, sistematicamente da tantissimi anni, si recava al mare, cioè dalle 11,00 alle 15,00 circa. Ma quello non è l’orario più assolato della giornata? L’orario dai medici sconsigliato a tutti e in particolare a bambini e anziani? Ma forse il turista non si sentiva anziano oppure voleva sfidare le convenzioni comuni. Nel prato adiacente alla ripida salita, dalla parte in cui si alzavano maestosi i cipressi, pascolavano le solite capre nane. Giunto nel piazzale del cimitero, Paolo parcheggiò la macchina all’ombra. Appena varcata la soglia, mentre si accingeva a fare il segno della croce, incontrò un vecchio amico che stava uscendo in compagnia del figlio. Scambiate fugacemente le abituali e inderogabili frasi di circostanza, nel salutarlo pensò: «Come si è fatto grande il figlio di Gino! È passato dunque così tanto tempo da quando Gino si è sposato?» 7
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E d’improvviso gli tornò alla mente quel matrimonio, ricordando persino che era rimasto in dubbio fino all’ultimo momento se andarci oppure no. Ne era stata causa Carla. Ossia ciò che Carla, allora fidanzata e in atto moglie di Gino, gli aveva combinato. Alcuni anni prima delle nozze, apparentemente crucciata e sconvolta, Carla era andata a trovare Paolo in ufficio e con occhi vitrei gli aveva comunicato di aver rotto il proprio fidanzamento con Gino. Paolo, ingenuamente sincero e ripetutamente sollecitato con sapiente arguzia da Carla, le aveva riferito le confidenze di Gino, inclusa la seguente affermazione: «Non l’amo e sto con lei solamente perché mi fa comodo.» Illuso di averla tranquillizzata con le solite parole di convenienza e di necessità, nel congedarla le aveva dato la mano che Carla aveva prolungatamente stretto in un’imbarazzante morsa ferrea per una donna e chiaramente allusiva d’altro. Paolo, per spiegarsi le incomprensibili ragioni di quello strano incontro, aveva poi fatto diverse congetture, arrivando perfino a supporre un interessamento sentimentale di lei nei suoi riguardi, per poi esclamare: «O sancta simplicitas!»1, meravigliandosi anche per l’uso imprevisto di quella citazione di cui ignorava la provenienza. «Strano», poi pensò, e al momento non diede più eccessiva importanza all’accaduto. Lo scopo però, e anche ben riuscito di quella visita, era stato tutt’altro: raccogliere informazioni utili da poter rinfacciare al partner, cui la legava un’irresistibile e morbosa attrazione. Intendeva così farsi perdonare per certe marachelle e rimettersi assieme.
“O santa semplicità!” Esclamazione di Giovanni Huss nel vedere un contadino e una vecchia gettare con fanatismo nuova legna nel rogo sul quale egli stava per morire. 1
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E Paolo, inguaribile ingenuo, ne era stato intrappolato come un pollo e inconsapevolmente usato come specchietto per le allodole. Per riuscire nell’intento, Carla non aveva trascurato alcun particolare, dosando mirabilmente persino pause e singhiozzi. Era stata una recitazione esemplare, degna di una nomination all’Oscar. A tanta perfidia non sarebbero nemmeno arrivati gli autori di Dallas, Sentieri e Beautiful! In seguito, scoperte le carte e smascherato l’inganno, Paolo l’aveva evitata a lungo e, anche se in seguito si erano alquanto riavvicinati proprio per l’ insistenza dello stesso Gino, i rapporti non erano tornati mai buoni come prima. Tuttavia, per non peggiorare ulteriormente le cose, all’ultimo momento Paolo aveva deciso di andare comunque al loro matrimonio. La cerimonia non gli era però apparsa entusiasmante e la stessa cena aveva lasciato a desiderare. Era stata una giornata sostanzialmente noiosa, pur essendo cominciata bene per le aspettative suscitate dalle fasi iniziali della concomitante tappa pirenaica del Tour de France. Prima di salire in auto per recarsi in Chiesa, Paolo stava infatti teleassistendo all’impresa di Pantani che aveva attaccato subito Amstrong, partendo da lontano alla maniera dell’indimenticabile Coppi. De Zan e Cassani2 avevano supposto che la fuga solitaria sarebbe andata in porto e che il Pirata, tornato al top della forma, dopo le velenose polemiche conseguenti al tasso elevato di ematocrito riscontratogli al Giro d’Italia, avrebbe potuto indossare la maglia gialla. Invece, ripreso facilmente dal gruppo, era stato distanziato nell’ultima salita ed era arrivato al traguardo con un ritardo abissale. Ufficialmente il motivo della figuraccia era stato attribuito a problemi intestinali, ma nei più vi era la convinzione, non solo il sospetto, che l’eccellente performance degli
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Telecronisti della Rai. 9
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ultimi anni era dovuta al doping. Il suo sessantanovesimo posto alle Olimpiadi di Sydney apparve come un’ulteriore conferma. Nel percorrere il vialetto d’ingresso del cimitero, a Paolo era subito venuta in mente, per un’inattesa associazione logica, la seguente reminiscenza scolastica: «Sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna.» «Di chi sono questi versi?», si era subito chiesto Paolo. Ma, prima di darsi una risposta, ecco affiorare un’altra reminiscenza: «Carneade, chi era costui?» Alle due reminiscenze ne era incomprensibilmente seguita una terza, una quarta e così via. A decine. «Che cosa mi sta succedendo? Basta per l’amore di Dio!» A quella invocazione seguì immediatamente uno stop alle reminiscenze, ma gli avvenimenti furono tanto eclatanti che Paolo ne rimase turbato per diverse ore.
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