Il chirurgo che amava le orecchiette

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{Narrativa}

Mario Grasso

IL CHIRURGO CHE AMAVA LE ORECCHIETTE


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Copyright Š 2018 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it ISBN:978-88-99751-43-2

Mario Grasso, Il chirurgo che amava le orecchiette, Antipodes, Palermo 2018


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Nessuno riuscirĂ mai a comprendere il dolore di una madre per la morte del figlio, una sofferenza unica e profonda, che scortica la pelle e strappa di dosso pezzi di carne.


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uell’incontro, i due giovani non l’avrebbero dimenticato facilmente. Non era stato facile prendere la decisione, ma ora erano lì, pronti a sostenerla con convinzione. Una convinzione che nasceva dall’interno, dal corpo oltre che dalla mente. «Abbiamo deciso di adottarlo» annunciò lei. La signora non ebbe reazioni, se non quella d’intrecciare le mani. La sua voce si mantenne calma, forse anche troppo, e professionale, chissà quanto involontariamente. Guardò il marito, per leggergli sul volto l’effetto prodotto dalle parole della ragazza. Poi disse: «Adottare è una scelta sofferta. Significa essere genitori di un figlio non generato. Nel vostro caso inoltre, sarebbe un bambino che, inconsapevolmente, si trascina dietro una storia personale dolorosa, che voi vivreste ogni giorno». «Quella storia è già dentro di noi» obiettò il ragazzo. «Farebbe parte di noi anche se non l’adottassimo, voi due lo sapete bene» gli fece eco la compagna. «Un giorno avrete figli vostri… » «Sì, e lui sarà il loro fratello maggiore» asserì lei, convinta. «Ho capito che non ci saremmo più lasciati quando l’ho preso in braccio per la prima volta. Qualcosa mi ha trafitto, la vista si è annebbiata, non sentivo più alcun rumore, ero come sollevata da terra, volevo che il tempo si fermasse per non perdere nemmeno un attimo di quell’esperienza. Ho provato il desiderio di offrirgli 5


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il mio seno, ma mi sono limitata a un bacio sulla fronte. Ho cominciato a sudare, sentivo i capelli attaccarsi alla pelle, qualcosa di umido che mi scivolava lungo la schiena. Per me è nato in quel momento. Quando ha alzato la manina e mi ha toccato il viso, ho capito che era mio» concluse la ragazza con occhi lucidi e voce tremolante. Sulle mani della donna, che continuavano a stringersi l’un l’altra per farsi coraggio, cadde una lacrima che asciugò col fazzolettino di carta portole con premura dal marito. «Pensateci ancora un po’» suggerì con un filo di voce. «Oh, lo stiamo facendo» la rassicurò la giovane. «Arriveremo all’adozione dopo aver frequentato un corso di preparazione, e soprattutto dopo averne parlato a lungo fra di noi. Questo lo abbiamo già fatto in verità, ma continueremo a confrontarci». Il singhiozzo della signora si fece più prepotente, e suonò come un grido d’aiuto. Il marito le cinse protettivo le spalle. «Non lo adottiamo perché ci appartenga, siamo noi che apparteniamo a lui» precisò il ragazzo. «Vi fate carico di una grande responsabilità. In un’adozione non sono sufficienti affetto e cure, perché si affrontano problematiche più complesse rispetto al normale». «La psicologa dice che non dobbiamo rendere il problema più grande di quanto non sia. Il bambino non ha vissuto traumi di abbandono perché non ha avuto occasione di sviluppare una relazione d’attaccamento con la figura materna. Questo ci consentirà di stare più sereni e di non trasmettergli apprensione». «Ci ha anche detto che noi non abbiamo alcun lutto di sterilità da elaborare, e questo ci aiuterà a destinare le nostre energie al suo bisogno primario di protezione e accudimento». «E non dobbiamo dimenticare che noi tutti siamo stati la sua famiglia fin dall’inizio… » 6


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I due ragazzi si presero per mano, quasi a volersi scambiare forza e coraggio, poi lei affermò: «Non vogliamo sentirci protagonisti di un ‘bel gesto’ o farci belli agli occhi della comunità. Saremo semplicemente dei genitori, proprio come tutti gli altri, con mancanze, pregi e difetti. Solo più controllati, monitorati dai vari psicologi e operatori sociali che incontreremo nel percorso adottivo, che immaginiamo lungo e tortuoso». «Ma questo non ci spaventa» concluse lui.

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2 «Codice rosso!» urlò il medico al telefono di bordo dell’ambulanza per allertare le strutture del Policlinico verso cui correvano a sirene spiegate. All’ospedale, dove arrivò in condizioni più che disperate, appresero dai documenti che si chiamava Angelo e che aveva poco più di vent’anni quando la Signora Nera l’aveva falciato con un’auto di grossa cilindrata, disarcionandolo dal suo cavallo a due ruote. L’incidente era avvenuto sulla complanare di Bari. Il conducente aveva tentato una disperata frenata, documentata dai segni sull’asfalto, ma l’impatto violentissimo aveva reso vano ogni tentativo di salvare la vittima. I rilievi della polizia avrebbero accertato un’imprudente svolta a sinistra del mezzo leggero, decisa probabilmente all’ultimo istante. Nel portafogli del ragazzo trovarono una tessera che lo qualificava come donatore consapevole, e ciò contribuì a rendere più frenetiche le attività intorno a lui. Fu subito evidente il suo appuntamento col destino, che si fa beffe di chiunque sconvolgendo progetti, irridendo attese, rubando speranze. Un’altra conferma di quanto la vita sia un filo di seta sospeso fra lame taglienti: basta una bava di vento per essere trafitto da una di esse. Dopo aver rispettato i protocolli previsti dalla legge in merito agli “accertamenti della morte”, con un’aggressiva terapia intensiva venne azionata la respirazione forzata, per mantenere ‘vivo’ il bat8


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tito del cuore e l’irrorazione degli organi: il soggetto era giovane, il candidato ideale per una donazione. Fu subito avviata la procedura di segnalazione al centro trapianti e attivato il contatto coi parenti. La madre di Angelo dovette fare poca strada: era già al Policlinico, col quale collaborava in veste di ricercatrice universitaria. Trovò ad attenderla un medico che conosceva da tempo, famoso nell’ambiente perché era stato un sacerdote. Svolgeva un lavoro inusuale: il ‘procacciatore di organi’, un mediatore fra il sistema sanitario e le famiglie per sensibilizzare quest’ultime sulla necessità delle donazioni. «Senza esercitare indebite pressioni» le aveva spiegato una volta, sottolineando i due principali problemi della sua professione: far capire ai congiunti che la sua non era una bieca attività commerciale, che non era un mercante di pezzi del corpo umano; rendere comprensibile il concetto di ‘morte cerebrale’, effettivamente difficile da digerire. Molte persone infatti, erano convinte che fosse uno stato ‘vicino alla morte’, mentre lui s’impegnava a spiegare che in quella fase si era già ‘oltre la morte’. Non si atteneva a un metodo predefinito per fronteggiare il problema, lasciava che fosse il suo istinto a suggerirgli come avvicinarsi, di volta in volta, al dolore delle famiglie, evitando penose sollecitazioni ma anche lungaggini, perché il prelievo di un organo ha delle rigide tempistiche da rispettare. Si era sempre rifiutato di mascherare la natura bizzarra del suo lavoro. Preferiva essere diretto, evitando di ricorrere, come facevano molti suoi colleghi, a contorti giri di parole che sortivano l’effetto paradossale di farli apparire ancora più freddi e distaccati. Un modo di essere, il loro, che li costringeva a reprimere costantemente i sentimenti per poi sfogare la tensione accumulata abbandonandosi, nei momenti di relax, al racconto di storie truci e di orribili barzellette sul tema del trapasso. 9


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Il contatto più difficile lo aveva vissuto solo pochi mesi prima, al telefono con un signore che desiderava consigli su come portare a termine un suicidio senza pregiudicare gli organi, che voleva donare per trapianti. Il sacerdote che albergava in lui si era schierato a difesa della vita. Inutilmente, aveva scoperto il giorno dopo. Lei aveva intuito all’istante perché quel medico l’aspettasse e si era lasciata condurre nella camera di Angelo. Il corpo del ragazzo era lì, senza vita e senza una ragione per non averla. Sembrava dormire tranquillamente. Non presentava segni di traumi visibili o ferite, ma era collegato a un autorespiratore elettronico che ventilava in lui ossigeno: dunque ogni sua funzione vitale era connessa a una specifica macchina. Nessuno riuscirà mai a comprendere il dolore di una madre per la morte del figlio, una sofferenza unica e profonda, che scortica la pelle e strappa di dosso pezzi di carne. Avrebbe voluto urlare, per liberare quel dolore che la devastava, per far sapere che si sentiva tradita e derubata, per vomitare la rabbia che provava perfino contro Dio, il quale aveva consentito una cosa così orribile. Ma nulla le avrebbe restituito il suo angelo, il suo Angelo, quindi decise di trattenere in sé la disperazione, per avvolgervi dentro i ricordi. L’uomo intuì l’uragano emotivo che la stava sconvolgendo, contro cui ogni parola sarebbe stata banale e impropria, e il medico chiuse gli occhi, quasi a proteggersi da quell’immagine di estrema sofferenza, ma il sacerdote che fu disse: «Lo ricorderò nelle mie preghiere». Poi aggiunse: «Torno fra poco» e lasciò la camera portandosi dietro la tragedia della sua amica e la consapevolezza che fosse giusto allontanarsi. Tornò dopo un’ora, una goccia del mare di tempo che lei aveva sognato di condividere col suo bambino. Era accompagnato dal padre di Angelo, il quale cinse con le braccia le spalle della moglie, 10


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