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Michele Protopapas
Incidenti di consapevolezza
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When you know that your time is close at hand Maybe then you'll begin to understand Life down here is just a strange illusion. (Steve Harris “Hallowed be Thy Name�.)
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Copyright Š 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it In copertina: Man no 3 di Konstantin Meyer ISBN: 978-88-96926-68-0
Michele Protopapas, Incidenti di consapevolezza, Antipodes, Palermo 2015
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Passeggiata col nonno
A
spettavo sempre con ansia che mio nonno si svegliasse dalla sua pennica pomeridiana. Sapevo anche che non dovevo essere impaziente e che non dovevo disturbarlo durante il suo riposo; approfittavo quindi di quel tempo per svolgere in fretta tutti i compiti per l’indomani e, se ancora non si fosse svegliato, guardavo un po’ di cartoni animati in televisione. Di solito, però, per quell’ora mio nonno era già sveglio e passavo con lui il resto del pomeriggio. A volte mi chiamava al telefono mio padre che viveva in un’altra città, ma da quando si era risposato, capitava sempre meno spesso. Queste erano le giornate che preferivo, quelle nelle quali mia madre mi lasciava a casa dei nonni prima di tornare al lavoro. Le altre erano quelle in cui mi costringeva ad andare con lei nell’ufficio pubblico dove lavorava anche di pomeriggio, quando effettuava lo “straordinario”. Non mi piaceva quel luogo: nonostante se messo a paragone con le palazzine fatiscenti dai cui balconi sbandieravano i panni stesi, l’edificio spiccava per essere monolitico e moderno (secondo i canoni di modernità degli anni sessanta) e le bandiere della Repubblica Italiana, della Regione Siciliana e del Comune di Palermo che sventolavano sopra l’ingresso lo rendevano ancor di più maestoso, all’interno era come 5
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morto. Gli ascensori con le porte automatiche si aprivano su lunghi corridoi in marmo nero ai cui lati si distribuivano le stanze coi nomi degli architetti, degli ingegneri o dei dottori incisi sulle targhette ai lati delle porte, la maggior parte delle quali erano chiuse a chiave; “le stanze degli assenteisti” le definiva mia madre. L’unico luogo dove era possibile trovare degli impiegati era il bar, e anche io e mia madre, dopo un po’, scendevamo per prendere un caffè lei e un gelato o una “genovese” io. A parte la merenda, però, andare con mia madre in ufficio significava stare a guardarla trascrivere alla macchina da scrivere elettronica i documenti manoscritti che di tanto in tanto le portavano oppure, come più spesso accadeva per via della quasi totale mancanza di lavoro, restare in silenzio mentre lei sfogliava riviste di moda. In entrambi i casi non dovevo avvicinarmi a lei per non disturbarla. Rimanevo quindi sul lato opposto della stanza, seduto sull’enorme poltrona girevole su ruote senza neanche usarla come volevo; molte volte pensai di farla roteare come una piccola giostra o di lanciarmi su di essa lungo i corridoi quasi fosse una slitta, ma ero invece costretto a rimanere immobile su quella sedia (seduto quanto più “composto” per evitare ripercussioni), potendo solo immaginare tutte le sue divertenti potenzialità. Ogni volta che disubbidivo arrivavano le urla e i ceffoni di mia madre, che riecheggiavano tra i corridoi vuoti dell’ufficio. Non ho mai avuto un buon rapporto con lei, neanche da bambino, e, a pensarci bene, quei ceffoni erano l’unica forma di contatto fisico che avevamo. Quel giorno ero riuscito a convincerla a lasciarmi dai nonni, avendo promesso che avrei fatto tutti i compiti, anche quelli extrascolastici che lei mi assegnava perché, a suo avviso, nelle scuole pubbliche non si studiava più come ai suoi tempi. Non mi interessava di essere picchiato, ma sapevo che se non le avessi obbedito al suo ritorno avrei sentito le sue urla odiose e stridule e quindi, 6
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anche quel dì, nonostante mio nonno fosse già sveglio, aspettai di finire le divisioni a due cifre, imparai a memoria l’inutile poesia in rime baciate sulle api o sui fiori ed effettuai tutte le analisi logiche e grammaticali, prima di andare a trovarlo nella stanza dove guardava la televisione. Lo trovai già pronto per uscire e probabilmente aspettava solo che io finissi i miei compiti. Mio nonno, infatti, incurante delle mode, delle stagioni e della temperatura, vestiva solamente in due modi: pantaloncini e canottiera bianca di cotone quando stava in casa, pantaloni scuri, camicia, cravatta e la solita giacca verde quando doveva andare fuori. Come al solito, prima di uscire, prese con sé il lungo ombrello con punta in metallo, nonostante fosse aprile, o forse maggio, e fuori ci fosse il caldo rassicurante di un pomeriggio primaverile. Diceva, per giustificarsi, che non si sapeva mai se avrebbe piovuto, o che non esistevano più le mezze stagioni, o che il clima era impazzito oppure che prevenire era meglio che curare, ma io penso che portasse quell’ombrello come bastone da passeggio per nascondere quel suo leggero zoppicare che proprio a quel tempo aveva iniziato a manifestarsi. Ci dirigemmo verso la fermata dell’autobus. Ogni volta che chiedevo quale avremmo preso, mi rispondeva che uno valeva l’altro e che tanto tutti portavano al centro. Io speravo sempre che passasse il numero quaranta, quello che faceva il giro più lungo prima di arrivare al centro e quello in cui più facilmente trovavamo posto a sedere. Mio nonno usava l’automobile solo per andare fuori città, per i restanti suoi spostamenti amava girare coi bus ed era abbonato a tutte le linee. In verità avrebbe dovuto pagare il mio di biglietto, ma mi suggeriva di dire che avevo sette anni (quando in realtà ne dovevo avere otto o nove), così da non dover pagare. Quelle poche volte che salivano i controllori, sempre in due o tre, iniziavano discussioni sul perché non avessi il biglietto, 7
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con gli uomini in blu che mi chiedevano quale fosse la mia età e mi ricordavano che i bugiardi vanno all’inferno, ma prima di rispondere guardavo mio nonno, e lui mi faceva di nascosto l’occhiolino, così potevo rispondere tranquillamente: «Sette!»; ci avrebbe pensato lui a difendermi anche dall’inferno, pensavo. Poi mi godevo, come al teatro, le divertenti sceneggiate interpretate dai controllori e da tutti i passeggeri trovati senza biglietto, i quali inventavano le scuse più divertenti per giustificarsi o usavano trucchi come timbrare più volte lo stesso biglietto, fingere di essere sordi o ciechi, invocare la clemenza divina, oppure scappare in fondo alla vettura, il tutto sino a quando (e succedeva sempre) anche il controllore si arrendeva e smetteva di chiedere biglietti e generalità per soffermarsi a parlare col conducente, nonostante la targa in bella vista “Vietato parlare al conducente”. Ricordo che per tutto il tragitto, seduto sulla scomoda sedia in compensato, anche quel pomeriggio dalla finestra del bus mi ero goduto il paesaggio che scorreva lentamente tra le macchine in fila nel traffico cittadino, quando ancora non c’erano le corsie preferenziali per i mezzi pubblici. Doveva essere tempo di elezioni, perché l’intera città era ricoperta di manifesti elettorali, i quali, in file di tre o quattro manifesti identici, mostravano le facce di vecchi in giacca e cravatta con motti su quanto fossero onesti, oppure capaci, oppure ancora quanto amassero la città. Quando mi soffermavo a leggere quelle scritte mio nonno diceva che i politici erano tutti uguali e tutti ugualmente ladri, e io ricordo che non riuscivo a capacitarmi di come, se veramente fossero stati dei delinquenti, potessero mentire così spudoratamente scrivendo quei motti. Dopo un lungo tragitto, iniziarono le vibrazioni dell’autobus che saltellava sui sampietrini delle strade del centro, allora non asfaltate, e capivo che eravamo giunti a destinazione. Scendemmo in via Roma, prima che l’autobus si riempisse 8
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troppo, poi cominciò il nostro solito giro che aveva inizio dalle bancarelle della Vucciria, dove mio nonno comprava il pesce o la carne perché costava meno che nella nostra zona, ma nonostante ciò mercanteggiava sempre parecchi minuti prima di raggiungere un accordo sul prezzo. Sebbene ogni volta con me si vantasse di aver fatto un buon affare, appena tornavamo a casa e pesava nuovamente la merce acquistata si accorgeva di come fosse stato ingannato per l’ennesima volta; doveva per di più sopportare le accuse di mia nonna che si fidava, invece, solamente dei commercianti locali. Davanti a lei prometteva che non sarebbe più tornato lì a fare compere, ma credo che non gli importasse molto di essere truffato, perché poi ci tornavamo sempre. Dopo aver fatto la spesa, se c’era molto caldo, mi comprava un gelato, ma quel giorno non doveva fare poi così caldo perché dopo il giro per la Vucciria passeggiammo sino ai Quattro Canti di Campagna, dove si trovava l’ambulante che vendeva la caramella, proprio sotto i portici. Mio nonno chiedeva sempre un pezzo appena fatto e non uno di quelli già pronti, così, ogni volta, mi godevo tutta la preparazione di quel dolce. La caramella si otteneva facendo sciogliere e caramellare dello zucchero in una piastra calda, al quale venivano aggiunte mandorle, nocciole o sciroppo di carruba, e il tutto quindi si lasciava raffreddare diventando estremamente duro. Con un martello e un coltello usato come scalpello, poi, il venditore rompeva il dolce, che si spezzava in taglienti lastre simili al vetro, anche nel colore. Quel pezzo di zucchero, così duro e compatto, non poteva essere attaccato dai denti, ma doveva essere fatto sciogliere lentamente in bocca, quindi spesso quel dolce perdurava anche dopo che eravamo rientrati a casa. A volte mi disgustava ma dovevo cercare di mangiarlo per intero, onde evitare le minacce di mio nonno di non comprarmene mai più o di non portarmi più con sé nelle passeggiate. 9
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Da via Ruggero Settimo, dove ci trovavamo quel giorno dopo aver terminato il nostro giro, passava il ventisette, che ci avrebbe portato direttamente a casa, quindi lo aspettammo nella fermata sotto i portici. È strano come i colori nella memoria si modifichino assomigliando a quelli delle vecchie fotografie, come se anche i ricordi subiscano le stesse reazioni chimiche che le deteriorano e scoloriscono. Nonostante, infatti, sia consapevole che quel marmo dei portici dovesse essere bianco, quel paesaggio, come il resto della città, nella mente si è conservato sbiadito e ingiallito, quasi che il cervello usi questa tecnica per far capire che si tratti di un tempo lontano, andato. Ricordo che quel pomeriggio l’autobus ritardò molto e io mi annoiavo all’interno di quel paesaggio stinto, ma dopotutto confortevole. Iniziai, così, a giocare, prendendo a calci un sasso, facendo finta che lo spazio tra le colonne dei portici fosse la porta di un campo di calcio. Il marciapiede e le strade erano piene di quei coriandoli colorati che erano i bigliettini elettorali, sui quali allora era scritto solamente il nome del candidato; a me piacevano, soprattutto quando si alzava un po’ di vento e li faceva svolazzare in giro, ma tutti si lamentavano di come sporcassero la città. Infine il ventisette passò. Mio nonno mi disse che aveva ritardato perché veniva da Vergine Maria, una località che non avevo idea dove si trovasse, ma che di certo doveva essere lontanissima ed esotica, tanto che consideravo l’autista che guidava l’autobus attraverso un così lungo tragitto come un eroe. A causa del ritardo, quella vettura si era molto riempita e procedeva lentamente dietro la carovana di macchine; io ero stanco per la lunga passeggiata e dopo che mio nonno mi trovò un posto a sedere, credo, mi addormentai. Mi risvegliò appena in tempo per farmi suonare il campanello per prenotare la fermata dell’autobus, cosa a cui tenevo molto e mi irritavo se qualche altro passeggero riusciva ad anticiparmi. 10