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{Narrativa}
Simona Burgio
Insomnia di esse
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Copyright © 2018 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it In copertina: “Lunae” di Marta Macedonio. ISBN:978-88-99751-41-8
Simona Burgio, Insomnia di esse, Antipodes, Palermo 2018
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A Giulia e Peppe, senza i quali questo non sarebbe stato possibile.
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I nomi di prodotti e marchi citati nel testo (depositati o registrati dalle rispettive case produttrici o da chi ne detiene la titolarità ) sono menzionati in questo volume senza alcuna finalità pubblicitaria ma solo perchè funzionali alle vicende narrate.
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Prefazione “Insomnia”nasce la notte, che è il momento in cui io scrivo. Quasi millenovecento notti autobiografiche. È l’intreccio delle vite di conoscenti e sconosciuti, della mia famiglia e di chi ne ha fatto parte per brevissimi istanti o lunghissimi anni, il tutto ambientato nella Sicilia della mia infanzia e nella Roma dei giorni nostri. A cavallo tra il 2013 e l’anno zero, “Insomnia” scorre attraverso livelli, campi, e strutture sempre diverse e spesso sconosciute tra loro, così proprio com’è la vita, che non da i tempi, mai, e più fra tutto ha un inizio e una fine. A raccogliere i miei componimenti, furono due tra i miei più cari amici che, nel Natale del 2016, mi regalarono inaspettatamente una copia cartacea, stampata e rilegata a mano. In un modo del tutto casuale e inconscio avevo scritto il mio primo libro, e non lo sapevo.
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2013
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C
8 aprile 2013 osa non si trova nelle cartelle documenti. I cimeli: Grazie a Mario, che ogni anno mi fa gli auguri la notte del ventitrè, perché è convinto che ci leviamo un mese esatto. A Giulia che si inventa sempre modi nuovi per ricordarmi che invecchio. A Peppe che sono più le volte che non c ‘è, ma in realtà c’è, e le volte che c’è finge di dimenticarsene o se ne dimentica davvero. A Claudia che c’era quando ho fatto sei anni, e da diciotto dice: il regalo arriva dopo! A Calò che pressa sempre per brindare in piazza, e arriva sempre o con cinque minuti di anticipo o con cinque di ritardo. A Marta che confeziona pacchetti da prima che nascesse, forse. E ancora si ostina a mettermi il nastro ai sacchetti. Ad Alfonso che non c’è, e poi c’è, e poi non c’è, e poi non ci sono io, però ci siamo. Forse, a volte, di sfuggita, o a lungo. Ma non cambia mai troppo.
Le belle serate mi mettono malinconia, perché le vorrei passare con i miei amici, e poi scovo queste cose. Sarà che la primavera mi mette tristezza, perché sono strana.
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I
6 Maggio 2013 l sabato sera è tradizione per i miei genitori uscire fuori a cena, andare alla solita pizzeria sotto casa, la solita da ormai più di dieci anni. Le pareti linde di quel ristorante sono state testimoni delle più importanti tappe della nostra famiglia, soprattutto lo scandir del tempo. Molte sono state le candeline spente dal fiato di mio padre e di mia madre, seduti al solito tavolo; entrando sulla destra all’angolo, in inverno. In giardino, entrando all’angolo sulla destra, in estate. Capita che le sere d’estate io mi unisca volentieri a loro. Non so di preciso quando avvenne questo passaggio dall’adolescenza a l’età adulta, perché mentre prima attendevo la fine della cena entusiasta per il dopo cena con i miei amici, adesso sono entusiasta dall’inizio della cena. Felice di chiacchierare senza che mio padre alzi di botto il volume della TV per ascoltare una notizia per lui importante, facendo quella lieve smorfia con il naso e la bocca, che sta a significare silenzio!, felice che mia madre non si alzi dalle due alle quattro volte da tavola, per togliere i piatti con gli avanzi di cibo, prima che Ely alla prima svista, non metta il muso sul tavolo e mangi quel che resta del primo, del secondo e soprattutto del nostro dolce. Vivere lontano da casa mi fa apprezzare queste cene, alle quali generalmente partecipo novità importanti della mia vita, che necessitano attenzione assoluta, almeno da parte di mio padre, a mia 10
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madre invece ripeterò più e più volte durante i giorni a seguire, perché lei è fatta così. È capace di comprendere immagazzinare tutto meticolosamente, e di scordarlo ventiquattro ore dopo. Esattamente come me. Tra una portata e l’altra, una sera di Luglio di un anno fa, mi accorsi di una giovane coppia, seduta poco lontano dal nostro tavolo. La cosa che catturò la mia attenzione fu, il loro fissare punti diversi del ristorante durante tutta la durata della cena. I loro sguardi erano intensi, come se stessero avendo un dialogo denso, lui con una non fedelissima riproduzione di Louis Vuitton, appesa allo schienale della sedia del tavolo di fronte, e lei con l’insegna luminosa exit del locale. Sguardi intensi, ma colmi di nulla quando si incrociavano. Per tutta la durata della loro cena, e metà della nostra, non parlarono. Si guardarono quasi distrattamente un paio di volte, e la cosa che mi sgomentò fu la totale naturalezza con cui avvenivano questi loro gesti assenti, e la loro giovane età; non più di vent’anni lei, poco più lui. Li rividi il sabato dopo e quello dopo ancora, divenni pubblico del loro dramma e di una delle mie più grandi paure. Il terrore che un giorno potesse capitare anche a me, di entrare nell’abitudine, di esser protagonista di questi lunghi silenzi, dove non c’è più niente da dirsi, così giovani. Il silenzio di cui parlo io, è quel tipo di silenzio che arriva quando qualcosa è finito, o quando qualcosa non è mai iniziato. Quei due nel tavolo più in là mi misero una grande tristezza, e poi sopraggiunse l’ansia. Le sfaccettature del silenzio, sono tra le più belle sfumature d’intimità e le più angoscianti sfumature di disagio, credo. C’è il silenzio che si palpa con gli occhi e presagisce una lite, o quello che accompagna un pianto, dopo una lite. Il silenzio sano è il mio preferito; quello che può esser interpretato come silenzio d’imbarazzo dall’osservatore distratto, ma che altro non è che un silenzio che parla, ed è il più bello tra tutti i silenzi 11
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secondo me. Il silenzio malato, invece, è il peggiore, il più pericoloso. All’inizio si traveste da silenzio d’imbarazzo, e ti abitui a quel silenzio, quasi non lo distingui più dagli altri, e diventa padrone della tua relazione. Diviene la normalità e si finisce per diventar coppie tristi. Come quei due miei compaesani, alla loro cenetta del sabato. Coppie tristi che non hanno più niente da dirsi, o non si sono mai dette niente.
Un anno più tardi a quei sabato sera, un tardo pomeriggio di maggio mi trovai seduta su di una panchina a Piazza Navona. Dopo una lunga passeggiata ci eravamo seduti. Avevamo camminato tanto per le vie del centro e sudato troppo sull’autobus rimasto imbottigliato nel traffico, trenta minuti. Mi ero fermata ad ammirare tutti gli artisti che dipingevano, chi con bombolette spray, chi con il carboncino, chi con gli acquerelli. Quella piazza di Roma è per me un tripudio alla beltà e alla gioia, in qualsiasi periodo dell’anno c’è sempre qualcosa da ammirare e da osservare, la considero seconda solo all’aeroporto, primo in classifica tra i miei posti preferiti, inno alle connessioni, e alla vita da scrutare, da spiare. Sedevamo uno accanto all’altra. I nostri occhi osservavano la fontana dei quattro fiumi al centro della piazza, proprio di fronte a noi. I nostri corpi erano rivolti ai passanti. A un tratto io volsi lo sguardo verso una ragazza che spingeva un passeggino, mi colpì la sua forma fisica smagliante per esser una mamma, e le sue zeppe vertiginose sui sampietrini capitolini. Per seguirla con lo sguardo, dovetti voltare il viso verso la parte di piazza verso la quale si dirigeva, proprio alle mie spalle, compiendo una torsione forzata del busto. Una volta sparita tra la folla, lentamente mi rigirai, osservando tutta la gente che si trovava nel mio campo visivo. Più di mezzo giro con il busto. Nel rivoltarmi: prima busto, poi viso, in12