La musica andina che noia mortale

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Pietro Lo Cascio

La musica andina che noia mortale


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Ogni riferimento a persone o a fatti realmente accaduti è puramente casuale ma, indubbiamente, qualcosa avrà pur dovuto ispirare questo racconto. Lo vorrei dunque dedicare a coloro che, come me, hanno amato e seguitano ad amare la musica andina; ai tanti musicisti che se ne fregano delle mode e del tempo che passa, continuando a suonare quello che gli piace; infine, a tutti quelli che hanno già trovato la strada per inseguire i propri sogni, o la cercano ancora, perché i sogni valgono molto.


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Copyright Š 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it ISBN: 978-88-96926-41-3

Copertina realizzata da Flavia Grita (armadillo: photo copyright Vlad Lazarenko, cc by sa 3.0). Pietro Lo Cascio, La musica andina che noia mortale, Antipodes, Palermo 2015


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Apologia di un charango

L

’autobus arrancava nel traffico di corso Calatafimi, stracolmo di passeggeri pigiati sui sedili, nel corridoio e persino negli interstizi più angusti. Il conducente si ostinava però a spalancare le bussole ad ogni fermata, forse con il subdolo intento di alleggerirne il carico. Privi di argini che li contenessero, gli occupanti ammassati in prossimità delle aperture sembravano infatti sul punto di tracimarne fuori, ma, ormai avvezzi al periglio, resistevano con rinnovata determinazione. La vista di quell’impenetrabile conglomerato umano faceva sospirare di rassegnazione chiunque avesse sperato di salire a bordo; persino un controllore ci lanciò uno sguardo malinconico, per poi grattarsi un orecchio e sbirciare l’orologio con aria distratta. In compenso, dalle bussole entravano scampoli pastosi di scirocco, e per pochi istanti godevamo della benefica sensazione di respirare qualcosa di diverso dall’afrore dei vicini. Il mio era piuttosto sudaticcio, ma almeno non si lamentava del fatto di avere la mia sacca a tracolla ormai incistata nel suo fianco. Anzi, la guardava con insistenza, come se ne fosse stato ipnotizzato. A un tratto fece un cenno del mento in direzione del manico che sporgeva vistosamente dall’apertura e domandò «che strumento è? Un ukulele?» 5


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«No» gli risposi «un charango» Una massiccia signora incastrata pochi centimetri più avanti, da quell’istante, prese a scrutarci con sospetto. «Infatti» la mia risposta sembrava averlo rincuorato «lo sapevo che non era un ukulele, con tutte ‘ste corde». Dato che la sua conclusione non richiedeva ulteriori approfondimenti, mi girai a guardare altrove. «Mi interessano gli strumenti musicali» riprese lui «sa, io suono il mandolino». Per buona creanza, decisi di annuire. «Il mandolino ha quattro corde doppie» continuò «accordate come il violino, sol re la mi». Gli risposi che il charango ne aveva cinque «sol do mi la mi». «Posso vederlo?» esclamò improvvisamente, mentre con il collo allungato era già proteso a sbirciare nella borsa. Non mi sembrava affatto il caso, ma non volevo essere scortese e tentai di guadagnare tempo, «non adesso, però. Magari aspettiamo quando scende un po’ di gente»; invece, lo vidi arretrare e farsi spazio con una mossa a sorpresa, incurante dei mugugni che si udivano alle sue spalle. Di solito, la vista della corazza di armadillo al posto della cassa armonica produceva reazioni contrastanti. In quel caso, il vicino l’accolse con un «miii» di meraviglia, mentre la signora accanto, che non aveva mai smesso di sovrintendere al nostro turpiloquio, proruppe in un gemito accorato: «ma chi schifìu è?»1 E lo fece in modo talmente appassionato e genuino da innescare una tempestiva catena di solidarietà.

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«Ma che schifo è?»

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Una vecchietta, fino a quel momento piazzata all’altezza del cavo ascellare della signora e apparentemente narcotizzata, si riprese infatti con insospettato vigore e rilanciò l’allarme: «matri santissima, pari un surci!»2, così che tra gli occupanti si sparse rapidamente la notizia che c’era un tizio con un topo nascosto nella borsa, no, non era vivo, era un topo morto incollato a un pezzo di legno, e aveva pure le corde. Prima che la faccenda si arricchisse di altri macabri dettagli, pensai bene di rimettere il mio charango nella borsa. Non potete immaginare che fatica procurarsi un charango a Palermo negli anni Ottanta. Internet non era ancora stato inventato, e se foste entrati da Ricordi per comprarne uno, sarebbe stato più semplice convincere il commesso che Godzilla non era una finzione cinematografica, ma si aggirava per la città e probabilmente stava già calpestando la sua auto nel parcheggio a ore di Piazzale Ungheria. Uno strumento del genere non esisteva, chissà cosa dovevo avere visto, «ora la devo lasciare, c’è gente che aspetta.» Quando gli indicai il chitarrino sulla foto di un disco degli Inti Illimani, il commesso assunse un’espressione agnostica, forse pensando a quanto bislacco dovesse essere il liutaio che aveva usato il guscio di un armadillo per costruire una cassa armonica. «Comunque, da noi non lo può ordinare.» «Mi scusi, perché da voi non lo posso ordinare?» «Qui non trattiamo strumenti di questo tipo» tagliò corto, ri-

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«Madre santissima, sembra un topo!»

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volgendomi un sorriso di commiserazione, «fa prima a trovare qualcuno che glielo porta direttamente dal Sudamerica.» Dopo l’ennesima risposta del genere, nonostante avessi interpellato in più occasioni i vari commessi che si aggiravano nel negozio, mi venne l’idea di dare un’occhiata ai padiglioni etnici della Fiera del Mediterraneo: ce ne sarebbe stato almeno uno del Perù, della Bolivia o di qualche altro paese dove gli armadilli si tengono prudentemente alla larga dalle liuterie. E infatti lo scovai, quasi celato in un capannone discosto e poco illuminato. Il banco era ricoperto da stoffe decorate da file di piccoli lama con arditi accostamenti cromatici, poncho e maglioni di lana grezza e pesantissima che solo a guardarli si rischiava l’ipertermia, idoletti preincaici di terracotta dal ghigno sardonico e, talvolta, dotati di ambiziose protuberanze falliche. Del charango, però, nessuna traccia. Chiesi al tizio dietro al banco, che aveva la stessa espressione degli idoletti; lui, impassibile, appoggiò sul banco un’elegante custodia di velluto rosso e ne sfilò un flauto di canna. «Se vuoi, ho questo». Mentre uscivo sconsolato dal padiglione, mi sentii richiamare «aspetta, aspetta» e tornai indietro. «Tra due mesi torno per un’altra fiera. Se cerchi un charango, te lo posso procurare.» «Benissimo!» Già mi vedevo a pizzicarne le corde sullo sfondo della cordigliera, avvolto da un poncho di lana assassina. «Ma deve essere un charango vero, mi raccomando, non una cosa per turisti.» Da quel momento cominciò un periodo di rigore ascetico: a detta del tizio, infatti, per un charango del genere ci volevano almeno duecentomila lire, una cifra di tutto rispetto per 8


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uno studente che aveva in dotazione una modesta paghetta settimanale. Ma ne valeva certamente la pena. Quel pomeriggio denso di scirocco stavo risalendo Corso Calatafimi in direzione di Monreale, dove avrei dovuto provare con il mio gruppo di musica andina; il nome preferisco dirvelo dopo, confidando nel fatto che poi comprenderete questa iniziale reticenza. Tutto, comunque, aveva avuto inizio dopo aver conosciuto Tanino, che studiava chitarra al Conservatorio e la domenica mattina suonava nella chiesa del quartiere. Me lo avevano presentato alcuni amici, poiché non frequentavo granché la parrocchia, anzi, a dire il vero non la frequentavo affatto. Fischiettando ancora qualche lode, Tanino aveva preso l’abitudine di passare a trovarmi dopo la messa, per chiacchierare e ascoltare musica. Presto avevo scoperto che gli piacevano molto i dischi degli Inti Illimani; glieli propinavo in lunghe sessioni dal piglio didattico, perché li conoscevo tutti a memoria. La mia passione per questo gruppo era infatti di vecchia data. Esattamente risaliva a quella volta che mio padre mi aveva portato al loro concerto, piazzandomi sulle sue spalle e dicendomi «alza il pugno»; intorno a noi, la folla faceva altrettanto e cantava in coro «el pueblo unido jamás será vencido», fregandosene della pioggerellina perniciosa. Avrei ricordato quel concerto per sempre, nei minimi dettagli: gli Inti Illimani indossavano dei poncho rossi e leggevano una lettera dal Cile che parlava di stadi e di fascismo, e tutti si erano commossi; poi si erano messi a soffiare dentro strani strumenti, fatti con una serie di canne, dalle quali uscivano suoni ansimanti, remoti, arcaici. 9


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«Celestiali» era la definizione preferita da Tanino. «Si chiama sicu, è tipo un flauto di Pan», gli spiegavo. Poi, dato che lui aveva la chitarra al seguito, suonavamo anche. Il charango alla fine era arrivato. L’idolo preincaico aveva preteso duecentocinquantamila lire, sostenendo che si trattava di uno strumento di ottima fattura.Così, tornai una seconda volta in Fiera per consegnargli la differenza, messa assieme con parecchie ipoteche sulle paghette a venire. In effetti era stupendo, con quegli intarsi di legno attorno al foro della cassa, quelle meccaniche fitte e assiepate ai margini della paletta, che aveva una lunghezza sproporzionata rispetto al manico; ne usciva lo stesso suono che si ascoltava nei dischi, la stessa voce piena di note acquose e delicate, che quando accompagnava i ritmi più incalzanti si trasformava invece in un ruggito e mi faceva venire in mente il galoppo dei puledri della pubblicità del Vidal. Per un modico supplemento di tremila lire, il tizio aveva aggiunto anche un prontuario di accordi ciclostilato, che conteneva persino i rudimenti delle tecniche di esecuzione. Era in spagnolo, ma per fortuna ampiamente illustrato. Nella penombra pomeridiana della mia camera, trascorrevo ore a rigirare tra le mani questo centauro per metà di legno, per metà di armadillo; ne accarezzavo il muso, che affiorava dal manico come un vorace coccodrillo nascosto in un pantano, e le piccole orecchie pendule. L’unica cosa che mi turbava era quel persistente puzzo di pellame stantio che si effondeva dalla cassa armonica, ma mi ci abituai rapidamente. Quando Tanino lo vide per la prima volta ne ispezionò l’interno, dove su un’etichetta quasi illeggibile si distinguevano appena le scritte «Cochabamba» e «artesania»; poi controllò 10


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