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Domenico Romano Mantovani
La storia autentica del Bambino Aquilone
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Copyright Š 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it
ISBN: 978-88-96926-79-6
Domenico Romano Mantovani, La storia autentica del Bambino Aquilone, Antipodes, Palermo 2015
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Diritti d’autore a favore dell’Associazione Italiana Persone Down AIPD Nazionale
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I monti
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iunse in una gelida mattina d’inverno. Da giorni si attendeva un'abbondante nevicata, che tardava a venire. La quiete del cielo la preannunciava. A quel tempo, ormai lontano nella mia memoria, ero capostazione in una minuscola e bianca stazione ferroviaria, che salutava i treni, poi ingoiati in fretta da una lunga e nera galleria. Aldilà, la strada ferrata costeggiava improponibili e silenziosi monti prima del confine, dove incrociava gendarmi rinsecchiti: “Qualcosa da dichiarare?”. Giunse in una cupa e pigra giornata il Bambino Aquilone. Dal treno, che sferragliava gagliardo, scesero in tre. La donna in abito scuro stringeva un fagotto tra le braccia, mentre l'uomo bilanciava il passo, sotto il peso di due grosse e consunte valigie. Cariche del nulla che i bisognosi si portano dietro, ma pur imperdonabilmente esauste sotto il greve macigno delle poche suppellettili, che la censura borghese avrebbe invece inventariato in docili e leggere futilità da corredo. Qui le valigie erano altrimenti grondanti di bisogni affettivi, come le tasche ricolme di sassi e di conchiglie dei bambini di sempre. La nebbia ci avvolse, repentina e invadente, ospite indesiderata. 5
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- Piacere, sono il nuovo manovratore, Giulio Campo,disse l'uomo bruno. Ci fu una pausa, materializzata nell'attesa di qualcosa che egli si attendeva da me, senza che io mi facessi carico di un rilancio verbale, che non avrei saputo nemmeno dove appendere, non essendovi alcun attaccapanni relazionale, ancora di là da venire. L'uomo proseguì: - Questa è mia moglie, Laura. Portò gli occhi sulla donna, e di lì al suo fagotto, difeso al mondo. - Stefanino, - aggiunse, con un cenno del capo. Sintesi di una comunicazione impervia e sfuggente, tipica di chi proviene da un luogo quasi sempre caldo, dove anche un gesto di troppo può distogliere da una larvata combinazione di convivenza tra uomo e ambiente, entrambi intenzionati a non farsi del male vicendevolmente e a mantenere quell'equilibrio di statico e assolato quadro d'insieme. La donna allargò per quel che poteva il suo fagotto, in verità una coperta, una vecchia e marrone coperta militare, e ne venne un bambino, alla meglio protetto. Sorrisi. Entrammo nella minuscola stazione: due sale appena, un deposito sul retro e un giardinetto angusto, fiorito d'estate. Fuori, la nebbia velava le quattro finestre con gli scuri verdi spalancati, le candide tende dai fini merletti e i vasi sguarniti di fiori. Non potevi giurare che a tutto spettasse una vera esistenza, dietro quel biancore. - Vi accompagno nel vostro appartamento. È piccolo, ma si sta bene, al caldo. Feci strada, sfregandomi le mani. Altro non seppi fare né dire; preso dalla distanza, decisa dallo status che le Ferrovie mi onoravano di occupare. 6
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Anche se tra me e il nuovo manovratore nulla poteva distinguerci, in quella ridicola geometria delle asimmetrie burocratiche e organizzative. Capostazione di che? E subalterno perché? Forse in città. Ma qui... Nella nostra piccola stazione solo a pochi treni era data la pena di fermarsi. Gli altri andavano spediti. Perlopiù, smistavamo vagoni merci, carichi di legname. Da quattro, con gli anni eravamo rimasti in due a occuparci di tutto. E forse si avvicinava il tempo della definitiva chiusura di quella stazioncina. - Vedrai che freddo pungente, da queste parti, - potei appena soggiungere, provando a dissodare il mio silenzio comunicativo, ormai trangugiato per anni, in quel freddo luogo, dove gli unici a parlare erano gli animali selvatici, le mucche al pascolo e il vento, che tornava regolarmente a farmi visita. Sarebbe stato il vento a svelarmi la vera natura del Bambino Aquilone. - Non ho di che lagnarmi, - rispose l'uomo. – È lavoro. Abbozzò un sorriso educato. E fu tutto. Forse anche troppo, per quell'inizio. Il mattino seguente, Laura giunse nel mio ufficio, per un saluto al marito. Il suo bambino non smetteva di piangere e la donna lo dondolava, gli parlava piano, nel naturale tentativo di consolarlo. Quel pianto giungeva debole, acquatico e sommerso, fragile e incrostato, richiamo di ogni appiglio alla vita. Stefanino da solo non camminava e la donna lo teneva aggrappato a sé, reggendolo con le braccia sottili. Inarcava la schiena scarna, sormontata da corti e crespi capelli corvini. Una spazzola avrebbe fatto miglior figura, tanto la sem7
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plicità della povera chioma sminuiva quel taglio, già malamente riuscito. La debolezza si misura anche da questo. Ma l'aspetto dimesso ben poco aveva in lei della trasandata e involontaria impronta, che segna la semplice e povera gente, in ogni tempo alle prese con macigni esistenziali da frantumare nella quotidianità. Appariva, invece, in lei quel minuscolo abbandono della persona fragile, quale rottura schematica tra anima e corpo, tra vigore della mente e rassegnazione delle membra, senza nulla dichiarare nelle parole. Con un dito solleticai la mano di Stefanino, per attirarne l'attenzione. Il lamentoso pianto s'interruppe. La sua minuta mano si aggrappò al mio dito, che appariva quasi un palo, a confronto. Volendo, poteva divenire emblema di salvezza nella lotta contro il mondo, albero di una novità futura tutta da scoprire. Ma altre reazioni nel piccolo non vi furono. Sembrava lontano. E le naturali perlustrazioni nel nuovo mondo sia pure in braccio a sua madre - sembravano non sortire in lui alcuna consistenza. Nulla che lo stuzzicasse. Potei solo notare il suo mignolo, particolarmente corto, come figlio tardivo e reietto in una famiglia di baldanzosi fratelli: le altre dita. - Non ti somiglia, - dissi alla donna. - Somiglia un po' a suo padre, - replicò, accennando all'uomo, sotto la pensilina oltre i vetri. Era freddo e solo il vapore del fiato animava lui e i pochi passeggeri in attesa del treno. La donna si allontanò, triste e silenziosa. Addolorata e presa nell'eco di una vita antica, di una terra ingrata, di una natura lontana, dove i tramonti minori sono sempre di casa e il sole accecante si assopisce nell'animo della gente, sempre più sola e alle prese con la fame di lavoro e di denaro. Fissai ancora suo figlio, il viso tondo e un po' scialbo, e il 8
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poco pianto, simile a un dolore ancestrale. Ripropose il suo grigio lamento. Dall'alto della sua nuova abitazione, Laura volle dare uno sguardo al paese. Distava poco più di un chilometro. Raggiunse l'abbaino del sottotetto, dove la vista si apriva a dismisura, dopo le case. Il campanile svettava fra i tetti a spiovente, di tegole rosse e marrone, allampanato e senza nulla fissare. La campana rintoccò l'Angelus. La giovane bisbigliò una preghiera e si segnò con la croce. Lontano, le vette ossute e sovrastate dal silenzio giocavano a rimpiattino, fra le nuvole basse e il grigio gelido del cielo invernale. Laura carezzò le manine tozze del suo bambino, con i mignoli corti e dal pianto strano. Ci pensava a quelle mani. - Ma no! - la tranquillizzava Giulio. - Ha ragione mia madre, col tempo tutto si aggiusta. Sì, tutto s'aggiusta. Ma Stefanino cresceva poco e piangeva male. Quando, dopo il parto, Laura ritornò a casa con il suo fagotto tra le braccia, madonna nera, Giulio le domandò: - C’è qualcosa che non va? - Nulla di particolare. Tacque e non respirò quella madonna, in quella singolare apnea che le madri tristi sanno celare. Era già quella un'acromatica annunciazione. Di un dolore che avrebbe introdotto a un cilicio da indossare, dall'alba al tramonto, per empatia con una crocifissione annunciata, e per cedere nelle ore notturne il passo al respiro della belva che ruggisce nelle madri disperate, o in ciascuno, di fronte ai mali tanto inattesi quanto più esorcizzati. 9
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- Il bambino è sano... ma vogliono rivederlo tra un mese, disse Laura. In ospedale non lo rividero, perché nessuno più ci badò. Crescendo, Stefanino mostrava discreta salute, se non fosse stato per qualche raffreddore e un febbrone subito sparito, ricacciato nel nulla della memoria, che dimentica gli accadimenti comuni. Ora il bambino aveva più di un anno, e gli occhi neri di Laura brancolavano tristi, rifugiandosi negli angoli angusti e bassi del volto, dove piccole occhiaie mal celavano un pianto frequente e una sofferenza a stento negati. - Domani lo porto in città e lo faccio visitare da un bravo pediatra, - disse una sera, quando suo marito rincasò. - Ma se il bambino sta bene, che necessità c'è? - replicò Giulio. - Guardalo come si dimena nella sua culla. Sembra un calciatore. Lo accarezzò. Stefanino colorava la semplice stanza con il suo cicaleccio. - Vero che stai bene? - domandò l'uomo, dandosi un'implicita risposta ottimista. Sorrise. Ma Stefanino guardava altrove, e nemmeno si sforzava di dire “PA...PA”. - Ci vado lo stesso, - replicò con decisione la donna dai capelli neri e il corpo minuto. - Vado in città.
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