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Emiliano Bianchi
Lo sguardo oltre la finestra
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A Marilena, Sofia e Miriam, per aver sopportato i miei silenzi durante i momenti dedicati alla scrittura
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Copyright © 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it ISBN: 9788896926765
In copertina: Inferno di Taddeo di Bartolo (dettaglio) - Basilica di Santa Maria Assunta in San Gimignano. L’uso dell’immagine è stato concesso all’Autore dall’Ente custode dell’opera esclusivamente per la realizzazione della copertina di questo volume.
Emiliano Bianchi, Lo sguardo oltre la finestra, Antipodes, Palermo 2015
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1 …guardandoli, oltre la finestra, non riuscì a provare niente altro che rabbia: una rabbia viscerale che gli salì fino alla bocca, senza concedergli la possibilità di pensare neanche per un istante che guardarli fosse ancora più eccitante che fare ciò che loro, in quell’attimo infinito, stavano facendo…
Martedì 7 Novembre 1981
Le rotaie cigolarono quando il tram si fermò, avvolto in una coltre di nebbia. Ad ogni fermata sembrava un elefante annoiato che pigramente si alza e prende a camminare. Erano già passate le ventidue e dentro la cabina era rimasto soltanto il puzzo della città che sembrava non volersene andare: puzzo di uomini in giacca e cravatta che si erano mossi in cerca di affari; puzzo di femmine, di mamme, di adolescenti che si erano lasciati trasportare verso la scuola. Puzzo di mendicanti che per spostarsi da un luogo ad un altro avevano utilizzato il tram senza pagare il prezzo del biglietto: parassiti della società. Quella era l’ultima corsa della giornata. 5
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La cabina dava l’idea di essere stata sfruttata da quel mondo di sconosciuti che, dopo essersene serviti, l’avevano lasciata andare in solitudine. I sedili erano sporchi e poi gomme da masticare appiccicate sotto i finestrini, giornali letti e stropicciati lasciati a terra. I vetri imbrattati dai graffitari che, credendosi artisti, avevano violato la carrozza rendendola ridicola nella sua nuova livrea multicolori; qualcuno c’aveva disegnato sopra un paio di grossi cazzi bianchi, un uomo barbuto con la pipa in bocca e qualcos’altro che probabilmente neanche l’autore, se glielo avessero chiesto, avrebbe saputo dire cosa raffigurasse. Il tram aveva appena percorso Viale Mazzini, all’altezza della Chiesa di San Bartolomeo. La luna era nascosta dietro ad uno spesso strato di nuvole che minacciavano pioggia, mentre l’inverno era appena iniziato e le giornate si erano fatte corte. Quella sera faceva freddo in città e le luci bianche ed assopite dei lampioni, che a fatica riuscivano a penetrare il grave muro di nebbia, rendevano il paesaggio ancora più ghiaccio e malinconico, se possibile. Quando il tram si fermò Danny era ancora seduto a terra con la sua aria da bullo da quattro soldi. Raccolse il chiodo nero, lo guardò e lo scosse per liberarlo dalla polvere, poi con un salto salì sedendosi nell’ultima fila, come sempre, senza dar troppo peso agli sguardi della ragazza che gli sedeva di fronte, proprio accanto alla porta. S’ispezionò. La maglietta bianca, la stessa che aveva addosso da più di una settimana e che portava sempre sotto il giacchetto nero di pelle era imbrattata di fango. “Cazzo, questa volta dovrò decidermi a lavarla”, pensò. E così gli tornò in mente sua madre, che, poveretta, si arrab6
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biava sempre quando da bambino tornava a casa sporco dalla testa ai piedi. Se lo avesse visto in quelle condizioni si sarebbe messa a piangere. Già, sua madre: adesso probabilmente stava dormendo nella branda del carcere poco distante da lì. Sapeva Danny, dalle voci di chi il carcere lo aveva vissuto, che in gatta buia vigono regole rigide. Aveva sentito dire che intorno alle diciotto le porte delle celle si chiudono ed allora, da quel momento, qualcuno legge, qualcuno dorme, qualcuno – i più – pensa e ripensa agli errori commessi e soffoca le lacrime in gola. Il tram passava sotto le finestre del penitenziario tutte le sere e Danny alzava la testa per scorgere qualcosa: un’ombra, un viso e così per un attimo pensava a lei e a tutti gli errori che aveva commesso, a come lo aveva abbandonato quando era ancora piccolo “preferendo marcire in carcere anziché restare con lui”. Come se si potesse scegliere la gabbia anziché la libertà, per quanto complicato possa essere vivere liberi. L’autista lo vide dallo specchietto retrovisore e lo riconobbe, anche se non ebbe voglia di salutarlo, credendo che potesse essere addirittura pericoloso farlo. Era un ragazzo disagiato Danny e nel quartiere tutti conoscevano la sua storia. Suo padre si chiamava Arturo ed era sempre stato schiavo dell’alcool e delle sostanze stupefacenti. Faceva parte di quella generazione di giovani pionieri che aveva cominciato a farsi alla fine degli anni sessanta. Aveva iniziato a bucarsi così, per ammazzare la noia, come facevano molti dei suoi coetanei: ragazzi in cerca di sballo, convinti di potersi liberare dal giogo dell’eroina in ogni momento senza valutare i rischi connessi alla sua dipendenza. 7
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Con il trascorrere degli anni oltre all’eroina si era aggiunto il consumo massiccio di alcolici e così una bella fetta dello stipendio di Arturo che lavorava come aiuto fornaio, finiva fra puttane, eroina e bottiglie di superalcolici e spesso quando rincasava a notte fonda picchiava sua moglie ancora prima che Danny nascesse. Una volta la picchiò talmente forte da mandarla dritta in ospedale con tre coste e due dita rotte, ma lei nonostante tutto non lo aveva mai denunciato. “Non voglio che la gente dica che sono una vigliacca”, raccontava in giro, mentre le sue amiche, depositarie dei suoi continui sfoghi, e testimoni oculari dei lividi che colorivano di nero il suo corpo, le dicevano in continuazione -Cerca di fermare tuo marito prima che sia troppo tardi. Quell’uomo è violento e prima o poi ti farà male sul serio e ti spedirà dritta all’Inferno-. Un giorno infatti com’era prevedibile qualcosa andò storto, maledettamente storto. Arturo rincasò più ubriaco del solito ed iniziò a picchiare ed insultare la moglie. Lei reagì, i due si strattonarono finché lui finì giù per la tromba delle scale come un sacco di patate. Sbatté ripetutamente la sua testa marcia. Arrivò l’ambulanza che si fece largo fra gli sguardi incuriositi dei vicini, che erano accorsi in massa sentendo le urla; lo caricarono a bordo e lo trasportarono in ospedale dove i medici lo sottoposero ad un lungo intervento chirurgico durante il quale tentarono di asportare l’emorragia che comprometteva le sue funzioni celebrali. L’operazione andò male ed Arturo spirò nella notte, all’età di cinquantasei anni. Ci fu un processo messo su per ricostruire la dinamica dell’accaduto. Il Giudice, nella sua sentenza disse che si era trattato di un in8
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cidente. Arturo era caduto per le scale fortuitamente. Aveva perso l’equilibrio ed aveva sbattuto più volte contro i gradini di marmo della scala condominiale. Lì si era provocato le gravi lesioni che poi avevano determinato la morte. La mamma di Danny finì in galera a seguito di un processo lungo poco più di tre anni. Lì conobbe l’inferno, proprio come avevano previsto le sue amiche. Si beccò tredici anni, stranamente, e Danny così venne affidato ai servizi sociali e quando successivamente si presentarono coppie di potenziali genitori adottivi non se la sentirono di crescerlo come un figlio, notando negli occhi di quel ragazzino esile e ribelle qualcosa di cupo. Così venne affidato ad una casa famiglia dove crebbe assieme ad altri ventisette ragazzi, tutti maledettamente sfortunati come lui. Adesso, all’età di diciotto anni appena compiuti era un uomo cresciuto nella strada. Conosceva, infatti, ogni vicolo della sua città, dal più signorile al più buio. Non era alto né muscoloso Danny. Aveva una leggera coltre di barba che induriva la sua faccia, ma che a lui piaceva perché gli conferiva l’aspetto di un duro e quando litigava partiva con un leggero vantaggio sui rivali perché quella barbetta faceva a tutti un po’ di paura. Aveva stretto amicizie con ragazzi problematici come lui. Giovani delinquenti con i quali andava in giro a commettere furti ed atti di bullismo; minacciavano gli adolescenti del loro quartiere facendosi consegnare i soldi e se non davano loro ciò che volevano erano botte; botte di quelle che fanno male sul serio.
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2 Due anni prima
Una sera d’inverno di due anni prima il campanello della casa famiglia suonò più a lungo del solito. Il portiere andò ad aprire e si trovò di fronte un uomo avvolto in un cappotto beige che teneva la mano di un bambino di una decina d’anni inghiottito dentro ad un piumino, con la gola fasciata in una sciarpa ed un cappello di lana sulla testa. Faceva freddo e sulla faccia dell’uomo sembrava calato uno strato di ghiaccio proprio come quello che si stava formando sulle strade della città. – Buonasera signore in cosa posso aiutarla? – disse il portiere aprendo la porta appena un po’, per far sì che le sue parole fossero udite dall’esterno. – Per me non è una buonasera e neanche per mio figlio – disse duro l’uomo gettando uno sguardo verso il basso e contorcendo la bocca dalla rabbia, poi continuò soffiando – mi ha detto mio figlio che uno dei vostri stamani gli ha rubato dei soldi –. La sua voce era rauca e denotava una notevole dose di rabbia repressa. Il portiere, di nome Gustavo questa volta spalancò la porta, accennò un inchino guardando i suoi ospiti, si tolse il cappello che mostrò la testa calva cosparsa di ciuffi di capelli neri e disse – tornerò fra un momento signore, intanto accomodatevi – e gli indicò 10