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{Poesia}
Alessandro Maria Romano
Miserere
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Copyright Š 2019 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it Illustrazioni e immagine di copertina di Stefania Guzzo ISBN: 978-88-99751-67-8
Alessandro Maria Romano, Miserere, Antipodes, Palermo 2019
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A mia madre, autentica testimone della VeritĂ e del coraggio della Croce.
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Per i dirupi infranti dell’anima trovare piangendo quella Voce che la veglia scalda alla nostra fredda notte
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I
Prefazione
l Disincanto e la Gloria. L’angosciosa realtà del presente e l’eterna quiete dell’eterno. Il tradimento del tempo e la fede sapiente della quiete dell’infinito. Tra il nulla e l’essere, tra la assenza propria del contingente muto e senza luce e la presenza del Dio senza tempo che si fa voce, carne e parola procede il canto di un nuovo poeta, che pur nella giovane età, manifesta una matura capacità di muoversi tra gli opposti, con un equilibrismo raro che rende dinamico e convincente nella sua drammaticità il suo Miserere. È un poema sulla pietà e sulla luce, sulla rabbia e sull’abbandono, sull’angoscia degli abitatori del tempo e sulla felicità degli asceti quello composto da Alessandro Romano nei suoi canti, rigorosi e insieme inquietanti nella loro dinamica, continua contraddizione. Il poeta sa che Il nostro peccato, tutto il nostro smisurato peccare è Delirio, quel bieco insensato strisciare dell’anima lontano dal centro... lontani da noi. Perduti come i vortici di cenere sgridati dal vento. (canto primo);
è perfettamente consapevole delle forze centrifughe che allontanano l’anima da Dio, ma ha, nello stesso istante, fiducia nella parola, nella responsabilità etica di chi, attraverso la poesia, può indicare la via della soluzione della contraddizione, in una rigorosa testimonianza che è la testimonianza di un’anima in perenne ricerca delle inquietudini del divino. 5
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Non è una luce dolce quella che cerca Romano, non è una fede immota quella che sente, vede, cerca e canta. Egli sa benissimo che la prossimità di Dio è un felicissimo dolore che incanta e inquieta, che la fede non è soltanto abbandono, ma una ricerca che comporta l’essere ricercato. Il suo disincanto è attesa, aspirazione, inquietudine e quiete: nati nel tempo, non siamo del tempo. E la perigliosa conquista della luce egli descrive nel suo poema. Seppure egli desideri Una voce, cristallina come l’amore casto, l’amarsi di quegli occhi sensuali e pregni più del corpo, prima del corpo… e come innamorati sulla via ora tenuti per mano come se fosse per sempre, (Canto primo)
sente atroce e fortissimo il rumore del tempo, il peso insopportabile della banalità e delle chiacchiere, l’insipienza perfetta dei peccatori, la derisione perpetuata contro ogni forma di bene, col rifiuto ultimo della stessa idea di sacrificio: Eccola! La sentite? L’insana speranza di morire beati e grassi; noi gli eroi! noi la generazione che ride alla Croce… eccola: è di nuovo compiuta la razzia. Si: forse anche meglio, meglio dei padri stessi, maestri del nulla. Di un nulla esordiente… Solerte è il peccatore: preciso, quasi perfetto. 6
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Ma non crede, il poeta, a questa volgare precisione del male. La sua voce che è così simile a un grido pretende, con ferocia interiore, che il grido si esprima, con tutto il suo carico di speranza, con tutto il suo tormento ma anche con tutta la sua salvifica necessità! Nel secondo canto è messa in scena l’oscura notte della volontà, ma nello stesso tempo è certificata l’impossibile resa del poeta. Simile ai canti perduti di antiche membranze. Questo luminosissimo canto, portato dal fumo nero della Somma Amnesia della Vita, mi strazia, pungolando il centro di me col suo proclama: “oh, disperare candido! sì, nei desolati meriggi dei vinti il Nulla e il Ripudio s’incarna e nel vento, nei suoi lieti profumi, danza come danza il ricordo di una giovane sui ricami dell’arazzo di nozze, ora violate domani disfatte” (Canto secondo)
Ma come punge ora, nel cuore intatto e così prossimo a Dio dell’autore, la vergogna del tempo presente (Canto terzo) e la quotidiana guerra infinita degli uomini vuoti ancorati al presente (Canto quarto). In questo tempo d’ignavia È accaduto, in ciascun cuore, il suicidio epocale, e noi, noi ci strappiamo le vesti, perché non ho più cultura in cui trovare i luoghi, 7
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ove può la mia vita serbare una linea e continuare a filare il ricamo (canto terzo),
è accaduto che imperi “il senno dei folli”, che senza vita e senza patria siano i cittadini di un oggi senza speranza e progetto: una “pietosa vergogna” copre le anime secolarizzate e nel deserto nessuna voce più grida, e se anche si aprisse una via di fuga dal nulla, dove fuggire? Lo sguardo del poeta si sofferma dolente sulle rovine. Cosa rimane di questo tempo? Cosa rimarrà di noi che viviamo? Forse solo il ricordo di una guerra eterna, di storie orribili da non ricordare, perché Il Cavallo sulfureo del Novecento ha scosso le polveri di memoria sul fiume in secca della storia,
perché
L’Ultimo secolo ha espettorato due volte il suo cancro: guerra. E poi, sempre di nero velati, guerra ancora. Che nasce dal grembo decorato e affarista di un mondo senza Dio. Tra salici mutilati e alla luce di vecchie lanterne, le anime mezze vive hanno, attonite, levato un grido ai fiumi imbarazzati e madidi del divenire: “È forse infinito, questo sangue!?” (Canto quarto) 8
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Il Miserere si leva ora alto. E il quinto canto proietta la luce di una nuova preghiera che possa rianimare la “disfatta speranza”. Perché come è possibile sperare ancora dinanzi alla vanità penetrata nel cuore dell’Essere? Così il poeta prega perché non siano soffocati i sogni d’eterno, perché qualcuno vegli nel tempo dell’infedeltà. Oh Cristianesimo Padre, cura l’infedeltà di questa Sposa, sprangale la porta, schiaffeggiala se a noi volgendoti desideri una vita meno infranta! Non i suoi aborti, ma solo chiediamo fratelli (Canto quinto)
No, non siano soffocati i sogni dalla inedia, dalla ignavia, dai falsi profeti dalle false promesse. La speranza non può declinare il tempo dell’impossibile. Non può accontentarsi delle ultime luci di un crepuscolo. E la pietà prevale, il Miserere si pone come ultima resistenza (nel canto sesto) al sentimento del nulla, che a volte coglie l’anima del poeta, e la tenta alla resa, all’addio, quando si accorge che il tempo è primo assassino di ogni amore. Un cappio stritola l’anima, che digiuna, che non respira, ridisegna dentro il proprio cuore i tratti di fuggevoli sguardi, occhiate sature di lontananza sotto le ombre ampie dei platani, sotto cui piango. Rimasto solo, in silenzio mi annullo. (Canto sesto) 9
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Ma no, non è tempo di resa! Seppure la cupidigia umana tenti di spegnere a ogni istante la luce dell’anima, e l’eco della antica voce dell’Essere precipita in abissi sa cui non può tornare; anche se al poeta sembra di vedere “cadere le stelle sul cadavere del tempo” e il cielo quasi arrendersi (in questo settimo canto del terrore e del tremore), il solo ascolto della voce di chi predica la morte di Dio turba il Miserere ma non ferma il battito della speranza. Si, la morte di Dio è predicata in tutta la sua impura enfasi nell’ottavo canto, e con la durezza di chi vede l’orrore dell’abisso e lo guarda per non avere più paura di cadere ed essere oppresso. Mi dissero altro. Sentii che qualcuno disse di uccidere degli innocenti, alla notte discesa, sotto regio pavido comando per uccidere il Poeta e Verbo e Autore e Vita dello stare in essere dei viventi; lui vivente, lui appena vivente… e appena sorto, egli, all’orizzonte, e così precipitosamente voluto sotto gli zoccoli rei del mondo. Deicidio! È la solerte vanità che tutte le cose cinge e compra sotto un regno di tuie e di cipressi e non più sotto i loro piedi una singola, pura lacrima di rugiada. (Canto ottavo)
Dal nono canto del Miserere comincia l’ascesi, una sorta di Subida del monte Carmelo nella quale appare evidente l’influenza, nell’opera di Alessandro Romano, dello spirito di San Giovanni 10
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della Croce, immenso poeta e vertice del misticismo occidentale. Innamorato della contraddizione e della bellezza dolente dell’amore divino, l’autore traversa tutti gli stadi dell’esperienza del nulla, si svuota di sé stesso, Lo abbiamo mai saputo cercare, questo breve senso? Chi l’ha desiderato, chi ne intuiva il profilo o ne sentiva il profumo nel caos dei nostri passi vuoti? Qualcuno, tra voi moribondi, n’è mai stato suo inutile, pacifico testimone? Non abbiamo saputo resistere a tutto il nostro nulla e ci ha portato ad essere muti blasfemi, muti uditori, blateranti e sordi; eppure solo il Nulla abbiamo sentito urlare dalle terrazze, lo abbiamo vestito di porpora, abbiamo cosparso l’anima di pregiatissimo balsamo inebriandoci dentro i suoi incensi orientali. (Canto nono)
dubita anche dell’arte,
Le umane tele dell’arte le vedo, oggi, divorate dal sole, crocefisse e squarciate da continue, seducenti folate, sotto la morsa informe dell’apatia: …è dissacrato quel residuo di umano dentro il tronco dell’essere, 11
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torna l’animale, torna la notte, la poesia tutta incantata delle belle dimore viene inghiottita dalla fitta penombra del bosco (Canto decimo).
Ma ormai la meta è vicina. La Pietà governa ora il cuore dopo le contraddizioni, i dolori, i dubbi, le angosce, le rese, le continue resurrezioni in cui il poeta che scrive e testimonia inventa i sentieri oscuri e stretti della sua poesia. Poesia, quella di Alessandro Romano, che nulla concede al tempo e tutto tende all’eterno, che non ha paura di essere inattuale, nuova, viva, originale, inquietante e insieme luminosa, aperta, antica, vera, coerente sempre al suo spirito di ricerca. In questo poema della passione quotidiana del credente dinanzi alle rovine del tempo e alle menzogne della storia ritroviamo una lettura chiarissima e profondamente sentita della crisi che oggi attanaglia le coscienze più alte e consapevoli. Il giovane poeta dal grande futuro non teme di perdersi perché sa di ritrovarsi in quanto ritrovato da quel Dio che attende alla fine perché è al principio del Viaggio, e comunque sempre compagno di strada. Come compagno di strada è sempre il poeta per tutti i viventi nella gloriosa e terribile avventura della fede. Ed è bellissimo il luogo cammino degli ultimi nove canti e dell’epilogo di questo splendido testo. Perché un eremita è il poeta Nessuno all’infuori dello stravagante eremita ha mai conosciuto così a fondo la sua pena, la nostra incolmabile miseria. Oh peccato. Il morbo del peccato, chiaro e solido e plumbeo come un cristallo nero. 12
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Negli spazi vuoti e ombrosi del santuario, l’eremita s’inginocchia, tentando ancora la preghiera. Ma per il Cielo e per la terra non trova un suono giusto alla sua voce iniqua.
Sotto due antiche palpebre semichiuse, deliranti scintillano in un timido ardore. Dimenticato. Bramano pace: verso dove? dove andare? per correre! E per che cosa, e per cosa! Per cosa vivere durante questo delirio che anche se vita non è Vita… (Canto undicesimo)
e il suo grido è lo stesso Viaggio, e il viaggio è sempre verso ilo cuore di quel dio che dell’amore ha fatto la Meta, e del dolore la Ragione, e del sacrificio il Fine dell’anima che soltanto al cuore dell’Essere e aspira, desiderando di perdersi nel cuore di Dio Padre di tutte le gioie e di tutti i dolori. Poter intingere, nell’ultimo Santuario, le dita mie e segnarmi con la stessa Croce del Verbo Risorto sui sudori e passioni di cento anime brucianti, arse per il Suo Trafitto Cuore, e Perfetto, per la Carità tutta Intera. E dirmi beato al contemplare una gloria di Dio tutta lodata col sangue di un esercito d’innamorati. (Canto dodicesimo)
Costui, il volto senza faccia che ha perduto ogni tesoro vuole, pretende se la Grazia del sangue dell’Agnello l’accoglie, 13
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lavare in questo mare di letizia color del fuoco i suoi polsi freddi… E nel Mistero, nel suo più Santo mistero, mi fa divino… Tu, chiave del mio volto, tu Volto della Vita puoi col tuo Sangue far tornare bianco tuo figlio? Vuoi, se vuoi, morirmi a Te? (Canto tredicesimo)
Da quattordicesimo al diciannovesimo canto il Miserere di Alessandro Romano disvela, nella sua umana e semplice pienezza, direi quasi con poetica innocenza, il mistero della Grazia. Una sorta di danza di anime ragazze e di cuori giovani che cantano e volgono il passo verso il cuore del Padre secondo lo spirito purissimo della poesia che qui attinge uno dei vertici nella descrizione di una commovente processione di piccoli poeti in cerca del mistero: Guardateli! Sugli angoli nascosti di un’anima febbrile, dai suoni lievi, s’intrecciano rovi venerei e scuri oltre il simulacro antico, solenne della Croce. Giovani, da fiamme di danze spagnole sulle piazze, pestano leggere mille asperrimi acini già raccolti dalla vite dell’Idolo degli idoli: è un grumo Nero, maturo. Lieti gaudi riposti, prima della Vanità, dentro un baule di legno marcio stanno tornando. Se liberati, questi canti d’infinita soavità si snodano verso tutte le cose. Come rugiada. 14
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E il canto continua, nel nuovo mistero della poesia che si disvela e si svolge con lo stesso andamento del mistero della grazia. Perché nell’Autore Grazia e Poesia sono lo stesso, una identità indifferenziata dove l’invisibile si manifesta e l’eterno si fa voce. Si, nella fragilità di un’anima mortale albergo il fuoco inestinguibile della Parola e la vocazione poetica diventa una nuova annunciazione: il poeta riceve la visita dell’Angelo e, come Maria, dice di sì alla Parola che diventa atto di rivelazione di quella Grazia che si muta in canto, in verità, in buona novella per tutti i viventi. Non ha paura Alessandro, di fronte al fervore insieme luminoso e oscuro della sua ispirazione, di leggere dentro sé l’universo del tormento e l’infinito della felicità mistica! Il suo Miserere è in principio un grido, come un precipitare nella Noche oscura del tempo (presente) e della storia (di sempre); poi, si muta in ascesi, in perigliosa e faticosa Subida verso quella luce che le tenebre sembrano a volta inghiottire e che attira l’anima verso il pericolo dell’incontro con divino, che brucia, toglie, priva, come acqua che purifica e fuoco che brucia ogni scoria del nostro vano egoismo. Gli ultimi canti, infine, diventano Canciones entre el alma y el Esposo, un Cantico espiritual intenso, luminoso, innocente, che indica in parole che somigliano a lacrime di gioia lo spazio d’amore tra il Padre (innamorato) e le sue creature (amate): Tu, mio tutto che dischiudi ai misteri della notte i timidi candidi ceri come faville sulle ceneri di questo mesto fuoco quasi estinto. Da questa cenere noi siamo... I fulgori cantano sugli occhi,
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e ciò che non è Luce non splende. E dalle correnti di quest’oceano di Luce pure lasciamoci sconvolgere.
Naufragando nudi e folli verso un Cielo squarciato dal suo continuo Amore. (Canto diciottesimo)
La sintesi è accaduta. Nell’anima divenuta misticamente cenere, casa della privazione, deserto di desiderio e ansia di unione vera, ora è possibile che si manifesti l’immanifestabile, che si intuisca l’invisibile, che si trovino parole per l’indicibile. Il poeta ha raggiunto il suo stato di grazia, ha detto sì per sempre alla parola che acciglia nel ventre della sua mente e del suo corpo e del suo cuore; ora è pronto a cantare la luce, a festeggiare le nozze tra l’anima e Dio, che ogni uomo capace di privazione e così coraggioso di traversare il nulla sperimenta, non più credente ma creduto dal Padre capace e degno d’incontrarsi con lui. Qui, al centro di me stesso le folte sofferenze raccolte trovavo un altare: oh, cuore! tu che eri pietra e ti tramuti in questa carne contrita, gemi il tuo vino caldo nei tessuti del tempo; oh mio cuore! offri le tue sostanze, nutri e sfama col tuo sacrificio Colui che piangendo tutte le cose 16
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Nozze d’amore tra Creatore e creazione, notte al chiarore mistico di una luna calcata. Dio stesso si avvinghia nell’intimità del talamo alla sua dolce Sposa, e si unisce in anima e corpo all’anima del suo consacrato. All’universo intero.
Ah dolcissimo incontro! Il Senso dell’Essere coincide, il suo bacio, con l’Unione.
Nozze Mistiche di Dio, lo splendore del Tutto in tutti ci dia nome di folli, d’amore, abbandonati sulla valle oscura, ad Amare tutto e tutti, morendo, salvando quel Suono divino che in noi ci attende.
Sorprende, in quest’opera, che è opera prima, nel Miserere di Alessandro Romano, la maturità espressiva che ne fa autentico poeta e la profondità della lettura mistica che ne fa giovane teologo del suo tempo. Il ritmo anelante, fervido eppure solenne e purissimo, dei versi delle nozze tra l’anima e lo sposo esprime una compiutezza sanno descrivere questo processo di purificazione che traversa l’acqua e il fuoco mistico con una densità di momenti che 17
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ricordano la migliore poesia contemporanea. Assorbito dal Dio che egli canta, tutto il poema si trasforma in una llama de amor viva, una fiamma viva d’amore che illumina e insieme brucia colui che l’ha concepita, creata, scritta: perduta ogni parvenza dell’io, il giovane poeta si trasforma in parola che lo fa eremita della sua medesima scrittura. Il cammino è aspro e difficile nel cammino mistico e poetico, ma l’Autore di questo viaggio dell’anima verso la luce vittoriosa, sempre, del suo Dio, sa che niente è impossibile quando la fede è lo stesso che la poesia. Un dire di sì. All’annunciazione antica che fa di ogni poeta in sempre nuovo testimone dell’Eterno che è in noi, del regno dei cieli che siamo tutti, dell’Amore che è Dio. Palermo 2 febbraio 2019
Salvatore Lo Bue
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Proemio Esuli. Che lungo l’ultimo Grande Viale di olmi e cedri, e ulivi, nei madidi silenzi della colpa, della candida pulsante memoria, incedono.
Su di un pendio nero, a queste dune di cenere si sono arresi, tutti. Hanno svernato da fuggiaschi, tremanti, e come briganti si aggirano ancora tra i festanti e l’esitare degli sposi, sulla steppa ai piedi del Monte, depredandoli.
Eccolo, qui sull’uscio il canto senza una voce e un volto che noi, tutti, miseri ci fa uomini meno umani. Non l’udite? Quest’armonia distorta del Senso, che ora si spegne. È spento… o forse soltanto dorme. Madama Volontà è vedova: la sua devastazione ci annoda
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l’anima a disperati pensieri, ed in sé cela, di pace fittizia, mesta e trucemente afflitta, il riflesso. E quale?
Della vita il dolente alone e lo sfocato, desolante riflesso che nel cuor ci piange… non lo vedete ancora?
Così ciechi siete? Non lo gemete pure voi, astanti d’un perpetuo dramma, lo stare a esistere lontani dalla Vita.
Vedova, inconsolata, la Volontà degli ultimi figli della storia va chiedendo ai simulacri erbosi parole che la sazino, che plachino uno per uno i singhiozzi dell’immenso suo scandalo: morire...
Inconsolata Vedova, morente pallida, come solo chi perde la metà buona di sé conosce… giovane e vinta queste lentissime ore vuote rammentano, pietosa, le tue piaghe con l’invisibile filo della memoria… 20