Turan

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Roberto Castiglione

TURAN


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Alla donna che mi ha preso il cuore


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Copyright Š 2016 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it ISBN:978-88-96926-99-4 In copertina disegno di Roberta Bellotto. Sullo scudo: Aranth Velchanas turuke (Aranth Velchanas ha donato). Sul drappo: Velathri ar nunar Turaniri (Velathri porge preghiere in favore di Turan). Vincitore del Concorso letterario per romanzi brevi di generi vari Samhain-Prima Edizione Roberto Castiglione, Turan, Antipodes, Palermo 2016


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30 giugno del 415 dopo Cristo

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a piccola nave attraccò alle banchine del porto di Vada Volaterrana e un uomo di mezz’età ne discese con passo sicuro. Portava con orgoglio la toga orlata di porpora dei senatori di Roma, ripiegata sulle spalle e le braccia. Sul molo lo attendeva una piccola folla di persone, ma soltanto uno si staccò dal gruppo per andargli incontro. Anch’egli indossava gli stessi abiti curiali, simbolo del suo elevato rango. «Claudio Rutilio Namaziano, il sommo poeta della nostra era! È un vero piacere poterti riabbracciare!» disse subito, stringendolo al petto. «Decio Caecina Albino, ti rendo grazie per la tua ospitalità. Mi farà bene godere un poco della tua compagnia in questo mio lungo viaggio verso la Gallia!» rispose l’altro. «Hai scelto con saggezza la via del mare, poiché le antiche strade consolari non sono più percorribili come un tempo. Bande di briganti e torme di barbari affamate di bottino e preda le calpestano alla luce del giorno!» gli confidò Decio. «Roma ti porge i suoi saluti e rimpiange i giorni in cui tu fosti il prefetto della città!» riprese Claudio. 5


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«La nostra capitale ha ricominciato a vivere dopo il saccheggio del maledetto Alarico?» s’informò subito l’altro. «È in convalescenza. I danni sono stati enormi, ma grazie alla tua opera instancabile di ricostruzione se la caverà di sicuro!» rispose Claudio. Decio sorrise e lo accompagnò verso la sua villa, posta nelle vicinanze. Il viaggiatore vide che il suo amico era scortato da una trentina di guardie mercenarie e quando giunsero alla porta principale si accorse che la dimora era stata trasformata in una piccola fortezza. Sentinelle armate di tutto punto vigilavano sulle mura e nelle torrette. Entrati nel vasto cortile scorse una ventina di cavalieri pronti per uscire in perlustrazione. «Viviamo in tempi oscuri, amico mio!» si giustificò Decio. «Lo so bene! Ho intrapreso questo viaggio verso la Gallia per salvare quello che resta dei miei possedimenti. I Visigoti di Ataulfo si sono impadroniti delle province meridionali e parlano di fondare un regno autonomo!» confermò Claudio. «All’interno dei sacri confini dell’Impero?» «Proprio così!» «Inaudito e inconcepibile! L’Augusto Onorio non lo permetterà di certo!» «L’imperatore se ne sta al sicuro a Ravenna immerso nelle preghiere, protetto dalle paludi e sempre pronto a salpare verso Oriente!» concluse Claudio. «Lasciamo perdere questi tristi pensieri, amico mio! Questa sera la dedichiamo alla gloria del passato! Ho scovato qualcosa di stuzzicante per la tua curiosità!» annunciò Decio, cercando di distogliere la mente dalla terribile situazione. «Non vedo l’ora di gustare i tuoi cibi prelibati e ritrovare un poco della nostra cultura. I Cristiani ci chiamano pagani, ma sono 6


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responsabili della fine dell’Impero al pari e forse anche più dei Barbari!» lo ringraziò Claudio. «Piuttosto, hai scritto più nulla da quando ci siamo lasciati a Roma?» domandò Decio. «Durante le lunghe ore di navigazione ho buttato giù un po’ di distici su questo viaggio. Penso che potrei trarci un piccolo poema. Avrei anche già il titolo: De reditu» rispose Claudio Rutilio Namaziano. Quella sera stessa alla fine del lauto pasto Decio fece portare un grande libro rilegato in pelle e lo porse all’ospite. Claudio lo aprì con estrema curiosità e si avvide che le pagine erano in pergamena, lavorate con estrema cura e fittamente vergate con una grafia chiara e pulita. «Amico mio, quest’opera ha almeno quattrocento anni!» esclamò sbalordito. «Risale al tempo di Augusto o Tiberio, al massimo! Non hai perduto il tuo colpo d’occhio!» si complimentò Decio. Claudio sorrise e continuò a sfogliare le pagine: «È una storia ancora più antica, molto più antica! Risale al tempo dei tuoi antenati Etruschi» disse, sollevando lo sguardo un attimo. «Da un casuale riferimento alla loro cronologia ho potuto calcolare che le vicende si svolsero intorno all’anno 140 e 141 dalla Fondazione di Roma!» rivelò quietamente Decio. «Oltre mille anni fa, quindi!» confermò Claudio sempre più incuriosito. «Ti dirò di più, amico mio, secondo il modo di contare gli anni dei nostri amici Cristiani dovremmo situarla ben 613 anni prima della nascita del loro Salvatore!» continuò Decio, cercando di sbalordire ancor più il suo vecchio amico. «Vedo molte parole scritte nell’antica lingua e fortunatamente 7


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l’estensore della storia si è premurato di dare una spiegazione subito dopo!» notò Claudio, sprofondando nella lettura del testo che si preannunciava interessante. «È una prova dell’antichità dello scritto! Ai tempi di Augusto la lingua dei Rasna - Questo era il nome che i miei antenati davano al proprio popolo – non era più parlata, se non all’interno delle famiglie più importanti!» spiegò Decio. «I nomi dei mesi, però, non sono stati cambiati e all’inizio di ogni capitolo scorgo parole che non comprendo!» chiese Claudio, cercando di scoprire qualcosa di più. «Probabilmente per lo scrittore erano ancora abbastanza familiari e non ha ritenuto opportuno trasformarli nei nostri! In ogni caso è semplice. Prendi nota: Velchitna equivale a Marzo, Apirasa ad Aprile, Ampile a Maggio, Acale a Giugno, Turane a Luglio, Hermu ad Agosto, Celi a Settembre e Chesfer a Ottobre!» enumerò come una filastrocca appresa da bambino. «Sono soltanto otto, mancano quattro!» gli fece notare Claudio. «In realtà il calendario degli antichi ne annoverava dieci! Il Divo Giulio si premurò di riformarlo» rispose Decio. «Hai ragione, ma i due mancanti?» continuò l’altro. «Ora pretendi un po’ troppo!» rispose Decio, alzando le spalle. «Ho capito, amico mio! Si sono perduti nella nebbia del tempo, come gli antichi Dei che ci hanno protetto per oltre mille anni, prima dell’arrivo dei Cristiani e dei Barbari!» commentò Claudio. «Non tutti si sono allontanati da noi. Sono sicuro che almeno una divinità è restata su questa bella terra d’Etruria a vigilare sulla nostra salvezza!» replicò Decio. «Ora parli come un adoratore di Cristo!» «No, fratello! Sto parlando come un antico Rasna!» ribattè subito il padrone di casa. «Cosa intendi dire?» 8


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«Leggi la storia contenuta in quel libro e lo scoprirai da solo! Io ti dico soltanto queste tre parole nell’antica lingua: Ar nunar Turaniri!» concluse Decio Caecina Albino.

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I Ultimo giorno del mese di Acale

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l sole del primo pomeriggio martellava senza pietà la campagna e le foreste intorno alla grande città. L’estate aveva infine scacciato una lunga e fredda primavera che si era protratta ben oltre i suoi limiti, stabiliti dagli Dei fin dalla notte dei tempi. Il grano era maturato in ritardo in quell’anno così fuori dal consueto e doveva essere ancora mietuto. Ampi spazi color dell’oro si allargavano tra il verde dei boschi. Molti contadini erano già all’opera, dispersi lungo le aspre pendici del colle e i primi carri iniziavano ad affluire nella città, entrando attraverso le sue porte gigantesche. Velathri accoglieva le scorte di cibo per l’inverno che gli aruspici preannunciavano crudele come il precedente. Da alcuni anni le stagioni non erano più clementi e generose come nei tempi passati. I sacerdoti compivano spesso sacrifici per recuperare il perduto favore delle divinità e i templi sull’acropoli erano sempre più frequentati. Numerose squadre di cacciatori erano state inviate nelle grandi foreste per procurare scorte di carne che avrebbero permesso alla città di sopravvivere. Un vero e proprio esercito aveva invaso le 10


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