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Rachele D’Esposito
Un tappeto di sabbia
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Copyright Š 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it In copertina: fotografia di Rosario Russo ISBN: 978-88-96926-84-0
Rachele D’Esposito, Un tappeto di sabbia, Antipodes, Palermo 2015
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A Carangraf
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Uno
C
amminava sull’esile striscia di erba appiattita dal calpestio e che zigzagava lungo i fianchi della parete rocciosa a strapiombo sul mare. Ai lati del piccolo sentiero fremiti di rettile vibravano nell’arida sterpaglia mentre il frinire delle cicale segmentava l’afa canicolare in intermittenti scansioni temporali. Rallentava il passo guardandosi intorno come se aspettasse qualcuno, sbirciava il piccolo lembo di spiaggia ogni volta che si presentava ai suoi occhi, poi riprendeva il cammino a passo sostenuto e, come un beduino, disciplinava il ritmo del respiro alla fatica del corpo. Rimase per un momento in attesa prima di franare nella sabbia infuocata e l’ultimo flebile alito di vento le si incenerisse sulla pelle. Dopo aver attraversato la spiaggia deserta a quell’ora, si portò sulle pietre a fior d’acqua e, come un equilibrista, raggiunse il suo scoglio eroso dall’acqua. Si spogliò, puntò le ginocchia sulla pietra e vi aderì con il corpo e con il calore nella pelle e la luce accecante del giorno che sfolgorava in una miriade di scaglie infuocate. Un’impercettibile vibrazione, poche parole sussurrate e richiuse gli occhi e, solo un attimo prima che la volontà cedesse alla dolcezza dell’abbandono, si levò. 5
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L’abbraccio freddo con l’acqua la sferzò con violenza mentre il corpo si dispiegava in un moto silenzioso e ovattato tra erbe palpitanti al passaggio di minuscoli guizzi e tra scogli simili a montagne. Riemerse con l’ultima debole spinta, la bocca spalancata in una voragine di ossigeno e negli occhi l’azzurro del cielo si lasciò trasportare dalla corrente, mentre brividi impercettibili correvano lungo la pelle, seguì con lo sguardo una nave lontano finché con le ultime vigorose bracciate raggiunse il suo scoglio. Si concentrò nello sforzo della spinta e, sollevandosi avvertì lungo le gambe la carezza morbida delle piante marine poi, sulla roccia come un beduino in preghiera, valutando il concentratissimo spazio, si preparò a ricevere il calore del sole. Avvertiva un’impercettibile contrazione della pelle sotto il minuscolo deposito di sale che ogni goccia, evaporando, abbandonava sul suo corpo e, mentre gli occhi le si chiudevano come appesantiti da un muro d’acqua, una macchia bianca, rimbalzando fra la retina e le sinapsi cerebrali, una macchia bianca… un panno… un volo d’ali… appariva… spariva tra l’arsura bruciante della sterpaglia. Avvertì per un attimo sulla lingua il sapore rassicurante del sale sulla pietra, sulla pelle, prima che la volontà cedesse definitivamente ad un dorato oblio. Il suono acuto polverizzò d’un colpo lo scorrere lento del tempo, gli occhi le si sbarrarono sull’ultima immagine imprigionata nei labirinti oscuri della mente, un convulso fremito d’ali e solo quando il suo respiro si sintonizzò con il rumore del mare, una luce diversa le restituì il volto familiare delle cose. Aveva dormito! Quanto tempo era passato? Si guardò intorno nella luce già mutata mentre passava 6
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una mano fra i capelli induriti dal sale, aveva il corpo completamente asciutto. Si rivestì in fretta e rifece a ritroso la serpentina percorsa in precedenza, la stanchezza non fu di alcun ostacolo alla fretta. Raggiunse la macchina sul ciglio della strada, la cappa di fuoco del piccolo abitacolo le tolse quasi il respiro, chiuse lo sportello e rimase seduta sul muretto, tolse con la punta delle dita la sabbia ai piedi, alle caviglie. Stirò le labbra e avvertì la pelle tendersi sotto minuscoli cristalli di sale. In piedi vicino alla macchina non lo vide subito, ne avvertì il rumore alle spalle, il motorino era lanciato a tutta velocità. «Stronzo! Ti sfracellerai.» pensò mentre inseriva la prima. L’aria fresca aveva stemperato completamente il caldo mentre un ultimo sguardo allo specchietto retrovisore le restituì un bagliore accecante e ad ogni curva la roccia viva, nonostante i radi cespugli di capperi, le rimandava un senso d’implacabile arsura. Due curve e il teppistello sfogava i suoi ardori con gli agenti della Stradale. «Te la sei cercata!» pensò non senza una punta di soddisfazione. Portandosi sul lato posteriore, lungo le aree esterne del parcheggio, notò subito la posizione anomala dell’utilitaria in sosta che, nonostante le piccole dimensioni, aveva occupato molto più dello spazio necessario. Non ne fu particolarmente colpita valutò, anzi, con serena indulgenza il numero di manovre supplementari cui la costringevano i parcheggi selvaggi della sua stravagante vicina, considerò anche gli effetti di una sua devastante uscita e, dopo esserle sembrato di aver passato in rassegna con ragionevole previsione ogni accidente a venire, girò la chiave. Percorse il vialetto pedonale, coprì i pochi scalini che la separavano dalla casa. 7
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Dopo lo scatto metallico della serratura, avvertì che il silenzio della casa era interrotto solo da brandelli di conversazione. Impiegò più tempo del necessario in anticamera lasciando che un finto tono di circostanza accompagnasse inutili battute da una parte all’altra del filo. Si diresse in cucina, prese una bottiglia dal frigo e bevve con avidità. Sgridava sempre i suoi figli quando lo facevano. Una cosa poco civile! Questa volta però non contava. Bevve oltre la sazietà, bevve per il piacere di sentire l’acqua fresca ed effervescente gorgogliarle nella gola e, ancora una volta, i polmoni tesi fino allo spasimo. Ansimò rumorosamente mentre riponeva la bottiglia, lasciò che gli occhi si posassero sull’ordine cellophanato degli alimenti riposti con cura nei vari ripiani. Chiuse con uno scatto e si guardò intorno: l’acqua le aveva snebbiato la mente. Si diresse verso la stanza di Claudia, aprì la porta: sua figlia, come al solito, occupava il letto di traverso, a pancia in giù, le gambe penzoloni nel vuoto. «Mamma!!! Dov’eri finita?» Conosceva bene l’esagerata sorpresa, la finta costernazione del tono: tutto a vantaggio del suo interlocutore. Era un’attrice sua figlia! E ogni volta che questo lato del suo carattere si palesava in modo così evidente, non sapeva se rallegrarsene o disturbarsene. Sapeva, però, di assumere puntualmente un atteggiamento indispettito. «Perché eri preoccupata?» La risposta fu indiretta. «È venuta la mamma di Marco. Voleva parlarti, le ho detto che eri a scuola.» Era rientrata nel tono e avvertì l’indugio dello sguardo sulla pelle arrossata, sui capelli scomposti, quasi una sorta di rimprovero. 8
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«Angelo è andato a fare la partita. Ci ha messo un po’ di tempo a cercare l’accappatoio e non l’avrebbe trovato se non fosse stato per me che mi sono concentrata sulla tua organizzazione domestica... et voilà! L’accappatoio era nei panni sporchi, dov’era andato a finire tre giorni fa.» Claudia era un’artista nel polverizzarle in pochi istanti briciole di serenità che a fatica era riuscita a mettere insieme. Preferì non rispondere, si buttò anche lei di traverso sul letto: il pensiero della mamma di Marco le aveva riacutizzato un oscuro senso di malessere. Tenne gli occhi chiusi per un lungo istante, li riaprì sotto il silenzio implacabile di Claudia, seduta adesso a capo del letto a gambe incrociate, lo sguardo offeso e fiero di una divinità orientale. Stavolta era riuscita a leggerle bene nel pensiero. «Vedo che hai eletto il mio giaciglio a transfert terapeutico!» Non recitava più. Si risentì della durezza del tono, dandosi della stupida, mentre si alzava a malincuore dal letto. Fu risoluta mentre usciva con dignità, riuscendo perfino a non sbattere la porta. In anticamera la borsa ben gonfia, quasi nascosta in un angolo, le rappresentò per un istante l’animo gentile della madre di Marco con quell’offerta semplice e discreta. Non l’aveva vista entrando e, ne era sicura, non l’aveva vista nemmeno Claudia. Portò tutto in cucina e il profumo delle pesche si spigionò nell’aria non appena ebbe lacerato l’involucro; erano state scelte una ad una, ne ammirò la pezzatura. Afferrò la più grande e l’addentò senza nemmeno lavarla, voleva sentire ancora il calore del sole sulla buccia vellutata, il succo zuccherino colarle dolce e aromatico agli angoli della bocca, mentre masticava lentamente la polpa. 9
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Claudia la trovò seduta al tavolo in cucina mentre staccava l’ultimo boccone di polpa. Era bella sua madre! E anche con i capelli arruffati e induriti dalla salsedine e il viso arrossato e sporco di pesca e quell’aria incazzata, era bella sua madre! «Sei arrabbiata?» Finse un tono d’indifferenza mentre rovinava con inconsapevole candore verso il baratro «Come mai hai comprato le pesche? C’era già tanta frutta in frigo.» Aveva parlato senza pensarci, mentre soppesava la pesca. Avvertì subito la tensione prima ancora di guardarla. «Non ho comprato niente, le ho trovate nell’ingresso.» «Le ha portate la mamma di Marco?» il tono di Claudia adesso era più conciliante. «Brava! Vedi che con un piccolo sforzo riesci a comprendere?» «Perché sei arrabbiata? È successo qualcosa a scuola?» Claudia era rientrata nel suo ruolo di figlia. Troppo tardi però! «Adesso vado a fare una doccia e poi vado a dormire. Sono molto stanca. Ci pensi tu per la cena?» La sua era una domanda che non richiedeva alcuna risposta e, indifferente ad un eventuale sconvolgimento che tutto questo avrebbe apportato ai piani di sua figlia, Flavia uscì dalla stanza, chiudendo la porta su questa magra e meschina soddisfazione. Si spogliò velocemente e aprì il getto freddo sulla pelle accaldata. Rabbrividì, resistendo alla tentazione di innalzare la temperatura dell’acqua. Insaponò, poi, con cura ogni centimetro di pelle e, mentre l’acqua le cadeva addosso, rimase immobile per un lungo istante a guardare la schiuma, scura di sabbia, scivolare via. 10