Uscita di sicurezza

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Marco Danielli

Uscita di sicurezza


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Questo libro trae spunto da fatti di cronaca autentici, pertanto ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale e da ritenersi un artificio letterario voluto dall’Autore.

Copyright © 2015 - Tutti i diritti sono riservati per tutti i Paesi Casa Editrice Antipodes Via Toscana, 2 90144 Palermo www.antipodes.it info@antipodes.it In copertina: disegno di Daniele Danielli. ISBN: 978-88-96926-81-9

Marco Danielli, Uscita di sicurezza, Antipodes, Palermo 2015


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Ad Anna, Daniele e Chiara.


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Prologo

È

ancora buio, davanti all’ingresso del cimitero monumentale di Staglieno un piccolo gruppo di anziani chiacchiera in attesa dell’apertura dei cancelli. Anch’io sosto, insieme a loro,in attesa che si apra l’enorme portone metallico, preludio del mio limbo quotidiano. Sì, perché lavorare a Staglieno è proprio come vivere in un limbo, un luogo fuori dal tempo e dalla realtà. Dicono che Staglieno, il Camposanto di Genova, sia il cimitero monumentale più grande di Europa, una sorta di strano e romantico museo dell’arte borghese della seconda metà dell’Ottocento. Camminare tra i folti viali e le gallerie che lo disegnano, lungo la collina che gli fa da sfondo, suscita grande impressione e fascinazione, proprio come testimoniano i racconti degli illustri viaggiatori e artisti che lo hanno visitato nel tempo. Le dimensioni enormi, le altissime mura di cinta e le architetture imponenti creano suggestioni rare, tutto vive, tutto vibra dentro il Tempo e se questo si blocca fa sì che ogni cosa sia e non divenga più. In inverno, poi, quando il cimitero è ancora chiuso, passeggiare tra le tombe monumentali è un’esperienza surreale: nel silenzio assoluto le statue antropomorfe, al balenare dei riflessi dei ceri, sembrano quasi muoversi..., è come se rientrassero da chissà quale sabba notturno e si riposizionassero sui loro piedistalli per la consueta finzione diurna agli umani. 5


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Sono di turno alle inumazioni, campo 11. Di nuovo. A Staglieno ci sono cosi tanti campi che, per completare il turno di inumazione, occorrono dieci anni. E dieci anni passano e ti ritrovi nello stesso campo. Il Tempo è un trabocchetto dell’Eternità, perché gli accadimenti non si succedano tutti nel medesimo istante... Mi sforzo di fare il mio dovere nel migliore dei modi, anche se è più che evidente che fare l’operatore cimiteriale seppellitore, il becchino insomma, non possa proprio considerarsi un’attività gratificante; inoltre, non si può certo dire che io abbia mai socializzato più di tanto con i miei colleghi… direi che non mi considerano proprio. Quando il lavoro, i rapporti personali e le vicende private si presentano dolorosamente crudeli alla mia coscienza e le chiedono attenzione mi rifugio “nella casa”, immersa tra gli alberi, dove un tempo viveva un custode. Ora è una struttura pericolante ed anche il percorso per accedervi è dissestato, tanto che per giungervi bisogna oltrepassare una specie di selva, dopo la quale appare una porta di legno chiusa da una catenella; da lì si accede ad un piccolo cortiletto in terra battuta, che si è tramutata in un prato. Questo spazio è cintato da un muro che impedisce al vento di entrare e, l’ingresso della casa è esposto a sud, pertanto, gode della luce migliore. Appoggiato alla parete vi è un ceppo di legno che uso come poltrona: è proprio lì che mi siedo, a godermi il sole sul viso. Poi il rito: estraggo un po’ di tabacco ed il pezzettino di carta stagnola contenente il fumo e, con gesti lenti, misurati e quasi solenni mi rollo la mia canna. Inizio a fumare, osservando le figure disegnate dal fumo nell’aria, chiudo gli occhi e viaggio via. Sono nell’ombelico del mondo, nell’occhio del ciclone attorno al quale tutto ruota vorticosamente, mentre io mi 6


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libro in un’assoluta calma piatta, in una totale assenza di vento. E, intrappolato tra passato e presente, in questo posto così isolato e assurdo finalmente vivo quello che avrei potuto essere, e costruisco le mie vicende parallele. Quell’uscio di legno è la fuga dalla mia quotidianità allucinante, è: L’USCITA DI SICUREZZA.

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U

na strana famiglia la mia: un esempio concreto di come la gente del mondo si mischi senza un criterio logico. Da parte materna, un nonno genovesissimo che faceva il mediatore in porto, pareva il personaggio di un film: elegante, raffinato, con quell’orologio a cipolla ed i suoi baffetti... una specie di David Niven, insomma. Era un grande cacciatore e infatti, in tempo di guerra, il cibo non fu mai un problema per la sua famiglia, che si era rifugiata sulle Alpi. Essendo un alpino, sarebbe dovuto partire per la campagna di Russia con la Julia (una di quelle divisioni che non tornarono), quando fortunosamente, durante le visite, un soldato gli disse: «Prendi la mia urina, ho la leucemia: io morirò presto... ma tu hai una figlia...». Fu così che si salvò. L’addestramento del nipote del grande cacciatore, ossia il mio addestramento, fu precocissimo. Mio nonno e mio padre solevano cacciare i colombacci1 nei dintorni della Madonna del Monte, uno dei rilievi che cingono Genova a nord, sospingendola in mare; con loro, nelle gelide giornate di tra1

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Colombi selvatici cacciati durante le migrazioni.


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montana, un esercito di cacciatori aspettava quegli uccelli che, sospinti dal vento, tentavano di superare l’appennino per fermarli, loro malgrado, con un muro di pallini. Mio padre, dopo avermi per bene imbacuccato, mi infilava nella cacciatora2 insieme al biberon del latte, e, appostato, sparava ai colombacci; a fine mattinata si ritornava a casa: lui in compagnia di mio nonno ed io dei colombacci morti dentro la cacciatora. Non ricordo, non potrei farlo, quali fossero i miei pensieri in quella situazione: immagino, mi saranno parsi quanto meno un po’... riservati quegli uccelli mezzi spappolati con cui condividevo quel marsupio posteriore! Rammento ancora il giorno in cui avrei dovuto uccidere la mia prima preda. Il fucile era alto come me: era una doppietta calibro 20, Officine Belga, un gioiello di balistica che straordinari artigiani avevano decorato con figure di fagiani, cani da caccia e uccelli, insomma, un manifesto esplicito delle intenzioni d’uso dell’oggetto. L’arma era dotata di percussori esterni ed era una delle due doppiette in dotazione all’arsenale personale di mio nonno (l’altra era una calibro 12, decisamente più potente e pesante), costituito anche da due fucili mono canna calibro 36 e 22 da uccelletti o, come si diceva... da “signora”! Il grande vecchio mi diceva: «La vedi quella gazza? Bene, non la puoi sbagliare, sta’ venendo dritta da noi... Ti dico io, quando sparare». La macchia scura era allineata con il mirino; avevo una paura mostruosa, senza contare lo sforzo immane per tenere sollevato quello che per me era una specie di cannone. All’improvviso l’ordine: «Spara!». Chiusi gli occhi, premetti il grilletto e mi Tasca posteriore dell’indumento per la caccia, che serve per riporre la prede. 2

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trovai a terra con un fischio forte nelle orecchie. In cielo, la gazza che volava tranquilla sopra le nostre teste, incurante della nostra presenza. Non so descrivere lo sguardo di mio nonno: una via di mezzo tra stupore e disprezzo. Indimenticabile. Comunque i compiti dell’aspirante cacciatore erano anche altri: gettarsi nella boscaglia per stanare le prede e finire gli uccelli feriti, facendogli colpire con la nuca un albero, ed in questi, modestamente, io rasentavo l’eccellenza. Durante il tragitto, per recarci nelle zone di caccia, mio nonno che era uomo dotato di grande fantasia, mi raccontava una quantità di storie inverosimili, che per me però erano assolutamente reali. Si cominciava con quella di Mario delle volpi, un bambino abbandonato nei boschi, che era stato allevato appunto dalle astute bestiole: «Guarda, c’è Mario delle volpi che ci spia, lo hai visto?», «Ma dove, nonno?» «Laggiù in fondo! Ecco, è scappato. Devi essere più veloce a guardare». Inutile dire che non riuscii mai a scorgere con chiarezza Mario delle volpi, che era un fenomeno di rapidità, anche se ero assolutamente sicuro che quelle ombre e quei fruscii del bosco appartenessero a lui che mi spiava. Altro cavallo di battaglia di mio nonno era la storia della biscia e dell’orologio. «Devi sapere, che una volta, in montagna, di ritorno dalla caccia, trovai una fontana con la vasca per fare abbeverare le mucche. Faceva un caldo tremendo, così, mi rinfrescai e bevvi, dopo di che scesi a valle. Arrivato in paese mi resi conto di aver perso il mio cipollone e, facendo mente locale, realizzai che non poteva che essere accaduto presso la fontana sul monte, per cui decisi di tornarci la mattina seguente. Arrivai a mezzogiorno, quando si sentivano le campane dei paesi che suonavano: quando ritrovai il cipollone, segnava proprio 10


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