Le mani sulla pelle sotto vesti di seta

Page 1

Le mani sulla pelle sotto vesti di seta

Romanzo

Antonio Pignatiello


Le mani sulla pelle sotto vesti di seta ProprietĂ Letteraria di Antonio Pignatiello Tutti i diritti riservati Copertina di A. Venditti Prima Edizione, Dicembre 2011


Ogni riferimento a fatti, cose e persone sono puramente casuali.


Ultimo Sabato d’Agosto, mattina

Le rocce hanno con sé l’energia del mondo. Sono quelle che più, tra tutto, la gente non nota, non vive, scansa perché scomode. Invece hanno l’energia dell’universo e la portano con sé, la racchiudono, la conservano da tanto di quel tempo che il conto non si può più fare. Le rocce hanno anime con sé, le proteggono e le vivono, pulsano da sé e nessuno sembra se ne accorga. Se non quando ci sono seduti su. Manuel Yelmo era seduto su una roccia, ci stava comodo benché non fosse una poltrona. Ci stava seduto su quell’anfratto e ammasso, per gli altri, di pietra informe, scomoda e pungente che tagliava la carne e i calzoni, li segnava sedendoci sopra. Non puoi correre sulle rocce, non ti ci puoi sdraiare sopra, non sei mai tranquillo col corpo ma con l’anima sì. Il silenzio era imponente, padrone, maestoso e vero, come un camposanto. Non il silenzio della solitudine e della ricerca disperata di parole, di orecchie, no, era un silenzio soave quello che ti offrivano le rocce. Le rocce sono pietra, fango, corpi, acqua, fuoco e aria. Nessuno le scorge di norma, quasi tutti le evitano, non le fotografano, non le mostrano agli amici. Stanno lì le rocce silenziose e immobili, sembra, agli occhi degli altri. Non si spostano e per tutta la vita, la breve esistenza di un uomo, quella roccia così era quando era bambino e così sarà ancora, passandoci vicino a guardarla, quando ne avrai novanta di anni. Lì, ferma, uguale, nessuno l’ha smossa, nessuno l’ha notata più di tanto, nessuno l’ha quasi disegnata, filmata, immortalata perché è già immortale di sé. Le rocce ti prendono l’anima e il pensiero e te lo annullano di ciò che eri e ti danno altro. Non te ne accorgi e quando ti alzi per spostarti quasi ti spiace di abbandonarla, era la


pace la roccia, il silenzio, l’anima della verità, della conoscenza che si vive e non parla, non scrive, non detta. Pietra e carne insieme, terra e sangue insieme, detriti e pensieri insieme e stai lì a guardare il cielo, col caldo, gli uccelli e l’orizzonte e i piccoli esseri che vivono nella roccia, attorno la roccia, un mondo sconosciuto a tanti, quasi a tutti e la roccia è lì per essere te e perché tu diventi lei. Manuel la pensò seduto sulla roccia. Pensò alle sue cosce belle, perfette, la carne morbida, succosa, liscia, da desiderio, che tutti desideravano e lui viveva. La pensò con le sue mani che percorrevano il suo corpo come voleva, dove voleva, senza remore, senza timidezze, senza indugi, senza dinieghi e sentiva il suo piacere, il suo era per lui, quello di lei era per lui, il piacere era per lui. Il profumo della pelle di lei già se lo sentiva attorno e mentre il vento caldo di quell’estate nel campo aperto, da solo, lo portava sempre più lontano allora arrivava a scatti, a fotogrammi, senza che chiedevano permesso, le immagini di lei, dei suoi seni, dei suoi capezzoli, delle sue gambe, del suo culo morbido, divino lo chiamava e glielo diceva, delle sue labbra che l’avrebbero bevuto come l’avevano già bevuto. E dei suoi sorrisi a denti bianchi, perfetti. Che sorriso c’ha Marina, pensava, che bel sorriso. La roccia ti sposta, ti fa sistemare meglio, ti fa male la carne, ti rende impaziente a volte quel dolore ma lo sopporti, sai che ti porta ancora lontano nei pensieri. Poi ti alzi, ecco ti alzi, e te ne vai perché benchè vorresti restare lì sai che la tua vita è altrove e sei già fortunato, sì, di esser rimasto sulla roccia un po’, da solo apparentemente perché c’era tutto con te. E non serve saperlo perché quando l’universo entra dentro di te sa cosa cercare, con cosa dialogare dentro di te e non gli importa che tu lo sappia o te lo dica, vive di sé, poi tu fai solo ciò che devi e ti da pure l’illusione che sia tu a fare tutto ma non è così. Come non è così che sei tu che non fai. Ciò che non fai è come quello che fai: è e basta. Arrivò a piedi all’auto tenendo la giacca sulle spalle tenuta da una mano. L’auto lasciata lì sul ciglio della rada ed entrò, si sedette e


accese la musica di Amy e ascoltò Blues. Rimase così fermo, fumando, guardando la roccia dove era stato seduto, fisso, e poi avanti, la campagna. Tutto girava e tutto era immobile. Il caldo spaccava tutto dentro di lui, l’alcol, il caffè, il cornetto preso, i polmoni con le sue sigarette e le parole gli entravano dentro mentre la roccia era lì, il cielo era lì, la campagna era lì come un quadro, una pittura uguale ogni giorno ma per lui ora unica, la sua, la sua anima era quella pittura, la campagna, la roccia, la musica di Amy e la sigaretta con la sua auto. Ai suoi occhi ferma lei, fermo lui, fermo tutto. E in realtà tutto girava. Non c’era altro da fare che andarla a prendere, Marina, a casa, aspettando che uscisse dalla villa di Donna Mara, sua zia, dove viveva, di famiglia, da sempre. La vide arrivare con la sue veste di seta colorata di fiori bianchi e blu, quelle gambe a ics che sui tacchi davano una forma e trasmettevano un piacere unico, difficile da trovare altrove nel mondo, o ce l’ha o non ce l’hai, per dirla semplice e come tutti, come un luogo comune stavolta vero. Quei seni che danzavano appena esposti, grandi e morbidi, profumati e lisci e dietro che si muova la carne come mai e chi lo guardava restava con gli occhi puntati lì. Il sorriso sempre presente in quel viso angelico finchè non la guardavi bene, poi uscivano due occhi blu un’immagine che poteva farti paura tolta la coltre del sorriso. Camminava tenendo la borsa con leggerezza, la collana che splendeva ai raggi del sole e il davanti, sotto la veste, che faceva intendere che sì lo aspettava e aveva pensato a lui. Salita sull’auto lo baciò e lo ribaciò di nuovo, sorridendo poi e Manuel sorrise e disse: “Sei bellissima”. A lei bastò, anzi, oltre che bastare e sorrise e lo ribaciò, così Manuel ingranò andando via verso casa sua. Era bellissima sì, ma Manuel non era innamorato di lei. Era bellissima e già era tanto, quanti avrebbero voluto stare al suo posto? E ricchissima. E pure intelligente, quasi diabolica nella sua apparenza angelica estetica del


viso e delle forme. Ma non era innamorato. Le piaceva, lo eccitava, ci faceva il maiale con gusto e soddisfazione, lei faceva la maiala con gusto e soddisfazione ma non era innamorato di lei. E Marina non era innamorata di lui. Se ne erano convinti così. Come quando una cosa piace perchè deve piacere, tanto te lo dici e tanto lo dicono che alla fine ti convinci che è così ma è una truffa, un inganno, un imbroglio. Magari di quelli che sono gradevoli ma restava un inganno comunque e gli sarebbe bastato un attimo, fermarsi e la cosa sarebbe caduta, il film sarebbe finito come quando spegni la televisione o esci dal cinema a metà. Marina a Manuel piaceva, e Manuel a Marina piaceva, altre volevano essere al suo posto; piaceva a molte Manuel, più avanzava d’età e più piaceva ma Marina non era innamorata di lui. Era bella come la sua terra, pensò Manuel di Marina; lui come la sua terra, pensava Marina. La Romagna era bellissima, l’Argentina pure. Salirono le scale del palazzo con lei davanti che le svolazzava la veste. Manuel le guardava le gambe e le caviglie, le donne per sé si riconoscono dalle caviglie, se ti piacciono le caviglie ti piace lei. Lei lo baciò quando lui si fermò davanti la porta e infilò la chiave. Non fece a tempo che richiuse la porta alle sue spalle, nella sua casa, Manuel, che Marina si avviò spedita dentro conoscendo la casa dopo essere stata abbracciata a lui. Manuel posò la sua giacca e andò in cucina a prendere un po’ di tequila. La versò e bevve e si accese la sigaretta, in piedi. Girò la testa e vide Marina sull’uscio della cucina. In piedi, sui tacchi. Solo i tacchi bastavano a desiderarla e sorrideva. Marina gli si avvicinò e le toccò i capelli, piano, ai lati, li accarezzò e lui si fece accarezzare, poi Manuel alzò la mano e la toccò dietro. Il culo di lei era di una morbidezza straordinaria, pieno e liscio, morbido e fresco, è sempre fresco il culo di una donna rispetto a tutto il resto del corpo, si disse Manuel, e cominciò a baciarle il collo, slinguandolo, così che lei si attanagliò a lui senza smuoversi da lì.


Sui tacchi. Manuel frugava dietro di lei sotto la veste, alzandogliela e infilando la mano dentro le mutandine di lei che allargò le cosce. Da dietro Manuel, con la sua mano, passò a infilargli le dita tra le gambe, dov’era ora bagnata, lei era bagnata, e cominciava ad emettere i suoi profumi e Manuel continuava a smuovere le dita tra le sue cosce, bagnandosi le dita, infilandole più dentro col palmo aperto a gustare tutto e lei sussultò, poi spinse ancora le dita più su e ne infilò altre e le mutandine di lei erano ormai bagnate. Si eccitò Manuel, si eccitò molto e lungo, duro e orgoglioso così che le baciò la bocca e Marina cominciò a farsi baciare e con la mano di Manuel tra le cosce si lasciò andare sul tavolo della cucina allargando le cosce, da porca, così disse Manuel a sé di lei e le piaceva a Manuel che fosse una porca, così stava con lei e per questo ci stava, non era innamorato, lei non era innamorata ma si piacevano così da morire e si ingannavano sperando non fosse troppo tardi. Manuel vedendola con le spalle sul tavolo e le cosce larghe non perse tempo ad allargargliele di più, nude, abbronzate ma perfette, morbide e linde, perfette, sensuali, odorose, eccitanti e le sfilò le mutandine ormai scomparse dentro le pieghe tra le sue cosce calde e umide e lei alzò le gambe aiutandosi a levarsele e girò la testa di lato avvicinando le sue dita alla bocca, leccandosele da sola mentre Manuel sparì, sotto la veste, di lei con le cosce aperte e larghe e alzate in aria a leccargliela mentre lei colava e ansimava e urlava piano ma urlava. Spariva tutto attorno quando erano così, il caldo dell’estate pronta a finire entrava e li faceva sudare ma ancor più Manuel affondava la lingua e smuoveva le labbra e le dita tra le cosce di lei, distesa, rilassata a godersi e pretendere il piacere mentre le sue mani ora lo presero per i capelli a spingergli la testa con forza, che affondasse di più la lingua, le labbra, le dita, che la facesse colare di più. A Manuel piaceva questa volontà di lei di pretendere il piacere, lo sapeva e non si tirava indietro anzi lo eccitava di più finchè lei non cominciò a smuoversi sempre di più e cominciò a urlare di più e più forte con la sua voce da femmina e gemeva sempre più


rilasciata a sé e al piacere e poi urlò quando colò a frotte nella bocca e sulla lingua di Manuel riempiendogli la bocca e urlava Marina e stringeva le cosce ora per l’orgasmo potente e spingeva la testa di Manuel ancora più tra le sue cosce e poi chiuse le cosce ancora e urlò più forte e più forte ancora fino a essere fortissima a trattenere Manuel tra le sue cosce con la lingua e le labbra che quasi Manuel soffocò e urlò di nuovo lei fino a fermarsi soddisfatta. Marina gli tirò con forza i capelli a portarselo ora davanti a lei, alle sue labbra, ai suoi occhi. Manuel si fece tirare e scivolò sul suo corpo radente fino a guardarla negli occhi e stava con i suoi pantaloni, ancora abbottonati, tra le sue cosce. Marina lo guardò toccandogli i capelli, sorrise e attese che lui la baciasse e così fece Manuel. Marina disse di amarlo, lo ridisse, lo disse di nuovo finchè non lo baciò ancora. Poi Manuel la prese con forza sulle braccia e lei avvinghiò le sue gambe ai fianchi di Manuel perdendo i tacchi che cadendo sul pavimento fecero il rumore che indicavano il sesso di loro di ora, e la portò in piedi, Manuel, attaccata a lui che sorrideva, tenendogli le mani sul culo a sorreggerla, con la veste stropicciata e sudata e il seno quasi fuori, la portò al muro appoggiandola a premendola al muro. Lei allora gli sciolse la cinta mentre lui la teneva a la baciava e le toccava il culo premendo le mani e le dita e spingendola bloccandola al muro, lei gli sciolse e sfilò tutta la cinta e lui si sbottonò aprendosi la patta e fece cadere e scivolare i pantaloni uscendolo fuori, duro, lungo, come era Manuel, orgoglioso e prorompente, caldo e desideroso di avere tutto. Lei stessa con un piccolo balzò di reni aiutata da lui che la sosteneva gli si sedette quasi sopra appiccicata al muro e Manuel si fece scivolare dentro tutta quel candore e quello splendore di morbidezza del suo corpo e del suo orgasmo ancora vivo e umido sul suo mondo, chè il mondo di ogni maschio è lì, tra le sue gambe, del maschio, il suo cazzo lungo e duro e cominciò a spingere e spingerla al muro e lei cominciò di nuovo a gemere e Manuel spingeva tenendola da dietro e la baciava e poi si spostò un pò


indietro e aveva Marina quasi con la testa al muro e le schiena staccata dal muro quasi obliqua su di lui e le cosce aperte avvinghiate e attaccate a lui, ai suoi fianchi e Manuel spingeva, sempre più forte e lei urlava sempre più forte e Manuel spinse ora così forte da farle male e con la sua veste ormai madida di sudore e orgasmi e i seni fuori, grandi, che ballavano sull’orlo della veste e Manuel li baciò, morse, succhiò mentre spingeva ancora più forte tenendola così con quelle cosce aperte che se qualcuno avesse visto la scena avrebbe visto che bellezza eccitante d’erotismo e piacere e sensi e splendore di corpi e d’azione inebriante di carne e sangue e orgasmi e sudore e caldo e voglia di lei e di lui c’era. Manuel spinse finchè lei non urlò ancora di più fino a venire di nuovo con le mani di Manuel ormai attaccata, come spuntoni aguzzi al suo culo segnandolo e venne Marina, di nuovo, venne e urlava e impazzì ora tanto che Manuel sapeva di approfittarne di lei ora e la fece scendere e lei posò i piedi a terra e si inginocchiò ancora ululante dell’orgasmo e i capelli smossi e sudati, bagnati, la veste aperta con i seni fuori, soavi di carne morbida bianca e grandi, capezzoli rosa e inginocchiata se lo mise in bocca senza tregua e lo imboccò senza fermarsi, sfregandoselo sui seni, sulle labbra con Manuel in piedi orgoglioso e maschio, tirava Marina, tirava a volerlo bere e godeva ad averlo tra la lingua finchè Manuel non cominciò a prenderli i capelli con forza e spingere la sua testa contro facendolo arrivare fino in gola, così che ora sì lei capì che lui stava per esplodere e aumentò il piacere bastardo della donna di ucciderlo godendo lui e lei e così Manuel esplose con un grugnito e si riempì la faccia di lei, le labbra, la bocca, i seni su cui colava il miele e il latte a frotte, calde, continue, prorompenti e gustose che Marina si passò ancora per del tempo sulle labbra, ancora duro e gocciolante ed espresso di goduria con Manuel che prima si sentì potente e poi soddisfatto e le accarezzava i capelli mentre continuava senza pietà a slinguarlo e succhiarlo di quel che era rimasto di lui che ancora teso aveva spasimi e bere, lei, tutto.


Poi lui la baciò sulla fronte tenendogli il viso tra le mani e poi la baciò sulle labbra ancora lei piena di lui con le labbra che colavano di lui e si baciarono così lei inginocchiata e lui in piedi, ancora svestiti. Poi si alzò lei presa da lui dolcemente e piano andarono insieme sul letto, svestendosi del tutto, gettandosi sopra le lenzuola e dormirono stanchi e soddisfatti e nudi e belli e desideranti e desiderati e desiderabili. Marina l’aveva conosciuta l’autunno prima. L’aveva vista a una mostra a Bologna di un suo amico pittore e l’aveva trovata adorabile, gli piaceva. Lei era sempre sorridente e gli apparve bellissima nei suoi capelli mossi e lunghi biondi, gli occhi azzurri, le caviglie perfette, magre con delle gambe sinuose, da gazzella, un seno devastante nella sua bellezza si immaginò e così fu. E dietro impazziva per lei. Finirono la serata alla mostra parlando lui dei quadri e lei ad ascoltare. Si rividero andando a trovarla lui a sorpresa nella cittadina di lei dove viveva e lavorava e dove lei gli aveva chiesto di passare se avesse potuto. E voluto intese Manuel e così fece. Il sabato successivo erano a casa sua. Poi conobbe tutto di lei, della sua famiglia, pian piano, di sua zia Mara, l’azienda e a Manuel parve il caso di fermarsi, un po’ almeno. Non era innamorato si diceva e lei non era innamorata, diceva Manuel, ma erano insieme attraendosi perchè si piacevano molto, troppo. Poi uno dice cos’è l’amore e l’essere innamorati se quando lei c’è non ti stanca e lui c’è non ti stanca la presenza. Però è anche vero che non le mancava e lui non gli mancava. Cos’era non lo sapeva, amore no va bene però la bellezza di vivere una donna, molto più giovane, bella allegra, ricca, colta, di tradizioni di famiglia, pure credente e che a letto le piaceva come mai allora quella sì, quella bellezza lo sapeva cos’era, la viveva, la riconosceva. Un ricercatore di libri e studioso d’arte, senza cattedra ma chiamato per consulenze in un ambiente tutto particolare, anche quello accademico, per il suo amico professore e docente universitario e scrittore di saggi sull’arte


e i testi sacri e antichi. Manuel amava i libri oltre che leggerli come da giovane per il fatto che fossero libri, rilegati, in tutte le forme, scritti e stampati nei secoli, spece quelli rari, in latino, sacri, misterici, esoterici, ricercati. Perché quelli che vengono stampati per il pubblico sono diversi, non hanno tutto, mancano sempre di alcune parti. E lui sapeva dove trovare quei libri, dove si trovavano, come si riconoscevano. E amava i quadri, la pittura, come pochi, come quasi nessuno. Ma aveva anche un’altra vita che Marina non conosceva, che serviva a qualcuno e serviva a molti. Segreta, nascosta, perfettamente nascosta. Quei giorni con Marina, i fine settimana, erano spazio per lui, aria, respiro, rilassamento dal resto troppo difficile a volte, molto per molti, pericolosa e affascinante ma non ne parlava perchè non doveva e non voleva. Marina era quella di cui vedeva e amava la bellezza. Poteva forse sposarla, anzi sembrava ormai che erano su quel punto. Lui in fondo non l’amava ma cos’era l’amore se poi lei ti piace, l’adori, ne prendi i regali e ne dai. La porti al cinema. Marina si alzò e nuda a piedi scalzi s’infilò nel bagno di Manuel che ancora dormiva. Marina era una ragazza fatta donna ormai pronta a fare ciò che tutte dovevano fare, prendere marito e prenderlo bello, chele piaceva insomma. Manuel era questo e non importava fosse, per lei, argentino e italiano, senza un lavoro ben certificato ma esistente e soprattutto che non viveva da italiano. Amici di Marina a parte che lui odiava ed erano le uniche discussioni, a parte la zia, tra di loro. Marina uscì dal bagno, nuda, Manuel la guardò in penombra che era quasi ora di pranzo e la vide che lei lo baciò mentre lui ancora insonne si dimenava. La baciò, si fece baciare. Poi si alzò a rimettersi in sesto. Cos’era l’amore lui che diceva che non era innamorato e lei non era innamorato se poi gli piaceva baciarla. Uscirono e andarono a mangiare al ristorante poco fuori Bologna e lei rise tutto li tempo a sentire i racconti della settimana di lavoro di Manuel e altro. Rise e continuarono a ridere in auto e passando dal bar. Lei era bella anche quando camminava. L’aria che si portava


dietro e attorno piaceva a Manuel che a volte rallentava nonostante la conoscesse nel corpo per vederla dietro, magari rassicurarsi che era ancora bella e piacente per lui e ne aveva sempre la prova, ne era orgoglioso dunque di uscire con lei. Non era innamorato e diceva che Marina non era innamorata di lui, e in questo la zia aveva ragione, ma gli piaceva averla attorno, spece il suo profumo. Marina sapeva cos’era essere una donna che piace a tutti. Sapeva cos’era una femmina desiderata da tutti. Forse l’aveva imparato ma era stata facilitata anche dalla sua bellezza, sicuramente era così. La bellezza aiuta, rende sicuri, forti, pretestuosi a volte, presuntuosi spesso, devastante per quelli rifiutati, reca sofferenza ai rifiutati la bellezza, qualcuno alla fine la odia. Marina non poteva essere odiata invece nemmeno da chi era rifiutato. Era quella che poteva definirsi una donna su cui tutti speravano prima o poi che scegliesse uno di loro e invece lei aveva scelto Manuel, un argentino senza un lavoro riconosciuto, certo ma remunerativo, libero. Argentino d’origine ma italiano di cultura e crescita. Si era formato lì. E comunque almeno politicamente non era contro la tradizione della famiglia di Marina. Non tanto almeno. E questo rassicurava Marina anche se lei aveva amici opposti che a sua zia Mara e a Manuel non piacevano invece per niente. Ma quel sabato era per lui, senza amici. Le piaceva camminare per quelle vie centrali del centro con lui. Lui la seguiva, mani in tasca e fumando senza profferire granché parole, solo sorrisi al suo dire. Diceva di tutto su calze, vesti, borse, scarpe, gioielli e orsacchiotti e cose di cui Manuel non conosceva minimamente non solo l’esistenza ma anche che qualche mente umana le avesse create, messe in vendita e in esposizione in una via centrale di una città e che a qualcuno, anzi qualcuna, potessero addirittura piacere. Tanto da entrare e comprarlo spedita con lui che chiese di restare fuori perché si vergognava ma additò la scusa che fumava e lei, ovviamente, gli intimò di gettare quella sigaretta e


che non voleva entrare sola, cosa che Manuel non fece e lei gli fece una smorfia e lui rispose con un sorriso. Marina uscì con quella sottospecie di batuffolo con dei ninnoli e colorato non si capiva come e con dei brillantini da bigiotteria attorno. E cominciò, offesa, a camminare spedita a grandi passi, sui tacchi, con la veste diversa, bianca e di seta, per la strada finchè non si fermò alla vetrina di una boutique. Lo guardò e Manuel capì. Gettò la sigaretta sotto i piedi e lo spense, sorrise sornione con lei che lo guardava affettuosamente e fintamente arrabbiata, si mise la giacca benchè l’afa lo spaccava e si mise accanto a lei che lo prese soddisfatta e sorridente a braccetto ed entrarono insieme. E così Manuel si ritrovò dentro quella boutique con due commesse e una padrona che, sì così gli sembrò, credeva di aver visto in un film di Dario Argento. Quella, la padrona, che sicuramente sarebbe stata l’assassina di tutti e tutte in un film di Dario Argento, con un gesto odioso appena appena impercettibile della mano alla commessa che col loro classico sorriso andava verso Marina, senza toccarla, dopo uno sguardo dalla testa ai piedi, schifata, a Manuel, andò dunque verso Marina e fece il suo classico sorriso serioso. Da padrona. Capelli neri lunghissimi tirati indietro e fermati da una spilla d’argento, labbra rosse strettissime e sottili, un neo sulla fronte e uno sotto il collo e duecento quintali, pensò Manuel, di colorante in viso a tenerla tutta intera con un vestito nerissimo ma elegante, va detto, e un culone senza pari, disse Manuel, non grandissimo ma sostanzioso, epr la sua età e da padrona della boutique, erotico comunque disse lui a se stesso. Manuel si fermò poco dietro Marina mentre lei, Marina, parlava e parlava girando tra le mani quel vestitino con la padrona. Poi ne girò un altro e un altro ancora, tra le mani, mentre la commessa con l’altra erano altrove con altri clienti e Manuel si accorse che le due clienti erano sole, il loro uomo insomma non c’era, lui era lì. Guardò attorno Manuel e vide si e no una ventina di vestitini e il resto camiciole e sciarpine estive, calze, magliette con bottoncini dorati e no e un sacco di altro abbigliamento di cui, senza alcun dubbio, non sapeva


nemmeno a cosa servivano. A lui no dunque doveva essere così. Ogni tanto Marina le mostrava il vestitino ponendoselo davanti e Manuel diceva: “bello..” mentre l’arpìa del film horror sorrideva a labbra strette e chiudendo impercettibilmente gli occhi ad approvare ma sentiva, Manuel, che aveva la testa altrove. Lo percepì perché lui sapeva percepire come pochi certe cose. Lei, la padrona allora accompagnò Marina nello spogliatoio, se si poteva chiamare così, con una tenda leggera a coprirlo e Manuel vide che girandosi, la padrona, mosse il culone in modo diverso. Sinuoso. Senza degnarlo affatto di uno sguardo deciso capì, Manuel, epr chi muoveva quel culone: per lui. Vide Manuel che aveva sotto un perizoma. La piega era evidente e vide anche la buccia d’arancia che fece capolino sulla veste nerissima, appena appena ma la vide. Manuel sentì li bisogno di fumare ma dovette restare lì e sbirciò le due altre clienti, carina una bella l’altra con le due commesse che, si sa, erano tutte diverse all’inizio di quel lavoro e pronte ormai sulla strada a diventare come la padrona, nei modi di fare, vestire, muoversi. Erano ancora giovani e libere ma la strada l’avevano intrapresa. Si stavano mimetizzando pian piano, modellando su di lei o forse sulle clienti o tutte e due insieme. Eran giovani e potevano ancora salvarsi, si disse Manuel, ma la strada era intrapresa: prima o poi tra anni avrebbe visto una di loro con una boutique e magari la più fortunata tra le due ne avrebbe avuta una di classe e danarosa o meglio costosa come quella della sua padrona. L’altra magari più semplice e sarebbe stata più fortunata, forse. In pochi attimi la padrona si girò con la sua testa e fece quello sguardo assassino verso Manuel. Lo sguardo assassino di una donna verso un uomo non ha mai odio: è altro ma non odio, non è cattivo, era altro. Ma anche intendeva dire forse, pensò Manuel, di dire la sua, di buono ovviamente, per il vestitino di Marina appena lei sarebbe uscita dallo spogliatoio. Era altro quello sguardo e Manuel lo capì meglio quando lei appena Marina uscì e in tre secondo sorrise, si fece guardare da Manuel che rispose dicendo


che sì era bellissimo e sparì di nuovo Marina a provarne un altro contenta e sorridente. Lì la padrona, con un senso della presenza senza pari, mentre le due commesse erano girate di là con le altre due clienti e Marina si rinfilò dentro lo spogliatoio, lei la padrona si curvò come a prendere qualcosa su un tassello di legno mostrando tutto dietro di lei, restando piegata con le gambe dritte sui tacchi e le cosce nude, tornite e ben depilate, curate e abbronzate, e così rimase qualche secondo finchè non fu chiara, pensò sicuramente la padrona, l’immagine a Manuel del suo culo mostrato, prostrato, che urlava. Il perizoma sotto la veste della padrona segnò lo spartiacque pericoloso e la buccia d’arancia messa così sparì, la veste si alzò così tanto che c’era poco da fare, si vide praticamente tutto. Tutto da prendere, si disse Manuel. E quando lei si alzò il suo seno prosperoso era già quasi fuori passandogli davanti guardandolo con un sorriso diverso e quello sguardo assassino che dicevamo, che con un metro e mezzo almeno di spazio lo sfiorò quasi mentre lui stava con le mani congiunte davanti le palle e chiuse. L’odore lo sentì tutto. Quello. Sparì lei dopo qualche secondo e non tornò per qualche minuto e così Marina uscì da sola sorridente col nuovo vestitino e chiese a Manuel prendendo l’altro e ponendoselo accanto vuoto tra le mani: ”Questo o quello?” “Direi tutti e due belli”- disse Manuel avendo in testa il culone della padrona del film di Dario Argento. “No, uno, scegli.”- disse lei. “Quello, con i fiori rossi.”- disse allora Manuel. “Bene.”- disse Marina e sparì di nuovo dentro lo sgabuzzino chiamato spogliatoio. Tornò la padrona dopo un pò e Marina era ancora dentro e prese un biglietto da visita della boutique, disse così che sentivano anche le commesse nel caso, e lo diede a Manuel che lo preso ringraziando e lo mise nel taschino. La padrona attese che Marina uscisse e così Marina uscì a breve e si pose a passi svelti sui tacchi davanti al bancone con i due vestitini e aveva in mano il portafoglio


con decina di cose, preso dalla borsa dove teneva un centinaio di oggetti che Manuel mai vide dentro ma sapeva fosse così perchè lei una volta per cercare una chiave la svuotò sul tavolo e c’erano tante di quelle cose in quella borsa che si sarebbe potuto aprire un negozio. Manuel accanto ma poco dietro la vide che, sì, li comprò tutti e due e come al solito, epr questo aveva detto che tutti e due erano belli, li prese, Marina, tutti e due i vestitini provati, sia quello con i fiori rossi che quello con le strisce verticali blu, deliziosi entrambi non c’è che dire ma allora perché chiedere ma sapendo che faceva sempre così alla fine stava al gioco. Uscirono con la borsa e la padrona non lo guardò più, salutò dopo aver incassato col bancomat e arrivederci e grazie. Manuel avanzò sulla strada affollata e prese la mano di Marina tenendola stretta a sé al fianco e Marina se la fece prendere contenta e Marina allora dopo pochi passi si fermò e gettò piano le braccia al collo di Manuel, tenendo il borsone del negozio che gli sbatté sulla schiena a Manuel. Manuel capì, sorrise a modo suo mentre lei lo guarda e sorrideva anche con gli occhi che mandavano lampi di felicità e Manuel disse: “Sei bellissima, lo sai?” e lei:”No, non lo so.” E lui: ”Te lo dico io e così lo sai.” Lei annuì sorridendo e disse: ”Non l’ho sentito.” E lui: ”Sei bellissima.” “Ah sì”- disse lei e si baciarono in mezzo la via. Qualcuno vide di sicuro, loro non videro nessuno e si baciarono ancora con quel borsone che sbatteva sulla sua schiena sudata per la giacca e l’afa e Manuel sentì la morbidezza delle sue labbra e dei seni di lei sul suo petto che, va detto, ne godeva di lei ora più che mai con quel caldo e quel piacere del piacersi. Manuel allora sapeva che ora Marina gli avrebbe concesso il suo breve tempo: l’entrata in un bar lì vicino rifiutandosi però sia di sedersi che di prendere qualcosa. Ormai aveva solo fretta di tornare a casa e mettersi uno di quei vestitini comprati forse. Manuel così prese il caffè e si avviò alla cassa a pagare e mise la mano in tasca a


prendere le monete, Marina era intanto di spalle poco lontana nel bar a guardare un quadro appeso, Manuel uscì le monete infilando la mano nella tasca della giacca e prese anche il biglietto della boutique e percepì, notò una scritta dietro e lesse: un numero di cellulare scritto a penna e il nome, Valeria. Lo infilò subito in tasca guardando Marina sperando non avesse notato nulla. Uscirono e appena furono fuori e vide un cestino tenendo ancora lo scontrino del caffè in mano lo gettò furtivamente insieme al bigliettino da visita della boutique con fare svelto senza che Marina si accorgesse di nulla. Era salvo, almeno per quella giornata, l’avesse visto Marina si prevedeva già una scenata da cronaca della città la domenica mattina, l’indomani, tra boutique e ospedali vari. Lo sapeva. Nel caso la boutique era di sicuro sempre là, non c’era certo bisogno di un cellulare che lascia più tracce di un elefante in una cristalleria. E andarono così a casa, felice lei degli acquisti, contento lui che quel solito giro per le vie e negozi era finito. Andarono la sera al cinema dopo la pizza. Il cinema piaceva a Manuel e piaceva a Marina essere portata al cinema. Il cinema era quello che più faceva passare il bel tempo a Manuel. Andarono a vedere così Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, con Freida Pinto e Antonio Banderas, un film di Woody Allen. Non poteva esserci un titolo diverso per Marina se dovevano andare al cinema, si disse Manuel, parlava d’amore e appena fuori ecco che spuntò fuori l’argomento Manuel l’ascoltò, rispose, parlò poco ma Marina aveva questo che apparteneva a tutte le donne: l’amore, il dopo, il matrimonio e quel film sulle illusioni dell’amore non poteva che farle dire che no, a lei non sarebbe andata così con lui, lui era Manuel ovviamente, perché lei pensava questo e quell’altro. Manuel ascoltava ne guardava la bellezza ancora. Non era innamorato e diceva che Marina non era innamorata di lui ma la guardava mentre parlava spece quando rideva e quando qualcosa di


lei che sentiva dirle non le piaceva scendeva lo sguardo al suo culo, alle sua gambe, ai suoi seni sotto le veste, ai pensieri del suo corpo tra le sue mani, a come lei glielo imboccava e beveva e come la prendeva da dietro tenuta per i fianchi e gli passava tutto a Manuel, sì. Sì, gli passava tutto. Marina non era una donna da grandi discussioni. Lei aveva alcuni concetti in testa, come tante, poi era essenzialmente furba, istintiva, immediata. Amava la vita ma non sapeva nulla di un sacco di cose. Manuel era un uomo invece che viveva di sé, amava la donna e foss’anche per una notte e un giorno o due, tre, lui ascoltava, discuteva, sentiva li suo profumo. Non ne amava solo il corpo ma anche il resto. E lo desiderava. Le amava così, comunicava così con loro. Marina no, un uomo era per sempre e unico e unica voleva essere ma non aveva sfarfallamenti mentali, culturali, dialettici. Ascoltò Manuel alla mostra e poi non gli chiese quasi più niente d’arte, non s’interessò granché del suo lavoro, dei suoi interessi. Lo vedeva una volta a settimana per due giorni, anzi un giorno e mezzo e poi qualche volta poteva capitare per caso durante la settimana. Lo sentiva a volte per telefono e stava lunghe ore magari a parlare ma mai delle questioni della vita, del lavoro di Manuel, del suo. Non si capiva infatti come facesse a parlare così tanto del nulla. Ci riusciva in maniera naturale a parlare del nulla, di un sacco di cose, quasi tutte, che a Manuel interessavano come di che tempo ci fosse in quel momento a Bangkok, cioè per niente. Alla stessa maniera d’altronde di quanto a Marina interessasse dell’arte e di libri sacri e antichi e del resto di cui Manuel viveva e s’interessava. A Marina nemmeno importava di Manuel se lui ci sarebbe stato bene nel matrimonio che gli aveva proposto. Forse erano i quindici anni in meno che aveva, forse quelli in più che aveva Manuel ma la realtà era quella. Lui l’avrebbe amata ancora per qualche mese, forse meno, forse sempre nel corpo ma non era innamorato e nemmeno lei lo era.


“Secondo me questa storia al cinema non è stata poi così interessante. Il film era bello, Banderas è bello, lei pure ma poi se uno ama vive il mondo come lo vuole e desidera e se lo fa che centrano tutte quelle complicazioni?”- disse Marina di fronte a un cocktail con le olivette ne piattino e i salatini. “Tu non pensi che sia tutta un’illusione?” “No. Mia madre e mio padre si son sposati, han messo su famiglia, l’azienda e non si sono mai separati. Nessuna illusione. Si deve soffrire e avere palle nella vita e poche discussioni e sfarfallamenti.” “Non si sono mai traditi secondo te? Mai una scappatella?” “Ma scherzi? Giammai.” - disse Marina e rise. Ecco, rise e Manuel sapeva che ridendo così la discussione finiva lì e non l’avrebbe più fatta riflettere, anzi si pentiva. Peraltro era sicuro che il papà di lui da vecchio fascista altro che se non aveva avuto scappatelle, magari con qualche prostituta del regime, anche di quello di oggi. Ma con Marina era così. Il suo corpo parlava, non la sua bocca. Poi era furba nelle cose di ogni giorno, nelle cose di sempre, nelle cose semplici. E lì Manuel era out, fuori, finito, fuori onda e non poteva che ammettere la superiorità di lei.


La Domenica mattina

Manuel Yelmo aprì gli occhi e fece appena a vederla da dietro prima che lei sparisse per le scale. Nella penombra plumbea dell’alba dell’autunno con i raggi della luce appena spuntati che dalla finestra illuminavano la sua casa in modo diverso da quella dell’inverno vedendola dietro, che benchè di lei la conoscesse bene, quella carne gli parve bellissima. Lei scese le scale affrontando il primo gradino portandosi a suo modo, che tanto piaceva a Manuel, i capelli biondi dietro l’orecchio con la mano. Si fermò un attimo prima di mettere il piedino e nuda sotto la sua camicia bianca con gli odori del ristorante di ieri e del suo corpo di maschio, sui tacchi, perchè metteva i tacchi sempre, come titubante, mise il primo piedino e allargò le braccia, entrambe, alle mura appoggiandosi e tenendosi come un passamano e Manuel vide quella piega splendida, unica, che solo quando c’è allora quello è un culo di donna bellissimo, lui lo sapeva o almeno per lui era così, doveva piacergli se faceva quella piega; poi lei mise il secondo piede, piano, sul gradino, poi l’altro, poi fu solo un tic toc di tacchi per le scale e alla vista di Manuel, con la testa sul cuscino, di lato, quella foto, quei fotogrammi glamour, così gli apparvero, prima sparirono le gambe e il basso della schiena, bello, morbido, che fluttuava quasi a regalare l’ultimo orgasmo agli occhi, poi la camicia sua bianca sulla schiena dritta, gentile, di pelle ambrata, nascosta dalla camicia ma si percepiva fosse bella, con i capelli lunghi di sopra e poi anche la bionda testa. Sentì i tacchi giù che ancora si muovevano, tic tac, tic tac. Sentì altri rumori piccoli e li decifrava: ora pulisce la moka per il caffè nel lavabo, la prepara prendendo dallo stipetto il caffè, poi la chiude e


nonostante non sembrasse a vederla nei polsi aveva più forza di lui, accende il fuoco con l’accendino suo e si è seduta a gambe accavallate. Nuda doveva essere una vista sublime e fu geloso delle mura di casa sua che in quel momento, insieme ai quadri e ai mobili, le sedie e le foto appese, persino il suo accendino, potevano ammirarla e lui no. Lui l’avrebbe vista dopo a breve ma molto più probabilmente l’avrebbe sentita più che vederla. Se una donna parla, la mattina presto, così come lei faceva da qualche tempo, in modo arrogante, nervoso, quasi sferzante, il corpo di lei sparisce. Se una donna è sola, nuda, splendida come ora Marina era, con le cosce accavallate sulla sedia, in cucina, non la vede nessuno se non ciò che c’è in quella stanza. Per tutti gli uomini era così, disse Manuel, una punizione per averla amata la notte. Aspettò l’odore del caffè che usciva per vedere se lo avesse chiamato e come. Chiuse gli occhi e storse il muso, Manuel, quando sentito l’odore si accorse che non lo chiamò. Ma lo sapeva che avrebbe fatto così. Sentì nella sua testa che si versava il caffè nella tazzina, che lo beveva, che prendeva la sua sigaretta, se l’accendeva e gettava fuori il fumo come fosse dentro un film. Sapeva farlo benissimo Marina quel gesto. Chissà quanto aveva studiato a vedere Lauren Bacall in televisione fare così e ora lo faceva quasi meglio di lei. Ora si è seduta, disse Manuel, e come volevasi dimostrare non l’ha chiamato per il caffè. E tutto perché lui non gliela mi hai portato a letto le volte che si son visti. “Me lo porti il caffè?” diceva lei ridendo ben sapendo che non era arte e uso e costume di Manuel farlo ma se lui l’avesse fatto sarebbe stata una conquista per lei, una vittoria senza pari ma Manuel rispondeva sorridendo e diceva “ma dai su che non sei tipo da mogliettina col caffè a letto portato dal maritino”. E ci rimaneva malissimo lei. Anzi, se la legò al dito, sbuffava gettando via le lenzuola e come una tigre si alzava a prenderselo e per ora non parlava che a sibili. Ora gliela faceva pagare. E meno male che la vedeva poche volte. Però che ci voleva a portargli il caffè a letto, di sicuro a lei sarebbe bastato una sola volta. Ma infatti basta una sola


volta per dare promesse non dette e far considerare così per sempre un sacco di cose come per certe, date, sicure. Perché il caffè portato a letto, benchè lui le volesse bene, l’amasse, avrebbe significato un sacco di altre cose per lei e Manuel lo sapeva bene. Cose che lui non poteva, non voleva secondo lei, non doveva forse, darle. Manuel Yelmo si girò nel letto e guardò il soffitto, lo guardò fisso. Marina gli aveva detto una volta che a lei era capitato di fermarsi a guardare il soffitto nel letto quando era a casa, da sola, sveglia, senza voglia di alzarsi con lui accanto e pensava alla notte d’amore. Riguardava. Riguardava e la riguardava con piacere, come una notte d’amore appunto. E gli chiese: ”Anche per te è stata una notte d’amore o solo di sesso?” e lui non rispondeva che con quel suo sorriso, poi l’accarezzava e lei sorrideva ma un po’ triste, forse, negli occhi. Ora aveva messo su Amy Winehouse, lo sapeva. Aveva acceso il suo compact dvd e radio e aveva messo Frank, ecco Stronger than me. La vedeva con le sue cosce bianche, nella testa, che seduta ascoltava e fumava. “Non è vero che non ti penso, Marina, solo che non penso a te nelle notti che chiami d’amore. Sì per me sono sesso, piacere, corpi, orgasmi, devastante piacere per me e te con le tue urla e sospiri e le mie che tu chiami bastardate mentre per te sono abbracci e scene d’amore. Io ti vedo invece così, come ti sto vedendo ora, niente sesso, niente porcate e maialate che mi piacciono tanto come a te ma tu mi fai capire, mi dici, che per te sono amore, non piacere. Io ti vedo seduta, già lo so, senti Amy e giri con la testa, mi odi, non gli somigli, tu sei bionda, lei bruna, tu con un volto madonnineo e col corpo curato, Amy mediterranea, forse anatolica e col corpo tatuato. Vuoi essere come lei e quando ti portai questo dvd e ti dissi “ascoltala” te ne innamorasti e mi dicesti “ma tu come fai ad amare questa musica, tu che senti Mozart e Bach, tanghi e polke, canzoni antiche e americane, jazz e quel


noiosissimo blues per uomini tristi?” e tu rispondesti:”ma da giovane anche Hendrix e Bob Dylan.” E lei ridendo senza fermarsi:” Tu Hendrix e Bob Dylan? Ma va là, và!” E rideva. A Manuel gli piaceva quando rideva e lui rispondeva sorridendo e poi stizzito:”E il blues non è suonato da uomini tristi, quando suonano ridono sempre.” E lei:”Boh, io ho sempre sentito così, che è tristezza e sinceramente dopo un po’ mi vengono due palle così”. E lo disse mimando con le mani, Marina. Sarai triste Manuel e non lo sai? “ma tu vorresti, ti piacerebbe se mi facessi tatuare sul seno qualcosa come la Amy?” ti chiese di botto a letto mettendosi sopra di te e il suo seno grande, bianco, odoroso, con i capezzoli rosa duri che ti pungevano il petto e tu rispondesti:”no.” E allora perché ti piace Amy Winehouse?” disse lei continuando furtiva, furba, a strofinare piano i seni sopra di te fino ad eccitarti e tu:”Mi piace come canta, come veste, com’è ma tu sei tu e così come sei mi piaci così” dicesti e lei sorridendo a modo suo, quella risata che a volte ti snervava, quel risolino a volte da oca che però ti faceva impazzire, si infilava scivolando sul tuo corpo, sotto le lenzuola e faceva tutto quello che sapeva fare e che tu, porco, volevi e facevi capire bene volevi. Solo così decidevi che non era il caso di piantare quella storia. E lei lo sapeva, eccome se lo sapeva. Tirò via le lenzuola, Manuel, e si sedette di getto sul letto. Chiuse gli occhi, sospirò e si alzò nudo a infilarsi i pantaloni e a petto nudo, a piedi scalzi, scese. L’estate con i condizionatori a casa non si sente, solo la bolletta si sente quando arriva ma tanto paga la banca, mica tu. La vide seduta con le cosce accavallate e la sua sola camicia come aveva immaginato, che fumava e sentiva Amy. Il posacenere davanti e la cucina già splendeva con la sua presenza mentre muoveva a ritmo la gamba accavallata, con i tacchi, le gambe nude, i seni che spaccavano la sua camicia bianca indosso così che lui si avvicinò a baciarla e lei sorrise.


“Dormiglione…”- disse lei. “Non volevo nemmeno alzarmi.” -disse Manuel. “Il caffè però non c’è più. Lo devi fare.” “Lo faccio” – disse lui sorridendo. “Sto pensando alla tua auto, perché non la cambi?” “Veramente io sto pensando di togliermi l’auto”- disse Manuel. “E perché? E poi quando te la rifai la macchina?” “Perché ho voglia di andare in taxi che con i posteggi impazzisco e a rifarmela, ah ci penserò dopo.” “Va beh che con il taxi forse è meglio ma a volte magari farsi una bella passeggiata. Poi non ti capisco, se vai in un’altra città devi prendere un bus, ma ti piace?” “Stavo pensandoci, si, mi piace.” “Come anche a sposarci?”- disse lei ridendo cambiando completamente discorso come sempre, senza alcun senso, senza nemmeno una cosa che spiegasse tutto questo e si alzò e andò dritto verso di lui “E copriti che ti prendi un malanno” – e dicendo così si tolse la sua camicia bianca da sopra e gliela pose sulle spalle a coprirlo, restando nuda, solo sui tacchi, rise con quel risolino che lui odiava ma il suo corpo era troppo bello per lui, superava tutto di lei che non gli garbava, lo baciò abbracciandolo e se ne andò sopra per le scale così che la vide dietro, quella carne che si smuoveva così come quando poco prima l’aveva vista scendere le scale nei suoi capelli fluenti, biondi, gli piaceva il suo corpo, nient’altro che il suo corpo, se lo disse Manuel. Un malanno d’estate? Manuel, non puoi prenderti un malanno d’estate a petto nudo, voleva dire altro, lei. Sentì sopra di sé al piano sopra un gran silenzio e questo significava che era nella doccia, nel bagno e se la vide davanti gli occhi. Poi i tic toc dei tacchi. Svelti, lenti, compassati: si provava cosa mettere dopo la doccia. “Non ha deciso cosa mettere e dirà che non essendo casa sua e avendo portato solo pochi dei suoi vestiti qui per l’occorrenza, una ventina, non sa cosa mettersi e che vorrebbe


andare a casa a cambiarsi, subito” pensò Manuel che lei stava proprio pensando questo. Scese, tic toc, tac, con i tacchi dalle scale mentre lui era seduto al tavolo sulla stessa sedia dove era seduta lei, con la stessa gamba accavallata, anche lui a fumare col posacenere e la tazzina di caffè di fronte e la stessa musica di Amy. La trasfigurazione era speculare uno all’altra, lei con le cosce nude, lui a petto nudo, poi tutto uguale. Apparì e guardandolo, vestita di un bell’abito bianco a righe zebrate nere, disse tutto d’un fiato: “Non so proprio cosa mettermi, non sono a casa mia e questi quattro vestiti portati qui non vanno bene perché mi servono se si macchiasse un vestito, lo sai, vorrei andare a casa a cambiarmi tra un po’.” “Ma stai benissimo, questo vestito poi con l’estate è bello.” “Certo che è bello, l’ho comprato.” “E allora perché devi andare a casa a cambiarti?” “Intanto perchè devo tornare a casa, poi perché è quasi mezzogiorno e devo andare a vedere Puffino come sta, se gli han dato da mangiare, se è malato, non so nemmeno se è vivo e poi perché oggi che è domenica viene mia zia e mi vuole lì.” “Ma non avevi detto che saremmo andati al Furlo a mangiare un piatto con i tartufi e che ci tenevi ad andarci? Tua zia sarebbe stata contenta se vai con me al Furlo mi hai detto. Anzi dicevi che lei non ci credeva che ti ci portavo, ora se torni a casa penserà che non ti ci ho portato io. ” “Uh, che caruccio che sei. Hai ragione ma c’ho pensato bene. E poi a te che importa se mia zia pensa che non mi ci hai portato tu?” “Importa che quando vengo da te sento due occhi dietro una finestra. E che quando entro a casa tua appare quella sagoma davanti la sala, dritta in piedi, sembra un fantasma, non si muove, nemmeno respira e non saluta, guarda e basta.” “Non è vero, l’altro giorno mi ha detto che sei un bell’uomo. Un pò troppo grande per me, con un lavoro un pò troppo strano che non


si capisce cosa fai e con un pò troppo il pensiero a non avere un’idea politica.” “La sua magari.” “Beh, comprendila. La mia famiglia è da sempre con il Duce. Lei poi l’ha pure conosciuto personalmente quando era bambina. Un giorno ti farò vedere le foto del nonno col Duce e lei, mio padre, mia madre, mia nonna, e suo marito. Sai che siamo molto legati e quando sono morti mio padre e mia madre nell’incidente lei si è curata di me che già aveva perso il marito, Gianni, suo figlio, è a New York, Patrizia a Londra e non vengono quasi mai. Io e mia sorella siamo rimaste con lei dopo la morte del nonno e lei aveva già perso il marito. Ha questo mondo, passato, che la tiene in vita forse, perché criticarla, non fa male a nessuno. Magari è troppo un po’ così, anch’io glielo dico ma è buona. Quando morirono mio padre e mia madre io e mia sorella eravamo distrutte. Lei ci ha detto di continuare nella tradizione, nella memoria, ci siamo laureate grazie a lei. La nostra famiglia ha vissuto di tragedie, tu questo non lo capisci mai, lei ci tiene a me, ha paura per me. Mia sorella Amelia è diversa per lei, io invece secondo lei rischio. Con te rischio.” – e rise andando ad abbracciarlo mettendosi sopra di lui aprendo le gambe e portando le braccia al collo e dicendogli guardandolo mentre lui le prese piano i fianchi:” E’ che tu forse non capisci. Forse vedi la villa dove stiamo e ti appare chissà cosa ma è solo la casa. Io e Amelia dobbiamo lavorare, lei è medico, sì, andrà via dall’Italia, in America, lo sai, te lo dissi, io invece porterò avanti l’azienda di papà e di famiglia con mia zia Mara che cura per ora tutto. Ho scelto così. Da quando c’è stata la fusione fatta da lei con l’azienda sua e quella nostra le cose sono diventate più difficili, i tempi sono difficili. Non è escluso che si prendano decisioni particolari, come anche andare via dall’Italia ma finchè c’è mia zia sono sicuro che questo non avverrà. Poi io dopo due anni che mi sono laureata non è che già posso portare avanti tutto, lei ha esperienza, la vedi come un fantasma ma è stata lei a tenere ferma la barca quando tutto crollava, le tragedie, le morti, questo paese


cambiato, sempre pronti a darci addosso i giornali e la gente che è così, non sa, non capisce cos’è una tradizione di famiglia”-. E lo diceva abbassando ora il tono della voce, più calma, pacata, accarezzandogli a Manuel i capelli corti, girandoglieli con le dita, un’altra donna e Manuel si calmò, si sentì in colpa, conosceva questo lato di lei che teneva nascosto spesso, anzi quasi sempre. “Poi tu dici che sei argentino”- disse Marina-“ ma parli bene l’italiano, non si sa tua madre e tuo padre chi sono, non hai mai fatto vedere una loro foto. Non pensare che non abbia capito di te ma non ti faccio domande, lo sai. Lei ha solo paura che tu possa portarmi e farmi del male. Ti occupi di quadri hai detto, libri antichi, sacri, misteriosi, rari, un giro particolare ma un’azienda di famiglia è un’azienda di famiglia. Non puoi capire quindi; se puoi dovrai volere del bene a mia zia se ne vuoi a me. Se dovremmo sposarci dovrà essere così. Oggi pranzi da me. Al Furlo c’andremo un’altra volta.” Marina detto questo si alzò, fredda, con il volto cambiato, serio, lui rimase fermo sulla sedia senza parole. Lei si accese una sigaretta e salì sopra. Lui guardò il vuoto, guardando a terra, poi il posacenere, poi aspirò la sigaretta mentre Amy aveva finito di cantare e rimase attorno solo un silenzio irresponsabile.

Guardò Marina nell’auto mentre stava per arrivare alla sua villa dopo la mattina tutta sull’autostrada poi e prima con qualche puntata al bar per lui, in giro non si capiva quante vetrine a negozi chiusi per lei. La guardò in mezzo ad altre auto che s’incamminavano e la vide con un velo bianco con i fiori sul capo, il velo bianco di seta e nuda accanto a se sul sedile. Le cosce abbronzate dai giorni di mare a Rimini e i seni turgidi, con i capezzoli duri rosei, sul sedile; e guidava, Manuel. Era così lei, si sentiva così. La zia non c’entrava nulla. Era solo un’approvazione che avrebbe dovuto dare, la zia, dovuta ma se lei diceva così, che


avrebbe sposato te, Manuel, la zia avrebbe detto sì. E nemmeno tanto a malincuore forse. Lei era così, tute erano così. Gli avevano messo quel velo in testa da bambine e non se lo erano più tolto. Le coppie si separavano, dopo essersi promesso amore eterno erano pronti a giurarsi guerra eterna ma ognuna, ognuno, si sentiva più furbo degli altri e no, a loro non sarebbe andata così, loro avevano trovato il segreto eterno dell’infelicità e avevano tutta l’intenzione di tenerlo per sé svelandolo a tutto il mondo in un solo giorno. Quel giorno per loro sarebbe stato eterno, convinte che sarebbe stato sempre così, tutti attorno a sorridere, a fare regali, a banchettare. Lei che amava lui e lui che amava lei non perché si amassero ma per quel velo bianco ora reso ufficiale. Quel velo bianco apposto sul capo per lei e quella corda a misurarsi il ventre nel potere di sé per lui erano il segreto dell’infelicità, da seguire e senza discussioni. La villa si aprì con il suo cancello automatico e apparve il viale con gli alberi attorno e i contadini guardiani a salutarla. Era quasi l’ora di sedersi a tavola, i cuochi e le cameriere erano pronti a servire il pasto. Manuel fermò la sua Cosworth davanti la scalinata che poi portava alla porta di casa, una scalinata che gli fece sembrare quella villa una Chiesa. Rimase seduto spegnendo l’auto mentre Marina scese e Lidia la cameriera scese le scale sorridendo andando ad abbracciarla. Manuel prese tempo facendo finta di sistemare cruscotto, libretto dell’auto, aprire e chiudere il cassetto interno dell’auto facendo finta di frugare e sistemar qualcosa dopo essersi tolto la cintura. Voleva che i saluti festosi erano tutti per lei ma anche che non fossero per lui. Eccola, la zia, sul ciglio del portone, che apparve. Manuel incrociò il suo sguardo con lei da dentro l’auto mentre finiva di fumare la sua sigaretta. Poi scese mentre lei abbracciava Marina. Non sapeva Manuel se la zia era alta o bassa, magra o grassa, giunonica o esile: era la zia e basta. Con quei capelli tirati indietro e fermati da una spilla d’oro che facevano apparire prima il naso, poi gli occhi penetranti azzurri e poi le labbra sottili. E sempre vestita di nero con una spilla sul petto a ricordarsi con la sua effige di militare il marito. Con le mostrine nere e senza il


cappello ma con quel sorriso largo di eterno giovane sposo. Proprio come Marina voleva per Manuel: un defunto da esporre, pensò Manuel. Scese Manuel e diede le chiavi a Roberto, il giovane diciannovenne figlio del tuttofare di quella villa che avrebbe messo l’auto al suo posto. Gli aveva insegnato a portare la Cosworth nella strada interna alla villa e gli aveva fatto prendere la patente ed era felice che Manuel gli desse fiducia. “La laverò pure oggi, Manuel.”- disse Roberto sorridendo. “Ah beh, non chiedeva altro.” – rispose Manuel dandogli sorridendo, corrisposto, una pacca alla spalla. Si avviò Manuel allora piano, senza fumare, verso la zia e Marina che sorrideva. “Donna Mara i miei rispetti, la vostra bellezza oscura sempre il sole, pure quello d’estate.” – disse Manuel sorridendo davanti a lei. “Oh smettila, non ho l’età e poi Marina si ingelosisce. Ma una cravatta non gliel’hai regalata per il suo compleanno?”- disse per niente sorridente la zia, sibilando verso Manuel ma rivolta verso Marina, che se ne entrò senza un cenno poi salendo le scale e sparendo dentro casa mentre Marina rideva. “Ma quel suo marito defunto davvero era innamorato di lei?”- disse Manuel a Marina seguendola con lo sguardo entrare nel suo vestito nero, nerissimo, non c’era nero più nero si disse Manuel e se qualcuno aveva inventato il nero allora quella persona era la zia. “Ma la smetti?! …. Mi raccomando che avremo ospiti, te li presento vieni.” – disse ancora ridendo Marina. E lo prese a braccetto e lo portò dentro.

Era una chiesa, per lui, quella villa. Se lo disse la prima volta che la vide e continuò a pensarlo. Con tutto quello che di bello e no ha una chiesa. Ombre soffuse si stagliavano sul pavimento e sulle pareti e sui quadri dove entravano le luci da fuori dalle vetrate e


dalle finestre opportunamente con le tende. I quadri degli antenati che ti guardavano, immobili ma vivi, con le scritte in latino alla base del dipinto a designare vita, morte e miracoli dell’antenato. Quanti eroi c’erano al mondo? Ogni casa e villa così contava decine di antenati tutti illustrissimi, coraggiosissimi e soprattutto timorati nella grazia di Dio. L’androne fu attraversato da Marina a braccetto di Manuel mentre Carlotta e Romeo salutavano loro in divisa da camerieri della domenica. La vetrata che apriva il salone era il museo della Chiesa, tale gli appariva quella casa ora. Lì divani, scrivanie, sedie, quadri, candelabri e librerie erano tutte diligentemente ectoplasmi del passato. Marrone, dorato e nero i colori predominanti, tappeti iraniani compresi, arazzi, lance e frecce etiopi compresi, candelabri soprammobili francesi compresi, testa del Duce compresa e cornice del padre e del marito della zia dei quadri che li raffiguravano compresi. Solo l’abat-jour sulla scrivania era di un bianco sporco con i ninnoli di cotone che pendevano. Marina lasciò lì dentro Manuel che si ritrovò per un po’ da solo. Per un po’ perché ormai aveva capito, e a breve avrebbe capito meglio tutto, tutto era stato organizzato quella domenica di fine agosto. Altro che pranzo al Furlo. Marina rientrò con un uomo anziano ma ben posato su di sé e una donna, anziana, accanto: “Ecco, Manuel, ti presento il Generale Alfonso Lode Marmi e sua moglie, la Contessa Lidia dei Gigli d’Alba, saranno ospiti con noi oggi insieme ad Amelia e Franco.” “E la zia.” – disse Manuel per buttare via subito la sorpresa. Il Generale sorrise ma anche la Contessa con Marina che poi lo guardò, affettuosamente, con un pò, però, di disapprovazione. Apparvero così anche Amelia e Franco, un avvocato tutto vestito di punto, come gli avvocati. La stretta di mano tra Manuel e il Generale fu guardandosi negli occhi. Per niente tranquilli di nessuno dei due.


Neanche il tempo di scambiarsi i convenevoli però che la zia apparve, vestita di nero, ovvio che non s’era cambiata, solo tirata un po’ su, ad annunciare che il pranzo era pronto per essere servito a tavola. Ogni donna prese a braccetto il suo uomo, prima la Contessa il Generale a cui facevano strada i due camerieri di casa, Carlotta e Romeo, dietro Amelia e Franco e dietro di loro Marina e Manuel con le mani in tasca che passò davanti la zia ma non seppe frenarsi dal dire, fermandosi : “Non mangio cipolle.” Ma stavolta la zia non fu da meno e sibilò: “Lo so, per questo ne ho fatte mettere a quintali.”


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.