Giornalesigenp 06 2013

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ommario

COMMENTARY

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Un saluto ai Soci ed un augurio al nuovo Direttore di C. Romano

Topic HighLight

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Intervista a Hans van Goudoever. Pillole di nutrizione neonatale di M. Baldassarre

CLINICAL SYSTEMATIC REWIEV

8

Trapianto di cellule staminali ematopoietiche nelle patologie gastrointestinali

Haematopietic stem cells transplantation for gastrointestinal diseases di A. Cassinotti e S. Ardizzone

Case report

17

Un colon-osseo: una diagnosi monumentale! Colon-osseus: a monumental diagnosis!

di L. De Martino, M. Martinelli, A. Alessandrella, M. D’Armiento, A. Staiano, E. Miele

18

Pediatric HEPATOLOGY

Epatite autoimmune Autoimmune hepatitis

di R. Liberal, D. Vergani, G. Mieli-Vergani

Pediatric Nutrition

23

Apporto di sodio in età pediatrica e rischio cardiovascolare nell’adulto Sodium intake in children may affect cardiovascular risk in adulthood di A. Barbato e P. Strazzullo

IBD HIGHLIGHTS

27

Management delle infezioni in corso di terapia con immunosoppressori e biologici nelle IBD

Infections occurring during immunosuppressive treatment and current management di L. Cantoro, A. Kohn, A. Cascio

News in Pediatric Gastroenterology Pharmacology

31

Ruolo degli antibiotici nelle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali Role of antibiotics in inflammatory bowel disease di M. Paci e P. Lionetti


S

ommario

Endoscopy Learning Library

35

La termoablazione nel Barrett: un caso di adenocarcinoma insorto nel follow-up Radiofrequency ablation for Barrett’s esophagus di G. Battaglia

SIGENP UNITS PRESENTATION

39

Chi siamo e cosa facciamo Who we are and what we do

Struttura Semplice Gastroenterologia e Nutrizione Clinica, Clinica Pediatrica I.R.C.C.S. “Burlo Garofolo” di Trieste

HEALTH AND FOOD SCIENCE

40

Pappa e pesticidi Food and pesticides

di A. Mantovani, R. Moretto, F. Arezzo, M. Stella, R. Francavilla

CONSIGLIO DIRETTIVO SIGENP Presidente

Carlo Catassi

Vice-Presidente

Tiziana Guadagnini

Segretario

Giovanni Di Nardo

Tesoriere

Daniela Knafelz Renata Auricchio, Licia Pensabene, Claudio Romano, Silvia Salvatore

Consiglieri

Come si diventa Soci della

Con il contributo di

© 2013 Area Qualità S.r.l. Di rettore R es ponsab ile

Giovanna Clerici g.clerici@areaqualita.com L’iscrizione alla SIGENP come Socio è riservata a coloro che, essendo iscritti alla Società Italiana di Pediatria, dimostrano interesse nel campo della Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica. I candidati alla posizione di Soci SIGENP devono compilare una apposita scheda con acclusa firma di 2 Soci presentatori. I candidati devono anche accludere un curriculum vitae che dimostri interesse nel campo della Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica. In seguito ad accettazione della presente domanda da parte del Consiglio Direttivo SIGENP, si riceverà conferma di ammissione ed indicazioni per regolarizzare il pagamento della quota associativa SIGENP. Soci ordinari e aderenti - dal 2013 i Soci possono scegliere tra le seguenti opzioni: - solo quota associativa annuale SIGENP senza abbonamento DLD (anno solare) € 35. - quota associativa annuale SIGENP con abbonamento DLD on-line (anno solare) € 75. Soci junior: quota associativa annuale SIGENP senza DLD (anno solare) € 30.

Per chi è interessato la scheda di iscrizione è disponibile sul portale SIGENP www.sigenp.org Per eventuale corrispondenza o per l’iscrizione alla SIGENP contattare la Segreteria SIGENP: Area Qualità S.r.l. - Via Comelico, 3 - 20135 Milano Tel. 02 55 12 322 - Fax 02 73960564 E-mail: sigenp@areaqualita.com

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Res p onsab ile Commissione e ditoria

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Claudio Romano claudio.romano@unime.it ca p o re dattore

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Fiorenza Lombardi Borgia im pagi na zione

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I VAnTAGGI DI ESSERE SOCI SIGENP Gli scopi principali della società sono: • promuovere studi di fisiopatologia dell’intestino, del fegato, del pancreas e di nutrizione clinica in età pediatrica, con particolare attenzione agli aspetti multidisciplinari; • promuovere attività di educazione scientifica dei giovani ricercatori; • promuovere la standardizzazione di metodologie cliniche; • promuovere le conoscenze in gastroenterologia pediatrica attraverso l’aggiornamento dei pediatri; • elevare la consapevolezza sull’importanza delle patologie croniche dell’apparato digerente e del fegato in età pediatrica; • tutelare la salute supportando la ricerca e l’educazione sulle cause, sulla prevenzione e sul trattamento delle malattie dell’apparato digerente e del fegato; • sviluppare le relazioni scientifiche con le altre società italiane e internazionali e le attività di ricerca in gastroenterologia, epatologia e nutrizione pediatrica; • promuovere la cooperazione scientifica con l’industria al fine di facilitare il raggiungimento degli scopi societari.

Come si diventa Soci della SIGENP L’iscrizione alla SIGENP come Socio è riservata a coloro che, essendo iscritti alla Società Italiana di Pediatria, dimostrano interesse nel campo della Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica. I candidati alla posizione di Soci SIGENP devono compilare una apposita scheda con acclusa firma di 2 Soci presentatori. I candidati devono anche accludere un curriculum vitae che dimostra interesse nel campo della Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica. In seguito ad accettazione della domanda da parte del Consiglio Direttivo SIGENP, si riceverà conferma di ammissione ed indicazioni per regolarizzare il pagamento della quota associativa SIGENP. Soci ordinari e aderenti - dall’anno 2013 i Soci potranno scegliere tra le seguenti opzioni: - solo quota associativa annuale SIGENP senza abbonamento DLD (anno solare) € 35. - quota associativa annuale SIGENP con abbonamento DLD on-line (anno solare) € 75. Soci junior: quota associativa annuale SIGENP senza DLD (anno solare) € 30.

I benefici concessi ai Soci sono: • La possibilità di partecipare agli studi multicentrici proposti o di essere promotori lori stessi di nuovi; • La possibilità di accedere alle aree riservate del portale SIGENP che contengono le linee guida elaborate dalla società, articoli scelti dalla letteratura nazionale ed internazionale, l’elenco dei progetti in corso ancora aperti, tutte le informazioni della vita della società, i bandi delle borse di studio; • La possibilità di partecipare ai bandi per vincere le borse di studio che annualmente vengono bandite per premiare i progetti di studio più meritevoli; • L’abbonamento al Giornale SIGENP; • La quota ridotta di iscrizione al congresso nazionale.

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ommentary

Un saluto ai Soci ed un augurio al nuovo Direttore Cari Amici, con questo numero si conclude la mia esperienza come Direttore Editoriale del Giornale della nostra Società. Sono, strano a dirsi, soddisfatto di questo cambio al vertice in relazione al fatto che mi sostituirà Mariella Baldassarre, persona con cui ho condiviso in questi anni questa avventura e che quindi sarà in grado di proseguire e migliorare ulteriormente il livello di questo prodotto editoriale. Siamo partiti da SIGENP News per poi arrivare al Giornale di Gastroenterologia, Epatolologia e Nutrizione Pediatrica. È stato un lavoro molto faticoso, condiviso con un Comitato Editoriale giovane e molto propositivo, ma mi sono, anzi ci siamo divertiti, parecchio. E siamo anche cresciuti un po'. Certo non posso dire che mi mancheranno le notti trascorse a correggere e rivedere le bozze degli articoli o tutte le sollecitazioni fatte agli autori per rispettare i tempi di consegna, ma non capita a tutti la fortuna che è capitata a me: lavorare per tanti anni con colleghi ed autori di alto livello, un grande Comitato di Redazione coordinato da Area Qualità nelle persone di Giovanna Clerici e Fiorenza Lombardi ed i vari Presidenti e Consigli Direttivi che ci hanno supportato e lasciato totalmente liberi di impostare il nostro lavoro senza alcun tipo di ingerenza o limitazione. Oggi questo strumento di aggiornamento scientifico, nel panorama nazionale dell’editoria scientifica, ha uno spazio ben definito e riconosciuto a tutti i livelli anche in ambito di settori medico-scientifici non strettamente pediatrici. Abbiamo organizzato nel corso degli ultimi anni anche un sistema di revisione degli articoli ed avviato il processo di indicizzazione della rivista per un duplice motivo: per assicurare maggiore diffusione ai contenuti della rivista visibili su più vetrine di impatto e per aumentarne il prestigio (un periodico di qualità è indicizzato da più banche dati). Questo numero che vi presento è in linea con i precedenti per il prestigio di molti Autori (Sandro Ardizzone, Giorgina Mieli-Vergani, Hans van Goudoever, Anna Khon, Paolo Lionetti, Ruggiero Francavilla per citarne alcuni) e per i topics di estrema attualità ed interesse (trapianto di cellule staminali, epatiti autoimmuni, etc). Ritengo, infine, che aver lavorato in questi anni nella SIGENP e per la SIGENP è stato un grande onore ed un impagabile privilegio. So anche che continueremo ancora tutti insieme avendo avuto nell’ambito del nuovo Consiglio Direttivo, l’incarico di responsabile della Commissione Editoria, ma nel frattempo buon lavoro a Mariella ed al Comitato di Redazione. Quanto ai lettori ed ai Soci SIGENP, l’esortazione di partecipare attivamente alla vita ed alle iniziative della Società e la promessa, anche a nome del Presidente e del nuovo Consiglio Direttivo, che questo progetto editoriale sopravviverà a tutti gli impedimenti e le difficoltà specie di tipo economico che si presentano puntuali ogni anno. Claudio Romano

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):5

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t gh i l N igh GHA DI H pic SP CURAARRE To - NA A SS A N LD A A B H A L PG EL RI ES MA

Il Prof . Hans van Goudoever è il Presidente del Comitato Scientifico sulla Nutrizione dell’ ESPGHAN. Ricercatore appassionato, acuto, disponibile, possiede una conoscenza estremamente approfondita delle problematiche nutrizionali del neonato e del bambino.

I NTERVISTA A H ANS VAN G OUDOEVER Pillole di nutrizione neonatale MARIELLA BALDASSARRE - U.O. di Neonatologia e T.I.N. del Policlinico Universitario di Bari

Growth in the first few months of life (and thus nutrition) has a large impact on later outcome. The gut has many different functions, among which it serves as an immunological organ. In a VLBW, when breast milk is not available, donor human milk or preterm formula should be used. Evidence is accumulating that, following birth, amino acid and energy intakes can be higher than we have done so in the past. After discharge, the evidence for the use of ”post discharge formulas” is quite weak. Weaning of preterm infants is another controversial item. So best practice is to discuss with the parents to start complementary feeding when mutually desired by mother and child.

L’intestino è in molte situazioni il “trigger” di una infiammazione sistemica a cui può conseguire un danno a carico di più organi. Qual è il ruolo della nutrizione nella prevenzione del danno intestinale e multiorgano in un neonato pretermine?

Key Words Nutrition, preterm newborns, post-discharge formulas, weaning

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L'intestino ha diverse funzioni, tra le quali anche quella di essere un importante organo immunologico. Nell’intestino una cellula su 5 è un linfocita e all’interno del lume intestinale vengono prodotte tutte le IgA secretorie (sIgA) e gran parte delle IgG. La letteratura ha dimostrato che pazienti adulti che non sono alimentati per via enterale sviluppano rapidamente un deficit di sIgA e presentano un più alto rischio infettivo (possono andare incontro all’insorgenza di ascessi addominali). Non abbiamo a disposizione in letteratura dati analoghi per i neonati pretermine, ma non c'è motivo di pensare che in questa popolazione di pazienti i meccanismi fisiopatologici siano molto differenti. È stato dimostrato nei roditori e nei piccoli suini che la nutrizione enterale previene l'atrofia intestinale, ma questo dato non è stato dimostrato con altrettanta certezza negli esseri umani. Bisogna poi sottolineare che la nutrizione parenterale richiede un catetere venoso a permanenza, e questo gioca un ruolo importante nel rischio infettivo.

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):6-7

Qual è il “gold standard” per la nutrizione enterale in un neonato VLBW, quando il latte materno non è disponibile?

Abbiamo appena pubblicato un articolo sull'uso del latte di banca (1), nel quale viene fortemente raccomandato il suo utilizzo qualora non sia disponibile il latte materno. Attualmente a livello mondiale non tutte le Unità di Terapia Intensiva Neonatale hanno la possibilità di accedere al latte umano donato, pertanto le formule per pretermine rappresentano una valida alternativa. La crescita nei primi mesi di vita (e così l’alimentazione) ha un grande impatto sull'outcome dei neonati anche a distanza di tempo; alcuni studi prospettici e molti studi retrospettivi hanno infatti dimostrato come la scarsa crescita sia associata allo sviluppo successivo di una ridotta perfomance neurocognitiva. Qual è il miglior regime di nutrizione enterale da seguire dopo un intervento chirurgico intestinale in un neonato a termine o pretermine, quando il latte materno non è disponibile?

Il regime di nutrizione enterale ottimale nei bambini, sia nel periodo post-chirurgia intestinale che nella sindrome dell’ intestino corto (SBS), è tuttora dibattuto fra i clinici. La nutrizione enterale dovrebbe essere iniziata il prima possibile dopo la resezione intestinale, al fine di promuovere l'adattamento


Prof. Hans van Goudoever

Hans van Goudoever è professore di pediatria della facoltà di Medicina dell’Università di Amsterdam e Presidente del Dipartimento di Pediatria dell’ “Emma Children’s Hospital” (Academic and VU Medical Center, Amsterdam, Olanda). È membro dell’ “International Paediatric Research Foundation” e Presidente del Comitato Scientifico sulla Nutrizione dell’ ESPGHAN. Dal 2011 è componente del “National Breast Feeding Council” olandese e dal 2013 dell’Health Council olandese. Ha un particolare interesse per la nutrizione neonatale, la gastroenterologia ed il metabolismo. Ha pubblicato oltre 180 lavori ed ha ricevuto numerosi finanziamenti per i suoi progetti di ricerca, sia nazionali che internazionali (incluso il finanziamento FP-7 dell’Unione Europea).

dell’intestino, e inoltre dovrebbe essere dispensata in maniera continua; sia il latte materno che la formula polimerica standard (a seconda dell'età del bambino) rappresentano le tipologie di approccio nutrizionale raccomandate. Nei neonati, l’assunzione di piccoli volumi di latte al biberon deve essere iniziata il più presto possibile per stimolare il riflesso sia della suzione che della deglutizione. Ci puoi spiegare il concetto di "nutrizione aggressiva" e se tale concetto è ancora applicabile ai neonati pretermine?

Il termine "aggressiva" ha un’accezione apparentemente negativa; è meglio utilizzare l’aggettivo “ottimale” in riferimento a tale modalità di nutrizione. Vi sono evidenze scientifiche sempre più numerose a favore del fatto che, dopo la nascita, l’apporto energetico e di aminoacidi può essere più alto rispetto a quello che veniva fornito in passato. Iniziando con almeno 2-2,5g/kg/die di aminoacidi si avrà un miglioramento dei risultati a breve termine. I neonati diventano “anabolici”, cioè presentano un bilancio azotato positivo con un incremento della velocità di sintesi proteica. Grazie a ciò

sono prodotte in maggior percentuale alcune proteine fondamentali, tra cui il glutatione che è il principale fattore antiossidante intracellulare. Questo potrebbe spiegare i migliori risultati a lungo termine riscontrati negli studi osservazionali. Recentemente abbiamo condotto uno studio in cui abbiamo fornito ai neonati VLBW un apporto > 3g/kg/die di aminoacidi e di 2g/kg/die di lipidi; ancora una volta abbiamo dimostrato un miglioramento del bilancio azotato e ancor più elevati tassi di sintesi proteica (2). Cosa pensi dello svezzamento dei neonati pretermine VLBW?

Lo svezzamento dei neonati prematuri rappresenta un altro capitolo controverso in tema di nutrizione. In Europa l’ESPGHAN raccomanda lo svezzamento tra i 4-6 mesi (17-26 settimane) per i neonati a termine (5). Molti bambini nati pretermine iniziano l’alimentazione complementare ad un'età corretta precoce. Non è stato condotto alcuno studio controllato randomizzato teso a dimostrare gli effetti in questa popolazione di neonati. Dati recenti suggeriscono che la tipologia dell’alimentazione infantile durante i primi 6 mesi di vita non influenzi in

Key Points

• Nell’intestino una cellula su 5 è un linfocita, ed all’interno del lume intestinale vengono prodotte tutte le IgA secretorie. • In un neonato VLBW, quando il latte materno non è disponibile, è fortemente raccomandato l’uso di latte umano donato. Nell’impossibilità di accedere ad una banca del latte, le formule per pretermine rappresentano una valida alternativa. • Nei neonati VLBW dopo la nascita, l’apporto energetico e di aminoacidi deve essere più alto rispetto a quello che veniva fornito in passato. Grazie a ciò sono prodotte in maggior percentuale alcune proteine fondamentali, tra cui il glutatione, principale fattore antiossidante intracellulare. • Le formule " Post-Discharge " non hanno dimostrato effetti positivi sui parametri di crescita sia a 12 che a 18 mesi di età corretta, mentre si sono ottenuti risultati migliori con l’uso di formule per pretermine anche dopo la dimissione. • Dopo una resezione intestinale, la nutrizione enterale iniziata il prima possibile con modalità continua/24 ore, con latte materno o con formula polimerica standard (a seconda dell'età del bambino) promuove l'adattamento dell’intestino. • Lo svezzamento di un neonato pretermine va concordato con la madre ed iniziato appena quest’ultima si sente pronta.

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):6-7

modo sostanziale il rischio a lungo termine di malattie atopiche e asma nei bambini (6) . Inoltre, le malattie allergiche sono state osservate tanto frequentemente nei pretermine quanto nei neonati a termine (7). Pertanto il modo migliore di procedere nella pratica clinica è di discutere con i genitori, ed iniziare lo svezzamento quando la madre ed il bambino mostrano di essere pronti a vivere tale momento. CORRESPONDING AUTHOR HANS VAN GOUDOEVER Emma Children's Hospital Academic and VU Medical Center Department of Paediatrics Amsterdam, The Netherlands E-mail: h.vangoudoever@vumc.nl

BIBLIOGRAFIA

1. Arslanoglu S, Corpeleijn W, Moro G et al. Donor human milk for preterm infants: current evidence and research directions. J Pediatr Gastroenterol Nutr 2013 Oct;57(4):535-42. 2. Vlaardingerbroek H,J. Vermeulen M, Rook D et al. Safety and efficacy of early parenteral lipid and high-dose amino acid administration to very low birth weight infants. J Pediatr 2013 Sep;163(3):638-44.e1-5. 3. Young L, Morgan J, McCormick FM et al. Nutrient-enriched formula versus standard term formula for preterm infants following hospital discharge. Cochrane Database Syst Rev 2012 Mar 14;3:CD004696. 4. van de Lagemaat M, Rotteveel J, Schaafsma A et al. Higher vitamin D intake in preterm infants fed an isocaloric, protein- and mineral-enriched postdischarge formula is associated with increased bone accretion. J Nutr 2013 Sep;143(9):1439-44.

5. ESPGHAN Committee on Nutrition. Complementary feeding: a commentary by the ESPGHAN Committee on Nutrition. J Pediatr Gastroenterol Nutr 2008;46:99-110. 6. NWARU BI, Craig LC, Allan K, Prabhu N et al Breastfeeding and introduction of complementary foods during infancy in relation to the risk of asthma and atopic diseases up to 10 years. Clin Exp Allergy. 2013;43:1263-73. 7. Zachariassen G, Faerk J, Esberg BH et al. Allergic diseases among very preterm infants according to nutrition after hospital discharge. Pediatr Allergy Immunol 2011;22:515-20.

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This review summarizes the reports describing haematopoietic stem cell transplantation as a cure of severe or refractory forms of gastrointestinal diseases, such as inflammatory bowel diseases and celiac disease. This is based on the concept of immunoablation and/or immunoresetting using high-dose chemotherapy, with subsequent regeneration of naıve T-lymphocytes derived from reinfused haematopoietic progenitor cells.

Key Words Haematopoietic stem cells, transplantation, gastrointestinal disease, Crohn’s disease, celiac disease

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Trapianto di cellule staminali ematopoietiche nelle patologie gastrointestinali Andrea Cassinotti E Sandro Ardizzone U.O. Gastroenterologia e U.S.D. Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali A.O. Polo Universitario “Luigi Sacco” di Milano

Introduzione Con il termine di trapianto di cellule staminali ematopoietiche (Haematopoietic Stem Cells Transplantation, HSCT), oggi più corretto rispetto a quello di “trapianto di midollo osseo”, si intende classicamente il prelievo (dal midollo osseo e, più recentemente, dal sangue periferico) e la reinfusione di cellule staminali ematopoietiche, al fine di sostituire un sistema linfoemopoietico anormale. Tra le caratteristiche della cellula staminale ematopoietica che vengono sfruttate ai fini terapeutici, vi sono la possibilità della sua crioconservazione, quella di insediarsi in sede midollare (homing) dopo essere stata infusa per via endovenosa e la sua grande capacità rigenerativa. In un topo adulto, il trapianto di una sola cellula staminale emopoietica può sostituire l’intero sistema linfoemopoietico. In studi condotti in modelli di malattie non oncoematologiche, inoltre, la cellula staminale ematopoietica si è dimostrata in grado di differenziarsi in diverse linee cellulari, come endotelio, epitelio organo-specifico e strutture di supporto, andando pertanto a rigenerare i tessuti danneggiati dalla malattia. Sulla base dei legami esistenti tra il paziente ed il donatore delle cellule staminali si distinguono 3 tipi di trapianto: singenico, allogenico e autologo. Nel trapianto singenico il donatore è un gemello sano identico al paziente, situazione possibile nell’1% dei casi. Nel trapianto allogenico donatore e ricevente, pur essendo compatibili non sono immunologicamente identici sicchè, dopo il trapianto, le cellule del sistema immunitario possono innescare una reazione contro il paziente, provocando una reazione chiamata Graft Versus Host Disease (GVHD). Inoltre, in assenza di un’adeguata terapia immunosoppressiva, le cellule immunocompetenti del paziente possono provocare il rigetto del trapianto. Il rischio di tali complicanze è soprattutto influenzato dal grado di compatibilità degli antigeni HLA tra donatore e ricevente. Sebbene in bassissima concentrazione, le cellule staminali ematopoietiche circolano anche nel sangue periferico. Dopo un trattamento con determinati fattori di crescita emopoietici, come il fattore stimolante le colonie granulocitario (G-CSF), e durante la fase di recupero dopo una chemioterapia intensiva, la concentrazione nel sangue delle cellule progenitrici emopoietiche aumenta in maniera significativa. Sulla base di tali conoscenze si è quindi resa possibile la raccolta dal sangue periferico di un adeguato numero di cellule staminali utili al trapianto. Il trapianto autologo prevede di solito la raccolta dal sangue periferico (cosiddetta fase di mobilizzazione e aferesi) e la conservazione delle cellule staminali dello stesso paziente, con successiva reinfusione dopo che lo stesso sia stato trattato con una chemioterapia potenzialmente mieloablativa (fase di trapianto). Il razionale dell’impiego del trapianto di cellule staminali ematopoietiche per il trattamento di malattie non oncoematologiche deriva da circa 30 anni di studi su modelli animali e da casi aneddotici di remissioni osservate in pazienti trattati per concomitante neoplasia. Il miglioramento delle procedure di trapianto e della loro sicurezza, sia per quanto riguarda il trapianto allogenico che per quello autologo, ha condotto nell’ultima decade alla sperimentazione clinica di tale trattamento in varie malattie autoimmuni severe, refrattarie alla terapia convenzionale, come la sclerosi multipla, la sclerodermia, l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso sistemico.

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):8-16


Più recentemente, si è esplorato l’uso del trapianto di cellule staminali ematopoietiche anche in alcune particolari forme severe di patologie gastrointestinali. Considerati i rischi di morbilità e mortalità connessi al trapianto allogenico, le esperienze cliniche di trapianto per malattie non oncoematologiche si sono concentrate soprattutto sull’uso del trapianto autologo. A differenza del trapianto allogenico, con il trapianto autologo non esiste infatti il rischio della GVHD o di un rigetto; l’altra faccia della medaglia tuttavia è la possibilità che le cellule staminali autologhe reinfuse siano contaminate da cellule T autoreattive che potrebbero quindi causare una recidiva della malattia autoimmunitaria. Secondo una prassi ereditata dall’esperienza nei tumori maligni, sono state pertanto sviluppate varie metodiche per “purificare” i prodotti autologhi da trapiantare ed evitare così tale possibile contaminazione. Una tecnica classica utilizzata in oncoematologia è la selezione positiva delle cellule staminali utilizzando “ex vivo” anticorpi diretti contro l’antigene specifico delle cellule progenitrici emopoietiche (il CD34), al fine di selezionare le cellule staminali normali e separarle sia dai linfociti T (cosiddetta “T-deplezione”) che dalle altre cellule già “committed”. La necessità della T-deplezione è stata a lungo discussa ai fini dell’applicazione nell’autotrapianto per malattia autoimmunitaria, con risultati discordanti. Questi approcci hanno comunque portato all’espansione dell’uso dell’autotrapianto con cellule staminali non selezionate in diverse altre condizioni. Obiettivo L’obiettivo del presente articolo è condurre una revisione della letteratura riguardante l’efficacia del trapianto di cellule staminali ematopoietiche nel trattamento delle patologie gastrointestinali. METODOLOGIA è stata eseguita una ricerca bibliografica utilizzando il database PubMed fino a Dicembre 2013 e digitando le parole “stem cells transplantation”, “bone marrow transplantation”, “cell therapy”, “gastrointestinal disease”, “Crohn’s disease”, “ulcerative colitis”, “celiac disease”, “cancer”, “colorectal cancer”, “gastrointestinal neoplasia”. Un’ulteriore ricerca è stata condotta analizzando le bibliografie degli articoli selezionati. Solo articoli pubblicati in lingua inglese in forma di full-text sono stati inclusi nella revisione finale. RISULTATI Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche è stato finora analizzato soprattutto nella malattia di Crohn (MC) refrattaria alla terapia convenzionale (inclusi gli steroidi sistemici e gli agenti anti-TNF-alfa) e nella celiachia refrattaria con cellule T aberranti o complicata da linfoma. Sono riportate anche isolate casistiche di pazienti affetti da colite ulcerosa, encefalomiopatia neurogastrointestinale mitocondriale e da alcune neoplasie gastrointestinali. Le pubblicazioni analizzate riguardano solo pazienti trapiantati in età adulta, essendo descritti casi pediatrici solo in caso di celiachia e concomitante neoplasia ematologica, quale indicazione al trapianto. Malattia di Crohn refrattaria La Tabella 1 riassume le esperienze finora riportate con l’HSCT nella malattia di Crohn, una patologia infiammatoria cronica intestinale ad eziologia ignota, decorso recidivante e patogenesi immunomediata. Dopo alcune segnalazioni di efficacia del trapianto allogenico di cellule staminali da midollo osseo o da sangue periferico in pazienti con MC e concomitante neoplasia ematologica o solida (alcune durature fino a 15 anni) (1-2), altri studi hanno utilizzato l’autotrapianto nello stesso contesto clinico di pazienti trattati per concomitante neoplasia maligna solida o ematologica, riportando analoga efficacia (in un caso con remissione duratura fino a 7 anni) (3-6). Tali casistiche

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):8-16

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Tabella 1 Studi riguardanti l’uso del trapianto di cellule staminali ematopoietiche nella malattia di Crohn

Autore

Indicazione

N° pazienti

Età pazienti

Durata follow-up

Efficacia

Tossicità

4.5-15.3 anni

Remissione clinica 4/5 pazienti fino a max 15.3 anni. Una recidiva a 1.5 anni

Sepsi con un decesso a 97 giorni post-trapianto

3-117 mesi, non specificato tra Crohn e colite ulcerosa

Non distinzione tra Crohn e colite ulcerosa

Enterite da CMV a 3 mesi, poi decesso per polmonite fungina 10 mesi post-trapianto

20

7 anni

Remissione clinica fino a 7 anni

Ascesso perianale post-mobilizzazione

Autologo, 1 non selezionato

30

3 anni

Remissione clinica fino a 3 anni

Nessuna inaspettata

Leucemia mieloide acuta

Autologo

1

54

5 anni

Remissione clinica ed endoscopica mantenuta fino a 5 anni

Non riportata

Linfoma

Autologo, selezionato

1

41

18 mesi

Remissione clinica ed endoscopica fino a 18 mesi

Non riportata

Autologo, selezionato

2

16-22

15 mesi

Remissione clinica 2/2 a 12 mesi

Nessuna inaspettata

Nessuna inaspettata

Batteriemia da Staph. epidermidis

Lopez-Cubero et al 1998

Leucemia mieloide Allogenico, 6 acuta/cronica non selezionato

Ditschkowski et al 2003

Leucemia mieloide Allogenico, 11 (7 Crohn, 4 acuta/cronica, 16-44 selezionato o coliti ulcerose) sindrome non selezionato mielodisplasica

Kashyap et al 1998

LNH

Autologo, 1 non selezionato

Musso et al 2000

LNH

Soderholm et al 2002 Hawkey et al 2004

Burt et al 2003 MC refrattaria

27-46

Kreisel et al 2003

MC refrattaria

Autologo, selezionato

1

36

9 mesi

Remissione clinica ed endoscopica per 9 mesi dopo la sola mobilizzazione. Remissione clinica ed endoscopica per 9 mesi dopo il trapianto, poi recidiva solo endoscopica

Scimè et al 2004

MC refrattaria

Autologo, selezionato

1

53

5 mesi

Remissione clinica a 5 mesi

MC refrattaria

Autologo, selezionato

12 (include 2 pazienti di Burt 2003)

7-37 mesi

Ematemesi in sindrome Remissione clinica in di Mallory-Weiss. 11/12 fino a 37 mesi. Una Insufficienza renale acuta sola recidiva a 15 mesi in batteriemia CVC-relata

11-20 mesi

Remissione clinica 4/4 a 3 mesi. Remissione 50% infezioni lievi clinica 3/4 a 12 mesi. Remissione endoscopica 2/3 a 3 mesi e 12 mesi

Non riportata

Oyama et al 2005

15-38

MC refrattaria

Autologo, 4 non selezionato

Clerici et al 2011

MC refrattaria

6 (include 3 pazienti di Autologo, non selezionato Cassinotti 2008)

28-45

12 mesi

Remissione clinica 6/6 a 3 mesi. Remissione endoscopica 4/6 a 3 mesi. Remissione clinica ed endoscopica 5/6 a 12 mesi

Kountouras et al 2011

MC refrattaria

Autologo, selezionato?

39

31 mesi

Remissione clinica ed endoscopica fino a 31 mesi

Nessuna riportata

58-75 mesi

Remissione clinica fino a 5 e 6 anni post-trapianto ma descrizione imprecisa. Una remissione per 2 anni post-mobilizzazione, poi recidiva

Allergia ad ATG, enterite da Rotavirus e Cl. difficile, Batteriemia da CNS in CVC

0.5-10.3 anni

Remissione clinica (11/12) e endoscopica (7/12) già dopo la mobilizzazione. Remissione clinica ed endoscopica in 5/9 entro 6 mesi post-trapianto, ma recidive in 7/9

Cassinotti et al 2008

Hommes et al 2011

Hasselblatt et al 2012

10

Tipo di trapianto

MC refrattaria

MC refrattaria

1

26-45

Autologo, selezionato

3 (2 trapiantati, 27-51 1 mobilizzato)

Autologo, selezionato

12 (3 solo mobilizzati, 9 trapiantati); 24-50 anni include 1 paziente di Kreisel 2003

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):9-13


Trapianto di cellule staminali ematopoietiche nelle patologie gastrointestinali

appaiono comunque non sempre chiare: spesso la valutazione di risposta post-trapianto si riferisce al mantenimento della remissione in una MC già quiescente all’atto del trapianto eseguito per la concomitante neoplasia; inoltre va considerato, nel caso del trapianto allogenico, l’effetto confondente della immunoterapia post-trapianto utilizzata per prevenire le complicanze da rigetto. Successivamente sono comparse alcune segnalazioni sulla fattibilità ed efficacia dell’auto-HSCT utilizzato specificamente quale terapia di salvataggio in oltre 30 pazienti con MC refrattaria alla terapia convenzionale (7-16). Queste casistiche presentano alcune differenze nel protocollo di auto-HSCT utilizzato (selezione o meno delle staminali CD34+, uso o meno di siero anti-linfocitario, dose di ciclofosfamide) e nella durata e modalità del monitoraggio post-trapianto. Il gruppo finora più attivo è quello della Northwestern University Medical Center di Chicago che dal 2003 ha pubblicato l’esperienza relativamente più ampia (7). Nella casistica di 12 pazienti, descritta nel 2005, veniva riportata un’unica recidiva, a 15 mesi dal trapianto, durante un follow-up massimo di 18 mesi: il protocollo prevedeva la T-deplezione pre-trapianto ed in vivo (10). Un successivo aggiornamento, pubblicato recentemente e riguardante 24 soggetti trapiantati con lo stesso protocollo, ha riportato un tasso di induzione della remissione clinica del 100% ed un tasso di sopravvivenza libera da recidiva clinica del 91% a 1 anno, 63% a 2 anni, 57% a 3 anni, 39% a 4 anni e 19% a 5 anni (12). Alla casistica di Chicago si affiancano le segnalazioni di altri gruppi, sparsi in Europa e Nord America, che di fatto confermano la capacità dell’auto-HSCT di indurre la remissione clinica in un’alta percentuale di pazienti, prima refrattari alla terapia convenzionale, ma di mantenerla in una percentuale variabile, in progressiva riduzione al proseguire del follow-up. Tra queste casistiche minori si distingue quella milanese: si tratta della prima esperienza, nella MC refrattaria, che prevede un protocollo di autotrapianto senza selezione delle staminali CD34+, nel tentativo di ridurre la morbilità correlata alla procedura (11). Gli obiettivi dello studio erano la fattibilità, la sicurezza e l’efficacia clinica della procedura nei primi 4 pazienti trattati e valutati a 3 mesi e 12 mesi dal trapianto. Non veniva riportata alcuna efficacia iniziale da parte della chemioterapia di mobilizzazione e del fattore di crescita, mentre la fase di trapianto vera e propria si confermava in grado di indurre e mantenere un drammatico beneficio nel contesto della malattia attiva precedentemente refrattaria. I risultati descrivono infatti una efficacia clinica del 100% a breve termine (3 mesi post-trapianto) che correlava anche con la piena remissione endoscopica in 2 su 3 pazienti analizzati. Dopo un follow-up mediano di 16.5 mesi, 3 su 4 pazienti mantenevano la piena remissione sia clinica che endoscopica, senza necessità di terapia specifica. Lo stesso gruppo ha recentemente pubblicato uno studio orientato a descrivere gli effetti immunomodulanti dell’auto-HSCT, dal quale si evincono anche i dati di efficacia relativi ad una casistica ampliata a 7 pazienti e che conferma l’induzione della remissione clinica nel 100% dei casi al terzo mese, mantenuta nell’83% dopo 1 anno (13). L’unico studio multicentrico randomizzato riguardante l’auto-HSCT nella MC si chiama ASTIC (Autologous Stem cell Transplantation International Crohn’s disease) e attende di vedere pubblicati i suoi dati definitivi. Si tratta di uno studio europeo volto ad analizzare i benefici dell’intero protocollo di trapianto (rappresentato dalla fase di mobilizzazione subito seguita da quella di condizionamento e reinfusione delle staminali) rispetto alla sola mobilizzazione: è stato infatti discusso se già la chemioterapia utilizzata nella sola fase di mobilizzazione possa indurre buone risposte cliniche permettendo di procrastinare la reinfusione delle staminali e quindi l’uso della chemioterapia ad alte dosi (8,16). I dati preliminari dell’ASTIC non sembrano confermare questo orientamento (17). Lo studio ha incluso 48 pazienti con MC attiva nonostante 3 linee terapeutiche immunosoppressive, sottoposti a mobilizzazione con ciclofosfamide 4 g/m2 + filgrastim 10 mcg/kg, poi randomizzati a trapianto precoce (dopo 1 mese) o ritardato (dopo 1 anno). Il protocollo prevedeva un trapianto non selezionato. Il trapianto anticipato ha dimostrato una migliore efficacia rispetto a quello ritardato.

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):8-16

11


Clinical Systematic Rewiev

Da segnalare l’alto tasso di infezioni riportato in questa casistica e, purtroppo, il primo decesso finora descritto in un protocollo di auto-HSCT per MC refrattaria. A fronte dell’efficacia osservata nelle varie casistiche, pochissimi studi hanno valutato quale sia il meccanismo terapeutico sottostante. Rimane affascinante la teoria che prevede la possibilità di aggredire il sistema immunitario autoreattivo direttamente alla sua fonte, cioè il midollo osseo del paziente, che viene eliminato e sostituito con uno nuovo immunologicamente più “intelligente” grazie alle proprietà plastiche delle staminali; tuttavia lo scenario è complesso e le esperienze accumulate non dirimono tutti i dubbi, tra i quali soprattutto l’influenza della restituzione di materiale autologo allo stesso soggetto malato. Diverse ipotesi sono state formulate, sebbene tutte restino al momento per lo più speculative. Gli unici dati disponibili, provenienti dal già citato studio milanese, supportano almeno un effetto immunomodulante “di resetting”, con ripristino di un più favorevole equilibrio dinamico tra tolleranza immunologica e autoreattività, grazie a cellule staminali immunologicamente “naive”. In particolare, gli autori hanno osservato, dopo il trapianto, un aumento delle cellule T-regolatorie ed una significativa riduzione delle cellule TLR-4 positive e della produzione di TNF-alfa e IL-10, tutti parametri che risultavano invece più alti rispetto ai controlli sani prima del trapianto (13). Colite ulcerosa Finora dati relativamente completi sono stati forniti per solo 4 pazienti con colite ulcerosa, sottoposti ad HSCT allogenico: in tutti i casi l’indicazione era rappresentata da una concomitante neoplasia e veniva descritto il mantenimento della remissione della colite per una mediana di follow-up di 34 mesi (2). Malattia celiaca L’HSCT (sia autologo che allogenico) è stato descritto finora in oltre 50 pazienti provenienti da varie piccole casistiche di soggetti affetti da malattia celiaca refrattaria di tipo II (Refractory Celiac Disease, RCD-II) o complicata da linfoma a cellule T enteropatia-associato (EATL), con risultati controversi in termini di efficacia a breve-lungo termine e rapporto rischi/benefici [Tabella 2]. Per quanto riguarda la RCD-II, sono disponibili dati riguardanti 13 pazienti, descritti in due pubblicazioni provenienti dallo stesso centro, essendo il più recente l’aggiornamento del primo, con maggiore casistica e durata di follow-up (18-19). In entrambi i casi è stato usato l’autotrapianto ed i pazienti si presentavano refrattari anche a cladribina. La sopravvivenza a 4 anni è stata soddisfacente, pari al 66%; pressoché tutti i pazienti hanno ottenuto la remissione clinica a 1 anno. La più rapida risposta istologica si è osservata a 3 mesi e la più tardiva a 2 anni. Sono stati registrati tuttavia 3 decessi: uno causato da una sepsi durante la fase di trapianto, gli altri due per progressione della malattia a EATL (in un caso esordito ben 4 anni dopo il trapianto). Tali dati meritano una conferma in altre casistiche al fine di comprendere il reale rapporto rischi/benefici. Molto più controversa appare l’efficacia della chemioterapia ad alte dosi seguita da autotrapianto nelle forme di EATL. La letteratura a tale riguardo appare eterogenea in termini di precedente trattamento (varie linee chemioterapiche con o senza chirurgia), di chemioterapia di condizionamento e di enteropatia di base, non sempre riportando l’esatto numero di pazienti celiaci all’interno della casistica trapiantata: almeno 36 pazienti sono stati definiti celiaci (20-25). In alcune casistiche relativamente più numerose vengono riportate sopravvivenze libere da malattia per periodi anche prolungati fino a 5 anni e, sebbene la mortalità correlata al linfoma di base resti alta lungo il follow-up, così come il

12

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):8-16


Tabella 2Trapianto Studi riguardanti l’uso delstaminali trapianto diematopoietiche cellule staminali ematopoietiche nella malattia di celiaca refrattaria o complicata di cellule nelle patologie gastrointestinali

Autore

Indicazione

Tipo di trapianto

N° pazienti

EtĂ pazienti

Durata follow-up

Efficacia

TossicitĂ Porpora trombocitopenica idiopatica 16 mesi dopo il trapianto

Kline et al 2007

Leucemia mieloide acuta in celiachia non complicata

Allogenico

1

12 anni

3.5 anni

Risposta sierologica fino a 3.5 anni in dieta libera

Hoekstra et al 2010

Anemia aplasia in talassemia major e celiachia non complicata

Allogenico

1

11 anni

16 mesi

Risposta sierologica, clinica e istologica fino a 16 mesi Nessuna in dieta libera

Ciccocioppo et al 2013

Talassemia major in celiachia non complicata

Allogenico

2

4-14 anni

5 anni

Risposta sierologica, clinica e istologica fino a 5 anni in Nessuna dieta libera

Ben Horin et al 2013

Leucemia mieloide cronica in celiachia non complicata

Allogenico

1

29 anni

5 anni

Risposta sierologica, clinica e istologica fino a 5 anni, in Non riportata dieta libera

Al-toma et al 2007, retrospettivo

RCD-II

Autologo

7

51-68 anni 7-30 mesi

Risposta sierologica in tutti i pazienti, anche istologica in 2 pazienti fino a 2 anni. 1 paziente refrattario con decesso 8 mesi dopo il trapianto

Emorragia retinica minore.

1 decesso per sepsi trapianto-correlato

Autologo

13 (inclusi i 7 di Al-toma 43-68 anni 10-67 mesi 2007)

Sopravvivenza a 4 anni = 66%. Risposta clinica in 11 pazienti a 1 anno. Risposta istologica in 5 pazienti, entro 3 mesi-2 anni. 3 decessi, di cui 2 per EATL (uno a 4 anni dal trapianto)

Gale et al 2000 EATL retrospettivo

Autologo

2 (non chiaro 54-56 anni 69 mesi se celiaci!)

Recidiva a 20 mesi, ma sopravvivenza fino a 64 mesi. Recidiva a 60 mesi, con decesso a 69 mesi

Non riportata

Rongey et al 2006, retrospettivo

Autologo

1

Remissione clinica e istologica fino a 18 mesi

Emopneumotorace da CVC

Tack et al 2011

RCD-II

EATL

46 anni

18 mesi

Bishton et al 2007, retrospettivo

EATL

Autologo

6

40-59 anni 4.32 anni

Remissione completa in 5 pazienti, mantenuta in 4 Diarrea severa e calo pazienti fino a 1.83, 3.35, 3.67, 4.32 anni dopo il ponderale durante trapianto. 2 recidive dopo il trapianto 0.21 e 1.71 anni con rapido decesso

Al-toma et al 2007

EATL

Autologo

4

60-69 anni 2-34 mesi

1 remissione dopo 32 mesi. 3 recidive con decesso entro 1-9 mesi

Non riportata.

61-66 anni 3-9 mesi

Tutti recidivati: 1 recidiva dopo 2 mesi con decesso dopo 3 mesi; 1 recidiva dopo 6 mesi, con decesso dopo 9 mesi

Non riportata.

Sopravvivenza generale a 5 anni 60%, libera da malattia 52%

Infezioni 54%, 1 encefalopatia, 1 pancitopenia, 1 emorragia digestiva. 1 decesso per polmonite da P. carinii 4 mesi dopo il trapianto. 1 decesso per polmoniti ricorrenti 12 mesi dopo il trapianto

Regelink et al 2010

Sieniawski et al 2010

Jantunen (2013)

EATL

EATL

EATL

Allogenico

2

Autologo

14 (non specificato il numero di celiaci; pool iniziale 26 pazienti, di cui 19 celiaci)

Autologo

44 (di cui 25 celiaci)

36-69 anni

Non chiaro, almeno 5 anni

35-72 anni 2-108 mesi

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):8-16

1 recidiva a 18 mesi, 39% recidiva a 4 anni. 3 decessi per infezioni Sopravvivenza 59% a 4 anni trapianto-correlate (71% nei celiaci; p=0.052)

13


Clinical Systematic Rewiev

numero di recidive dopo trapianto, alcuni dati di sopravvivenza sembrano più confortanti rispetto a quelli ottenuti dalla chemioterapia convenzionale (24). Il prezzo da pagare tuttavia è un alto rischio di complicanze, specie infettive, favorite dalla malattia di base e precipitate verosimilmente dal trapianto: in una recente casistica, ben il 54% dei pazienti ha presentato un’infezione (24). Una sola piccola casistica, limitata a 2 pazienti, ha invece utilizzato l’allotrapianto per l’EATL: entrambi i casi hanno mostrato una recidiva precoce dopo il trapianto, seguita rapidamente dal decesso per progressione della malattia (26). Infine, un ulteriore gruppo di 5 pazienti, per lo più pediatrici, è stata invece trapiantata non tanto per malattia celiaca, di per sé non complicata, ma per una concomitante emopatia: in questi casi è stato utilizzato solo il trapianto allogenico, ottenendo una risposta istologica della celiachia associata in tutti pazienti, anche dopo reintroduzione di una dieta libera (27-30). La lunga durata di risposta (5 anni) e la descrizione di significativi effetti immunomodulanti da parte dei più recenti studi (29-30), sono dati interessanti ma non consentono di pronunciarsi in termini di cura definitiva né di porre questa complessa terapia nell’armamentario routinario della maggior parte delle celiachie non complicate. Neoplasie gastrointestinali Oltre ai già descritti casi di EATL correlati a malattia celiachia, l’uso di HSCT è stato descritto in isolate piccole casistiche di neoplasie gastrointestinali avanzate, in particolare MALToma (31) e carcinoma gastrico, per quanto riguarda l’autotrapianto (32-34): questi piccoli studi non controllati ed il contesto clinico critico non consentono di valutare l’effettivo ruolo diretto delle cellule staminali rispetto alla loro funzione di supporto alla concomitante chemioterapia multimodale ad alte dosi utilizzata. Mediante allotrapianto sono stati invece trattati 6 pazienti affetti da carcinoma colorettale avanzato: sono state osservate 2 risposte attraverso un regime di condizionamento non mieloablativo, con regressione di metastasi linfonodali e polmonari, ma non di quelle epatiche e ossee (35). Encefalomiopatia neurogastrointestinale mitocondriale L’encefalomiopatia neurogastrointestinale mitocondriale (MNGIE) è una rara malattia autosomica recessiva, progressiva e devastante, caratterizzata da mutazioni del gene che codifica la timidina-fosforilasi (TP), un enzima coinvolto nell’omeostasi del pool nucleotidico mitocondriale, con conseguente accumulo in eccesso di timidina e desossiuridina nel sangue e nei tessuti. I sintomi sono di tipo oculare, neurologico periferico e centrale e, dal punto di vista gastroenterologico, caratterizzati da dismotilità gastrointestinale condizionante nausea, cachessia, dolore addominale, diarrea, disfagia. La prognosi è infausta, con mortalità in media all’età di 35 anni, correlata alla disfunzione gastrointestinale e nutrizionale. Le terapie più recentemente sviluppate mirano al ripristino di un’adeguata attività della TP nelle cellule. A tal proposito, il trapianto allogenico di cellule staminali (sia da sangue periferico sia, preferibile, da midollo osseo) è apparso il trattamento più promettente. Esso mira a ripopolare il ricevente di cellule metabolicamente normali provenienti dal donatore. L’allotrapianto si è dimostrato in grado, in 11 pazienti selezionati in piccole casistiche non controllate, di migliorare il quadro biochimico e quello clinico gastrointestinale, sebbene l’efficacia a lungo termine sia ancora discussa rispetto ai potenziali rischi di effetti collaterali anche severi in pazienti spesso interessati da multiple comorbidità (36,37). La mortalità dei pazienti trattati resta alta (fino al 50%), per complicanze sia procedura- che malattia-correlate. Una recente consensus conference ha proposto le linee guida sull’argomento e standardizzato il protocollo di trapianto e monitoraggio (38).

14

Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):8-16


Trapianto di cellule staminali ematopoietiche nelle patologie gastrointestinali

CONCLUSIONI E PROSPETTIVE Nonostante i dati promettenti osservati con l’utilizzo dell’HSCT, specie autologo, in alcune malattie gastrointestinali, nel dibattito restano luci e ombre. Per esempio nella malattia di Crohn, nonostante la drammatica capacità dell’autotrapianto di indurre la remissione clinica in acuto nel 100% dei casi e di ottenere addirittura la guarigione endoscopica in molti pazienti (un traguardo poco realistico con le attuali terapie, soprattutto in un contesto complesso quale quello del paziente refrattario), le recidive osservate nel lungo termine indicano che l’autotrapianto non potrà probabilmente essere considerata una terapia risolutiva per il MC, ma deve intendersi quale terapia di salvataggio in pazienti selezionati, refrattari alla terapia convenzionale, nei quali il rapporto rischiobeneficio può essere giustificato. Non è noto inoltre se la reintroduzione di terapie specifiche (ma quali?) possa permettere di guadagnare ulteriore efficacia a lungo termine, così come non sono chiari tutti i meccanismi alla base dell’azione terapeutica osservata. Analogamente, le limitatissime esperienze in altre malattie gastrointestinali suggeriscono il proseguimento degli studi purché siano affidati a centri esperti in grado di selezionare adeguatamente il paziente e valutarne al meglio il corretto rapporto rischi/benefici. Corresponding Author Sandro Ardizzone U.O. Gastroenterologia U.S.D. Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali A.O. Polo Universitario “Luigi Sacco” Via G. B. Grassi , 74 - 20157 Milano Tel. + 39 02 39042945 Fax + 39 02 39042232 E-mail: ardizzone.sandro@hsacco.it

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Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):8-16

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Clinical Systematic Rewiev

Key Points • Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche è stato descritto in poche malattie gastrointestinali severe o refrattarie, con buoni risultati in piccole casistiche non controllate. • Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche si può associare a significativi eventi avversi, per lo più infettivi. • La malattia di Crohn refrattaria è stata la condizione più studiata. • Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche deve essere riservato a casi selezionati di malattie refrattarie alla terapia convenzionale. • Sebbene siano state descritte remissioni post-trapianto durature, la tendenza è la recidiva progressiva di malattia dopo tempi variabili.

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Un colon-osseo: una diagnosi monumentale! Lucia De Martino, Massimo Martinelli, Annalisa Alessandrella, Maria D’Armiento, Annamaria Staiano, Erasmo Miele Centro di Riferimento Regionale per Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali dell’Età Evolutiva. Dipartimento di Scienze Biomorfologiche e funzionali, Sezione di Patologia Università di Napoli “Federico II”

Heterotopic bone formation (osseous metaplasia) is a rare condition detected in the gastrointestinal (GI) tract associated with both malign and benign tumors. Colonoscopy is considered the “gold standard” for the detection of colon and rectal cancer, but a significant proportion of intestinal lesions can not be found during the examination (“miss-rate”). We report the case of a teenage girl with GI bleeding investigated by intestinal endoscopy and biopsy, which revealed osseous metaplasia in absence of intestinal tumors. Because of the persistence of GI bleeding, she underwent two more endoscopic evaluations, thus leading to a definitive diagnosis. In the presence of a clinical picture suggestive of bowel disease and negative index procedure, it is necessary to establish an appropriate endoscopic follow-up for the diagnostic and therapeutic re-evaluation of the case. During endoscopic procedures, intestinal biopsies should always be performed.

Key Words Rectal bleeding, osseus metaplasia, colonoscopy, immunosuppression

PRESENTAZIONE CLINICA Viene qui riportato il caso clinico di una adolescente di 10 anni giunta alla nostra osservazione per episodi di rettorragia, aftosi ricorrente del cavo orale, ragade, fistola peri-anale e emorroidi. Nel corso del primo ricovero venivano effettuate indagini di laboratorio risultate nella norma, ecografia addominale che mostrava epatomegalia e ileo-colonscopia che mostrava un quadro macroscopico nella norma, con riscontro all’esame istologico della mucosa del colon discendente di ghiandole regolari miste a ghiandole tortuose o ramificate, spesso contenenti muco e trabecole di osso maturo (metaplasia ossea) con infiltrato infiammatorio misto acuto e cronico dello stroma [Figura 1]. Pertanto si programmava sorveglianza semestrale mediante valutazione clinica, indagini di laboratorio e, in caso di ricorrenza della ret­torragia, nuova ileocolonoscopia. Figura 1 Metaplasia ossea della mucosa colonica

Esame obiettivo all’ingresso Addome globoso, dolente in fossa iliaca sinistra. Ragade anale con tragitto fistoloso. Aftosi del cavo orale. Obesità. Ipotesi diagnostiche 1. Malattia infiammatoria cronica intestinale 2. Polipo giovanile 3. Neoplasia 4. “Miss-rate” per lesioni intestinali

La soluzione del caso clinico a pagina 37

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Epatite autoimmune Rodrigo Liberal1,3, Diego Vergani1, Giorgina Mieli-Vergani1,2 of Liver Studies and 2Paediatric Liver, GI & Nutrition Centre, King’s College London School of Medicine at King’s College Hospital, Denmark Hill, London SE5 9RS, UK 3Faculty of Medicine, University of Porto, Portugal

1Institute

Childhood autoimmune liver diseases include autoimmune hepatitis and autoimmune sclerosing cholangitis. They are characterised by interface hepatitis, elevated transaminase levels, positive autoantibodies and increased levels of immunoglobulin G. Autoimmune hepatitis is particularly aggressive in children and progresses rapidly unless immunosuppressive treatment is started promptly. With appropriate treatment 80% of patients achieve remission and long-term survival. Autoimmune sclerosing cholangitis responds to the same treatment used for autoimmune hepatitis in regards to parenchymal inflammation, but bile duct disease progresses in about 50% of cases.

Key Words Autoimmune hepatitis, autoimmune sclerosing cholangitis, autoantibodies, immunosuppression

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Introduzione In età pediatrica sono descritte due malattie epatiche in cui il danno molto probabilmente deriva da un attacco autoimmune: l’epatite autoimmune (EAI) e la sindrome di sovrapposizione EAI-colangite sclerosante (nota anche come colangite sclerosante autoimmune, CSA) (1). La presentazione clinica della malattia di fegato autoimmune (MFAI) è non-specifica e può simulare la maggior parte delle altre malattie epatiche. Dato che il trattamento tempestivo può salvare la vita, è importante sospettare la MFAI, e quindi procedere subito alle indagini diagnostiche appropriate, in tutti i bambini che presentano segni di epatopatia di causa sconosciuta (1,2). Epatite autoimmune L’EAI è una malattia infiammatoria epatica prevalentemente presente nel sesso femminile, caratterizzata da ipertransaminasemia, elevati livelli sierici di immunoglobuline G (IgG), positività per autoanticorpi organo- e non-organo-specifici e, sul piano istologico, da epatite ad interfaccia, in assenza di una eziologia conosciuta. L’EAI è suddivisa in due tipi in base alla natura degli autoanticorpi presenti al momento della diagnosi: • l’EAI di tipo 1 (EAI-1) è caratterizzata dalla presenza di anticorpi anti-nucleo (anti-nuclear antibodies, ANA) e/o anti-muscolo liscio (smooth muscle antibodies, SMA) • la tipo 2 dalla presenza di anticorpi anti-microsomi epato-renali di tipo 1 (antiliver kidney microsomal antibody type 1, anti-LKM-1) e/o anti citosolo epatico di tipo 1 (anti-liver cytosol type 1, anti-LC-1) (3,4). Un autoanticorpo presente in tutti e due i tipi di epatite è l’anticorpo anti-antigene epatico solubile (anti-soluble liver antigen antibody, anti-SLA).

L’EAI risponde in modo soddisfacente al trattamento immunosoppressivo. Se non trattata, generalmente progredisce rapidamente verso cirrosi e insufficienza epatica (1). Il picco di incidenza della malattia si registra prima della pubertà; il 75% dei pazienti sono di sesso femminile. L’epidemiologia della EAI giovanile è sconosciuta, ma l’EAI-1 rappresenta i due terzi dei casi e si manifesta generalmente durante l’adolescenza, mentre l’EAI-2 si presenta in età più precoce, anche durante la prima infanzia (5). I livelli di IgG sono generalmente elevati al momento della presentazione in entrambi i tipi, anche se il 15% dei bambini con EAI-1 e il 25% di quelli con EAI-2 hanno livelli normali di IgG (5). Il deficit di IgA è comune nella EAI-2. La gravità della malattia è simile nei due tipi. I pazienti anti-LKM1-positivi hanno, tuttavia, una maggiore tendenza a presentarsi con insufficienza epatica acuta. Entrambi i tipi sono associati in circa il 20% dei casi ad altre patologie autoimmuni e/o nel 40% dei casi ad una storia familiare positiva per malattie autoimmuni (5). L’EAI-2 può essere parte della poliendocrinopatia autoimmu-

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ne-candidiasi-distrofia ectodermica (polyendocrinopathy-candidiasis-ectodermal dystrophy, APECED), una malattia genetica autosomica recessiva in cui la malattia di fegato è presente nel 20% dei casi (6). Colangite sclerosante autoimmune Come nell’adulto, la colangite sclerosante in età pediatrica è una forma di colestasi a carattere progressivo caratterizzata da infiammazione cronica e fibrosi dei dotti biliari intra ed extra-epatici con obliterazione dei dotti periferici, a cui conseguono restringimento e dilatazione di tratti più o meno estesi dei dotti biliari principali (6). Sebbene non sia ad oggi disponibile una classificazione univoca, sono state descritte diverse forme di colangite sclerosante in età pediatrica, con molteplici possibili eziopatogenesi e manifestazioni cliniche. Fra queste, la colangite sclerosante autoimmune (CSA) è spesso associata a segni floridi di autoimmunità, tra cui titoli elevati di autoanticorpi, in particolare ANA e SMA, livelli elevati di IgG, ed epatite ad interfaccia (7). Dal momento che queste caratteristiche sono condivise con l’EAI-1 e spesso i pazienti non hanno livelli elevati di fosfatasi alcalina (FA) o gamma-glutamil transpeptidasi (GGT) alla presentazione, la diagnosi di colangite sclerosante si basa esclusivamente su studi colangiografici. In assenza di colangiografia al momento della presentazione, molti di questi bambini sono diagnosticati e trattati come se avessero EAI-1, anche se la diagnosi di colangite sclerosante può diventare evidente durante il decorso clinico (7). Diversamente dall’EAI, la CSA colpisce allo stesso modo maschi e femmine. La CSA risponde in modo soddisfacente alla terapia immunosoppressiva corticosteroidea, almeno per quanto riguarda l’infiammazione parenchimale, ma a causa della progressione della malattia biliare in circa il 50% dei pazienti, la prognosi a lungo termine è peggiore rispetto a quella della EAI (1,7). Diagnosi La diagnosi di EAI si basa su uno score derivante dalla somma di una serie di punteggi positivi e negativi associati a vari aspetti della malattia. La biopsia epatica è necessaria per stabilire la diagnosi e per valutare l’entità del danno epatico. Il quadro istologico tipico comprende: • infiltrati infiammatori prevalentemente rappresentati da linfociti e plasmacellule nelle aree portali, che si espandono nel lobulo epatico • distruzione degli epatociti alla periferia del lobulo con erosione della membrana limitante (epatite ad interfaccia) • collasso del tessuto connettivo a seguito della necrosi degli epatociti; e rigenerazione epatica con trasformazione rosettiforme degli epatociti (2).

In aggiunta a questo quadro istologico tipico, altri criteri positivi includono: livelli elevati di transaminasi e di IgG e presenza di ANA, SMA, anti-LKM-1, anti-LC-1 e/o antiSLA. La diagnosi di EAI è stata facilitata dai criteri elaborati dal gruppo internazionale dell’epatite autoimmune (International Autoimmune Hepatitis Group, IAIHG), che tengono anche conto di fattori negativi come l’infezione dal virus dell´epatite B o C o presenza di malattia di Wilson e il consumo di alcol (8). L’IAIHG ha elaborato un punteggio utile per la diagnosi di AIH per scopi di ricerca. Un sistema di punteggio semplificato, recentemente pubblicato allo scopo di aiutare la pratica clinica, si basa sulla sieropositività degli autoanticorpi, sui livelli elevati di IgG, sull’epatite ad interfaccia, e sull’esclusione di epatite virale (9). Questi sistemi di punteggio non sono, tuttavia, particolarmente adatti per la forma pediatrica dell’ EAI, in cui gli autoanticorpi diagnostici spesso hanno titoli inferiore al valore di cut-off considerato positivo negli adulti. Inoltre, il sistema non distingue tra EAI e CSA; solo con colangiografia eseguita al momento della presentazione è possibile fare la diagnosi differenziale (7).

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Pediatric Hepatology

Un criterio diagnostico fondamentale, incluso in tutti i sistemi di punteggio, è la rilevazione degli autoanticorpi. Gli autoanticorpi sono importanti non solo per la diagnosi, ma permettono anche la differenziazione dei tipi di EAI (3). ANA e SMA, che caratterizzano l´EAI-1 e anti-LKM1, Figura 1 L’infiltrato infiammatorio portale e peri-portale che caratterizza che con l’anti-LC-1 defil’AIH è costituito da linfociti, monociti/macrofagi e plasmacellule niscono l´EAI-2, sono ra(epatite ad interfaccia, indicata dalle frecce). Ematossilina-eosina (si ringrazia il Dr. Alberto Quaglia per la gentile concessione ramente presenti simuldell’immagine) taneamente. Nei rari casi in cui sono presenti contemporaneamente, il decorso clinico è simile a quello di EAI-2 (3). È importante notare che la positività per ANA e/o SMA non è sufficiente per la diagnosi di EAI perché questi autoanticorpi possono essere presenti, generalmente a basso titolo, in altri disturbi del fegato, come epatiti virali, malattia di Wilson, e steatoepatite non alcolica (2). Autoanticorpi non comunemente testati, ma che possono essere di notevole importanza diagnostica sono anti-LC-1, anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (anti-neutrophil cytoplasm antibodies, [ANCA], e anti-SLA). Anti-LC-1, marcatore addizionale di EAI-2, è presente frequentemente in associazione con l’anti-LKM-1 ma può ritrovarsi anche da solo. Ci sono tre tipi di ANCA: citoplasmatici (cANCA), perinucleari (pANCA) e perinucleari atipici, il cui bersaglio è un antigene nucleare periferico e non un antigene citoplasmatico perinucleare (da qui il nome suggerito di peripheral antinuclear neutrophil antibody [pANNA]). Il tipo di ANCA presente nella EAI-1 è pANNA, che è presente anche nelle malattie infiammatorie intestinali e nella colangite sclerosante. pANNA è praticamente assente in EAI-2 (2,3). Anti-SLA, che è stato originariamente descritto come segno diagnostico di un terzo tipo di epatite autoimmune, si trova anche nel 50% dei pazienti con EAI-1 e EAI-2, in cui caratterizza un decorso più grave di malattia (10). Solo una piccola percentuale di pazienti con EAI non hanno autoanticorpi. Negli adulti, i rari pazienti sieronegativi per gli autoanticorpi rispondono bene alla terapia immunosoppressiva, analogamente ai pazienti sieropositivi (4). Trattamento Il trattamento standard L’EAI deve essere sospettata e ricercata in tutti i bambini con evidenza di malattia epatica dopo l’esclusione di eziologie infettive e metaboliche (2). EAI è molto sensibile alla immunosoppressione e il trattamento deve essere iniziato tempestivamente per evitare la progressione della malattia. L’obiettivo del trattamento è di ridurre (e da ultimo eliminare) l’infiammazione del fegato, per indurre la remissione, migliorare i sintomi e prolungare la sopravvivenza. La rapidità ed il grado della risposta dipendono dalla gravità della malattia al momento della presentazione. Sebbene la cirrosi sia presente alla diagnosi nel 44-80% dei pazienti, la mortalità è bassa e la maggior parte rimane clinicamente stabile, con una buona qualità di vita (2). Con l’eccezione di una presentazione fulminante con encefalopatia, dove è necessario di solito il trapianto epatico, l’EAI risponde in modo soddisfacente al trattamento immunosoppressivo qualunque sia il grado di compromissione epatica, con un tasso di remissione superiore all’80% (5).

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Epatite autoimmune

Il trattamento standard consiste di prednisolone (o prednisone) 2 mg/kg/giorno (max 40-60 mg/giorno), che viene diminuito gradualmente durante un periodo di 4-8 settimane, parallelamente alla diminuzione dei livelli di transaminasi, fino ad una dose di mantenimento di 2.5-5 mg al giorno (1). Nel nostro Centro al King´s College Hospital, l’azatioprina viene aggiunta come farmaco che consente di ridurre il dosaggio dello steroide, solo se i livelli di transaminasi smettono di scendere durante la diminuzione della dose di prednisolone o in presenza di gravi effetti collaterali degli steroidi (ad esempio, psicosi). L’azatioprina è prescritta ad una dose inziale di 0.5 mg/kg/giorno, ed, in assenza di segni di tossicità, viene aumentata gradualmente fino ad un massimo di 2.0-2.5 mg/ kg/giorno (1). È consigliabile non usare l’azatioprina ab initio in pazienti che sono itterici, perché il farmaco può essere epatotossico, particolarmente in presenza di iperbilirubinemia. Trattamento alternativo Nei bambini con EAI, l’induzione della remissione è stata ottenuta con ciclosporina A per 6 mesi, seguita dall’aggiunta di prednisone e azatioprina; un mese dopo la ciclosporina viene interrotta (11). Il vantaggio di tale modalità di induzione rispetto alla terapia standard non è ancora stato valutato in studi controllati. Il tacrolimus è un agente immunosoppressivo più potente della ciclosporina, ma anche con una maggiore tossicità (2). Ci sono pochi dati che supportano l’utilizzo di tacrolimus come terapia primaria dell’EAI, a parte casi aneddotici negli adulti. La budesonide viene eliminata con primo passaggio epatico per >90% della dose orale ed ha meno effetti collaterali rispetto al prednisolone. Tuttavia, non può essere utilizzata in pazienti con cirrosi, che è presente in un numero significativo di pazienti con EAI. In un ampio studio europeo, la combinazione di budesonide e azatioprina ha mostrato meno effetti collaterali ed un simile beneficio rispetto ad una dose medio-bassa di prednisone e azatioprina (12). In questo studio, la somministrazione di budesonide alla dose di 3 mg tre volte al giorno, ridotta a seconda della risposta bioumorale, è stata confrontata con una dose di prednisone di 40 mg/die, ridotta per protocollo indipendentemente della risposta. Dopo 6 mesi di trattamento, la remissione è stata raggiunta nel 60% del gruppo trattato con budesonide ma solo nel 39% del gruppo trattato con prednisone; entrambe le percentuali sono decisamente peggiori di quelle ottenute con il trattamento standard. I risultati nel gruppo di bambini e adolescenti trattati in questo studio sono particolarmente deludenti, con un tasso di remissione del 16% per il gruppo trattato con budesonide e del 15% per il gruppo trattato con prednisone dopo 6 mesi di trattamento, e del 50% e 42% rispettivamente dopo 12 mesi di trattamento (12), dati che suggeriscono che, alla dose usata in questo studio, la budesonide non offre alcun vantaggio sul trattamento standard. In ogni caso, la budesonide può essere una alternativa valida in pazienti non-cirrotici ad alto rischio di effetti collaterali da steroidi. Trattamento dei casi refrattari Il micofenolato mofetile (MMF) è il profarmaco dell’acido micofenolico. Il suo effetto sulla sintesi delle purine provoca una diminuzione della proliferazione dei linfociti T e B. MMF è stato utilizzato con successo nel ~ 10% di pazienti che non rispondono o sono intolleranti all’azatioprina alla dose di 20 mg/kg due volte al giorno (dose giornaliera totale di 40 mg/Kg), insieme al predniso(lo)ne (1). Se vi è una persistente assenza di risposta o se vi è intolleranza all’ MMF (mal di testa, diarrea, nausea, vertigini, perdita di capelli, e neutropenia), si può considerare l’uso degli inibitori della calcineurina. Il tacrolimus, in particolare, può essere utile in combinazione con predniso(lo)ne come terapia di seconda linea (1).

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Trattamento della colangite sclerosante autoimmune La CSA risponde allo stesso trattamento immunosoppressivo descritto sopra per l’EAI. Tuttavia, mentre gli steroidi e l’azatioprina sono efficaci nel diminuire le lesioni infiammatorie parenchimali, sono assai meno efficaci nel controllo della malattia biliare. L’acido ursodesossicolico (UDCA) è normalmente aggiunto agli steroidi e all’azatioprina per il trattamento della CSA alla dose di 15-20mg/die, ma la sua utilità nell’arrestare la progressione della malattia biliare rimane ancora da stabilire (1). La CSA è spesso associata a malattia infiammatoria intestinale, la cui presenza andrebbe indagata anche in assenza di sintomi intestinali (7). La progressione della malattia epatica è strettamente correlata all’attività della malattia intestinale, che perciò deve essere trattata tempestivamente ed adeguatamente.

Corresponding Author

Figura 2 Colangiopancreatografia retrograda endoscopica (CPRE) di un bimbo con colangite sclerosante autoimmune, che mostra stenosi e dilatazioni diffuse dei dotti biliari intraepatici

Bibliografia

Key Points • Ci sono due tipi principali di malattie epatiche autoimmuni in pediatria: l’epatite autoimmune (EAI) e la sindrome da overlap tra EAI e colangite sclerosante (colangite sclerosante autoimmune, CSA). • L’EAI si divide in tipo 1, positiva per anticorpi anti-nucleo (ANA) e/o anti-muscolatura liscia (SMA), e tipo 2, positiva per l’anticorpo antimicrosomi epato-renali di tipo 1 (anti-LKM1). • La maggior parte dei pazienti con CSA sono positivi per ANA e/o SMA: anticorpi contro i neutrofili sono positivi in una proporzione simile di bambini con CSA e EAI di tipo 1, ma sono di solito negativi nell’EAI di tipo 2. • In almeno il 20% dei pazienti con CSA si puo arrivare alla diagnosi solamente se viene fatta una colangiografia, perchè il quadro istologico è identico a quello dell’EAI. • Sia l’EAI che la CSA rispondono al trattamento con prednisolone +/- azatioprina. Ma il danno biliare nella CSA puo’ progredire malgrado la terapia.

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GIORGINA MIELI-VERGANI Professor of Paediatric Hepatology Paediatric Liver GI & Nutrition Centre King’s College Hospital Denmark Hill, London SE5 9RS (UK) E-mail: giorgina.vergani@kcl.ac.uk

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Apporto di sodio in età pediatrica e rischio cardiovascolare nell’adulto Antonio Barbato e Pasquale Strazzullo Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia, Università degli Studi di Napoli “Federico II”

This article provides an overview of the current scientific evidence on the effects of dietary sodium intake in children and adolescents. It refers to recent information about the habitual sodium intake in a representative sample of Italian paediatric population in the framework of the recently delivered Dietary Reference Nutrient Intakes for the Italian population. Practical suggestions are given to help reduce dietary salt intake.

Key Words Sodium, salt, children, adolescent, hypertension, cardiovascular risk

INTRODUZIONE L’associazione causale tra eccessivo consumo di sale e danni alla salute, tra i quali in primis l’aumento della pressione arteriosa e del rischio cardiovascolare (1-2), ma anche la maggiore suscettibilità al cancro gastrico (3), alla nefrolitiasi calcica e all’osteoporosi (4), è ampiamente dimostrata. Di fatto, la restrizione salina figura al primo posto tra le misure inerenti lo stile di vita nelle più recenti Linee Guida delle Società Europee di Ipertensione e di Cardiologia (5). Scopo di questo articolo è una discussione dell’interazione tra consumo di sale e pressione arteriosa in età infantile e delle relative implicazioni ai fini della determinazione del rischio cardiovascolare in età adulta. EVIDENZE NELL’INFANZIA Alcuni anni orsono He e McGregor (6) analizzarono i trial randomizzati e controllati di riduzione sodica in soggetti di età inferiore ai 18 anni, con durata dell’intervento di almeno due settimane. Nei 10 studi che soddisfacevano questi criteri, per un totale di 966 soggetti, a una riduzione media del 42% del consumo di sale si associava una riduzione statisticamente significativa della pressione sistolica pari a 1.17 mmHg e della pressione diastolica pari a 1.29 mmHg. La meta-analisi includeva 3 studi condotti su 511 infanti di età fino a 3 mesi con un periodo d’intervento tra le 8 settimane e i 6 mesi: in questo sottogruppo l’assunzione di sale era stata ridotta del 54% in media e la pressione arteriosa sistolica era diminuita di 2.47 mmHg (6). Più recentemente Yang e coll (7) hanno valutato in un campione di 6.235 ragazzi americani di età compresa tra gli 8 e i 18 anni, partecipanti al “National Health and Nutrition Examination Survey” (NHANES), il consumo di sodio attraverso l’utilizzo di un diario alimentare. Il consumo medio di sodio stimato è risultato pari a 3.387 mg (circa 8.5 grammi di sale) al giorno, con un’associazione diretta tra consumo di sodio ed età ed un maggior consumo di sodio nei maschi rispetto alle femmine. Gli autori descrivevano inoltre una significativa interazione tra consumo di sodio e peso corporeo nei confronti della pressione arteriosa: infatti, mentre il rischio relativo di pre-ipertensione/ipertensione dei soggetti nel quartile più alto di consumo di sale rispetto a quelli nel quartile più basso era pari a 2.0 nell’intera popolazione, esso saliva a 3.5 per i partecipanti in sovrappeso o obesi. Su questa base, gli autori sostenevano l’importanza di una maggiore attenzione all’apporto alimentare di sale ma anche di un’attività fisica regolare e di un attento controllo del peso corporeo in bambini e adolescenti, allo scopo di ridurre il rischio di ipertensione in età adulta. Un’ancor più recente meta-analisi di Aburto e coll (1) ha esaminato 9 trial di riduzione sodica moderata della durata di almeno 4 settimane, condotti in Australia e negli Stati Uniti, con la partecipazione di 1.299 bambini e adolescenti, mostrando che la riduzione del consumo di sale induceva una piccola ma significativa riduzione della pressione arteriosa pari a 0.84 mmHg. Infine, uno studio di coorte eseguito in Olanda su un campione di 596 bambini e adolescenti, con un follow-up di 7 anni, ha mostrato un minore aumento dei va-

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lori pressori nel tempo nel gruppo a basso apporto di sodio rispetto al gruppo di controllo soprattutto in riferimento al rapporto sodio/potassio alimentare, indicando un impatto sinergico tra minor consumo di sale e più alto apporto di potassio sull’aumento dei valori pressori nel tempo (1). EVIDENZE NELLE PRIME FASI DELLA VITA Questo aspetto è stato affrontato in una recente revisione degli studi disponibili (8). L’utilizzo del latte in formula diluito con acqua minerale a basso contenuto di sodio (1.4 mmol/l) rispetto a quella a contenuto normale (8.5 mmol/l) si associa a valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica più bassi già nei primi due mesi di vita. Un trial clinico controllato eseguito nei primi anni ’80 in un campione di neonati mostrava come la riduzione del consumo di sale di 2.5 volte rispetto ai controlli si associava a sei mesi a una riduzione di 3 mmHg della pressione arteriosa sistolica e questo effetto veniva mantenuto nel tempo. Infatti, in una rivalutazione degli stessi soggetti, una volta adolescenti, persisteva una differenza significativa nei valori pressori a favore dei ragazzi che 15 anni prima erano stati assegnati al regime iposodico. In età infantile, la preferenza per i cibi salati sembra essere associata a valori pressori più alti nei bambini con una storia familiare positiva per ipertensione arteriosa. Durante il primo anno di vita, attraverso l’allattamento al seno e/o l’uso di moderno latte in formula con aggiunta a partire dai tre mesi di alimenti complementari, l’apporto sodico è ampiamente sufficiente a coprire il fabbisogno stimato di circa 0.9 mmol/die necessari per l’accrescimento senza alcuna necessità di sale aggiunto. Questo è reso possibile dal precoce sviluppo del sistema renina-angiotensina e della capacità del rene di trattenere il sodio inducendo un bilancio positivo. Purtroppo dati epidemiologici disponibili per la popolazione infantile degli Stati Uniti indicano che la quantità media di sodio alimentare si avvicina abbastanza ai valori raccomandati fino all’età di due anni per poi aumentare progressivamente oltre questa età (8). LA SITUAZIONE IN ITALIA Recentemente anche in Italia il programma MINISAL-GIRCSI (9), nell’ambito di una valutazione condotta su un campione rappresentativo della popolazione italiana, ha fornito i primi dati nazionali sul consumo di sodio e di potassio in bambini e adolescenti di 10 regioni italiane attraverso la raccolta delle urine delle 24 ore da parte di 1.424 partecipanti (766 ragazzi e 658 ragazze) di età compresa tra i 6 e i 18 anni. Il consumo medio stimato di sodio è risultato pari a 129 mmol (pari a 7.4 g di sale) al giorno nei maschi e 117 mmol (6.7 g di sale) nelle femmine, in pratica superiore ai valori raccomandati in relazione all’età (10) nel 93% dei maschi e nel 89% delle femmine. Il consumo di sodio è risultato fortemente correlato con il peso corporeo e con lo Z-score dell’indice di massa corporea, in modo simile a quanto osservato nella popolazione adulta. Questi risultati sono preoccupanti in considerazione del fatto che il sovrappeso in ragazzi e adolescenti è risultato in precedenti studi associato ad elevata sodio-sensibilità della pressione arteriosa. Inoltre, è noto che ad un più elevato consumo di cibi salati si associa abitualmente un maggior uso di bibite zuccherate che a loro volta contribuiscono allo sviluppo di obesità. INDICAZIONI PER UN CORRETTO APPROCCIO La commissione congiunta SINU-INRAN per la revisione dei LARN ha in corso la determinazione dei valori aggiornati di assunzione adeguata (Adequate Intake) e obiettivo di assunzione per la popolazione (Standard Dietary Target) per il sodio (10). Il calcolo dell’apporto medio per l’età 6-12 mesi è stato definito sulla base di un contenuto medio di sodio nel latte materno in questo periodo pari a 0.13 g/L e di un volume introdotto di 600 mL al giorno (da cui un apporto pari a 0.08 g di sodio al giorno). A questo apporto sodico è stato aggiunto quello derivante dagli alimenti complementari all’allattamento assunti in questo periodo e stimato in circa 0.29 g, per un totale quindi di 0.37 g al giorno pari a circa 1 g di sale. Poiché dopo il primo anno di vita la capa-

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Apporto di sodio in età pediatrica e rischio cardiovascolare nell’adulto

cità del rene di conservare il sodio ha raggiunto la maturità, l’assunzione adeguata è basata sul contenuto sodico di una dieta che sia in grado di soddisfare l’esigenza di altri nutrienti essenziali. Esso è pertanto estrapolato dal valore dell’adulto (1.5 g/die) facendo riferimento al fabbisogno energetico relativo all’età. Sulla base dei dati di fabbisogno energetico medio relativo alle diverse età, da cui risulta tra l’altro che l’apporto energetico a partire dagli 11 anni è praticamente sovrapponibile a quello dell’adulto, si deduce che l’assunzione adeguata per il sodio dopo questa età è pari a quella dell’adulto, mentre valori proporzionalmente più bassi vengono derivati per le fasce di età inferiore. La principale fonte di assunzione del sodio nella dieta italiana è data dal cloruro di sodio (sale) aggiunto nei prodotti trasformati di tipo artigianale, industriale, o della ristorazione collettiva (circa il 50% dell’assunzione totale) e da quello aggiunto in cucina e/o a tavola (circa il 35%). I cereali e derivati, tra cui il pane, rappresentano una delle fonti più rilevanti di sodio aggiunto nei prodotti trasformati. Elevate quote derivano anche dai gruppi carne/uova/pesce (31%) e latte e derivati (21%), a causa del sale aggiunto rispettivamente nelle carni e pesci conservati e nei formaggi. I contributi sia della frutta (3%) che delle verdure e ortaggi (2%) sono invece molto bassi. Come ampiamente visto in precedenza i consumi nella popolazione generale attualmente sono molto al di sopra dei livelli considerati adeguati, per cui in attesa di una riduzione della quota aggiunta nei prodotti trasformati al fine di ottenere una riduzione del consumo di sale è utile attenersi ai consigli pratici indicati nella Tabella 1.

Tabella 1 Consigli pratici al fine di ottenere una riduzione del consumo di sale Elementi di consapevolezza e di motivazione ai fini della riduzione del consumo di sale 1. La nostra assunzione di sale supera largamente i bisogni fisiologici 2. È stata stabilita una relazione causale tra l’eccessivo consumo di sale e la pressione alta 3. Un maggior consumo di sale è associato a un più alto rischio di eventi cardiovascolari e, in particolare, di ictus 4. Nella maggior parte degli individui riducendo l’assunzione di sale si riduce la pressione 5. Poiché la pressione alta è una delle principali cause di malattia cardiovascolare, la riduzione della pressione conseguente alla riduzione del consumo di sale dovrebbe prevenire un numero sostanziale di eventi cardiovascolari 6. La riduzione del consumo di sale agisce favorevolmente su stress ossidativo, disfunzione endoteliale, ipertrofia cardiaca, rigidità di parete e disfunzione renale 7. La moderazione del consumo di sale sarà tanto più efficace quanto prima viene implementata nella vita di un individuo Elementi e consigli pratici da fornire ai fini della riduzione del consumo di sale 1. Rendere il soggetto consapevole del proprio consumo abituale di sale attraverso la misurazione dell’escrezione urinaria di sodio nelle 24 ore 2. Stabilire il divario tra l’assunzione di sale misurata e l’assunzione di sale raccomandata (<5g/die) 3. Spiegare che la riduzione del consumo di sale deve essere realizzata gradualmente all’interno della famiglia per consentire al gusto di ognuno di adattarsi progressivamente al minor contenuto di sodio dei cibi consumati 4. Spiegare la differenza tra quota di sale discrezionale (aggiunta) e quota non discrezionale (già presente negli alimenti) 5. Fornire informazioni circa le principali fonti di sale nella dieta e cercare di individuare quali di esse sono più importanti nella dieta abituale del soggetto 6. Raccomandare l’uso di sale iodato come unica fonte di sale nella preparazione dei cibi e, a richiesta, fornire informazioni sul possibile uso di sostituti del sale 7. Rassicurare il soggetto in merito alla sicurezza di una dieta povera di sodio 8. Controllare periodicamente i risultati nel ridurre l’assunzione di sale, misurandone nuovamente l’escrezione urinaria e aggiornando di conseguenza il piano d’intervento 9. Non aggiungere sale nelle pappe dei bambini, almeno per tutto il primo anno di vita 10. Limitare l’uso di condimenti alternativi contenenti sodio (dado da brodo, ketchup, salsa di soia, senape, ecc.) 11. Insaporire i cibi con erbe aromatiche (come aglio, cipolla, basilico, prezzemolo, rosmarino, salvia, menta, origano, maggiorana, sedano, porro, timo, semi di finocchio) e spezie (come pepe, peperoncino, noce moscata, zafferano, curry) 12. Esaltare il sapore dei cibi usando succo di limone e aceto 13. Scegliere, quando sono disponibili, le linee di prodotti a basso contenuto di sale (pane senza sale, tonno in scatola a basso contenuto di sale, ecc.) 14. Consumare solo saltuariamente alimenti trasformati ricchi di sale (snacks salati, patatine in sacchetto, olive da tavola, alcuni salumi e formaggi) 15. Nell’attività sportiva moderata reintegrare con la semplice acqua i liquidi perduti attraverso la sudorazione

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Key Points • Il consumo di sale in età infantile è molto più alto di quelle che sono le quantità raccomandate. • Il consumo eccessivo di sale in età infantile è in grado di influenzare la pressione arteriosa e predispone all’ipertensione. • Abituare i bambini a mangiare meno sale è semplice e può portare ad una riduzione del numero di adulti ipertesi e nel tempo ad una riduzione della mortalità e morbidità cardiovascolare. • Insieme alla collaborazione con l’industria alimentare per una rimodulazione verso il basso dell’aggiunta di sale ai cibi preconfezionati, la riduzione progressiva del sale aggiunto a tavola e in cucina consente di ridurre la quantità di sodio assunta globalmente.

CONCLUSIONI Il sodio è un nutriente fondamentale per il corretto funzionamento dei normali processi biologici nell’uomo essendo coinvolto nel controllo del volume plasmatico, dell’equilibrio acido-base, nella trasmissione degli impulsi nervosi e nella regolazione di varie funzioni cellulari. Tuttavia, tra la minima assunzione alimentare richiesta per il mantenimento della sua funzione biologica, che è stata stimata in circa 200-500 mg al giorno, e quella attualmente verificata a livello di popolazione esiste un forte squilibrio a favore dell’eccesivo consumo di sodio. Come visto ciò favorisce il ben noto aumento della pressione arteriosa nel tempo a seguito di alterazioni morfo-funzionali delle arterie che iniziano nell’infanzia determinando un progressivo danno d’organo e predisponendo nel tempo agli eventi cardiovascolari maggiori. Ridurre il consumo di sale in età infantile può avere un impatto decisivo su questa tendenza, può ridurre sensibilmente la prevalenza di ipertensione nella popolazione adulta e prevenire le malattie cardiovascolari e renali in età più avanzata (1), incidendo favorevolmente sulla qualità e la speranza di vita nonché sulla spesa sanitaria. La riduzione del consumo di sodio a livello di popolazione a partire dall’infanzia è realizzabile attraverso una strategia globale che prevede la collaborazione con l’industria alimentare, la sensibilizzazione della popolazione attraverso campagne pubblicitarie, l’estensione dell’uso di etichette nutrizionali che indichino se il prodotto è a più basso o più alto contenuto di sodio. Questa strategia è già in atto da tempo e ha prodotto iniziali risultati in diversi Paesi (11). Essa deve essere opportunamente coniugata con la lotta contro l’obesità infantile e contro l’improprio consumo di alcol, secondo lo spirito del programma Guadagnare Salute di cui lo studio MINISAL-GIRCSI è stato parte.

Corresponding Author PASQUALE STRAZZULLO Dipartimento di Medicina Clinica e Chirurgia U.O.C. di Medicina d’Urgenza e Ipertensione Centro di Eccellenza per l’Ipertensione Arteriosa Università di Napoli “Federico II” Via S. Pansini, 5 - 80131 Napoli Tel. + 39 081 7463686 Fax +39 081 5466152 E-mail: strazzul@unina.it

RINGRAZIAMENTI Questo articolo è stato preparato nella cornice dei programmi MINISAL-GIRCSI e MENO SALE PIÙ SALUTE, approvati e sostenuti dal Ministero della Salute (Centro di Controllo delle Malattie) come parte del programma nazionale GUADAGNARE SALUTE (coordinatore: Dr.ssa Daniela Galeone)

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Management delle infezioni in corso di terapia con immunosoppressori e biologici nelle IBD Laura Cantoro1, Anna Kohn2, Antonio Cascio3 1U.O.C. di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva, Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma 2U.O.C. Gastroenterologia, A.O. San Camillo Forlanini di Roma 3U.O.C. Malattie Infettive, A.O.U. Policlinico “G. Martino” di Messina

Inflammatory bowel diseases (IBD) patients have an increased risk of infections including virus, bacteria, parasites and fungi; the immunosuppressive treatment further increases such risk. Improving the clinicians awareness about infections and individual risk factors is important to optimize patients management. We briefly examine the actual data about this issue.

introduzione Le infezioni sono una preoccupazione costante per i clinici nella gestione dei pazienti affetti da Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI) poiché possono correlarsi all’esacerbazione di malattia, rappresentarne una complicanza o essere secondarie al trattamento farmacologico. Identificare i pazienti a maggior rischio infettivo permette di migliorare l’esito della malattia attuando idonee strategie preventive. Nella popolazione generale sono considerati fattori di rischio infettivo l’età avanzata, la malnutrizione, la terapia con immunomodulatori (IMM), alcune comorbidità. Nei pazienti affetti da MICI il rischio infettivo aumenta con la severità della malattia e in caso di associazione di più IMM. Gli IMM usati nelle MICI sono corticosteroidi, tiopurine, methotrexate, anti-TNF. Una metanalisi degli studi clinici controllati e i dati dello studio osservazionale, the TREAT registry, mostrano un aumento del rischio per infezioni gravi con l’uso degli steroidi e, dopo un periodo di osservazione di cinque anni, anche con l’uso di Infliximab (1,2). Analizziamo alcune delle infezioni gravi associate agli IMM nelle MICI e le possibili strategie di prevenzione. Tubercolosi (TBC) Gli ant-TNF alterano la risposta immunitaria verso il Mycobacterium Tubercolosis.

Prima di iniziare una terapia con antiTNF si deve escludere una TBC latente (anamnesi, Rx Torace, test di Mantoux e/o Quantiferon).

La diagnosi di TBC latente richiede una chemioprofilassi con isoniazide della durata di 6-9 mesi da iniziare tre settimane prima del trattamento con anti-TNF (3). Nei casi di TBC in corso di terapia con biologici è necessario iniziare la terapia antitubercolare e interrompere gli anti-TNF per almeno 2 mesi.

Key Words Infection, IBD, immunomodulators, prophylaxis, vaccination

Infezioni batteriche Clostridium difficile (CD) Dati epidemiologici dimostrano che i paziente affetti da MICI hanno un rischio aumentato di sviluppare un’infezione da CD, con un maggior rischio di ospedalizzazione e di mortalità. L’infezione è generalmente comunitaria.

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IBD Highlights

Non vi è chiara indicazione sulla necessità di sospendere le terapie immunosoppressive nei casi di colite da CD (4). Le recidive di infezione da CD sono frequenti e per migliorare la risposta al trattamento sono state proposte diverse modalità di riduzione e sospensione del trattamento antibiotico con vancomicina. Infezioni fungine Pneumocystis jirovecii (ex Pneumocystis carinii) Casi di polmonite da Pneumocystis cariIn caso di terapia con tre IMM é nii sono stati riportati in pazienti tratnecessaria una chemioprevenzione tati con anti-TNF con elevato rischio con cotrimossazolo. di ospedalizzazione e mortalità (5). Fattori di rischio sono l’età avanzata, una concomitante pneumopatia e l’assunzione di steroidi. Non è disponibile alcuna vaccinazione. Infezioni virali Il rischio di infezioni virali è aumentato nei pazienti sotto IMM.

Nei pazienti reumatologici il 30% delle infezioni correlate alla terapia con anti-TNF è di natura virale. HBV Lo screening per HBV è consigliato. La vaccinazione è raccomandata per i pazienti sieronegativi. Nei pazienti HbsAg positivi non c’è evidenza di aumentato rischio di riattivazione dell’infezione con le tiopurine, mentre sono riportati casi di riattivazione con gli anti-TNF. Un trattamento antivirale preventivo è raccomandato per i pazienti HbsAg positivi prima del trattamento con anti-TNF (6). HCV Secondo le linee guida europee gli IMM non sono controindicati nelle forme di infezione cronica attiva e non vi è necessità di sospenderli nelle forme acute.

È consigliato lo screening per VZV e la vaccinazione dei sieronegativi almeno tre settimane prima della terapia con IMM.

Varicella Zoster Virus (VZV) Le infezioni primarie (varicella) o le riattivazioni del virus hanno un decorso severo e talvolta fatale nei pazienti sotto IMM. Una pregressa infezione da VZV non rappresenta una controindicazione agli IMM che devono essere sospesi nelle forme severe (7). Epstein Barr Virus (EBV) In letteratura sono riportati casi di MICI con una riattivazione del virus subclinica, autolimitante o latente dopo l’introduzione degli IMM. Lo screening per una infezione subclinica o latente non è raccomandato.

Nei casi di infezione severa è necessario iniziare la terapia antivirale e sospendere gli IMM (8).

Human Papilloma Virus (HPV) Lo screening per il tumore della cervice uterina è raccomandato per le donne affette da MICI soprattutto se in terapia con immunosoppressori.

La vaccinazione è raccomandata nelle donne prima di inziare gli IMM. 28

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Management delle infezioni in corso di terapia con immunosoppressori e biologici nelle IBD

Bisogna considerare che il rischio di infezioni severe in corso di terapia immunosoppressiva è maggiore in presenza di malnutrizione, comorbidità, età avanzata. L’esposizione ai patogeni è condizionata da fattori economici, sviluppo industriale, clima e dalle politiche sanitarie. Aspetti pediatrici

Prima di iniziare la terapia immunosoppressiva, a parte valutare la presenza di una infezione tu- Idealmente, i bambini con IBD dovrebbero aderire al bercolare latente, l’infezione da HBV e da HCV, programma di vaccinazione raccomandato dalla American dovrebbe essere anche valutato lo stato Academy of Pediatrics (AAP), fatta eccezione per la immunitario nei confronti della varicel- somministrazione di vaccini contenenti microrganismi la e del morbillo (anche se il paziente ri- vivi attenuati, che sono controindicati nei pazienti in sulta essere vaccinato), e i rispettivi vac- trattamento con farmaci immunosoppressivi (9). cini raccomandati ai soggetti che ancora non dovessero essere immuni (se si prevede di non iniziare la terapia immunosoppressiva nelle successive 4 settimane) . Nella ipotesi in cui un soggetto non sia immune nei confronti del morbillo e/o della varicella e sia già in trattamento con farmaci immunosoppressivi, l’unica possibilità di vaccinarlo è in eventuali periodi di remissione della malattia che abbiano consentito una interruzione dalla terapia con cortisonici per almeno un mese, e con purine o farmaci biologici da almeno 3 mesi. Tali farmaci non potranno essere somministrati per le tre settimane successive alla vaccinazione). In caso di sieronegatività (o se non è possibile Nel caso in cui un paziente in trattamento con farmaci determinare stato sierologico) e l’esposizione si immunosoppressivi abbia un contatto, con un paziente è verificata negli ultimi 7 giorni, per prevenire con varicella dovrebbe essere controllata immediatamente o attenuare la malattia, può essere considerata la sierologia per VZV. l’immunizzazione passiva con anticorpi anti VZV (VZIG). Indipendentemente dall’aver ricevuto la profilassi post-esposizione con VZIG, il paziente deve essere monitorato attentamente per lo sviluppo di sintomi rilevanti. Al primo segno di malattia, l’aciclovir per via endovenosa ad alte dosi è essenziale per ridurre le complicanze varicella-correlate e la mortalità (come dimostrato in pazienti affetti da HIV o in quelli trattati con chemioterapia). I soggetti che vivono in stretto contatto con i pazienti con IBD possono essere vaccinati con vaccini contenenti virus attenuati ad accezione del polio orale (tipo Sabin) (che comunque nei paesi industrializzati è stato sostituto dal polio intattivato iniettabile (tipo Salk). I virus attenuati presenti nel vaccino anti morbillo-parotite-rosolia (MPR) non vengono trasmessi ai contatti. Allo stesso modo, la vaccinazione contro la varicella può essere somministrata con sicurezza a contatti di una bambino con IBD in trattamento con farmaci immunosoppressivi, tuttavia, nel caso in cui il contatto sviluppi un rash correlato al vaccino, il paziente immunodepresso non immune deve evitare i contatti con quella persona. Anche se circa il 5% degli individui che ricevono la vaccinazione contro la varicella sviluppano un rash, la trasmissione del virus attenuato è un evento raro. Le somministrazione di immunoglobuline anti VZV in tale specifico caso non è strettamente raccomandata in quanto la malattia associata a questo tipo di virus attenuato dovrebbe essere mite. Per prevenire la listeriosi nei pazienti in terapia immunosoppressiva, le raccomandazioni di evitare cibi come formaggi morbido e prodotti caseari non pastorizzati e cucinare (fino a renderle fumanti) carni trasformate, come hot dog sembrano molto ragionevoli. I pazienti con IBD sono ad aumentato rischio di polmonite. Riteniamo importante che anche i familiari dei bambini con IBD siano vaccinati contro l’influenza per evitare che questi possano rappresentare una fonte di contagio.

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IBD Highlights

Tabella 1 Prima di iniziare la terapia biologica

Tabella 2 Vaccini in corso di terapia imm e biologica

• Anamnesi infettivologia accurata (pregresse infezioni batteriche o virali) • Stato di immunizzazione (DTP, MPR, HPV, varicella, epatite A e B) • Valutazione del rischio di tubercolosi latente o attiva

(etnia, possibili contatti) e screening appropriato (Rx torace, intradermoreazione di Mantoux e/o Quantiferon)

CONTROINDICATI (vaccini vivi) BCG, MPR, varicella, febbre gialla, anti-polio orale CONSENTITI

• Esame clinico: segni di infezione locale o sistemica, condizioni dentaria,

Epatite A e B, difterite, tetano, pertosse, polio i.m., haemophilus B, meningococco, tifo

• Esami virologici: sierologia per HBV e HCV, VZV, EBV

RACCOMANDATI

• Vaccinazioni: varicella (se anamnesi negativa e sierologia per VZV

Influenza, pneumococco, papillomavirus (HPV)

ricerca di infezioni fungine (orali, vaginali, intertrigo), eventuale esame ginecologico (Pap test)

negativa) e MPR almeno 1 mese prima di iniziare la terapia

Key Points • I pazienti con MICI in trattamento con farmaci IMM sono esposti ad un più elevato rischio infettivo di tipo batterico, virale e fungino, soprattutto se in terapia combinata con biologici e IMM tradizionali. • Un accurato screening preterapia ed un appropriato monitoraggio delle complicanze infettivologiche durante il follow-up sono fondamentali per un corretto management clinico di questi pazienti. • Lo screening per la TBC (anamnesi accurata, intradermoreazione di Mantoux e/o Quantiferon, Rx torace) è necessario prima di intraprendere la terapia con anti-TNF. • I bambini con MICI in terapia con IMM dovrebbero seguire il normale calendario vaccinale, ad eccezione dei vaccini vivi attenuati (MPR, varicella, etc), controindicati in corso di IMM. Tali vaccinazioni andrebbero eseguite almeno 1 mese mesi prima di iniziare la terapia. • Nel paziente con MICI in terapia IMM è raccomandata la vaccinazione anti-influenzale.

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Le Tabelle 1 e 2 riassumono alcune indicazioni per un management sicuro della terapia IMM e/o biologica nei pazienti con IBD e le vaccinazioni consentite, controindicate e raccomandate in corso di tali trattamenti. Corresponding Authors Antonio Cascio U.O.C. Malattie Infettive A.O.U. Policlinico “G. Martino” Via Consolare Valeria, 1 98125 Messina Tel. + 39 090 2213680 Fax + 39 090 692610 E-mail: acascio@unime.it

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c tri y a i ed olog y P g r n s i ente colo a di w Ne stro rma a cur PACI NICA Ga Pha MO

Ruolo degli antibiotici nelle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali Monica Paci e Paolo Lionetti Dipartimento Neurofarba, Università degli Studi di Firenze - S.O.D. Gastroenterologia Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze

There is clinical and experiental evidence of gut microbiota involvement in the pathogenesis of IBD. So treatments with antibacterial drugs might prove to be beneficial. Based on recent study, in mild forms of pediatric CD azithromycin and rifaximin can be considered to induce remission whereas antibiotics are not recommended for maintenance of remission. In UC there is insufficient evidence to recommend antibiotic therapy.

Key Words Inflammatory bowel disease, antibiotics, metronidazole, ciprofloxacin, azithromicina, rifaximina

Introduzione La Malattia di Crohn (MC) e la Colite ulcerosa (CU) rappresentano le due principali malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI). Nella loro eziologia sono chiamati in causa fattori ambientali, genetici ed immunologici e sempre maggiore attenzione viene rivolta al ruolo del microbiota intestinale nella genesi della flogosi intestinale. I batteri intestinali potrebbero svolgere un ruolo importante nell’eziologia delle MICI e per tale motivo l’uso di antibiotici che modifichino il pattern microbico della flora batterica intestinale potrebbe essere una valida opzione terapeutica. Antibiotici e Malattia di Crohn Induzione della remissione Negli anni passati, il ruolo della terapia antibiotica nella MC luminale è stato studiato in numerosi trial clinici condotti su adulti con MC attiva, con risultati diversi. Il ruolo di molecole come il metronidazolo o la ciprofloxacina è risultato per lo più analogo a quello del 5-ASA. Una recente review ha dimostrato un ruolo superiore degli antibiotici rispetto al placebo ma i risultati sono stati eterogenei e sono stati utilizzati numerosi antibiotici (terapia anti-tubercolare, fluorochinolonici, 5-nitroimidazolici, rifaximina) soli o in combinazione (1). Sfortunatamente non ci sono però studi randomizzati pediatrici che possano confermare o meno l’efficacia della terapia antibiotica nella MC in questa fascia di età. L’uso del metronidazolo per lungo periodo (6 mesi) in pazienti pediatrici era stato associato ad un miglioramento dei sintomi (2). Un’analisi retrospettiva più recente ha valutato 32 pazienti pediatrici con MC attiva (PCDAI ≥ 10) trattati con azitromicina e metronidazolo. La scelta dell’azitromicina è dovuta al fatto che induce apoptosi (tramite una down regulation di Bcl-xl) ed è efficace contro i batteri intracellulari. Inoltre l’azitromicina, come la rifaximina, raggiunge un’elevata concentrazione intraluminale: metà della dose assunta per via orale non viene assorbita. L’azitromicina (7.5-10 mg/kg/die) è stata somministrata per 5 giorni/settimana per 4 settimane e per 3 giorni/settimana nelle successive 4 settimane. Dopo 8 settimane di trattamento, 21/32 pazienti (66%) erano in remissione (PCDAI<10). La perdita di risposta è stata associata a malattia inizialmente più severa (PCDAI e PCR più elevati) o estesa ed alla presenza di patologie associate (3). Nel 2009 è stato effettuato uno studio su 23 pazienti pediatrici sul ruolo della rifaximina. La rifaximina agisce bloccando la RNA-polimerasi batterica ed aggiungendo un anello pyrido-imidazolico che rende il farmaco virtualmente non assorbibile (97%) e quindi con un ottimo profilo di sicurezza, paragonabile al placebo. Dopo 4 settimane di trattamento il 60% dei pazienti non presentava più diarrea, il 71% non dolore addominale e il 67% non più ematochezia (4).

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News in Pediatric Gastroenterology Pharmacology

Terapia di mantenimento Uno studio prospettico australiano ha valutato l’efficacia della terapia antitubercolare nel mantenere la remissione di malattia partendo dal presupposto che il Mycobacterium avium sottospecie paratubercolosis è stato più volte chiamato in causa nell’eziologia della MC (5). Lo studio ha randomizzato 213 pazienti adulti alla somministrazione per due anni di claritromicina 750 mg/die, rifabutina 450 mg/die, clofazimina 50 mg/die o placebo in associazione a ciclo di 16 settimane di prednisolone a scalare. L’endpoint primario è stato la valutazione della proporzione di pazienti con almeno una riacutizzazione a 12, 24 e 36 mesi. Alla sedicesima settimana erano in remissione un numero significativamente maggiore (66%) di pazienti trattati con antibioticoterapia rispetto a placebo (50%, P=0.02). Tra i 122 pazienti in remissione alla sedicesima settimana ed entrati quindi nella fase di mantenimento, il 39% di quelli che assumevano antibiotici hanno avuto almeno una riacutizzazione tra la 16a la 52a settimana rispetto al 56% del gruppo in placebo (P=0.054). Alla 104a settimana il tasso di riacutizzazione era del 26% e 43% rispettivamente (P=0.14) e negli anni successivi del 59% e del 50% (P=0.54). Sebbene alcune meta-analisi mostrino un’efficacia nel mantenimento della remissione della MC con trattamenti a lungo termine a base di nitroimidazolici o clofazimina, il rischio d’infezione da C. difficile, lo sviluppo di resistenze e gli effetti collaterali limita il loro utilizzo a lungo termine (6,7). Mancano però studi rilevanti in età pediatrica. Malattia perianale Nel 2009 è stato condotto il primo trial pilota controllato per valutare l’efficacia del metronidazolo e della ciprofloxacina in 25 pazienti adulti con MC perianale attiva. L’endpoint primario era la remissione (chiusura di tutte le fistole) a 10 settimane. I pazienti in terapia con ciprofloxacina hanno raggiunto la remissione più frequentemente ma la differenza non è apparsa statisticamente significativa (8). Una meta-analisi di 3 studi (123 pazienti) con malattia fistolizzante perianale rileva un effetto statisticamente significativo dell’uso della ciprofloxacina o del metronidazolo nel ridurre il drenaggio dalla fistola (1). Nella malattia perianale quindi la terapia con metronidazolo/ciprofloxacina ha una buona efficacia a breve termine e può essere un ponte prima dell’inizio della terapia immunosoppressiva. Ascessi addominali La gestione degli ascessi addominali nella MC con terapia antibiotica sembra essere una buona opzione terapeutica per gli ascessi di piccole dimensioni, specialmente quelli non associati a fistole e in pazienti naïve alla terapia immunomodulatrice. Nei restanti casi l’intervento chirurgico (ed in casi selezionati il drenaggio percutaneo) offre migliori risultati. Bermejo et al (9) hanno analizzato 128 pazienti con ascessi addominali. Il successo terapeutico è stato definito come la risoluzione dell’ascesso e la non recidiva entro un anno di follow-up. La chirurgia ha dimostrato avere la maggiore efficacia (91% di successo) rispetto alla sola terapia antibiotica (63%) o al drenaggio percutaneo (30%). Il fallimento della sola terapia antibiotica come trattamento iniziale è stato associato a terapia immunomodulatrice in atto alla diagnosi, presenza di fistola e dimensioni dell’ascesso.

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Ruolo degli antibiotici nelle MICI

Antibiotici e Rettocolite ulcerosa Le recenti linee guida sulla gestione della CU pediatrica (10) prendono in considerazione, tra le possibilità terapeutiche per l’induzione e il mantenimento della remissione di malattia, anche l’uso di antibiotici. Vari studi su adulti ne suggeriscono un ruolo benefico: sembra che la tobramicina, la rifaximina e la combinazione di amoxicillina, metronidazolo e tetracicline per via orale possano avere un ruolo nell’indurre la remissione in pazienti ambulatoriali. La ciprofloxacina somministrata per lungo periodo (6 mesi) sembra efficace nel mantenere la remissione di malattia in adulti con CU moderata-severa, mentre non si è dimostrata efficace nell’indurre la remissione nello stesso gruppo di pazienti. Una recente rewiew sistematica ha suggerito l’efficacia della terapia antibiotica nell’indurre la remissione in adulti con CU, tuttavia sembra inficiata da bias di selezione dei lavori esaminati (selezionati preferibilmente quei lavori con risultati favorevoli alla terapia antibiotica) e dal fatto che vengono usati numerosi antibiotici. Uno studio retrospettivo su 11 pazienti pediatrici ha rilevato un aumento del tasso di remissione usando la rifaximina. Mancano però studi controllati in età pediatrica e non ci sono pertanto sufficienti evidenze per raccomandare un utilizzo routinario di tali molecole in questa fascia di età. Pouchite La pouchite, definita come l’infiammazione del reservoir ileale, è la complicanza più frequente dell’intervento di colectomia con ileo-pouch-anale anastomosi (IPAA). Nella popolazione pediatrica ha una prevalenza che varia dal 30 al 75%, che aumenta (>75%) in caso di pazienti di età <10 anni. È una flogosi di origine idiopatica ed i fattori che sembrano essere associati al suo sviluppo negli adulti sono una CU estesa, presenza di backwash ileitis, presenza di manifestazioni extraintestinali, in particolare colangite sclerosante, lo stato di non fumatori, positività per pANCA (non confermato in età pediatrica) e l’uso di FANS. La terapia di prima linea è la terapia antibiotica. Il metronidazolo, sebbene dia una rapida risposta clinica, sembra essere meno efficace della ciprofloxacina. La durata del trattamento deve essere di almeno 14 giorni ed in caso di pouchite cronica è indicata l’associazione dei due antibiotici. Nel caso di pouchite refrattaria è infine indicato l’uso di immunosoppressori o Infliximab (10). Conclusioni L’uso degli antibiotici nella terapia di induzione e mantenimento delle MICI deve essere differenziato in base al tipo di malattia che abbiamo davanti. Se per la malattia di Crohn, infatti, da recenti studi in età pediatrica, sembrano essere efficaci antibiotici come l’azitromicina o la rifaximina, al contrario per la Colite ulcerosa il ruolo della terapia antibiotica in età pediatrica è ancora da valutare. Attualmente quindi non esiste un’indicazione precisa al loro utilizzo: se gli antibiotici possono essere promettenti nella MC in fase acuta, non sembrano raccomandati nel mantenimento a lungo termine, perché inficiati da eventi avversi rilevanti, né nel trattamento della CU ad eccezione della pouchite. Si rendono comunque necessari ulteriori studi in età pediatrica allo scopo di mettere a punto delle indicazioni terapeutiche più precise.

Corresponding Author MONICA PACI S.O.D. Gastroenterologia Azienda Ospedaliero-Universitaria Meyer Viale Pieraccini, 24 - 50139 Firenze Tel. + 39 055 5662473 E-mail: m.paci@meyer.it

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News in Pediatric Gastroenterology Pharmacology

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Key Points • Il microbiota intestinale sembra avere un ruolo nell’eziologia delle MICI pertanto trattamenti che ne modulino l’espressione potrebbero rappresentare una valida opzione terapeutica. • L’azitromicina e la rifaximina sembrano essere antibiotici promettenti nell’induzione della remissione di forme lievi di MC pediatrica. • L’uso di antibiotici o di agenti antitubercolari non è raccomandato per il mantenimento della remissione nella MC. • Non vi sono sufficienti evidenze per raccomandare l’uso di antibiotici per indurre o mantenere la remissione di malattia nella CU pediatrica. • L’uso di metronidazolo/ciprofloxacina e antibiotici mirati è raccomandabile nella MC se sono presenti ascessi, complicanze settiche o malattia perianale e nella pouchite.

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La termoablazione nel Barrett: un caso di adenocarcinoma insorto nel follow-up Giorgio battaglia, Alessandro Antonello, Carlo Castoro Endoscopia Digestiva ad alta tecnologia, Istituto Oncologico Veneto, I.R.C.C.S di Padova

RFA is a novel therapeutic strategy in which heat is used to treat Barrett esophagus. It has a high success ratio and a low risk of complications. We report a case of a patient treated with RFA who developed esophageal adenocarcinoma after the procedure. The neoplasm developed from residual (or “buried”) metaplastic glands.

Descrizione del caso Viene qui riportato il caso di un paziente maschio di 56 anni già trattato con mucosectomia nel luglio 2006 per il riscontro di una displasia di alto grado (HGD) su esofago di Barrett C4M5 [Figura 1]. Sottoposto al follow-up previsto per questo tipo di intervento, nel luglio 2010 una delle biopsie eseguite riporta una nuova HGD senza che sia rilevabile anche con strumenti ad alta definizione una lesione visibile. Figura 1 Mucosectomia su laccio

Key Words Barrett’s esophagus, radiofrequency ablation, esophageal adenocarcinoma, buried glands

Figura 2 Ablazione con Halo 360°: ben evidente la mucosa ablata circonferenzialmente

SVILUPPO DEL CASO In considerazione dell’impossibilità ad identificare con precisione la sede della displasia e la possibilità di una distribuzione multifocale della lesione, nell’ottobre 2010 abbiamo preferito sottoporre il paziente ad ablazione con RFA con sonda Halo 360 [Figura 2]. L’ablazione è stata completa, senza complicanze ed il paziente è stato dimesso in giornata come da protocollo con PPI 40 mg x 2 e antiacidi x 3 per almeno 6 mesi. I primi due controlli endoscopici eseguiti 3 e 6 mesi dopo la procedura hanno evidenziato macroscopicamente una completa riepitelizzazione dell’area trattata e microscopicamente l’assenza di metaplasia residua [Figura 3]. Il terzo controllo, eseguito a 12 mesi dalla procedura, ha però evidenziato la presenza sotto la mucosa riepitelizzata di alcuni focolai di ghiandole completamente distorte, in alcuni casi irriconoscibili, con nuclei atipici [Figura 4].

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Endoscopy Learning Library Figura 3 Macroscopicamente si evidenzia una mucosa normale anche in visione NBI (b) e ZOOM (c). Biopsie sec. protocollo di Levine (4 ogni cm)

Conclusioni

Decisione terapeutica In considerazione della fusione degli strati parietali conseguenti alla pregresse EMR ed RFA e della non visibilità delle lesioni neoplastiche una nuova mucosectomia non era proponibile. Anche un nuovo trattamento con RFA non era consigliabile data la profondità dei foci neoplastici. Si è pertanto deciso, previo consulto multidisciplinare con i colleghi oncologi e chirurghi e consenso da parte del paziente, di procedere con intervento chirurgico demolitivo di esofagectomia trans iatale subtotale ed esofago gastroplastica. Sul pezzo asportato non è stata riscontrata alcun tipo di displasia, né linfonodi periviscerali. Ad un anno dalla procedura il paziente è in vita ed in buona salute.

Figura 4 Istologia con evidenti foci neoplastici

L’ablazione con radiofrequenza è una tecnica efficace e con un basso tasso di complicanze per il trattamento dell’esofago di Barrett displastico con remissione completa del Barrett del 92% a 5 anni. Sono stati tuttavia pubblicati di recente in letteratura alcuni casi di adenocarcinoma sviluppatosi a partire da “buried glands”. è pertanto necessario programmare un adeguato follow up, con mappaggio bioptico adeguato al grado di displasia pre-trattamento ( 0-3-6-12-18-24 m. in caso di HGD), al fine di diagnosticare precocemente i seppur molto rari casi di adenocarcinoma post-RFA. La successiva procedura chirurgica di esofagectomia proposta al paziente anche se sul pezzo operatorio non c’è stata la conferma istologica della neoplasia, ha trovato giustificazione nell’impossibilità di garantire una bonifica completa e sicura dei foci neoplastici confermati da un secondo patologo esperto. In assenza di comorbidità, con queste indicazioni l’intervento, seppur altamente demolitivo, presenta nei centri chirurgici ad alto volume una incidenza di bassa morbilità ed una mortalità postoperatoria prossima allo zero.

BIBLIOGRAFIa 1. Estores D, Velanovich V. Barrett esophagus: epidemiology, pathogenesis, diagnosis and management. Curr Probl Surg 2013; 50(5) 192-226. 2. Fleisher DE, Sharma VK. Endoscopic Ablation of Barrett’s Esophagus Using the Halo® System. Dig Dis 2009; 26(4): 280-284.

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Key Points

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zione terapeutica per l’esofago di • L’ablazione con radiofrequenza è un’op tto con l’impiego di calore. La sucdistru è co plasti meta Barrett con cui l’epitelio e del normale epitelio squamoso ituzion cessiva riepitelizzazione porta alla ricost a invasività, elevata efficacia minim da • è un’opzione terapeutica caratterizzata ed alta sicurezza. di adenocarcinoma post-RFA sviluppatisi • Sono stati descritti in letteratura rari casi i pazienti con lesioni HGD o Ak devono cui a partire da ghiandole residue per aggio bioptico. essere sottoposti a follow-up e corretto mapp Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):35-36

Corresponding Author Giorgio Battaglia Endoscopia Digestiva ad Alta Tecnologia Istituto Oncologico Veneto I.R.C.C.S. Via Gattamelata, 64 - 35128 Padova Tel. + 39 049.8213182 Fax. + 39 049.8211707 E-mail: giorgio.battaglia@unipd.it


Soluzione del caso clinico di pagina 17 t or

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Un colon-osseo: una diagnosi monumentale! Lucia De Martino, Massimo Martinelli, Annalisa Alessandrella, Maria D’Armiento, Annamaria Staiano, Erasmo Miele Centro di Riferimento Regionale per Malattie Infiammatorie Croniche Intetinali dell’Età Evolutiva Dipartimento di Scienze Biomorfologiche e funzionali, Sezione di Patologia, Università di Napoli “Federico II”

SVILUPPO DEL CASO CLINICO All’ età di circa 11 anni per l’insorgenza di un nuovo episodio di rettorragia, veniva sottoposta ad un ulteriore esame endoscopico risultato negativo. L’esame istologico confermava la metaplasia ossea. Per il ripresentarsi del sanguinamento rettale, all‘età di 12 anni, veniva eseguita ileo-colonoscopia in cui si riscontrava polipo peduncolato a livello del sigma [Figura 2]. La paziente veniva quindi sottoposta a polipectomia endoscopica con ansa diatermica con asportazione della formazione polipoide delle dimensioni di cm 2.5x2 [Figura 3]. L’esame istologico del polipo, compatibile con un polipo giovanile, mostrava ghiandole mucose secernenti mucina matura, ben differenziate e dilatate cisticamente con vasi sanguigni congestionati e infiltrato infiammatorio misto nella lamina propria [Figura 4].

Figura 3 Asportazione del polipo peduncolato (dimensioni cm 2.5x2) per via endoscopica con ansa diatermia

Figura 2 Polipo peduncolato a livello del sigma all’ esame endoscopico

Figura 4 Esame istologico di un polipo giovanile

PUNTI CRITICI DELLA DIAGNOSTICA DIFFERENZIALE All’ingresso la paziente mostrava un quadro clinico suggestivo di malattia infiammatoria cronica intestinale per la concomitante presenza di rettorragia, aftosi ricorrente e patologia anale. Tuttavia le indagini di laboratorio e l’esame endoscopico non confermavano tale ipotesi.

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Case Report

Il riscontro di metaplasia ossea all’esame istologico apriva lo scenario di una possibile neoformazione intestinale non individuata all’ esame endoscopico. La metaplasia ossea è, infatti, una condizione rara, tuttavia descritta nel contesto di tumori intestinali benigni e maligni (1,2). Dai dati della letteratura emerge che, nonostante la colonscopia sia accettata come “gold standard” diagnostico per i tumori del colon retto, una percentuale significativa di lesioni possono non essere diagnosticate durante l’esame (“miss-rate”). Il “miss-rate” per i polipi intestinali è di circa il 25%. Il rischio di non diagnosticare un polipo è legato a fattori legati al paziente (presenza di più di 2 polipi) e fattori legati al polipo (localizzazione al colon sinistro) (3). I polipi giovanili sono lesioni amartomatose che possono sporadicamente associarsi a metaplasia ossea che potrebbe essere il risultato della capacità dei fibroblasti di differenziare in altri tipi di tessuto mesodermico, soprattutto in osteoblasti (2,4,5).

QUALI TAKE HOME MESSAGE? La metaplasia ossea è una condizione rara, ma descritta nell’ ambito di tumori intestinali. La colonscopia, sebbene rappresenti la procedura di scelta per la valutazione del sanguinamento gastrointestinale basso, è una procedura gravata da un “miss-rate” di circa il 25%. Al momento, non ci sono tempi e indicazioni precisi per ripetere l’esame endoscopico dopo la procedura indice e la scelta va valutata caso per caso. In presenza di un quadro clinico suggestivo di malattia intestinale (es. emorroidi, malformazioni artero-venose, tumori benigni e maligni, ulcera, colite) ed esame endoscopico negativo, è necessario stabilire un adeguato follow-up endoscopico per la migliore gestione del paziente e dei rischi legati al “miss-rate” di lesioni intestinali. In corso di esame endoscopico è inoltre opportuno praticare sempre biopsia intestinale per una più accurata valutazione del caso e l’individuazione di alterazioni microscopiche che possono guidare la diagnosi e talvolta supporla o anticiparla. Corresponding author ERASMO MIELE Dipartimento di Scienze Biomorfologiche e funzionali Sezione di Patologia Università di Napoli “Federico II” Via S. Pansini, 5 - 80131 Napoli Tel. 081 7464565 Fax 081 00000000 E-mail: erasmo.miele@unina.it

Bibliografia 1. Haque S, Eisen RN, West AB. Heterotopic bone formation in the gastrointestinaltract. Arch Pathol Lab Med 1996;120:666-670. 2. Garg M, Kaur J, Bindroo S et al. Metaplastic ossification in a juvenile rectal polyp: a rare histological finding. J Clin Diagn Res 2013;7:908-10. 3. Leufkens MGH, van Oijen FP, Vleggaar PD. Siersema. Factors influencing the miss rate of polyps in a back-to-back colonoscopy study. Endoscopy 2012;44:470-475. 4. Oono Y, Fu K-L, Nakamura H et al. Bone formation in a rectal inflammatory polyp. World J Gastrointest Endosc 2010;2(3):10406. 5. López-Corella E. Osseous metaplasia in benign colorectal polyps. Arch Pathol Lab Med 1994;118:777.

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Key Points

• La metaplasia ossea è una condizione rara descritta nell’ambito di tumori intestinali sia maligni che benigni. I polipi giovanili possono sporadicamente associarsi a metaplasia ossea. • La colonoscopia è considerata “gold standard” diagnostico per i tumori del colon retto, tuttavia una percentuale significativa di lesioni intestinali possono non essere diagnosticate durante l’esame (“miss-rate”). Il “miss-rate” per i polipi intestinali è di circa il 25%. • In presenza di un quadro clinico suggestivo di malattia intestinale e procedura indice negativa, è necessario stabilire un adeguato follow-up endoscopico per la rivalutazione diagnostico-terapeutica del paziente. • In corso di esame endoscopico è opportuno praticare sempre biopsia intestinale.

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SIGENP “Unit” Chi siamo e cosa facciamo SIGENP presenta SIGENP, chi siamo e cosa facciamo. Una "vetrina" dedicata ai Centri presenti sul territorio nazionale è un atto dovuto verso una gastroenterologia pediatrica italiana moderna ed al passo con i tempi. In questo numero, il Dott. Stefano Martelossi ci accompagna in un viaggio virtuale all'interno della sua struttura presentando le varie attività ed i particolari interessi di natura clinico-assitenziale.

Struttura Semplice Gastroenterologia e Nutrizione Clinica Clinica Pediatrica I.R.C.C.S “Burlo Garofolo” di Trieste Dott. Stefano Martelossi

La struttura semplice di Gastroenterologica e Nutrizione Clinica, della Clinica Pediatrica, fornisce assistenza in regime di Day-Hospital e ambulatoriale. Responsabile è il Dott. Stefano Martelossi. L’attività diagnostica è coordinata assieme ai Chirurghi Pediatrici in un Servizio di Diagnostica Gastroenterologica dove, in 2 locali condivisi, appena ristrutturati e ben organizzati, vengono eseguiti esami endoscopici in sedazione profonda (sala endoscopica) e manometria esofagea e rettale, pH-impedenziometria, videocapsula e breath-test al lattosio (sala diagnostica strumentale). L’endoscopia operativa (polipectomie, dilatazioni stenosi esofagee e coliche, posizionamento di PEG, legatura di varici esofagee) viene eseguita in sala operatoria, attigua alla sala endoscopica. La Struttura Semplice è Centro di riferimento Regionale per la diagnosi di celiachia, per le malattie infiammatorie croniche intestinali in età pediatrica e per l’insufficienza epatica e intestinale. Inoltre è Centro di Riferimento Regionale per la nutrizione artificiale (responsabile Dott. Grazia Di Leo), vengono seguiti pazienti con insufficienza intestinale, in nutrizione parenterale totale e enterale domiciliare. Per i bambini con neurodisabilità è organizzato un ambulatorio condiviso con chirurghi, neuropsichiatri, ORL, ortopedici, stomatologici, fisioterapisti e fisiatri per un approccio multidisciplinare. Una consulenza psicologica è attiva per i pazienti con patologia cronica afferenti alla Struttura Semplice. I campi di maggiore eccellenza assistenziale sono nel trattamento della malattie infiammatorie croniche intestinali, nel campo della diagnostica e dell’approccio terapeutico anche con utilizzo di Stefano martelossi

farmaci innovativi sperimentali (Talidomide) e utilizzo di farmaci biologici; la celiachia, con screening di popolazione a rischio, utilizzo di metodiche innovative nella diagnostica (ricerca dei depositi di anticorpi anti-transglutaminasi mucosali) e dell’approccio alla Gluten Free Diet “non ossessivo” (vivere felici senza glutine), nel trattamento dell’insufficienza intestinale, principalmente dell’intestino corto e delle enteropatia strutturali con indicazioni alla chirurgia “ricostruttiva” e all’indicazione al trapianto di intestino. La struttura esegue 600 esami endoscopici all’anno, 40 esami con videocapsula e circa 500 altre procedure strumentali. La sedazione profonda eseguita in sala endoscopica è una delle eccellenze della Struttura, permettendo l’esecuzione di esami con bassissima invasività e disconfort, con la presenza dei genitori vicino al bambino in tutte le fasi dell’esame. Nei campo della ricerca la Struttura Semplice collabora con il Dott. Tarciso Not, responsabile del Laboratori integrati di immunopatologia cellulare e molecolare, dell’Ospedale, per quanto riguarda la ricerca sulla patogenesi della celiachia, sui rapporti tra celiachia e autoimmunità e sulla diagnosi precoce con metodiche su biopsia intestinale (depositi di anti-tTG mucosali), con il Dott. Alberto Tommasini, immunologo pediatra responsabile delle immunodeficienze, sulla patogenesi del Morbo di Crohn e sui rapporti tra malattie infiammatorie croniche intestinali e immunodeficit e con il gruppo della Farmacologia dell’Università di Trieste (Prof. Giuliana De Corti e Dott. Gabriele Stocco) sulla farmacogenetica e cinetica dei farmaci, principalmente steroidi, Azatioprina e anti-TNF. DIAGNOSTICA STRUMENTALE Esofagogastroduodenoscopia

Manometria anorettale e esofagea

Colonscopia

Radiologia tradizionale

Videocapsula endoscopica

Ultrasonografia standard e dinamica (SICUS)

pH-impedenziometria esofagea

Risonanza magnetica del tratto intestinale (con contrasto orale e gadolinio)

Biopsia rettale per suzione

Terapia biologica

Breath-test (lattosio, glucosio)

Scintigrafia intestinale

pubblicazioni • Stocco G, Cuzzoni E, De Iudicibus S, Franca R, Favretto D, disease: physicians’versus patients’perspectives. J Pediatr Malusà N, Londero M, Cont G, Bartoli F, Martelossi S, Gastroenterol Nutr. 2013 Jul;57(1):39-42. Ventura A, Decorti G. Deletion of Glutathione-S- • Crocco S, Martelossi S, Giurici N, Villanacci V, Ventura A. Transferase M1 Reduces Azathioprine Metabolite Upper gastrointestinal involvement in paediatric onset Concentrations in Young Patients With Inflammatory Crohn's disease: prevalence and clinical implications. J Bowel Disease. J Clin Gastroenterol. 2013 Sep 18. Crohns Colitis. 2012 Feb;6(1):51-5. • Zanchi C, Ventura A, Martelossi S, Di Leo G, Di Toro N, Not • Not T, Ziberna F, Vatta S, Quaglia S, Martelossi S, Villanacci T. Rapid anti-transglutaminase assay and patient V, Marzari R, Florian F, Vecchiet M, Sulic AM, Ferrara F, interview for monitoring dietary compliance in celiac Bradbury A, Sblattero D,Ventura A. Cryptic genetic gluten disease. Scand J Gastroenterol. 2013 Jun;48(6):764-6. intolerance revealed by intestinal antitransglutaminase • Cervesi C, Battistutta S, Martelossi S, Ronfani L, Ventura A. antibodies and response to gluten-free diet. Gut. 2011 Health priorities in adolescents with inflammatory bowel Nov;60(11):1487-93. Giorn Gastr Epatol Nutr Ped 2013; Volume V(6):39

RECAPITI TELEFONICI Segreteria Tel. 040 3785397 Fax 040 3785452 Dott. Stefano Martelossi Tel. 040 3785380 E-mail: stefano.martelossi@burlo. trieste.it Dott.ssa Grazia Di Leo Tel. e fax: 040 3785532 E-mail: grazia.dileo@burlo.trieste.it

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Alberto Mantovani1, Rosanna Moretto2, Francesca Arezzo3, Maria Stella3, Ruggiero Francavilla3 1Istituto Superiore di Sanità di Roma 2Pediatra di famiglia ASL di Milano 3Clinica Pediatrica - Università degli Studi di Bari

Pesticides are a collective term for chemicals intended to kill unwanted insects, plants, molds, and rodents. Children are exposed to pesticides daily and have unique susceptibilities to their potential toxicity: understanding health implications from chronic exposure is an emerging issue. Experimental and epidemiological evidence show associations between early life exposure to pesticides and adverse health effects such as infertility, cancers, decreased cognitive function and behavioral problems. Recognizing and reducing such health risks requires attention to current inadequacies in medical training, public health monitoring, and regulatory management of pesticides. Policies should incorporate child health considerations: integrated pest management, accurate labeling of pesticides and responsible “from farm to fork” practices will enhance a safe and sustainable use.

Key Words Pesticides, children, endocrine disrupters, cognitive function, behavioral problems

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Pappa e pesticidi

I bambini non sono piccoli adulti I bambini, durante l’intera fase dello sviluppo dall’embrione, al feto, al neonato, fino al completamento dell’adolescenza, sono spesso esposti a rischi ambientali maggiori rispetto agli adulti per diversi motivi. Abbiamo in primo luogo una maggiore vulnerabilità generale: il maggiore consumo di alimenti ed acqua in rapporto alla massa e la maggiore ventilazione, in rapporto alla superficie corporea, fanno sì che il bambino abbia una maggiore possibilità di assumere contaminanti rispetto ad un adulto esposto agli stessi livelli negli alimenti e/o nell’ambiente. Fondamentale è anche l’immaturità dei sistemi metabolici: alcuni enzimi fondamentali per la eliminazione di xenobiotici e pesticidi sono completamente assenti nell’embrione e nel feto, appena rappresentati nel neonato e quattro volte inferiori nel bambino sino ai 3 anni rispetto all’adulto (1) Un altro aspetto è la suscettibilità specifica. Durante lo sviluppo pre e postnatale la fisiologia è in continua mutazione e questo offre “finestre di vulnerabilità critiche” che non hanno alcun parallelo nella fisiologia adulta e creano rischi peculiari per l’embrione, il feto ed il bambino. L’embrione è specificamente vulnerabile agli effetti teratogeni; l’intero sviluppo prenatale è particolarmrnte vulnerabile agli effetti a lungo termine sul programming dell’organismo, che possono non avere effetti eclatanti a breve termine, ma influenzano la salute e la predisposizione a patologie a lungo termine: particolarmente importanti per gli effetti sul programming sono le sostanze neurotossiche per gli effetti sullo sviluppo neurocomportamentale (pesticidi organofosforici, carbammati, piretroidim) e le sostanze con attività interferente endocrina (2, 3). I pesticidi Dalla scoperta del DDT nel 1939, numerosi pesticidi (organoclorati, organofosfati, carbammati), sono stati sviluppati e ampiamente utilizzati in tutto il mondo. Nei paesi industrializzati, dalla Rivoluzione Verde del 1960 è aumentata in modo significativo la produttività agricola, aumentando la superficie coltivata, la meccanizzazione, l’impianto di colture con rendimenti più elevati e il controllo dei parassiti. Questa lotta richiede l’uso massiccio di pesticidi, che sono sostanze chimiche pericolose, progettate per “nuocere” (uccidere o limitare la crescita) a insetti, funghi ed erbacce che minano l’agricoltura intensiva. I principali effetti dei pesticidi da un lato rappresentano un grande vantaggio per la disponibilità di alimenti per l’uomo ed anche gli animali da allevamento. Nello stesso tempo la tossicità dei principali pesticidi non è del tutto specifica per gli organismi-bersaglio: sostanze come gli organofosforici o i piretroidi colpiscono il sistema nervoso degli insetti nocivi, ma anche dei vertebrati, mammiferi ed essere umano compresi. Un aspetto importante è che i gruppi di pesticidi più noti e studiati, come gli organofosforici ed i carbamati, vanno inesorabilmente incontro a limitazioni d’uso e divieti grazie all’accumulo di dati scientifici sulla loro tossicità; questi gruppi di pesticidi vengono gradualmente sostituiti con altri, identificati come “meno tossici”. Tuttavia, sui pesticii “nuovi” la ricerca indipendente è spesso molto carente.

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In Europa ed in Italia, l’avvelenamento acuto è raro. Per contro, gli esiti delle esposizioni a bassi livelli di pesticidi sulla salute del bambino sono fonte di crescente preoccupazione. Non sorprende allora che numerosi studi suggeriscono un legame tra l’esposizione a pesticidi e rischi per la salute umana, come alcuni tipi di cancro (es. prostata, leucemie), il rischio genotossico, il rischio di patologie neurologiche a lungo termine (es. il morbo di Parkinson), fino ai possibili effetti negativi sull’apparato riproduttivo, dall’infertilità maschile all’abortività precoce. Un importante punto di forza di questi studi è la plausibilità biologica: i risultati sono infatti generalmente in accordo con i dati forniti dalla ricerca sperimentale. scenari principali di esposizione umana ai pesticidi Si possono evidenziare tre scenari principali: • l’esposizione lavorativa, tipicamente per via inalatoria e cutanea: può indurre un’esposizione transgenerazionale, nel caso di lavoratrici donne, o un’esposizione dei bambini quando vestiti od oggetti contaminati vengono introdotti nell’ambiente domestico • l’esposizione residenziale (aria, acqua, suolo) tipica delle comunità che vivono in zone di agricoltura intensiva • l’esposizione diretta a residui negli alimenti trattati (frutta e ortaggi), cui si può aggiungere l’esposizione alimentae indiretta per la presenza di residui nei foraggi.

L’esposizione alimentare da ingestione di alimenti contaminati è considerata la principale via di esposizione per la popolazione generale per la maggior parte dei pesticidi. Il cibo può essere contaminato da pesticidi utilizzati durante la produzione agricola, ma anche durante il trasporto o la conservazione: questi due aspetti sono particolarmente rilevanti per il consumo di alimenti vegetali “fuori stagione” e/o “a filiera lunga”, cioé importati da aree distanti. Con l’eccezione dell’uso domestico, la maggior parte delle esposizione ambientali esulano dal ragionevole controllo dell’individuo, mentre la dieta rappresenta un fattore modificabile che può essere, almeno in parte, sotto il controllo individuale (4). Effetti dei pesticidi sullo sviluppo neurologico e cognitivo Di particolare interesse è l’aumento del rischio associato all’esposizione ai pesticidi durante i periodi critici di sviluppo, come il pre-concepimento, il periodo prenatale e prima infanzia. Diversi studi hanno infatti dimostrato che l’esposizione a pesticidi rappresenta un fattore di rischio per i deficit dello sviluppo neurologico soprattutto per le esposizioni prenatali (5). Pur con incertezze e lacune, la coerenza dei risultati degli studi rafforza l’ipotesi di un effetto dei pesticidi sullo sviluppo neurocomportamentale. I risultati più significativi derivano da dieci studi longitudinali di coorte in cui è stata valutata l’esposizione prenatale attraverso la misurazione dei metaboliti urinari dei pesticidi nelle madri durante la gravidanza. Concentrazioni urinarie più elevate di metaboliti dei pesticidi organofosforici sono stati associati ad un minor sviluppo intel-

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Health and Food Science

lettuale in bambini di 7 anni (riduzioni di quoziente intellettivo e disturbi dello sviluppo cognitivo) ad un aumento della prevalenza della sindrome da iperattività (nei bambini di età compresa tra 8 e 15 anni) ed autismo (6). Effetti dei pesticidi come interferenti endocrini (IE). Con il termine di IE ci si riferisce ad un insieme di sostanze in grado di alterare in vivo l’equilibrio del sistema endocrino attraverso vari meccanismi: agonismo o antagonismo verso recettori di vari ormoni (steroidei, tiroidei) o alterato metabolismo (sintesi, secrezione, trasporto, legame, ed eliminazione) ormonale nell’organismo. Gli IE possono provocare gravi danni (ad es. problemi cognitivi, comportamentali e di sviluppo sessuale) in modo insidioso in quanto sono spesso sostanze prive di tossicità acuta. Molti IE sono pesticidi, con strutture chimiche ed effetti diversi, comprendenti insetticidi, erbicidi e fungicidi Alcuni, ad es. il DT ed i suoi derivati, sono stati ritirati dal commercio molti anni fa, ma si trovano ancora nell’ambiente e negli alimenti. Un aspetto interessante è che la tiroide, la cui funzione è cruciale per lo sviluppo del feto e del bambino, è un bersaglio importante dei pesticidi IE. Per esempio, la produzione di ormone tiroideo può essere inibita da almeno una decina di pesticidi differenti (amitrolo, cialotrina, fipronil, ioxinil, maneb, mancozeb, pentachloronitro-benzene, prodiamine, pirimetanil, tiazopir, ziram, zineb). Gran parte del danno causato dagli IE si verifica durante lo sviluppo precoce embriofetale, tuttavia gli effetti possono non essere evidenti fino all’età adulta. Studi sperimentali effettuati dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) su roditori esposti durante la gravidanza all’organofosfato clorpirifos ed all’etilene tiourea (metabolita dei fungicidi mancozeb e maneb) hanno mostrato alterazioni endocrine e riproduttive persistenti ed a lungo termine nella prole apparentemente sana fino ed oltre la maturità. Gli studi dell’ISS confermavano che per gli IE una dose “senza effetto” per l’organismo adulto non è certo sicura per l’organismo in via di sviluppo (3,7). Diete organiche come intervento Nelle pratiche di agricoltura biologica non si utilizzano pesticidi sintetici e dati provenienti da indagini di residui alimentari confermano che i prodotti biologici hanno ridotti livelli di pesticidi. Pertanto il consumo di alimenti biologici dovrebbe determinare una bassa esposizione ai pesticidi; questo è vero in particolare per quanto riguarda il problema (considerato con estrema attenzione dall’Autorità Europea della Sicurezza Alimentare) dell’assunzione combinata di residui multipli, ancorché ciascuno in “regola” con le attuali norme (8). Una recente meta-analisi ha infatti dimostrato che l’assunzione di un regime biologico riduce del 30% l’esposizione a pesticidi senza tuttavia un guadagno da un punto di vista nutrizionale (9). Nel 2003 uno studio americano di Curl e collaboratori riportò che i bambini che avevano consumato frutta, verdura e succhi di frutta di origine biologica avevano una concentrazione urinaria di dimetilalchilofosfato, metabolta degli organofosforici, di circa nove volte inferiore a quella dei bambini che consumano cibi convenzionali. Questo corrispondeva ad una riduzione dei livelli di esposizione dei bambini al di sotto dei valori di riferimento proposti dalle linee guida della Environmental Protection Agency (USEPA) degli Stati Uniti, spostando il livello di esposizione dall’intervallo di riferimento dei rischi da incerti a trascurabili. Pertanto, il consumo di prodotti biologici sembra fornire un modo relativamente semplice per ridurre l’esposizione dei bambini ai pesticidi. Quanto detto, naturalmente, non esime la produzione biologica dai controlli e valutazioni di sicurezza delle produzioni, che non posso essere garantiti solo dall’adozione di una etichetta “accattivante”: infatti non garantiscono il controllo dei contaminati ambientali e naturali e non vanno considerati come di per sé ‘specifici’ o ‘adatti’ per l’alimentazione dei bambini, “biologico” non è “baby food”.

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Pappa e pesticidi

Ruolo del pediatra e Take home message I pediatri possono svolgere un importante ruolo, come “sentinelle”, nello sviluppo di programmi per valutare i possibili problemi sanitari associati alla esposizione ai pesticidi. Alcuni pratici consigli possono essere di aiuto per ridurre l’esposizione ai pesticidi dei nostri bambini (10): • controllo della dieta del bambino da parte del pediatra che deve informare la famiglia sulle condotte alimentari più sicure e su quali sono i vegetali e la frutta più a rischio di contaminazione; • utilizzare i prodotti destinati all’infanzia che sono conformi alla legge garantendo l’assenza di pesticidi; • variare il tipo di frutta e la sede di acquisto; • preferire frutta e verdura biologica; • lavare bene frutta e verdura prima di consumarla, preferibilmente con acqua acidulata; • acquistare frutta di stagione e prodotta localmente (maggiore è la distanza e maggiore la probabilità di trattamenti chimici); • In nessun caso la “paura” dei pesticidi deve giustificare l’abbandono di una dieta equilibrata e ricca di frutta e verdura da parte del bambino: il pediatra dovrà, invece, incoraggiarne il consumo abituando il gusto del bambino all’aroma ed ai sapori naturali della frutta e della verdura fresca. Corresponding Author

Key Points

• I bambini non sono piccoli adulti e durante l’intera fase dello sviluppo dall’embrione fino al completamento dell’adolescenza, sono esposti a rischi ambientali maggiori rispetto agli adulti. • La tutela della salubrità del cibo di oggi è determinante per la salute delle generazioni future. • L’esposizione alimentare da ingestione di alimenti contaminati è la principale via di esposizione per la popolazione generale per la maggior parte dei pesticidi. I prodotti biologici riducono l’e• sposizione ai pesticidi ma non garantiscono il controllo dei contaminati ambientali e naturali e non vanno considerati come di per sé ‘specifici’ o ‘adatti’ per l’alimentazione dei bambini. Alcuni pratici consigli possono • essere di aiuto per ridurre l’esposizione ai pesticidi dei nostri bambini.

Alberto Mantovani Istituto Superiore di Sanità Viale Regina Elena, 299 - 00161 Roma Tel. + 39 06 49902815 E-mail: alberto.mantovani@iss.it

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6. Bouchard MF, Bellinger DC, Wright RO, Weisskopf MG. Attention-deficit/hyperactivity disorder and urinary metabolites of organophosphate pesticides. Pediatrics 2010;125:e1270-7. 7. Mnif W, Hassine AI, Bouaziz A et al. Effect of endocrine disruptor pesticides: a review. Int J Environ Res Public Health. 2011;8:2265-303. 8. European Food Safety Authority. EFSA expands body of work on cumulative risk assessment. 3/12/2013 http://www.efsa.europa.eu/en/ press/news/131203b.htm. 9. Smith-Spangler C, Brandeau ML, Hunter GE et al. Are organic foods safer or healthier than conventional alternatives?: a systematic review. Ann Intern Med. 2012 4;157:348-66. 10. Council on Environmental Health. Pesticide exposure in children. Pediatrics. 2012;130:e1757-63.

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