la tomba di cicerone
Rientrati al Museo Castromediano di Lecce i polittici veneti
A Formia alla scoperta del Mausoleo del grande oratore di Arpino
Anno XV - n 11 novembre 2020 -
restaurati
anno 153 numero 11 novembre 202 0
gigi proietti
omaggio ad alda merini
il festival del cortometraggio
Nell’anniversario della scomparsa il ricordo della poetessa dei Navigli
Ritorna in una versione online la diciassettesima edizione della rassegna napoletana
primo piano
le novitĂ della casa
IL RAGGIO VERDE EDIZIONI
ilraggioverdesrl.it
EDITORIALE
Giancarlo Montelli, L’Attore e la Maschera, 2020 ©
Proprietà editoriale Il Raggio Verde S.r.l. Direttore responsabile Antonietta Fulvio progetto grafico Pierpaolo Gaballo impaginazione effegraphic
Redazione Antonietta Fulvio, Sara Di Caprio, Mario Cazzato, Nico Maggi, Giusy Petracca, Raffaele Polo
Hanno collaborato a questo numero: Lucia Accoto, Dario Bottaro, Giovanni Bruno, Stefano Cambò, Mario Cazzato, Dario Ferreri, Fausto Forcina, Peppe Guida, Giancarlo Montelli, Giusy Gatti Perlangeli, Sara Foti Sciavaliere, Raffaele Polo, Stefano Quarta, Marco Tedesco Redazione: via del Luppolo, 6 - 73100 Lecce e-mail: info@arteeluoghi.it www.arteeluoghi.it
Iscritto al n 905 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce il 29-09-2005. La redazione non risponde del contenuto degli articoli e delle inserzioni e declina ogni responsabilità per le opinioni dei singoli articolisti e per le inserzioni trasmesse da terzi, essendo responsabili essi stessi del contenuto dei propri articoli e inserzioni. Si riserva inoltre di rifiutare insindacabilmente qualsiasi testo, qualsiasi foto e qualsiasi inserzioni. L’invio di qualsiasi tipo di materiale ne implica l’autorizzazione alla pubblicazione. Foto e scritti anche se pubblicati non si restituiscono. La collaborazione sotto qualsiasi forma è gratuita. I dati personali inviateci saranno utilizzati per esclusivo uso archivio e resteranno riservati come previsto dalla Legge 675/96. I diritti di proprietà artistica e letteraria sono riservati. Non è consentita la riproduzione, anche se parziale, di testi, documenti e fotografie senza autorizzazione.
Questo mese abbiamo voluto rendere omaggio al grande Aldo Fabrizi nato il 1 novembre con uno speciale a lui dedicato e ci siamo ritrovati il 2 novembre, ironia della sorte, a dover dire addio al grande Gigi Proietti, proprio nel giorno del suo ottantesimo compleanno. La notizia ci ha colto impreparati e ci ha disorientato perché persone, artisti come Gigi, non dovrebbero mai andarsene. E in fondo come i grandi restano qui tra noi con l’enorme patrimonio artistico che hanno lasciato. Un baule dell’attore che si è riempito, strada facendo, intrecciando i linguaggi dell’arte: dal teatro, al cinema, alla televisione, alla scrittura. E anche noi, di Arte e Luoghi, a modo nostro, vogliamo rendergli omaggio dedicandogli la copertina di questo numero grazie al segno e alle parole del maestro romano Giancarlo Montelli con il suo prezioso ricordo. E grazie all’intervento del giornalista Raffaele Polo che ha affrescato un ritratto sintetico e incisivo di un Signore del Teatro che resterà sempre nei cuori del suo amato pubblico. La corsa del virus, che fa paura come spiega nella sua analisi l’economista Stefano Quarta, ha costretto ad un nuovo Dpcm e a ulteriori restrizioni che vedono tra l’altro chiusi i luoghi di cultura: musei, cinema, teatri. In un contesto così difficile e desolante, il messaggio dei fratelli Alviti che aprono a Roma una mostra con una formula inedita è il messaggio positivo che non bisogna arrendersi e, nel rispetto delle regole, continuare a progettare e a lavorare, scegliendo formule insolite ed ibride. Come d’altronde ha fatto, ad esempio, il Festival del Cinema Europeo e ha scelto di fare anche il Festival del cortometraggio Accordi@Disaccordi in questi giorni in programma on line. Sui luoghi di culto, dalle catacombe napoletane e siracusane alle tombe reali e al Mausoleo di Cicerone sono dedicati i reportage rispettivamente di Peppe Guida, Dario Bottaro, Sara Foti Sciavaliere e Marco Tedesco. Di Raffaele Polo è il ricordo della poetessa Alda Merini e per l’angolo della poesia i versi dal dolore di Giusy Gatti Perlangeli. Grazie a Stefano Cambò scopriamo luoghi meravigliosi dalle cime di Lavaredo all’Etna mentre per Curiosarte Dario Ferreri ci svela l’immaginario di Bafefit. Focus su Lecce, sul rientro dei polittici veneti e sulla statua del Bortone raccontata da Mario Cazzato. Infine, Giovanni Bruno che ci svela i meccanismi segreti del sogno. Buona lettura! (an.fu.)
SOMMARIO luoghi|eventi| itinerari: girovagando il mausoleo di cicerone 18| giornate d’autunno a catania 32 |le catacombe di siracusa 62 | le catacombe di san gennaro 76 | le tombe reali dei savoia 82| arte: ciao gigi. l’attore e la maschera 4 |volontà di ferro 12 | al museo castromediano i polittici veneti 46 i luoghi della parola: | il grande sogno 36 | curiosar(t)e: le creature di babefit 40 | uno sguardo sui numeri della pandemia 100 | interventi letterari|teatro gigi proietti. il signore del teatro 8 | alda merini 56 | rime dal dolore 94 | salento segreto 136 cinema grazie maestro. aspettando l’ultimo film 6 | premio Zavattini 60 | accordi@disaccordi, il festival 108i luoghi del cinema: i mondi italiani di star Wars 126| libri | luoghi del sapere 96-97 |#ladevotalettrice #dal salentocafè| 98
Numero 11- anno XV - novembre 2020
Illustrazione : Giancarlo Montelli
l’attore e la maschera Giancarlo Montelli
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L’omaggio tra segni e parole all’indimenticabile Maestro Gigi Proietti
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uando a Petrolini gli si chiedeva se discendesse dalla Commedia dell’Arte, lui rispondeva “io discendo dalle scale di casa mia”. E la stessa risposta avrebbe data Gigi Proietti. Normalmente l'attore per recitare deve indossare una maschera, diventare ciò che non è. Grande sforzo fisico e mentale. Per animare una maschera e fargli prendere vita l'attore deve plasmare il proprio corpo e la propria voce rendendoli duttili, malleabili, capaci di compiere la metamorfosi. Nell'antichità questo processo di metamorfosi non era necessario perché gli attori, per diventare personaggi della tragedia o della commedia, indossavano una vera maschera, cioè un finto volto. Bene ci sono degli attori che, come Gigi Proietti, non hanno bisogno di entrare nel personaggio ma hanno il dono di interpretare in modo straordinario se stessi. Pochissimi in verità. Gigi Proietti l'ho visto per la prima volta nel recital "A me gli occhi" nel lontano 1977. Sono rimasto folgorato dalla sua capacità di entrarti subito dentro, di giocare come un prestigiatore con le parole, la musica, l'impressionante mutevolezza del volto e la enorme simpatia che trasmetteva. Già dal 1973 si cercava un nuovo modo di creare un rapporto più ravvicinato tra la cultura e i cittadini. Tra l'altro si pensò a un decentramento teatrale e l'idea di un tendone da circo che si spostasse nelle periferie delle città sembrò
una delle possibili idee da realizzare. Col sostegno e la sceneggiatura dello straordinario Roberto Lerici, sotto un tendone rosso e blu al Flaminio a Roma, biglietti a duemila lire, senza prenotazioni né posti numerati, mentre l'Italia era alle prese con la lotta armata degli anni di piombo, Proietti debutta, per la prima volta anche come regista, in un recital, in cui ripropone una serie di testi di Petrolini, famose canzoni romane, prende in giro i classici come Amleto, fa la parodia ai relatori delle conferenze e ai luoghi comuni, come la famosa telefonata, agli snob e ai coatti. Vestendo non costumi di scena ma una semplice camicia bianca che gli permette di essere uno qualsiasi e servendosi di un semplice baule da cui trae di volta in volta, come dal cilindro del prestigiatore, personaggi e canzoni, abbatte la parete che separa l'attore dallo spettatore. Questa è sempre stata la sua grandezza. Vederlo in qualsiasi contesto è vedere un grande amico e, grande Maschera vivente, non ha mai avuto bisogno del palcoscenico per essere, al solo vederlo, immediatamente in scena. E sempre con un sorriso ironico sulle labbra. Come per dire alla vita: "ma che me stai a cojonà?". Una di quelle persone che quando le perdiamo perdiamo un pezzo di noi stessi. E della sua mancanza, con il passare del tempo, ce ne rendiamo conto tutti. Anche se continuiamo a sentirlo tra noi.
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Gigi Proietti nel suo ultimo film “Io sono Babo Natale”(fonte: https://www.luckyred.it/
graZie maestro! aspettando l’ultimo film... Antonietta Fulvio
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In uscita per dicembre il film “Io sono Babbo Natale” con Gigi Proietti e Marco Giallini diretto da Edoardo Falcone prodotto dalla Lucky Red e Rai Cinema
na mandrakata andarsene nel giorno del suo ottantesimo compleanno... La vita è una bottega che si chiude e così sia, cantava in uno dei tanti stornelli romaneschi ed è una verità amara apprendere che per Gigi Proietti il sipario è calato il 2 novembre 2020. Ed è difficile da accettare una notizia del genere. Così come è complicato riuscire a raccontare la grandezza dell’uomo e dell’artista, che pur non essendo una persona di famiglia, lo era diventato. Al di là delle celebri e inarrivabili performance teatrali, dell’aver formato con il suo Laboratorio di esercitazioni sceniche generazioni di attori, che oggi lo ricordano e piangono la sua scomparsa, Gigi era l’affabulatore e istrionico volto del “Sabato sera dalle nove alle dieci”, di “Fatti e fattacci”, di “Fantastico” e ancora di “Io a modo mio” prima ancora di essere lo chef di “Italian Restaurant” o “il Maresciallo Rocca” o il giornalista investigativo Bruno Palmieri nella fiction “Una pallottola nel cuore”. Per non parlare dei ruoli che lo hanno visto vestire i panni di Filippo Neri in “Preferisco il Paradiso” e quelli del cardinale Romeo Colombo da Priverno in “L'ultimo Papa Re” o di Federico Sinacori ne “Il Signore della truffa” per citare solo alcune produzioni televisive di successo. Geniale e trasversale, è stato un gigante del Teatro come testimonia l’ elenco interminabile delle regie teatrali, la fir-
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ma di opere liriche, la discografia da solista e con il Trio Melody che lo vide partecipare a Sanremo nel 1985 insieme a Peppino Di Capri e Stefano Palatresi. Il brano si intitolava “Ma che ne sai... (...Se non hai fatto il piano-bar)” ed era il racconto tra ironia e leggerezza delle atmosfere suggestive delle serate di piano bar dal punto di vista dei protagonisti capaci di riconoscere gli sguardi e i comportamenti del pubblico. Quel pubblico che lui domava e ammaliava dal palco, dallo schermo... La notizia ci ha colto impreparati e ci ha disorientati perché persone, artisti come Gigi, non dovrebbero mai andarsene. Ma in fondo, come i grandi, resta qui grazie all’enorme patrimonio artistico che ci ha lasciato. Un baule dell’attore che si è riempito, strada facendo, intrecciando i linguaggi dell’arte: dal teatro al cinema, da cabaret alla televisione, alla scrittura. Gigi come Edoardo De Filippo, come Vittorio Gasmann, come Massimo Troisi c’è sempre stato e ci sarà sempre grazie alla sua Arte. E come Massimo si congedò con “Il Postino”, anche Gigi Proietti ci ha lasciato un ultimo dono “Io sono Babbo Natale”, il film diretto da Edoardo Falcone, prodotto da Lucky Red e Rai Cinema con 3 Marys. Interamente girato a Roma, l’uscita nelle sale è prevista per dicembre dal momento che a causa della pandemia,
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i cinema resteranno chiusi fino al 24 novembre e ancora non è dato di sapere se la proiezione potrà avvenire nelle sale o in streaming. Una commedia per tutta la famiglia, sull’amicizia, il valore degli affetti e la generosità. Un’ultima perla come le tante che ha incastonato nella sua lunga carriera artistica. “Io sono Babbo Natale” racconta la storia di Ettore, interpretato da Marco Giallini, un ex galeotto che ha scontato cinque anni di prigione per una rapina commessa con dei complici di cui non ha mai rivelato i nomi. Un uomo con una vita sgangherata, una storia d’amore fallimentare con Laura da cui ha avuto una figlia che non ha mai potuto conoscere e che si ritroverà a rubare in casa di Nicola, interpretato da Gigi Proietti, che gli rivela di essere Babbo Natale. E già lo immaginiamo, non senza provare una stretta al cuore, vestito da Babbo Natale con i suoi capelli color argento e il timbro forte e rassicurante della sua voce capace di dar vita e corpo ai tanti personaggi di drammi e commedie da Shakespeare a Raymund
FitzSimons, da Bertolt Brecht a Molière, a Edmond Ronstand... Raffinato interprete di monologhi anche per il programma “Ulisse” di Alberto Angela, come quello registrato per la puntata dedicata a Cleopatra in cui Gigi pronunciò l’orazione funebre di Marco Antonio per il Giulio Cesare shakespeariano, quando lui recitava andava in scena il Teatro. E dopo averlo ammirato nelle vesti di Mangiafuoco nel Pinocchio di Matteo Garrone non vediamo l’ora di rincontrarlo ancora una volta sul grande schermo con il suo ultimo film. «Come tanti fra noi sono sempre stato un fan appassionato di Gigi Proietti e in più ho avuto la fortuna di conoscerlo in questo ultimo anno e mezzo. - ha raccontato il regista Edoardo Falcone in un’intervista all’Ansa- La cosa che mi ha colpito di più è stata la sua straordinaria umanità oltre che la professionalità incredibile. Era gentile, educato, sempre disponibile… Mi mancherà tantissimo». E mancherà è inevitabile. Come è inevitabile e mai superfluo dirgli Grazie Maestro!
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Gigi Proietti (fonte: sito ufficiale dell’artista www. https://www.gigiproietti.it/
gigi proietti il signore del teatro Raffaele Polo
I LUOGhI DEL MISTERO
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Il ricordo di uno straordinario Uomo di Cultura e di spettacolo, dal teatro, al cinema alla tv una lunga carriera costellata di successi
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e vi capita di passare per Villa Borghese, a Roma, andate a visitare il Globe Theatre, il Teatro Elisabettiano e scoprirete tanti stimoli e tante storie che, magari, non conoscevate. Perchè quel Teatro è quasi unico nel suo genere
(ce n'è un altro, a Londra, ma è un po' diverso) e vuole riproporre, senza peraltro copiarla pedissequamente, come era la struttura teatrale che ospitava i capolavori di Shakespeare, al suo tempo. L'idea è quella di far capire, al meglio, l'impor-
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tanza di questi lavori, rappresentandoli proprio come era ai tempi del Bardo, il pubblico rimaneva in piedi oppure accedeva con delle passerelle agli scomodi palchi. La struttura era rigorosamente in legno e vi erano particolari accorgimenti per la disposizione del palco e delle entrate. E, una ventina di anni fa, chi fu a proporre all'allora sindaco Veltroni questa opera che, magari, oggi gli amministrattori attuali giudicherebbero inutile e priva di importanza? Fu un cultore affezionato e meticoloso del Teatro, fu quel Gigi Proietti che stiamo imparando a conoscere meglio adesso che non c'è più, ci accorgiamo che non è stato solo l'interprete di un mazzo di barzellette offerte con una incredibile verve e mimica facciale, non era solo il Maresciallo Rocca o il mattatore dello spettacolo considerato una pietra miliare nella turbolenta storia del teatro italiano, ovvero 'A me gli occhi, please'. E non era certamente solo il protagonista di 'Febbre da cavallo' film tra i più trasmessi dalle reti nazionali e private di una Tv che continua a riproporre film con attori che vanno via via scomparendo, sorprendendoci quasi perchè li abbiamo avuti affianco per anni, hanno caratterizzato la nostra vita e adesso se ne vanno, non ci accorgiamo che il tempo passa per tutti, anche per loro che, in verità, sullo schermo grande o piccolo sono eternamente giovani e in forma... Proietti, allora, viene riscoperto e osannato adesso per quella sua cultura, per quel suo calcare le scene che, in vita, pochi gli hanno riconosciuto. Preferendo annoverarlo in quella schiera di attori e finedicitori che, avendo avuto la fortuna di nascere a Roma, hanno costituito e continuano a costituire lo 'zoccolo duro' del cinema nostrano. Il teatro, quello serio e importante, da noi viene come ripiego: al primo posto la TV, poi un po' di Cinema e, verso la fine della carriera o quando non ti offrono che particine insignificanti nei cosiddetti 'panettoni', allora si riscopre il teatro e si
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I LUOGhI DEL MISTERO
serata inaugurale del Globe Theatre a Roma, (fonte: https://www.globetheatreroma.com)/
gira l'Italia magari con una commediola da niente, non fosse altro che per farsi un po' di pubblicità... Lui no. Proietti amava e conosceva talmente bene il Teatro più importante, da riuscire a far costruire il gioiello che, adesso, gli verrà sicuramente intitolato. E, a proposito di teatri costruiti ad hoc, l'enorme successo del suo 'A me gli occhi' negli anni Settanta, viene anche per la sua rischiosa scelta di utilizzare un teatro tenda tutto per sé, alla periferia di Roma, dove riesce a fare tutto, ma proprio tutto, novello Fregoli, offrendo uno spaccato completo della realtà italiana, pieno di fatti, maschere, invettive, stornelli, figure caratteristiche e soprattutto poesia, in uno Zibaldone che lo vede assoluto protagonista, eclissando chi, fino ad allora era stato l'unico a tentare questa strada, ma in TV, ovvero il Vittorio Gasmann delle puntate de 'Il mattatore'. Proietti affascina per la sua capacità affabulatoria e per l'incredibile espressività che gli fa interpretare al meglio un po' tutti i ruoli, lo vediamo anche come memorabile Mangiafuoco in un cammeo di 'Pinocchio'. E lui, er Gig-
gi, ci tiene a sottolineare che ha fatto film con Altman, Tavernier e Lumet, ma alla gente non interessa, lui è e rimane il Maresciallo Rocca, altro che Teatro, la TV gli porta il Successo con la S maiuscola, tanta TV che offusca le interpretazioni più riuscite come 'Il Casotto', altro film che ricorre spesso nei palinsesti delle TV nostrane. Proietti, dunque, uomo di fine cultura e grande attore di teatro. Chi l'avrebbe detto, ricordando di lui le sovente sboccate o licenziose storielle o le gag che divertivano tanto un pubblico di bocca buona? Ma lui amava tanto, troppo il suo ruolo di 'attore' per non apprezzare anche questo tipo di predilezione popolare. Un guizzo furbetto nello sguardo, poi, faceva intendere che, ahò, ce semo capiti, vero? E comunque, lontano dai rumori e dai fasti della Metropoli, recatevi a rendergli un doveroso omaggio al 'suo' teatro, nel cuore della sua Roma, tanto amata. E al Cimitero degli inglesi, dove riposa assieme a tanti altri importanti nomi della Cultura mondiale.
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Volontà di ferro n. 16 stampa monotipo su carta, Cristiano Alviti
volontà di ferro arte vs emergenZa sanitaria Antonietta Fulvio
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Reagire e continuare con formule ibride tra il web e la strada l’idea espositiva di Officina Alviti
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In ottemperanza alle nuove misure di contrasto e contenimento dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 previste dal Dpcm 3 novembre 2020 (art 1, lettera r), il Ministero per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo ha comunicato la sospensione, a partire “dal 6 Novembre 2020 fino al 3 Dicembre 2020, di mostre e servizi di apertura al pubblico dei musei, degli archivi, delle biblioteche, delle aree archeologiche e dei complessi monumentali di cui all’articolo 101 del Codice dei beni culturali e del paesaggio”
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8 marzo 2020. 3 novembre 2020. Otto mesi tra due provvedimenti che costringono a prendere misure drastiche per il contenimento della pandemia da Covid 19. La curva dei contagi è ricominciata a salire vertiginosamente costringendo alla didattica a distanza, a chiudere i luoghi di cultura, dalle biblioteche ai musei, dai cinema ai teatro per non parlare delle difficoltà enormi di tutte le attività imprenditoriali e all’indotto che ruota intorno al mondo dello spettacolo e della cultura che
si trova “sospeso”come in un limbo in attesa che la pandemia si arresti e possa far riprendere tutte quelle attività che si basano essenzialmente sulle relazioni umane. Perché il virus ci costringe ad evitare contatti diretti, quei gesti che solo fino ad un anno fa erano scontati e che oggi abbiamo riscoperto essenziali. Oggi che ci manca l’abbraccio ad un figlio, la stretta di mano ad un amico l’incontro a distanza ravvicinata che erano la normalità. Ed è lecito chiedersi se
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sarà mai possibile tornare al “come eravamo”. Siamo agli sgoccioli ormai del 2020, un anno bisestile, palindromo e nefasto per l’intero pianeta piegato e sconvolto dal Coronavirus che ha stravolto la nostra quotidianità. Ma è necessario reagire e se da un lato è fondamentale continuare tutti ad osservare le
disposizioni necessarie e indispensabili mascherina, distanziamento fisico, igiene delle mani - le sole che possano ridurre il contagio, dall’altra bisogna inventarsi forme ibride di comunicazione, di divulgazione e di incontro. Per questo motivo riprenderemo ad incontrarci nelle stanze virtuali di Arte e Luo-
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Cristiano (sx) e Patrizio (dx) Alviti
ghi e a raccontarvi le sperimentazioni che giungono dal mondo dell’arte. Ritorneremo a visitare virtualmente le istituzioni museali che continuano la loro attività sui canali social in attesa che si possa ritornare a svolgere le visite in presenza. Perché ritorneremo ad aprire i nostri luoghi e ad incontrarci ma c’è bisogno in sostanza di una volontà di ferro proprio come il titolo che gli artisti Cristiano e Patrizio Alviti alias Officina Alviti hanno dato alla loro
mostra che dal 23 novembre si svolgerà in contemporanea in 100 luoghi all’aperto della città di Roma. Ma come direte voi? e le misure e il protocollo imposto dalla pandemia? Ebbene i due fratelli hanno trovato una formula originale: trasformare la città di Roma in un’immensa sede espositiva, realizzando una mostra per tutti grazie all’inconsueto utilizzo degli spazi dedicati alla cartellonistica pubblicitaria. Un modo per far entrare l’arte nella
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quotidianità di ognuno sfruttando, in maniera più nobile, quei canali utilizzati solitamente per mero uso commerciale. Cristiano e Patrizio Alviti, artisti riconosciuti e attivi nella Capitale, hanno quest’anno prodotto un ingente corpus di opere tra incisioni monotipo, prove d’autore e lastre. Scaturite nel periodo di isolamento forzato che ognuno di noi ha vissuto e quando è stato il momento di condividere il loro lavoro si sono
ritrovati a fare i conti con le misure imposte dalla pandemia. Hanno così escogitato un sistema per entrare in contatto con più “visitatori” possibili superando ogni possibile ostacolo dovuto all’attuale situazione sanitaria, che al momento frena molti progetti, non solo culturali. I fratelli Alviti hanno quindi riprodotto le loro opere su manifesti pubblicitari stradali (ogni cartellone presenta un’opera diversa con relativa didascalia) e organizzato la loro esposizione intitolata
appunto “Volontà di ferro”, in 100 spazi all’aperto della città. Va da sé che ogni cartellone presenta un’unica delle 100 opere creando un percorso espositivo gigantesco che coinvolge e rende Roma un’estesissima galleria d’arte. La scelta delle location è stata valutata in base alle zone strategiche, alla viabilità (strade di intenso traffico come ad esempio tangenziale zona Salaria-Corso Francia) e al coinvolgimento delle periferie e sarà comunicata con un’apposita mappa della mostra da scaricare dal sito creato ad hoc volontadiferro.it, dove ovviamente compariranno tutte le opere prodotte, approfondimenti e dove si potrà, se interessati, concretizzare un appuntamento in Atelier per poterle visionare dal vivo. Curata da Werner Bortolotti la mostra presenta un modo diverso di fruire e vivere l’arte, non come qualcosa di distaccato ma come componente essenziale della vita quotidiana. «Questo tempo indefinibile non ha fermato le nostre visioni di futuro e anzi ha rievocato in noi la potenza del paesaggio quale protagonista assoluto di emozioni capaci di travolgerci e farci “uscire” in tempi di lockdown. La nostra è una volontà di ferro: un viaggio fisico e astratto ai confini della natura che ci stimola a ricercare nella “scena” costruita i riferimenti per farci trasportare, dalle macchie di colore, alla
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memoria ed al ricordo di quei paesaggi.». Con queste parole i fratelli Alviti spiegano l’idea concettuale della mostra che corrisponde al diario di una quarantena. Volontà di Ferro: volontà dei fratelli Alviti di vivere e creare in una nefasta prospettiva negativa e di morte (economica e sociale), di ferro, dove per ferro non si intende solo il rimando alla lastra scriccata e puntellata che dà forma al segno sul foglio, ma la metafora della determinazione di Cristiano e Patrizio. Il messaggio che intendono far passare è che mentre il mondo si ferma ad osservare dalla finestra loro producono spazi e immagini in cui perdersi. Un paesaggio, che parte dalla natura e dagli alberi, ricostruito attraverso la realtà (il segno che incide le lastre) e quello dell’emozione (il ricordo e le sensazioni che il paesaggio suscita così come filtrate dalla sensibilità degli Alviti). Il filtro che rende visibile tale commistione è il colore, quegli inchiostri e quei liquidi che si perdono sulla lastra rincorrendosi e miscelandosi, così imprevedibili ed espressivamente liberi di muoversi, di evadere e di “uscire” dal segno. Il risultato è una carta inchiostrata dove è possibile scorgere la luce, una conversazione, l’aria, la vita vissuta, i particolari, gli scorci, la prospettiva tra gli alberi e l’infinita potenza della natura. Cristiano e Patrizio, riconosciuti nel mondo dell’arte anche per essere eccellenti
Volontà di ferro n.27- stampa monotipo su carta, Cristiano Alviti, 70x148 cm in basso: Volontà di ferro n.59 - stampa monotipo su carta, Cristiano e Patrizio Alviti, 25x66 cm
artigiani, per realizzare queste opere hanno costruito un torchio che consente grandi formati e pesi notevoli delle lastre. L’incisione delle stesse è ottenuta mediante “scriccatura” con macchine di taglio che, rispetto al plasma normale, consentono solchi e riporti di materia. Sulla lastra si rincorrono due lavori: uno razionale dato dai segni incisi che, per quanto artistici, sono fermi e rigidi nella loro geometria ed un altro totalmente irrazionale ed emotivo, quasi incontrollabile nel suo espandersi e mischiarsi di fluidi. La presenza della scriccatura è fortemente denunciata dalla tridimensionalità dei solchi lasciati dalla lastra come le stampe a secco. Ad un segno razionale, anche se pur sempre artistico, inciso sulla lastra che è sempre la stessa si sovrappone in un gioco di pieni e
vuoti una acquarellatura di volta in volta diversa che segue l’emozione del momento. Razionale e irrazionale si incontrano e si inseguono sulle carte inchiostrate dagli Alviti lasciando a chi guarda la libertà di seguire le proprie emozioni. «Perché il paesaggio è come musica: non ha contenuti precisi e interviene sul sentimento di chi l’osserva come la musica agisce su chi l’ascolta.» E oltre la mostra il contest per ribadire con forza che non bisogna arrendersi né fermarsi. Perciò dal 23 novembre al 6 dicembre sarà indetto il contest. Gli artisti invitano all’invio di racconti, di audio o video brevi che testimoniano la propria “volontà di ferro” Regolamento, premi e scadenze saranno disponibili sul sito www.volontadiferro.it dal 23 novembre.
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06_Volontà di ferro n.45 - Prova di autore, Cristiano e Patrizio Alviti, 47x130 cm in basso: Volontà di ferro, matrice n.6, Patrizio Alviti, 75x240 cm Volontà di ferro n.21- stampa monotipo su carta, Patrizio Alviti, 40x121,5 cm
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Formia, area archeologica del mausoleo di Cicerone, particolare dell'entrata nella cella funeraria della tomba, foto di Fausto Forcina
il mausoleo di cicerone a formia Marco Tedesco *
Storie l’uomo e il territorio
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Breve viaggio all’interno di uno dei simboli del territorio formiano legato al grande oratore di Arpino
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l mausoleo di Cicerone a Formia: breve viaggio all’interno di uno dei simboli del territorio Formiano legato al grande oratore di Arpino.
Da sempre, la città di Formia ha assunto una straordinaria importanza nell’ambito storico, archeologico ed artistico nazionale. I suoi monumenti, la sua attuale planimetria, rispecchiano ancora la grandezza dei secoli legati al fascino dell’antica Roma legati a nomi che ne hanno fatto grande la
storia: nomi del calibro di Mamurra, luogotenente di Cesare e figura di spicco nel De Bello Gallico, proprietario di una villa costiera nella frazione formiana di Gianola e Cicerone, l’illustre oratore originario di Arpino, cittadina in provincia di Frosinone che gli diede i natali, anch’egli forse proprietario di una villa a Formia, probabilmente situata nella zona di Vindicio. Ora, dove sia situata questa villa non è dato sapere: molti studiosi la individuano in alcu-
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Formia, visione d'insieme della tomba di Tulliola e del mausoleo di Cicerone, foto di Fausto Forcina
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Storie l’uomo e il territorio
Formia, area archeologica del mausoleo di Cicerone, particolare della tomba, foto di Fausto Forcina
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Formia, area archeologica del mausoleo di Cicerone, interno della torre sormontante la cella funeraria della tomba di Cicerone, foto di Fausto Forcina
ne tracce di reperti inglobati nell’attuale Villa Lamberti, sita nella zona di Vindicio a Formia, ma quello che tutti sanno è che proprio a Formia potrebbe esserci il luogo di sepoltura di Cicerone: un mausoleo che sorge lungo l’antica via Appia al km 139 in direzione Roma. L’ipotesi che tale mausoleo potrebbe proprio essere il luogo di sepoltura dell’illustre oratore è data dal fatto che proprio a Formia, nel 43 a. C., Cicerone trovò la morte per mano dei sicari di Antonio a causa delle accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Il Mausoleo di Cicerone è situato nelle immediate vicinanze di quella che si suppone sia la sua villa e riporta come datazione una collocazione temporale che lo fa risalire all’epoca augustea, periodo successivo alla morte di cesare durante il quale si assiste all’ascesa nella scena politica dell’antica Roma di Ottaviano Augusto, nipote di Cesare, designato da quest’ultimo come suo successore.
Il mausoleo di Cicerone è circondato da un muro in opus reticulatum di circa tre metri, reperto appartenente una delle tante imponenti ville romane che sorgevano lungo l’antica via Appia e che potrebbe corrispondere addirittura al Formianum descritto spesso da Cicerone, termine con il quale il grande oratore indicava la sua residenza di Formia e di conseguenza grazie a questo aspetto si potrebbe avere una corretta collocazione della stessa villa ciceroniana. Questo spazio che sembra quasi un quadrato, in realtà ha il lato lungo l’Appia che misura metri 80 e una profondità di 70 metri, con due porte laterali visibili ancora oggi ma che sfuggono all’ammirazione del visitatore che resta affascinato dalla imponenza della Tomba che, inizialmente, doveva apparire con primo piano a forma quadrata e secondo piano in forma cilindrica. La porta lato ovest è attualmente ben conservata ed emana una particolare bellezza “ellenica ” come appare in due foto postate. La porta
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Formia, area archeologica del mausoleo di Cicerone, visione notturna dell'entrata nella cella funeraria della tomba, foto di Fausto Forcina
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Formia, visione d'insieme dell'area archeologica del mausoleo di Cicerone, foto di Fausto Forcina
Storie l’uomo e il territorio
lato est invece, pur completa negli elemen- La zona in cui il mausoleo di Cicerone sorge ti, non fu ricomposta negli anni ’50 – ’60 risponde al nome di Acervara, dal latino Acerquando fu restaurato il sito globale. ba ara, in riferimento alla presenza dei resti
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un sepolcro, anch’esso di epoca augustea, nel XIX secolo come la tomba di Tulliola, l’asituato sulla collina di fronte al mausoleo di mata figlioletta di Cicerone morta in tenera Cicerone ed identificato da Pasquale Mattej età, da cui l’appellativo identificativo Acerba.
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Formia, area archeologica del mausoleo di Cicerone, particolare del muro circostante la tomba in opus reticultatum, foto di Fausto Forcina
Storie l’uomo e il territorio
Fu proprio Cicerone a volere un mausoleo re in un qualunque angolo della campagna, dedicato all’amata figlia, il cui progetto ven- mi sembra di potergli garantire il religioso ne affidato all’architetto Cluazio e ciò lo sap- rispetto dei posteri. Se approvi l’idea, il piamo grazie all’epistola 36 contenuta nel posto, il progetto, leggi per favore la legge e dodicesimo libro delle Epistulae, spedita da mandamela. Se ti venisse in mente qualche Cicerone ad Attico: “Voglio che si faccia un sistema per eluderla , lo adotteremo e se tempietto… Se lo costruissi all’interno di sarai d’accordo a fare il Tempietto, come mi una delle mie ville ho paura dei cambiamen- sto orientando adesso, vorrei che spronassi ti di proprietà. Mentre se lo dovessi costrui- Cluatius e lo spingessi a muoversi.
Quand’anche ci si dovesse decidere per un altro posto, penso di giovarmi comunque dei suoi servizi e dei suoi consigli tecnici.” Il mausoleo di Cicerone risulta alto complessivamente poco più di 24 metri. È composto da una base quadrata che misura 18 metri di lato sormontata da una torre cilindrica costruita ad anelli di pietra e verosimilmente ricoperta di lastre di marmo. La fun-
zione di questa torre, con tutta probabilità, era semplicemente quella di aumentare l’imponenza e la visibilità del monumento, ma probabilmente mirava a sottolineare l’importanza del personaggio più che del monumento stesso. All’interno della grande base quadrata si trova un’ampia cella funeraria circolare coperta da una volta anulare e circondata da sei nicchie perimetrali. Al centro della cella, inoltre, è collocato un pilone in pietra. Secondo la tradizione, nel punto in cui sorge questo pilone vennero deposte le spoglie mortali del grande oratore arpinate Marco Tullio Cicerone, dopo la mozzatura della lingua e delle mani, simbolo dell’eloquenza del filosofo. La torre, invece, si compone di un’alta volta che poggia su un pilastro, prolungamento del pilone sottostante e aveva la funzione di sostegno di tutta la struttura. L’interno della torre è in forma circolare e probabilmente conteneva statue ed altri arredi. Il mausoleo di Cicerone, o meglio conosciuto come Tomba di Cicerone fino al 1938 fu un bene nella disponibilità di privati cittadini del territorio formiano, secondo alcune notizie riportate dall’amico Raffaele Capolino, autorevole studioso di storia formiana. Scrive a tal riguardo Raffaele Capolino “La storia dell’acquisizione pubblica di questo straordinario sito, pur corredata da numerosi documenti, è complessa e va raccontata in due parti per renderne agevole la lettura. Tutto ebbe inizio nel lontano 1887 quando il Sindaco di Formia Pasquale Spina, dette incarico all’ing. Erasmo Giannattasio di redigere una stima monetaria del sito comprensivo di tutta l’area sepolcrale circostante, al fine di procedere all’acquisto dal legittimo proprietario del fondo . Si cercò in quel periodo di convincere alla vendita il Sig. Erasmo Scarpato fu Antonio, domiciliato a Formia ”proprietario del fondo Tomba di Cicerone posto nel territorio della Città di Formia, Contrada Vendice ” . La perizia dell’ing. Erasmo Giannattasio
Formia, tomba di Tulliola sul colle Acervara, foto di Fausto Forcina
valutò l’intero complesso in lire 5.840 che però non furono ritenute congrue dal proprietario formiano Erasmo Scarpato. Nel fascicolo si parla in realtà , in alcune parti, di una proprietà appartenuta ai
F.lli Erasmo e Giovanni Scarpato, entrambi cittadini di Formia. In altri documenti la proprietà è invece riferita solo ad Erasmo Scarpato. Ci fu quindi un periodo di stallo della trattativa che riprese vita solo nel 1896
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quando il Dott. Pasquale Occagna , legale di Erasmo Scarpato, con sua lettera del 12 luglio 1896 cercò di riaprire il discorso della cessione al Comune di Formia, sollecitando nel contempo un adeguato incremento alla
giunti motivi bellici , per cui si arrivò al 1930 , quando il Podestà Felice Tonetti, grazie alla sua amicizia con il Direttore del Museo Archeologico di Napoli Dott. Amedeo Maiuri , intraprese una serie di iniziative che portarono direttamente ad una procedura di esproprio dei terreni interessati che nel frattempo erano passati in mani diverse . In particolare il Mausoleo era divenuto di proprietà di Di Crasto Dott. Cosmo fu Salvatore di Gaeta, mentre l’area funeraria circostante, suddivisa in varie particelle, apparteneva ad altri nominativi quasi tutti di Gaeta. L’intera proprietà era utilizzata come orto, mentre l’interno della struttura funeraria era adibito a ricovero giornaliero di animali usati come mezzi di trasporto e spostamento da Gaeta a Formia e viceversa. Ma di questo parlerò nella seconda parte ricca di ulteriore documentazione sempre conservata nell’Archivio Storico di Formia. Ciò che determinò una svolta importante e decisiva alle azioni di esproprio dei terreni interessati dalla Tomba di Cicerone, fu un articolo sul Giornale d’Italia del 30/8/1934 Anno XII. In questo articolo ci fu la notizia clamorosa per tutto il mondo che laddove c’era il sepolcro di Cicerone, vi era di giorno abitualmente un
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asino !!!! Il giorno dopo, il 31/8/1934, Amedeo Maiuri comunicò all’amico Tonetti che sarebbe immediatamente partita l’azione di esproprio di tutti i terreni interessati e concluse scherzosamente riferendosi a Felice Tonetti, Podestà di Formia:” Tu nel frattempo preoccupati... del raglio dell’asino”. Dobbiamo dunque essere grati all’azione intraprendente di Amedeo Maiuri se oggi ancora riusciamo ad emozionarci di fronte alla magnificenza del mausoleo di Cicerone, detto Tomba di Cicerone, un monumento che insieme alle grandi ville romane costiere e alla monumentale fontana tardorepubblicana situata nella località formiana di San Remigio, contribuisce a mostrare ai nostri occhi la grandezza e la meraviglia dei fasti dell’antica Roma.
Dott. Marco Tedesco, storico dell’arte RAM Rinascita Artistica del Mezzogiorno Il presente lavoro è stato svolto in collaborazione con RTA Sinus Formianus, nella persona del presidente Vito Auriemma per le preziose indicazioni fornite e in collaborazione con Fausto Forcina per la parte fotografica. A loro va un particolare ringraziamento. Questo lavoro si inserisce nel progetto #contagioartecultura del Coordinamento Nazionale Patrimonio Culturale
Storie l’uomo e il territorio
primitiva offerta. La lettera del legale Pasquale Occagna non ebbe però alcun seguito per diversi motivi . Erano subentrati a Pasquale Spina altri sindaci che non si occuparono molto di questo problema anche per soprag-
foto gentilmente concesse dal Fai delegazionen Catania
giornate d’autunno a catania per riscoprire la memoria
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Tra viali alberati e cappelle gentilizie l’itinerario un insolito itinerario organizzato dal Fai di Catania
CATANIA – Da Giovanni Verga ad Angelo Musco, da Giuseppe De Felice agli indipendentisti che persero la vita negli anni ’40. Memoria e storia sono custodite all’interno del cimitero di Catania, luogo simbolo dove il nostro patrimonio monumentale sepolcrale si snoda tra arte, architettura e natura. E in occasione delle Giornate d’Autunno 2020 del Fondo Ambiente Italiano il capo delegazione FAI di Catania Maria Licata, con il prezioso contributo del gruppo giovani, capeggiato da Silvia Majorana ha pianificato un itinerario all’interno della città etnea guidando i visitatori tra lussuose edicole e cappelle private, dove si alternano mol-
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teplici stili architettonici - dal Gotico al Greco-Romano, passando per il Normanno e l'egizio - tra cupole, cuspidi, guglie e aiuole che si avvicendano tra tombe marmoree e monumenti funerari. Non solo un luogo di dolore, ma uno spazio che invita alla riflessione. All’ingresso de “I tre cancelli” si percorrono le scalinate che portano alla tomba di colui che è stato il sindaco etneo per antonomasia: Giuseppe De Felice. Dalla storia di un grande politico a quella di una giovane suicida, Angelina Mioccio: promessa sposa di un uomo per cui non provava alcun sentimento. Così la decisione di togliersi la vita lan-
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ciandosi dalla torre del castello di Leucatia, commissionato proprio per lei e per il futuro coniuge. Nella cappella di famiglia la ragazza era stata sepolta imbalsamata con l’abito nuziale: la tecnica utilizzata per la tumulazione è stata oggetto di analisi di molti studiosi. Tra i viali alberati e le cappelle gentilizie si trovano poi i sepolcri di altri personaggi che hanno fatto grande Catania. Al “Viale degli uomini illustri” si resta incantanti al riecheggiare dei nomi di Masi Marcellini, Angelo
Musco e Giovanni Grasso: grandi attori del teatro dialettale e non. Così come viene subito in mente la “Provvidenza” nel vedere la tomba di Giovanni Verga: umile e spoglia per suo volere, ma lasciata all’abbandono per tanto tempo e per l’occasione omaggiata e arricchita dai fiori di Radicepura. E ancora: il pittore Antonino Gandolfo, il giurista autore del libro sulla redenzione del reo confesso Vincenzo Lanza, l’archeologo Vincenzo Casagrandi, il fisico Enrico Boggio Lera. Da
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un pezzo di storia a un altro: così si legge il nome del musicista Francesco Paolo Frontini (autore della melodia del brano “Ciuri ciuri”), del giurista Pietro Delogu, dello scrittore Federico De Roberto e del poeta e docente universitario Mario Rapisardi. Al cimitero, che sorge su una collina non spianata per volere dell’architetto Filadelfo Fichera, tra lo scorcio dell’Etna che giganteggia alle sue spalle e le vie e i monumenti che ricordano i quartieri di Parigi, si resta ammaliati dalla bellezza dello stile romano, arabo, normanno, bizantino e greco. Architetture che sono carattere distintivo di una commistione di culture che hanno influenzato nei secoli la città dell’Elefante. Le cappelle raccontano e dicono tanto del suo passato. Tra le tante spicca quella del XV secolo della confraternita dei Bianchi, laici dediti all’assistenza dei malati e dei condannati a morte. Tutt’intorno archi e colonne, e alcune linee che spezzano e creano una frattura: è il caso della cappella del professore Cavallaro Freni, in stile egizio e con sfingi a guardia del portone. Così come quella della famiglia Di
Mattei e la sua struttura che invita a guardare verso l’alto, dove spicca l’”Angelo della morte”. Una parte del passato è racchiuso nelle cappelle delle Benedettine e delle famiglie facoltose come i Feo, proprietari di un cotonificio, dei Moncada, dei Cruyllas e dei Sollima. Quest’ultima saccheggiata in tempi recenti di molte ricchezze presenti al suo interno. Altro spazio è riservato alla comunità elvetica, che ha investito economicamente nella città etnea: così si scoprono (e riscoprono) i gioiellieri Ritter, i Caflisch e gli Engwiller. Dalla storia e dalle grandi famiglie ai portatori di valori e di chi ha lottato per la propria terra. Monumenti e sepolcri sono in onore delle Piccole Sorelle dei Poveri, degli indipendentisti, delle vittime dei moti del 1837, dei caduti di Nassiriya e dei vigili del fuoco che hanno perso la vita durante l’esplosione di via Garibaldi nel 2018. Come una biblioteca ricca di libri da sfogliare e da leggere, il cimitero racchiude la nostra storia e permette di far capire chi eravamo, chi siamo e in che direzione andare.
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I LUOGhI DELLA PAROLA
il grande sogno Giovanni Bruno
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Le riflessioni dello psicologo psicoterapeuta
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«I sogni non prendono spazio ma lo danno». Franco Arminio
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erché sogniamo? Nessuno mai ha dato una risposta certa, univoca e definitiva. Tantissimi gli studi, le ricerche, le ipotesi, le teorie sull’argomento, ma una soluzione semplice a un enigma che ha percorso l’umanità non c’è e forse mai ci sarà. Gli ambiti di approfondimento sono neurofisiologici, psicologici, psicoanalitici. I primi evidenziano la fondamentale importanza del tronco encefalico nel controllo dei meccanismi del sonno e del sogno. La Psicologia tradizionalmente ha studiato l’attività mentale che si svolge durante il sonno, attività legata a immagini, emozioni ,sollecitazioni sempre intrise delle leggi dell’affettività. E poi Sigmund Freud che con la sua grande intuizione introduce con la psicoanalisi l’interpretazione dei sogni. Il sogno assume così un significato nuovo mai sondato prima: il sogno come risultato “di una complessa attività mentale”.
Come coniugare i tre rami di ricerca? Compito estremamente difficile e forse troppo ambizioso. Eppure abbiamo bisogno di essenzialità e di prendere lezioni invece di darle , procedendo per tentativi ed errore . Il dato di partenza è semplice: la nostra psiche si nutre di emozioni. Esse vengono elaborate dai centri sottocorticali dell’encefalo e in particolare dall’amigdala, provocando una reazione somatica con un corteo di modificazioni che possono essere di vario tipo: aumento delle pulsazioni cardiache, sudorazione, alterazione della tensione muscolare, ecc. Semplicemente è la pressione della vita che produce una profonda impressione su di noi. In questa prima fase sembra che la biologia tenga la barra di tutto. Ma non è così . Atman è un termine sanscrito di genere maschile e significa soffio vitale, respiro, vento, aria che si muove.
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Viene anche indicato come “la coscienza di sé” o meglio come il proprio SÈ. In definitiva l’essenza ultima di ogni individuo. E ogni individuo conserva il tessuto intimo della propria memoria che darà voce agli stati mentali di ognuno. L’ Uomo come Universo. L’Universo tutto come Uomo. È la condizione umana il nostro soffio vitale che poi trasferiamo nel sogno. Dove non ci sono regole, freni inibitori, regna piuttosto la dismisura, la follia e il mistero. Dovremmo forse ripartire dai nostri sogni, potrebbero indicarci le nostre paure , i nostri desideri, le nostre consapevolezze non ancora arrivate alla coscienza. Ma tutto questo senza sforzi interpretativi ma considerando il sogno come un racconto, una narrazione, dove può esserci una storia, una densità di strati. Sogno come sorgente di vita e chiave di accesso alla propria psiche. Jacques Derrida ci dice che bisogna rispettare il sogno, cosicchè risvegliandosi è necessario restare fedeli alla lucidità del sogno, avendo cura di ciò che il sogno ci dà da pensare . Nei sogni c’è dunque il tatuaggio della nostra identità ma anche del nostro carattere inteso come fisionomia originale della propria individualità psichica che non vuole l’omologazione, il senso del limite il confine, la giusta misura così presenti nella
vita reale. Si sogna dunque ma contemporaneamente si dorme. Il sonno grande alleato dell’uomo definito come lo stato di riposo in contrapposizione alla veglia. Ma il sonno è molto di più del semplice riposo, è piuttosto un cantiere di dati che vengono selezionati, complessi cambiamenti a livello cerebrale si susseguono incessanti. C’è un aspetto costruttivo e operativo del sonno su cui forse vale la pena porre l’accento. Le tracce mnestiche rilasciate dall’esperienza diurna sarebbero integrate e collegate tra loro proprio nella fase REM (una delle fasi del sonno). Il sonno avrebbe un ruolo nella capacità adattiva dell’individuo nonché una funzione di programmazione della memoria procedurale. Vediamo allora che tutto è interconnesso, tutto è in relazione: da un lato la capacità immaginativa, visionaria e liberatoria del sogno e dall’altro col sonno la strutturazione di una veglia adeguata al proprio stato. La misura e la dismisura in una sola notte. La citazione poetica iniziale ci restituisce dunque il massimo di energia che ognuno di noi profonde nel sogno, energia che è forza generativa, che è bellezza del vivere.
Mettiamo in cantiere i vostri sogni!
immobiliaregirasoli.it
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le creature di bafefit Dario Ferreri
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Un viaggio tra i luoghi e nonluoghi fisici ed emozionali dell'arte contemporanea
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«Non ho particolari talenti, sono soltanto appassionatamente curioso»
CURIOSAR(T)E
Albert Einstein
N
" "Vedere a colori è una gioia per l’occhio, ma vedere in bianco e nero è una gioia per l’anima" Andri Cauldwell
emo propheta in patria ... purtroppo la storia ci vede testimoni di numerosi episodi nei quali originali artisti e/o personaggi creativi ed interessanti, sottovalutati dal proprio contesto geografico di nascita e/o dalla loro scena artistica locale contemporanea, abbiano dovuto espatriare o, peggio, attendere il trapasso ed il passaggio di grandi quantità di loro opere a mercanti e grossi collezionisti, per aprire il teatrino delle glorificazioni tardive o postume.
Se c'è qualcosa di bello ed interessante è giusto informare,renderlo noto ed apprezzare "in tempo". Con questo spirito, idealmente promuovendo sia l'arte che i luoghi nostrani, mi accingo a raccontare qualcosa su Bafefit, al secolo Raffele Iodice, magliese, classe 1980, salentino di nascita e cuore, romano di adozione, illustratore, artista di carattere, rivoluzionario nella vita quotidiana, talune volte perfino non pienamente "socialmente accettabile" in alcune sue anticonformistiche
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Geometri anatomical heartc
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CURIOSAR(T)E
The party sover
esternazioni sui social, ma persona certamente non banale e con un ricco universo creativo di riferimento. Il rapidograph (penna per disegno tecnico a inchiostro di china) e carte moderne ed antiche si sono prestate, e prestano, a dare corpo all' immaginifico, tenero, ironico, malinconico e dark macrocosmo dell'artista. Una cifra artistica riconoscibile e personale, un picco di notorietà e creatività artistica dagli anni 2009 al 2016, lo hanno reso noto e fatto apprezzare dal pubblico del lowbrow/pop surrealism internazionale ed italiano, un pubblico di nicchia che apprezza gli artisti indipendenti che sanno emozionare con i propri lavori e che sono orgogliosamente pop, nel senso di popolari, in quanto da un lato utilizzano uno stile di comunicazione artistica diretto che coinvolge il grande pubblico e, dall'altro, che attinge ad un background collettivo popolare che è di facile decodifica da parte dell'osservatore. Bafefit è probabilmente l'artista oriundo salentino più seguito sui social: la
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The murder spirit
sua pagina Facebook (https://www.facebook.com/bafefitOfficial/) ha circa 120.000 follower e non ha mai esposto "in patria salentina": una precisa ed intenzionale scelta piĂš volte palesata dall'artista stesso, negli anni passati, nel corso di interviste che lo hanno visto protagonista. Lo pseudonimo Bafefit pare sia nato duran-
te una serata trascorsa con due ragazze francesi quando l'artista non era piÚ un adolescente: sono state difatti loro a coniare il termine prendendolo in giro perchÊ all'epoca ancora non gli crescevano i baffi: un termine buffo che lui ha scelto e gli ha portato fortuna. Destò grande risonanza negli ambienti arti-
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CURIOSAR(T)E
Rainbow heart
stici, non solo della capitale, la sua personale “Bafefit deve morire” presso la galleria Mondo Bizzarro di Roma nel 2011; mostra che peraltro registrò il sold out. Si parlò allora del suo personale stile illustrativo coniando il termine di "suicide surrealism", una serie di lavori in cui i soggetti rappresentati vengono colti in una situazione mentale in cui l’unica via di scampo è il suicidio: la libertà di una morte volontaria, piuttosto che la rinuncia ai propri ideali. Le leggende ed i luoghi salentini, così come le suggestioni di location dark di altri contesti geografici alimentano i sogni e gli incubi dell'artista che, da protagonista della società contemporanea, nelle proprie opere mescola fiaba e realtà, morte e redenzione, paure e sentimenti, tematiche esistenziali e sociali di grande rilevanza con elementi di cultura cinematografica e televisiva, dei cartoon e del tatuaggio, ecc. I protagonisti delle sue creazioni sono esseri onirici, animali, creature del subconscio fameliche di affetto o di sangue, pupazzi che rimandano a personaggi dell'immaginario pop surrealism ma che, alla resa dei conti,
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Dark Flamingos
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Message of love
capolino, occasionalmente, anche altri colori, ma senza mai intaccare il tratto grafico profondo e preciso dell'inchiostro nero e del chiaroscuro molto contrastato, protagonista assoluto delle sue creazioni. Nel 2014 la Giuda Edizioni pubblica un catalogo di sue opere "PSYCHO DELICATESSEN" ; hanno parlato di lui diverse riviste internazionali e blog d'arte. L'augurio che mi faccio e gli
CURIOSAR(T)E
sono multiformi e poetici alter ego dell'artista che, attraverso di essi, svela le proprie emozioni, fragilità , rabbia, paure ed ideali; il mirroring che tali opere invitano a fare con lo spettatore non delude e ce li fa sentire vicini e coccolare anche se talvolta grondano di sangue inchiostrato. Il mondo di Bafefit, agli esordi, è rigorosamente ed elegantemente in bianco e nero; negli anni a venire faranno
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faccio è di vederlo nuovamente artista a tempo pieno per il piacere dell'arte e di veder nuovamente rinascere ed evolvere gli strani ed avvincenti esseri delle sue creazioni anche nel nostro Salento.
Cannibal flower
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Lecce, Museo Castromediano, Polittici veneti, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
al museo castromediano i polittici veneti restaurati con art bonus Sara Foti Sciavaliere
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Due opere straordinarie che testimoniano gli intensi rapporti tra Venezia e la Puglia
I
n attesa del nuovo allestimento della Pinacoteca del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” di Lecce, è possibile ammirare due pregevoli testimonianze dell’arte pittorica veneta nel Salento, si tratta di due polittici freschi di un accurato restauro che ne hanno restituito l’importante fattura: il Polittico di San Giovanni del tardo XIV secolo e il quattrocentesco Polittico di Galatina, tra le opere più rappresentative degli intensi rapporti tra Venezia e la Puglia.
”
La prima fondazione del Museo Provinciale di Lecce avviene nel 1868, quando la Provincia di Terra d’Otranto, nomina una commissione al fine di indagare e studiare la storia del territorio, individuare ciò che vi era di rilevante per poterlo acquisire, custodire e depositare in un museo. Tale attività fu ratificata il 21 febbraio 1869 con un Regio Decreto, mentre il 27 dicembre del 1890 il Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto deliberava affinché il Museo prendesse il nome del suo fondatore con il titolo di Museo Provinciale
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Lecce, Museo Castromediano, Polittici veneti, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
Castromediano, che ebbe la sua prima sede nel Palazzo dei Celestini, le cui sale al piano terra ospitarono per prime anche i polittici veneti. Tali opere appartenevano al convento leccese delle benedettine di San Giovanni Evangelista e alla chiesa di Santa Caterina d’Alessandria di Galatina, fino alla segnalazione del barone Francesco Casotti che, membro della Commissione Conservatrice per i Monumenti Storici e di Belle Arti di Terra d’Otranto, dopo averli scoperti in stato di abbandono negli stessi conventi li fece trasferire al Museo Provinciale di Lecce, l’uno acquistato e l’altro ricevuto in donazione nel 1871 e nel 1872. Le due opere costituiscono la concreta testimonianza del legame che la Puglia, e più in particolare il Salento, ebbe nel corso del XV secolo con l’area veneta. La Terra d’Otranto era terra di approdi e una via di snodo e scambi con l’Oriente che si inserivano nel corridoio adriatico. Nella cultura artistica cosiddetta
veneta, confluivano influenze bizantine, gotiche, rinascimentali e poi barocche, che proprio lungo la via dell’Adriatico assumevano connotazioni artistiche originali in cui Oriente e Occidente si fondevano. In questo contesto, si inserisce la realizzazione dei due polittici delle chiese di Galatina e di Lecce e che saranno poi acquisite nella collezione storico-artistica del Castromediano: il polittico della bottega di Lorenzo Veneziano, ancora impregnato di cultura bizantina, e il polittico della bottega del Vivarini dal gusto protorinascimentale. Il polittico di Lorenzo Veneziano e aiuti, o Polittico di San Giovanni Una Madonna che allatta seduta sul prato occupa la parte centrale del polittico: al suo fianco una schiera di santi, quattro per lato a figura intera, su un fondo dorato. I volti sono severi e accigliati, dalle folte capigliature e dalle lunghe barbe. A sinistra Giovanni Evangelista, titolare della chiesa delle Benedettine di Lecce
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Lecce, Museo Castromediano, Polittici veneti, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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per le quali l’opera viene realizzata, Benedetto, fondatore dell’ordine, Nicola, il più venerato in Puglia. A destra della Vergine i santi canonici della gerarchia ecclesiastica: Giovanni Battista, Pietro e Paolo. A chiusura su ambo i lati due fanciulle: Maria Maddalena (a destra) e Margherita d’Antiochia (a sinistra), la cui devozione nel Medioevo era assai forte per le virtù dimostrate dalle sante nel vincere la tentazione del peccato e la cui presenza ci indica la destinazione del polittico a un monastero femminile. Nel registro superiore in quattro scomparti per lato sono raffigurati i quattro Evangelisti, dall’altra parte i Padri della Chiesa, Gregorio, Girolamo, Ambrogio e Agostino. L’immagine della Madonna dell’Umiltà, nel comparto centrale del polittico, è una figura rilevante all’interno della rappresentazione in quanto indica un intervento diretto di Lorenzo Veneziano sia dal punto di vista esecutivo che ideativo. Documentato almeno dal 1353 e fino al 1379, il Veneziano è il più importante artista della pittura lagunare della seconda metà del Trecento, assorbendo tutte le tendenze delle quali Venezia era ricettacolo. La figura della Vergine - avvolta in un maphorion azzurro lapislazzuli e finemente decorato con un sottile motivo a tralci - è inserita in una archeggiatura triloba modanata e intagliata tra due doppie colonnine tortili, seguendo un sistema decorativo di gusto veneziano. Sulle ginocchia regge il Bambino sgambettante intento a succhiare il latte con gesto energico, espressione di efficace realismo. Un sole raggiato - che richiama la “mulier amicta sole” dell’Apocalisse - splende sulla veste rosacea della Vergine, il colore purpureo è un riferimento alla regalità con la quale la Madonna è rappresentata nella cultura bizantina. L’introduzione di un concetto teologico e iconografico come la Madonna dell’Umiltà era funzionale a rendere tangibile e più umana la sacralità di Maria e a domenicani e predicatori fu affidata la sua divulgazione a partire dalla prima metà del Trecento con diverse varianti. Il modello che ha avuto migliore fortuna è quello della Vergine che nutre il figlio Gesù offrendogli il seno, così che l’iconografia della Madonna dell’Umiltà si fonde con quella della Madonna del latte (nutrice di
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Lecce, Museo Castromediano, Polittici veneti, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
tutti gli uomini): un’immagine che diventa sintesi tra la figura della Madonna, umile madre di tutti i viventi e quella della Regina coeli
descritta nell’Apocalisse. Tale immagine mariana, cosÏ declinata, si diffonde nel linguaggio artistico a partire dagli anni Trenta del Tre-
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cento, trovando affermazione in area veneta nei decenni immediatamente successivi, con i primi esempi riconosciuti attribuibili proprio a Lorenzo Veneziano, il quale fonde l’antica iconografia della bizantina Madonna che allatta con quello della Madonna seduta a terra. Il Polittico del Vivarini, o di Galatina Il grande polittico è formato da quattordici tavole dipinte a tempera distribuite su due ordini, con figure di santi su fondo oro. Al centro del registro inferiore è seduta una giovane Vergine con Bambino su un trono in marmo policromo. Nello spazio del primo ordine, scandito da colonne che sostengono archetti ogivali, sono disposti sei santi a figura intera: ai lati della Vergine, Pietro e Paolo, e subito dopo, a destra, un santo vescovo con libro, mitria e pastorale – forse da identificare con Sant’Agostino -, sul lato opposto, un santo che legge – probabilmente San Benedetto –; a chiudere la schiera ci sono San Giovanni Battista (a sinistra) e San Michele Arcangelo (a destra) in veste di psicopompo intento a pesare le ani-
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me con una bilancia. Nel registro superiore, al centro, in corrispondenza della tavola con la Madonna, una Trinità con il Dio Padre che sostiene il Cristo crocefisso adorato dai santi Domenico e Francesco. Una schiera di tre santi a mezzo busto si dispone su ciascun lato: a sinistra San Nicola, Sant’Antonio Abate, Santa Caterina d’Alessandria, titolare della chiesa di Galatina da cui proviene la pala, sull’altro lato un Santo Vescovo, San Girolamo e Santa Lucia. Diversi indizi permettono di attribuirne la committenza a Giovanni Antonio Orsini del Balzo, Principe di Taranto volto a promuovere il prestigio del complesso della Basilica cateriniana. Benché gli Orsini guardassero a un’arte occidentale orientata a Napoli, sono comunque noti i rapporti commerciali stretti con Venezia, e ancor non si può trascurare il ruolo rivestito dai francescani nelle committenze artistiche e il particolare legame di quest’ordine con i Vivarini. Si tratta di una preziosa testimonianza nel Salento dell’attività dei Vivari-
Lecce, Museo Castromediano, Polittici veneti, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
ni, protagonisti assoluti nel quadro della pittura veneta in Puglia, per quantità e qualità di opere che da Venezia affluivano nelle chiese e nei conventi della regione, e malgrado ciò la letteratura artistica ha sempre trascurato questo polittico nonostante sia da considerarsi attribuibile quasi del tutto a bottega vivariniana. Un “oblio” imputabile probabilmente agli interventi postumi che alteravano l’aspetto originale
dell’opera: di fatto, a seguito del restauro eseguito nel 1934, il polittico era stato quasi completamente ridipinto, ragione per cui risultava difficile riservare a quest’opera la dovuta attenzione. Recupero e valorizzazione dei polittici I Polittici del Vivarini e del Veneziano rappresentano dunque due opere di inestimabile valore nel panorama dell’arte rinascimentale italiana, due testimonianze tra le
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più alte ed eloquenti che vengono riconsegnate alla collettività dopo un necessario e fondamentale intervento di restauro. Quando il Castromediano li acquisì al patrimonio della Provincia di Terra d’Otranto i due polittici si presentavano in un discutibile stato di conservazione e per tale ragione sono stati, a più riprese (nel 1876 e nel 1934), oggetto di restauro presso il Museo, nel tentativo di rimediare alle offese del tempo e della trascuratezza. L’attuale intervento - eseguito da Ianuaria Guarini e Gaetano Martignano con rigore scientifico e metodologico – ha avuto lo scopo di recuperare la bellezza dei toni e dei tratti originari mascherati appunto dai restauri precedenti. Un lavoro di sottrazione che ha consentito un recupero di dati, di informazioni e di senso, oltre della loro bellezza più autentica. Un restauro che diventa anche opportunità per portare l’attenzione su un particolare momento dell’arte nel Salento, tra Gotico e Rinascimento, le cui scarse e frammentarie testimonianze sono nella maggior parte dei casi sopraffatte dalla straripante epoca barocca che in questi luoghi mostra ancora segni assai evidente spesso a discapito dell’arte che l’ha preceduta. Il restauro è stato finanziato da Banca Popolare Pugliese grazie all’Art Bonus (Legge
n. 106 del 29/07/2014 e s.m.i.), una normativa a sostegno del mecenatismo a favore del patrimonio culturale, in base alla quale chi effettua erogazioni liberali in denaro per il sostegno della cultura, come previsto dalla legge, potrà godere di importanti benefici fiscali sotto forma di credito di imposta. Quello dei polittici veneti del Museo Castromediano è un intervento di recupero e valorizzazione ancora più significativo oggi con la ratifica italiana, nello scorso settembre, della Convenzione di Faro sul valore del patrimonio culturale per la società in quanto eredità culturale, un trattato multilaterale del Consiglio europeo in base al quale gli Stati concordano di tutelare il patrimonio culturale e i diritti dei cittadini di accedere e partecipare a tale patrimonio. Si innesca così un dialogo, grazie a questo recupero, tra il Museo Provinciale e la comunità locale.
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La poetessa Alda Merini, fonte pagina social della poetessa
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alda merini la poetessa dei navigli Raffaele Polo
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Il 1 novembre di undici anni fa ci lasciava Alda Merini ma i suoi versi immortali sono il segno della sua presenza perché gli artisti non muoiono mai
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io padre mi ripeteva spesso un concetto che mi è rimasto dentro. Che, secondo lui, se si è 'normali' non si può concludere nulla di buono, nei campi dell'Arte e della Poesia. E mi portava gli esempi, per lui inconfutabili e granitici, del Pascoli e di Van Gogh, di Ligabue e di Beethoven, aggiungendo che ce ne sono tanti altri, che confermano come 'il genio' abbia bisogno di un 'quid' che lo renda diverso e lo faccia distinguere dalla massa, per poter produrre capolavori e passare alla memoria dei posteri. Questa idea, personalissima ma non priva completamente di realtà, mi ha sempre accompagnato e quando mi imbatto in un caso particolare di genialità 'diversa', devo per for-
za pensare a mio padre, alle sue convinzioni e al suo tutto sommato evidente rimpianto di essere rimasto 'normale', anziché provare l'ebrezza di una sofferta popolarità. Io credo che non esistano, sull'argomento, precise indicazioni. E che la casualità di spiriti inquieti e ribelli che si affermano nel mondo della Cultura è per lo meno pareggiata da normalissime persone che studiano, si applicano e poi producono quello che sentono di poter offrire, riuscendo al meglio e spesso non raggiungendo la meritata fama. Ma qui entriamo in altre considerazioni, coinvolgendo la fortuna, la capacità di nascere al posto giusto nel momento giusto e di avere, insomma, que-
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gli aiuti insperati dalla Natura che ad altri sono negati.... Perché questo preambolo? Perich, per intrattenersi a scrivere di Alda Merini, anche in maniera sommaria, frammentaria e alla buona, bisogna partire subito dalla conoscenza della sua vita travagliata, intensa e piena di luci vivissime ed ombre cupe che l'hanno provata e fatta diventare la poetessa più conosciuta del nostro Paese, proprio lei che, da ragazza, fu giudicata ottimamente in tutte le materie escluso l'italiano.... Successe anche a Giuseppe Verdi con la musica e chissà a quanti altri che non abbiamo avuto il piacere di conoscere ma che, magari, erano più che meritevoli di essere annoverati nella difficile Storia della Letteratura. La Merini no, ha avuto 'fortuna' letterariamente proprio mentre i suoi problemi fisici e psicologici si acuivano. E lei, che era cosciente di questo suo stato di eterna bipolarità, avvisa le sue quattro figlie di non dire a nessuno che la loro madre è la poetessa Alda Merini... Ricevendo in risposta l'assicurazione delle giovinette: Tu sei la nostra mamma. Poi, tutto il resto è racchiuso nei versi di questa poetessa che vorremmo analizzare senza tener conto del suo vissuto. Come potrebbe essere nei concorsi letterari, dove si tratta di giudicare così, velocemente, una composizione che ci piove dall'alto, senza nessuna indicazione ma, proprio per questo, ancor più difficile da comprendere e giudicare. Pensate: se ai giudici del concorso poetico X (che sono persone normali, normalissime) fosse giunta questa anonima composizione, credete che l'avrebbero presa in considerazione? No, certamente. Ma non avrebbero considerato degne d'attenzione neanche 'M'illumino d'immenso' di Ungaretti e 'i cocci aguzzi di bottiglia' di Montale.
Ribaciami in uno stelo di amore e pensa alla giovinezza che mi prende e mi ha lasciato sola per lunghi anni. Eppure, in questi come negli altri versi della Merini, c'è un pizzico di quella Poesia che è così raro da trovare. Una sorta di sortilegio che ci fa comprendere significati nascosti e ci apre il cuore, cancella tutto quello che abbiamo attorno e ci distrae, e ci conduce per mano a scoprire... Già, a scoprire cosa? A scoprire il senso della vita, a capire proprio quello che abbiamo affermato all'inizio di questo scritto, ovvero i sogni che ognuno di noi ha dentro di sé, li abbiamo tutti, ma proprio tutti, la nostra Alda ce lo dice con parole semplici, staremmo per dire 'normali': Ci sono notti/ che non accadono mai/ e tu le cerchi/ muovendo le labbra./ Poi t'immagini seduto/ al posto degli dei./ E non sai dire/ se nel ripudio/ dell'età adulta/ che nulla perdona/ o nella brama d' essere immortale/ per vivere infinite/ attese di notte/ che non accadono mai. Ora voi, che fate parte della giuria di questo concorso poetico, non sapete nulla di nulla, e vi capita questa poesia tra le tante che dovete leggere e giudicare: A tutti i giovani raccomando: aprite i libri con religione, non guardateli superficialmente, perché in essi è racchiuso il coraggio dei nostri padri. E richiudeteli con dignità quando dovete occuparvi di altre cose. Ma soprattutto amate i poeti. Essi hanno vangato per voi la terra per tanti anni, non per costruivi tombe, o simulacri, ma altari.
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Pensate che potete camminare su di noi come su dei grandi tappeti e volare oltre questa triste realtà quotidiana. Cosa fate? La guardate con disprezzo, pensate che non si adatta ai canoni poetici contemporanei, che sfonda una porta aperta, che ci ricorda il Verri di 'Fate fogli di poesie...', la mettete da parte ma poi, ogni tanto, vi sovviene un verso, una parola, vi ricordate di quel 'volare oltre questa triste realtà/ quotidiana' a vi guardate attorno, eccola attorno a voi, sintetizzata mirabilmente da quelle poche parole, parole 'nor-
mali', ci risiamo con questo aggettivo, eppure la Merini tutto era fuorché 'normale'.... Potremmo continuare all'infinito, credete. E, non fosse altro che per il piacere di rileggere i versi della poetessa milanese, finiremmo per concludere che la sua è veramente Grande Arte. E che lei, fuori da una normalità grigia e oppressiva, ci offre una stretta e impervia via d'uscita, che si chiama Poesia. Sta a noi comprenderla ed utilizzarla. In effetti, forse aveva ragione mio padre....
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premio Zavattini.il riuso creativo della memoria d’archivio
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Premiati i filmaker Caterina Biasucci, Marco Signoretti e Lorenzo Conte
Il mare che non muore di Caterina Biasiucci, Lo chiamavano Cargo di Marco Signoretti e L’angelo della storia di Lorenzo Conte sono i tre progetti vincitori della quarta edizione del Premio Zavattini (2019/20). Il racconto di una rinascita femminile interiore attraverso l’immersione fisica e psichica- nel ricordo di una vita passata che si rende attuale nel presente è il tema trattato da Caterina Biasucci. Un progetto premiato “per la sua originale e suggestiva rielaborazione della memoria familiare e autobiografica, che intreccia il tempo della storia e il tempo dell’esistenza sotto il segno dell’identità femminile”. Meta-western e picaresco, il cortometraggio di Marco Sgnoretti, che ricostruisce sulla base di immagini e suoni d'archivio il viaggio di un cineasta nel Mezzogiorno degli anni '60, è stato apprezzato “per l'umorismo
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che lo connota, una sensibilità alla storia sociale e un'attenzione al cosiddetto cinema minore italiano, qui visto attraverso gli Spaghetti western”. Lorenzo Conte, invece, partendo dall’ultimo discorso alla nazione di Allende e rievocando gli eventi dell’11 settembre 1973 che portarono alla dittatura di Pinochet, è riuscito a dar vita ad un progetto che vuole essere fonte di memoria e di riflessione per l’oggi, in un epoca di sovranismi e ritorno dei fascismi non solo in America latina, ma in tutto il mondo. La premiazione è avvenuta lo scorso 20 ottobre nell'ambito della cerimonia conclusiva dell'iniziativa dedicata al riuso creativo della memoria d'archivio, quest'anno svoltasi in collaborazione con "L'Aperossa UnArchive", nel Teatro della Garbatella a Roma, nel pieno rispetto delle misu-
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un frame del docufilm
re antiCovid. Oggi più che mai è importante dare valore alla memoria e ricontestualizzare, attraverso la creatività, le opere del passato per per farle vivere nel presente diventa anche un modo per ricostruire identità sociale e storia. Le tre opere premiate sono state costruite peraltro nell'ambito di una complessità particolarissima, da un lato il lavoro a distanza e solitario cui ci ha costretti la pandemia da Covid-19 dall’altra la libertà di utilizzo tematico e di approccio personale al lavoro sulla base di materiali archivistici concessi gratuitamente dai partner dell'iniziativa.
Sul palco del teatro della Garbatella sono saliti Vincenzo Vita, presidente dell'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, Antonio Medici, direttore del Premio, Gianfranco Pannone, presidente della giuria esaminatrice, Enrico Bufalini, direttore archivi Istituto Luce Cinecittà, Stefania Parigi (docente dell'Università Roma Tre e componente della giuria), Aurora Palandrani e Luca Ricciardi (cda AAMOD) che hanno ricordato il valore di riutilizzo dei materiali attraverso l'opera d'ingegno e il talento delle nuove generazioni.
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Fig. 5, Siracusa, Basilica di S. Giovanni Evangelista che sorge sull'area della catacomba omonima
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la vita oltre la morte le catacombe di siracusa Dario Bottaro
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on il mese di Novembre che la Chiesa da secoli, dedica alla commemorazione dei fedeli defunti, non si può non pensare all’importanza di alcuni siti storici che sono parte integrante della storia di una comunità, del suo tessuto urbano, della sua tradizione archeologica, artistica e spirituale. Sono le catacombe di Siracusa, al plurale poiché i siti catacombali nella città di Aretusa, Archimede e Lucia, sono più di uno e ciascuno riveste un’importanza differente dall’altro, poiché testimonianza ancora viva dei secoli del passato, delle persecuzioni in modo particolare. Siracusa, la prima Chiesa nata in Occidente, che secondo la tradizione ebbe come primo suo vescovo Marciano, direttamente inviato da San Pietro dalla città di Antiochia1, possiede alcuni dei siti cata-
Storie l’uomo e il territorio
Onore ai defunti nelle vie sotterranee itinerari catacombali nella città di Aretus, Archimede e Lucia
combali più importanti della Sicilia, denominati così come segue, Catacombe di San Giovanni Evangelista, di Santa Lucia e di Vigna Cassia. Le vie sotterranee che scorrono sotto la città, a pochi metri dal suolo urbano fino a profondità più ampie, testimoniano i lunghi secoli del primo Cristianesimo, fatto di nascondimento, di rifugio, ma soprattutto di quel senso di comunità che ha contraddistinto la religione di Cristo fin dal suo nascere. La condivisione dei beni, così come la condivisione del pane, per fare memoria del sacrificio del Figlio di Dio sulla Croce, e ancora il ritrovarsi sulle tombe di coloro i quali si erano distinti in vita per le virtù evangeliche, hanno dato vita a luoghi che oggi, possiamo guardare con profonda ammirazione e con altrettanto stupore degli occhi e del cuore. Queste
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Storie l’uomo e il territorio
Fig. 3, Siracusa, Catacomba di Santa Lucia, oratorio dei Quaranta Martiri, parete sud-est. Foto dell'autore copia
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Fig. 8, Siracusa, Catacombe di S. Giovanni, cripta di S. Marciano, affresco con S. Lucia, XII secolo
cavità sotterranee, vere e proprie strade divise in cunicoli più o meno stretti, raccontano la storia del singolo e insieme anche della comunità che fra il II e il IV secolo, viveva nell’oscurità del sottosuolo, la Luce del Vangelo, meditando ciò che era stato tramandato per iscritto e anche in forma orale. Le Catacombe di Siracusa, alla luce dei diversi studi che nel corso del XIX secolo e per tutto il secolo successivo, fino ad oggi, sono di fondamentale importanza per comprendere l’evoluzione di una comunità in cammino, che anche in maniera fisica, concreta, cercava di dare testimonianza al Sommo Dio, seguendo i precetti della nuova religione. Le Catacombe più antiche di Siracusa sono quelle di Santa Lucia che si sviluppano principalmente al di sotto dell’omonima piazza su cui sorgono anche il Santuario della Santa e il tempietto ottagonale del suo Sepolcro. Quest’ultimo ingloba il loculo che la tradizione ha tramandato essere quello in cui nel 304 la vergine e martire siracusana, fu seppellita. L’area catacombale di Santa Lucia fu costruita a partire dalla fine del II e l’inizio del III secolo d.C. e ad oggi presenta numerosi ampliamenti e diverse modifiche realizzate nei periodi bizantino e normanno. Solo una parte dei numerosi cunicoli oggi è visitabile, poiché gran parte del sistema sotterraneo è interessato da stu-
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Fig 1 Siracusa Catacomba di Santa Lucia decorazione pittorica delloratorio dei Quaranta Martiri visione d'insieme Foto Giuseppe Mineo
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di in corso. Ciò che sicuramente colpisce il visitatore che si immerge nelle viscere della terra, poiché si scende a più di 5 metri sotto il livello stradale, è la miriade di cunicoli di diversa dimensione che sono scavati alle pareti rocciose. Essi hanno forma rettangolare, di varie dimensioni in base al corpo che dovevano contenere, ma a far bella mostra non sono solo questi incavi che si sviluppano uno sull’altro in senso verticale e in successione in senso orizzontale, bensì anche le tombe a cubicula che mostrano sepolture multiple. Queste ultime erano spesso riservate alle famiglie più benestanti, le quali preparavano il giaciglio del sonno eterno per i componenti della famiglia, così da rimanere vicini anche nella nuda terra, dopo la vita terrena. Molte di queste tombe presentano ancora le tracce delle decorazioni pittoriche che i proprietari chiedevano a sconosciuti artisti, i quali per abbellire le dimore dei defunti, attingevano con la fantasia al mondo vegetale che, con racemi e fiori, decorava le pareti circo-
Storie l’uomo e il territorio
Fig. 2, Siracusa, Sepolcro di S. Lucia
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stanti del sepolcro. Anche all’interno del loculo in cui fu deposto il corpo di S. Lucia, si trovano ancora alcune tracce di fiori, identificate con rose e ciò che rimane della sagoma dormiente di una giovane donna. La parte più importante dell’area catacombale di Santa Lucia è però una cripta, conosciuta con il nome di Oratorio dei Quaranta Martiri di Sebaste. Questo luogo di raccoglimento e di preghiera, nacque dalla trasformazione di un’antica cisterna di epoca greca, poi ingrandita per realizzare questa piccola stanza sacra. Oggi questo luogo ha un aspetto diverso dall’origine, poiché ulteriori ampliamenti si sono succeduti nei secoli, ma il registro pittorico che vi si conserva, è testimonianza di quanto importante fosse il nuovo culto cristiano e quanto, le comunità antiche, si impegnassero a rendere decorosi i luoghi di preghiera, specialmente se questi nascevano in prossimità di sepolture importanti, come nel caso del Sepolcro della santa siracusana. La decorazione pittorica di epoca bizantina, databile fra l’VIII e il IX secolo, si sviluppa sull’unica parete originaria dell’oratorio e sulla volta. Nella fascia superiore del muro parietale, suddivisi da colon-
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nine con drappi legati, sono dipinte sei immagini fra i quali si riconoscono i Santi Medici, Cosma e Damiano, una figura femminile e San Marciano, primo vescovo di Siracusa. L’attenzione non può che ricadere sull’imma-
gine della donna, riccamente abbigliata, con lo sguardo ieratico e solenne – tipico della tradizione bizantina – che tiene in mano una corona. Una grande aureola dorata e gemmata sul contorno, le incornicia le spalle e il
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Fig. 4, Siracusa, Catacomba di S. Lucia, decorazione di una tomba con motivi fitomorfi
capo con i capelli raccolti all’indietro, mentre un simbolo con tre punte (forse una lucerna stilizzata), si posa al centro della testa. La figura è stata da sempre identificata
con Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino il quale con l’editto del 313 diede libertà di culto ai Cristiani. Alla donna la Chiesa per tradizione attribuisce anche il
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merito del ritrovamento della Vera Croce di Gesù, motivo per cui ella è spesso rappresentata nelle pitture più antiche, specialmente in ambito bizantino e normanno. Dagli studi che si sono effettuati negli ultimi anni, questa ipotesi di cui la paternità è riferita all’archeologo Paolo Orsi, sembrerebbe non essere più tanto certa, poiché sarebbe più probabile l’identificazione con Santa Lucia, data proprio dalla prossimità del luogo della sua sepoltura ed anche dalla vicinanza nella raffigurazione, con il primo vescovo siracusano2. Sulla volta dell’oratorio è presente invece una croce gemmata i cui bracci si intersecano al centro dividendo lo spazio in parti uguali. Fra i bracci della croce sono raffigurati a gruppi di dieci, i Quaranta Martiri di Sebaste e nei clipei alle estremità sono ancora visibili un angelo, la Vergine orante all’interno del clipeo inferiore e in quello centrale la figura del Cristo benedicente3. Proseguendo in senso cronologico questo cammino sotterraneo, è il momento di parlare delle catacombe di Vigna Cassia che sorgono a nord rispetto alle precedenti, su una zona lievemente in declivio dove ha inizio la zona dell’Akradina, nome dato dalla presenza dell’antica necro-
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poli i cui resti sono ancora visibili e segnano marcatamente il tessuto urbano di questa area della città. Nei pressi del complesso catacombale esisteva l’antica chiesa di S. Maria di Gesù, oggi non più esistente e sostituita nel corso del secolo precedente da un moderno complesso a scopo scolastico/educativo. Ciò che rimane, nella cappella dell’Istituto S. Maria è la bella statua marmorea della Vergine col Bambino, un tempo venerata nella precedente chiesa. Queste catacombe in realtà, prendono il nome dal proprietario del vigneto nel cui sottosuolo si sviluppano le cavità che hanno un corpo centrale in forma di croce, affiancati da numerosi ambulacri. L’area fruibile per il visitatore è ben poca cosa rispetto alla grandezza di queste catacombe, ma per fortuna gli scavi archeologici che ebbero inizio nel 1852 e proseguirono fino a tutto il XX secolo, hanno restituito alla vita alcuni loculi con particolari raffigurazioni pittoriche, pregio di questo sito. In alcune delle tombe ad arcosolio sono raffigurati la Vergine con il Bambino, l’orante con il Buon Pastore e Giona divorato dalla
balena4, mentre altre decorazioni di natura fitomorfa interessano alcuni dei loculi mortuari sovrapposti alla parete rocciosa. C’è poi il sito più conosciuto che ingloba le Catacombe di San Giovanni Evangelista, importanti perché rispetto alle altre citate, l’area aperta al pubblico è ben più ampia e il percorso ricco di notevoli testimonianze. Nonostante sia il complesso sotterraneo più recente, perché la sua costruzione risale al IV secolo e gli ampliamenti proseguono fino al V, in queste catacombe sono stati rinvenuti pezzi di grande importanza archeologica. La struttura semplice, è costituita da una galleria principale chiamata Decumanus Maximus e da dieci gallerie definite Cardines che si diramano ad angolo retto. Anche in questa catacomba si trovano i diversi modelli di sepoltura, da quella a forma, ovvero quel sepolcro scavato nel pavimento delle gallerie (per ragioni di spazio o per motivi economici), ai tradizionali loculi alle pareti ed agli arcosoli. La caratteristica del complesso catacombale di San Giovanni Evangelista è data dalla
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Fig. 6, Siracusa, Epigrafe di Euskia, sec. V, Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi
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Fig. 7, Cripta S. Marciano, veduta generale. Foto Giuseppe Mineo
presenza di numerose lapidi con iscrizioni, ancora presenti a sigillo dei loculi, dalle aree in cui convergono alcune gallerie, comunemente dette rotonde e soprattutto per le testimonianze archeologiche di cui accennato in precedenza. E’ in questo luogo che si concretizza l’importanza della convivialità fra vivi e morti, in un continuo rapporto di scambio che mai aveva fine. Queste parole per introdurre uno dei modelli di sepoltura più importanti che sono custoditi in questa por-
zione di sottosuolo aretuseo. Si tratta del Refrigerium, una particolare arca scavata nella roccia e coperta da una lastra che presenta tre fori. È qui, davanti a questo semplice pezzo di pietra, che si svela la forza della vita, della sua continuità, del suo trasformarsi in qualcosa di altro, sconosciuto, ma per i Cristiani qualcosa di serenamente eterno. Come non pensare allora al proprio caro defunto, come non continuare a prendersi cura di lui, versando da quei fori le vivande
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simbolo della vita e della rinascita, latte, miele e vino. Ciascuno di questi elementi riveste un profondo significato nelle culture più antiche ma, con Gesù morto e risorto, essi assumono una valenza maggiore quasi a voler legare indissolubilmente l’anima di chi ha lasciato la vita terrena, alla bellezza dell’eternità. Quelle che dagli archeologi sono state definite rotonde, hanno restituito alla città manufatti antichi, per certi aspetti molto preziosi. Il primo di questi reperti venne portato alla luce dall’archeologo Saverio Cavallari durante una campagna di scavi nel 1872. Si tratta di uno dei sarcofagi più importanti del mondo antico, quello detto di Adelfia, moglie del conte Valerio, raffigurati all’interno di una conchiglia nella parte centrale e circondati su doppio registro da eleganti figure ed elementi decorativi. Fra le immagini presenti è anche la scena di una Natività, probabilmente la più antica raffigurazione del presepe. Questo sarcofago si trova oggi esposto presso il Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi, insieme ad un secondo reperto che, per i siracusani in particolar modo, riveste un’importanza
fondamentale. Si tratta di una tavoletta in pietra con incisa un’iscrizione. Questa piccola lapide funeraria del IV secolo - conosciuta come l’Epigrafe di Euskia - fu rinvenuta da Paolo Orsi nel 1894, nella rotonda chiamata di Eusebio o della Santa Ampolla e cita chiaramente nell’elogio funebre la data della “festa” di santa Lucia, ossia il dies natalis della Santa, come giorno della morte della donna alla quale l’elogio è dedicato. L’ultimo luogo sotterraneo, in stretta connessione con quest’area catacombale di cui abbiamo parlato, è la Cripta di San Marciano, scavata nella roccia e sorta sul luogo dove, secondo la tradizione, trovò sepoltura il santo vescovo. Lo spazio cultuale è a pianta di croce greca, con possenti pilastri che lo definiscono e un piccolo altare in pietra. Alle spalle di quest’ultimo sulla parete rocciosa, tracce di affreschi testimoniano l’importanza dell’area sacra evidenziando ancora una volta la profonda devozione alla martire siracusana Lucia, raffigurata in stile bizantino con la croce a doppia traversa in una mano. Quest’elemento ha permesso di datare l’affresco alla seconda metà del XII secolo, poiché è nel 1168 che il papa Alessandro III concesse questo simbolo, come insegna vescovile a Riccardo Palmieri alla guida della comunità siracusana5.
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1 R. Pirro, Sicilia Sacra, Ed. tertia emendata et continuatione aucta et studio A. Mongitorii, vol. I, Palermo 1733. 2 G. Arcidiacono, La più antica immagine di Santa Lucia a Siracusa? Il dibattito critico sulla decorazione dell’oratorio dei Quaranta Martiri: nuovi aggiornamenti, in Santa Lucia e la catacomba che le è dedicata, Quaderni della Deputazione, vol. 3, Edizioni Epsil, Floridia (SR) 2015. 3 M. Sgarlata, Dalla catacomba ai loca sancta: la storia archeologica di Lucia, in Santa Lucia e la catacomba che le è dedicata, Quaderni della Deputazione, vol. 3, Edizioni Epsil, Floridia (SR) 2015. 4 C. Morrone, Siracusa 27 secoli di storia, Alfa Edizioni, Siracusa 1991. 5 B. L. R., Santa Lucia, scheda 15, in AA.VV., Santa Lucia e i dipinti aretusei, Quaderni della Deputazione, vol. 4, Edizioni Epsil, Floridia (SR) 2016.
Napoli. Catacombe di San Gennaro., Vestibolo superiore, visto dall'ingresso.
napoli sotterranea le catacombe di san gennaro Peppe Guida
NAPOLI. Alle Catacombe di San Gennaro, si accede da via Capodimonte. Sono le più vaste del sud Italia, si trovano in uno dei quartieri più caratteristici di Napoli, il rione Sanità. Rappresentano un riferimento importante per la storia della città, fortemente intrecciata con quella del suo santo protettore. Le spoglie di San Gennaro, furono traslate in queste catacombe nel V secolo, d.C. Da allora, questo luogo di sepoltura cimiteriale, fuori le mura della città, diventò meta di pellegrinaggio fino alla fine del IX secolo. Dimenticate nei secoli successivi, sono state riscoperte in tempi recenti. Arte e storia. Le Catacombe di San Gennaro si compongono di due livelli non sovrapposti. Il nucleo originario, vestibolo
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Le più vaste del Sud Italia sono intrecciate alla storia del santo protettore
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Napoli. Catacombe di San Gennaro., Ambulacro inferiore.
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Napoli. Catacombe di San Gennaro., reportage fotografico Peppe Guida fondatore della pagina fb Conosciamo Napoli e la Campania
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Vestibolo superiore verso l'ingresso, reportage fotografico Peppe Guida
superiore, risale a un lungo periodo tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. Dal cosiddetto "vestibolo inferiore" nei secoli successivi si svilupparono gli ambulacri della catacomba inferiore, secondo uno schema di scavo ampio e orizzontale. La catacomba superiore, originata da un antico sepolcro detto "vestibolo superiore", noto per gli affreschi della volta, fine del II secolo e per la piccola "cripta dei vescovi"
ubicata presso la tomba di San Gennaro dove furono sepolti alcuni dei primi Vescovi napoletani, mentre la maestosa "Basilica Maior" è frutto di un'ampia trasformazione dei vicini ambienti realizzata nel sec. V, quando furono traslate le spoglie del santo. Tra gli affreschi, il pavone, simbolo di morte, risurrezione e vita eterna, esprime gli attributi di Cristo: regalità , gloria e immortalità .
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Basilica di Superga reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
le tombe reali dei savoia da superga al pantheon Sara Foti Sciavaliere
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Itinerario tra i luoghi di sepoltura di principi e regine
Storie l’uomo e il territorio
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a Cripta Reale, costruita sotto la Basilica di Superga, è il tradizionale luogo di sepoltura dei membri di Casa Savoia, con le sole eccezione di alcuni tra loro, che furono re o regine d’Italia e il cui luogo d’inumazione è invece il Pantheon di Roma. Cripta Reale di Superga La Cripta dei Savoia è stata realizzata nei sotterranei della Basilica di Superga, sull’omonimo colle a nord-est di Torino per volere del Re Vittorio Amedeo III, ma questo era un desiderio già del nonno, Vittorio Amedeo II. Il progetto fu affidato al nipote del ben noto Filippo Juvarra, l’architetto Francesco Martinez e fu compiuto in quattro
anni a partire dal 1774. Alla cripta si accede dal fianco esterno sinistro della Basilica, e una scalinata in marmo conduce al corridoio del mausoleo con un impianto a croce latina allungata e ospitante sessantadue sepolture di Casa Savoia. Alla fine dello scalone - quasi a custodire le tombe è posta la scultura in marmo di Carrara dell’Arcangelo Michele in atto di sconfiggere il demonio. Superato lo scalone, percorrendo il breve corridoio, si accede quindi alla Cripta. L’interno del mausoleo, in stile barocco, è riccamente decorato da stucchi e sculture monumentali. Abbondano, in tutta la struttura,
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Basilica di Superga reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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simboli e riferimenti magici, alchemici ed esoterici. I pavimenti e i rivestimenti sono in colori vivaci (in maggioranza nero, bianco e rosso) e sono presenti marmi verdi di Susa, alabastro di Busca, cornici in marmo di Valdieried oro sulle volte stuccate. Lungo le pareti della Cripta sono presenti importanti monumenti funebri in memoria di celebri personaggi di Casa Savoia.
La Cripta Reale ospita, di fatto, al centro il Sarcofago dei Re, monumento funebre riservato alle spoglie dell’ultimo Re di Sardegna, mentre nei due bracci laterali si possono ammirare la Sala degli Infanti e la Sala delle Regine. Nel braccio sinistro si può osservare il monumento funebre dedicato a Vittorio Amedeo II, fondatore della
Basilica di Superga e Duca di Savoia, che otterrà il titolo di “Re di Sardegna”, mentre a breve distanza si trova il monumenti del principe Ferdinando di Savoia, Duca di Genova e padre della Prima Regina d’Italia, Margherita. Lungo il braccio destro possiamo notare la scultura commemorativa dedicata a Carlo Emanuele III, secondo Re di Sardegna, con il bassorilievo che rappresenta la battaglia di Guastalla del 1734. Ci spostiamo nella cosiddetta Sala dei Re – al centro della pianta a croce – dove c’è presente il sarcofago più grande, quello di Carlo Alberto di Savoia. La tradizione voleva che, alla morte di ogni sovrano, egli venisse collocato al centro della cripta per poi, alla morte del successore, essere spostato nei loculi laterali e lasciargli il posto centrale. Carlo Alberto, però, non fu mai spostato da lì, poiché i suoi successori divennero re d’Italia e vennero perciò sepolti nel Pantheon di Roma. Attorno al sarcofago centrale sono disposte, lungo le pareti, quattro nicchie in cui sono collocate altrettante statue in marmo candido, su fondo nero, – opere di Ignazio e Filippo Collino – raffiguranti le allegorie della Fede – che ha fra le mani la croce ed il calice e che ricorda le statue poste ai lati della chiesa della Gran
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Basilica di Superga reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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disce il corpo di Carlo Alberto, famoso per aver concesso nel 1848 lo “Statuto Albertino”, che trasformò il Regno di Sardegna in monarchia costituzionale. Il sarcofago, su disegno dell’architetto Martinez, è stato realizzato in onice di Busca, con quattro puttini in marmo bianco su due lati, opera dei fratelli Collino. Dal sarcofago centrale partono poi i quattro bracci della pianta a croce: all’estremità del braccio corto, cioè alle spalle del sarcofago di Carlo Alberto, è posto l’Altare della Pietà, mentre nel braccio di destra si
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Storie l’uomo e il territorio
Madre di Dio a Torino – , la Carità, la Clemenza e la Scienza – che tiene in mano un triangolo con il vertice rivolto verso il basso, appoggiato sopra una sfera –. Vicino alle statue, sempre nella stessa sala, sono presenti i loculi con i resti di Vittorio Emanuele I, Vittorio Amedeo III, Maria Teresa d'Asburgo-Este e Maria Antonietta di Borbone-Spagna, ed i cenotafi di Carlo Emanuele IV (sepolto a Roma) e di Carlo Felice (inumato, invece, nell’abbazia reale di Altacomba, in Francia). Dal 1849, dunque, il Sarcofago dei Re custo-
reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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trova la cosiddetta “Seconda Sala” – con il monumento funebre a Carlo Emanuele III –, dalla quale una porta conduce alla “Sala delle Regine”. Dalla parte opposta, nel braccio di sinistra, c'è la “Quarta Sala”, dov’è presente il monumento dedicato al primo re di Sardegna, Vittorio Amedeo II, su cui siedono le allegorie della Fecondità con in mano la cornucopia, e della Giustizia, che stringe il Fascio littorio, e ancora sulla sommità troneggia un angelo con un braccio sollevato che
sostiene un medaglione con l'effigie del defunto. Dalla quarta sala si apre poi una porta che conduce alla “Sala degli Infanti”. Era destinata a ospitare le salme dei principi sabaudi morti in tenera età. Attualmente sono conservati i resti di 14 bambini e 9 adulti, tra cui la principessa Maria Clotilde di Savoia, la “Santa di Moncalieri”, donna profondamente devota e moglie di Gerolamo Bonaparte, sepolto accanto a lei. Invece, la Sale delle Regine accogli i corpi delle
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sovrane sabaude ed è abbellita con diverse opere scultoree in marmo bianco. Di particolare interesse è il monumento funebre di Maria Teresa di Toscana–Asburgo, moglie di Carlo Alberto, realizzato da Sante Varni come personificazione della Carità. Poco distante si può ammirare il monumento funebre che ritrae la Regina Maria Adelaide d’Asburgo, prima moglie di Re Vittorio Emanuele II: la donna, indebolita da numerose gravidanze, morì a soli 33 anni di tifo e benché
Baisilica di Superga reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
si può fare a meno di ricordare una sinistra e misteriosa vicenda: molti infatti non sanno alcuni di queste coronate personalità sono state al centro di una profezia annunciata dal santo sacerdote di Valdocco, fondatore dei Salesiani, Don Bosco, il quale nel dicembre del 1854, mentre in Parlamento si discuteva la legge di soppressione degli Ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni, fece dei sogni destinati a scuotere le sorti famiglia reale: il santo informò il Re che ci sarebbe stati “grandi funerali a corte” e lo invitava Profezie di morte su Casa a schivare i castighi di Dio impedendo l’approvazione di Savoia Visitando questo luogo non quella legge, ma Vittorio moglie del Re d’Italia, non divenne mai Regina, perché scomparsa prima del 1861. Per concludere, osserviamo il monumento funebre di Maria Vittoria dal Pozzo, moglie del Primo Duca d’Aosta, Amedeo Ferdinando, Sovrano di Spagna: Maria Vittoria si dedicò molto al prossimo, ma soprattutto la sua attenzione fu per le donne più povere dell’epoca, le lavandaie che, alla sua morte, inviarono corone di fiori di seta realizzate con le loro mani, ancora oggi conservate nella teca.
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Emanuele II non diede ascolto al monito e a breve quanto preannunciato iniziò fatalmente ad avverarsi. È in corso la presentazione del disegno di legge ad uno dei rami del Parlamento, quando si diffonde la notizia di un’improvvisa malattia che ha colpito Maria Teresa, la madre del Re Vittorio Emanuele II, e sette giorni dopo, a soli 54 anni di età, la Regina Madre muore; mentre ritornano dai funerali la moglie del Re, Maria Adelaide, che ha partorito da appena otto giorni, ha un grave malore e muore a soli trentatré anni. E non finisce qui: quella stessa sera, il fratello del Re, Ferdinando, duca di Genova, rice-
Roma, Pantheon reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
un suo opuscolo, dove rifacendosi ai suoi sogni e alle sue consuete intuizioni, scriveva testualmente – affinché non firmasse quella legge: “la famiglia di chi ruba a Dio è tribolata e non giunge alla quarta generazione”. Un avvertimento duro e inquietante, che trova corrispondenza nei fatti, nella storia della famiglia Savoia. Di fatto, Vittorio Emanuele II muore a soli 58 anni, pare di malaria; il suo primo successore, Umberto I, muore cinquantaseienne a Monza, Inoltre si trova un ammoni- sotto i colpi di pistola dell’amento di Don Bosco a Re narchico Bresci; il secondo Vittorio Emanuele anche in successore, Vittorio Ema-
nuele III, scappa di notte, di nascosto, dal Quirinale, l'8 settembre del 1943 e tre anni dopo sarà costretto ad abdicare; infine, il terzo successore, Umberto II, fu un re “provvisorio”, per meno di un mese e, perduto il referendum popolare, deve accettare un esilio senza ritorno. E così alla “quarta generazione”, come scriveva don Bosco, i Savoia non sono giunti. Tombe dei sovrani d’Italia al Pantheon Nel gennaio del 1878, in occasione della morte del primo Re d’Italia Vittorio
Storie l’uomo e il territorio
ve il sacramento dei morenti e muore una ventina di giorni dopo, anche lui a 33 anni. Nonostante il verificarsi di tutte le previsioni di Don Bosco, il Re sarà irremovibile nel suo intento lasciando procedere il percorso di legiferazione sotto accusa, così a un passo dall'approvazione, si verifica una nuova sconcertante morte nella famiglia reale: muore il piccolo Vittorio Emanuele Leopoldo, il figlio più giovane del Re.
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Roma, Pantheon reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
C’è una curiosità che riguarda anche le sepolture dei Reali al Pantheon, pure questa parrebbe poco nota. In piazza della Rotonda, dove si erge l’augusto tempio, si trova una targa, murata nel palazzo accanto all’Albergo del Sole, che racconta dell'intervento degli Argentini per risolvere un problema che interessò a lungo il Comune di Roma, ossia, per rispetto ai Reali sepolti nel Pantheon, l’Amministrazione civica cercò in vario modo una soluzione per mantenere intorno alla chiesa una zona di rispettoso silenzio, con una serie di vani tentativi, finché non intervenne il governo di Buenos Aires che, bel 1906, decise di donare alla città di Roma il legno necessario a pavimentare tutta la piazza davanti al Pantheon: gli emigranti argentini non solo regalarono a Roma il legno per la pavimenta-
Storie l’uomo e il territorio
Emanuele II, il Pantheon fu scelto quale Sacrario delle salme dei sovrani italiani. Attualmente accoglie le spoglie mortali di Re Vittorio Emanuele II – detto il “re galantuomo” –, di Re Umberto I assassinato a Monza nel 1900 e della sua consorte, la Regina Margherita di Savoia. Qui sono destinate il loro estremo asilo anche le salme dei Reali d’Italia ancora sepolti in esilio: Vittorio Emanuele III, La Regina Elena, Re Umberto II e la Regina Maria Josè, seppure non si sono spente ad oggi le polemiche riguardo a questa possibilità per i resti di Vittorio Emanuele III e di Umberto II a causa del comportamento addebitato ai Savoia nel periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale e nel corso del secondo conflitto.
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zione, il quebracho, ma si occuparono anche ne e quindi il silenzio il silenzio voluto in dell’installazione delle assi e della loro manu- prossimità al sacrario reale, almeno fino al tenzione, garantendo anche la manutenzio- 1950, data in cui il legno fu rimosso.
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Foto di Marion Wellmann da Pixabay
la memoria e l’assenZa rime dal dolore Giusy Gatti Perlangeli
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”
i Luoghi della poesia
I luoghi della poesia
I. Temo lo scorrere di un tempo crudele che non consola ma infierisce su un dolore che non si attenua
VII.
Temo le foto che sbiadiscono i ricordi che sfumano sotterrati da immagini nuove e meno care
Vai se devi andare Se non puoi restare Se il tuo tempo è finito
Temo il tempo che mi strappa i volti e le voci
Non trasformerò Questo tempo prezioso In una trappola di dolore
E mi lascia in una prigione creata dalle sbarre della mia solitudine di figlia
Se devi andare, vai
Vai se devi andare Pagherò la tua serenità Col vuoto Che lascerai Dentro di me
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V. Vorrei accarezzare le tue rughe Segnarle con la punta dell’indice Una ad una Vorrei contarle Come gli anelli di un tronco reciso Ogni anello Un anno di vita Ogni ruga Una gioia o un dolore Quelle accanto agli occhi Sono nate perché mi hai guardato E non hai smesso mai Quelle accanto alla bocca Perché mi hai sorriso E non hai smesso mai Quelle sul collo Perché ti sei piegato verso di me Per ascoltarmi Per sorreggermi Per sentirmi Quelle sulle mani Perché hanno stretto le mie E non hanno smesso mai Fino all’ultimo respiro Vorrei accarezzare le tue rughe Segnarle con la punta dell’indice Una ad una Nei solchi del tuo viso Si leggeva la tua vita. E la mia.
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LUOGhI DEL SAPERE
#ladevotalettrice | le recensioni di lucia accoto nel viaggio al centro di un millennial di dario gioè
DARIO GIOè Nel viaggio al centro di un Millennial Aoidos Editore 2020 ISBN 978-88-945422-5-7 pp.115 € 11,50
#recensione #luciaaccoto #recensore #giornalista #libri #ladevotalettrice
Ricominciare. Il verbo ha la bellezza della speranza, del nuovo, di ciò che si può fare azzerando tutto. Si comincia daccapo per scelta, per necessità, perché costretti. Un altro punto e a capo, un’altra partenza. Certo, il passato c’è, resta e serve. È importante per evitare gli stessi errori, per mettere in chiaro la propria esperienza. Non è indispensabile essere agè per averne una, anche i giovani hanno il loro crocevia di delusioni, di successi, di felicità, di fallimenti. E non si bollano per età anagrafica. La vita scorre lungo la spina dorsale, sta a noi tenerla dritta ogni giorno. La demenza di un sistema burocrate, nepotico, marchettaro e cieco, coagula le aspettative di un futuro professionale al centro dello stomaco. Perché è lì che pesa facendoti venire l’ulcera. Il lavoro oggi è incerto, precario, inesistente. È il buio più totale. E per chi ce l’ha è come vivere sulle montagne russe, si sale e si scende senza controllo soprattutto quando il tuo posto è nelle mani di qualcuno incompetente. Ci vuole resilienza. Se sei bravo e coraggioso hai bisogno anche di lungimiranza e di fortuna. Apri il paracadute e ti butti in nuove esperienze. Ti lanci per ricominciare, quello che fanno i millennials. Nel Viaggio al Centro di un Millennial di Dario Gioè cammini, precipiti e voli nel mondo dei giovani del nuovo Millennio. Quelli come Dario Gioè – autore e protagonista del libro – hanno titoli di studio, master, dottorati, permanenze all’estero, ma che sono stati schiacciati da un sistema, accademico prima e professionale poi, miope. Un sistema che promuove pochi, limitante nelle idee e nelle innovazioni, antico nella mentalità, stantio nei comportamenti, fiacco per l’autostima. Bisogna fare a pugni con se stessi, mettersi in discussione, sapere bene quello che non si vuole accettare, per cambiare. Quello che ha fatto Gioè. Ha cambiato mentalità per non finire nelle sabbie mobili. “Il vero lavoro è proprio cambiare l’idea di lavoro”. Genuino lo stile dell’autore. Va al nocciolo della questione senza perdersi nelle nuvole. Il suo è un racconto asciutto, una sorta di confessione in cui ogni parola ha la misura di ciò che è stato e di quello che doveva essere. Imporsi di cambiare, a volte, è un imperativo a cui non possiamo sottrarci per stare bene, meglio. Per essere felici.
Per l’invio di libri da recensire scrivere a redazione@arteeluoghi.it
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la foresta invisibile #ladevotalettrice intens0 un giorno il libro in più,di storia mariadielisabetta un fallimento giudici
MARIA ELISABETTA GIUDICI La foresta invisibile Castelvecchi Editore 2020 pp.216 ISBN 9788832828986 €20,50
Non ci sono alternative. Non puoi sbagliare quando un libro è quello giusto. Non c’è finzione, lo senti e basta. Ci sono libri che hanno tutto e riescono a trasmettere più di quello che si legge. Sono autentici nel racconto perché la storia cammina sulle pagine con una disinvoltura creativa che spiazza. Il lettore non può farne a meno, quei libri se li porta nel cuore. Per sempre. Capita anche che si senta piccolo e colpito dalle zaffate di emozioni che arrivano in pieno. A me succede quando storia e stile narrativo sono come cattedrali. Abbracci bellezza con gli occhi sapendo che è rara, esattamente come il libro che hai in mano. Quei libri, quelli giusti, non ti deludono. Non ci sono alternative, sono bellissimi. E ti consideri fortunato per aver fatto parte di quel mondo con lo sguardo che poi porti con te nell’anima. Ricorderai frasi, ambientazioni, luoghi, il fascino di città senza tempo ed i turbamenti dei personaggi. I libri giusti non ti tradiranno. Saranno i tuoi e ti auguri che possano diventare anche quelli di altri lettori. Il romanzo La foresta invisibile di Maria Elisabetta Giudici ti proietta in una storia in cui entri subito a gamba tesa, già tramortito dagli eventi che crescono come le onde in tempesta. E il libro è una tempesta emotiva di fatti che si concatenano tra loro fino ad intrecciare storie, nomi, terre, vita, morte. Tutto ruota attorno ad una preziosissima collana di corallo. È un vortice di cospirazioni, di amore, di mistero, di fratellanza, di generazioni che si trascinano verso un obiettivo, ognuno con il suo. Dalla Sicilia, alla Puglia, dalla Francia alla Russia, per un giro di vite che si chiude con l’inaspettato ed il prevedibile di una storia che lascia senza fiato per il racconto e la scrittura. Ogni vita, quella dei protagonisti e quella delle figure secondarie, è legata alle altre come i grani di un rosario. In fondo, tutte le collane non sarebbero tali se non si chiudessero come mani strette in segno di fiducia, di patto. Bello, bello, lo stile di Maria Elisabetta Giudici. È bella anche la storia, bisogna dirlo. Quando è giusto è necessario scriverlo. Non ci rimane che la verità di dire le cose così come stanno, altrimenti si finirebbe in una foresta invisibile. Betta Giudici #recensione #luciaaccoto #recensore #giornalista #libri #libridaleggere #daleggere #libribelli
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dalsalentocafé | le recensioni di stefano cambò
LUOGhI DEL SAPERE
il pianto dell’elicriso le poesie di assuntina marZotta
ASSUNTINA MARzOTTA Il pianto dell’elicriso Il Raggio Verde 2020 ISBN 9788899679859 pp.64 € 15
Raccontare un libro non è semplice, specie se il libro in questione è un'antologia di poesie che tocca l'animo e il cuore di chi la legge. Bisogna scavare dentro se stessi per cercare la chiave di svolta, soprattutto quando nei versi ognuno può trovare o addirittura ritrovare sé stesso, attraverso un viaggio interiore che scende in profondità e lascia il segno. Perché con Il pianto dell'elicrisio (edito da Il Raggio Verde), scritto dalla bravissima Assuntina Marzotta, si ha proprio questa mistica sensazione. D'altronde l'autrice ci ha abituato bene, tenendo in considerazione che la suddetta raccolta si è aggiudicata nel 2019 il prestigioso Premio Vitruvio e nel 2020 il Premio della Critica al Concorso Letterario Nazionale Città di Grosseto "Amori sui Generis". I temi che compongono il libro sono davvero tanti e spesso analizzati in maniera spigolosa e per nulla scontata. Si passa dall'amore e la speranza alla disillusione e la solitudine. Non mancano le poesie sociali che studiano il rapporto tra l'uomo e la fede, in un contesto legato all'attualità e alla realtà che viviamo quotidianamente. Struggenti i passi che riguardano i ricordi e gli affetti verso un mondo incontaminato, quasi ingenuo per non dire fanciullesco, in quella che sembra un'esperienza del tutto personale e intima nel voler ripescare con la mente un tempo lontano e a tratti nostalgico. Perché Il pianto dell'elicrisio è proprio questo… Un tuffo nei sentimenti e nelle sensazioni che popolano il nostro animo, attraverso le poesie che l'autrice compone sul foglio come se fossero quasi delle pennellate di colore su una tela bianca.
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uno sguardo sui numeri dell’epidemia Stefano Quarta
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i Luoghi della parola
In meno di nove mesi sono morte quasi 45000 persone. Ecco perché il Covid fa paura
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na materia strettamente legata all’economia è la statistica. Non a caso già al primo anno di un corso di laurea c’è un esame di statistica. Il perché è presto detto: la teoria economica deve essere in qualche modo verificata. In questo articolo voglio affrontare il tema più caldo, l’epidemia! Ovviamente non dal punto di vista medico, bensì statistico. Siamo ormai abituati ad essere giornalmente informati sui nuovi contagi, ma quello che
non si vede quasi mai è un approfondimento della situazione attuale veramente baso sui dati. Col DPCM del 3 novembre abbiamo iniziato a “vedere” l’Italia in base ai colori delle regioni. Tuttavia quei colori, non solo sono spesso criticati, ma sono anche frutto di valutazioni a volte soggettive, o quantomeno qualitative. Iniziamo col vedere i famosi 21 indicatori che il CTS (Comitato Tecnico Scientifico) adotta ormai da mesi:
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1.Numero di casi sintomatici notificati per mese in cui è indicata la data inizio dei sintomi, sul totale di casi sintomatici notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo. 2.Numero di casi notificati per mese con storia di ricovero in ospedale, in reparti diversi dalla terapia intensiva, in cui è indicata la data di ricovero, sul totale di casi con storia di ricovero in ospedale, in reparti diversi dalla terapia intensiva, notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo. 3.Numero di casi notificati per mese con storia di trasferimento/ricovero in reparto di terapia intensiva in cui è indicata la data di trasferimento o ricovero in terapia intensiva, sul totale di casi con storia di trasferimento/ricovero in terapia intensiva notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo. 4.Numero di casi notificati per mese in cui è riportato il comune di domicilio o residenza, sul totale di casi notificati al sistema di sorveglianza nello stesso periodo. 5.Numero di checklist somministrate settimanalmente a strutture residenziali sociosanitarie (opzionale). 6.Numero di strutture residenziali sociosanitarie rispondenti alla checklist settimanalmente con almeno una criticità riscontrata (opzionale). 7.Percentuale di tamponi positivi, escludendo per quanto possibile tutte le attività di screening e il “re-testing” degli stessi soggetti, complessivamente e per macro-setting (territoriale, pronto soccorso/ospedale, altro) per mese. 8.Tempo tra data inizio sintomi e data di diagnosi. 9.Tempo tra data inizio sintomi e data di isolamento (opzionale). 10.Numero, tipologia di figure professionali e
tempo, sul totale delle persone dedicate in ciascun servizio territoriale al contact-tracing. 11.Numero, tipologia di figure professionali e tempo, sul totale di persone dedicate in ciascun servizio territoriale alle attività di prelievo/invio ai laboratori di riferimento e monitoraggio dei contatti stretti e dei casi posti rispettivamente in quarantena e isolamento. 12.Numero di casi confermati di infezione nella regione per cui sia stata effettuata regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti, sul totale di nuovi casi di infezione confermati. 13.Numero di casi riportati alla Protezione civile negli ultimi 14 giorni. 14.Rt calcolato sulla base della sorveglianza integrata ISS (si utilizzeranno due indicatori, basati su data inizio sintomi e data di ospedalizzazione). 15.Numero di casi riportati alla sorveglianza sentinella Covid-net per settimana (opzionale). 16.Numero di casi per data diagnosi e per data inizio sintomi riportati alla sorveglianza integrata Covid per giorno. 17.Numero di nuovi focolai di trasmissione (2 o più casi epidemiologicamente collegati tra loro o un aumento inatteso nel numero di casi in un tempo e luogo definito). 18.Numero di nuovi casi di infezione confermata da SARS-CoV-2 per regione non associati a catene di trasmissione note. 19.Numero di accessi al pronto soccorso con classificazione ICD-9 compatibile con quadri sindromici riconducibili a Covid-19 (opzionale) 20.Tasso di occupazione dei posti letto totali di terapia intensiva (codice 49) per pazienti Covid. 21.Tasso di occupazione dei posti letto totali di area medica per pazienti Covid.
Se avete scorso velocemente la lista, leggendo qua e là, siete più che giustificati. Infatti, iniziamo col dire che in statistica “di più, non è necessariamente meglio”. Esiste la cosiddetta rilevanza delle variabili, per cui una variabile (o indicatore) può essere usato solo se aggiunge informazioni in maniera rilevante. Esistono dei test che ne calcolano l’impatto, giungendo ad una sorta di voto, utile a capire se quella variabile vada inserita oppure no. Nel nostro caso, esistono 2 problemi principali:
I. Troppi indicatori possono compensarsi tra loro. Cioè, è difficile che una regione abbia tutti indicatori negativi. Ciò che accade è che ogni regione ha alcuni indicatori in cui “va bene” e altri in cui “è critica”. In questi casi si finisce sempre per considerare solo gli indicatori veramente rilevanti. Ma allora perché avere così tanti indicatori? II. …perché in una situazione non critica, come quella di quest’estate, si ha tutto il tempo per analizzare ogni aspetto del problema. Si può vedere l’efficacia e l’efficienza del
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i Luoghi della parola
Tabella 1 Morti per milione di abitanti.
tracciamento dei contatti. Si può badare a quanto personale sia impiegato in ogni attività. Ma sotto pressione (cioè da settembre) occorre essere veloci. È accettabile perdere un po’ di precisione, se in cambio il giudizio è veloce e sempre aggiornato. Questi indicatori, invece, si riferiscono a dati consolidati…in altre parole vecchi. Non può esserci un aggiornamento settimanale dei colori delle regioni se si usano dati mensili. È come voler sparare ad una mosca. In fin dei conti perché attuare tutte queste misure restrittive? Cioè, perché il Covid fa tanta paura? Semplicemente perché ha un tasso di mortalità non così basso. Perciò il dato più importante da considerare è sicuramente il numero di morti. Ovviamente, qualunque dato va sempre rapportato alla popolazione, perché è chiaro che in Lombardia ci saranno sempre più casi che in Valle d’Aosta. Considerando il numero di morti per
Tabella 2 Tasso di occupazione dei posti letto (dati Agenas, aggiornati al 13/11/2020).
milione di abitanti abbiamo già l’impatto dell’epidemia sul territorio. Questo perché se la stratificazione demografica è tutto sommato simile nelle varie regioni, l’impatto della malattia sarà più o meno lo stesso ovunque. Quindi il contagio può produrre sintomi oppure no, può avvenire in famiglia oppure in luoghi pubblici, può essere preventivamente rintracciato dalla ASL oppure essere scoperto “per caso”, ma alla fine il tasso di mortalità della malattia è fisso. Quindi più morti equivalgono tendenzialmente a più contagi. Questo è il rasoio di Occam che, tra più ipotesi per la risoluzione di un problema, esorta a scegliere, a parità di risultati, quella più semplice. E allora ecco in Tabella 1 il numero dei morti medi per regione. Tutte le medie, in questo articolo, sono calcolate sui giorni dal 07/11/2020 al 13/11/2020. I dati sulla mortalità ci restituiscono un quadro solo parzialmente compatibile con le
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decisioni prese. Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia e Provincia di Bolzano non potevano che essere “rosse”. Così come le preoccupazioni per Liguria e Toscana non erano infondate. Ma vediamo che le due regioni da subito “arancioni”, Puglia e Sicilia, in realtà si trovano in una condizione migliore rispetto ad altre regioni considerate tuttora “gialle”. Il caso della Calabria evidenzia, invece, la componente qualitativa del giudizio del CTS e del governo. Pur avendo un bassissimo numero di morti, è da subito inquadrata come regione “rossa”. Il motivo risiede nella preoccupazione sulla capacità del sistema sanitario calabrese di affrontare un inasprirsi dell’epidemia. In altre parole si tratta di una decisione precauzionale, preventiva (fondata anche sulle dichiarazioni recenti di alcuni
suoi responsabili). Considerazioni analoghe sono state fatte per altre regioni, come Puglia e Sicilia. Ma rimanendo sui numeri, proviamo ad ampliare lo sguardo verso il tasso di occupazione delle terapie intensive e sub-intensive (malattie infettive, pneumologia e medicina generale; Tabella 2). Anche in questo caso la classifica delle regioni è abbastanza simile, al netto di qualche scalata di posizioni, come per l’Umbria, che presenta una situazione molto critica. Si consideri che una terapia intensiva piena al 40% si traduce in una notevole difficoltà operativa. Oltre il 50% la situazione è già critica. La situazione negli ospedali, però, dipende non solo dalla diffusione del virus, ma anche dal numero di posti disponibili (Figura 1).
Figura 1 Numero di posti letto (grafico disponibile su agenas.gov.it).
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Tabella 3 Contagi, Rt e tamponi (media dal 7 al 13 novembre 2020).
Vediamo ora, in Tabella 3, la media dei contagi giornalieri, il famoso Rt, i tamponi fatti e la relativa percentuale di positività. Innanzitutto occorre spiegare l’importanza di Rt. Mentre tutti gli altri indicatori mostrano una fotografia in un determinato momento (in questo caso gli ultimi 7 giorni), Rt mostra l’accelerazione dell’epidemia. Immaginate di guidare un’automobile. Rt pari a 1 vuol dire mantenere la velocità costante. Rt minore di 1 vuol dire decelerare. Rt maggiore di 1, ovviamente, equivale ad accelerare. Pertanto, maggiore è l’indice Rt, maggiore sarà la crescita dei nuovi casi rispetto ai nuovi casi del periodo precedente. In questa analisi, il confronto è tra i nuovi casi degli ultimi 7 giorni e i nuovi casi dei 7 giorni antecedenti. Vediamo come questo indice restituisca
un’accelerazione, quindi una prospettiva di crescita dei casi, minore in alcune delle regioni “rosse” o “arancioni”. Quindi ci sono regioni in cui l’epidemia ha già avuto la sua esplosione ed ora sta rallentando. Altre regioni si trovano, invece, in una fase più acuta di diffusione del virus. In generale, si noti che l’indice Rt è pressoché sempre maggiore di 1. Infine, vorrei affrontare brevemente il capitolo relativo ai tamponi. Consideriamo l’Umbria e la Lombardia, in cui l’elevato numero di contagi rilevati può essere spiegato dall’elevato numero di tamponi effettuati. Nelle Marche e in Basilicata, invece, potrebbero riscontrarsi pochi contagi perché si fanno pochi tamponi. Come possiamo validare tale conclusione? Grazie alla percentuale di tamponi positivi. Questo dato ci dice con che
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probabilità si può incontrare un positivo nel momento in cui si effettua il tampone. Più alto è il numero di positivi in circolazione, più alta sarà la probabilità di incontrarne uno. Quindi, Umbria e Lombardia effettuano un numero di tamponi pro-capite simile, hanno entrambi molti casi positivi, ma in Lombardia la percentuale di tamponi positivi è molto più alta che in Umbria. Se ne deduce una maggiore diffusione del virus in Lombardia. Allo stesso modo, tra Marche e Basilicata, la prima presenta una situazione decisamente più grave. Abbiamo finora analizzato solo 7 indicatori, contro i 21 utilizzati dal CTS eppure, vedendoli tutti insieme, ne risulta solo una gran confusione. Come detto in apertura, ci sono casi controversi. Il Veneto, ad esempio, ha abba-
stanza nuovi positivi, un Rt alto (quindi la diffusione del virus accelera molto) ed effettua un numero medio di tamponi con un tasso di positività elevato. Tuttavia, negli ospedali ha ancora molti posti letto liberi ed ha una bassa mortalità. Al contrario, in Toscana, nonostante si facciano molti tamponi, la percentuale di tamponi positivi è bassa e l’indice Rt è prossimo all’unità. Tuttavia, qui le terapie intensive sono “piene” e la mortalità è alta. Tornando invece al problema numero II di cui sopra, abbiamo detto che l’utilizzo di dati mensili fa si che le scelte arrivino, per così dire, in ritardo. In Figura 2 possiamo vedere l’andamento dell’indice Rt da inizio settembre ad oggi.
Figura 2 Andamento indice Rt settimanale per l'Italia (linea nera tratteggiata), le 19 regioni e le 2 province autonome (Puglia
È evidente che, al netto di episodici valori estremi (tipici delle regioni molto piccole), tutte le regioni seguono più o meno l’andamento dell’indice Rt riferito all’Italia nel suo complesso (linea nera tratteggiata). In arancione possiamo vedere la Puglia. Cosa ci dice questo grafico? Che in estate viaggiavamo a velocità costante (300-500 casi al giorno), a fine settembre l’epidemia ha iniziato ad acce-
lerare sempre più fino a metà ottobre. Da quel momento, pur accelerando, lo ha fatto con sempre minor vigore. Ricordiamo che valori maggiori di 1 indicano comunque un’accelerazione nei contagi. Se questo trend continuerà, fra un paio di settimane l’indice sarà minore di 1, cioè inizieremo a vedere una decelerazione dei contagi giornalieri. Tuttavia, un ultimo aspetto da considerare è
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l’equilibrio nella diffusione di un’epidemia. Esistono i cosiddetti modelli evolutivi, che nascono in biologia, ma spesso si applicano anche in altri ambiti, come quello economico. Il concetto sottostante questi modelli è che, individuate due (o più) specie, legate ad esempio da un vincolo di predazione (o entrambe predatori delle stesse prede, o l’una preda dell’altra), la numerosità delle due specie ha un valore di equilibrio. Poniamo che su di un’isola ci siano solo volpi e conigli. I conigli mangiano erba, le volpi mangiano i conigli. Se le volpi mangiassero quasi tutti i conigli, in seguito molte volpi morirebbero di fame per carenza di prede. Se invece per una malattia le volpi diminuissero, i conigli avrebbero vita facile e si moltiplicherebbero, aumentando di numero e divenendo una preda più abbondante, quindi più facile da cacciare, facendo si che le volpi ben nutrite riaumentassero. E così via. Esiste cioè un equilibrio tra le due specie. Questo equilibrio è l’ecosistema. Modificando l’ecosistema, si modifica l’equilibrio preesistente. Se ad esempio introducessimo nell’isola un predatore della volpe, queste si ridurrebbero e i conigli aumenterebbero. Bene, noi siamo i conigli; il virus corrisponde alle volpi; mentre mascherine, distanziamento, cure e vaccini sono i nuovi predatori delle volpi. Il decreto del 3 novembre è arrivato in un momento in cui l’indice Rt stava già calando.
Forse senza le misure adottate, avremmo raggiunto un livello stabile di 60 mila contagi al giorno o più. Tuttavia, il nostro obiettivo deve essere quello di rendere il virus il più innocuo possibile. Per questo non potremo fare a meno di nuove cure e vaccini. In futuro questo virus potrebbe far parte del cocktail influenzale stagionale e, con adeguate cure, riusciremo a non preoccuparci più di lui, come già successo per tante malattie del passato. Per il momento, in meno di 9 mesi sono morte quasi 45 mila persone. Secondo i dati Istat più recenti, nel 2017 in Italia sono morte complessivamente 650.614 persone, di cui solo 663 per l’influenza stagionale (a fronte di milioni di contagiati). Questo dato fu ampiamente distorto a marzo, nell’idea di tranquillizzare la gente. È difficile stimare il numero di vittime che raggiungeremo al compimento dell’anno dalla prima vittima Covid però, per fare un confronto, il tumore che nel 2017 ha fatto più vittime è quello della trachea, dei bronchi e dei polmoni con 33.904 vittime; mentre, tutte le malattie del sistema respiratorio contano complessivamente 53.372 vittime. Ancora una volta, prudenza! E siate indulgenti con i tecnici del CTS che, come voi dopo la lettura di questo articolo, avranno sicuramente un mal di testa cronico dovendo trattare ogni giorno questa marea di dati.
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Pan, Palazzo delle Arti Napoli, location della scorsa edizione del festival In basso: i direttori artistici Pietro Pizzimento e Fabio Gargano con la presentatrice Mariasilvia Malvone
accordi @ disaccordi il festival del cortometraggio
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Dal 10 al 21 novembre on line la diciasettesima edizione del festival diretto da Pietro Pizzimento e Fabio Gargano
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iprogettare all’improvviso il festival con il linguaggio del Web è la sfida al cambiamento che le recenti disposizioni governative ci hanno imposto dicendo addio, per quest’anno, alla presenza del pubblico dal vivo!» Con queste parole Pietro Pizzimento art director con Fabio Gargano di “Accordi @ DISACCORDI il Festivl Internazionale del Cortometraggio spiega la nuova e inedita versione esclusivamente on line della diciasettesima edizione. La pandemia con i suoi terribilli numeri ha imposto le restrizioni che sono l’unico modo per contrastare la sua avanzata, ma ancora una volta la tecnologia ci viene in soccorso e, grazie al partenariato sinergico della piattaforma internazionale ‘Festhome’, il festiva consentirà al pubblico, anche se non in presenza, di poter vedere tutti i film brevi, i cortometraggi d’ani-
mazione, i documentari e i making of, per 24 ore a partire dall’orario di messa online del 10 Novembre 2020 e a seguire per dodici giorni. Cambia formula ma non manca all’appuntamento il festival organizzato dall’Associazione Movies Event, con lo sponsor principale ASCI – Scuola di Cinema Napoletana, con la partnership di Film Commission Regione Campania e AMC – Associazione Montaggio Cinematografico e Televisivo e in collaborazione con il Comune di Napoli – Assessorato alla Cultura e al Turismo, con il Centro Sperimentale di Cinematografia, con il Centro Nazionale del Cortometraggio, e con il sostegno della Regione Campania. Anche per questa edizione il Festival vede la partecipazione nelle sue diverse sezioni di 128 film brevi in rappresentanza di 27 nazioni sui 3.721 cortometraggi
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pervenuti al concorso da 116 Paesi. «La nuova sfida che ci attende con il pubblico e con gli addetti ai lavori sarà quella di condividere il linguaggio del film breve, di unire le nazioni, ed intrigare tramite il potenziamento del media Web con cui dal prossimo anno il festival dovrà interagire.» spiega lo stesso Pizzimento» «Il festival, quest’anno si compone di sei sezioni in concorso: cortometraggi di fiction internazionali, nazionali e di registi provenienti dalla regione Campania; documentari brevi, corti d’animazione e making of; panorama di ogni sezione in concorso e per finire la sezione fuori concorso che lo scorso anno ha entusiasmato il pubblico: i ‘Cortissimi’: film brevi da pochi secondi a tre minuti!» ha anticipato Fabio Gargano segnalando inoltre la sezione ‘Quarantine Time’: un’esplosione di creatività narrativa in tempo di crisi. Al vincitore del cortometraggio nazionale e al regista campano vincitore verranno consegnati, in presenza alla riapertura delle sale cinematografiche, rispettivamente il premio di mille Euro messo a disposizione dalla Film Commission
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Regione Campania e un crane cinematografico gentilmente offerto da ASCI, Scuola di Cinema a Napoli nella persona di Luca Cestari. La giuria artistica sarà composta dal montatore Giogiò Franchini, presidente, affiancato dall’attrice Teresa Saponangelo e dal regista Lamberto Lambertini. La giuria tecnica patrocinata da AMC, Associazione Montaggio Cinematografico Televisivo, sarà composta dai montatori Giogiò Franchini, presidente, e da Osvaldo Bargero e Alessandro Giordani e consegnerà il premio per il miglior montaggio. Davvero ricchissimo il programma consultabile sul sito del festival. In anteprima nazionale verrà presentato il cortometraggio di fiction Premio Oscar 2020, ‘The Neighbors’ Window’ di Marshall Curry , il film breve più corto del mondo: ‘Life’ del regista iraniano Mohammad Mohammadian, e il nuovo film breve di Giorgio Diritti ‘Zombie’ con Elena Arvigo e Greta Buttafava ‘evento speciale’ di questa edizione. Nella sezione internazionale si contenderanno il premio oltre a “The Neighbors’ Window” anche ‘Anna‘ di Dekel Berenson, film breve
immagine dell’opera aetistica Premio del festival Accordi@Disaccordi
presentato in concorso, nella sezione cortometraggi, al 72° Festival di Cannes, al Toronto Film Festival e ad altri primari film festival; il conturbante film argentino ‘Y la lluvia También’ di Melchor Tame, presentato quest’anno al BAFICI, principale Film Festival dell’America Latina, un sorprendente ‘Rehac’ di Pierre Ghislain B. il drammatico film brasiliano ‘7 minutes’ di Christian Schneider sul tema della violenza sulle donne, gli spagnoli ‘Emilia’ della regista Cristina Guillen sull’Alzheimer e ‘Ofra & Khalil’ di Andrés Lacasta sulla questione Israeliano-Palestinese e sui rapporti tra popoli. A chiudere la sezione il magico ‘Silent Movie’ di Melo Viana e il film breve di video arte ‘Last Moments’ dei registi americani Knut Hybinette e Megan Ehrhart: appena 17 secondi di puro spettacolo visivo. Da segnalare nella sezione ‘Panorama Internazionale’ il film breve russo presentato quest’anno a Visions du Reel, ‘Shadows of your Childhood’ di Mikhail Gorobchuk, e ‘Uncle Goose Waits For a Phone Call” del regista di Singapore, Kew Lin, presentato in questi giorni in concorso all’Aesthetica Film Festival. A contendersi il premio come miglior cortometraggio nazionale saranno i cortometraggi multi premiati ‘Inverno’ di Giulio Mastromauro, David di Donatello 2020, ‘A Cup of Coffee with Marilyn’, Nastro d’Argento 2020 – miglior cortometraggio di fiction, ‘Le Abiuratrici’ di Antonio De Palo con Valeria Solarino e Claudia Potenza, attrici Corti d’Argento 2020, ‘Quaranta Cavalli’ del regista napoletano Luca Ciriello, presentato nell’ambito della 77.ma Mostra del Cinema di Venezia, ‘Gas Station’ di Olga Torrico, miglior contributo tecnico alla Settimana Internazionale della Critica a Venezia 2020, ‘Maria – A Chent’Annos’ di Giovanni Battista Origo, presentato alla Festa del Cinema di Roma dello scorso anno. Completano la lista ‘Il Ritratto’ del regista Francesco Della Ventura, con Pier Giorgio Bellocchio, opera intrigante di esercitazione registica con la supervisione di Daniele Luchetti svolta nell’ultimo triennio al Centro Sperimentale di Cinematografia il psicoanalitico ‘Specchio’ di Caterina Crescini , tratto da una storia vera e, ‘Il Congedo’ del regista pugliese Edoardo Winspeare.
Nella sezione ‘Panorama Italia’ da segnalare ‘Once in my Life’ di Francesco Colangelo con Giorgio Colangeli, Nino Frassica e Lorenza Indovina e ‘Delitto Naturale’ di Valentina Bertuzzi, con Olivia Magnani, presentato lo scorso anno in concorso alla Festa del Cinema di Roma. Nella sezione di concorso di cortometraggi di registi campani, che si affronteranno anche per assicurarsi un crane cinematografico cor-
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tesemente offerto da ASCI scuola napoletana di cinema, saranno il Premio Globo d’Oro 2020 ‘L’Amore Oltre il Tempo’ di Emanuele Pellecchia, omaggio al Cinema Muto di inizio Novecento, ‘Ragazzi da Paura’ di Maurizio Braucci, frutto di un laboratorio di sceneggiatura tenuto con i ragazzi reclusi nell’istituto penale minorile di Airola (BN), ‘Fame’ di Giuseppe Alessio Nuzzo con Ludovica Nasti,
Massimiliano Rossi e Gigi Savoia; ‘Non è solo un Gioco’ di Guglielmo Lipari con Rosaria De Cicco, Antonella Stefanucci e Fabio Massa sulla ludopatia, ‘Scannasurice’ di Giuseppe Bucci, una piece tratta dall’omonima celebre opera teatrale, scritta da Enzo Moscato e interpretata da Imma Villa. A chiudere la sezione ‘Social’ di Fabrizio Cantalupo con Adele Pandolfi e Fabiana Fazio, ‘Il Bello
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del Cinema? I Popcorn’ di Giulio Gargia tratto dall’omonimo libro scritto da Ignazio Senatore, e ‘Il Pane Quotidiano’ di Danilo Rovani. Nella sezione ‘Panorama Campania’ spiccano : ‘Tragedia Annunciata’ di Fulvio Arrichiello con Ernesto Mahieux, ‘Nisciuno’ di Alessandro Riccardi con Rosalia Porcaro sulle molestie sessuali e ‘Il Giorno 0‘ di Sergio Panariello prodotto dalla Bronx Film di Gaetano Di Vaio e da Open Mind. Molto ricca la sezione di cortometraggi d’animazione in concorso: ben undici! ‘La Grande Onda’ di Francesco Tortorella, con voci dei personaggi interpretate da Antonio Catania, Leo Gullotta, Fortunato Cerlino, un corto animato sulla ‘ndragheta che sta conquistando i principali premi nei festival internazionali di cortometraggi. ‘Loop’ di Marino Guarnieri sarà il principale concorrente della sezione a contendergli il premio. ‘Le Mani Volanti’ di Giovanni Meola e ‘One, Two, Three, Four’ di Fabrizzio Bartolini completano la rosa di corti italiani nella sezione.
Per l’estero saranno presenti ‘Entre Baldosas’ di Nicolas Conte, sulle questioni ambientali e il corto russo ‘Nadezhda’ di Tatyana Churzina, melodramma animato sulla circumnavigazione della Terra avvenuta ad inizi Ottocento. Completano la rosa cortometraggi provenienti da Germania ‘Sugar’ di Ilya Landshut, Iran ‘Abstract Experealism’ di Mahdi Barqzadegan, Spagna ‘Roberto’ di Carmen Córdoba González, Gran Bretagna ‘A Piglet’s Tale’ di Fabrizio Gammardella, Stati Uniti ‘Tango Sparks’ di Maureen Zent. Per la sezione in concorso dei documentari: il film breve ‘Anche gli Uomini hanno Fame’ diretto a sei mani da Francesco Lorusso, Gabriele Licchelli e Andrea Settembrini, presentato in concorso lo scorso anno all’IDFA, principale festival internazionale di documentari, il lavoro ‘Anche i Pesci Piangono’ di Francesco Cabras e Alberto Molinari sulle questioni ambientali, il documentario prodotto dalla Film Commission Regione Campania: “From the Sidelines” di Simona CocozNella foto a destra: la giornalista Ilaria Urbani e i direttori artistici Pietro Pizzimento e Fabio Gargano; il cortometraggio vincitore della 16 edizione, foto del pubblico durante una proiezione. (immagini d’archivio della edizione 2019) A sinistra il regista pugliese Edoardo Winspeare
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za, sulle Universiadi che si sono tenute a Napoli nel 2018, ‘La Scuola nella Foresta’ il crudo reportage della giornalista e documentarista Emanuela Zuccalà, il documentario spagnolo ‘Coming Ashore’ di Santi Palacios e Mikel Konate un flusso di immagini scaraventate, come un atto d’accusa, contro una società silente, incapace di comprendere la tragedia dei migranti, men che meno in grado di affrontarla! A chiudere la sezione ‘La Gente di Napoli’ di Maurizio Iengo e Luciano Ruocco, e ‘Pratomagno’ di Paolo Martino e Gianfranco Bonadies. Da segnalare nella
sezione ‘Panorama Documentari’ il lavoro enciclopedico dei registi Stefano D’antuono e Bruno Ugioli sulle sale cinematografiche torinesi dal titolo ‘Manuale di Storie dei Cinema’. A chiudere il ricco programma di “accordi @ DISACCORDI” - 17ma Edizione, le sezioni fuori concorso “Cortissimi” e “Quarantine Time” : uno sguardo incantato sul mondo del linguaggio brevissimo del Cinema e sulle varietà espressive dei Sette Continenti sul periodo di crisi che stiamo vivendo. Info: www.accordiedisaccordi.it 0815491838
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Villa di Balbianello Foto di Fritz_the_Cat da Pixabay
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dalle tre cime di lavaredo all’etna i mondi italiani di star Wars Stefano Cambò
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Per i luoghi del cinema dalle cime di Lavaredo alle pendici dell’Etna
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el 1977 il geniale regista americano George Lucas diede il via a Star Wars, forse la saga cinematografica più amata e apprezzata dal pubblico. Inizialmente si trattava solo di una trilogia, perché al primo capitolo intitolato Guerre Stellari Episodio IV – Una nuova Speranza, seguirono L’impero colpisce ancora (uscito nel 1980) e Il ritorno dello Jedi (del 1983).
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Dovettero passare ben sedici anni, prima che lo stesso Lucas decidesse di girare una nuova trilogia prequel rispetto alle storie raccontante nei film dei lontani anni Ottanta. Infatti, nel 1999 uscì La minaccia fantasma a cui seguirono L’attacco dei Cloni (2002) e La vendetta dei Sith (2005). Nel 2012, i diritti della serie vennero acquistati dalla Walt Disney che avviò la produzione di
I luoghi del cinema
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Le Tre cime di Lavaredo, Foto di WikiImages da Pixabay
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I luoghi del cinema
una nuova trilogia (questa volta sequel rispetto agli episodi iniziali). Al primo Il risveglio della Forza del 2015 sono succeduti Gli ultimi Jedi (2017) e L’ascesa di Skywalker (2019). Inoltre, per non far mancare nulla ai tanti appassionati, sono stati girati due capitoli del tutto indipendenti che riguardano solo alcuni personaggi della saga. Infatti, nel 2016 è uscito Rogue One: A Star Wars Story e nel 2018 Solo: A Star Wars Story diretto dal regista americano Ron Howard (quello di A Beautiful Mind e Rush tanto per intendersi). E proprio partendo da questo ultimo film che inizia il nostro viaggio nei luoghi italiani scelti dalla produzione per ambientare alcune delle scene più spettacolari ed emozionanti. Per l’occasione, più che i luoghi bisognerebbe affermare i Mondi, tenendo presente le storie e le trame fantascientifiche che sottendono i vari episodi della Saga. Per Solo: A Star Wars Story, lo scenario scelto per le riprese è stato quello spettacolare delle Tre Cime di Lavaredo (il complesso alpino più famoso delle Dolomiti, considerato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco). Famoso in tutto il Mondo per il suo inconfondibile contorno morfologico fotografato ed immortalato in tutte le ore del giorno e in tutte le stagioni dell’anno, questo importante sistema montuoso, oltre ad essere un fiore all’occhiello della bellezza naturale italiana ha associato spesso il proprio nome al ciclismo. È infatti del 2013, l’ultimo arrivo di tappa del Giro d’Italia alle pendici delle Tre Cime di Lavaredo. Rimarrà impressa nei cuori dei tanti tifosi, la fantastica vittoria di Vincenzo Nibali, il campione siciliano che giunse in solitaria sull’arrivo in quota mentre sulla corsa si stava abbattendo una vera e propria tempesta di neve. Dalle Dolomiti scendiamo a valle, per una gita turistica sulle meravigliose sponde del
I luoghi del cinema
Lago di Como, Villa Balbianello, Foto di Leszek Golebiewski da Pixabay
lago di Como. Infatti, proprio a Lenno sono state girate alcune scene del secondo episodio di Star Wars: L’attacco dei cloni. Nell’infinito universo della Saga, ci ritroviamo sul paludoso pianeta Naboo, luogo dove è nata Padmé Amicala, moglie di Anakin e madre di Luke Skywalker e Leila Organa. In particolare, il bellissimo palazzo che appare in molte scene e soprattutto che fa da sfondo alla celebrazione del matrimonio tra Anakin e Padmé Amidala è la suggestiva Villa del Balbianello affacciata proprio sulle sponde del lago di Como e collocata sulla punta della penisola di Lavedo. Attualmente l’edificio è di proprietà del Fondo Ambientale Italiano (FAI) che lo custodisce e lo rende visitabile ai molti turisti e viaggiatori che si spingono sulle rive del lago per avere l’opportunità di ammirarlo. E dalla meravigliosa Villa del Balbianello ci spostiamo in un altro luogo simbolo della bellezza italiana dichiarato nel 1997 Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Stiamo parlando della Reggia di Caserta e più precisamente dei suoi immensi saloni, diventati nel 1999 lo scenario perfetto per girare i momenti quotidiani all’interno del Palazzo Reale di Theed sul pianeta Naboo nell’ Episodio I: La minaccia fantasma. D’altronde, fin dall’inizio l’intento di George Lucas fu quello si ispirarsi all’architettura italiana per ricreare al meglio il concetto urbanistico che aveva della sua città ideale. Il suo omaggio al nostro patrimo-
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La Reggia di Caserta foto di Stefano Cambò
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Etna, Foto di notiziecatania da Pixabay
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nio è così evidente che per ricreare fedelmente il suo progetto si è ispirato allo stile classico e neoclassico, in modo da donare alla Capitale Theed quel tocco elegante a allo stesso tempo maestoso. D’altronde la Reggia di Caserta negli anni è stata varie volte set di film più o meno conosciuti (dallo spassoso Io speriamo che me la cavo con Paolo Villaggio che porta in gita proprio qui la sua strampalata scolaresca alle avventure adrenaliniche di Mission Impossible III, per non parlare della trasposizione cinematografica del romanzo Angeli e Demoni dello scrittore americano Dan Brown, con il regista Ron Howard che scelse i suoi maestosi interni per ricreare le stanze e gli ambienti della Città del Vaticano). Dulcis in fundo, l’ultimo grande luogo da indicare. Pietra miliare della saga e simbolo per antonomasia della Sicilia dichiarato giustamente nel 2013 Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Stiamo parlando naturalmente dell’Etna, il vulcano attivo più alto d’Europa, il cui spettacolare paesaggio è diventato protagonista dell’epica battaglia tra Obi-wan Kenobi e Ankin sul Pianeta Mustafar nel film Star Wars Episodio III: La vendetta dei Sith del 2005. Proprio in seguito alla sanguinosa lotta sulle sue pendici, nasce il famoso personaggio di Dart Fener, uno dei più conosciuti ed apprezzati di tutta la serie. E con le immagini sullo sfondo del nostro imponente vulcano, a cui si sono ispirati oltre al cinema anche moltissimi miti e leggende (una su tutte quella di Ulisse e del suo sbarco nella terra dei Ciclopi nella monumentale opera di Omero), lasciamo che la saga di Star Wars continui il suo viaggio ipergalattico nella speranza di rivedere i suoi mitici personaggi in qualche altra parte dell’Universo che assomigli un po’ alla nostra amata Italia.
Foto di Mario Cazzato
il gatto del castromediano lecce e la sua statua della libertà Mario Cazzato
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La scultura del Bortone icona della bellezza e degli ideali celebrati oltreoceano
Salento Segreto
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uando nel 1898 al Bortone il sindaco Pellegrino commissionò il monumento al Castromediano, erano passati più di dieci anni dall'inaugurazione della più famosa statua della libertà a New York, diventata immediatamente famosa in tutto il mondo. E certamente il Bortone guardò a questo monumento quando ideò la sua statua della libertà,con lo scudo che ne riporta il nome,a scanso di equivoci,e non mi dite che i volti delle due statue non si rassomi-
gliano. Figure femminili vestite all'antica, coronate, con lo sguardo alrero che mira altrove, con le catene spezzate, quella leccese in mano, l'americana ai piedi. Ma c'è di più. La libertà leccese stringe con la destra una specie di scettro alla cui sommità è raffigurato proprio un gatto. Adesso le cose si complicano e la figura del felino è certamente un gatto egiziano, animale sacro a Iside, tra le più importanti divinità femminili egiziane. E forse qui è probabile che vi sia qualche implicazione di tipo
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Foto di Mario Cazzato
statua della libertĂ di Lecce e il suo bel gatto.
Salento Segreto
massonico, ma è un aspetto che andrebbe approfondito. Per adesso gustiamoci la
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