Artintime N. 8 - Agosto

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IN TIME n.8 - Agosto 2015

ARTE | CINEMA | MUSICA | TEATRO | LETTERATURA | INTERVISTE | EVENTI | LONDON NEWS



ARTINTIME L’EDITORIALE Al centro del mar Mediterraneo, in un ideale triangolo acqueo che si estende dalla Costa Azzurra, alla Toscana e alla Corsica, includendo il mar Ligure, sorge quello che i biologi hanno battezzato Santuario Pelagos, il santuario dei cetacei, regno di biodiversità in cui si trovano a loro agio, per condizioni climatiche e ambientali, delfini, stenelle striate, balenottere e capodogli, tra i più grandi mammiferi marini. Bastano poche miglia a largo, sparisce la linea della costa e nell’azzurro intenso del mare estivo si possono ammirare dal vivo branchi di delfini, pronti a giocare con e tra le onde, sulla cui cresta surfano come fossero personaggi di un film di animazione. Lo spettacolo è qualcosa di unico e meraviglioso: si tratta di creature affascinanti, mammiferi che vivono in un regno di acqua, animali di intelligenza estrema, a cui piace giocare con i visitatori. “Sembra quasi che sorridano” si pensa osservandone meglio il muso sporgente tra le onde, ed è un pensiero davvero troppo umano, che mentre è consapevole di stare inventando qualcosa, mantiene però una segreta speranza che sia vero, che realmente quelle creature del mare possano sorridere. Possiamo parlare di empatia? Il dizionario Treccani online dà questa definizione di empatia, una parola dall’etimologia antica, che sa di Grecia: “la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Più in particolare, il termine indica quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica”. Dai delfini in mare alle pagine di Artintime, è grazie all’empatia che siamo in grado di ricreare storie, di percepire sensazioni e realizzare quella che è chiamata “comprensione estetica”. Ce lo dimostra la irresistibile protagonista di uno dei due libri recensiti questo mese, la Vani Sarca della giovane Alice Basso, ghostwriter dallo straordinario potere empatico. Ma ce lo ricorda anche il commosso articolo del nostro Matteo che, a un anno dalla scomparsa, ritorna sulla figura e ripercorre la carriera artistica di Robin Williams, straordinario attore che, forse per la troppa empatia con i suoi personaggi, sempre in qualche modo imperfetti e soli, non ha resistito davanti agli ostacoli della vita. Del resto teatro e recitazione sono forme massime di empatia, che ritornano ogni anno in tanti e diversissimi festival estivi dedicati alle performance sulla scena. Quest’anno la nostra Lucia ha seguito da vicino il Festival di Santarcangelo dei teatri, dieci giorni di spettacoli che quest’anno hanno visto un filo intrecciato più volte insieme alla letteratura in tanti spettacoli che hanno ripercorso, ognuno con la propria visione, i grandi temi dell’attualità, dal tema del gender alla crisi greca, dal potere della narrazione al fascino visivo della danza. Bellezza, grazia ed equilibrio sono insomma le frecce che si dipartono dal concetto di empatia, declinata nelle più diverse forme artistiche e su questo numero di agosto, ancora una volta, raccolta da Artintime in giro per il grande mondo delle arti. Storie, ispirazioni e suggestioni da portare con voi nel periodo delle ferie, perché rilassati e rigenerati, lontani dallo stress della vita lavorativa, possiate trovare e riscoprire la magia di un’intesa senza parole, di una forza che colpisce la mente e la pancia grazie alla pura magia estetica. Alessandra Chiappori

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ARTINTIME SOMMARIO 6 . URBAPHONIX by Angelica Magliocchetti

8 . ROBIN WILLIAMS: IL CAPITANO DEI NOSTRI SOGNI by Matteo Ghidella

12 . QUANDO IL GHOSTWRITER DIVENTA PROTAGONISTA by Alessandra Chiappori

14 . THAT’S A MOLE! by Roberta Colasanto

16 . L’EFFICACIA DELLA FORZA PICCOLA. by Alessandra Chiappori

18 . SANTARCANGELO FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL TEATRO IN PIAZZA by Lucia Piemontesi

20 . MARC QUINN - THE TOXIC SUBLIME by Cristina Canfora

22 . PAN DEL DIAVOLO by Angelica Magliocchetti

24 . DI STORIE PERDUTE E FANTASIA by Alessandra Chiappori

26 . SUGGESTIONI DALLA BIENNALE DI VENEZIA 2015 28 . EVENTI

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ARTINTIME music@artintime.it

URBAPHONIX 1985, Michel Risse (multistrumentista, compositore e direttore artistico), insieme a Pierre Sauvageot (eclettico musicista e direttore artistico anche lui), dà vita a numerose creazioni musicali all’aria aperta, sfruttando gli strumenti elettronici dell’epoca (vecchi pc e balbettanti campionatori) mischiati ai suoni del nostro quotidiano. Particolare importanza hanno avuto nel 1989 il “Ballet Mécanique” e il concerto evento “Grand Mix” .Nel 1999, grazie a una convenzione del Ministero della Cultura Francese, il progetto “Décor Sonore” inizia una serie di tournée in Francia e all’estero, sempre sotto la guida artistica del poliedrico Michel Risse. Tra i vari progetti, nasce nel 2012 Urbaphonix, un quintetto musicale capace di applicare all’estremo il concetto espresso dal compositore, teorico musicale e scrittore statunitense John Cage “Se un suono ti disturba, ascoltalo!”. I cinque artisti, infatti, intervengono direttamente sul paesaggio intor-

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no a loro, trasformando l’arredo urbano in strumenti capaci di improvvisare sequenze di percussioni e fantasie elettroniche. I suoni meccanici, brutali, già presenti nel quotidiano, vengono sintetizzati e aggregati in brevi sessioni istantanee. Le strade diventano quindi un percorso, che il pubblico è invitato a seguire a piedi per scoprire le vibrazioni e i suoni nascosti a cui non si fa più caso. Tutto, dalle bici ai lampioni, dalle fontane ai balconi può diventare (con bacchette, archetto e dita) percussione, violino o arpa. Una performance particolare, che vi farà esplorare quella sottile linea che corre tra il musicista e l’innovatore, portandovi alla base dell’elettronica e del ritmo d’ensemble degli strumenti a percussione. Per gli occhi, le orecchi e la mente! Enjoy!

Angelica Magliocchetti


MUSIC

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ARTINTIME movies@artintime.it

ROBIN WILLIAMS: IL CAPITANO DEI NOSTRI SOGNI Robin Williams era un grande donatore di emozioni, uno dei pochi a saper far ridere e piangere quasi nello stesso momento, così profondo da spezzare una risata con le lacrime o una lacrima con una sincera risata. Tutti i suoi personaggi avevano sempre un contorno di forte ambivalenza, quasi non sapessero se poter essere felici fino in fondo. Avevano tutti i suoi occhi: tristi, malinconici. Chiunque egli interpretasse non poteva prescindere da quegli occhi, che erano, mai aforisma è più calzante, lo specchio della sua anima. Robin Williams era un comico triste. Ed è stato ucciso dalla depressione. È il 12 Agosto 2014, sono le 8,30 del mattino. Sfoglio la home di Facebook (sì, sono un pecorone come tanti) e mi capita il solito link di sciagura sulla morte di un personaggio famoso. Subito penso che chi l’ha pubblicato sia pecorone ancor più di me, ma il nome di cui si parla mi tocca troppo nel profondo, decido così di aprire un quo-

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tidiano on line per sincerarmi della falsità della notizia. Notizia che, come tutti verranno a sapere poco dopo, è purtroppo vera. È morto Robin Williams. Uno dei miti della mia infanzia, uno degli attori che più di molti altri ha rappresentato per me il cinema e mi ha fatto appassionare alla settima arte, non c’è più. Si è suicidato poco più che sessantenne, non riuscendo a resistere alla pressione emotiva che la sua professione comporta. Era debole, non ha resistito. Ha perso la sua battaglia e ci ha lasciato soli. Il 12 Agosto 2014 è una brutta giornata. È come se avessi perso uno di famiglia, che mi ha cresciuto accompagnandomi in tutti questi anni. Robin Williams è stato il primo attore in carne e ossa che ho visto al cinema. Interpretava il Peter Pan adulto del gioiello di Spielberg “Hook – Capitan Uncino”, un film che è e rimarrà per sempre scolpito nella mia memoria. È solo il primo di una lunga serie di personaggi ai

quali mi sono fortemente legato e con i quali sono cresciuto, e come me la maggior parte dei miei coetanei. Personaggi buffi, geniali, pazzi, tormentati, ma tutti, nessuno escluso, tutti semplicemente umani. L’umanità che pervade le sue interpretazioni è unica. Se ci pensiamo bene, tutti i ruoli che ha interpretato sono legati a una forte dimensione umana. Certamente brillanti, solari, ricchi di vitalità e spirito giocoso e intraprendente, ma tutti toccati da questa malinconia e tormento che li rende così vicini a noi, a un famigliare, un amico più o meno intimo, al passante pressato dai suoi problemi quotidiani. Non sentiamo distante nessun personaggio, per quanto circondato dalle più stravaganti avventure e follie. I suoi problemi sono i nostri problemi. Pensiamoci un attimo con attenzione: Robin Williams ha sempre interpretato caratteri privati di qualcosa e con un tormento interiore difficile da combattere, un tormento che può realmente capitare a chiunque,


MOVIES

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un tormento vero e concreto, che appartiene alla vita di tutti i giorni. Il Professor Keating de “L’attimo fuggente”, l’interpretazione che l’ha consacrato a star internazionale: un professore anticonvenzionale, che esortava i suoi studenti a vedere la vita da prospettive diverse, che li spingeva a “cogliere l’attimo, rendere straordinarie le proprie vite”, un Professore che mal digeriva le regole e gli antichi precetti del rigido collegio dove insegnava, più impegnato a motivare i suoi studenti a innamorarsi, a sognare perché “medicina, legge, economia, ingegneria, sono nobili professioni necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita”, ma poi tristemente rifiutato ed espulso dalla scuola, dopo il tragico suicidio di uno de-

gli allievi a cui maggiormente era legato, brutalmente riportato alla realtà, nonostante il famosissimo tributo finale dedicatogli dai suoi studenti, con la meravigliosa scena dei ragazzi in piedi sui banchi a salutare il loro Capitano. Daniel Hillard, protagonista di una delle commedie più riuscite di sempre, a mettere in mostra tutta la poliedricità di Robin Williams, che si inventa voci e personaggi nuovi sequenza dopo sequenza, e affina la sua Mrs. Doubtfire con una dolcezza e tenerezza unica. Anche lui, però, tormentato dai problemi reali, il divorzio, la separazione dai figli, allietato da un finale speranzoso ma sempre e comunque con la malinconia negli occhi, per non essere accettato fino in fondo come attore di straordinario talento, e soprattutto come padre modello e

innamorato dei propri figli. Alan Parrish, protagonista del fantasy “Jumanji”, all’apparenza spensierato e per famiglie, ma nel quale è comunque impossibile non notare una sfumatura di tristezza, un personaggio sfortunato, che ha perso i genitori e non trova una collocazione nel mondo in cui è stato fatto forzatamente tornare. Certamente il tutto è più velato e sussurrato, il lieto fine è evidente, però uno spettatore sensibile non potrà fare a meno di notare questo aspetto, e gli occhi di Robin, anche qui, comunicano più delle parole. Il già citato Peter Banning/Pan, esasperato dai problemi lavorativi e famigliari, che fatica a trovare un pensiero felice per ritornare alla spensieratezza di un tempo e recuperare la forza per vincere l’ultima battaglia col suo passato, col Capi-

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MOVIES tano Giacomo Uncino. Sean McGuire, lo psicoterapeuta che gli ha fatto vincere l’Oscar in “Will Hunting – Genio ribelle”, tormentato dalla perdita della moglie vede in Matt Damon il figlio che non ha mai avuto e vuole aiutarlo a tirar fuori la genialità nascosta e toglierlo dalla strada, incanalando i suoi problemi in energia positiva e trovare egli stesso la giusta energia per andare avanti. Jack, protagonista dell’omonimo film di Francis Ford Coppola, bambino costretto nel corpo di adulto per una malattia degenerativa, frustrato per la sua condizione di diverso e mai del tutto accettato da coetanei e adulti, avrà il suo riscatto nel solito finale di speranza, che però non può spazzar via del tutto l’aria un po’ grigia respirata in precedenza. E questo elenco, naturalmente, non è completo. Sono solo alcuni dei personaggi interpretati da Robin, forse i più famosi, ma se pensiamo ai protagonisti di “Good Morning, Vietnam”, “Al di là dei sogni”, “Risvegli”, “Patch Adams”, “One hour photo”, certamente non potremo che confermare la tendenza descritta con gli esempi appena citati. Personaggi privati di qualcosa, che devono combattere per trovare una serenità difficile da raggiungere, veri, concreti, appartenenti al mondo reale. Robin Williams aveva capacità attoriali straordinarie. Era in grado di emozionare con il solo movimento della mano che tocca il volto, con un accenno di sorriso o con una smorfia. Le sue capacità erano soprattutto legate all’utilizzo della voce, alla quale sapeva donare sfumature uniche. Gli esercizi di stile

di “Mrs Doubtfire”, ad esempio, o la profondità che scaturiva in urlo liberatorio al grido di “Goooooodmoooorning Vieeeeetnaaaaaaam”, che rimarrà nella storia del cinema. Ha interpretato anche film spiccatamente leggeri e di poche pretese, mi vengono in mente “Flubber - Un Professore tra le nuvole” o “Nine Months – Imprevisti d’amore”, riuscendo sempre a ritagliarsi uno spazio importante, all’interno del quale esprimere al meglio il suo straordinario talento. Sì, Robin Williams aveva un enorme talento. Ed è stato forse proprio questo talento a schiacciarlo. Non ha mai dovuto applicarsi molto tecnicamente, le sue capacità gli hanno concesso di non doverlo fare. Grande improvvisatore, si lasciava andare seguendo quello che il cuore decideva per lui. Questa mancanza di binari lo ha portato, inevitabilmente, ad avere una vita sregolata, tra droga, alcool, matrimoni falliti e perdita di amici carissimi, come John Belusci. La debolezza del suo carattere, che nei suoi occhi era riflessa inequivocabilmente, non gli ha permesso di risalire. La depressione l’ha accompagnato per tutta la vita e, alla fine, l’ha portato via.

tutti noi ti aspetteremo. Perché tu ci hai fatto sognare per tutta la tua vita, hai donato la tua vita per emozionarci. Adesso tocca a te vivere quel sogno. Ora tu sei al di là dei sogni. E noi siamo rimasti qui, un po’ più tristi. Perché il mondo, senza di te, è certamente più povero. Ciao Capitano!

Matteo Ghidella

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Caro Robin... Ti auguro semplicemente di aver finalmente colto l’attimo, volando verso l’isola che non c’è vestito da anziana donna inglese che balla con una scopa, mentre giochi a Jumanji insegnando a un ragazzo a coltivare la sua genialità. E con l’ombra del Genio di Aladdin che ti accompagna. “Hai presente quel luogo tra il sonno e la veglia, dove ti ricordi ancora che stavi sognando? Quello è il luogo dove ti amerò per sempre… Ed è lì che ti aspetterò… Peter Pan”. Ed è lì che

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ARTINTIME books@artintime.it

QUANDO IL GHOSTWRITER DIVENTA PROTAGONISTA Avvertenza: una volta aperto questo libro, tuffati nella vicenda, ma soprattutto trascinati dall’irresistibile voce della protagonista, vi sentirete anche voi un po’ più soli, abbandonati da personaggi così ben delineati da diventare quasi amici, e resterete così in attesa di una nuova avventura giallo-letteraria di Vani Sarca, alla quale il finale di questo romanzo sembra peraltro occhieggiare. Ma è giusto e necessario iniziare non tanto dalla fine di questo frizzantissimo esordio in narrativa di Alice Basso, quanto dal principio, ovvero da colei che della storia è protagonista, punto di vista e soprattutto voce, con una parlantina arguta, sagace, sarcastica e sempre viva, spiritosa, profonda che, scopriremo, è il suo vero talento. Vani Sarca, al secolo Silvana, per gli amici un soprannome costruito insieme al personaggio che incarna: 30enne ex o ancora un pochino punk, un cappotto scuro, rossetto viola e capelli nero corvino. Di professione ghostwriter per una famosa casa editrice di Torino, città in cui è ambientata la vicenda e che si affaccia qua e là lungo gli episodi e tra le pagine del libro. Vani ha una professione certo non usuale, che, per quanto risulti il mestiere perfetto per lei - che lo svolge con incredibile bravura - non è così chiara agli altri, e nemmeno può esserlo, sottoposta com’è a contratti e regimi di segretezza. Vani

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infatti scrive per gli altri: romanzi, articoli, discorsi, saggi che vengono pubblicati o pronunciati da altre persone. Le sue parole sono cucite ad arte sul personaggio che di volta in volta fa richiesta del suo aiuto, perché è proprio questo il vero talento della protagonista: immedesimarsi negli altri, farlo così bene da riuscire a simulare il pensiero, il punto di vista, le parole con cui gli altri direbbero le stesse cose, scritte invece da lei. Il potere di un personaggio del genere è evidentemente molto grande: c’è Vani dietro i successi editoriali di molti autori, ed è per questo motivo che, suo malgrado, questa a volte sfrontata ragazza dalla grande empatia è coinvolta in un’indagine poliziesca per la quale, da indiziata, si ritaglierà invece un posto da investigatrice. A coronare questa vicenda gialla, c’è una grande tavolozza di personaggi, l’autentico punto di forza del romanzo. Intorno alla schiva e solitaria Vani, che contrappone al suo carattere corazzato lo straordinario potere di capire le persone e immedesimarsi in loro, c’è Enrico, l’editore, ma c’è anche Morgana, una ragazzina che in tutto e per tutto le ricorda se stessa da adolescente: abiti scuri e sfrontati, un’intelligenza e un acume non comuni, con i quali, divertita e – ma non diteglielo! – intenerita, si schiererà Vani. E poi i due uomini della storia, tra cui ondeggia la protagonista e rimbalziamo anche noi lettori, tra un sor-

riso e l’altro per il modo inconfondibile con cui la verve e il linguaggio brillante e appuntito di Vani ce li raccontano. Da una parte lo scrittore di successo, Riccardo Randi, affascinante intellettuale tra le cui braccia cadrà proprio l’inossidabile e solitaria Vani, autrice invisibile del capolavoro letterario firmato da lui. Dall’altra il commissario Berganza, erede di tutta una tradizione da romanzo giallo che lo vede classico segugio, dall’intuito sottile e a cui non sfugge niente, accanito lettore di polizieschi e noir che nasconde sotto la scrivania e riapre nelle pause dal lavoro. Berganza trova un’insolita complicità in Vani che, in quanto a empatia e intuizione, lo sorprende e lo stuzzica. Non a caso, la ragazza si troverà inaspettatamente fianco a fianco con lui durante le indagini per la scomparsa di una scrittrice della sua casa editrice, di cui lei è ghostwriter e della quale è chiamata a ricostruire la personalità. È un romanzo allegro, vivace, caratterizzato da un’attenzione insolita al mondo editoriale che si manifesta non solo grazie alla particolare protagonista e al suo altrettanto insolito lavoro, ma in un linguaggio davvero ricco e sorprendente, tra battute (necessarie a Vani nei momenti di imbarazzo) e citazioni che spaziano da Dante a Manzoni a “Guida galattica per autostoppisti”, riplasmate e piazzate nei momenti più insospettabili, a creare un tessuto piacevole ma mai banale. E se


BOOKS tutto questo traspare dalla lettura, rendendola piacevole e appagante, ci sarebbe da scommettere che l’autrice si sia divertita un mondo a creare i personaggi di questa storia e a metterli in scena!

A lessandra Chiappori

“Questo è il punto in cui solitamente, quando spiego il mio mestiere, la gente dice «wow». Wow, certo che non dev’essere per niente facile mettersi nei panni di questo o quel personaggio e adottarne la voce, le competenze, lo stile espressivo. Ci vorrà un sacco di duttilità, di velocità di apprendimento, di capacità di immedesimazione. Oh, verissimo. Ogni ghostwriter degno di questo nome deve possedere tutte queste cose”

Alice Basso, “L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome”, Garzanti, 2015.

Alice Basso Classe 1979, Alice Basso lavora in una casa editrice, sarà per quello che al mondo editoriale ha dedicato in chiave ironica ma molto competente il suo brillante esordio, dimostrando una verve e un linguaggio che promettono grandi cose. Come la sua protagonista, è un tipo tosto: racconta di sé di voler fingere di avere ancora vent’anni, canta in una band di rock acustico per cui scrive anche i testi dei brani, suona il sassofono e ama disegnare. Noi aggiungiamo: ha il dono della scrittura, non ve la perdete!

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THAT’S A MOLE! Una originale mostra a cielo aperto colora Torino in via Montebello in questi mesi estivi. Passeggiando all’ombra della Mole Antonelliana ci si imbatte in tante curiose sagome a forma di Mole installate lungo i marciapiedi, illustrate all’interno nei modi più fantasiosi. Questa singolare esposizione urbana è il coronamento di un concorso internazionale di illustrazione, l’idea è la stessa del “Concurso sardinha festas de Lisboa”, dove si chiede di rielaborare graficamente l’immagine della sardina, simbolo della festa di Lisbona. La versione torinese, “That’ s a Mole”, alla sua seconda edizione, invece rende omaggio al monumento simbolo della città di Torino: la Mole Antonelliana. I partecipanti provenienti da tutto il mondo (in tutto quest’anno 1372 concorrenti, da 56 paesi) si sono cimentati a riempire la sagoma della Mole con le loro creazioni: colorate, eleganti, irriverenti, sempre originali. Tra queste la giuria del concorso ha poi selezionato le 25 opere che rimarranno esposte

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lungo la via della Mole fino al 7 settembre. La vincitrice di quest’ anno è la Mole illustrata da Marilla Carreiras, dal Portogallo, che propone in uno stile minimale dai toni neutri il tema quanto mai attuale degli emigrati, con la sagoma contenente le speranze e i sogni delle persone che hanno lasciato tutto in cerca di una vita migliore. Ma il contorno della Mole può anche trasformarsi in un virtuoso trombettista in completo gessato (Chiara Ghigliazza, San Donato Milanese), in un variopinto zoo impilato in un’equilibristica piramide(Claire Horgan, Londra), in un grande contrabbasso blu (Caterina Scaramellini), in una ragazza in bicicletta con un cesto di fiori e un cagnolino (Rebecca Gerber, Erlenbach im Simmental)… insomma, spazio alla fantasia! Tutto questo si svolge ai piedi della vera Mole Antonelliana, all’ombra dei suoi 167 metri e mezzo di altezza che ne fecero all’epoca della sua conclusione l’edificio in muratura più alto d’Europa. Nata come sinagoga, su pro-

getto del novarese Alessandro Antonelli e conclusa dal figlio Costanzo nel 1889, acquistata dal Comune per farne un monumento all’unità nazionale e al re d’Italia Vittorio Emanuele II, la Mole Antonelliana è oggi sede dell’ amato e visitatissimo museo del Cinema, nonché il più celebre emblema architettonico della città di Torino. Da un paio d’anni la Mole è diventata anche la protagonista di questa manifestazione che rallegra coi suoi colori un pezzetto di Torino durante l’estate e premia la creatività senza limiti d’età o di nazionalità. Dunque per tutti coloro che volessero cimentarsi nell’edizione dell’anno prossimo siete avvertiti: bastano una sagoma della Mole e un po’ di inventiva. That’s a Mole.

Roberta Colasanto


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ARTINTIME L’EFFICACIA DELLA FORZA PICCOLA. QUATTRO CHIACCHIERE SULLA CROSSMEDIALITA’ CON EDOARDO FLEISCHNER Durante questa torrida estate di autoriflessione, vi proponiamo l’intervista che abbiamo realizzato al Salone del libro di Torino lo scorso maggio con Edoardo Fleischner, docente a Milano e Napoli di discipline che hanno molto a che fare con la comunicazione del futuro e il web: scrittura crossmediale, comunicazione digitale, format televisivi e crossmediali. Fleischner è consulente per la tv digitale, i new media, per progetti europei in area ICT e multimedialità. Autore e curatore di programmi tv, è anche progettista di nuovi canali tematici, sistemi di convergenza crossmediale, app ed ebook. Insomma, in aggiunta al fatto che è anche giornalista ed editore e dal 1976 crea e dirige riviste nel settore dei media, ci è sembrato il personaggio giusto al quale presentarci e parlare di Artintime e di quel che ha di fronte oggi. Artintime è un magazine che si propone di trattare informazioni approfondite nel mondo digitale. Quali potrebbero essere le strade per una rivista culturale e di approfondimento oggi sul web? Approfondimento è una bellissima parola: oggi le possibilità di approfondimento sul web sono immense perché, al contrario di media che sono molto ben definiti da una grammatica e da una sintassi di linguaggio, con modi di produrre ed esprimere contenuti molto forti e stigmatizzati – penso a teatro, tv

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radio, cinema – quel che io chiamo “infrastruttura medium web” consente di creare negozi, piazze, slarghi, gallerie di tutti i tipi. Voi stando su un sito portale avete una potenzialità crossmediale pazzesca: potete gestire video, audio, scritti, tutti i media possibili e immaginabili. Una potenzialità enorme. E in quanto al tema che trattiamo, ovvero l’arte? Arte. Sappiamo che l’arte incassa poco, non intendo in termini economici, non solo, ma di attenzione e consenso. Sappiamo ormai anche, soprattutto dopo gli ultimi anni, che il grande capitale dell’Italia, che potrebbe farne il PIL – PIL culturale - è l’Italia stessa, il più grande deposito di arte del mondo. Ho detto deposito, non showroom, che sono i musei. Il problema dell’arte in Italia è su più i fronti. Quello produttivo innanzitutto: sappiamo che produrre arte è una chimica difficilissima che avviene ogni tot secoli o decenni, e le capitali della chimica dell’arte si spostano seguendo le capitali dell’economia ma non solo, vanno anche dove c’è il libero pensiero, dove i creativi vivono bene. E poi c’è il lato di chi riceve questa attività, ovvero noi. Siamo sistematicamente disabituati da un oggetto che si chiama scuola. Più che un oggetto forse è un sistema… Ho voluto chiamarla oggetto, un

terribile oggetto un po’ deforme che tende a farci dimenticare tutti i parametri grazie ai quali potremmo vivere in maniera stupenda, anche eticamente parlando, parametri declamati perfino da gente improbabile: la bellezza, la sostenibilità, la creatività, che soddisfa chi la fa e chi la riceve in maniera incredibile. La creatività va dal quadro al monumento alla piazza all’enogastronomia, si esprime al massimo in tutti i settori dell’umano. La scuola non vuole che amiamo le cose belle e artistiche: sulla letteratura ci massacra coi soliti quattro o cinque autori rispettabilissimi, che però non ci fa amare. E sulla bellezza, il disegno lo si fa solo in alcuni licei, ma tutti noi, tutti gli italiani dovrebbero sapere tutto di arte, musica, creatività bellezza. E farsene cosa se diventeranno ingegneri informatici? Ho incontrato un mucchio di ingegneri informatici che arrivavano dalla Corea del Sud, dagli Stati Uniti, dall’India: gente che è rimasta per mesi in Italia per lavoro. Mi hanno detto: “con voi si lavora benissimo, e poi come si lavora nella vostre – e sembrerebbe una bestemmia – città!”. Sono estasiati da come il loro cervello si ricarica, gli vengono nuove idee, capiscono cose nuove, e sono ingegneri informatici, o addirittura sviluppatori, che tutto il giorno fanno codici incomprensibili per le persone comuni. Eppure fanno capire una cosa importante, cioè che quando si dice arte non si dice museo, dove vado a vedere i singoli quadri e dico “che


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belli” e poi c’è l’audioguida fatta da un professore d’arte che dice delle cose totalmente incomprensibili. No, hanno camminato e girato per le nostre città, sono anche entrati in qualche museo, ma si sono resi conto di qualcosa che noi italiani che ci siamo dentro non vediamo. Siamo circondati dall’equilibrio, dalla bellezza, anche da palazzi orribili costruiti nel secondo dopoguerra che sono una schifezza, è vero, ma tutto il resto è un peso talmente forte che non ce ne rendiamo conto. Arte è una parola enorme, la dobbiamo allargare, tanto è vero che si dice “fatto ad arte”, cioè fatto in modo equilibrato, sostenibile, bello, fruibile, di qualsiasi cosa, anche di una torta di mele. È chiaro che la parola arte è stupenda, ci dovremmo entrare tutti, ma sembra che questa nazione faccia il possibile perché nessuno ci entri e quei pochi che lo fanno si trovino male.

La soluzione è resistere e tentare di fare tanto e al meglio? La soluzione è anche vostra: piccoli ma infiltranti. Dobbiamo lavorare come se fosse un’infiltrazione, come l’acqua penetra nella parete di cemento armato e adagio lo sgretola. In questo caso parliamo del famoso bottom up, una manovra dal basso verso l’alto: è un bene, funziona! Se venti anni fa era impossibile, oggi se voi scrivete un articolo di quattro righe e aggiungete una foto ci sono - in questo momento - tre miliardi e duecento persone nel mondo che se lo sanno vi leggono. Accidenti! Quindi non avete problemi di distribuzione del vostro giornale, i costi sono minimi,. L’abilità qui è essere crossmediali, lavorare sui social in modo che la vostra piattaforma – bottom - dal basso, si allarghi, e a un certo punto diventi puntuta e vada a finire, per esempio, sull’e-

dizione del New York Times online. E lì scattano i meccanismi di proliferazione. È un lavoro durissimo, vuol dire imparare bene come funzionano questi mezzi, però alla fine si riesce. Ha qualche altro consiglio? Individuare una nicchia. Perché? Perché sennò bisogna avere ottanta persone sui social che lavorano tutti i giorni. Va invece individuata una nicchia, o meglio una punta - in fisica si studia che una punta perfora, una palla no - perché la punta si insidia, serve un discorso preciso, su un punto chiave che individuate e su cui battete. Allora la forza piccola ha una sua efficacia, lo dice la fisica, non lo dico io.

Alessandra Chiappori

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ARTINTIME SANTARCANGELO FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL TEATRO IN PIAZZA - 45° EDIZIONE Santarcangelo di Romagna grida allo scandalo: si è chiusa così questa 45° edizione del Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza. Già, perché sabato 18 luglio è andata in scena nella piazza antistante il Lavatoio la performance (untitled) (2000) di Tino Sehgal, interpretata dal ballerino canadese Frank Willens. Il danzatore, completamente nudo, offre se stesso e il suo corpo all’osservazione quasi pruriginosa della folla, con un rimando a quel guardare con pudore della “keyhole view of life” ottocentesca. Movenze sinuose e classiche si alternano a gesti nervosi e rigidi, in una linearità e compostezza che ripercorrono la storia dell’arte e della danza degli ultimi cento anni. Ma il problema dove risiede? Nel finale dello spettacolo: Willens urina e afferma “Je suis fontaine”. Mormorii, strepiti, polemiche. La realtà: un voluto, e non provocatorio, omaggio al celebre ready-made Fontaine (1917) di Marchel Duchamp e alla statua del Manneken Pis di Bruxelles. Allora, alla fine di un festival, le domande sembrano sollevarsi da

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sole e legarsi circolarmente alle intenzioni, pubblicamente dichiarate anche dalla direttrice artistica Silvia Bottiroli, di questa 45° edizione. Non a caso, si è partiti dal chiedere e dal chiedersi che cosa l’arte debba fare, ma anche al contempo che cosa l’arte possa fare. Da qui, il tentativo di affrontare il tema dell’eccezione, del limite e della censura. Questa 45° edizione infatti non aveva un’immagine nella sua comunicazione, bensì due frasi laconiche e secche di Romeo Castellucci. La prima affermava: “Guardare non è più un atto innocente”, mentre la seconda profetizzava: “Sarà come non poter distogliere gli occhi dallo sguardo di Medusa”. In estrema sintesi, una diretta richiesta di partecipazione nei confronti dello spettatore, che ai giorni nostri non può e non deve non sentirsi coinvolto dalle dinamiche e dai processi artistici. Lo sguardo e l’occhio come simboli estremi di presa di coscienza e posizione, impossibilità di omertà. Il Festival si è aperto lo scorso 10 luglio con il lavoro di Milo Rau Breivik’s Statement: l’attrice in scena

proclama il discorso che il terrorista norvegese Anders Breivik, colpevole della strage di Utoya del 2011, ha pronunciato in sua difesa di fronte al Tribunale. Un lavoro sconcertante che affronta con estrema lucidità un estremismo di una razionalità e lucidità raggelanti. Impossibile non essere coinvolti. Un Festival che non ha avuto paura di portare sul palcoscenico il dolore, la violenza, la crudeltà e la guerra, nella convinzione che l’arte possa redimere la disumanità con la catarsi: in Archive il coreografo israeliano Arkadi Zaides alterna materiale video e passi di danza che testimoniano la situazione dei Territori occupati, l’iraniano Amir Reza Koohestani racconta con Timeloss la storia di due moderni Orfeo ed Euridice incapaci di ascoltarsi e comunicare, i segreti dell’Ungheria comunista degli anni Ottanta sono rappresentati senza paura in Our Secrets di Bela Pinter and The Company. Altro versante importante di riflessione è stato il corpo: oltre che nelle coreografie già citate di Zaides e Sehgal, è stato il corpo di Silvia Calderoni a sconvolgere e travolgere,


TEATRO teatro@artintime.it

emozionare e scuotere. MDLSX dei Motus ripercorre la trama dell’omonimo romanzo di Jeffrey Eugenides intrecciando con inaudita potenza la storia personale dell’attrice, sempre sola sulla scena, a catalizzare l’attenzione degli spettatori. Un corpo che diventa letteralmente archivio è stato quello dei cinque libri viventi coinvolti nel lavoro Time has fallen asleep in the afternoon sunshine di Mette Edvardsen: cinque libri imparati a memoria per farne tesoro prezioso, privato e condiviso nel medesimo istante. Non da ultimo, il legame del Festival con la città: due lavori in particolare hanno letto e studiato la realtà umana e geografica di Santarcangelo, 1 place and 14400 seconds di Maria Lucia Cruz Correia e Azdora di Markus Ohrn. Il primo rilegge al-

cuni luoghi della città come fossero parti di un organismo vivente e ne assegna la medesima funzione di alcuni organi -cuore, polmone, pancreas - mentre Ohrn ha lavorato con un gruppo di azdore –nel dialetto romagnolo col termine azdora si intende la reggitrice della casa- per creare uno sconcertante rituale black metal, che ha portato alla luce aspetti inusuali delle donne romagnole. A questi si aggiungono Audio Guide di Cristian Chironi, mappatura sonora del mercato cittadino del venerdì, e l’improbabile ricerca di una voce dell’adolescenza di Riccardo Fazi con il progetto Antologia di S., itinerario fra voci e rumori dei luoghi più significativi per la città.

“glocal”: nazionale e internazionale al tempo stesso, con uno sguardo al presente e uno inevitabilmente al futuro, dentro e fuori il perimetro di Santarcangelo. Un Festival che non ha avuto essere, talvolta, impopolare. Un Festival che ha rivendicato con forza la potenza e l’energia dell’arte, di un’arte che parla dentro e fuori il teatro, di un’arte che invade la città e la scuote nel profondo, di un’arte che fa discutere e riflettere, di un’arte che ci ricorda il significato di essere uomini. E non animali.

Lucia Piemontesi

Un Festival che, per volontà della direzione artistica, vuole essere

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ARTINTIME fromlondon@artintime.it

MARC QUINN - THE TOXIC SUBLIME Mark Quinn is a London born artist (1964) who began to exhibit during the early 1990s. Since those days, his solo exhibitions were hosted in many cities and galleries starting from the Tate (both in London and Liverpool) and including Fondazione Prada in Milan and Macro in Rome. His gold sculpture of Kate Moss, titled Siren dated 2008, was created for charity and now is located at the British Museum. Unquestionably the most controversial piece he made is “Self”, a frozen sculpture of the artist’s head made from his own blood. Firstly appeared in 1991 featured in “Sensation”, an exhibition of work from the collection of Charles Saatchi, “Self” is a ongoing project which aims to remind us the fragility of existence. Defined by the artist as a “frozen moment on life-support” the self-portrait is carefully maintained in a refrigeration unit and change every five years to document Quinn’s own physical transformation and deterioration. You can find it at the National Portrait Gallery. With this sculpture buried in mind I headed to the White Cube, a gallery in Bermondesy, to discover the latest work of Quinn. His new solo exhibition “The Toxic Sublime” fe-

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atures three-dimensional seascapes in shape of contorted canvas or sculptures. He is willing to show our complex relationship with the environment through the degraded seascapes. The starting point is a picture of a sunrise subjected to aggressive alteration (sanded and taped, then spray painted) finally bonded to a sheet of aluminium, creating an hybrid between painting and sculpture. In addition to the paintings a series of massive sculptures made of stainless steel and white concrete (one in 7 meters long) part of a body of work titled “Frozen Waves”. These are the core of the whole exhibition. The overall experience, however, lack of that intensity that “Self” was transmitting to the public. The wrecked shells eroded by the waves, on their way to disappear and becoming sand are not as effective as some of Quinn’s previous works. The glossy silver look clashes with the poetic idea of time and his power on us. I found the exhibition cold and uncommunicative. Very far from being self explanatory. Although, Marc Quinn has a very interesting point of view. To understand more about the artist and his way of producing art check “Marc Quinn - Making Waves” a docu-

mentary released on July 16th 2015 in the UK , shot by the award winning director Gerry Fox. --------------------------------------------Il British Film Institute, conosciuto Marc Quinn è un artista nato a Londra nel 1964, che iniziò a esibire i suoi lavori nei primi anni ’90. Da allora le sue opere sono state protagoniste in molte città e gallerie d’arte, cominciando dalla Tate (sia quella di Londra che quella di Liverpool) e includendo la Fondazione Prada a Milano e la Macro a Roma. La sua scultura d’oro di Kate Moss, intitolata “Sirena” e risalente al 2008, è stata creata per beneficenza e si trova attualmente al British Museum. Senza dubbio l’opera più controversa che abbia mai realizzato è “Self”, una statua ghiacciata rosso sangue raffigurante il cranio dell’artista e costruita con il suo stesso plasma. Apparsa per la prima volta nel 1991 come parte della mostra “Sensation”, in cui erano esposti i migliori pezzi appartenenti alla collezione privata di Charles Saatchi, “Self” è un progetto in divenire che vuole ricordarci la fragilità della nostra esistenza. Definito dall’autore come un “momento congelato di vita artificiale”, l’autoritratto è mantenuto in un’unità refrige-


FROM LONDON

rante e cambia ogni cinque anni per testimoniare la trasformazione e il deterioramento fisico del suo stesso autore. Potete trovare l’opera come esposizione permanente alla National Portrait Gallery. Con l’idea di questa scultura ben in testa sono andata a visitare la galleria d’arte White Cube, in Bermondsey, dove Quinn è protagonista con la sua mostra più recente “The Toxic Sublime”. I soggetti della nuova esibizione sono i paesaggi marini sotto forma di tele contorte o sculture. L’autore vuole proporci attraverso questi lavori la nostra complessa relazione con l’ambiente che ci circonda, e lo fa attraverso scenari marini degradati. Si parte dall’immagine di un’alba, soggetta a veementi alterazioni (sabbiata e coperta di nastro adesivo, e infine pitturata con lo spray) per poi essere incollata a un foglio di alluminio, creando così un ibrido tra dipinto e scultura. In

aggiunta a questi particolari dipinti vi sono una serie di sculture giganti in acciaio inossidabile e cemento bianco (una raggiunge addirittura i 7 metri di lunghezza) che appartengono alla collezione “Frozen Waves” e si possono considerare il cuore pulsante della mostra. Nonostante il nobile proposito dell’artista, l’esperienza generale della mostra delude, mancando di quella intensità che “Self” trasmetteva al pubblico. Questi gigantesche conchiglie, erose dalle onde, sulla strada per il dissolvimento sotto forma di sabbia, non hanno lo stesso effetto straniante dei precedenti lavori di Quinn. Manca quel pugno allo stomaco, quella riflessione che induce al dibattito su ciò che veramente ci è stato trasmesso. L’argento scintillante domina su tutto e non si sposa con il concetto poetico del potere che il tempo ha su di noi e sulla natura.

Ho trovato la mostra a tratti fredda e poco comunicativa. Molto lontana dall’essere auto esplicativa. Tuttavia, Marc Quinn ha un punto di vista alquanto interessante che può essere investigato oltre attraverso il documentario “Marc Quinn - Making Waves”. Diretto dal pluri-premiato regista Gerry Fox, e uscito nelle sale britanniche il 16 luglio 2015.

Cristina Canfora

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ARTINTIME music@artintime.it

PAN DEL DIAVOLO Palermo, 2006. Un duo, composto da Pietro Alessandro Alosi (voce, chitarra e grancassa) e da Gianluca Bartolo (chitarra a 12 corde e voce), che dà vita al progetto Il Pan del Diavolo. Da subito impegnati in live dal sapore energico, nel 2008 i due vincono il Wave Italia per la Sicilia e diventano gruppo spalla dei Gogol Bordello per il Pollino festival. Nel 2010 esce “Sono all’Osso”, lavoro d’esordio, che ottiene 5 stelle da Rolling Stone e arriva in finale al Premio Tenco come “migliore opera prima”. Già dal titolo si sente un bisogno di tornare ai primordi del rock’n’roll, ma anche del folk. Un primo LP rabbioso, sarcastico e, nell’intento, rigenerante. Il duo si mostra così già maturo e vivace, capace di toccare corde molto diverse come il sound country di “Il mistero dello specchio rotto” o la ballata “Africa”, senza mai staccarsi dalle coordinate di partenza, dirette ed esplosive. L’anno successivo viene messo a punto il secondo lavoro “Piombo Polvere e Carbone” (uscita 2012), realizzato in formazione allargata con i Criminal Jokers. Undici tracce che mantengono l’impronta del duo pur aggiungendo una componente onirica, quasi psichedelica. Mixato da JD Foster (Calexico)

e prodotto con la collaborazione di Antonio Gramentieri e Diego Sapignoli, il nuovo lavoro permette al duo siciliano di esplorare nuove sonorità, dando prova di saper spiazzare, ma anche di saper evolvere in maniera inaspettata. A questa nuova rotta seguono numerosi spettacoli (sia in duo che in full band), che porteranno i due giovani artisti siciliani fino al Texas, a suonare al festival South by SouthWest di Austin. La contaminazione e i molti live favoriscono l’uscita, nel 2014, di “FolkRockaBoom”, terzo album. Registrato in presa diretta, mixato in Arizona da Craig Schumacher, il disco vuole gridare forte e chiaro quello che il duo identifica con il suo genere: il FolkRockaBoom, appunto. Un messaggio, questo, che arriva forte e chiaro, tra l’oscurità dei brani e l’emozione che ne scaturisce. Il risultato è più cantautorale, dai connotati autobiografici, più serio, più maturo. Incontriamo così “Un classico”, che scivola via, l’ipnotica “Cattive idee”, la romantica e dannata “I peggiori” e la bellezza di “Vivere fuggendo”. Una nuova densità di testi, che sorprenderà chi li ricorda agli esordi e che affascinerà chi li scopre solo ora. Play su “Mediterraneo” and... enjoy!

Angelica Magliocchetti

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MUSIC

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ARTINTIME books@artintime.it

DI STORIE PERDUTE E FANTASIA Napoli, quartieri spagnoli, uno scrittore svampito e un po’ folle. Oppure no, una città nebbiosa e magica, porte di accesso a mondi dalle regole strane, un personaggio alla ricerca del suo passato dimenticato. Realtà o fantasia? Storie, fantasmi o sogni? Questo è l’inestricabile impasto dell’esordio narrativo di Lavinia Petti, una bella storia, densa e appassionante, dentro cui tuffarsi per perdersi e ritrovarsi. In fondo, è anche un po’ quello che fa lo stesso protagonista, lo scrittore Antonio Maria Fonte, autore e protagonista delle storie che si mescolano in questo romanzo che potrebbe essere un po’ fantasy e un po’ no. Niente atmosfere irreali, a portarci nel mondo magico del Regno delle cose perdute è sufficiente un ascensore di un palazzo del centro di Napoli, città di mare e nebbia, fascinosa cornice brulicante di misteri e storie passate. Non poteva esistere scenario più efficace. Sbadato, smemorato e assai bizzarro, Antonio vive solo con una gatta da un unico occhio, Calliope. È un narratore di storie, ed è così che si guadagna da vivere, finendo però per restare intrappolato nella sua, di storia. La sera del suo cinquantesimo compleanno Antonio Maria Fonte cammina senza meta per la città finché, senza che se ne accorga, i confini del reale si sfaldano intorno a lui e magiche forze del passato e del ricordo lo conducono a Tirnaìl, mondo delle cose

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perdute. Da questa interferenza tra sogno magico e vita quotidiana si avvia la straordinaria storia della ricerca del proprio passato, dei propri ricordi: le cose perdute. Come in ogni avventura picaresca in luoghi altri, Antonio sarà accompagnato nella intensa, a tratti pericolosa e angosciante ricerca della propria identità e della propria memoria da amici e nemici. Uno strano pittore che dipinge sempre la tela bianca, Edgar, gli fornirà le infinite chiavi di mondi nuovi e impossibili per esplorare la terra delle storie perdute, e una giovane dalla chioma verde con un tatuaggio di libellula sulla mano sarà una sorta di musa avventuriera da seguire. Genève Poitier, nome misterioso sull’indirizzo di una busta ricevuta da Antonio e da lui stesso inviata per ricordare. Ricordare cosa? L’avventura nei meandri della memoria sarà una magica e tormentata ricerca di se stessi. Metafora della rimozione traumatica, la storia di Fonte è una vera e propria immersione nello spazio-tempo sospeso dei ricordi, dove tutto si mescola ed esistono città delle illusioni come la galleggiante e nebbiosa Vanesia, prigioni di tenebra e buia perdita di speranze e vita come Nechnabel, negozi di vento e salsedine sulle sponde del mare Netturbio, che raccoglie tra le sabbie delle sue spiagge gli oggetti perduti delle persone. Dettagli che fanno storie. Dettagli che, raccolti uno a uno lungo la fitta narrazione e il tortuoso intreccio del racconto,

ricondurranno all’origine di tutto. È un cammino complicato, che gira a vuoto, si arrampica su frammenti di se stesso, a volte ritorna, a spolverare e rendere nitide le intuizioni, ipnotico e assai poco lineare: un viaggio nel rimosso, nella memoria perduta, che mescola illusioni di carta a vite vere, personaggi fantastici a misteriosi datori di lavoro in grado di trovare ladri di storie perdute, ladri di nebbia, ricordi lattiginosi e sfuggenti che vanno salvati prima di perdersi per sempre. In questa tela dai tanti e complessi piani narrativi e intrecci, Lavinia Petti dimostra una maturità salda nell’intessere una storia affatto banale, anzi ricca di ellissi che via via si chiudono per riaprirsi e riallargarsi. Il tutto con un linguaggio che non indugia in piattezza, anzi ricerca una costante espansione, si fa elastico, fino a inglobare potenziali metaforici impensati, ricchezza poetica e di immagini che ampliano la scrittura, come se fosse essa stessa parte del mondo immaginario, sognante e in continuo movimento di Tirnaìl. E se pure romanzo della rimozione e della perdita, con le sue tinte a tratti oscure, un po’ gotiche e spettrali, questa storia saprà invece restarvi impressa nella mente per tutto il tempo necessario a mettere ordine tra i tasselli che confondono fantastico e realtà, fino a rivelarvi, forse, che è proprio dall’essenza di questa confusione che possono nascere e prendere forma le storie. Sfuggenti, fantastiche, segrete e speranzo-


BOOKS se narrazioni a metà tra il verosimile e l’immaginario, fatte della stessa materia della merce rubata da un ladro di nebbia.

A lessandra Chiappori

“La sua mente, forse rassegnata davanti allo scadere inesorabile del tempo perduto, aveva accantonato il sogno di arrivare a Mnemosia, ma nel vuoto lasciato da quella rimozione si stava pian piano inserendo qualcosa di diverso. Un’idea. […] Sentirsi perduti non equivale a essere perduti. Esserlo significa finire a Tirnaìl. Ma a chi si sente perduto, a chi ha smesso di cercare e di essere cercato, non rimane che un posto. E quel posto è Nechnabel.” Lavinia Petti, “Il ladro di nebbia”, Longanesi, 2015.

Lavinia Petti Se il suo primo romanzo è intrigante, lo è anche la sua storia editoriale: nel maggio 2014 Lavinia Petti, classe 1988, napoletana e laureata in studi islamici, invia qualche pagina del suo manoscritto a Longanesi. In casa editrice la scrittura della giovane autrice colpisce per la potenzia immaginativa, tanto che si cerca di contattare Lavinia, che però non risponde alle mail. Servono due mesi perché l’autrice si accorga dell’interesse per il suo romanzo, che può così uscire nel maggio 2015. Ma ancora prima della pubblicazione, l’editore francese Grasset si innamora del libro e ne acquista i diritti. C’è di che essere incuriositi!

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ARTINTIME popart@artintime.it

SUGGESTIONI DALLA BIENNALE DI VENEZIA 2015 I rintocchi dell’installazione dell’artista iracheno Hiwa K risuonano nell’Arsenale. “The Bell”, la campana, è frutto della fusione del materiale bellico che è stato raccolto da 30 paesi nel mondo e inverte la consueta pratica di fondere le campane per farne delle armi. Posizionata su un sostegno in legno, l’opera è dotata di una fune con un battacchio, in modo da poter essere suonata, trasformando così i residui bellici in uno strumento (musicale) di pace. Un’altra rinascita è quella che ci trasmette l’artista tedesca Katharina Grosse con il suo “Untitled Trumpet” (Arsenale). Macerie, rottami e lenzuola ricoperti di colori e vernici multicolor, che reinventano lo spazio e donano un tocco di positività a uno scenario di apocalisse cosmica.

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ART

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ARTINTIME events@artintime.it

TODAYS

SUMMER JAMBOREE

BOBBIO FILM FESTIVAL

Torino non va in vacanza e il 28, 29 e 30 agosto vi offre una manifestazione piena di musica: i TODays! Dal rock all’elettronica, dallo sperimentalismo al melodico, in una tre giorni capace di far riscoprire volti ed edifici industriali riqualificati di cui non conoscevate nemmeno l’esistenza.

A Senigallia, va in scena la storia americana degli anni ‘40 e ‘50, attraverso sessioni swing, rock’n’ roll, jive, doo-wop, rhythim’n blues, hillbilly e western swing. Tra macchine d’epoca e sound retrò, vi sembrerà di essere tornati nel passato.

A Bobbio, sui colli piacentini dal 1 al 15 agosto sarà in scena il Bobbio Film Festival. Quest’anno alla direzione artistica troviamo uno dei grandi del cinema italiano: Marco Bellocchio, legato alla location anche per via del suo lavoro “I pugni in tasca”. Film e protagonisti in una carrellata di serate sotto le stelle estive.

www.todaysfestival.com

www.summerjamboree.com

www.bobbiofilmfestival.it

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FESTIVAL INTERNAZIONALE DI MEZZA ESTATE

BLUES & WINE SOUL FESTIVAL

LA VALIGIA DELL’ATTORE

Un mese di arte, musica, teatro, danza e cinema a Tagliacozzo, nel cuore dell’Abruzzo. A coronare la 30esima edizione del Festival Internazionale di Mezza Estate anche una sezione “giovani talenti”, un cineclub pomeridiano, una mostra fotografica, incontri culturali e un workshop di cinematografia.

La Sicilia si illumina di grande Blues, Soul e Rhythm’n’Blues live, con il Blues & Wine Soul Festival. Ad Agrigento, nelle più belle locations, assaporando il made in Italy d’eccellenza si possono gustare improvvisazioni e grandi classici.

Fino al 2 agosto sull’isola de La Maddalena per interrogarsi sul mestiere dell’attore, in una manifestazione dedicata a Gian Maria Volonté. Uno sguardo insolito quello che gli interpreti della produzione artistica italiana lasciano al pubblico focalizzandosi sulle tecniche e l’originalità dell’interpretazione in teatro, al cinema e in tv.

www.tagliacozzoturismo.it/festival

http://www.bluesandwine.com

www.valigiattore.it

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EVENTS 12° MAGNA GRAECIA FILM FESTIVAL

ARIANO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL

BIENNALE DI TEATRO

Fino al 2 agosto a Catanzaro va in scena il Magna Graecia Film Festival. Grazie a un accordo con il Festival di Annecy Cinema Italien, il film vincitore vedrà l’accesso diretto al festival francese. Un momento di dibattito e incontro dedicato interamente ai giovani autori.

Ariano Irpino, Avellino. Quattro giorni di cortometraggi, lungometraggi, animazione, serie web, corti scuola e documentari. Insieme alla rassegna, ospiti internazionali e un concorso dedicato alla fotografia a tema libero e sul cinema.

Fino al 9 agosto, ad animare l’estate veneziana c’è la Biennale di Teatro. 16 gli spettacoli, 9 prime italiane e tanti ospiti. Artisti, drammaturghi, registi, coreografi e compagnie di evidenza internazionale, tra cui Christoph Marthaler, Leone d’oro alla carriera 2015, Lluís Pasqual, Romeo Castellucci, Fabrice Murgia, Thomas Ostermeier e molti altri.

www.arianofilmfestival.com

www.magnagraeciafilmfestival.i

www.labiennale.org/it/teatro

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BOLZANO FESTIVAL BOLZEN

LA NOTTE DELLA TARANTA

MILANO ARTE MUSICA

Per tutto agosto, fino al 5 settembre Bolzano diventa la capitale della musica classica. L’undicesima edizione della manifestazione è incaricata anche quest’anno di portare in Italia i migliori interpreti internazionali insieme agli strumentisti più promettenti d’Europa.

Come ogni anno torna puntuale la Notte della Taranta. Dal 5 al 23 agosto un fitto programma di musica popolare itinerante nel cuore del Salento: musica tradizionale salentina, ma non solo, anche la sua fusione con altri sound, dalla world music al rock, dal jazz alla musica sinfonica.

Per chi resta in città, anche quest’anno l’’Associazione Culturale La Cappella Musicale promuove il festival dedicato alla musica antica, portandola nei più importanti luoghi artistici di Milano. Venti date e quaranta variegati spettacoli, dal recital al concerto corale e orchestrale.

www.bolzanofestivalbozen.it

www.lanottedellataranta.it

www.milanoartemusica.com

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