ART
IN TIME n.11 - Novembre 2015
ARTE | CINEMA | MUSICA | TEATRO | LETTERATURA | INTERVISTE | EVENTI | LONDON NEWS
ARTINTIME L’EDITORIALE “Un artista è un donatore di emozioni. E chi dona emozione va sempre e comunque tutelato. Perché mette in gioco la sua anima per regalarsi agli altri”. Questo mese, grazie alle parole di Matteo Ghidella, che ha scritto per noi a proposito di “Inside out”, ci piace soffermarci a riflettere sulle emozioni, e sull’arte. Due concetti che vanno a braccetto: fredda un’arte senza emozioni, e spesso associate a vari tipi di arte le emozioni stesse. Romanzi che appassionano, dipinti che sconvolgono, film che fanno piangere: chi non lo ha mai sperimentato? Vivere l’arte condividendo emozioni è forse la maniera più diretta e più forte per sentirsi parte di un’esperienza molto più grande di quella da spettatore semplice, che scivola sulle superfici senza coglierne il valore profondo. L’arte con l’iniziale maiuscola sa “regalare un affresco armonico in grado di bussare all’anima dello spettatore e farla sussultare”, un compito di grande responsabilità, ma anche un’opportunità, quella di aprire un nuovo canale di comunicazione, poco visibile forse, ma di grande, immenso impatto. Siamo sempre pronti a ricevere tutta questa emozione, a saperla trasformare, da quel qualcosa che ci smuove, a cui spesso non sappiamo dare un nome e una classificazione, a qualcosa di razionale, visibile, da conservare e riutilizzare nella vita di tutti i giorni? L’effetto catartico, che già gli antichi greci sperimentavano e cercavano nella ritualità del teatro, è ciò che ci colpisce nell’immediato davanti a un’opera d’arte, quella forza misteriosa e interiore che ci fa immedesimare, sciogliendo tutti i nodi e le resistenze, e dandoci aria, una leggerezza dei sentimenti. Pensate se riuscissimo sempre a identificare l’emozione di questi momenti, a riconoscerla e accorgerci del suo potere, e se potessimo tenerla da parte, per ricordarci di ciò che conta quando perdiamo i riferimenti. Non sarebbe magico? E non renderebbe, grazie all’arte, le nostre giornate e le nostre vite migliori? Noi vogliamo credere che grazie a un po’ di impegno, la magia delle emozioni che si nasconde nell’arte possa emergere, farsi ascoltare e, soprattutto, farsi vivere. Ci prepariamo a un novembre carico di eventi, arte ed emozione, che ci vedrà partecipare a Paratissima, l’evento dedicato all’arte emergente a Torino, e che porterà sul nostro magazine una consueta carrellata di esordi e di stralci artistici tra voci nuove che fanno musica, scrivono libri, e ancora tra classici “colpi di pennello” dall’Impressionismo, e tanta bellezza. Quel che ci proponiamo è di dare spazio a tutte queste tessere del grande mosaico artistico, per farvi arrivare tutta la loro emozione. Vi lasciamo così al nostro nuovo numero, con una domanda – e una riflessione – tratta sempre dall’articolo del nostro Matteo: “un artista di talento va tutelato perché dona emozione. Chi la riceve ha il dovere di valorizzarla. Se non la valorizza, l’emozione svanirà e l’artista, piano piano, si estinguerà. E l’arte con sé. La vita avrebbe ancora un senso in quel caso?”.
Alessandra Chiappori
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chuck@artintime.it
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ARTINTIME SOMMARIO 6 . ANDREA NARDINOCCHI by Angelica Magliocchetti
8 . DA “INSIDE OUT “AL QUOTIDIANO : L’IMPORTANZA DI UN’EMOZIONE by Matteo Ghidella
12 . STILL HAVEN’T FOUND WHAT I’M LOOKING FOR by Alessandra Chiappori
14 . CLAUDE MONET ALLA GAM DI TORINO by Roberta Colasanto
16 . S.T.A.R. ARTIGIANI DELL’ARTE by Redazione
18 . QUATTRO CHIACCHIERE CON CAROLINA BUBBICO by Alessandra Chiappori
22 . KITTY, DAISY & LEWIS by Angelica Magliocchetti
24 . LA VOCE DEL FILO NASCOSTO by Alessandra Chiappori
26 . 1+1 UGUALE… PARATISSIMA ! by Redazione
28 . EVENTI
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ANDREA NARDINOCCHI Partiamo da “L’Unica Semplice”. Perchè? Perchè coinvolge, trascina e parla di musica. Di quel feeling particolare che lega il ventinovenne bolognese Andrea Nardinocchi alle sue composizioni, e perchè unica traccia creata a quattro mani con un altro autore della zona: Emme Stefani. Partiamo quindi da un passione che fin dall’inizio cattura l’artista, autodidatta ed eclettico, e lo spinge a farsi conoscere tramite mash-up e brani originali affidati al web, cercando fin da subito di discorstarsi da un universo musicale ben definibile ed etichettabile. Una scelta coraggiosa, che lo premia portandolo a pubblicare il suo primo singolo “Un posto per me”, con l’etichetta Giada Mesi, di Dargen D’amico. Il successo arriva immediato, tanto che Vevo.com lo sceglie come artista per lanciare sul mercato italiano il primo live disponibile in streaming. È il 2013 e il suo secondo singolo “Storia impossibile” debutta direttamente dall’arena Giovani del Festival di Sanremo. Nello
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stesso anno per la EMI esce “Il momento perfetto”, il primo album del giovane artista bolognese. Un esordio che non delude, anzi, sorprende per la naturalezza, lo spirito naif e l’urgenza con cui il soul digitale riesce a colmare tutte le sfumature più inaspettate. Una ricerca sonora e una timida spolverata di pop che ci regalano brani come “Un posto per me” o “Tu sei pazzo” (ft. Marracash). Un esordio che entusiasma, seppure ancora un po’ acerbo. Basta aspettare due anni però, perché nel 2015 esca “Supereroe”, il secondo lavoro. L’impronta forte resta, ma il mood cambia radicalmente. Più sicuro, più ironico, più leggero, Andrea Nardinocchi si lascia andare e produce un lavoro libero da limitazioni e paure. Ricco di influenze r&b, funk e elettropop anni ‘80, l’album si propone più strutturato, seppure ancora in bili-
co tra sperimentalismo e pop. Una prova di carattere per il giovane artista che colpisce con brani come “Hu! Eh!” , la calzante “Come MJ” e la leggerezza di “Coretti a palla”. Quindi, rullata d’apertura come per il ritornello di “Goodbye paranoia” and... Enjoy!
Angelica Magliocchetti
MUSIC
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ARTINTIME DA “INSIDE OUT “AL QUOTIDIANO : L’IMPORTANZA DI UN’EMOZIONE Un artista è un donatore di emozioni. E chi dona emozione va sempre e comunque tutelato. Perché mette in gioco la sua anima per regalarsi agli altri. Troppo spesso questo concetto viene dimenticato, troppo spesso l’artista non viene valorizzato come merita, troppo spesso è messo ai margini della società e gli viene impedito di lavorare nel modo giusto. La Pixar, una delle più grandi case d’animazione al mondo, forse la più grande, è popolata da grandi artisti, geni assoluti del nostro tempo che regalano opere d’arte uniche e memorabili. La Pixar, e solo lei poteva farlo, ha creato un film sulle emozioni. Pochissimo tempo fa è uscito “Inside Out”, un film destinato a entrare nella storia, di una ricchezza e qualità unici. Un vero capolavoro. Partiamo però da un concetto molto più ampio prima di addentrarci in una breve analisi del film: l’importanza dell’emozione cinematografica. Pretenziosetto, direte. Non avete torto. Innanzitutto, cosa intendo con l’espressione “emozione cinematografica”? La componente emotiva che un film suscita in ciascuno di noi, spettatori desiderosi di vivere un’esperienza completa. Partiamo dal presupposto che bisogna essere predisposti per vivere intensamente un’emozione: bisogna cioè donarsi completamente
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a quel tipo di esperienza, senza vincoli. Concetto estremamente difficile e raro. Quanto si è disposti a emozionarsi veramente senza freni guardando un film? Piangere, ridere, sussultare senza paura del giudizio degli altri (al cinema ad esempio) o, peggio ancora, di noi stessi che ci autogiudichiamo deboli. magari poco virili. Sono tante, troppe le persone che si impongono questi vincoli e fanno fatica a liberarsi. Ma non aver paura di farlo e vivere il proprio viaggio senza freni rende l’esperienza spettatoriale decisamente più vera e completa. Quanto è importante, dunque, che un film emozioni? Secondo me è fondamentale. Un’opera d’arte in generale - cinematografica in particolare - per essere degna di questo nome deve saper emozionare. Deve cioè regalare un affresco armonico in grado di bussare all’anima dello spettatore e farla sussultare. E di qualsiasi sussulto si tratti, risate, paura o lacrime, sarà sempre un sussulto positivo, perché smuoverà e farà crescere, facendo prendere consapevolezza e nuova percezione del reale. Bene, ci stiamo addentrando in un viaggio mentale realmente complicato e ingarbugliato, quasi senza logica. Forse perché chi scrive prova a seguire proprio quella forza emotiva di cui stiamo parlando, senza freni o contesti particolarmente definiti.
Mi rendo conto però che chi legge ha bisogno di un minimo di ordine, proverò quindi a fare degli esempi concreti di quello che io ho in testa per definire un’emozione cinematografica. Cito alcune scene che conosco bene e che credo siano significative per questo discorso. La prima che mi balza alla mente è il celebre tango di Al Pacino in “Scent of a Woman”. In quella scena, un ritratto formidabile di bravura attoriale, fotografia, utilizzo della macchina da presa e coinvolgimento, l’armonia della danza di un ex colonnello non vedente arriva dritta al cuore di chi guarda, suscitando empatia e trasporto emotivo. Impossibile non farsi cullare da quelle note, impossibile non sussultare di fronte a quei giochi di sguardi e all’eleganza armonica di musica e passi. Un gioiello. Procedendo in un ordine mentale tutt’altro che definito, “Buongiorno Principessa! Stanotte t’ho sognata tutta la notte, s’andava al cinema e c’avevi quel tailleurino rosa che ti piace tanto. Non penso che a te principessa, penso sempre a te...”. Nella sua enorme e geniale semplicità, Benigni ne “La vita è bella” ci regala una delle sequenze più belle e toccanti della storia del cinema. Accompagnate dalle note di Piovani, queste parole toccano l’animo come poche altre, facendoci sentire semplicemente meglio e in armonia con il mondo. Sia immedesimandosi in
MOVIES
chi le dice sia, naturalmente, in chi le riceve. Robin Williams in “Will Hunting – Genio Ribelle”, in una scena completamente improvvisata in cui racconta a Matt Damon le piccole debolezze che solo lui conosceva della defunta moglie ride a crepapelle, facendo ridere anche il cameraman che non si aspettava nulla di quello che sarebbe andato a riprendere. Si nota chiaramente la macchina da presa ballare senza che nessuno se ne preoccupi, tanta è la gioia di regalare un minuto di così alta naturalezza e verità. Emozione autentica. La sequenza di “C’era una volta il West” di Sergio Leone, il saluto finale di Armonica alla meravigliosa Claudia Cardinale, il suo addio. Un gioco di sguardi da pelle d’oca, pochissime parole, maestria registica, attori spaventosi, colonna sonora da
fantascienza. Arte, arte allo stato puro. La scena finale de “Il re leone” disneyano, la salita alla rupe dei Re di Simba, con lo sguardo dal cielo di Mufasa e il suo “Ricordati”, in un climax maestoso ed epico che fa brillare gli occhi. Potrei andare avanti pagine e pagine intere ma non è il caso. Credo e spero di aver reso l’idea, sono convinto che basti la visione di una di queste sequenze per capire cosa intendo quando parlo di emozione che fa vibrare l’anima agli spettatori dello spettacolo cinematografico. E l’emozione maggiormente ricorrente, nelle scene citate e in generale quando ci si lascia andare durante la visione di un film, è quella che porta alla lacrima, quella che suscita malinconia e tristezza. E
“Tristezza” è proprio il personaggio chiave del film dal quale siamo partiti. “Inside out”, come dicevo, è un film sulle emozioni. Raffigurate come pupazzetti nella testa di ognuno di noi, nello specifico in quella della protagonista, una ragazzina di tredici anni, le emozioni pilotano le nostre giornate, decidendo di volta in volta il sentimento che dobbiamo vivere in quel momento e durante quel preciso cambiamento della nostra vita. “Gioia”, “Rabbia”, “Paura”, “Disgusto” e “Tristezza” si alternano al comando del nostro quotidiano, rappresentando ognuna una componente fondamentale del nostro carattere e della ricerca del nostro benessere. Il film racconta la semplice storia di una normalissima ragazzina che, come tante altre, si ritrova improvvisamente a seguire
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la sua famiglia in una nuova città sconosciuta, con un mondo nuovo da scoprire. In un viaggio onirico a seguito di un banale incidente, “Gioia” e “Tristezza” si perderanno nei meandri della sua mente, sprofondandola in uno stato di totale e quasi inguaribile apatia. La morale del film ci insegnerà che l’emozione più importante, quella meno considerata e più bistrattata perché ritenuta pericolosa, è proprio “Tristezza”, senza la quale non può esistere “Gioia”, perché la sua è autenticità e verità che non si può ritrovare in nessun’altra emozione provata. Senza lacrime, malinconia e momenti bui, non esiste rinascita, non esiste bellezza, non esiste positività. Lasciarsi andare alla tristezza significa lasciarsi andare alla vita. Accogliere la tristezza dentro ognuno di noi è fondamentale per
ritrovare noi stessi, per riscoprire l’autenticità che qualsiasi esistenza richiede per essere vera e vissuta nel miglior modo possibile. Accogliere la tristezza significa vedere il mondo nel modo giusto e vivere il proprio quotidiano nella consapevolezza che il segreto sta nella ricerca della verità. Accogliere la tristezza significa avvicinarsi all’essere felici. La Pixar, con “Inside out”, ci insegna proprio questo. Liberarsi, lasciarsi andare, vivere un’emozione fino in fondo. Questo significa poter ambire a essere felici. E poco importa se sono lacrime per una scena struggente di un film, l’importante è che quelle lacrime siano libere di uscire, senza vincoli e senza vergogna. Quelle lacrime porteranno altre lacrime, che laveranno via le scorie e puliranno il futuro.
Non vergogniamoci di esternare le nostre emozioni guardando un film, ammirando un quadro, ascoltando una canzone o vedendo uno spettacolo teatrale. Non ce ne vergogneremo nella vita di tutti i giorni. E non vergognarsi di vivere le proprie emozioni è un primo passo fondamentale per armonizzarci con il mondo che ci circonda. Un artista di talento va tutelato perché dona emozione. Chi la riceve ha il dovere di valorizzarla. Se non la valorizza, l’emozione svanirà e l’artista, piano piano, si estinguerà. E l’arte con sè. La vita avrebbe ancora un senso in quel caso? Io la risposta ce l’ho, ed è terribilmente triste. Ma di una tristezza, questa, che non porta affatto a crescita. Porta solo ad un buio senza ritorno. Evitiamo che ciò accada!
Matteo Ghidella
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SERIE TV
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ARTINTIME STILL HAVEN’T FOUND WHAT I’M LOOKING FOR La canzone degli U2 risuona nelle orecchie tra le pagine del romanzo di esordio di Ginevra Lamberti: I still haven’t found what I’m looking for. Gaia, giovane protagonista di “La questione più che altro” è sorpresa in quel momento sospeso della vita tra la fine degli studi e l’ingresso in quello che una volta era un solido e sicuro mondo della vita adulta: lavoro, casa, famiglia. Nessuna di queste tre basi è però stabile per una ragazza alla costante ricerca di qualcosa che non trova. Sballottata tra la triste valle veneta dove vive, popolata da anziani, distante da tutto a meno di prendere un trenino locale bicarrozza a motore, Gaia è in attesa di cambiamenti: l’ultimo esame universitario, poi la tesi, la necessità di uno stipendio. I giorni passano, i fatti si avvicendano, ma la questione resta. E da qui ecco allora la ricerca del lavoro, gli annunci su internet, le richieste assurde e i colloqui altrettanto insensati. Arriveranno poi lavoretti vari: l’immancabile call center, la ragazza immagine, altre consegne di curricula che esulano totalmente dalla laurea in lingue orientali, e poi la commessa. Nel frattempo ci si sposta dalla triste valle, si scende nell’altrettanto sconsolata e vuota Mestre, tra strani coinquilini e case prive di certezze e stabilità, e poi a Venezia. Città d’arte e di turisti, il capoluogo veneto non sarà altro che un’ennesima tappa vuota e un po’ triste, nell’incessante ricerca di un qualcosa. La questione, ancora
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una volta, non è risolta. Se stabilità dalla vita personale e dal lavoro non ne arrivano, la famiglia di Gaia non è da meno: i genitori – che mai prendono il nome di mamma e papà ma sempre di genitrice e genitore, a sottolineare una consapevolezza tipica del linguaggio di questa storia – vivono separati, una madre frustrata e un padre malato che scherza con tutto, anche con la salute. Come gira intorno alle questioni di famiglia, al passato, ai lacerti di storie dell’infanzia legate ai nonni, così Gaia ha la tendenza incessante a girare intorno a ogni questione, in un costante tentativo di focalizzare qualcosa che garantisca sicurezza, certezza, rilassamento da una vita in perenne movimento, attesa, speranza di qualcosa tra continui cambi di luogo, lavoro, di vita. La ricerca incessante è rispecchiata dal linguaggio dinamico, uno degli elementi chiave del romanzo. Gaia – o meglio, l’autrice - parla in prima persona miscelando con scafata sapienza linguistica cliché della scrittura (“di questo parleremo più diffusamente avanti”), ironia e sarcasmo come farmaci contro il galleggiamento senza meta fissa di una vita da ventenne-trentenne. E l’età si sente tutta, nei riferimenti e nei sottesi rimandi a situazioni, modi di dire, abitudini di vita e di pensiero, usi “dell’Internet”, come lo sostantivizza Gaia, rassegnato accettare quel che il corso della vita contemporanea offre a un neolau-
reato. E sarcasmo, tanto sarcasmo a ricamare l’assurdo di un quotidiano ben diverso da ciò che si sognava prima, da piccoli. C’è probabilmente dell’autobiografia in questa storia che ha un inizio e una fine, ma che non racconta una vicenda per intero, ne focalizza una parte, densa di avvenimenti e cambiamenti, puntellata di riflessioni, attacchi di panico crescenti e qualche personaggio tratteggiato sullo sfondo. La vera protagonista è Gaia (o l’autrice?), filtro di questo spaccato che, oltre al notevole e mai banale linguaggio, si caratterizza anche per la capacità di parlare senza banalizzazioni di una sorta di disagio attuale dei trentenni. Che sia realistico dipinto di una situazione di crisi lavorativa che investe tutti, oppure tappa fissa nel passaggio di un’età che segna l’arrivo del giudizio, dove tante ipocrisie e sogni luminosi vengono intaccati dalle controversie della vita, questo romanzo rappresenta più che mai la dinamicità del momento e le angosce temperate delle sue voci trentenni. È una ricerca, a tratti zoppicante, a tratti impaurita dagli ostacoli, ma anche forte della propria piccolezza e insicurezza, e consapevole di sé, sotto a un make up costruito non per fingere con ipocrisia ma per presentarsi al mondo facendo per un attimo finta di sapere dove si sta andando, cosa si sta cercando. Gaia, come tanti, forse non lo ha ancora ben capito, e mentre trasloca per l’ennesima volta, o torna
BOOKS qualche giorno nella sua valle di origine prima di riprendere l’ennesimo lavoretto in città, si concede il tempo e la scrittura per riflettere sul pauroso e importante cambiamento di un contratto a tempo indeterminato, di una fine senza ritorno, di un passaggio d’età sempre più complicato.
A lessandra Chiappori
“Allo stato attuale delle cose, mancano diciannove giorni a Natale, venticinque a Capodanno, qualcosa di più e di ancora imprecisato all’ultimo esame, quello che sta lì e mi guarda da due comodi anni e mezzo fuori corso. La questione che mi mette in difficoltà è più che altro che stare parcheggiata nella valle dove vivo alla lunga annoia di noia mortale. A conti fatti, comunque, volevo dire che sto bene, a parte che l’isolamento in un ipocondriaco è un generatore automatico di cartelle cliniche” Ginevra Lamberti, “La questione più che altro”, Nottetempo, 2015.
Ginevra Lamberti Ginevra Lamberti è nata nel 1985 e vive a Venezia. Ha una laurea in Lingue e Culture Euroasiatiche e del Mediterraneo e, oltre a scrivere, si divide tra il lavoro di copywriter per l’associazione culturale Flat, quello di baby-sitter e quello in un call center.
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ARTINTIME CLAUDE MONET ALLA GAM DI TORINO Amanti dell’arte francese, si rinnova anche quest’anno l’asse Parigi-Torino! Dopo i successi delle esposizioni su Degas e Renoir, è la volta di un’ importante mostra monografica su Claude Monet con oltre quaranta opere provenienti dal Musee d’Orsay, alcune delle quali per la prima volta presentate in Italia. I dipinti sono organizzati secondo nuclei tematici, seguendo l’evoluzione cronologica dello stile e della tecnica del maestro, uno dei padri dell’Impressionismo; come tutti sanno fu proprio un suo quadro, “Impressione del Sole che nasce”, a dare il nome al noto movimento artistico. I primi lavori dell’artista presentati in mostra ritraggono paesaggi per lo più realizzati con una maniera più definita, quasi a macchia, sicuramente meno frammentata rispetto a quello che diventerà la cifra stilistica caratteristica del pittore. In questa prima sezione è esposto il trittico di paesaggi composto dal banchiere e collezionista Ernest May con quadri realizzati rispettivamente da Pisarro, Siley e Monet nel 1872. Vi sono accostate altre opere dove l’artista sperimenta gli effetti della luce su superfici riflettenti e mutevoli come l’acqua e la neve. Dal paesaggio alla rappresentazione della città, la spettacolare “Rue Montorgueil à Paris”: la folla manifestante in festa al di sotto delle bandiere sventolanti è colta da una prospettiva dall’alto ispirata alle stampe giapponesi, e resa da una miriade di tratti scon-
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nessi, un’accozzaglia di colori chiassosa e priva di senso se osservata da vicino, che si ricompone in una scena di altissima suggestione man mano che ci si allontana dal dipinto. Le pennellate nervose, dense, ravvicinate, diventano proprie della maniera di Monet, così come le compone in un dipinto sorprendente dal vivo per la sua lucentezza e ricchezza di colore, “Argenteuil”. Uno spazio a sé nella mostra occupa il tema della figura umana, a cui pure il pittore si dedicò. Di straordinaria intensità è il ritratto della moglie, colta in un momento di riposo sul divano, con un libro tra le mani: “Meditazione. La signora Monet sul divano”. Un dipinto ancora dell’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento, caratterizzato da una pennellata più fluida, ad ampie macchie, e permeato di un’atmosfera intima e familiare. Di fronte alla rappresentazione della moglie colta in un suo atteggiamento quotidiano, è posto il grande ritratto in posa di Madame Louis Joachim Gaudibert: l’atmosfera è più ufficiale, benché la donna venga ritratta nell’atto di girare il volto, che dunque non è raffigurato, e il grande protagonista del quadro altri non è che il superbo vestito, definito da pesanti ombre nelle sue pieghe e ravvivato dai colori accesi del prezioso scialle. Domina lo spazio tra i due ritratti il grande frammento della “Colazione sull’erba di Monet”, dipinta come omaggio e risposta alla celebre “Colazione sull’erba” di Manet. A tratti
non finito negli angoli, le figure si compongono a grandi macchie con chiazze di colore quasi sfacciate per la loro intensità, usate per rendere in lontananza ombre ed effetti di luce. Con i suoi due metri e mezzo per due questo dipinto rimane comunque un frammento di una tela più grande: data in pegno da Monet al suo padrone di casa per coprire la quota dell’affitto, lui stesso raccontò che al momento in cui riuscì a recuperarla la tela “aveva fatto in tempo ad ammuffire” e si vide costretto a tagliarla. La mostra continua con una selezione di paesaggi, molti dei quali dipinti dall’artista sulla sua barca atelier, altri capolavori come la “Donna col parasole girata verso destra”, fino ad arrivare al gran finale: due versioni della “Cattedrale di Rouen”, parte di una delle serie a cui Monet si dedicò per lo studio dei cambiamenti di luce e atmosfera nei diversi momenti del giorno, e il suggestivo “Parlamento di Londra, effetto di sole nella nebbia” datato 1904. Un vortice di colore e una sagoma in lontananza, come vista da un obiettivo sfocato. Colore e luce, questo il riassunto dell’ opera e dello studio di Monet. Dopotutto, per dirla con Cezanne, “Monet non è che un occhio, ma buon Dio che occhio!”.
Roberta Colasanto
UNCLASSICART
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S.T.A.R. ARTIGIANI DELL’ARTE Moltissime idee elaborate con maestria tecnica hanno la forza di poter essere ripetute: dalla costruzione di un tavolo al funzionamento di uno smartphone, una volta scoperto il meccanismo, la procedura si può replicare, perfetta fin quando ne viene scoperta una migliore. Le idee che invece portano alla costruzione di una performance, di uno spettacolo, non sono mai abbastanza precise per essere ripetibili; più in generale: non c’è un manuale di istruzioni per costruire l’arte, mettendo insieme messaggio, emozioni, relazione e codice artistico. La sfida della “Scuola di Teatro Arte e Relazione – S.T.A.R.” è proprio quella di formare gli “artigiani dell’arte”, dalla recitazione fino all’arte 2.0, con la sua proposta “STAR…IN SCENA!”. Nessuna presunzione di fornire un manuale: la S.T.A.R. lavora con un percorso full-immersion di una settimana, per dare ai suoi allievi gli strumenti necessari per creare la scena nelle sue parti principali. E per fornire questi strumenti non lavora solo sul laboratorio, ma arriva a met-
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tere in scena uno spettacolo originale con docenti e allievi insieme, partendo proprio dalla “bottega” dei giorni precedenti. Si comincia il 23 novembre 2015 alle ore 18, si prosegue fino al 29 novembre con lezioni dalle 9,00 alle 23,00 e repliche dello spettacolo “Tutte Storie” il 27 e 28 novembre, ore 21, presso il Teatro Piccolo Valdocco, via Salerno, 12 a Torino. Sono tre i profili paralleli tramite i quali gli allievi possono scegliere di vivere la full-immersion: ARTISTI DI VARIETÀ: per chi vuole andare in scena mettendo al centro la relazione, per chi vuole scoprire i molteplici linguaggi del varietà d’arti, imparando a comunicare messaggi ed emozioni; SCRITTORI DI CREATIVITÀ: ideale per sperimentarsi non solo nella scrittura per lo spettacolo, ma anche nella scrittura narrativa, radiofonica, social, giornalistica, pubblicitaria e lavorativa; ANIMATORI VIDEOGRAFICI: dedicato a chi vuole raccontare utilizzando le immagini in movimento, dalle videografiche da spettacolo al video making: tutto per raffor-
zare la comunicazione. La Scuola di Teatro Arte e Relazione fa parte della cooperativa AnimaGiovane e non è solo formazione: è, prima di tutto, pensiero. Con il suo PointLab pensa l’arte al punto giusto, riunendo i suoi docenti in un continuo gruppo di confronto, studio e contaminazione delle arti. Inoltre, da 12 anni la S.T.A.R gira l’Italia formando e performando, con tournée e interventi laboratoriali in 18 regioni su 20. Da sempre, la filosofia della Scuola è quella di mettere al centro la relazione nella creazione artistica, creando occasioni di narrazione sociale e di incontro tra le generazioni e le visioni, restituendo al teatro, a seconda dei contesti, il suo legame con l’individuo e con la comunità. Per ulteriori informazioni sui percorsi S.T.A.R, potete visitare la pagina Facebook Scuola di Teatro, Arte e Relazione - STAR, oppure il sito www.animagiovane.org oppure ancora potete scrivere un’email a star@animagiovane.org
TEATRO
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ARTINTIME “UNA DONNA” TRA JAZZ, FUNK ED ENERGIA QUATTRO CHIACCHIERE CON CAROLINA BUBBICO Ha tutta l’energia e il brio dei suoi 25 anni, miscelati a un talento autentico e a una predilezione per sonorità che spaziano dal jazz al funk all’elettronica. Arriva da Lecce, si chiama Carolina Bubbico, e ha esordito con il suo primo album “Controvento”, interamente composto e arrangiato da lei, nel 2013. Figlia d’arte, Carolina ha una formazione versatile: è autrice, arrangiatrice, polistrumentista e vocalist. Il suo esordio avviene in solo, nel 2011, con il progetto “One girl band” in cui si diverte con voce, percussioni e una loop station. Segue la formazione in trio, che la vede affiancata da Luca Alemanno al contrabbasso e Dario Congedo alla batteria. Con loro lavora al suo primo disco, alcuni pezzi del quale compongono la colonna sonora del film “L’amore è imperfetto”. “Controvento” approda a Radio2, Radio24, e in numerosi festival jazz tra cui Piossasco, Locus Festival, Riverberi e Ravello Festival, durante il quale Carolina suona con il Sesto Armonico diretto da Peppe Vessicchio e Fabrizio Bosso. Dopo i successi di critica e pubblico e svariate esperienze musicali che ne hanno arricchito il percorso e la formazione, Carolina ha presentato lo scorso 15 ottobre il suo secondo album “Una donna” pubblicato per Workin’ Label con il sostegno di Puglia Sounds Record 2015. Artintime l’ha incontrata durante la tappa torinese del tour promozionale, e ha colto l’occasione per fare con lei quattro chiacchiere alla scoperta di “Una donna” che ha tanto talento da esprimere.
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Pianista, cantante, compositrice, arrangiatrice: il grande pubblico ti ha conosciuta quando, durante il Festival di Sanremo 2015, sei stata direttrice d’orchestra per Il Volo e Serena Brancale. In realtà tu fai tantissime altre cose, hai all’attivo un disco intessuto di suoni jazz e funk – “Controvento”, del 2013 - e arrivi da anni di studio al conservatorio Nino Rota di Monopoli. Dietro alla somma di definizioni che ti descrivono, chi è davvero Carolina Bubbico? In quale “etichetta” ti ritrovi di più? Direi compositrice. Mi vedo però con uno sguardo a 360 gradi, ed è una cosa che mi piace ricordare sempre, proprio perché sono cresciuta in quest’ottica. Durante l’infanzia ogni anno cambiavo strumento, questo mi ha dato la voglia di osservare sempre la musica da diversi punti di vista, ed è un approccio che si ritrova anche nelle mie canzoni. Il ruolo di arrangiatrice mi piace moltissimo, ci sto lavorando tanto e rimanda anche al mio sentirmi compositrice, se vogliamo infatti l’arrangiamento è una composizione. Il 15 ottobre è uscito il tuo secondo disco “Una donna”, otto tracce originali e una cover - di cui avremo modo di parlare -, tutti pezzi arrangiati da te. Ci racconti come nasce questo disco, da che esperienze arriva e cosa racchiude? “Una donna” è un titolo davanti
al quale porsi già alcune domande. Perché “Una donna”? Sicuramente non lo definirei un disco al femminile, anche se potrebbe sembrare un lavoro dedicato alle donne. È invece un disco dedicato un po’ a me, alla mia evoluzione dall’infanzia all’età adulta. È un passaggio che conserva entrambe le parti: immagino che custodirò la parte bambina per tutta la vita, ma mi affaccio anche alla figura di una donna, sia biograficamente che musicalmente. In questo disco mi vedo cresciuta da tanti punti di vista. Mi auguro sia un’evoluzione rispetto a “Controvento”, anche se al primo album mantengo sempre uno sguardo attento perché aveva un’impronta molto spontanea, era stato realizzato di getto, riscoprendomi capace di poter scrivere canzoni. “Una donna” invece è stato più ragionato: in quanto secondo disco è necessario porsi delle questioni, fare confronti. Nonostante questo, paradossalmente la fase di scrittura iniziale è stata molto ragionata, ma la registrazione è stata veloce: abbiamo fatto tutto in una settimana e in venti giorni il master era pronto. Si è creato così un gioco interessante e anche molto bello per me: la fretta ti porta a mettere più entusiasmo in quello che stai facendo. È un disco dove i brani prendono forma ancora più di prima come canzoni, con un’aggiunta, la novità della lingua inglese. Musicista ma anche cantautrice: sei tu a scrivere i tuoi pezzi, e i risultati sono spesso ironici, freschi e insoliti, come “Signorina distanza”, “Le mani ti rac-
INTERVISTANDO
contano”, “Quando fuori piove”. Come avviene il lavoro di scrittura, dal momento dell’ispirazione all’arrangiamento del pezzo, che segui tu stessa? Sono approcci sempre differenti. Ci sono brani che vengono fuori con scioltezza incredibile, è il caso per esempio di “Quando fuori piove”, che è stato scritto praticamente in un pomeriggio, occasione molto rara. È stata l’impressione che ho avuto un pomeriggio, in un momento in cui c’era la pioggia con il sole e questo immaginario, quasi un quadro che vedevo nella veranda di casa mia, mi ha ispirato nel dedicare un brano alla natura, a questi incastri, convergenze atmosferiche. Ci sono casi, invece, dove c’è un lavoro molto lungo di scrittura testuale. È un aspetto a cui in questo disco ho dedicato ancora più attenzione, cercando di far
emergere significati più intensi e profondi, sotto a una scrittura più impegnata. A differenza del primo disco, dove il testo era subordinato alla musica, in questo caso non è propriamente il contrario – mi sento sempre molto musicista nel mio modo di pensare! – ma sono stata tanto sulla scrittura dei testi. Ci sono giochi di parole, per esempio “Distrattamante”, che comprensibilmente viene spesso scambiato per distrattamente, o “Signorina distanza” che è una personificazione della distanza, una tematica che mi è molto cara e tocca i viaggi e la distanza che intercorre tra persone che vanno e vengono. Arrivi da una formazione jazz, e se in “Controvento” si sentiva molto un’impronta swing, nel tuo nuovo disco la musica si arricchisce e si apre a sono-
rità elettroniche, al funk, all’R&B: quali sono gli ingredienti sonori di “Una donna” e in che direzioni viaggia la tua ricerca musicale? È difficile dire dove sto andando: mi do una direzione, ma è un lavoro in itinere. Lavorerò certamente sulla forma canzone, sulla song, e perché no in più lingue, sicuramente in italiano e con uno sguardo all’estero: è una parte a cui tengo molto dopo l’esperienza di questa estate in Germania. In quanto agli ingredienti, sicuramente sì, la mia provenienza è jazz, dove per jazz si intende in senso allargato la musica di stampo afroamericano, basata fondamentalmente sull’improvvisazione, e io tendo molto nei miei concerti a fare variazioni sul tema. In “Una donna” c’è anche un pizzico di musica italiana, una realtà a cui mi sono approcciata, oltre al jazz ci sono il new
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ARTINTIME soul, l’R&B e il funk, sonorità dettate soprattutto dagli elementi: l’elettronica, che è la novità, la sezione di fiati che è tipicamente soul-funk, gli archi, un tipo di scrittura su cui sto lavorando e che richiama un po’ la musica contemporanea colta, ma anche il pop delle orchestre liricosinfoniche. Il singolo con cui è stato lanciato il tuo nuovo album è un pezzo fresco e ironico “Cos’è che c’è”, all’interno del quale spicca una frase: “la realtà dipende da me”, qual è il messaggio che vuoi lanciare? Il brano, così come anche il videoclip con cui è stato lanciato, vuole richiamare l’attenzione sulla relatività della realtà, far capire che la realtà è soggettiva e ognuno di noi può esserne l’artefice, può costruirla intorno a sé, con i propri ornamenti. È un pensiero che faccio su di me e che inoltro a chi vorrà prendere i miei brani come spunto di riflessione, che è l’aspetto che mi piacerebbe portare avanti. Il titolo “Cos’è che c’è” si sposa benissimo con il videoclip, dove compaiono delle sagome senza volto: cos’è che c’è dietro quelle sagome? È un invito per ognuno a riempire quelle sagome con la propria realtà. “Una donna” include otto tracce originali e una cover, “Superstition” di Stevie Wonder, che hai preso e riproposto in una nuova veste. Da cosa nasce l’idea di realizzare questa cover e quali elementi personali e originali hai inserito a livello musicale in questo pezzo cult? La scelta del pezzo è dettata da un episodio personale: durante il biennio al conservatorio di Monopoli ho lavorato su un trittico dedicato a Stevie Wonder. “Superstition” è stata una scelta voluta: avevamo
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bisogno di un brano particolarmente cult della sua produzione per una rielaborazione totale, una destrutturazione, che è proprio quello che ho fatto. Il lavoro mi è piaciuto così tanto che ho voluto mettermi alla prova riportandolo nel disco in chiave molto elettronica. Di “Superstition” vengono rielaborati tutti gli aspetti: il ritmo - la mia versione è in sette ottavi - e anche l’armonia e la melodia. Verrebbe quasi da chiedersi, visto che ho cambiato tutto, perché non abbia scritto un pezzo mio, ma la scelta è stata proprio quella: una sfida. Anzi, vorrei farlo arrivare a Stevie Wonder per sapere che ne pensa! Pensando al disco, quali sono la traccia a cui sei più affezionata, quella che ti diverte di più, quella che non vedi l’ora di eseguire live? Quella a cui sono più affezionata è “Signorina distanza”, è un testo a cui tengo molto, su una tematica che mi sta a cuore e che mi fa emozionare. Quella che mi diverte di più è “Etilady”, un gioco di parole, unico testo che non è mio ma di Daniele Vitali, musicista, che racconta la storia di una donna in uno stato di ebbrezza, lo affianco per divertimento a “Cos’è che c’è”. Per il live, “Distrattamante” mi piace molto. La scorsa estate sei stata in tour in Germania in trio, accompagnata da Luca Alemanno al basso e Dario Congedo alla batteria, ora invece hai davanti un mini tour di presentazione del disco in Italia. Come è stata l’accoglienza all’estero e quali progetti stanno bollendo in pentola per il prossimo futuro? La Germania è stata una parentesi meravigliosa che ha superato totalmente le mie aspettative: era la prima esperienza grande organizzata attraverso un booking tedesco, che
si è affacciato alla mia musica restandone colpito e interessato. Il pubblico è stato entusiasta, nonostante la difficoltà della lingua: cartelloni, applausi, ovazioni, bis, sempre attento e curioso nei confronti di una musicista italiana che stava presentando un suo progetto. L’intenzione, ora, è di portare ancora questo disco all’estero, ma prima fare un giro ampio in Italia, con tappe come Roma, Milano, Bologna, Napoli. Proseguire con i concerti è l’obiettivo principale, la mia aspirazione è quella di farli con un gruppo numeroso: mi sento a casa quando posso esprimere la mia musica totalmente, così come la immagino. Come dicevamo prima, arrivi dalle sonorità del jazz, se ne respira tanto nei tuoi lavori e nelle tue collaborazioni e concerti, sono infatti molti i festival jazz cui ha partecipato e i musicisti con cui hai suonato, un nome su tutti Fabrizio Bosso. Come nasce la passione per il jazz e cosa rappresenta per te? Lo sento molto “casa mia”: mio padre proviene da lì, ha studiato a Berkeley ed è stato uno dei primi a portare il jazz in Italia a livello accademico, aprendo la cattedra di jazz nel 1989 a Lecce. È inevitabile pensare al jazz, l’ho ascoltato sempre, fin da piccola, come tutta la musica colta: il jazz da parte mio padre, e il pianoforte da mia madre. Tanto che poi, da grande, ne ho approfondito l’ascolto e lo studio nel triennio e biennio al conservatorio: il jazz rappresenta un approccio alla musica interessante, soprattutto dal punto di vista dell’improvvisazione. Ci sono dei musicisti particolarmente significativi per il
INTERVISTANDO be bellissimo portare delle mie composizioni orchestrali a Vince Mendoza e lavorare con lui, con la Metropole Orkest, con la Berliner... Sto sognando! Farei anche cose con Elisa, un’artista italiana che mi piace, scriverei dei brani insieme a lei.
tuo percorso musicale? Quali sono e in cosa hanno influenzato la tua ricerca? Sicuramente una voce che trovo rappresentativa per quello che faccio e per la mia sperimentazione è Bobby McFerrin, spero un giorno di poterlo conoscere e farci qualcosa insieme. Tanti artisti a livello internazionale, poi: Erykah Badu, Kurt Elling… Un’altra realtà che mi interessa tantissimo sono alcune band che stanno emergendo ora, come gli Snarky Puppy, giovanissimi che propongono grandi ensemble. Esperanza Spalding è un’altra cantante e compositrice che mi piace. Per quanto riguarda l’Italia, apprezzo Daniele Silvestri tra i contemporanei, e guardando indietro, invece, Lucio Dalla, un riferimento che ho scoperto tardi: lo trovo un musicista che è riuscito a essere libero fin dall’inizio. La formazione con cui presenti
il disco a Torino è un trio, ma il tuo viaggio musicale è partito in solitaria, e hai fatto anche lavori con ensemble orchestrali. In base ai diversi contesti e occasioni, con quale formazione ti trovi meglio e per quali motivi? Ho sempre portato avanti contemporaneamente un po’ tutte le formazioni, Il solo ha un sapore e un colore molto interessante, e ti dà libertà massima. Ma resta meraviglioso, per me, condividere il palco con una formazione ampia: essendo arrangiatrice, sarebbe il massimo scrivere per un ensemble più grande e fare un tour di date in Italia e all’estero con archi, fiati, coristi e quant’altro.
Lontano dal pianoforte, in quali passioni e hobby trovi l’ispirazione per la tua musica? Mi piace molto stare con le persone, sono molto socievole e adoro stare fuori casa più che dentro. In famiglia mi prendono molto in giro per questa cosa! Attingo dalle persone: conoscenti, amici, persone che incontro per caso, oppure vicine, e l’amore. Non sono particolarmente sportiva, mi piacciono il teatro, la danza e il lavoro col corpo, e fare le imitazioni: faccio abbastanza ridere, mi dicono! Ma il mio più grande hobby è questo: stare con la gente, scambiarsi energia.
A lessandra Chiappori
Se avessi la possibilità di collaborare con uno o più musicisti, con chi ti piacerebbe lavorare? Rinomino Bobby McFerrin: vorrei fare un intero disco con lui! Sareb-
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KITTY, DAISY & LEWIS Tre fratelli, o meglio due sorelle e un fratello, polistrumentisti. In un’alternanza di chitarre, pianoforte, banjo, armonica, ukulele, contrabbasso,xilofono, fisarmonica, percussioni e trombone e in un’ambientazione fortemente swing, rock e R’n’B si nasconde la chiave del successo di questo trio. Attivi già dal 2000, i fratelli Durham pubblicano nel 2008 il loro primo album omonimo, anche se il successo, in realtà arriverà per loro solo nel 2011 con “Smoking In Heaven” pubblicato sia su cd che su vinile per l’etichetta Sunday Best di Rob da Bank, dj della BBC Radio 1 e curatore del Bestival. Fin da subito i giovani artisti conquistano la stima di alcuni dei grandi nomi del mondo musicale come Amy Winehouse, David Lynch, Chris Martin e Ewan McGregor e iniziano a calcare i palchi dei grandi festival europei come il Bestival dal 2006 al 2011, Glastonbury nel 2007, 2008 e 2011, il Primavera Sound di Barcellona, il Rock am Ring & Rock im Park in Germania, e il Lowlands in Olanda. Ormai lanciati sull’onda di sonorità e di uno stile che appare in contrasto con la loro giovane età, arrivano ad aprire i concerti sold out di Coldplay, Bryan Adams, Stereophonics e molti altri. Una vera
ascesa quella dei fratelli Durham, che nel 2015 ci regalano il loro terzo lavoro, “The Third”. Sedici tracce che hanno visto il leggendario tocco di Mick Jones, chitarrista dei Clash, e uno studio di registrazione del tutto fuori dai canoni: un fatiscente ristorante indiano di Londra completamente ristrutturato da loro per l’occasione. In questa insolita scenografia nasce un album dalle grandi influenze e convergenze di stili: la produzione del suono, la strumentazione il songwriting, tutto appare più maturo, più sicuro, nuovo e al contempo dal tocco inconfondibile. Forti della possibilità che ognuno di loro possiede di poter scrivere i testi e di poter cambiare punto di vista, strumento e postazione, ogni traccia diventa realmente una sfaccettatura originale, personale, di un’espressione musicale condivisa. Non a caso, anche per il The Times «L’atmosfera è irresistibile». Nessun limite all’ascolto, dunque, sia che vogliate fare un’immersione nelle sonorità da autentici anni ‘50 (“I’m Coming Home”, “Going Up The Country”), sia che vogliate una melodia più orecchiabile (“Baby Bye Bye”) o un tocco più pop rock (“No Action”) non resterete delusi. Enjoy!
Angelica Magliocchetti
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MUSIC
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LA VOCE DEL FILO NASCOSTO Giovanni Bernini ha un talento innato che non riesce a tenere a freno fin da quando è piccolo: sa imitare gli altri. Non imitazioni che si avvicinano e ricordano gli altri, ma performance attraverso cui il ragazzino, poi giovane adulto, aderisce completamente all’altra persona, riproducendone la voce, le inflessioni, gli atteggiamenti invisibili che danno carattere e forma alla personalità. Un talento del genere non può essere confinato alle mura scolastiche del piccolo paese della costa da cui Giovanni, orfano di padre ma sempre molto attaccato alla mamma consigliera e guida, proviene. Entra così in scena il sedicente produttore Max, pronto a fare del ragazzo una star della city. Giovanni ha così la prima esperienza fuori casa: un teatro, palco e pubblico pronti a guardarlo, a pensare cose di lui, un cattivo e una donna di cui innamorarsi. Tutto il romanzo si sviluppa a partire da questo impatto con se stesso e la propria abilità di imitatore, davanti ai riflettori. Perché in fondo quella di Giovanni, sullo sfondo di un classico copione da vecchia storia americana dove si contrappongono campagna e città, distanze e persone, e dove impazza la smania di spettacolo, visione, successo da ribalta, è una vicenda staccata da tempi e luoghi, che al centro ha una questione di identità. L’esordio romanzesco di Rubin diventa così un’allegoria, lo spunto per una riflessione filosofica che,
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preso l’avvio da una vicenda singolare, si infittisce in un vortice quasi delirante. Giovanni, annebbiato dal successo e sconfitto dal tradimento della fidanzata, si perde. Di imitazione in imitazione, sempre più simile ad altri ma distante da un se stesso mai emerso né consapevole della propria autonomia, il protagonista, ladro di voci e di vite, è sballottato tra soprusi e falsità. Prima attore, poi politico, sempre pilotato dall’altrui voce, preda di un vuoto interiore che ne fa un involucro plasmato di volta in volta su altri personaggi. Non si può non pensare allo Zelig di Woody Allen, malato psichiatrico il cui disturbo lo rende capace di diventare ogni volta altro da sé, plasmato sulle voci e i tratti di coloro con cui si trova ad avere a che fare. Come Zelig, così Giovanni rappresenta un vuoto identitario, camaleontico nei confronti della realtà, ma interiormente vacillante. Come Zelig, infatti, anche Giovanni finirà per cadere nel burrone della malattia psichiatrica, all’incessante, faticosa e dura ricerca di sé, di una propria voce che non sia stata rubata ad altri per comodo adeguamento alle circostanze. Quel che rende il protagonista un vero e proprio ladro di voci è la facile individuazione del filo che sutura la personalità altrui: basta rintracciarlo – uno sguardo, un tic, un modo di porsi – e l’intero edificio della persona si svelerà, diventando così un facile quadro da imitare per Giovanni. Il
problema è che il filo di Giovanni, al contrario di tutti gli altri, non si trova, sembra non esserci. Marionetta priva di emozioni, il giovane imitatore trova difficoltà nell’ascoltare se stesso. Il primo ostacolo lo individua nell’imitazione di Lucy, la donna di cui si innamora e che non riesce a riprodurre. Il limite lo rende umano, capace di accettare l’emozione, di immergersi in un contesto senza la rete di sicurezza garantita dal possesso dell’altrui filo. Un filo che però, infine, emerge, infrangendo l’equilibrio e sbriciolando le prime piccole tessere di una personalità, quella di Giovanni, sorpreso da Lucy a imitarla perfettamente. La storia d’amore non ha più ragione di stare in piedi, e collassa. È qui che Giovanni si perde, forse irrimediabilmente, dentro alla propria assenza di voce, nell’immenso e tenebroso universo di paure ed emozioni che non è capace di esprimersi da sé, ma ha costante bisogno dell’appoggio di modelli altri. Se i modelli sono negativi, come accade per Giovanni, il pericolo di una perdita ancora più fonda si farà pressante. Onirica storia di perdizione, dove i protagonisti sono burattini, retti da un filo e fragili nella loro monolitica personalità, questo romanzo è la resa narrativa di interrogativi fondanti che pungolano costantemente tutti, non solo gli imitatori da palcoscenico, nel percorso quotidiano a confronto e in dialogo con gli altri.
A lessandra Chiappori
BOOKS
“Ma il miracolo del mondo, signor Vandaline, è che nessun travestimento è perfetto. In ogni persona, non importa quanto sia elegante, esiste una cucitura, un filo che spunta. È come un brufolo che il fondotinta non riesce a coprire, una zona di capelli più radi. Spesso questo filo è la cosa che passa quasi inosservata: un labbro morsicato, un lieve sospiro. Ma se tirato dalle mani giuste, quel filo svela l’intera persona” Jacob Rubin, “Il ladro di voci”, Clichy, 2015
Jacob Rubin Rubin, al suo esordio nel mondo del romanzo anche in Italia grazie all’editore Clichy, vive a New York e ha molto a che fare con i temi di cui si occupa nel “Ladro di voci”: personaggi, emozioni, storie palcoscenici sono infatti gli ingredienti anche della sua attività di sceneggiatore, per cui è noto negli States.
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ARTINTIME popart@artintime.it
1+1 UGUALE… PARATISSIMA ! Dal 4 all’8 novembre Torino fa festa nel nome dell’arte contemporanea e tra i tanti eventi propone l’undicesima edizione di Paratissima, la grande vetrina “off” dedicata ai talenti contemporanei emergenti. Definita ormai “uno degli eventi di riferimento nel panorama artistico nazionale”, la manifestazione è a un punto di svolta e ripartenza, con l’ambizione di allargarsi sempre di più: dopo il gemellaggio del 2014 con Skopje propone Lisbona per il 2016 e nel frattempo si apre ad artisti, emergenti e affermati, provenienti da Cina, Macedonia, Mozambico, Russia, Norvegia, Germania. Ma torniamo a Torino: in questa edizione 2015 saranno più di 400 gli artisti partecipanti, otto le mostre allestite dai giovani curatori del progetto NICE (New Independent Curatorial Experience), una collaborazione inedita con Cortona On The Move e una con il Coffi Festival di Berlino e l’internazionale China Pavillon, che raccoglie le visioni di nove artisti cinesi contemporanei, tutti nati dopo il 1980. Tra le sezioni G@p/Galleries at Paratissima, Fotografia, Design, Video, Fashion, Kids/Artisti in erba, aleggerà la domanda, tema dell’edizione, “Ordine o Caos?”. Mostra di punta sarà Useless Army, “esercito inutile”: un esercito dell’Arte, a cura di Francesca Canfora, inutile ai fini bellici ma sempre attivo nel denunciare e protestare
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contro la violenza, la distruzione e la guerra stessa per mobilitare le coscienze e mantenere viva la memoria delle catastrofi passate. Tra gli artisti in mostra: Paolo Ceribelli, Rocco Dubbini, Robert Gligorov, Nicola Evangelisti, Dario Ghibaudo, Shi Jinsong, Sergio Ragalzi, Ryan Spencer Reed, Antonio Riello, Tom Sachs, Chéri Samba e Jock Sturges. Se negli anni è cresciuto il numero delle gallerie di street art presenti durante la manifestazione, a testimonianza di un interesse vivo e dinamico, nel frattempo non si è fermata nemmeno la fotografia, che propone, sotto la direzione artistica di Davide Giglio, visioni “straordinarie” e surreali, come gli scatti di Thomas Wrede, con paesaggi che mettono alla prova la percezione dello spettatore e spingono a riflettere su cosa è reale e cosa non lo è. Naturalmente, spazio anche ai “Talenti Emergenti”, con mostre personali di artisti accumunati da una ricerca fotografica che genera un senso di sospensione e mistero attingendo idee dal territorio che li circonda. Design, video, moda: il mondo dell’arte contemporanea è vasto e in costante movimento. Per comprenderlo meglio, Paratissima ha pensato di avvicinare i più piccoli con laboratori creativi su misura per bimbi e ragazzi dai 3 ai 16 anni. Le scuole lavoreranno insieme agli artisti in un gioco alla scoperta di tutte le sorprese della manifestazione. Il
concetto di “Learning by doing” guiderà workshop, incontri e laboratori dedicati agli artisti, ma soprattutto sarà la bussola per il pubblico della manifestazione grazie alle collaborazioni con molti enti presenti sul territorio tra cui IADD, Politecnico di Torino, Fondazione Ordine Architetti, Scuola Internazionale di Comics che organizzerà, oltre a corsi brevi di disegno e scrittura di un fumetto, una “Write Jam”. Una sfida, la prima in Italia, rivolta a scrittori, sceneggiatori, designers, costumisti e storyboarder che si cimenteranno nella realizzazione di un soggetto corale in sole 48 ore. “Tentativo di ordinare il caos, mescolando realtà diverse”, Paratissima numero 11 (1+1 simboleggia le differenti percezioni e punti di vista), si autoracconta così con la solita proposta ricchissima, diversa, colorata e anche autoironica. Insomma, Torino Esposizioni vi aspetta anche quest’anno, non ve ne pentirete!
ART / SPECIAL PARATISSIMA
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ARTINTIME events@artintime.it
Paratissima 2015 - Ordine o Caos? 4-8 novembre 2015, Torino Esposizioni
ESTOVEST Fino 22 novembre 2015 - Torino, Cuneo, Caraglio, Genova
Torna l’undicesima edizione della manifestazione legata all’arte contemporanea. Tante le sezioni tra Design, Fashion, Fotografia, G@P, International, Kids, Learning by doing e Video.
Giunto alla sua 14esima edizione il festival ESTOVEST continua la sua ricerca di culture e linguaggi musicali inediti. Quattordici i concerti che indagheranno il tema delle radici nel presente, con ospiti da tutto il mondo e location insolite.
È dedicata a Orson Welles la 33esima edizione del Torino FilmFest, la kermesse cinematografica che per oltre una settimana porterà appassionati, esperti e ospiti d’eccellenza nella città sabauda. Ad aprire la manifestazione sarà il film “Suffragette” di Sarah Gavron (UK, 2015).
www.estovestfestival.it
www.torinofilmfest.org
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GAUGUIN. Racconti dal paradiso Dal 28 ottobre 2015 – Museo delle Culture, Milano
Il fantastico mondo dei Peanuts – in mostra! Fino al 10 gennaio 2015, Wow Spazio Fumetto, Milano
www.paratissima.it
Quasi 100 capolavori, tra pitture, sculture e numerosi artefatti polinesiani a mostrarci con gli occhi dell’artista i luoghi da lui visitati. Un’indagine nell’approccio personalissimo che Gauguin ha saputo riversare nel Primitivismo. www.mudec.it
Una vera e propria mostra allestita per festeggiare il 65esimo anniversario dalla nascita dei Peanuts (e in occasione dell’uscita del film “Snoopy & Friends”), vi aspetta al WOW Spazio Fumetto, il museo del fumetto, dell’illustrazione e dell’immagine animata. www.museowow.it
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Torino Film Festival 2015 20 -28 novembre 2015, Torino
BilBOlbul. Festival internazionale di fumetto 19-22 novembre 2015, Bologna Una manifestazione, ma anche un’occasione per approfondire il tema del linguaggio del fumetto e di come questo stia evolvendo rispetto allo sviluppo di nuovi supporti tecnologici e di nuove forme di fruizione e consumo di “oggetti culturali”. www.bilbolbul.net
EVENTS
PhotoFestival - Wildlife Photographer of the Year, mostra fotografica Fino 23 dicembre 2015, Fondazione Matalon, Milano Nato nel 1965 e indetto dal Natural History Museum di Londra con il Bbc Wildlife Magazine il concorso e la relativa mostra presenta oltre 100 immagini di fotografia naturalistica.
Lisetta Carmi. Il senso della vita. Ho fotografato per capire Dal 13 novembre 2015 – Palazzo Ducale, Genova Una mostra che è più un omaggio alla grande carriera di Lisetta. Il più alto numero di fotografie mai esposte, oltre 220 immagini, a ripercorrere l’intero percorso creativo della grande fotografa.
Paloma Varga Weisz – Root of a Dream Fino al 10 gennaio 2016 - Museo d’Arte Contemporanea, Castello di Rivoli Un mondo sospeso tra sogno e realtà quello messo in scena dall’artista tedesco Varga Weisz: complesse installazioni e rimandi alla pittura rinascimentale, al simbolismo tedesco e alla psicanalisi.
www.radicediunopercento.it/wildlifephotographer-of-the-year-2015
www.palazzoducale.genova.it/lisettacarmi
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VISITAZIONI Fino al 5 dicembre, Roma
Trieste Science+Fiction 3-8 novembre 2015, Trieste
Bologna Jazz Festival Fino al 26 novembre 2015, Bologna
L’associazione culturale proposte sonore inaugura la seconda edizione del festival di Arte Sonora: VISITAZIONI. Una manifestazione a ingresso totalmente gratuito che gode della partecipazione di numerosi artisti internazionali e non.
Le migliori anteprime nazionali e internazionali del genere science fiction, fantasy e horror sono pronte per stupirvi nella quindicesima edizione del festival. In programma anche due concorsi, il Premio Asteroide per il migliore lungometraggio e la sezione Spazio Italia, con la migliore produzione nazionale.
Un festival che nasce nel 1958 e che arriva fino a noi, portando ogni anno nella Penisola i più grandi musicisti di jazz. A fianco della manifestazione anche un importante progetto didattico, “Massimo Mutti”, dedicato ai giovani musicisti e che coinvolge anche eccellenze musicali del panorama internazionale.
www.sciencefictionfestival.org
www.bolognajazzfestival.com
www.propostesonore.org
www.castellodirivoli.org
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